Sorcerers' Dreaming - La Missione

di Shark Attack
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Frammenti ***
Capitolo 2: *** Vedàsio (2) + Fluo (3) ***
Capitolo 3: *** Non il solito Trio (4) + In Marcia (5) ***
Capitolo 4: *** Discendente ***
Capitolo 5: *** Giù per il Pozzo ***
Capitolo 6: *** Mjoklur ***
Capitolo 7: *** Come un Miscuglio ***
Capitolo 8: *** Punto di non-ritorno ***
Capitolo 9: *** Il Reth-pass ***
Capitolo 10: *** Sei Cose ***
Capitolo 11: *** Gli Og ***
Capitolo 12: *** Nell'arena ***
Capitolo 13: *** Guerrieri ***
Capitolo 14: *** Andare via ***
Capitolo 15: *** Capi e Generali ***
Capitolo 16: *** Nella stanza azzurro cielo ***
Capitolo 17: *** Il mio posto ***
Capitolo 18: *** Colori ***
Capitolo 19: *** Una spanna sopra tutti ***
Capitolo 20: *** Sensazioni ***
Capitolo 21: *** Al Castello ***
Capitolo 22: *** Al suo fianco ***
Capitolo 23: *** Ye Old Pub ***
Capitolo 24: *** Thè e Latte ***
Capitolo 25: *** Il Nuovo Mondo ***
Capitolo 26: *** Madre, Padre ***
Capitolo 27: *** Niente di più forte ***
Capitolo 28: *** Compagni di Viaggio ***



Capitolo 1
*** Frammenti ***



Benvenuti nel mondo di Sorcerers' Dreaming!
Questa fic in realtà è un prototipo di libro fantasy di cui detengo ogni esclusiva, ogni personaggio è originale e inventato da me quindi niente scherzi. Se avete critiche sono ben contenta di leggerle, anche più dei complimenti; ancor più se sono note di incomprensioni e dubbi!
In realtà, ahivoi, avete cliccato nella seconda parte della storia: la prima è in questo link ma, essendo un po' lunghina, mi sono spremuta le meningi e ho riassunto al meglio delle mie possibilità tutto ciò che è successo nei precedenti -ehm- 38 capitoli... anche se, ovviamente, qui c'è solo un'infarinatura di base.
Se non avete cliccato per caso questa storia e avete letto anche la prima parte, bentornati! Eccovi un fantastico riassunto per rinfrescarvi la memoria! xD (riciclo level: 100)

Previously, in Sorcerers' Dreaming:
Nehroi e Savannah sono fratello e sorella orfani, scapestrati e fuori dagli schemi che vivono in una terra magica chiamata Ataklur.
Per vendicare i numerosi torti subiti nell'infanzia e nell'adolescenza, passano la vita destreggiandosi tra cacce e furti pericolosi di potenti tesori magici che servono per la missione che li spinge ad andare avanti: rompere la barriera che separa Ataklur dai terrestri per dissipare il potere magico tra i due mondi e rendere tutti uguali.
Facendo riferimento ai testi che nonno Ughrai ha lasciato loro e sfruttando un paio di conoscenze utili -tra cui la guaritrice Meede, la spia e contrabbandiere Toco e l'amico dell'orfanotrofio Lorwaar- riescono a recuperare gli oggetti che gli servono e li nascondono in una baita in Virginia, nascosta nella foresta in modo che nessun umano possa mai trovarla.
La comparsa sulla loro strada di Phil, un consigliere dei Capi di Ataklur, e il loro cammino devia fino ad una riunione straordinaria in cui viene offerta loro una posizione di rilievo nella società come riconoscimento dei grandi poteri e delle abilità che la coppia ha dimostrato negli anni, sebbene fossero dall'altro lato della legge.
Scoperti intrighi e piani loschi, i due scappano dai Capi e diventano ancora più ricercati, finendo arrestati dalla polizia umana a causa di una soffiata da Ataklur.
Evasi anche da prigione, i fratelli diventano reietti assoluti ma tornano ad Ataklur per portare avanti la missione.
Riuniti con Phil, che è stato licenziato e ha deciso di viaggiare con loro, si rimettono in cammino ma il loro viaggio viene stroncato ancora una volta: un agguato delle guardie magiche li accerchia per assicurarli alla giustizia, ma inizia un combattimento rovente e Savannah muore.
Nehroi decide di tornare tra gli umani e lasciarsi alle spalle tutto quanto; tra i Capi gli attriti si fanno più insormontabili e si creano varie spaccature che portano il mondo magico sull'orlo di una guerra capeggiata dal Capo Chawia; all'orizzonte, inoltre, si intravedono nuovi problemi con la comparsa degli O'Shea, misteriose creature che nessuno conosce o sa come affrontare.


*-*-*-*



Lui sapeva che era impossibile, semplicemente e tristemente irreale.
Dannazione, però, che bell'illusione.
Savannah era lì, sdraiata sull'erba: gli occhi socchiusi, i capelli sparpagliati nel verde... sonnecchiava al sole, come faceva ogni volta che non avevano altro da fare o quando doveva recuperare le energie.
C'era solo una pecca, quella stonatura che rovinava il vestito pulito che ondeggiava quando il vento lo accarezzava.
Savannah era morta. Non appena quel pensiero cadde di nuovo nella mente del ragazzo, la luce che quel bellissimo, bellissimo sogno aveva portato come brezza fresca cadde pesantemente dal suo viso e si infranse sul pavimento come vetro sottile.
Era ovvio che sarebbe finita così, si disse mentre il caldo della notte lo attanagliava facendolo sudare all'improvviso. Il ricordo o la visione di Savannah si crepò e ridusse in polvere con crudeltà, Nehroi lo guardò disperdersi nel vento mentre una vocina gli ripeteva ancora una volta, senza sosta, ciò che ormai lui sapeva bene.
L'hai uccisa tu.


39
Frammenti



Eppure quello allo specchio era lui.
Nehroi osservò la barba ispida e incolta, le occhiaie profonde e scure, i capelli arruffati e sporchi, la canottiera sporca e sgualcita.
Sì, quello sembrava ancora lui: il prima brehmisth, poi brehkisth, uno che di avventure e disavventure ne aveva vissute tanto da poterci riempire un libro o due, ma che non si era mai ritrovato in uno stato più pietoso di quello che aveva di fronte.
Tirò un pugno allo specchio e lo frantumò, trasformandolo in una serie di segmenti affilati che convergevano là dove un rivolo rosso li tingeva macchiando anche il lavandino sottostante.
La radiosveglia emise il solito “tic” e una musica allegra e ritmata scoppiò nella stanza, inondando di note i vestiti lasciati ovunque, le lattine di birra, le bottiglie di alcolici scadenti e i mobili rotti, accanto ai pochi rimasti intatti.
Nehroi non aveva ancora capito come fare per disattivare la sveglia, e soprattutto l'accensione automatica della radio, ma il suo morale era così tanto basso che a stento quei suoni riuscivano a scalfirlo. Le sue orecchie erano fisicamente lì, ma la mente era a chissà quanti chilometri di distanza, chiusa in un altro mondo.
Se l'allegra voce del presentatore o la sigla di inizio del programma l'avessero toccato o meno non importava, quell'aggeggio sarebbe stato comunque il prossimo ad essere lanciato fuori dalla finestra, lui e la sua antenna storta.
Nehroi staccò il pugno dallo specchio e i frammenti caddero lucenti ai suoi piedi, tintinnando come gocce di cristallo.
Cristallo...
Nehroi sentì ancora quella sensazione nauseante risalirgli in gola e calciò il cestino già ammaccato, gettandolo con furia nella vasca da bagno, distruggendo qualche inutile boccetta di profumo, shampoo o qualsiasi cosa fosse stata lì in mezzo.
Guardò quel che rimaneva del suo riflesso e ghignò vedendo che i frammenti storti gli avevano piazzato l'occhio sinistro molto più in su e la sua bocca seguiva una linea strana, segmentata.
La sua mano pulsava e continuava a sanguinare, ma non importava.
Non poteva provare dolore, lui.
Urlò.
Non se lo sarebbe permesso.
Urlò ancora, un verso degno dei mal'Kee.
Non lo meritava.
La gola era secca da giorni.
Lui avrebbe meritato la freccia.
Urlare era impossibile, la consapevolezza sovrastava ogni tentativo di attutirla.
Meritava la freccia.
Oh sì, era per lui, c'era il suo nome sopra.
La maledizione, quella dannata maledizione che uno stupido comportamento esuberante gli aveva procurato, era tutta colpa della maledizione. Non era il soldato ad aver sbagliato mira, lui aveva puntato al cuore di Nehroi. Quella maledizione aveva respinto la magia della Stella blu, ormai ne era sicuro. E se anche non fosse andata così, sarebbe cambiato qualcosa?
Savannah era morta, e solo per colpa sua.
Ogni volta che qualcosa doveva colpire gravemente lui, in qualche modo si ritorceva su di lei. Si odiava per quella fortuna sfacciata che lo faceva sentire indegno del cuore che batteva nel suo petto.
Abbassò lo sguardo sulla sua canottiera, sotto la quale non spiccava alcun tatuaggio rossastro.
Ormai erano anni che non vedeva la sua pelle bella immacolata per così tanto tempo.
Si inumidì le labbra e un'antica sensazione gli tornò alla mente mentre tracciava col dito quello che sarebbe stato il percorso del sigillo.
Erano ragazzini, Lorwaar era morto da pochi mesi e li aveva lasciati, per la prima volta in vita loro, assolutamente soli al mondo. Il nonno li aveva già abbandonati da anni, lasciandoli in un orfanotrofio con uniche eredità una stupida pistola terrestre che non funzionava e un sacco di libri nascosti chissà dove.
Dopo la dipartita del loro grande amico e compagno, così unico e speciale da essere come un terzo fratello, avevano passato giorni interi incapaci di fare niente, di lottare, di avere uno scopo nella vita, di fare qualcosa, di vivere anche loro. Nehroi ricordava bene quella sensazione orribile, quella che provi quando l'anima si raffredda tanto da spezzarsi come la superficie di un lago ghiacciato; sotto, però, non c'è acqua ma buio e paure altrettanto gelide, se non di più. In quel lago nero ci si bagnavano spesso, lui e Savannah, a volte arrivando fino ai fianchi... ma erano insieme, si tenevano per mano e riuscivano sempre, ogni volta, a tornare a riva.
Nehroi aprì gli occhi e si guardò attorno, nella stanza. Dov'era? Di chi era quella casa? In che città si trovava? Perché era lì?
Sentì le gambe tremare ed uscì dal bagno in fretta e furia. Non si lavò, non si sbarbò, non fece nulla per curare la sua persona. Era inutile.
Arrivò in salotto, quella stanza che ormai non era altro che una discarica di mobili rotti, vetri verdi infranti, oggetti fatti a pezzi. C'erano delle foto, sul pavimento, volti sorridenti che giovano immobili sotto i frammenti di vetro e le schegge delle cornici decorate. Nehroi ne calciò un paio pur di non guardarle.
Non riusciva a togliersi dalla mente l'istante in cui la freccia venne scoccata, era una visione che lo tormentava da giorni, incessantemente, a qualsiasi ora, in qualsiasi momento. Il sole bollente sbucava fuori dalla sua memoria e tornava a bruciargli la pelle, i piedi vacillavano roventi nella sabbia e gli veniva il fiatone, tanto che non riusciva mai a respirare e si sentiva svenire. Cadeva carponi, sudava violentemente, non sentiva più la moquette sotto le dita e le ginocchia ma solo sabbia, sabbia, sabbia. Poi si voltava, sentiva il rantolo di Savannah e la vedeva lì, a qualche metro da lui, guardarlo con quegli occhi spaventati e increduli mentre i suoi, di occhi, non riuscivano a staccarsi dal collo e dalla freccia che vi si era incastonata dentro. Spesso si rialzava e correva da lei, urlandole qualcosa, ma una porta, un muro o un divano si intromettevano sempre. Non era mai reale, era sempre lì nella sua mente. Stava impazzendo.
Aprì di nuovo gli occhi, anche se era sicuro di non averli mai chiusi. Era di nuovo steso su un fianco, senza alcun ricordo di come ci fosse finito. Aveva solo un bernoccolo sulla fronte, dove aveva sbattuto cadendo, gli faceva male la spalla su cui era sdraiato e si sentiva febbricitante.
Rotolò sulla schiena e si portò le mani sul viso, prendendosi la testa con decisione: faceva male, faceva dannatamente male, come se fosse appena uscito da una rissa o se qualcuno stesse cercando di strappargli il cervello.
Inspirò a fondo e iniziò a sentire un po' di calore corporeo lasciarlo man mano che si rilassava.
Con le mani ancora sul viso, tornò con la mente in quello sperduto e antico tempio peruviano che, secondo gli scritti del nonno, custodiva una maschera d'oro in grado di rivelare magie nascoste attraverso i fori dei suoi occhi. Una specie di visione notturna, la chiamava lui.
L'avevano trovata, quella stupida maschera, meno conservata di quanto sperassero ma almeno esisteva. L'oro era annerito da secoli di sporco e umidità, i fori delle orbite erano stati tappati con una specie di argilla come se l'avessero voluta accecare e le incisioni erano davvero suggestive. La maschera ricordava in tutto e per tutto il viso di un uomo, come se gliela avessero modellata addosso.
Nehroi l'aveva indossata un po' per gioco, un po' per esuberanza... e l'effetto era stato devastante. Si era sentito fremere tutto, surriscaldare all'improvviso come se fosse stato gettato in un incendio, poi Savannah aveva iniziato a urlare e ad allontanarsi, incapace di sopportare una strana forza invisibile e potentissima che la feriva invisibilmente.
Non sapevano cosa stesse succedendo, ma all'improvviso il loro rapporto si era incrinato più di quella maschera rovinata dal tempo.
Nehroi gemette tra le mani e si sentì sporco, sporco come allora.
La maledizione era ustionante per sua sorella e la costringeva a prendere posto molti sedili più indietro, uno in testa e l'altra in fondo alla carrozza.
Sul treno che li avrebbe riportati in città, per consultare qualche altro tomo trafugato dal vecchio Ughrei e scoprire qualcosa per arginare quell'anti-magia che li teneva distanti, anche se non si fidavano più allo stesso modo di quei manoscritti: così i Fein Anis avevano passato le prime ore della loro vita senza essere l'uno accanto all'altra.
Il piccolo Nehroi si sentiva sporco, contaminato, come se stesse portando in sé un germe letale... ed era effettivamente vero. Se non si fossero trovati tra umani, quel treno sarebbe stato vuoto.
Non riusciva a non pensare di insozzare tutto l'ambiente che lo circondava, indegno di sedere in mezzo a gente pulita e innocente, con la mente e il corpo liberi dall'infezione della maledizione.
Savannah lo aveva guardato attraverso tutta quella gente, gli zaini e le valigie, ma aveva abbassato rapidamente lo sguardo; Nehroi, però, era riuscito a leggere bene l'espressione addolorata che stropicciava il viso della sorella.
La sensazione di sporco si acuì quando il brehkisth desiderò non essere mai entrato in quello stupido tempio.
Il viso triste della piccola Savannah si sovrappose a quello immobile che aveva abbandonato pochi giorni prima tra le dune del deserto che li aveva partoriti, martoriati e infine divorati.
Scattò in piedi come una molla, si infilò una camicia hawaiana a maniche corte e non si premurò neanche di chiudere i bottoni; infilò il primo paio di pantaloncini che trovò per terra, non il meno sporco ma proprio il primo che pescò, e varcò la porta dell'appartamento per poi sbatterla alle sue spalle.
Scese le scale facendo echeggiare lo scalpicciare delle ciabatte a tutti i piani. Uscì dalla palazzina e percorse i pochi metri che lo separavano dal negozio di alimentari del quartiere.
Era un negozio piccolo e poco fornito, ma fresco e con le poche cose di cui Nehroi avesse realmente bisogno. Lo schermo piatto appeso in un angolo stava trasmettendo un noioso notiziario e le immagini di una tempesta, con palme piegate a metà e un cielo scuro da far paura, si agitavano dietro il giornalista che sembrava stesse per prendere il volo.
«Ehi», disse il brehkisth svogliatamente al cassiere, un uomo troppo grosso per lo spazio dietro il bancone, stipato tra le caramelle e i rasoi da barba come se fosse merce anche lui.
«Ehi», lo salutò di rimando. Notò subito le occhiaie sempre più scure e ampie che sovrastavano guance smorte e che non facevano altro che risaltare i contorni arrossati degli occhi. «Sempre peggio, vedo...»
«Uh. Prendo le mie solite bottiglie e ti lascio in pace.»
Il cassiere era un uomo di mezza età dall'aria buona e paterna. Lo preoccupava constatare che le condizioni di quel giovane cliente peggioravano di giorno in giorno. «Sei giovane, negli anni più belli della tua vita», disse amareggiato. «Non dovresti trattarti così...»
Nehroi inspirò profondamente stringendo i pugni e lanciò uno sguardo malevole verso una cliente, facendola sussultare e sparire tremando tra gli scaffali degli snack. «Non sai niente», rispose al cassiere con voce trattenuta. I pugni erano ancora chiusi e in maniera tanto stretta da farli vibrare.
«Qualunque cosa sia... non abbatterti. Passerà, vedrai. La vita è b...»
«Non sai niente», ripeté il ragazzo, mostrandosi spazientito e stringendo i pugni.
L'uomo pensò che quel cliente doveva avere la stessa età di suo nipote, anche se era così mal ridotto da sembrare molto più adulto. «Dovresti farti vedere da qualcuno», gli suggerì comunque con premura, ignorando i suoi probabili tentativi di autocommiserazione.
Nehroi sbuffò e si appoggiò pesantemente al bancone, facendo tintinnare i portachiavi a forma di pretzel appesi ad una colonnina accanto alla cassa. «Senti», esordì con voce stanca, come se parlare gli costasse un enorme sforzo. Viste da vicino, le sue occhiaie spiccavano sul viso smunto come lividi opachi. «È già tanto che mi vedi tu. Se non ti va' posso prendere ciò che voglio di notte, posso farlo, e non dovrai sforzarti di essere gentile... così va meglio?»
Il cassiere serrò le labbra e si sentì abbattuto. «Vado a prenderle sul retro», disse in un sospiro.
Il brehkisth tornò nel suo appartamento ciabattando le infradito come un vecchio, trascinando i piedi sulla strada e sugli scalini, fino a quel campo minato che era diventato il salotto. Appoggiò la cassa di bottiglie a terra, vicino al porta ombrelli vuoto, e si tolse di dosso la camicia. La lanciò tra i cartoni della pizza e prese una birra ancora non finita che troneggiava sul tavolino storto.
La prese in mano e la soppesò pensieroso. Poi grugnì disgustato e la lanciò contro il muro, tingendolo di giallo e di schegge verdi che scivolarono a terra tra tante altre.
Nehroi urlò ancora, squarciandosi i polmoni mentre l'impatto distruggeva il vetro.
Afferrò il tavolino e lo lanciò verso la finestra, ma cadde in strada solo metà; il resto rimase in bilico sul davanzale, oscillando col vento. Sollevò di peso una sedia, una delle ultime rimaste al tavolo del soggiorno, e la scaraventò sul pavimento; le gambe si spaccarono e rotolarono in direzioni diverse mentre lo schienale si ruppe a metà.
Spinse il divano con un calcio ma non lo spostò più di tanto e vi ci si lasciò cadere sopra con pesantezza, sollevando cumuli di polvere e cartacce varie.
«Assaggia questa roba, Neh, ha un sapore stranissimo!»
A lei non piaceva la birra, ma non c'era viaggio tra gli umani in cui non riuscisse a berne almeno una lattina. Era la sua sfida, una delle tante, voleva imparare a reggere quell'alcol così diverso dal loro...
«Siete proprio dei bambini.»
Lorwaar, invece, era un vero duro: non si lasciava mai spaventare da niente e non c'era nulla in grado di abbatterlo. Era più grande di loro sotto ogni aspetto, lo era sempre stato, e non aveva fatto che confermarlo quando i due fratelli avevano raccolto la sua sfida a chi reggeva di più un giro di bevute. I non ancora famigerati Fein Anis erano finiti al tappeto cantando scemenze dopo appena due bottiglie.
Nehroi strinse i pugni.
Non c'era niente, niente!, neanche nell'autolesionismo, che non gli ricordasse sua sorella, o il suo migliore amico.
Di tutte le persone a lui care, non ce n'era più nessuna. Erano tutti morti, rimaneva solo lui.
Aprì la bocca per urlare ancora, ma non uscì altro che un rantolo strozzato. Crollò a terra, picchiando le ginocchia, e si portò le mani tra i capelli. Alzò gli occhi al cielo oltre la finestra, dove i genitori dicevano ai propri figli che stavano i morti, ma non si illuse di rivedere nessuno.
Il cielo era azzurro come lo era quel giorno in quel deserto. La freccia era per lui, non si sarebbe mai dato pace.
Savannah era morta al posto suo.
E non era morta proteggendolo, combattendo, con un perché.
Avevano sempre rischiato di fare una brutta fine, ma avevano lottato per evitarla e ci erano sempre riusciti.
Nell'arco di un istante, uno stupido istante, tutto si era frantumato.
La volta prima Savannah aveva rischiato la vita nella grotta per proteggerlo, era rimasta senza forze e sarebbe stato anche giusto, se lo sarebbe meritato, o quantomeno aspettato.
Nel pieno delle forze, a tradimento: Nehroi non riusciva a darsi pace neanche per il modo in cui l'aveva lasciata andare. La morte li aveva proprio fregati, come quella stronza della vita.
Che senso aveva la sua, ora?
C'era un motivo per cui era stata lei a timbrare il biglietto per Mjoklur al posto suo?
Cosa avrebbe dovuto farsene di quel cuore che batteva, se non c'era nessuno per cui valesse farlo?
“Noi non ci abbandoniamo”, era la regola.
L'aveva infranta.
Ma forse...


