Falling in love

di Dafren
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1) I'll be okay ***
Capitolo 2: *** 2) Don't stop me now ***
Capitolo 3: *** 3) That's The Truth ***



Capitolo 1
*** 1) I'll be okay ***



 Another year over, and we're still together
It's not always easy, but I'm here forever
S.

 

Note: La storia è narrata in prima persona da un personaggio esterno alla band che la racconta nei minimi dettagli in una conversazione con un altro soggetto sempre esterno quindi, si passerà più volte dalla prima alla terza persona.
Gli pisodi raccontati prenderanno forma di ricordi, stile flash back e si distingueranno dal resto del testo con il carattere corsivo.
Buona lettura




 
1.

 

Dicono che la prima volta di ogni cosa sia sempre quella che lascia il segno più profondo, noti ogni dettaglio, avverti ogni sensazione amplificata al massimo, sposti la concentrazione su ogni elemento senza tralasciare nulla.
Le pareti color crema tinte sicuramente di recente, a giudicare dalla tonalità ancora vivida, si sposavano perfettamente con il parquet scuro al contrario invecchiato dal tempo e da lunghe scarpinate su di esso. L’arredamento minimalista della stanza la rendeva molto accogliente. Non vi erano gingilli inutili, dozzine di cornici o mobili particolari eppure non era neanche spoglia. Gli unici due quadri di genere astratto che si fronteggiavano l’un l’altro su due pareti opposte catturavano lo sguardo quasi magneticamente nel tentativo di interpretarne il senso nascosto che voleva infondere l’autore, come una sorta di enigma da decifrare.
Tirai un profondo respiro avvertendo addosso lo sguardo impassibile della donna seduta dietro la scrivania in noce scuro in fondo alla stanza. Posai lo sguardo su di lei solo per pochi istanti notando appena la sua giovane età, molto probabilmente sulla quarantina, non di più anche se gli spessi occhiali da vista dalla montatura nera in vecchio stile potevano farla sembrare ancora più grande. Il capelli castani raccolti in uno chignon basso dietro la nuca davano l’impressione di un tipo molto metodico e preciso, che non lasciava nulla al caso, così come l’accostamento tra il tailleur cachi e le scarpe di una venatura appena più scura. Il tacco medio lasciava intendere che teneva allo stile ma le piaceva anche stare comoda, pratica.
Mi venne da sorridere di me stessa. Stavo psicanalizzando quella donna senza neanche averla mai vista prima.
“Si accomodi, prego. La stavo aspettando.” La vidi alzarsi dalla scrivania con fare lento e avvicinarsi verso di me tendendo la mano a mo’ di saluto. Un sorriso appena accennato da parte sua, uno quasi di circostanza da parte mia mentre le annuivo poco convinta.
Perché mi trovavo in quel posto? Avevo davvero bisogno di una sconosciuta?
Seguii con lo sguardo la direzione della sua mano accomodandomi sul divanetto in camoscio scuro alla sinistra della scrivania mentre lei, a sua volta, prendeva posto su una poltrona identica accanto ad esso.
Avvertii l’imbarazzo crescere maggiormente di secondo in secondo che passavano con la stessa lentezza delle ore. Non sapevo cosa fare o dire, il silenzio e lo sguardo indecifrabile di lei mi avevano già stancata. Strinsi le mani torturandomi le dita tra di loro.
“Quando si sente pronta a parlare, possiamo anche cominciare.” Ruppe il silenzio precedendo quella che mi parse più una minaccia che un invito con un sorriso un po’ più ampio di quello che mi aveva rivolto in precedenza.
Cosa voleva che le dicessi?
“Non mi fa delle domande? Cosa vuole sapere?” Il tono incerto della mia voce poteva vagamente somigliare a quello di una bambina al primo giorno di elementari.
D’un tratto mi pentii di essermi lasciata convincere ad andare lì. Avrei dovuto ascoltare il mio istinto, come sempre.
“Lei cosa vuole raccontarmi?” Era così che funzionava? Parlare da sola come una stupida davanti ad un estranea che ti guardava come se fossi un fenomeno da baracconi senza commentare né intervenire?
Si, andare in quel posto era stata davvero una pessima scelta, peggiore di quelle che mi ci avevano spinta a trovarmi li.
“Chi sono, cosa faccio e perché sono qui penso che lo sappia già, no? Non c’è rivista o programma televisivo che non ne abbia parlato. Quindi…” Il tono della mia voce non era più imbarazzato o incerto, ma al contrario aspro e notevolmente seccato.
“Forse non è stata una grande idea venire qui, mi scusi per il tempo che le ho fatto perdere.” Scattai in avanti alzandomi dal divanetto per andarmene mentre, ancora impassibile senza scomporsi di un solo millimetro, la donna restò a fissarmi dal suo posto in poltrona.
“Se preferisce andarsene può farlo tranquillamente, non la costringerò di certo a fare qualcosa che non  vuole, ma sappiamo entrambe che tanto ritornerà qui.” Mi bloccai al centro della stanza con lo sguardo immobilizzato su uno dei sue quadri, quello accanto alla porta di uscita.
In quel momento odiai tutto. Odiavo la mia insicurezza, la mia fragilità emotiva, le mie scelte incoerenti e sbagliate, il mio attaccarmi a qualsiasi cosa potesse farmi male, il mio lasciarmi influenzare da tutto e tutti. Odiavo me stessa e quello che ero diventata, o forse quello che ero sempre stata.
Aveva ragione, sarei ritornata ancora, e ancora, e ancora.
Tornai a passo lento verso il divanetto chinando lo sguardo mentre ritornavo seduta nella posizione di partenza disposta finalmente a seguire le sue indicazioni e a sopportare il suo incrollabile silenzio.
“Cominci dall’inizio. Com’è nato tutto?” Alzai lo sguardo verso di lei riflettendomi attraverso i suoi occhiali grandi per poi spostarlo nuovamente sul dipinto accanto alla porta che in quel momento si trovava esattamente di fronte a me, forse non del tutto pronta a raccontare la storia che dozzine di riviste scandalistiche avevano già raccontato anche se colorandola di sfumature e dettagli troppo fantasiosi e crudeli per essere veri. O forse ero io che per quanto mi reputassi meschina e ingiusta non riuscivo a riconoscermi nella sconosciuta descritta tra quelle pagine?
 