*-*-*-*



Buona sera! =D
Per chi è arrivato fresco fresco in questa storia senza aver letto la prima parte, benvenuti! Vi divertirete, nonostante questo primo capitolo sia molto da tagliarsi le vene. Per questo ma non solo consiglio vivamente di andare a scoprire la prima parte della storia anche solo per capire in che mondo ci stiamo muovendo, che è successo prima e perché questo bel pezzo di figliolo (anche se qui non l'ho descritto particolarmente) è tanto triste.
Se non siete nuovi... bentornati! Sì, ho la mia solita mania di dividere le storie in pezzi, mi viene male a tenerne una troppo lunga... e poi vuoi mettere lo sbatti di stare a scorrere troppo in giù per il nuovo capitolo quando aggiorno? xP Tra l'altro è stato molto difficile fare l'introduzione, spero che abbiate apprezzato due cose: l'ultima frase (a cui aggiungerei un <3 ) e l'avvertenza nelle coppie. Ohohoh.
Passata una bella estate? Io sì, sono contenta! Non fatevi ingannare dalla tristezza del capitolo, non è influenzato dal mio umore... infatti, come tutti gli ultimi che ho postato, è nato dallo sprazzo di un unico momento di ispirazione e quindi è comparso nel file attorno a marzo. In questi giorni l'ho rivisto un po' e aggiunto una valanga di altri pezzi, sistemato l'azione, inseriti i ricordi vari. Sì, era tipo lungo una pagina e mezzo, bisognava farci qualcosa.
Tra l'altro, che difficile fare il riassuntone dei 38 capitoli precedenti! Lo sssso, ho tralasciato un milione di cosette ma che ve ne pare, in ogni caso?
Ah, ovviamente spero qualcuno abbia ancora la voglia di seguirmi! ^^ O meglio, di seguire le magiche avventure di Nehroi e dei suoi fantastici amici (forse) in Ataklurlandia! Sembra che mi sia fumata qualcosa, ussignù... però per rallegrarvi annuncio che dal prossimo capitolo avremo una parziale rimpatriata... con chi? Che succederà ora? Giuro che nel prossimo ridiamo di più! Toni ben più allegri... diciamo da discoteca ^^ Titolo: FLUO!
Ma andiamo avanti con le domande, che so che le adorate! *evita pomodori*
Torneranno i proprietari dell'appartamento, se ancora lo si può chiamare così? Nehroi diventerà emo? Gli verrà la panza da birra? E poi riuscirà a darsi pace almeno per un minuto? O si suicida per riunirsi alla sorella? D:
Alla prossima!
Ciao!

Shark

(per gioco mi sono messa a fare questa specie di resoconto cronologico della successione dei protagonisti, sulla scia di uno che ho visto nonmiricordopiùdove su The Vampire Diaries:
Nehroi
Nehroi, Savannah
Nehroi, Savannah, Lorwaar
Nehroi, Savannah
Nehroi, Savannah, Phil
Nehroi, Phil
Nehroi
Al che mi chiedo: Neh, ciccino mio bello... non è che attiri sfiga? xD)

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Capitolo 2
*** Vedàsio (2) + Fluo (3) ***


Attenzione, in questo capitolo sono stati inseriti due capitoli. Scusate il disagio ^^"


2
Vedàsio



Percorse rapidamente tutto il secondo piano, dal suo ufficio posto accanto alla spaziosa camera elegantemente arredata fino alle imponenti scale e al corrimano lucido che accolse la sua irruenza come in un abbraccio di marmo. «Nekkis!», tuonò Silar mentre l'eco dei suoi passi pesanti rimbalzava tra gli scalini disturbando la quiete di tutta Tolakireth, nell'ala vecchia e in quella nuova.
Non ebbe neanche bisogno di fermare la sua marcia perché la porta della sala delle riunioni era già aperta; il Capo di Kyureth arrivò di fronte al gigantesco tavolo circondato da poltroncine rosse veloce come il vento freddo che mette a dura prova le cupole grandi quanto il cielo che proteggono le isole della sua città dai veleni della regione.
Aner Nekkis era chino su pile di fogli, alcuni perfettamente piegati e altri con le estremità arrotolate, tutti completamente ricoperti di scritte fitte e importanti. Inclinò lievemente la testa verso la porta quando Silar mise piede in quello che ancora non aveva il coraggio di chiamare “ufficio”, pallido sostituto dell'originale andato distrutto dal passaggio dei Fein Anis.
«Hai bisogno?», gli domandò educato senza realmente staccare gli occhi dalla distesa bianca e nera che aveva conquistato buona parte del tavolone.
Silar inspirò ed espirò pesantemente, visibilmente irritato, poi srotolò il messaggio che gli era appena arrivato da Bastreth. Lo guardò ancora un attimo, come se stesse controllando che l'immagine e l'annuncio che riportava non fossero cambiati in quel breve tragitto, poi lo avvicinò al viso del capo delle guardie tendendo nervosamente il braccio, facendoglielo sventolare di fronte agli occhi. «Spiegazioni», sibilò a denti stretti. «Ora.»
Nekkis ritrasse un poco la testa e batté le palpebre per il fastidio ma non ebbe alcun bisogno di leggere né di guardare realmente quel foglio per intuire di cosa stesse parlando il Capo. Afferrò il volantino con due dita e lo lanciò lontano da sé. «Non devo chiedere il permesso per fare il mio lavoro, soprattutto non a te», sospirò con voce ferma mentre il manifesto del ricercato si arrotolava di nuovo nell'angolo in cui era caduto, sotto la finestra.
Stava per tornare alla lettura dei rapporti che aveva sotto il naso quando la mano curata di Silar cadde pesantemente sul tavolo, sollevando parecchi fogli e facendo crollare una pila sulla destra della guardia. Aner li osservò cadere tutti, sollevando gli occhi grigi solo quando la cascata smise di tendere verso il pavimento. Il loro fruscio era il solo suono nella stanza, l'unico che osasse farsi spazio nella tensione creata tra i due.
«Perché diffondi allarmismo nella popolazione?», domandò Silar con finta diplomazia. La vena sulla tempia lo tradiva, come anche il respiro accelerato.
«Perché dovrei nascondere il pericolo, piuttosto?», rispose Nekkis con impertinenza mentre si sdraiava sullo schienale con stanchezza. Alzò lo sguardo verso il giovane Capo sorridendo sicuro di sé e delle sue scelte. «Un pericoloso fuorilegge tornerà a Ataklur a breve, è bene che tutti siano preparati.»
Silar si dondolò per un istante sul posto, poi scattò all'indietro e chiuse rapidamente la pesante porta di legno della stanza, isolando la loro chiacchierata al resto del mondo. Trascinò una poltroncina sul pavimento con la magia mentre i battenti si sigillavano tra loro, poi prese posto accanto al capo delle guardie e non smise neanche per un secondo di squadrarlo con serietà. «Non avevamo deciso che lui da solo non era una minaccia?»
Nekkis si grattò la nuca e fece una smorfia desolata. «Tu», sottolineò, «Avevi detto che era un pedone inutile, se non ricordo male.»
«Concordavi.»
«Diciamo che ho riesaminato la cronologia dei rapporti su di loro, anche quelli non ufficiali, e credo che non sia poi così innocuo...»
«Per questo credi anche che tornerà qui tra qualche giorno?»
La guardia fece spallucce. «Rimane pur sempre una creatura magica, sei settimane tra gli umani stanno per scadere.»
Silar stese due dita verso il manifesto arrotolato nell'angolino e questo venne sollevato in aria, fluttuando sopra le loro teste fino a raggiungere le sue mani. Lo srotolò di nuovo e fissò il contenuto per la terza volta in quella mattinata caotica. Nehroi Krajal Junior squadrava l'osservatore con l'espressione dura e al tempo stesso beffarda che i disegnatori della divisione di identificatori del corpo delle guardie erano riusciti a catturare negli anni; sopra i ricci ribelli e sotto le larghe spalle c'era il messaggio di avvertimento e la taglia in Stelle che Nekkis aveva deciso.
«Hai pure abbassato la ricompensa», mormorò Silar con vago disappunto. «Se è tanto una minaccia, perché...»
«Non lo è», lo interruppe Nekkis sottraendogli il manifesto. «Te l'ho detto, ho fatto i compiti a casa.»
Si allungò sul tavolo, sporgendosi per recuperare un piccolo plico di fogli legati tra loro con uno spago e un fiocco malandato, poi tornò a sedere e lo soppesò, indeciso se sciogliere il nodo e porgere il tutto al Capo oppure no. «Ricordi... il Giorno Nero?»
Silar annuì serio. «Sai che non mi piace chiamarlo così», commentò.
«No, giusto. In effetti gli storici hanno sempre una visione distorta della realtà quando non sono presenti e devono comunque dare nomi a fatti importanti... immagino che per la scomparsa di tuo nonno vorrai chiamarlo il Giorno Bianco o qualcosa di più appropriato, giusto? Io lo chiamo l'Esplosione. Molte cose sono esplose quel giorno... tra cui la porta della biblioteca al quarto piano, ricordi?»
Nekkis strinse le dita attorno al plico di fogli e sospirò brevemente. «Questo è un manoscritto, una copia del volume che hanno rubato i Fein Anis, l'unica che sono riuscito a recuperare in tutta Ataklur dopo lunghe ricerche e un lavoro decisamente impegnativo. Gli archivisti dovrebbero tenere più in ordine quel posto.»
«Ti lamenti sempre del lavoro degli altri o è solo un'occasionale luna storta?», domandò Silar con un vago sorrisetto. Scosse la testa e tese la mano verso il manoscritto. «Cosa hanno trafugato, quindi? L'hai letto?», domandò tornando serio.
Nekkis annuì. «E non ti piacerà sapere di che parla. O meglio, ti stupirà.»
Passò le dita sul nodo dello spago ma non lo sciolse. «In realtà credo sia inattuabile e ho passato fin troppo tempo a chiedermi che senso avesse avuto trafugarlo...»
Silar sbuffò e gli strappò il manoscritto dalle dita, togliendo lo spago in meno di un secondo. Scorse rapidamente il primo foglio, una specie di noiosa introduzione, poi lo voltò e lesse il titolo. I suoi occhi si spalancarono per un momento. “Vedàsio” era scritto a chiare e grandi lettere in cima al primo capitolo della leggenda dimenticata. Il giovane Capo sussurrò il nome di quel protagonista mitologico, tra i primi che la popolazione dei jiin creò per narrare le regole del loro nuovo mondo dopo che il Creatore divise Ataklur dal mondo degli umani, e l'antichità di quella storia che neanche suo nonno ricordava in ogni dettaglio lo travolse con la potenza dei secoli passati.
«Non è la più popolare delle storie», commentò piccato mentre sfogliava quasi con reverenza quelle pagine preziose.
Nekkis tamburellò le dita sul tavolo producendo un fastidioso ticchettio che si diffuse nella stanza silenziosa assieme al frusciare delle pagine. «Probabilmente neanche la metà della metà della popolazione conosce quel nome, ma in qualche modo i Fein Anis sì. Da quando ho rispolverato le mie conoscenze su questa leggenda non ho fatto altro che chiedermi cosa volessero farsene quei due disgraziati... da non dormirci la notte, credimi. Ho iniziato a lavorare alle connessioni possibili tra tutti i pezzi del puzzle che Savannah e Nehroi mi avevano gettato sul tavolo, ma per settimane non sono neanche riuscito ad intravedere il disegno generale. Non aveva alcun senso.
Poi è arrivata la notizia del loro ritorno e ho focalizzato le mie energie sulla loro ricerca, incrementando il sistema di rilevatori in tutto il regno e smuovendo ogni uomo a disposizione. Volevo avere un faccia a faccia con loro, non hai idea di quanto fremessi per poterli incontrare di nuovo e spremerli fino in fondo per capire come ragionassero i loro cervellini malati. Dopo di che mi è stato riferito che stavano entrando nel deserto e... beh, non potevo crederci. Era il passo più ovvio che potessero fare, per non dire il più pericoloso e anche stupido: con tutte le guardie di Ataklur sulle loro tracce dove sono andati? A casa, assurdo. Non potevo crederci, non potevo credere ai rapporti che mi inviavano i comandanti. Poi è andata com'è andata e hanno lasciato andare Nehroi, ma le domande non hanno lasciato me.»
Nekkis spostò rumorosamente indietro la poltroncina e si alzò in piedi, intrecciando le mani dietro la schiena ed incurvandosi un poco verso il pavimento, come se volesse contare le piastrelle. Silar lo seguì con lo sguardo smettendo di sfogliare il manoscritto.
«Ne sei ossessionato», commentò prestando attenzione per la prima volta ai fogli che stava leggendo il capo delle guardie prima che lo interrompesse. Non c'era pagina che non riportasse almeno una volta il nome di uno o di entrambi i fratello Krajal.
«Vedàsio è il personaggio che gli antichi jiin hanno inventato per spiegare Mjoklur», proseguì Nekkis mentre lasciava vagare lo sguardo tra i quadri appesi sulle pareti, soffocandole. «In pratica muore e si ritrova nel Regno dei Morti, lontano dall'amata. Cerca di uscirne, fa per tornare indietro ma tutto ciò che riesce ad ottenere è una visione grama della vita che prosegue senza di lui, perché non fa più parte dei Vivi.»
Silar ridacchiò e valutò l'altezza del manoscritto che aveva appena posato sul tavolo. «Hai decisamente il dono della sintesi», notò ironico.
La guardia fu tentato di alzare gli occhi al cielo ma evitò; si grattò invece la barba ispida che risaltava i tratti squadrati del viso e ridacchiò a sua volta. «Non avevo capito che volessi rimanere qui fino al calar del sole.»
«Scusami, continua.»
Nekkis si fermò di fronte ad un quadro quasi completamente nero, probabilmente l'interno di una grotta non meglio identificata. «Mi ero chiesto: hanno sempre evitato la scuola come la peste e ora, tutto ad un tratto, vogliono acculturarsi? Poi ho iniziato a guardare il disegno dall'alto, come si dice spesso, e ho notato qualcosa di... particolare. I pezzi iniziavano ad avere qualcosa che li faceva avvicinare l'uno all'altro... non dico che combaciassero ma almeno iniziavano a sembrare dello stesso puzzle.»
Spostò lo sguardo alla destra di quella grotta anonima e i suoi occhi incrociarono le vette altissime di Lagireth, in uno scorcio molto artistico catturato al tramonto. Il cielo rosa e arancione spezzava le cime acuminate delle montagne come uno squarcio coloratissimo, quasi fluorescente.
«Anche se Savannah ormai è morta, credo che neanche Nehroi sia da sottovalutare. Quel libro potrebbe avergli dato lo spunto per riportarla indietro.»
Silar scattò in piedi come una molla, rovesciando la poltroncina all'indietro; smise per qualche secondo di respirare, mentre i suoi occhi saettavano verso la guardia che gli dava le spalle e che sorrideva nell'ombra. «Hai prove di ciò che dici?», domandò con anomala serenità, come se volesse sfidare Heim in diplomazia.
Nekkis sollevò le spalle desolato. «È un caso che abbiano trafugato il libro proprio il giorno dopo aver avuto conferma che i loro genitori erano morti e non solo “altrove”? Probabilmente il piano iniziale era rivolto a loro.»
«E quindi adesso pensi che Nehroi riciclerà il progetto per la sorella», concluse Silar rilassando un poco la fronte. L'idea era assurda ma, in qualche malsano modo, non troppo impossibile.
Nekkis si voltò verso il Capo e lo squadrò interessato. «Non sei molto sconvolto o sbaglio?», domandò attento. «E perché prima eri così arrabbiato con me per il manifesto? Sei interessato al ragazzo?»
Silar inclinò la testa su un lato e sorrise, il suo solito sorriso che poteva voler dire tutto o anche niente. «Nehroi è un brehkisth, ricordalo. E il mio interesse era solo per Decra, non voglio che abbia altre complicazioni dopo l'ultimo attacco.»
Nekkis sbuffò scocciato. «Quella donna si è scordata come si fa il Capo», sibilò con irritazione. «Non dovresti preoccuparti per lei, se è troppo sentimentale verso i fuorilegge è un problema suo!»
«Sai che Olus è sempre dalla sua parte, mi fa pressione perché non le creiamo altri problemi. Se succede qualcosa a Nehroi andrà ancora in depressione, lui se la prenderà con me perché non ti ho detto nulla, Heim ricomincerà a dire che è già stato punito e che merita di essere lasciato tranquillo e alla fine tu dovrai fare i conti con tutti quanti. Dopo la spaccatura con Chawia non possiamo permetterci di essere divisi, lo sai bene.»
«Almeno Hartis mi appoggia», commentò Aner con blanda soddisfazione.
Silar scosse la testa e sorrise derisorio. «Hartis è pazza.»
Stavano per congedarsi, tornando ognuno al proprio lavoro con le proprie scartoffie da affrontare quando Silar si soffermò più del dovuto sulla soglia, pensieroso. «Posso avere il manoscritto?», domandò cortese.
Nekkis guardò il plico, di nuovo infiocchettato nello spago, ed alzò un sopracciglio. «Vuoi acculturarti su Mjoklur anche tu?»
Silar annuì brevemente mentre tirava le labbra in un sorriso malizioso che inquietò Nekkis.
«Sono solamente un tipo curioso, sai che mi piace sapere le cose.»
Il manoscritto iniziò a levitare verso il Capo e le sue dita bramose.
«C'è qualcosa che dovrei sapere anch'io?», domandò Nekkis corrugando un poco la fronte.
Il cigolio della porta rubò la sua risposta.