 
Londra. Venerdì, 17 giugno. In una terra devota alle superstizioni tanto quanto alle tradizioni, quella data, quel giorno, era presagio di sventura. Alcuni tra i più creduloni e scaramantici, si rifugiano nella sicurezza delle quattro pareti domestiche ripetendo fino alla mezzanotte scongiuri e riti propiziatori vari per tenere lontana la sfortuna, altri invece, si limitano solo ad evitare qualsiasi evento o decisione importante convinti di scampare ad un sicuro disastro sociale, finanziario o sentimentale.
Poi c’é chi non può farne a meno perché il mondo non si ferma in base ad una data sul calendario che sia venerdì 17, il 31 ottobre o il 2 novembre gli affari restano affari.
“ Non capisco perché non si poteva rimandare a domani o non si poteva fare ieri.”
Seduto sullo scomodo divano in pelle nera in uno dei tanti uffici al diciassettesimo piano della Fascination Records, Tom, tamburellando con le gambe sulla moquette in preda all’ansia, continuava  a lamentarsi per la scelta della data. Nell’enorme folla di superstiziosi, lui era il leader.
“Business is business, non hai sentito Mr. Loraine al telefono?”
“E allora? Se il business va nella merda, il caro Mr. Loraine può dare la colpa al giorno che ha scelto per farci il contratto.”
Una smorfia di terrore si dipinse sul viso di Harry all’affermazione più che convinta di Tom. Lui non era superstizioso come l’amico ma spesso si lasciava impressionare facilmente.
“O tua, che porti più sfiga di un gatto nero. Smettila con queste cazzate, bro’. Non ci crede più nessuno ormai a questa balla del venerdì 17.”
Scansò di striscio una gomitata nel fianco da Danny che gli stava seduto accanto sbuffando ad intermittenza irritato forse per le lamentele di Tom, forse perché era da più di due ore che aspettavano in quell’ufficio l’arrivo del famigerato editore della Fascination, o forse semplicemente perché l’idea di firmare quel contratto continuava a non piacergli, indipendentemente dal giorno e dalle stupide e retrograde superstizioni popolari.
“Cazzo, Da’. Non nominare i gatti neri o ci ritroveremo a cantare sotto il ponte di Londra, altro che Stati Uniti, Canada e Broadway.”
Si era voltato di scatto colpendo il braccio di Danny con un pugno mentre lui, ignorandolo, sollevava gli occhi al soffitto scuotendo la testa. In un altro momento avrebbe riso dell’ingenuità dell’amico prendendolo in giro magari dandogli corda, ma quel giorno no.
“Ma non è che il vecchio ci ha ripensato? La tipa di fuori aveva detto: pochi minuti e sarà subito da voi, ragazzi.” Dougie, alzatosi dalla poltrona, camminava senza meta per la stanza fissando con aria poco interessata gli oggetti che la ornavano. Scimmiottò poi il tono civettuolo della biondina alla reception imitando con un gesto della mano il modo con il quale si era spostata una lunghissima ciocca di capelli perfettamente stirati dietro la spalla per mostrare meglio l’ampia scollatura poco nascosta dalla camicetta in seta bianca. “Sono passate due ore e venticinque minuti e ancora non si è fatto vivo.”
“Non ti ci mettere anche tu adesso. Avrà bucato. Che so, un qualunque contrattempo.” Accavallò una gamba notando l’espressione di Harry ancora preoccupata. La nascose lanciandogli addosso la felpa azzurra che portava sulle spalle cogliendolo di sorpresa.
“E se non è sfiga questa, oh…”
“Se non viene tanto meglio, significa che non dobbiamo venderci a questa gente.”
“Questa gente sta per portarci negli Stati Uniti per due anni, pagarci un tour da milioni di sterline e salvarci dalla cantina di casa tua, bro’. Se ti stai vendendo non lo fai certo per pane e focaccia.”
“Non mi sarei mai venduto sennò.” Incrociò le braccia al petto accavallando le gambe infastidito. Tom fece una smorfia dandogli la schiena, Dougie scosse la testa sollevando le spalle verso Tom e Harry che continuava a restare in silenzio sempre più timoroso.

 

Presi una pausa cambiando posizione sul divanetto. Le gambe che avevo mantenuto accavallate per tutto il tempo si erano intorpidite, le sciolsi lasciandole dondolare per qualche secondo mentre mi tiravo più indietro fino a poggiare le spalle contro lo schienale del divanetto.
Lo sguardo della donna era rimasto impassibile dietro i suoi occhialoni, costantemente in silenzio tanto che faticavo a credere che si fosse concessa qualche respiro mentre raccontavo. Solo in poche occasioni l’aveva vista portare una mano sull’agenda e scriverci all’interno qualcosa che non ero riuscita a decifrare. Mi chiesi che idea si stesse già facendo, ma lasciai quel pensiero quasi subito, riprendendo a parlare dal punto in cui mi ero interrotta.
 