3
Fluo



La musica era ad un volume così alto che penetrava nei muri e si diffondeva anche all'esterno dell'edificio, un un soffuso e martellante ritmo che faceva tremare i vetri e scappare gli uccelli.
Ogni volta che una porta veniva aperta, torrenti di note elettroniche si riversavano all'esterno come se fossero state stipate troppo nella discoteca e non potessero far altro se non rotolare esauste fuori tra le auto e le nuvole di fumo dei clienti, addormentandosi sui parabrezza.
Nehroi si grattò il mento ed andò verso l'ingresso con passo deciso e baldanzoso, attento a non rovinare troppo le scarpe nella sporcizia che circondava l'intero isolato. Non aveva idea di quale guerra umana fosse appena finita o quale campionato di calcio fosse stato vinto, ma tutta la città era esultante e in festa; forse lo era l'intera nazione, ma al brehkisth non importava affatto.
Entrò ed iniziò subito la sua ricerca tra la folla, assottigliando gli occhi e cercando di non farsi distrarre dalla musica che gli trapanava i timpani.
«Due mojito», ordinò al barista con disinvoltura sovrastando senza problemi il frastuono. Ammiccò in direzione di un gruppo di ragazzine dall'altra parte del bancone e sorrise nel vederle agitarsi per così poco. «E offri un giro anche a loro», aggiunse. Sul suo petto un ciondolo dall'aria antica e rovinata brillava con i colori fluo della palla da discoteca che gli ruotava sopra la testa e il viso del barista venne illuminato di rimando.
Terminò rapidamente il drink e glielo porse con disinvoltura, come se lo stesse semplicemente appoggiando sul bancone e non lo stesse affatto vendendo, senza chiedere neanche un euro in cambio.
Nehroi afferrò i due bicchieri e si avvicinò al salottino privato della discoteca, il punto d'incontro per ottenere ciò che voleva.
«Ehi», disse al buttafuori che regolava l'ingresso alla stanzetta nascosta dalle tendine viola.
Continuò a camminare senza fermarsi ma l''uomo lo fermò prima che potesse mettere un piede oltre i veli.
«Solo ragazze o ragazzi accompagnati da ragazze», intimò con voce seria tanto seria da farlo sembrare un robot. Il cordoncino di plastica trasparente che gli sporgeva dall'orecchio confermava l'ipotesi, ma Nehroi non si lasciò spaventare.
«Una ragazza? Ma certo...»
Strinse i due bicchieri ed allargò un gomito come a voler fare un cenno a qualcuno, ma non toccò nessuno. «Annah?», disse voltandosi, ma si morse la lingua e le spalle tornarono a pesargli come macigni.
Socchiuse gli occhi, il respiro gli si mozzò per un attimo, poi mascherò la sua desolazione con un sorrisetto beffardo e tornò all'uomo. Si guardò attorno furtivo, poi si raddrizzò sulla schiena per esibire meglio il suo ciondolo. «La mia ragazza è già dentro», gli disse sicuro. «Fammi entrare.»
Il buttafuori alzò un sopracciglio e lo squadrò con aria sufficiente. Alzò gli occhi al cielo e fece per cacciarlo via, poi si bloccò per un attimo, come se avesse ricevuto un'illuminazione. Scostò le tendine invitandolo ad entrare un istante dopo.
Nehroi fece un ingresso spavaldo ed individuò subito chi stava cercando, l'unico motivo per cui era in quel locale. «Beatriz», la salutò mettendole il drink sotto al naso, rubandole un minuscolo sorriso. La donna aveva la pelle ambrata, una silouhette formosa e uno sguardo magnetico che da solo sarebbe bastato a definirla ammaliante. «Hola Nicolàs... mi hai fatto aspettare», disse sensuale.
Nehroi prese posto accanto a lei e le fece il baciamano con galanteria. La donna si sporse verso di lui e avvicinò le labbra rosse al suo orecchio, mentre controllava guardinga che nessuno li stesse osservando. «E il tuo amico?», domandò in un caldo sussurro.
«La festa non può iniziare senza di lui, giusto?»
Il brehkisth sorseggiò il suo drink e schioccò la lingua sul palato con soddisfazione. Fece per alzarsi, ma sfruttò il movimento solo per avvicinarsi a sua volta all'affascinante spagnola. «Chiama le tue ragazze», le disse.
Con un lieve movimento delle dita, lo schermo del cellulare della donna si illuminò e un messaggio venne mandato immediatamente. Beatriz sorrise nella luce ora verde della discoteca, con il ritmo della musica che le pulsava nel petto come un secondo cuore. Nehroi strinse le labbra, guardando con nervosismo la lancetta dei minuti che iniziava a fare troppi scatti in avanti, poi alzò gli occhi e finalmente vide il gruppetto di giovani clienti, portafogli in mano, pronte a sballare.
«Benissimo», disse tra sé e sé quando l'energumeno all'ingresso ebbe finito di farle entrare. Estrasse il suo cellulare e imitò la mossa di Beatriz, illuminando uno schermo simile.
«Scott?», disse una voce alle sue spalle, sbirciando sul display. Nehroi sussultò per un istante, ma collegò subito dopo a chi appartenesse ed alzò gli occhi al cielo.
«Un nome davvero innocente per uno che taglia droga ai disperati», proseguì l'altro con naturalezza.
«Fatti un giro», lo cacciò senza neanche voltarsi. Premette “Invia” senza curarsi della presenza alle sue spalle, rassicurando con qualche sguardo il suo giovane pubblico, strappando qualche sorriso.
«Non ti interessa sapere come ti ho trovato, stavolta?», proseguì l'uomo nell'ombra. «O come sono entrato in questo salottino senza accompagnatrice...»
Nehroi sbuffò e alzò una mano per scacciarlo come se fosse una mosca fastidiosa che lo distraeva con il suo inutile ronzio.
Sentì che l'uomo aveva alzato un braccio e qualcosa aveva fatto riflettere la luce rosa della palla della discoteca sui volti delle ragazze, trasformandoli da rasserenati a terrorizzati. Il brehkisth si voltò incuriosito e si ritrovò un distintivo della polizia, dorato e scintillante, a meno di tre centimetri dal naso. Ridacchiò e lo allontanò con la mano. «Ma dai, e questo da dove l'hai pescato?», lo derise spavaldo un attimo prima di preoccuparsi della reazione opposta che aveva avuto il suo gruppetto. Si alzò in piedi per cercare di sdrammatizzare e tranquillizzarle ma ormai il danno era fatto: ad una ad una le ragazze saettarono via dal privè e si dispersero inevitabilmente nella folla di umani che si muoveva a ritmo di musica elettronica. «È falso, non è un vero poliziotto!», urlò Nehroi cercando di farsi sentire dall'ultima ragazza del gruppo, Beatriz, un istante prima che sparisse con il disprezzo negli occhi. Lo lasciò solo al tavolo, due mojito intatti di fronte a sgabelli vuoti e ribaltati, con un damerino biondo come unica compagnia.
«Credevo avessi smesso di farmi da babysitter.»
Phil si guardò attorno soddisfatto e si strinse nelle spalle. «Diciamo che ormai mi viene naturale», si limitò a dire.
Ripose il falso distintivo nel taschino interno della giacca, poi spostò una sedia, una di quelle appena liberate dalle ragazze scappate, e vi si sedette sistemando con una mano la coda della giacca scura per non stropicciarla. Il brehkisth stava sudando freddo cercando le parole giuste per inviare un contro-ordine a Scott ed evitare che arrivasse in un privè deserto. «Te la farò pagare», sibilò velenoso mentre sudava freddo.
Phil lo guardò radioso, scoccandogli un sorriso contento che fece venire il mal di stomaco al ragazzo.
«Mi sento appagato, ho appena salvato una decina di fanciulle dall'oblio della polverina bianca e finalmente sono seduto di fronte a te», commentò l'umano senza smettere l'espressione serafica.
Nehroi lo squadrò e non riuscì a provare altro che odio e irritazione. Che diritto aveva Mayson di infiltrarsi così nella sua vita? Gli aveva detto addio due mesi prima, eppure da una decina di giorni che se lo ritrovava costantemente in mezzo ai piedi, partendo dal pianerottolo di casa sua fino al placcaggio in strada. Mercoledì gli aveva lanciato un cestino dell'immondizia addosso per imprimergli bene in testa il concetto ma a quanto pare non era bastato. «Cosa devo fare per farti capire che voglio essere lasciato in pace?», sputò nervoso raccogliendo il suo sgabello e pulendo la pelle nera prima di sedervici su.
Phil fece spallucce e rilassò la postura allungando le gambe. «Sono qui per chiederti scusa», disse. La sua voce era ferma e decisa, ma a causa della musica a Nehroi suonò strana. Diversa da quella del solito Phil. «Non mi immischierò più, promesso. Volevo solo ricordarti che ormai sta per scadere il tuo tempo qui e...»
Sfiorò la tasca esterna della borsa da lavoro che aveva ai suoi piedi, la versione più pratica di una noiosa ventiquattr'ore. «Ho anche un'offerta di pace», disse sicuro.
«Io non tornerò mai più ad Ataklur.»
L'ex-consigliere saettò le iridi marroni in cerca di quelle del ragazzo e, quando le incrociò, deglutì preso alla sprovvista da quello sguardo chiaro e serio. L'impressione che Nehroi fosse invecchiato all'improvviso dopo la morte di Savannah si fece nuovamente largo in lui, facendolo sentire ingiustamente più giovane.
Gli schiamazzi della massa informe che dondolava cercando di seguire il ritmo martellante di un pezzo che non smetteva di ripetersi all'infinito gli fecero portare due dita alle tempie. Abbassò lo sguardo sul mojito poco distante da lui e lo afferrò, poi tolse la cannuccia e ne prese un lungo sorso.
«Sicuro?», gli domandò mentre asciugava la bocca con un dito. «Non dico che non capisca la tua scelta ma... se vuoi continuare ad usare oggettini magici come quella patacca che hai al collo...»
Nehroi corrugò la fronte e soffiò dal naso, divertito. «Patacca?», esclamò offeso. Afferrò il suo mojito e imitò l'umano senza battere ciglio, poi afferrò il suo prezioso con due dita e lo espose meglio sotto la luce bluastra della discoteca.
«Davvero? Credi che non funzioni, sapientone?», lo sfidò Nehroi emanando alcol tra loro.
Phil incrociò le braccia al petto e si scrocchiò il collo con tranquillità. «Obbligami», disse provocante, «Obbligami a fare qualcosa.»
Il brehkisth si appoggiò al tavolino con una mano e catalizzò la sua decisione in uno sguardo perforante che saettò dagli occhi smeraldini come un fulmine. «Vattene», disse deciso.
Phil non mosse un muscolo.
«Vattene», riprovò. «Sparisci, esci di qui, dileguati, torna da dove sei venuto! … non voglio vederti mai più», aggiunse infine, come se gli fosse appena venuto in mente un altro modo per esprimere il concetto.
Gli unici muscoli che l'umano mosse furono quelli del viso, contraendoli in un ghigno. «Stai perdendo la tua magia, genio», gli fece notare con superiorità. «Quel talismano adesso funziona quanto una collana per bambine, di quelle in plastica rosa che regalano con le bambole o con le riviste del cuore.»
Nehroi rimase di sale e borbottò qualcosa, perdendo colore sul viso. Le sue mani strinsero con forza il bordo del tavolino, come se gli fosse mancato il terreno sotto ai piedi e vi si stesse aggrappando temendo di cadere.
«Devi tornare indietro, o diventerai del tutto un umano.»
«Ma il barista prima... ha obbedito...»
Phil ridacchiò e si sdraiò sullo schienale con fare vittorioso e sicuro di sé. «Tranquillo, avrà modo di farti avere il conto da pagare... non è gente che scorda.»
«E il buttafuori del privè...»
«Quello l'ho dovuto pagare subito, e non è stato molto economico, ma dovevo osservarti meglio e senza insospettirti. Sai, tu puoi essere esperto quanto vuoi di oggetti magici e dintorni, ma... qui, nel mio mondo», indicò la tasca in cui aveva riposto il finto distintivo, «I veri talismani del potere sono altri.»
Il brehkisth si morse un labbro e staccò la presa, gettandosi contro lo schienale con forza. Incrociò le braccia al petto come l'umano, ma con più forza, come se non volesse più districarle.
«Io di là non ci torno», mugugnò.
Phil sospirò. «Okay.»
Nehroi voltò la testa con uno scatto e lo fissò stupito.
«Che c'è?», domandò l'altro.
«Ti arrendi così?»
L'umano fece spallucce e fece un cenno alla cameriera, indicando con un dito il suo bicchiere vuoto.
«Te l'ho detto, sono qui per chiederti scusa per averci provato. Se non vuoi, non vuoi. Mica posso trascinarti ad Ataklur come un bambino... anche se dovrei farlo, dato che sono il tuo babysitter, giusto?»
Nehroi ridacchiò e tornò a posare altrove il suo sguardo, senza mai soffermarsi su un punto preciso della discoteca. Si sentiva molto sollevato nel sapere che non sarebbe stato costretto a seguirlo da nessuna parte e che non avrebbe dovuto lottare per non farlo.
La cameriera arrivò al loro tavolino con passi rapidi e fluidi e portò via i due bicchieri, sostituendoli con altri pieni. La luce fluorescente rosa illuminò la sua targhetta e il nome abbagliò Nehroi per un attimo, ma non riuscì a leggere nulla. La donna era tanto concentrata nel non far cadere i bicchieri da avere una strana smorfia sul viso e non degnò i due uomini neanche di uno sguardo prima di sparire, lasciando il brehkisth lievemente piccato.
«Sai, pensavo di arruolarmi», esordì dopo un po', mentre pugnalava il ghiaccio con la cannuccia.
Phil gli lanciò un'occhiata allibita da sopra il lime che spuntava dal suo bicchiere. Si schiarì la voce con un colpetto di tosse che mascherava lo sbigottimento. «Nell'esercito?»
Nehroi annuì e bevve un sorso.
«Per poterti sfogare e appagare il senso di vendetta e frustrazione, autorizzato ad usare armi di ogni genere e ad uccidere?»
Nehroi si strozzò e lo guardò offeso, ma Phil aveva un'espressione troppo seria per poter stare scherzando.
«Tu non vuoi servire il tuo paese», si limitò a dire l'umano. «Non ce l'hai neanche, un paese, inutile fingere. Vuoi solamente violenza gratuita, forse anche uno scopo.»
«E se fosse?», abbaiò il brehkisth irritato.
«Niente. Anzi, sai che ti dico? Penso sia un'ottima idea, ti terrà occupato ed è sicuramente formativa e utile... sì, va bene», risolse infine appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Ti aiuterò.»
Nehroi tirò le labbra in un breve e pallido sorriso, annuendo per la vittoria.
«Un brindisi?», propose Phil.
Il brehkisth alzò gli occhi al cielo ed evitò di guardarlo. «Non brinderò mai con te», soffiò nervosamente.
Dopo mezzo secondo di stacco, nell'aria calda e caotica del locale si diffusero le prime note di un pezzo che al ragazzo piaceva molto. Molti lo ballavano senza capire cosa significasse realmente, anche perché la musica rubava molte parole al cantante, ma niente era nascosto a chi poteva capire magicamente comprendere ogni lingua umana. Nehroi iniziò a dondolare lievemente la testa avanti e indietro, tenendo il tempo. Ascoltò le parole e si sorprese nel non riuscire più a coglierne il significato. Alzò lo sguardo verso Phil, intento ad asciugarsi con un fazzoletto qualche goccia di drink che gli era caduta sui pantaloni scuri, e improvvisamente si rese conto che aveva ragione: la magia stava svanendo in lui.
«Cosa?», domandò l'umano non appena si accorse che lo stava osservando.
Nehroi scosse la testa. «Niente», liquidò rapido.
«Una cosa da chiedere ce l'ho io, se non ti dispiace», proseguì Phil prendendo la palla al balzo. «Puoi spiegarmi esattamente che lavoro stavi facendo prima?»
Nehroi scosse la testa e ridacchiò. «Pagavo le bollette», rispose prontamente. Prese la sua fetta di lime e la lanciò contro il muro, seguendone la scia lasciata fino al pavimento.
«Intermediario dello spacciatore?», ipotizzò Phil per nulla disturbato da quell'attività. «Una cosa del tipo che tu metti la faccia al posto suo e lo fai venire solo quando è sicuro che ci sia un affare in porto?»
Nehroi si sporse rapidamente sul tavolo, accorciando in un istante la distanza tra loro. «Si può sapere che vuoi da me?», ringhiò il ragazzo a muso duro. «Sto solamente cercando di andare avanti, perché ti interessa tanto quello che faccio?»
Phil alzò una mano e fece cenno alla cameriera di prima di portare altri due bicchieri. «Non è che mi interessi perché sono impiccione o che non abbia altro da fare», rispose nel frattempo.
Nehroi fece una smorfia. «Nessuno potrebbe mai pensarlo... mai...»
«Spiritoso. Non posso essere solamente un amico che si preoccupa per te?»
I bicchieri fecero un sonoro “tonk” quando vennero posati sul tavolino, facendo tintinnare il ghiaccio in quelli vuoti. Phil infilò due dita nell'altra tasca interna della giacca e ne estrasse un rotolino di banconote. Iniziò a contarle senza problemi, poi pagò la cameriera donandole anche un occhiolino e sollevò il suo bicchiere tentando di nuovo un brindisi. «A te che vai avanti», disse quasi beffardo. Nehroi lo guardò truce.
Phil annuì comprensivo. «E a me che ti lascerò in pace, giusto», aggiunse. «Non mi concedi neanche questo?»
E finalmente, dopo vari secondi di indecisione, anche sul viso del brehkisth venne tirato un sorriso, un'espressione sul confine del beffardo e dello strafottente. Sollevò il suo bicchiere, gli fece toccare quello dell'umano e poi altro alcol iniziò a fluire nelle sue vene.

La cameriera accorse a passi rapidi poco dopo, cercando di non dare nell'occhio. Il brehkisth stava iniziando a dondolare pericolosamente sul suo sgabello e Phil lo sorreggeva tenendogli le spalle come se lo stesse abbracciando. «Finalmente», disse la ragazza quando arrivò. Il suo viso si stropicciò in una smorfia addolorata e Phil si voltò apprensivo verso di lei, posandole una mano sulla spalla. Le lanciò un'occhiata apprensiva ma lei scosse la testa e strinse i denti.
Phil annuì rincuorato e soddisfatto. «Questa è la mia Jenna».
Si posizionarono uno alla sua destra e l'altra alla sua sinistra, mettendosi un braccio sulle spalle per cercare di tenerlo in piedi. Non era facile per nessuno dei due: come se non bastasse la mole di Nehroi, Jenna doveva fare i conti con la maledizione che le bruciava il corpo e Phil doveva fare attenzione a non far cadere la sua preziosa valigetta.
Lo trascinarono fuori dal locale passando da un'uscita di servizio della postazione degli alcolici, accompagnati solo dalla musica che sembrava voler fuggire con loro non appena la porta si aprì.
Una ventata d'aria fresca li fece rabbrividire ma non rallentare.
«Poi mi dirai perché questo maciste che stiamo... ma non potevi chiedere aiuto allo zio?», protestò la donna non appena si rese conto di quanto fosse lontana la macchina. «Dannazione, la sua maledizione è davvero...»
«Chi mai avrebbe creduto che un omone barbuto come lui fosse un cameriere adatto per l'affollatissima discoteca?», rispose Phil ignorando la seconda parte delle lamentele della cugina, sovrastandole. «Avrebbe buttato a terra tutti dopo tre passi, non credi?»
Il fuoristrada grigio svettava tra le altre macchine parcheggiate, ad una ventina di metri da loro, ma a Jenna sembrava lontana chilometri. Sbuffò e strinse ancora di più i denti.
«Te l'avevo detto che non sarebbe crollato in fretta», disse Phil tutto ad un tratto, rompendo il rumore attutito della discoteca che stavano aggirando.
«Tranquillo, l'importante è che ti sei affidato alla persona giusta. Quando ha lanciato il lime ho temuto che avesse capito la differenza di drink ma... nessuno può resistere ad una barista professionista come me!»
L'umano ridacchiò e si fermò un istante per sistemarsi meglio il braccio di Nehroi dietro il collo. «Soprattutto se è anche una jiin.»
Il portellone del bagagliaio si alzò automaticamente come ordinato dal telecomando stretto nella mano di Phil e un ampio spazio accolse il corpo privo di sensi di Nehroi. Un po' per la stanchezza, un po' per la fretta e un po' per l'esasperazione per il contatto con la maledizione, l'operazione sembrò più un lancio sgraziato che il deposito di una persona, ma nessuno dei due ci fece caso.
Jenna saettò a diversi metri di distanza non appena ebbe sciolto la presa sul brehkisth e si piegò sulle ginocchia a riprendere fiato. «Sei stata bravissima», si congratulò Phil una volta chiuso il bagagliaio. «Per quel che vale, più brava di tutti i Capi messi assieme.»
Jenna si asciugò la fronte col dorso della mano e sorrise. «Ci mancherebbe. E ora muoviti, non vedo l'ora di vedere quel fuorilegge assicurato alla giustizia di Ataklur.»


*°*°*°*


Quanto tempo, nè? ^^ Per scrivere questa intrusione in discoteca mi sono ispirata principalmente grazie ad una canzone che ho piazzato nelle mie orecchie a ripetizione, del cui testo mi sono anche innamorata. Trovo che sia adatto per il nostro Neh, che dite? --> Wake me up
In realtà non ero sicura di voler aggiungere anche il pezzo iniziale tra Silar e Nekkis ma, secondo il motto "se non ora, quando?", non sapevo dove altro infilarlo visto che è precedente al ritorno di Nehroi ad Ataklur (un grandiooooso ritorno, ve lo concedo xD) !
Quante cose sono successe in questo capitolo? Troppe! Ovvio! Non aggiornando per un mese intero e avendo nel frattempo illuminazioni a tutto spiano! In realtà, come per gli altri capitoli da qui al nonmiricordoquale, era già stato scritto ma per metà.
Tutta la cosa delle ragazze nel privè era un dubbio grande quanto una casa, immaginavo la scena ma non sapevo come metterla per iscritto. Poi mi sono immaginata Phil detective e bam! Ecco la svolta.
Ah, scommetto che nessuno si ricordava già più della cugina barista di Phil... sì, sì, adesso direte che no, ma certo che ve la ricordate... ma io so che non è vero ^.-

Che altro dire? Di cose ne ho già dette parecchie io, quindi a voi la parola! :D
Ciao!

Shark

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Capitolo 3
*** Non il solito Trio (4) + In Marcia (5) ***


Attenzione: in questo capitolo sono presenti due capitoli. Scusate il disagio, ho confuso e sbagliato a portarli ^^"