 
“I mcFly, una delle più famose band britanniche, avevano venduto negli ultimi dieci anni milioni di dischi, solcato tutti i palchi del Regno Unito, vinto centinaia di riconoscimenti e titoli, scalato le vette delle classifiche nazionali e incassato più sterline di quanto una qualsiasi altra band avesse mai sperato ma senza mai uscire dai confini Britannici.
Per quanto i loro singoli fossero ampiamente visualizzati sul web anche dagli altri paesi europei e statunitensi, non si era mai presentata loro l’occasione per un vero salto di qualità arrivando a varcare anche le scene internazionali oltre che nazionali.
L’idea della Fascination records era partita da Harry poche settimane dopo che, dietro proposta di Tom, la band aveva sciolto il contratto con la Universal Island Records capace solo di procurar loro date negli UK.
Tutto era nato da una discussione cominciata una domenica pomeriggio nel giardino di Danny.
“Siamo ufficialmente disoccupati, ragà.”
“Vediamola così, ci siamo presi una pausa di riflessione.”
“E da chi, deficiente?”
Una risata poco divertita aveva coinvolto un po’ tutti. Tom, disteso con le braccia dietro la testa e le gambe disordinatamente accavallate sul tavolo, sembrava essersi calato perfettamente nei panni dell’ozioso. Sulla scalinata in mattoni rossi  che separava la strada dal giardino di casa, Dougie intratteneva uno scontro a palla con Ralphie e Bruce, i due cani di Danny che poco distante, armato di forcone e piatto, abbrustoliva gli hamburger sulla brace.
“Che ne dite della Fascination Records? A quanto ne so quelli che cura lei hanno sfondato ovunque.”
Un dato di fatto. Harry, spuntando dalla cucina aveva passato a Tom l’ipad aperto sulle recensioni alla casa discografica irlandese. Tom si era ricomposto subito scattando seduto mentre con il dito scorreva la pagina quasi contemplativo.
“Cazzo.”
“Piuttosto vado a suonare nell’Underground. Scarta la fascination e trovane un’altra.”
Il tono improvvisamente serio di Danny mentre inforcava un hamburger per rimuoverlo dalla griglia aveva attirato l’attenzione di tutti. Lui, il burlone del gruppo, non si capiva mai se era serio o scherzava perché il suo tono era sempre allegro e burlesco accompagnato da movimenti strambi, sarebbe stato capace di cantare Ymca ad un funerale se gli fosse passato per la mente.
“Ti è dato di volta il cervello, bro’?”
“Avanti, stai scherzando.”
Tom ed Harry si erano guardati in viso stupiti alternando lo sguardo dalle loro facce confuse a quella impassibile di Danny, il solo invece che aveva avvertito il rumore della palla che rimbalzava verso il vialetto che costeggiava il giardino non appena era stata nominata quell’etichetta. Dougie aveva lasciato i cani e, senza essere notato era rientrato in cucina recuperando dal frigo qualcosa da bere.
“Ma secondo voi quelli lì metterebbero sotto contratto noi? Andiamo ragazzi, ci evitiamo solo una grossa figura di merda e una porta sbattuta sul muso.”
“Perché? Che abbiamo che non va per quelli?”
Aveva sbuffato platealmente scuotendo le braccia verso Harry. Tom aveva seguito con lo sguardo Dougie, forse stava iniziando a capire. Harry, invece, sarebbe cascato dalle nuvole anche davanti ad una spiegazione scritta e siglata di tutto punto.
“Ha ragione Danny, meglio lasciar perdere. Se si sapesse che la Fascination ci ha messo alla porta nessun’altro ci vorrebbe più.”
“Ma…”
“Ma… come cazzo ti sei fatto quei capelli oggi, oh? Sembra che un piccione si sia fatto il nido su quella zucca vuota che hai.” 
Aveva liquidato il discorso  prendendolo in giro come sempre mentre gli piazzava davanti l’hamburger troppo cotto per i gusti dell’amico.
“Chiuditi il becco con questo, va.”
Solo quando Dougie era ritornato a casa dopo essere rimasto in silenzio per tutto il resto del pomeriggio, Tom gli aveva spiegato cosa ci fosse che non andava nella sua proposta.
La Fascination Records era la casa discografica di molti artisti di calibro internazionale tra i quali c’era l’unica persona che aveva il potere di influenzare la vita di Dougie.
Dougie. Il più giovane della band ma anche il più fragile e instabile. Il 2010 era stato un anno devastante per lui che aveva visto chiudersi in modo definitivo la relazione più importante della sua vita. Nessuno si aspettava che la prendesse bene, ma neanche che si lasciasse assalire dalla depressione tentando addirittura il suicidio dopo che i tabloid britannici l’avevano mostrata con un nuovo uomo al suo fianco. Ci aveva sperato fino alla fine, ci aveva creduto fino all’ultimo.
Si erano lasciati due volte in pochi mesi ma dopo la rottura definitiva per lui era iniziato un vero e proprio declino allontanandosi da tutto e da tutti. Si era autoconvinto che la responsabilità fosse esclusivamente sua. Aveva passato i mesi successivi rintanandosi in qualche bar di periferia fino all’alba dove spesso rimaneva coinvolto in risse da lui stesso provocate quasi come se volesse autopunirsi per essersi fatto lasciare da lei. E a riportarlo a casa ogni volta, sempre lui… Danny.
Era un po’ come il fratello maggiore di tutti sebbene fosse quello più irrequieto e vivace. Era stato lui vicino a Dougie durante il suo periodo buio, era lui quello che lo tirava fuori dai guai ogni volta, ed era stato sempre lui quello che per primo aveva capito che lavorare con la stessa casa discografica di lei avrebbe significato per il suo migliore amico solo un mare di guai. Dougie non era ancora pronto ad affrontarla, di questo ne era certo e non gli avrebbe permesso di farsi di nuovo del male per una ragazzina immatura e viziata.
Una settimana dopo, Dougie aveva sorpreso tutti rilanciando la stessa proposta esposta da Harry  in precedenza.
“La Fascination ci offre un contratto di due anni e il tour negli States. Non possiamo lasciarcela scappare.”
Era sbucato da dietro al bancone del Saturn, il locale dove Danny lavorava come dj nei fine settimana, con quattro birre stappate tra le mani e un espressione sorniona. Dougie, lo stesso Dougie che una settimana prima aveva lasciato casa dell’amico come un fantasma.
“Ne avevamo già parlato Do’. Quelli non fanno per noi.”
“Che significa che ci offre, scusa?”
Tom, senza badare all’occhiata di sbieco rivoltagli da Danny era rimasto incuriosito dall’affermazione dell’altro. Harry, che per quella volta aveva deciso di restarne fuori, non riusciva a nascondere però un espressione speranzosa che da sola bastava a irritare Danny.
“Che li ho contattati ieri e ho detto loro che i Mcfly sono in cerca di un etichetta.”
Si era appoggiato sul bancone con l’aria di chi aveva risolto tutti i problemi del mondo con un sorriso che tendeva da un orecchio all’altro. Troppo soddisfatto per essere davvero quello di Dougie.
“Chi erano quelli che dovevano sbatterci la porta in faccia? Appena hanno sentito il nostro nome hanno fatto i salti di gioia. Siamo o non siamo la migliore band del paese?”
Danny continuava a fissarlo poco convinto. Qualcosa nel suo cambiamento non lo convinceva. Ci rideva troppo sopra per non essere sospetto.
“Sai cosa significherebbe? Avere a che fare anche con quella lì.”
Era scattato dallo sgabello battendo le mani sul bancone sorprendendo sia Dougie che Harry. Fiutava puzza di guai a miglia di distanza, e quella volta il tanfo era davvero inconfondibile.
“Lavorare sotto la stessa casa discografica significa partecipare agli stessi eventi, dover aprire i loro concerti o loro i nostri. Insomma, vederla.”
“E allora? Che vuoi che m’importi? Ne è passata di acqua sotto i ponti, Da’. Poi ora sta con quell’ammasso di muscoli che potrebbe essere quasi suo padre.”
Aveva fatto una smorfia schifata nel nominare lui, quello che aveva preso il suo posto solo un mese dopo che era stato scaricato come un sacco di patate marce ma Danny non gli credeva.
“E’ tutt’ok, fidati.”
Dougie teneva ai Mcfly quanto lui e sapeva che sarebbe anche arrivato a sacrificarsi se lo avesse ritenuto necessario per il bene della band, ma era il modo con il quale stava affrontando la situazione a non convincerlo. Tutto gli sembrava fuorché un sacrificio, il che poteva significare solo una cosa.
Dougie stava mentendo.
“No. Non ci sto.”
“Ma…”
“Cosa?”
“Aspetta, bro’. Riflettici prima.”
Tom era scattato come una molla simultaneamente a Harry e Dougie la cui espressione sconvolta non faceva che confermare i sospetti di Danny.
“Un conto era se dovevamo proporci noi alla Fascination, l’altro è se la fascination vuole noi.”
Rinunciare ad una proposta come quella che gli avevano offerto sarebbe stato un suicidio per qualsiasi band e un campanello dall’arme per qualunque altra etichetta si fossero presentati.
“Non possiamo più dire di no. Ci scaveremmo la fossa con le nostre mani.”
 