4
Non il solito Trio



Ci mise un po' a svegliarsi, la testa tra le mani che faceva tanto male da pensare che sarebbe finita in pezzi se non l'avesse tenuta stretta. Nehroi non aveva bisogno di aprire gli occhi per capire dove si trovasse: l'aria era sempre stata diversa nei due mondi, impossibile non distinguerle.
Sentì la rabbia, la frustrazione, l'impotenza e l'odio ribollirgli lungo tutto il corpo ancora accucciato a terra, proprio là dove si era ritrovato pochi minuti prima.
L'unica cosa che non riusciva a capire o a ricordare era il cosa avesse fatto per arrivare lì, nell'unico posto dell'universo in cui non avrebbe mai più voluto rimettere piede. Non appena tramutò il “cosa” in un “chi”, il quadro si fece più chiaro e Nehroi allentò la presa delle dita sulla testa, come se respirare e ragionare non fossero più dolorosi.
Aprì gli occhi e non vide altro che rocce, qualche cespuglio un po' mal ridotto dal vento e, tutt'attorno come un'immensa cornice scura, montagne. La temperatura era anche un po' più bassa del solito: erano ad alta quota, questo era certo, ma gli serviva più di un'occhiata a rasoterra per poter comprendere in quale regione fosse stato sbattuto.
Si alzò lentamente in piedi, realizzando che durante le ore che non ricordava -o i giorni, per quel che ne sapeva lui- aveva sbattuto da qualche parte. Quel dannato mano l'avrebbe pagata, stavolta, e molto cara.
Si massaggiò la spalla mentre continuava a scrutare l'ambiente attorno a sé e l'aria, più densa di quella degli umani, più densa, si insinuava di nuovo nei suoi polmoni.
Un rumore alla sua destra lo fece scattare e barcollò all'indietro quando si rilassò per un istante constatando che era solamente Phil. Collegò il suo viso tronfio con la serata in discoteca, il buio che ne era seguito e quell'indesiderato viaggio ad Ataklur. Tutte le sensazioni negative che si era sforzato di trattenere esondarono fuori dal suo corpo come un fiume in piena e Nehroi fece uno scatto felino verso l'umano, gli occhi iniettati di sangue.
«Che cos'hai fatto!», urlò a pieni polmoni, «CHE COS'HAI FATTO!»
Lo afferrò per la camicia e lo spinse con forza verso la parete rocciosa alle sue spalle, facendolo sbattere con così tanta irruenza che qualche sasso cadde giù e rotolò ai loro piedi.
«Ti ho... salvato la vi-», provò a rispondere l'umano, ma il brehkisth lo sbatté con ancora più violenza e picchiò la testa.
«Mi hai salvato la vita, eh? Davvero?!», sbraitò su tutte le furie. Per una attimo sembrò che gli volesse strappare la faccia a suon di pugni, ma non riuscì a non trattenersi. I suoi occhi, ad ogni modo, erano davvero infuocati. «Non mi serve il tuo aiuto!»
«Guardati!», gli urlò contro Phil, con la testa che pulsava come se stesse per esplodere. «Non ti rendi neanche conto delle tue condizioni! Sei sempre ubriaco, chissà da quanto tempo non dormi... e ti fai, anche!»
Nehroi non rispose ma non abbassò lo sguardo. Continuò a sostenerlo con durezza, anche se parte della sua convinzione vacillò non poco dietro gli occhi arrossati.
«No», disse solamente. La presa sull'uomo non diminuì e rimasero a parlare lì in piedi, uno che premeva contro la montagna l'altro, con pochi centimetri che separavano i loro visi adirati.
Phil ridacchiò e cercò di liberarsi, poi si arrese. «Hai gli occhi più rossi di uno con la congiuntivite», commentò tristemente, «E tiri sempre su con il naso come un tossico in astinenza.»
Le dita di Nehroi tremarono e solo in quel momento il brehkisth si accorse che quell'osservazione non era falsa.
«Ti vuoi suicidare?», domandò l'ex-consigliere senza un briciolo di ironia. Solo serietà, crudele, spietata, vera. Da giorni se la teneva dentro, cercando solamente il momento per sbattergliela in faccia prima che fosse troppo tardi.
Nehroi si inumidì le labbra e scosse la testa.
«Non l'ho mai voluto», rispose febbrile.
«Però non vuoi neanche sopravvivere.»
Si guardarono per un lungo minuto, poi Nehroi sospirò stanco e socchiuse brevemente gli occhi.
«Riapri il portale», ordinò.
«No.»
Per qualche secondo si fissarono in silenzio.
«Riapri il portale.»
«No.»
«Per favore?»
«Tu devi rimanere qui, è questo il tuo posto.»
Nehroi sentì il cuore battergli rapidissimo. Aveva la nausea al sol pensiero di dover stare ancora ad Ataklur. Aprì la bocca per dirglielo, ma ebbe paura di vomitare il suo rifiuto e strinse nuovamente le mani sulla camicia. Sbatté ancora Phil contro la parete rocciosa e recuperò tutte le sue energie per far montare di nuovo la rabbia in lui. «Non intendo rimanere... dove è morta», sibilò infuriato con gli occhi arrossati ridotti a due fessure.
«Io non ti lascerò morire, fattene una ragione. E poi non devi per forza stare a Feinreth», commentò l'umano con meno calma del dovuto. Sfiorò la testa con due dita e sentì riaffiorare il dolore che si era placato per qualche istante. «Ma devi restare qui e respirare la magia...»
«Perché!», sbraitò il ragazzo. «Perché? Non ho magia, non mi serve! Sono pronto a vivere senza!»
«Come ti sei sentito?», domandò invece l'umano, ignorando le proteste che gli venivano sputate in faccia. «Come ti sei sentito quando ti sei svegliato qui? Sollevato? Contento?»
«Abbattuto», disse Nehroi senza pensare. Poi allentò la presa e ci ragionò su un attimo. Che senso aveva quella domanda?
«Non ti sei sentito sollevato, contento, bene?», riprese Phil. Il dolore alla testa era simile ad un ago sottile e lungo che lo perforava dalla nuca.
Il brehkisth lasciò del tutto la presa e tornò a sentire la nausea crescergli dentro, arrampicandosi viscida man mano che si rendeva conto di dove volesse farlo arrivare l'uomo. «No», rispose in un sussurro spaventato.
Phil afferrò il suo passpartout ed aprì un portale laddove era stato sbattuto fino a poco prima. Alzò un braccio ed invitò il ragazzo ad entrare non appena il velo trasparente si fu disteso nella roccia, luminoso come sempre.
Nehroi lo fissò stralunato e sorpreso. «Metti anche solo la testa», gli disse Phil con determinazione. «Respira e poi dimmi.»
Il brehkisth, o quel che ne rimaneva, guardò il velo tra i mondi, bellissimo e vagamente ipnotico come se lo ricordava fin dalla prima volta che l'aveva visto. Gli tremarono le gambe e crollò a terra senza opporre resistenza, rimanendo sulle ginocchia come un burattino a cui si sono spezzati i fili. I suoi occhi ancora fissi sul portale luminoso. Parte di lui voleva disperatamente attraversarlo ma non c'era un muscolo che volesse accontentarla. La sua mente si perse in un vortice di domande e dubbi, ripiombando nell'oscurità dell'incertezza da cui credeva di essere ormai uscito. Un sapore amaro gli punzecchiò la lingua e per la sua mente confusa l'aria era tornata ad essere quella pesante e puzzolente di quell'appartamento che aveva devastato nei giorni di lutto più bui. Sotto le ginocchia non c'erano sassi ma i frammenti dei mille vetri che aveva distrutto ad ogni ora del giorno.
«Sai perché sto insistendo tanto?», domandò l'umano distraendolo, senza chiudere il portale.
Nehroi scosse la testa meccanicamente.
«Perché ti ho visto. Tu vuoi disperatamente perdere l'unica cosa che ancora ti lega a questo mondo, alla tua casa, alla tua vita... a lei. Ma sai cosa sono arrivato a pensare? Che lo vuoi perdere per arrivare un giorno a poter dire “non posso più tornare indietro”. Non vuoi realmente andare avanti, non vuoi cominciare una nuova vita. Tu vuoi... non poter fare altrimenti. Chissà, forse è una sorta di punizione? Non è colpa tua e tu lo sai.»
Nehroi sentì la bile risalirgli e reagì sputando per terra con disprezzo. «Vaffanculo», ringhiò. Si alzò in piedi e la sua grinta tornò. «Non sai niente.»
Phil fece spallucce ed annuì. «Ma certo, meglio l'autocommiserazione, giusto. Come ho fatto a non pensarci?»
«Parli di cose che non...»
«Faccio parte del gruppo, ricordi? Mi avete accettato. E credevo che le regole fossero...»
«Non c'è più un gruppo», sibilò velenoso mentre stringeva i pugni.
«Ma noi siamo in due e...»
Nehroi azzerò la distanza tra loro e lo afferrò nuovamente per la camicia, disprezzando come mai prima di allora quell'indumento così asettico, serio, inadeguato e disgustosamente candido. «Non c'è più», scandì con la furia negli occhi, «Un gruppo.»
Phil sostenne lo sguardo con altrettanta durezza. «Quindi la vuoi davvero abbandonare», concluse.
Il brehkisth non smise si fissarlo ma non rispose.
«Non ti facevo così vigliacco.»
Un gancio ben assestato gli arrivò sulla mascella e Phil venne sbalzato verso destra ma la presa ferrea del brehkisth, forte del suo fisico robusto, non lo lasciò cadere. Un secondo pugno seguì il primo, poi un terzo. L'ultimo venne diretto sull'addome e fu solo allora che Nehroi lasciò cadere l'umano, permettendogli di afflosciarsi a terra senza opporre resistenza.
Si tolse la giacca, il bell'investimento che gli aveva permesso di sembrare più idoneo per certi locali, e anche la camicia, senza preoccuparsi dei bottoni che rotolavano tra i sassi.
«Laggiù», sentì dire alle sue spalle.
Si voltò verso Phil e solo in quel momento si rese conto di quali danni la sua rabbia cieca avessero portato all'umano. Nonostante il viso coperto di sangue, il naso storto e l'espressione affaticata, gli stava indicando una valigetta poco distante, incastrata tra due macigni.
Nehroi la raggiunse non senza un certo timore e la estrasse cercando di non rovinarla come ogni cosa che toccava. La aprì e rimase stupito di ciò che vedeva. Si voltò verso Phil con gli occhi sgranati.
«Ho pensato che avresti apprezzato», bofonchiò l'umano sputando un misto di saliva e sangue mentre si tastava la mascella.
Nehroi estrasse i suoi jeans e la sua felpa preferita dalla borsa con una certa riverenza. Era come se stesse vedendo dei vecchi amici che non credeva avrebbe mai più sfiorato.
«Meglio delle stupide divise da pseudo-damerino, giusto?», proseguì l'uomo alle sue spalle. «Il portale è ancora aperto se non sei interessato a restare. Sappi però che io andrò avanti, con o senza di te.»
Nehroi rise di gusto mentre lo guardava rialzarsi aggrappandosi alla roccia. «Tu?», disse sprezzante.
Il portale era ancora aperto, ma improvvisamente quel che celava non era più così attraente. «Dove li hai presi?», domandò.
«Dove li avevi lasciati. Al penitenziario. Allora, vuoi andartene?», disse Phil indicando il velo accanto a sé.
Nehroi si morse il labbro inferiore e sembrò in preda a mille ragionamenti contorti e confusi.
L'umano ridacchiò brevemente catturando la sua attenzione. «Fai in fretta, però, mi si sta scaricando la Stella...»
«Mi hai pedinato, drogato, sbatacchiato, trascinato qui con la forza e ora vuoi pure mettermi pressione?»
Phil sorrise malamente. «Non c'è di che, amico.»
Nehroi strinse la sua felpa tra le dita e improvvisamente sentì più freddo al torso nudo, come se l'indumento volesse essere indossato a tutti i costi. «Sarebbe questa la tua offerta di pace? Quella di cui parlavi in discoteca?»
«No», rispose subito Phil, con naturalezza. «È un assaggio. Quella vera te la darò solo se dimostrerai che la vuoi veramente.»
«Intendi... se voglio veramente andare a riprendere mia sorella.»
«Certo.»
Nehroi scosse la testa desolato e rimise la felpa nella valigia, stipandola con forza. «Ehi, che fai?», esclamò Phil allarmato.
«Non la troveremo mai, Mayson. È impossibile.»
Phil lo raggiunse di corsa, rischiando più volte di inciampare e di rompersi qualche osso. Nel suo sguardo c'era una fermezza e una sincerità d'animo che scombussolarono il brehkisth. Gli afferrò il braccio con forza con una mano e con l'altra gli porse i vestiti. «Noi possiamo farcela, Nehroi», disse con sfolgorante fiducia. «Me lo sento!»
Nehroi lo fissò intensamente per un lungo minuto. Guardò poi i vestiti, di nuovo Phil, infine il contenuto ancora ignoto della valigetta. Sospirò ed annuì, non senza una certa stanchezza.
«Un brehkist semi-umano ricercato e un inutile umano. La squadra perfetta», commentò sarcastico mentre si infilava la sua felpa azzurra col cappuccio ocra. Gli diede le spalle e si mise ad armeggiare con la cintura di pelle lucida. «Non faremo neanche un passo.»
«Se ti dicessi che non sono inutile e se trovassi un jiin saresti più contento?»
Il ragazzo si chinò un poco ed estrasse la cintura dai passanti con un gesto secco, allungando un braccio per lanciarla via mentre afferrava la cerniera dei pantaloni con l'altra mano. «Non sei inutile?», domandò tirando giù la zip.
Se Phil non fosse stato lui ma uno sconosciuto, si sarebbe certamente offeso. Purtroppo conosceva bene il comportamento sopra le righe del brehkisth e sorvolò su quell'affermazione con superiorità.
Allargò le braccia e si indicò soddisfatto. «Non ti ho già dimostrato abbastanza? Ci sono cose per cui un'inutile umano può rivelarsi utile.»
«Ad esempio?»
«La cura dei veleni.»
Nehroi rimase tanto stupito da quella risposta così maledettamente corretta da sembrare fulminato, i pantaloni in mano. La sua bocca era schiusa e per un attimo rimase completamente immobile, poi batté le palpebre e si riprese. «E tu sapresti gestirli?», lo provocò con strafottenza rimanendo di spalle e guardando altrove, tutto impegnato a sembrare annoiato.
Phil sorrise amabile e si passò le dita tra i capelli biondi. «So fare tesoro del mio tempo, a differenza di chi preferisce sprecarlo nell'autodistruzione.»
La risposta non fu abbastanza esauriente per il ragazzo e rimase in attesa del seguito.
«Meede è un'ottima insegnante», concluse Phil con un ghigno.
Nehroi non si tranquillizzò e si voltò per guardarlo storto mentre infilava i jeans con un movimento rapido e fluido.
«Oh, a proposito...»
Osservò Phil estrarre un rotolo di carta, strapparne un pezzo e scriverci sopra qualcosa in maniera concitata ma elegante, usando una penna materializzata in un attimo dai suoi pantaloni. Staccò la custodia di vetro del suo porta-Stella che apriva i portali e la inclinò verso il sole. Passò qualche istante immobile ed in silenzio, poi annuì da solo e pose il vetrino sopra il foglio di carta, lasciando le la luce solare vi si incanalasse su un solo punto fino a bruciarlo.
La carta si annerì in pochissimi istanti, fino a diventare cenere distrutta dal vento prima che Nehroi potesse ricordare dove aveva sentito parlare di una tecnica di comunicazione simile.
«Carta Chiacchiera», disse poi, tirando un angolo della bocca in un sorriso senza vita. L'aveva vista usare da un paio di istitutori durante gli infelici soggiorni negli orfanotrofi, ma non aveva mai avuto bisogno di usarla e si stupì di aver quasi dimenticato come funzionasse. «A chi hai scritto?»
Phil si raddrizzò e sistemò il vetrino nuovamente nel ciondolo, esibendo soddisfazione. «A Kairyn, l'allieva di Meede.»
«Chi?»
L'umano sospirò scocciato, ma il suo spirito diplomatico non venne meno. «La jiin che fa al caso nostro. Ha fatto la tomba di Savannah, ricordi? … lascia perdere, non importa. Comunque, tempo fa le avevo chiesto se avrebbe accettato di fare gruppo con noi e aveva detto sì.»
Nehroi sgranò gli occhi sorpreso per qualche istante, poi metabolizzò meglio ciò che aveva sentito ed allargò le braccia sconvolto. «Gruppo con noi!», esclamò innervosito. «Io non voglio fare gruppo neanche con te!»
«Ti ho salvato dal diventare umano», gli fece notare Phil con tono offeso.
Il ragazzo non mosse un solo muscolo per molti istanti, fissando l'ex-consigliere come una statua. Non sembrava che stesse scrutando Phil alla ricerca di una risposta o che lo stesse sfidando: era fermo, semplicemente, mentre i suoi occhi forse vagavano in qualche luogo e tempo lontano. Era impossibile non pensare che stesse rimuginando a qualcosa di grosso, osservando la sua espressione corrucciata e desolata allo stesso tempo.
«Tu non capisci... diventare umano, io...», sospirò con la stanchezza di un vecchio. Chinò il capo e finì involontariamente per osservarsi le mani, grosse, scure, buone solo per tirare pugni e per distruggere...
«Mayson, perché mi hai riportato qui?», domandò poi con fermezza, quel tono che non accetta bugie o tentennamenti.
Phil sospirò.
«La missione», disse.
Avrebbe potuto raccontargli qualsiasi altra cosa, calcare ancora la questione della magia che non scorreva più in lui, inventarsi una qualche minaccia più credibile, come un inseguimento della polizia internazionale... e invece gli aveva detto la verità. Se ne era pentito nel momento esatto in cui aveva pronunciato la prima sillaba, ma non era riuscito ad interrompersi.
«Il prossimo passaggio sarebbe stato scendere a Mjoklur per Lorwaar, se non sbaglio», proseguì Phil con convinzione, senza lasciare altro tempo alle repliche negative del ragazzo. «Abbiamo solamente una persona in più da riprendere, o vuoi davvero lasciarla lì?»
Nehroi rimase paralizzato da quell'idea come se fosse stato incantato all'improvviso. La sua bocca rimase aperta a metà, le mani sui fianchi, l'espressione ancora ilare. Il suo ghigno si trasformò lentamente in una smorfia, a mano a mano che realizzava quanto fosse giusta quell'affermazione.
Alzò gli occhi verdi su Phil e lo fissò come se lo stesse vedendo realmente per la prima volta. Non sembrava più un damerino, né un odioso organizzatore di vite. «Hai ragione», soffiò incredulo. Come aveva fatto a perdere le speranze tanto da non pensarci da solo?
Phil strinse la Stella rossa tra le dita e il portale si restrinse sempre di più, in meno di un paio di secondi, restituendo alla montagna il suo rettangolo di roccia nuda.
«Ma senza un jiin abbastanza potente e stupido da appoggiarci non...», contestò ancora il brehkisth, con gli occhi fissi sul punto in cui c'era il velo.
Phil tossicchiò brevemente e gli indicò con un ghigno le ceneri del pezzo di Carta Chiacchiera che aveva usato poco prima. Poi si illuminò per un istante, ricordando qualcosa, e si fiondò verso la valigetta.
«Ora mi sembra che sei abbastanza pronto per questo», disse mentre rovistava alla ricerca di qualcosa.
«L'offerta di pace?»
L'ex-consigliere annuì. «Forse è più una prova di fiducia o delle mie abilità, ma...», estrasse una busta beige del servizio postale, una di quelle imbottite all'interno da bolle di plastica, e gliela porse con un gesto secco. «Ho come l'impressione che ci sarà utile.»
Nehroi la osservò come se potesse esplodere da un momento per l'altro, poi scosse la testa e la afferrò. C'era un'apertura in alto ma non riuscì a seguire la linea indicata dalle frecce e finì per strappare la carta. Quando liberò il contenuto, le dita gli tremavano tanto che dovette fare appello a tutte le sue forze per non lasciarlo cadere. Gli occhi pizzicavano mentre la mente galoppava.
Era un libriccino con una rovinatissima copertina di cuoio marrone, lisa dal tempo e dagli insetti di una libreria ammuffita. Le pagine erano giallissime e fragili, coperte di piccole scritte tanto fitte da non lasciare quasi spazio tra le righe. Poche illustrazioni ma determinanti.
Sulla prima pagina, in rilievo dorato ricamato minuziosamente molti secoli prima, una sola parola.
Vedàsio”.

Kayrin non era cambiata minimamente durante quei due mesi di distanza dal loro primo incontro, anzi sembrava che da allora si fosse ibernata con tutti i vestiti pur di essere completamente identica.
Scuri capelli cortissimi che toglievano punti alla femminilità non troppo accentuata, rimarcata solo dal voluminoso ciuffo che le copriva la fronte e metà guancia; occhi assottigliati dal tratto tipicamente asiatico, maglietta verdognola che cercava di far risaltare qualche forma il petto gracile e piatto, pantaloni beige attillati e lunghi stivali marroni rovinati dal tempo. Di diverso aveva solamente un voluminoso zaino dall'aria non poco pesante sulle spalle e, sul viso, un'espressione scocciata.
Arrivò da sud, tre giorni dopo l'invio della Carta Chiacchiera, sbucando dalla vallata di ciottoli e sassi di ogni dimensioni che si stendeva alle spalle del piccolo accampamento di Phil e Nehroi. Li raggiunse sul crinale delle montagne di confine tra Bastreth e Kyureth, dove il brehkisth aveva proposto di incontrarsi per non “perdere troppo tempo”, come aveva letteralmente detto all'ex-consigliere di scrivere in una rettifica.
Nella luce dell'alba, la jiin sembrava più vecchia di quanto Phil ricordasse.
«Nehroi, lei è Kairyn. Kairyn, Nehroi», presentò l'umano con tranquillità tendendo una mano ora verso la ragazza, ora verso il ragazzo.
Il brehkisth fissò la donna per un lungo istante, squadrandola da capo a piedi. Poi le scoccò un'occhiataccia carica di un misto tra astio e disprezzo e schioccò nervosamente la lingua contro il palato. «Non mi piace», sussurrò all'umano chinandosi verso di lui. «E perché fa le smorfie?», aggiunse annoiato.
«La tua maledizione, genio.»
«Oh», esclamò irriverente, senza neanche sforzarsi di fingersi desolato. Le rivolse un gran sorriso. «Scusa.»
Kailyn si sforzò di sorridergli di rimando, con una gentilezza appena più sincera. «Posso sigillarti, Meede me l'ha insegnato», propose cortese alzando un braccio.
Nehroi alzò gli occhi al cielo e si voltò, chinandosi a raccogliere la sua tracolla a terra. «No», disse solamente, come se avesse rifiutato un biscotto.
Phil gli mise una mano sulla spalla e sospirò. «Kairyn viene con noi per aiutarci, Nehroi. Cerca di essere meno sgarbato.»
Il ragazzo sbuffò sonoramente, si infilò la tracolla alzando un braccio e lanciò uno sguardo obliquo alla jiin. «No... grazie», aggiunse con un sorrisetto.
Kairyn increspò le labbra piccata e batté un piede a terra, sollevando della polvere beige. «Così non posso resistere!», si lamentò offesa.
«Io sto bene.»
«Meede mi ha insegnato le arti curative, se venissi ferito non potrei neanche avvicinarmi a te!», protestò ancora, cercando disperatamente di convincere quel musone a farsi sigillare.
«E chi ti dice che io ti voglia vicina?», disse invece lui, con quella che ormai era una perfida nonchalance.
La jiin incrociò le braccia e fece un passo avanti. Strizzò gli occhi per sopportare la maledizione ed inspirò a fondo: gemette anche un paio di volte, ma non indietreggiò. «Bene», disse seccata. «Allora dovrò allenarmi a resistere.»
Nehroi la squadrò con sufficienza e guardò Phil. «Oppure puoi tornartene a Norreth», rispose senza guardare la ragazza.
L'umano si massaggiò le tempie con due dita ed inspirò lentamente. Kairyn invece sorrise beffarda. «Non ci sperare», lo informò determinata.
«Perché?»
«Perché Meede è preoccupata per te e mi ha chiesto di...»
Nehroi la interruppe esclamando un “Ah!” a voce alta e battendo le mani una volta, facendo un suono fragoroso che fece sussultare la jiin. «Ho capito, sei anche tu una baby sitter!», disse.
Poi alzò un dito verso Phil e lo indicò alternativamente alla ragazza, mentre sul suo viso si allargava un'espressione stupita ed ironica. «E tu, ovviamente... A voi non importa aiutarmi con la missione, siete il mio centro di recupero ambulante! Magari volete che la sera ci sediamo in cerchio e condividiamo le esperienze? Quelle cose per superare i traumi, l'alcolismo, la droga... siete davvero furbi! E io che ci ero quasi cascato...»
Phil gli afferrò un braccio e strinse le dita con molta forza, fino a strappare un gemito al ragazzo. Aveva l'espressione di un genitore spazientito che stava per dare una lezione al figlio esagitato.
«Smettila», sibilò cercando di non scoppiare in una sfuriata. «Di fare il bambinone, la vittima a tutti i costi e il diffidente. E soprattutto... smettila di tirare conclusioni a caso. Sono tutte sbagliate.»
Kayrin nel frattempo si era tolta di dosso lo zaino e lo aveva appoggiato a terra cercando di non farlo cadere.
«Siete sempre così affiatati o è una tecnica di benvenuto che mi era sfuggita?», commentò ironica mettendo entrambe le mani sui fianchi in una posa che la faceva sembrare un militare.
Nehroi si liberò della presa di Phil con uno strattone violento, guardò ancora storto la donna e si allontanò da loro di qualche metro, appollaiandosi su un masso come un gufo.
Armeggiò per qualche secondo con un laccio che aveva in vita e sciolse il nodo che teneva legato il libro di Vedàsio.
Kayrin aveva osservato l'intera scena con un sopracciglio alzato. «Che fa?», domandò a Phil quando vide che rimaneva immobile a fissare la copertina senza muovere neanche un muscolo per diversi minuti.
L'umano le rivolse un sorriso sereno e le posò una mano sulla spalla. «È ancora un po' scosso ma quando fa così è un buon segno. Poi migliora, vedrai... comunque no, quella non era una tecnica di benvenuto alternativa. Anche se in realtà non ce n'è neanche una classica, in questo gruppo un po'...»
«Che hai fatto alla mascella? E al naso?», domandò la donna indicando i lividi e i residui di sangue incrostato che ornavano il viso dell'umano.
Phil ridacchiò e se li sfiorò debolmente. «Beh, questi... sì, ecco, credo siano stato il mio benvenuto.»