Il rumore della porta che si apriva e chiudeva alle loro spalle li fece voltare quasi contemporaneamente verso di essa. Un uomo ad occhio e croce sulla trentina dal capello spettinato e i jeans scoloriti era entrato nella stanza con alcune scartoffie tra le mani.
“Peter Loraine. I mcfly, giusto? Scusate l’attesa ma abbiamo bucato fuori città. ”
Quattro paia di occhi si incrociarono sorpresi.
“Che t’avevo detto io? La sfiga del venerdì 17.”
“Ancora?”
“Questo sarebbe il vecchio con cui hai parlato al telefono?”
“Non gli ho chiesto un documento. Che ne sapevo che era ancora nella fascia protetta?”
Il bisbiglio di sottofondo non era passato inosservato ma Loraine parve non  badarci sorridendo beffardo ai commenti poco più che infantili che aveva percepito. Non erano i primi, in fondo.
Quando si parlava del presidente di una delle più importanti etichette discografiche internazionali certo non si pensava ad un ragazzo così giovane e sportivo.
Lo avevano visto sedersi sulla scrivania gambe all’aria in modo informale ignorando i convenzionali tipici del ruolo che ricopriva.
“Avete già dato uno sguardo al contratto? Ci sono domande da fare o possiamo passare alle firme?”
Tornarono a fissarsi per poi scuotere le teste.
“Solo una. Quando dovremmo partire?”

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Capitolo 2
*** 2) Don't stop me now ***






2.



Quando in una conversazione scritta si vuol prendere una pausa, solitamente si aggiungono puntini di sospensione per poi iniziare nuovamente il racconto dal punto che si preferisce. In una conversazione telefonica lasci colui che è all’altro capo in attesa facendo partire un avviso di chiamata a cui non puoi sottrarti. Se sei in una trasmissione radiofonica, più semplice che mandare una pubblicità o lasciar partire una canzone? Il problema sorgeva nelle conversazioni frontali, quelle dalle quali non potevi scappare, inventare scuse o prendere pause troppo lunghe perché lo sguardo attento del tuo interlocutore non ti si stacca di dosso finché non riprendi a parlare.
Spostai lo sguardo dalla donna leggermente imbarazzata. La mia di pausa era stata abbastanza lunga e, anche se mi aveva concesso di prendermi il tempo che mi serviva per riordinare i pensieri e gli stati d’animo, avvertivo la sua tacita richiesta di andare avanti.
Le mie dita tamburellavano nervose sulla pelle scura del divano mentre incrociavo per poi sciogliere le gambe con la stessa velocità con cui si voltano le pagine di un libro poco interessante prima di riporlo via del tutto.
“Dov’eravamo rimaste?”
“Alla firma del contratto.” Rispose seria leggendo l’ultimo appunto sul block notes prima di rivolgermi nuovamente lo sguardo.
“Giusto… il contratto.” Quello che aveva scatenato tutto dando il via ad un vortice di eventi che si erano susseguiti inesorabili uno dietro l’altro a velocità impressionante senza lasciare a nessuno di noi il tempo di poter riprendere fiato.
Ed era quella la mia sensazione in quel momento. Era per quell’assurdo motivo che ero seduta in preda all’ansia nello studio impersonale di una delle psicoterapeute più affermate di Londra. Per imparare nuovamente a respirare. Per liberarmi da quella fastidiosa sensazione di oppressione, di soffocamento.
“Preferisce un caffè, un succo o dell’acqua?” La sua voce tradì una nota di dolcezza, quasi preoccupazione. Forse non era una macchina incassa dati come l’avevo immaginata fin dall’inizio. Forse anche lei aveva un lato umano.
Feci cenno di diniego con la testa e, recuperando un altro prezioso respiro.
“A contratto firmato lasciarono l’ufficio in uno strano silenzio ognuno assorto nei propri pensieri…
 
…Tra le varie differenze che distinguono gli uomini dalle donne alcune si fanno notare in modo particolare. Un esempio? Come preparano le valige.
Cataste di vestiti ammucchiati un po’ ovunque. Jeans alla rovescia che penzolano dalle mensole dell’armadio, t-shirt sporche e pulite mischiate alla rinfusa sul letto ancora sfatto, camicie stropicciate dalle cui maniche uscivano calzini, boxer appallottolati come palle da ragbi.
La valigia? Sommersa sotto chissà quale montagna di indumenti.
“Cazzo, bro’. Come hai fatto a far esplodere l’armadio?”
Tom scavalcò come fosse un campo minato i vari indumenti sulla moquette della camera da letto. Harry, senza badarci tanto, si sistemò sul letto sedendosi sul giubbotto di pelle che emanò un rumore strano appena ci crollò sopra facendo ridere tutti.
Sotto l’arco della porta, Dougie che provava a sfilare dalle zanne di Bruce qualcosa che in altri tempi doveva essere stata una felpa.
“Non ho la mogliettina che mi prepara la sacca, io.”
Tirò fuori il trolley urtando di striscio il braccio di Harry e, piegando alla meno peggio i vari indumenti, li sistemò all’interno seguendo un ordine tutto suo scandito molto probabilmente dal ritmo della musica rock che lo stereo sulla consolle di fronte al letto, trasmetteva ad alto volume.
“Ma Georgia? E’ scappata prima o dopo l’esplosione?”
Una nuova risata. L’ennesima maglia lanciata contro la bocca troppo larga di Tom.
“Che schifo! Puzza di sorcio morto.”
Tom lanciò la maglia verso Harry che, con una smorfia schifata per il tanfo di sudore la rilanciò verso Dougie.
“Georgia è alle Maldive per un servizio fotografico, non tornerà prima della settimana prossima.”
“E parti senza salutarla?”
“Tanto appena avrà finito ci raggiunge.”
“Figurati se la lasciava a casa.”
Un boato divertito seguì la battuta di Harry mentre, infilando velocemente le ultime cose nella valigia, la richiudeva poggiandola a terra. Vicino alla porta una vecchia e consumata sacca con una dozzina di paia di scarpe all’interno.
“Perché tu tua moglie la lasci a casa?”
“Ma che centra? Siamo sposati. A proposito, dovrebbe toccare a voi adesso o quella poveraccia finirà per mollarti per qualcun altro più deciso di te.”
Danny lo ignorò riportando tutto quello che aveva scartato nei cassettoni dell’armadio.
“Lei non lo farebbe mai, non è come… ahiu”
Tom si morsicò la lingua da solo per la frase che stava per terminare dimenticandosi della presenza di Dougie nella stanza che, con suo sollievo, pareva dar l’impressione di non aver sentito le sue parole preso com’era dallo stuzzicare Bruce.
“Che diamine combini?”
“Fottiti.”
Harry, come suo solito era cascato dalle nuvole ma Danny, rivolgendo un’occhiata furtiva verso Dougie, rise del male che Tom stesso si era procurato.
Richiuse le ante dall’armadio e si accasciò sul letto urtando ancora una volta Harry. Il mattino dopo avevano l’aero per gli Stati Uniti. Il contratto prevedeva che il tour durasse l’intera estate e toccasse tutte città principali dalla riva occidentale a quella orientale insieme ad eventi vari a cui sarebbero stati proposti insieme agli altri nomi che la casa discografica produceva.
La Fascination aveva messo a loro disposizione quattro suite in modo che potessero portare con loro anche le compagne, se avessero voluto. Tom ed Harry, essendo sposati, avevano colto al volo l’opportunità, Danny anche l’aveva apprezzata con l’unica differenza che essendo fidanzato con una modella in piena attività, gli impegni di lavoro l’avrebbero trattenuta per lo più in Inghilterra.
“Che ne dite di ordinare un paio di pizze per stasera?”
Dougie aveva raggiunto gli altri sul letto colpendosi la pancia con leggeri ceffoni. Danny lo osservò di sottecchi mentre si divertiva a stuzzicare Harry con  una cruccia rotta.
“Se sganci tu andiamo subito.”
Harry scattò in piedi dal letto rivolgendo un occhiataccia a Danny che, ancora si tendeva sul letto per raggiungerlo con l’uncino freddo della cruccia. Una scusa per sfuggire alle sue grinfie, o forse aveva fame davvero.
“Andiamo va, o di questo passo mangeremo direttamente negli States.”
Al cenno di Harry che si dirigeva verso l’uscita della stanza, Dougie si alzò dal letto seguendolo verso le scale. Tom, rivolgendo uno sguardo attento verso il corridoio, stese le gambe incrociandole sul letto aspettando lo scattare della porta d’ingresso al piano di sotto.
“Pensi le incontreremo presto?”
“Chi?”
“Non fare l’idiota. Lo sai chi?”
Come se anche lui non ci stesse pensando. Non era Danny quello che fin dal principio si era opposto a lavorare con la Fascination solo per evitare a Dougie di rivedere lei?
Si girò di schiena sul letto passandosi un braccio dietro la testa.
“Potremmo. Vivono anche loro li e alla promozione dell’album e agli eventi di cui parlava ieri quel Peter, ci saranno di sicuro.”
L’espressione di Tom si corrucciò diventando assorta senza mai staccare lo sguardo dall’amico che tamburellava ancora con la cruccia come se fosse una delle bacchette di Harry.
“Ho sentito dire che anche loro saranno in tour per tutta l’estate. Io non credo che Do’ l’abbia dimenticata davvero.”
“Sta mentendo, è evidente. Quell’idiota ha in mente qualcosa.”
“E cosa? Sta con quel bell’imbusto di Bridge adesso. Non può più farci nulla.”
Se le sue speranze di riconquistarla erano poche dopo la rottura, tanto più lo erano due anni dopo. Certo lei non avrebbe lasciato il suo uomo per tornare con Dougie dopo che aveva mollato questi per lui.
“Speriamo solo non si rimetta nei guai come l’ultima volta.”
Tom annui poco convinto rivolgendo di tanto in tanto qualche sguardo verso la porta.
Nessuno di loro sapeva cosa aspettarsi dai mesi che sarebbero seguiti alla partenza.
Cosa avrebbe significato per loro il trasferimento negli Stati Uniti? Presto o tardi Dougie avrebbe incontrato di nuovo la sua vecchia ossessione. Che intenzioni aveva lui? Come si sarebbe comportata lei? D’un tratto, anche Tom parve rimpiangere la decisione di aver firmato con la loro stessa etichetta ma a quel punto non si poteva più far nulla. Potevano solo sperare che i problemi fossero stati meno gravi di quello che stavano prognosticando.
“Tu l’hai più sentita? Eravate molto amici un tempo.”
Scattò seduto sul letto guardando Tom seccato.
Gia, erano amici. Quel genere di amici che spesso vengono descritti solo nelle storie. Lei capiva lui al solo ciao, lui leggeva lei anche senza bisogno di parole. Sapevano divertirsi con poco e rendere quel poco la cosa più folle e fenomenale che potessero immaginare. Potevano passare anche un giorno intero insieme e non sentirsi mai stufi dell’altro.
Erano amici, ma poi tutto era cambiato. Lei era cambiata. Non era più la ragazza vivace a spiritosa di un tempo. I suoi sorrisi erano spesso tirati o solo di circostanza. Nelle sue frasi non c’era più dolcezza e innocenza. C’era freddezza, c’era superficialità, c’era tensione.
Erano amici, ma lei aveva rovinato tutto preferendo qualcos’altro a ciò che da sempre la rendeva felice, qualcosa che la ossessionava a tal punto da spegnere il suo interesse per tutto il resto.
“Perché avrei dovuto dopo quello che ha fatto a Do’?”
“A Do’ non a te.”
“È  lo stesso. È nostro amico, no? Cazzo, lo ha quasi ammazzato, bro’!”
E quello Danny non poteva perdonarglielo. Non aveva mai dimenticato gli amici che erano stati un tempo, ma neanche che quella di distruggere tutto era stata una sua scelta. Che ne pagasse le conseguenze.
“Qualunque cosa stiate facendo, muovete le chiappe e venite di sotto. Le pizze sono arrivate.”
Una porta che sbatte, due voci squillanti che arrivavano dalle scale. Dougie e Harry erano tornati.
Danny infilò le scarpe senza perdere tempo a slacciarle per poi seguire Tom  fuori dalla stanza.
Nel corridoio l’odore delle pizze aveva appena coperto quello delle candele alla vaniglia di Georgia.
In qualunque angolo della casa ci si voltasse, file interminabili di candele di ogni genere e fragranza. Dai bastoncini di incenso profumato a cilindri di cera colorata senza dimenticare i vari bicchieri o porta bon bon che aveva riempito con petali secchi e sali speziati.
Una vera e propria fissa la sua.
Scendendo le scale Tom aveva intonato il breve motivetto di Love is easy seguito subito dopo da Danny che gli faceva scherzosamente eco simulando qualche mossa hip hop tra un gradino e l’altro.
In cucina Dougie e Harry avevano aperto le pizze e stappato le birre sul grande tavolo di vetro, già seduti ai loro posti abituali con le bocche semi piene.
L’enorme televisore quarantadue pollici incastrato nella parete da Danny stesso l’estate precedente, acceso su Wam tv come tutte le sere. Il Funny Music Show stava per cominciare.
Raggiunsero il tavolo anche Danny e Tom. L’ultima cena negli UK, il giorno dopo sarebbe iniziata una nuova avventura.
 