5
In Marcia





«Notizie divertenti?», domandò ironico il brehkisth prendendo posto accanto all'umano.
Non aveva potuto non notare il “crack” che fa l'aria quando un foglio di Carta Chiacchiera compare di fronte a qualcuno. È simile ad uno strappo, anche se non si sa bene cosa lo causi.
Phil aveva già iniziato a leggere febbrilmente, srotolando di tanto in tanto il foglio, e non gli rispose subito. La sua espressione, che da neutrale diventava sempre più scandalizzata e stupita, fu abbastanza esaustiva.
Quando smise di leggere, abbassò il rotolo ed alzò lo sguardo sul ragazzo, incontrando un viso incuriosito a pochi centimetri dal suo.
«Io dicevo per scherzare..», pigolò Nehroi imbarazzato, rosso fino alle orecchie.
L'umano si sentiva svuotato, ma trovò le energie per raccontargli tutto ciò che aveva appena letto.
«Goon è in disgrazia», esordì con voce piatta, «Algia ha tentato il suicidio; Olus era andato a trovarla e l'ha fermata appena in tempo.»
«Aspetta, cosa?», domandò allarmato Nehroi. Deglutì e sentì il cuore tamburellargli nel petto. «Decra? Perché?»
Phil però continuò il suo resoconto e lasciò le domande a dopo. «Pare che Silar... ehm, il signor Gerit, sia rimasto addolorato ma non scosso dalla notizia della scomparsa di Savannah e ha dovuto affrontare alcune insurrezioni da parte di gruppi di cittadini che ne hanno approfittato per infamarlo a causa dei suoi approcci verso la fuorilegge. Olus ha preso le sue difese ma anche Heim e Chawia hanno avuto reazioni poco espansive. Adesso sono in corso indagini per scoprire chi ha dato l'ordine di uccisione a quel soldato, perché pare che nessuno lo volesse.»
«Aspetta, aspetta!»
«Hartis invece è contenta, quindi puntano il dito contro di lei. Forse vi odia ancora e si è scordata di avervi perdonato.»
Nehroi lo afferrò per un braccio e strinse la presa per attirare definitivamente l'attenzione dell'umano e farlo smettere di sputare informazioni in successione.
«Dannato umano, vuoi fermarti?», disse affannato. Non si sarebbe mai aspettato tante reazioni da parte dei suoi nemici giurati e del mondo intero.
Phil inspirò a fondo e si passò una mano sulla fronte. Era scosso anche lui per ciò che aveva scoperto. Nehroi gli sottrasse il rotolo dalle dita tremanti e lo aprì, ma vi trovò lettere umane e non riuscì nemmeno a capire che lingua fosse.
«Decra», ordinò spazientito mentre gli lanciava il rotolo addosso.
«Era caduta in depressione già nel giorno in cui avete uccido Deiry», rispose concitato Phil, con voce roca, ignorando il rotolino che cadeva a terra. Ricordava bene i momenti che corrispondevano all'informazione che aveva appena ripescato dalla memoria, gli ultimi che aveva vissuto a Tolakireth prima che venisse bandito.
«Teneva a voi molto più di quanto avesse lasciato vedere», aggiunse.
Quelle parole entrarono a fatica nelle orecchie di Nehroi, inciamparono nel cervello e caddero con un tonfo vicino al suore, lasciandolo scombussolato.
Lui aveva tentato il suicidio. No. Si era solamente lasciato distruggere inerte attendendo la morte, non aveva voluto prendere in mano il coraggio di togliersi la vita.
Lei sì. Lei sì. Perché Decra ci aveva almeno provato e lui no?
Si sentì orribile e debole. Forse lei aveva davvero voluto bene a quegli stupidi orfanelli... come aveva detto una volta a Savannah, senza che lei le credesse veramente.
«Goon», ordinò poi, cercando di togliersi quelle due donne dalla testa.
Phil fu contento di vederlo uscire con determinazione dal mutismo sovrappensiero che lo aveva colto. Non era difficile leggere i suoi pensieri attraverso quei grandi occhi verdi.
«Tutti erano pronti a scommettere che fosse stato lui ad ordinare una vendetta, ma a pare che non vi abbia nemmeno ufficialmente incolpato per la morte di Miss Deiry.»
Gli occhi di Nehroi si sgranarono ancora di più e persino la sua bocca si schiuse stupita.
«Inoltre ha voluto dimettersi, ma non può perché non ci sarebbe un Capo abbastanza forte a succederlo. Quindi la popolazione di Haffireth lo accusa di vigliaccheria, dato che ha anche espresso cordoglio per la morte di Savannah, e lo vuole vedere fuori dalla regione, ma lui si sente in dovere di restare e sopporta illazioni e boicottamenti continui.»
Tutto quel discorso sembrava ridicolo, persino comico. Nehroi mai si sarebbe aspettato simili reazioni per la morte di sua sorella, era impensabile.
Era sua sorella, sua. Perché aveva scosso tanto anche loro?
«È...», non gli veniva alcuna parola per descriverlo.
Phil annuì concorde.
«E non volevano... l'ordine al soldato... adesso indagano?»
«I Capi prendono autonomamente le decisioni per la propria regione, ma quando c'è un pericolo che ne coinvolge più di una, come dei fuorilegge che girovagano e combinano danni da tutte le parti, le decisioni vengono prese a Tolakireth per maggioranza di voti durante le riunioni. E pare che volessero solamente punirvi in maniera esemplare dopo la cattura.»
Nehroi si sentì male. «Perché non hanno ucciso anche me?», domandò con una voce più supplichevole del previsto.
A Phil si strinse lo stomaco nel sentirlo, ma decise di ignorarlo. Era già tanto che fosse riuscito a non perderlo, non poteva minimamente sperare che avesse già scordato quel periodo nero. «Non saprei», confessò a disagio. «L'ordine era solo per lei.»
«Allora è stata Chawia», risolse Nehroi con una smorfia arrabbiata.
Phil lo fissò sorpreso. «Perché ne sei così sicuro?», domandò.
«Annah mi ha detto che lei avrebbe intralciato l'ascesa al “trono” perché con la sua magia avrebbe potuto spodestarla. O qualche pazzia del genere, chi ha il potere e non pensa ad altro a volte vede solo quello che vuole.»
«Oh», fu il solo commento di Phil.
«Già.»
Kayrin comparve alle loro spalle in quel momento, una manciata di frasche tra le braccia. La sua espressione era dura e crucciata come al solito, ma in qualche modo sembrava anche essere serena.
«Intuisco che non avete simpatie per la principessa», esordì facendoli voltare verso di lei. «A Norreth non piace a nessuno... pare che Heim sia un buon Capo e va bene così.»
Nehroi la osservò con attenzione mentre posava le frasche a terra, disponendole a piramide per accendere il fuoco. «Qual è la tua regione?», le domandò.
Un timido fuocherello iniziò a divorare i rami sotto le dita esperte e attente di Kayrin. Le sue iridi iniziarono a tingersi d'oro, riflettendo liquide le fiamme crescenti. «Haffireth», disse con un filo di voce.
Il brehkisth si morse la lingua e guardò altrove. Phil abbassò lo sguardo.
«È vero che sei stato con Deiry?», domandò la jiin senza distogliere l'attenzione dalle fiamme. Sembrava che si fosse tenuta dentro quel quesito da molto tempo.
«In realtà lei è stata con me...», rispose al limite dell'imbarazzo. Scosse la testa. «È una lunga storia.»
Kayrin annuì e non tornò più sull'argomento. La tensione, però, non si dissolse affatto: rimase come un quarto compagno tra loro, di quelli che rimangono tra i piedi anche quando ormai si è fatto tardi e vorresti che sloggiasse.
Si fece buio, le fiamme divennero l'unica fioca fonte di luce e tutti erano ancora preda di occhiate fugaci e mezze parole. Poi Kayrin si stiracchiò e sdraiò attorno al fuoco, chiudendo gli occhi poco dopo. Fu allora che Nehroi tirò un sospiro di sollievo e fece cenno a Phil di allontanarsi con lui di qualche metro.
Lanciò un'ultima occhiata alla donna, ancora assopita e tranquilla al campo base, prima di aprire finalmente bocca. «Lo sapevi?», domandò a bruciapelo, rapido come una scossa.
Phil fece spallucce. «Ha importanza?», domandò tranquillo.
Ricevette un'occhiataccia tremenda come risposta.
«Mayson, per quanto la cosa possa shockarti, io ho una coscienza. Comprendo il disagio che ho creato a Haffireth, ero attento quando hai letto il rapporto!», protestò il ragazzo a denti stretti, senza mai staccare gli occhi dalla donna addormentata. «E se volesse in qualche modo vendicarsi? Fare giustizia?»
Phil assottigliò lo sguardo e osservò il viso corrucciato che aveva di fronte con molta attenzione. «Per questo non vuoi che ti sigilli», commentò sollevato. «Preferisci tenerla a distanza.»
Nehroi si inumidì le labbra e annuì impacciato, poi scosse la testa febbrilmente. «No, quello è a priori», confessò. «Adesso però ho la giustificazione.»
L'ex-consigliere annuì di rimando, più convinto del brehkisth. «Cosa vuoi fare?»
Nehroi si passò entrambe le mani sul volto, tirando la pelle come se dovesse svegliarsi a forza, sebbene ormai le stelle fossero ben chiare sopra la sua testa.
«Andiamo avanti», disse. «A nord. Comanderò io il gruppo e voglio che tu mi appoggi se lei non volesse.»
«Perché non dovrebbe?»
«Perché dovrà fidarsi di me, senza se e senza ma.»
Phil non mosse un muscolo. «... ma tu non vuoi fidarti di lei.»
Nehroi sospirò. «Anche tu dovrai fidarti di me. Non so se hai letto o no il libro, ma anche se l'avessi fatto dubito fortemente che tu sia riuscito a decifrare le informazioni che ci servono per la missione. Quindi, al momento sono l'unico che sa dov'è il possibile ingresso per... “quel” luogo...»
L'umano socchiuse gli occhi e si allontanò un poco dal ragazzo, per scrutarlo meglio. «Non vuoi dirle dove andremo? Vuoi tenerla all'oscuro di tutto?»
«Sa già qualcosa?»
«No, ma...»
Nehroi lo afferrò per le spalle e piantò i suoi occhi smeraldini in quelli castani con decisione. Si potevano vedere a malapena ma era sicuro che il contatto visivo tra i due fosse molto intenso, tanto da trasmettere la sua determinazione anche attraverso il buio della notte.
«Diremo che stiamo cercando un rifugio di fuorilegge per uno scambio di informazioni e che è pericoloso che lei lo sappia perché se le guardie dovessero fermarci sarebbe protetta dall'ignoranza», pianificò in un attimo. «Lei non ragiona come me e te, Mayson. Cammina sul sentiero, segue le istruzioni. Non capirebbe, ci vuole una mente più aperta per concepire l'idea di andare laggiù. Di fare quello che dobbiamo fare.»
Phil non interruppe il contatto visivo. Alzò le mani e ricambiò la stretta sulle spalle, cercando di metterci la stessa forza del brehkisth. «E allora facciamolo.»