Il ticchettio delle lancette del pendolo alla parete scandiva gli ultimi istanti di quella seduta. La prima di una lunga lista molto probabilmente. Poi il rimbombo dell’ora che risuonò implacabile nella stanza nascondendo il suono basso della mia voce.
Mi alzai di scatto dal divanetto pronta a scappare dall’imbarazzo di quella situazione. Lei ancora con il capo chino sul suo block notes continuava a scrivere e tracciare linee incomprensibili sul foglio bianco come se non si fosse resa conto dello scadere del tempo.
L’imbarazzo per essermi alzata, forse, prima del previsto mi immobilizzò davanti al divano. All’interno della borsa il suono ovattato di una vibrazione.
Ringraziai il cielo per quel richiamo che parve darmi improvvisamente una scappatoia anche se non ne avevo bisogno.
“Ciao... Sto tornando, aspettami a casa.” Risposi con tono incerto alla telefonata allontanandomi dal divano di ancora qualche passo.
Trattenni uno risolino quasi seccato. Da quando era successo… non mi lasciavano sola un istante senza controllare scrupolosamente ogni mio passo, cronometrando quasi le mie soste o attività.
Non ero mai, mai sola eppure non riuscivo a non sentire quel senso di solitudine che si prova quando si è in mezzo a tanta gente ma ti manca l’unica persona di cui avresti bisogno.
“Direi che per oggi va bene così. Fissi pure un nuovo appuntamento con la mia segretaria per la prossima settimana.” Il leggero rumore del Block notes che veniva chiuso attirò nuovamente la mia attenzione mentre riponevo il telefono nella borsa. Mi voltai verso la donna che, stranamente, era già in piedi alle spalle della scrivania. Si era forse alzata mente rispondevo al telefono.
Una settimana. D’un tratto mi parve troppo presto e troppo lontano allo stesso tempo. Cosa avrei fatto in quella settimana? Come avrei riempito l’attesa? Avevo fretta, fretta di stare nuovamente bene. Fretta di abbandonare il mio dolore. Fretta di ritornare quella di un tempo. Non avevo una settimana.
“D’accordo. Arrivederci.” Ma annui rassegnata al non aver concluso nulla per quella giornata lasciando l’ufficio a testa bassa cercando di ammorbidire il rumore dei miei tacchi sul parquet.
Oltre l’ufficio, il sorriso di una ragazza bionda sulla ventina mi investì in pieno. Troppo allegro, troppo naturale, troppo. Parve quasi una burla al mio stare male.
Aspettai che segnasse il mio nome sull’agenda per poi sparire oltre l’enorme porta in legno e mosaici colorati dalla quale ero arrivata. 

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Capitolo 3
*** 3) That's The Truth ***






3.
 
 
La notte. A molti faceva paura. Buia, tenebrosa, nascondiglio perfetto per ogni genere di insidia. Persino i poeti e gli scrittori la definivano come qualcosa di ambiguo o spettrale seppur necessaria. Ricordai alcune celebri frasi che spesso avevo sentito o letto in giro: Nessuna notte è abbastanza lunga da impedire al sole di sorgere, oppure, bisogna attraversare la notte per raggiungere l’alba.
Io non la vedevo così.
La notte non mi faceva paura, non più del giorno. La notte era l’unico specchio nel quale riuscire a vedere il riflesso di sé stessi, quello che il tram tram quotidiano offuscava dietro mille e più futilità. La notte aveva in sé qualcosa di magico, era l’unica in grado di fermare il tempo, rimettere le cose nella giusta prospettiva come i tasselli di un puzzle che dopo il dodicesimo rintocco prendevano vita ritrovando da soli il loro posto.
La notte era silenzio, era pace, era armonia… tutto quello di cui avevo bisogno in quel momento, forse per questo non la sprecavo dormendo come tutti gli altri.
Un mugolio appena percepibile si unì al suono della pioggia battente sul tetto. Dal salotto si potevano appena udire il ticchettio delle lancette sul vecchio pendolo ricevuto in dono da zio Paul quando andai a vivere da sola alcuni anni prima.
Tirai fin su il mento la spessa coperta in pile tenendo scoperte solo le braccia. In una mano il telecomando con il quale giravo con scarso interesse i canali del televisore.
Di solito dopo le undici partivano a raffica le trasmissioni di vecchi film d’autore come Hard Time, Wuthering Heights, Gone with the Wind o Pride and Prejudice che preferivo centinaia di volte alle solite e banali commedie degli ultimi tempi, tutte uguali, tutte dal finale scontato.
Poi la corsa si fermò. L’ennesimo talkshow con i nostri volti spiattellati sullo sfondo seminascosti da una vistoso “New” a caratteri cubitali. Mi chiesi quale altra novità si erano inventati quella volta. Quanti altri danni avessero intenzione di fare con le loro paparazzate montate a posta per farci più male di quanto non ce ne fossimo già fatti da soli.
Le diffide degli avvocati avevano ottenuto poco e nulla. Nonostante ogni notizia venisse prontamente smentita o ritirata dalla vetrina scandalistica non si riusciva ad interrompere il bombardamento mediatico a cui eravamo sottoposti ogni maledetto giorno.
Assottigliai lo sguardo leggermente infastidito dalle luci ultraviolette dello schermo di fronte al letto mentre partiva sottotitolato un filmato girato al Luton Airport di Londra. Flash e telefonini puntati verso le grandi porte d’uscita che spalancandosi lasciarono intravvedere Dougie attraversare la folla a testa bassa nascosto dietro il cappuccio della felpa e gli occhiali scuri per poi infilarsi in un auto scura e lasciare alle sue spalle i curiosi che continuavano a fare domande urlate al vento. Il filmato si interruppe. Il viso sorridente della conduttrice che tra una battuta di cattivo gusto e l’altra commentava il ritorno nel Regno Unito di Do’. Era tornato e lo aveva fatto da solo.
Che avesse davvero abbandonato la band? Scartai quel pensiero, i ragazzi non glielo avrebbero permesso. I Mcfly erano quattro, o tutti o nessuno.
Voltai lo sguardo verso l’altro lato del letto. Il palmare dal display spento parve quasi occupare il posto che spettava a qualcun altro.
Lo fissai a lungo decidendo se era il caso di scrivergli. Di chiedergli perché Dougie era rientrato a Londra. Iniziai a formulare mentalmente il messaggio meditando su quale variazione di parole potesse essere la più indicata e immaginandone per ognuna una sua risposta. Peccato che non mi avrebbe risposto come non aveva risposto a nessuno dei messaggi che gli avevo mandato nelle ultime due settimane.
Ormai la sua posizione verso di me era chiara. Non voleva più saperne.
Mi odiava anche lui e, forse, ora che Dougie aveva lasciato il gruppo mi avrebbe detestato ancora di più.
Un nuovo filmato si intravvedeva in sottofondo mentre la voce di vari opinionisti presenti nello studio continuavano a dire la loro su quello che era accaduto tra i Mcfly. Ne riconobbi le scene immediatamente, erano le stesse che avevo visto per la prima volta solo pochissimi mesi prima quando al California Airport arrivarò la nuova band etichettata dalla Fascination.
Ricordai quella sera come se si fosse svolta il giorno precedente.
 
Le luci verdi lungo le ali furono rimpiazzate da quelle rosse che si accendevano e spegnevano ad intermittenza riflettendosi sui vetri degli oblò. Con un rumore stridente il carrello si abbassò toccando bruscamente l’asfalto ruvido della pista di atterraggio avanzando a lungo su di essa prima di fermarsi dopo un lento rallentamento. La voce metallica di una hostess che, cimentandosi in tre lingue diverse, annunciava ai passeggeri di poter slacciare le cinture di sicurezza dando istruzioni su come uscire ordinatamente dai portelloni laterali dell’aereo ai quali erano appena state agganciate le scale mobili.
Oltre gli oblò, il buio pesto.
“Ehi sveglia, amico. Siamo arrivati.” Tom si sentì scuotere bruscamente una spalla mentre la voce ilare di Harry lo riportava nel mondo reale. Dodici ore di volo erano state troppe anche per loro che erano abituati a prendere gli aerei con lo stesso ritmo con cui i liceali salivano sugli autobus per andare a lezione.
“Chi è arrivato? Dove?” Sobbalzò confuso guardandosi intorno notando con aria sconvolta di non essersi risvegliato nel suo letto caldo accanto a sua moglie e i suoi due gatti.
“Obama a Bachingam Palace, idiota.”
“A proposito di Obama, secondo voi verrà a sentirci?”
“No, ma se vede la tua faccia da terrorista in tv ci spedisce tutti a Guantanamo, Do’.” Una risata collettiva, qualche pugno scherzoso e gli sguardi degli altri passeggeri si posarono su di loro preoccupati. Si guardarono in viso scettici per poi ridere di nuovo mentre il velivolo si svuotava intorno a loro.
Le luci dei flash e degli obiettivi fotografici si confondevano tra quelli dei segnali sulla pista di atterraggio e degli altri mezzi nei paraggi. Scesi dall’aereo attraversare la folla di giornalisti e fans elettrizzate fu un’ardua impresa. Domande di ogni genere arrivavano una sull’altra come sparate da una mitragliatrice impazzita. Anche se avessero voluto rompere il silenzio mediatico a cui erano stati vincolati da contratto fino alla conferenza stampa con la nuova etichetta, rispondere anche alla metà di quelle era impossibile.
“Cosa vi ha spinti a lasciare la Island?”
“Di chi è stata l’idea della Fashinate Records? Sono stati loro a contattarvi o è stata un’idea di Dougie?”
“Cosa ne pensate di lavorare con la stessa casa discografica delle The Saturdays? Loro sono al corrente del vostro arrivo?”
“Signor Dougie, sono vere le voci su un suo ritorno di fiamma con la Sandford?”
“Si dice in giro che abbia deciso di riconquistare la sua ex fidanzata e strapparla al nuovo compagno, è vero?”
“Quando vi incontrerete di nuovo? E’ vero che le The Saturdays apriranno il vostro primo concerto negli USA?”
Gli sguardi preoccupati e irritati di Tom e Danny che si muovevano furtivamente tra la mischia per sfuggire all’assalto mediatico non perdevano mai di vista Dougie che a testa bassa ignorava le domande dei paparazzi tutte incentrate su di lui rispondendo di tanto in tanto con un freddo “No comment.”
Le porte scorrevoli che li separavano dall’uscita si aprirono davanti a loro, fuori dall’aeroporto un auto scura li attendeva per condurli nel residence dove avrebbero alloggiato. La preoccupazione aumentò quando con una risata divertita Dougie commentò come “elettrizzante” l’interrogatorio al quale era stato sottoposto.
Chiuse le porte dell’auto, ritornarono a respirare ormai al sicuro. Non c’era che dire, le strade americane erano così diverse da quelle inglesi. Le auto sfrecciavano a gran velocità sull’asfalto, le corsie enormi erano intraversabili per qualsiasi pedone, anche il più agile e scattante. Le luci delle insegne luminose di locali e night club dominavano ogni angolo della città superando quelle dei negozi di alta moda.
Fu un istante, un attimo fuggente e, dall’altro capo della strada un enorme cartellone pubblicitario ritraeva i loro volti sorridenti, il suo, i suoi occhi scuri e taglienti, avvolgenti, impenetrabili.
Si chiese a cosa stesse pensando nell’istante in cui era stata scattata quell’immagine, a chi.
Lei sapeva per certo del loro arrivo, non c’era rivista o programma musicale che non lo aveva annunciato e con molta probabilità era stata sottoposta alle stesse domande che avevano fatto  lui. Cosa aveva risposto? Sarebbe stata contenta di rivederlo?
“Smettila di pensarci e cerchiamo di non attirare casini.” Alzò lo sguardo verso Danny quasi colpevole, come se l’amico fosse riuscito a leggere nella sua mente.
“Tranquillo, andrà alla grande.”
“Avanti Da’, non cominciare con le tue solite paranoie e goditi il momento: siamo in America, amico.”
L’ingenuità di Harry era sempre stata motivo di burle e risate tra i ragazzi, ma in quel momento a qualcuno parve fuori luogo. 
Il chiasso di un clacson che suonava all’impazzata attirò poi la sua attenzione mentre l’auto svoltava in una strada meno trafficata raggiungendo in pochi minuti l’hotel.
“Cazzo, che sciccheria!” Esclamò Tom entrando nell’albergo quasi in punta di piedi notando l’arredo lussuoso nella hall circondata da un’infinità di specchi, divani e tappeti pregiati.
“E che personale di servizio…” Commentò Dougie fischiettando verso una delle cameriere che attraversava il corridoio della reception.
“Guarda la bionda. Che carrozzeria da infarto.” Bisbigliò Harry timidamente alle sue spalle.
“Le preferisco more e meno formose, amico ma non male.”
L’ennesima allusione. L’ennesimo doppio senso. L’ennesima conferma a tutti i suoi sospetti, pensò Danny. Ormai non aveva più il minimo dubbio.
Lanciò un’occhiata scettica a Tom alzando le spalle.
Aldilà del banco il concierge, un uomo alto sulla quarantina, prendeva le accettazioni per poi accompagnarli nei loro mini appartamenti ai piani alti dell’edificio all’interno dei quali li attendeva, stampato e siglato sul tavolino del salottino un foglio con il programma dell’intera settimana.
La conferenza stampa con la quale sarebbero stati presentati agli USA si sarebbe tenuta la sera stessa nella sala conferenze dell’albergo.
“Non perdono tempo, ‘sti qui. Neanche siamo arrivati e già ci caricano di lavoro.”
“Non lamentarti, Brò. Solo una settimana fa limavi annoiato le unghia a Bruce sul divano di casa.” Ricordò Tom a Danny camminando per la sala con fare esplorativo.
Certo avevano pensato davvero a tutti i confort del caso. Gli appartamentini erano tutti standadicamente uguali. Tutti e quattro sullo stesso pianerottolo riservato esclusivamente a loro. A tutti si accedeva attraverso un piccolo salottino circondato da enormi finestre che si affacciavano sul mare. Separata da una penisola in marmo la piccola cucina fornita di elettrodomestici di ultima generazione. Alle spalle del divano, dietro due enormi porte in vetro, la camera da letto perfettamente accogliente e confortevole. Due porte più piccole rivelarono la cabina armadio grossa quanto la vecchia cantina di Danny e il bagno con tanto di idromassaggio e doppio lavello.
“Cazzo. Cazzo. Cazzo. Guarda qua Brò.” Un urletto stridulo da ragazzina esasperata richiamò Danny ancora spaparanzato sul divano del salotto impegnato a leggere il programma che gli avevano lasciato.
“Che roba è quella?” Chiese raggiuntolo nel bagno mentre indicava varie bottiglie in vetro dalla forma strana.
“Boh.” Tom ne aprì una annusandola. “Ma puzza da far schifo.” La richiuse riposandola dove l’aveva presa.
“Allora? Cosa dice il buon vecchio Loraine?” Chiese tornando nella camera da letto dove, senza neanche sfilare le scarpe, si era gettato di peso sul letto reggendosi la nuca con entrambe le mani.
“Stasera la conferenza stampa. C’è un foglio con le probabili domande che potrebbero farci e le risposte che dobbiamo dare. Domani siamo a South Valley per un’apparizione in una trasmissione su Canale102, nel week invece siamo a Los Angeles. Si terranno due serate musicali dove parteciperanno i vari artisti del momento. Dalla settimana prossima avremo date nostre.”
“Ci sarà da annoiarsi, eh?” Borbottò sarcastico Tom prevedendo quello che sarebbe avvenuto da li a pochi giorni.
“Puoi sempre tornare a limare le unghie al gatto.” Rispose Danny lanciandogli addosso il foglio con gli impegni per poi dirigesi verso il proprio appartamento dove avrebbe iniziato a prepararsi per la conferenza che li attendeva.
 
Dopo l’interminabile e fastidiosa pubblicità il talkshow riprese a parlare della vicenda dei mcfly. Un’infantile stacchetto musicale con ballerini vestiti in modo bizzarro ne anticipò il ritorno in onda.  L’intera puntata era dedicata a loro.
Vari filmati si susseguirono l’un l’altro intervallati da commenti spesso inopportuni o infondati di gente che pretendeva di conoscere tutto di loro… di noi. Fischi vari partivano dal pubblico in studio ad ogni affermazione troppo cruda sul rapporto tra i ragazzi.
Il suo volto spento, amareggiato, colpevole al centro dello schermo. In una piccola finestra sovrapposta, il viso impassibile di Dougie mentre sfuggiva ai paparazzi al rientro a Londra.
L’ennesimo schiaffo in pieno viso, un’ulteriore fitta allo stomaco.
I suoi occhi. Il suo sguardo.
Stava male, forse anche molto più di Dougie. Uno era ferito, l’altro ne portava sulle spalle il rimorso. Uno era deluso, l’altro arrabbiato con sé stesso e con ciò che aveva rovinato la vita di tutti rivelando al mondo il suo errore. Uno era vittima delle circostanze, l’altro del proprio ingiusto destino che, per la seconda volta, lo aveva tradito giocando contro di lui.
Posai per l’ennesima volta lo sguardo sul telefono. La voglia di chiamarlo, di sentire la sua voce anche per un solo attimo, di dirgli che mi dispiaceva per come erano andate le cose, che mi mancava, che avrei voluto parlargli, vederlo, abbracciarlo di nuovo come quell’ultima volta prima che scoppiasse l’inferno. Chiedergli perdono per quello che stava accadendo.
La mano si mosse da sola in direzione del telefono. Un cruento scontro partì tra testa e cuore. L’una mi spingeva a scorrere con le dita sulla tastiera per formulare il suo numero, l’altra mi anticipava che me ne sarei pentita subito dopo. Lui non voleva sentirmi, lo sapevo, ma fermarmi fu impossibile nel momento in cui dall’apparecchio il suono squillante della chiamata era udibile anche se non avevo il palmare all’orecchio.
“Pronto.” Un sorriso mi si formò istintivamente sul viso nel sentire la sua voce. Prima di innamorarmi di lui, avevo amato lei. Una voce che non mi sarei stancata mai di sentire, ruvida, profonda, tagliente. Un brivido mi attraversò la schiena, la saliva si seccò in gola. Avvicinai il telefono e, facendomi coraggio, mi preparai mentalmente a dirgli tutto ciò che non ero riuscita a dirgli in quei lunghi mesi.
“Danny…” La luce violacea di un lampo riempì la stanza. Da li a pochi secondi sarebbe arrivato il rombo del tuono.
 Tirai un profondo respiro prima di riprendere a parlare.
“Scusami se ti ho chiamato, ma avevo bisogno di sentirti… ho bisogno di te.” Peccato che lui avesse riagganciato non appena aveva udito la mia voce. Sotto la cornetta rossa al centro del display il contatore riportava solo cinque secondi di conversazione.  Non mi aveva neanche lasciata parlare.
“Non piangere. Non puoi piangere. Non devi piangere.” Mi ripetei serrando gli occhi mentre sollevavo le coperte fin sulla testa accoccolandomi sotto il piumone. Prima o poi ci sarei riuscita, sarei riuscita a farmi ascoltare da lui. 

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