*°*°*°*


Oppalà, ma rendersi conto prima che questo capitolo era già finito? No, ormai faccio così tanto casino nel taglia-cuci-scrivi di questa storia che non è la prima volta che mi capita di avere un chap già pronto senza accorgermene... ^^
E' anche bello lunghino, spero vi sia piaciuto! Sono successe taaaante cose...
Un ritorno a casa, una bella scazzottata (credo che tra Phil e Nehroi non sarà l'ultima xD), Vedàsio (già incontrato nello scorso capitolo, ricordate?), la missione, una nuova donna nel team... e via, tutti in marcia! Il Regno dei Morti ci attende!

grazie mille a tutti i partecipanti diretti ed indiretti della storia!
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 4
*** Discendente ***


NdA in alto e non in basso! Perché? Perché mi devo scusare con i lettori, per quanto pochi siano, per la mia incredibile assenza! Purtroppo non è stata "colpa" mia, diciamo, perché sebbene il mio ultimo aggiornamento sia stato a Novembre, da allora ad oggi ho: -sostenuto e superato 4 esami tostissimi; -trovato un ragazzo (il che, per la scrittura, purtroppo rapisce tantissimo tempo ^^"); -scritto 40 e più pagine di tesi; -discusso suddetta tesi laureandomi... quindi solo ORA ho il tempo e le energie e la tranquillità per riprendere a scrivere! :D
Quindi... buona lettura! Dai che adesso la storia torna ad entrare nel vivo! Savannah, stiamo arrivando! xD



6
Discendente



Il piano di Nehroi era semplice: camminare in testa al gruppo, guidare ogni passo e prendere tutte le decisioni. Phil chiudeva la piccola coda, più per lentezza che per sicurezza. Kayrin, nel mezzo, non si lamentava neanche tanto. I due uomini non erano sicuri di sapere esattamente cosa volesse fare quella donna lì con loro, ma finché le si poteva chiedere di fare qualche magia al posto loro e non faceva storie, neanche loro avevano da ridire.
Quando si accampavano, al calar del sole, si radunavano a triangolo attorno ad un globo di luce pallida, grosso quando una noce di cocco, e stavano perlopiù in silenzio. Se non c'erano particolari informazioni sull'ambientazione della gita del giorno successivo, Nehroi si chiudeva completamente nella lettura del libro e per il mondo non esisteva più.
«Sei sicuro di sapere dove dobbiamo andare?», gli aveva chiesto la jiin con scetticismo, una volta. «O continui a leggere perché credi che stiamo girando in tondo?»
Nehroi non si staccava mai da quel libro, neanche quando dormiva. Lo teneva legato in vita, con una corda che lo avvolgeva su tutti e quattro i lati formando una croce sulla copertina, e gli pendeva dalla cintura sul fianco destro. Ogni volta che sentiva un rumore, la sua mano scattava sul cuoio scuro per proteggerne in contenuto.
In realtà non aveva più bisogno di rileggerlo. Anche Phil ormai lo sapeva bene, non aveva alcun dubbio sul fatto che conoscesse già a memoria quel libriccino prezioso, parola per parola. Se n'era accorto quando, ad ogni domanda che gli poneva, il ragazzo rispondeva con un paragrafo intero, recitato senza battere ciglio. Solo dopo averlo riportato tutto si adoperava nell'interpretazione e trovava la risposta alla domanda.
Erano passati già dieci giorni da quando lo strano trio si era composto e Phil, ormai, aveva ben capito ciò che Kayrin ancora non poteva vedere e che, forse, non avrebbe neanche mai compreso.
Dentro quel libro c'era la chiave della speranza perché il concetto e l'informazione in sé non erano sufficienti. La vera chiave del libro era il libro stesso: lì, reale, tangibile. Con lui.
In qualche modo rappresentava la possibilità concreta di realizzare ciò che è irrealizzabile. Rappresentava i passi avanti, la guida, la luce in quella pianificata follia.
Il libro era tangibile, sempre al suo fianco. Una speranza reale, la corda a cui ci si aggrappa al buio.
In qualche modo, era come se Savannah fosse già lì. Dentro quel libro, dentro la mente, dentro un sogno... non importava. Nehroi stringeva il volume tra le dita e sentiva fluire in sé la forza. Sua sorella era sempre più vicina, poteva sentirlo.
Nehroi era insensibile alle deboli provocazioni di Kayrin. «C'è sempre qualcosa di nuovo nella lettura», sentenziava con un'aria da anziano bibliotecario che stranamente gli donava.
Phil non entrava mai nello scambio di battute e quando Kayrin si voltava verso di lui in cerca di supporto, lui si limitava a fare spallucce e guardava altrove.
Kayrin era arrivata da Norreth, raggiungendo il loro rifugio temporaneo tra le pareti strette delle basse montagne di confine tra Bastreth e Kuyreth. Da quando avevano iniziato quella lunga marcia, non avevano visto nessun panorama che non fosse composto di pietra, alberi, terra e ancora pietra. Mescolati in maniera diversa ma sempre gli stessi ingredienti. Si stavano muovendo verso nord, verso le velenose valli di Kyureth. A Kayrin non piaceva quella scelta e non aveva perso molte occasioni per ribadirlo.
Passarono così quasi due settimane, in quella routine che alla fine aveva piegato tutti come un rituale silenzioso: sveglia poco dopo l'alba, marcia sulle montagne, caccia occasionale, accampamento. Non percorrevano molta strada ogni giorno a causa dei numerosi intralci che incontravano sulla strada, che fossero posti di blocco o semplici animali feroci che Kayrin non voleva uccidere o stordire troppo, neanche se a farlo sarebbe stato Nehroi.
Ogni volta che c'era una guardia o un gruppo di ronda autonoma si dovevano nascondere, una volta sono addirittura dovuti rimanere in una caverna per giorni interi, completamente al buio. Con grande desolazione del brehkisth, la jiin che il suo “gruppo” aveva adesso non era neanche lontanamente comparabile con quella che pallidamente cercava di rimpiazzare. Troppo cauta, troppo lenta, troppo poco intraprendente.
Il giorno in cui arrivarono tanto vicini a Kyureth da vedere i fumi violacei dei veleni che fuoriuscivano dal terreno e che battezzavano la regione, Kayrin smise definitivamente di essere razionale. «Io non faccio un passo di più», aveva annunciato non appena il panorama era cambiato davanti ai suoi occhi.
«Dobbiamo solamente costeggiare la...», aveva tentato di spiegare Nehroi, inutilmente.
«Non mi dici dove andiamo e non mi lamento», replicò invece lei, con tono offeso e fiero allo stesso tempo. «Non mi dici qual è la nostra meta e non mi lamento, non mi dici perché camminiamo da settimane in un'allegra scampagnata così tanto coinvolgente ed appassionante da farmi sentire una prigioniera ma non mi lamento...»
Phil avrebbe avuto da ridire su molti di quei punti ma preferì lasciare al leader del gruppo il fardello di sistemare la situazione. D'altronde, era stata sua l'idea di non fidarsi della jiin e di tenerla all'oscuro di tutto. Neanche lui avrebbe acconsentito di proseguire nella Terra dei Veleni senza protezioni e soprattutto senza informazioni... ma conoscere l'obbiettivo era sufficiente per mettere a tacere qualche interrogativo.
«Kayrin, devi solamente fidarti di me», tentò Nehroi con diplomazia e voce calma. «Non verrai neanche sfiorata dai gas, rimarremo sempre a distanza.»
La donna assottigliò lo sguardo con diffidenza e alcune rughe le si disegnarono attorno agli occhi e sulla fronte. «Dimmelo», intimò seria.
Nehroi sentì che l'idillio era finito.
«Ormai ho capito che non stiamo andando in nessun rifugio per scambiare informazioni, cosa credi?Dimmi dove stiamo andando», proseguì Kayrin irremovibile. «La verità.»
«Bene», disse il brehkisth ostentando tranquillità. «Bene», ripeté. Si voltò verso Phil e lo vide a braccia conserte, appoggiato al tronco di un albero secco e bianco, con un sorriso contento sul viso.
Diceva “te l'avevo detto” senza aprir bocca.
«Dunque.»
Nehroi guardò la donna, la jiin del gruppo che fino a quel momento era stata tanto vittima delle regole imparate a scuola da non essere mai stata veramente d'aiuto. In quei giorni era diventata addirittura più brutta, pensò.
«Stiamo andando in un posto in cui tutti andremo», esordì Nehroi illuminando il volto come quando ha avuto un'idea geniale. Kayrin storse le labbra con disappunto e Phil alzò gli occhi al cielo.
«È pieno di gente e... beh, in realtà tu non ci entrerai perché sarebbe troppo pericoloso ma credo che...»
Kayrin spalancò gli occhi ed inspirò con sorpresa e sdegno. «Non stai parlando sul serio!», esclamò stupefatta mentre un'ombra di panico si faceva largo nei suoi occhi scuri.
Nehroi tornò a guardare Phil e lo vide sghignazzare senza freni.
«Non è come credi, il...», tentò, ma la spiegazione crollò sotto l'angoscia che aveva ormai catturato la donna in una morsa ferrea.
«Mjoklur!», esclamò ancora, con voce troppo alta. «Ma certo, seguiamo lo svitato! E dove altro vuoi che andasse!»
Ogni tentativo di calmarla risultò inutile.
«Ha pure il coraggio di definirlo “pericoloso”, il principino maledetto!», urlò con sprezzo iniziando anche a gesticolare e a camminare avanti e indietro con rabbia. Nehroi le si tuffò addosso e le afferrò le braccia cercando di calmarla prima che attirasse qualcuno.
«Ho detto che tu non vieni giù, scendiamo solo io e Phil!», specificò a denti stretti fissandola negli occhi. L'aver visto quella stessa espressione solo in animali impauriti non aiutò affatto.
«Solo io, anzi. Tu devi solamente aiutarmi ad aprire il varco, Vedàsio dice che serve la magia per...» Il viso di Kayrin si trasformò in una smorfia sotto i suoi occhi al sol udire quel nome. «Vedàsio», ripeté sprezzante.
«È tutto vero, Kay», ripeté Nehroi con voce tranquilla, tenendo fisso lo sguardo nei suoi occhi per calmarla. «Fidati, sono un esperto nel capire se una leggenda è vera o falsa... diavolo!, non ho fatto altro per tutta la vita!»
Kayrin rimase in silenzio e abbassava lo sguardo mentre Phil analizzava la malinconia e il rimpianto di cui era intrisa quella frase.
«Il fatto che tu voglia che sia vero, stavolta, può essere fuorviante», commentò la jiin riprendendo il controllo sulla sua razionalità.
Nehroi scosse la testa.
«L'ho letto abbastanza volte, non credi?», disse smorzando l'atmosfera tesa e cupa.
«E se tu avessi voluto interpretare tutti i significati volgendoli a tuo favore? E se invece volessero dire qualcos'altro ma tu fossi stato troppo preso dal desiderio di riprenderti Savannah?»
Sia Nehroi sia Phil sussultarono quando Kayrin pronunciò quel nome con tanta naturalezza: nessuno dei due lo stava più pronunciando in una specie di rito scaramantico tacitamente concordato.
Kayrin non lo notò. «Potrebbe finire molto male, sfidare il Regno dei Morti non è proprio...»
«L'obbiettivo finale vale comunque il tentativo», replicò immediatamente Nehroi, come un soldato riporta la sua missione.
La jiin chiuse gli occhi ed inspirò per qualche secondo, profondamente. Si ricordò dei suoi periodi da insegnante, anni addietro, e le sembrò di avere ancora una volta a che fare con un bambino a cui bisognava spiegare le basi su cui era fondato Ataklur.
«La magia può tante cose, Nehroi, ma non cambiare il passato, far innamorare qualcuno o riportare indietro i morti.»
Nehroi si riprese di colpo e la guardò scettico, come se fosse indeciso su quale reazione avere, per poi scoppiarle a ridere in faccia.
«E queste cretinate chi te le ha dette, Merlino o Harry Potter?», ribatté sprezzante e terribilmente serio. Phil inspirò e si proclamò vincitore della scommessa che aveva fatto con sé stesso: quella era esattamente la reazione che si sarebbe aspettato. Kayrin sgranò gli occhi e strinse le labbra, serrandole in una linea dura e aspramente piccata.
«Mia cara», proseguì il brehkisth con l'aria di chi non aspettava altro che il momento di rincarare la dose. «Non hai proprio idea delle cose che si possono realmente fare con la magia, quindi perché non torni a giocare nel bel recinto che la società ha costruito per te e i tuoi simili, se le mie conoscenze e idee ti spaventano?»
Dopo quel diluvio di parole pesanti, non ci fu reazione. Almeno, non subito.
Kayrin corrugò la fronte per qualche istante e pensò a molti modi perfetti per replicare a tono, ma non riuscì a pronunciarne neanche uno. Com'era possibile che un ragazzo, per giunta brehkisth e molto più giovane di lei, potesse prendersi tanto gioco dei chi ha studiato per anni e della cultura del suo stesso popolo? Porre dei limiti, il pittoresco “recinto” in cui era stata appena collocata, era per prevenire incidenti e progetti folli, una cosa che tutti sapevano da secoli e su cui concordava l'intera popolazione di Ataklur. Nehroi le sembrò a dir poco strafottente. Rilassò la fronte, poi si voltò verso Phil con uno scatto secco, facendo oscillare brevemente il ciuffo sulla tempia. «Tu non hai nulla da dire?», domandò vagamente intimidatoria.
Phil si strinse nelle spalle ed alzò le mani in segno di resa. «Non guardare me, ho smesso da tempo di credere nell'impossibile... su, rimettiamoci in marcia.»
Un cielo splendido, terso, immobile, unicamente decorato dal placido volo degli uccelli e da poche nuvole bianchissime, così tanto baciate dal sole da accecare si stagliava sopra la sua figura che si allontanava tra le rocce, mentre il panorama violaceo di fronte a lui, si faceva sempre più cupo con la fine della giornata.

Seduti attorno al pallido globo di luce, nessuno parlava. Troppe idee e posizioni erano state confrontate durante il tratto di strada che avevano percorso dopo l'inizio delle manifestazioni di attrito, tanto da lasciare tutti in silenzio in serata. Kayrin era riuscita ad ottenere un grande risultato, dopo tutti gli scontri verbali: poter mettere le mani sul libriccino di Vedàsio.
Nehroi l'aveva guardata come se improvvisamente le fosse spuntata sul collo una seconda testa e la pelle fosse diventata blu ma alla fine era riuscito a staccarsi dal manoscritto, sebbene sembrasse che si stesse separando da un arto. Si erano accampati subito, per evitare che il libro potesse scivolarle mentre camminava... o per tenere lei sotto stretto controllo come un falco affamato che rivuole la sua preda, come aveva pensato Phil osservando i suoi strani compagni di gruppo.
Kayrin non ci mise molto a leggerlo tutto, sfogliando ogni pagina con incredibile delicatezza e scorrendo ogni riga con la stessa serietà riservata alla precedente, senza mai cambiare espressione.
Dopo un tempo per Nehroi sicuramente troppo lungo, Kayrin lo ringraziò e gli rese il libro, sentendosi come una spacciatrice che dà la nuova dose al drogato in astinenza.
«Posso parlarti un attimo in privato?», disse Kayrin dopo un po' di tempo passato a rimuginare sui suoi pensieri, rivolgendosi a Phil e scattandogli davanti in piedi con prepotenza, come se non potesse fisicamente più stare seduta.
L'umano annuì e si allontanarono da Nehroi, nuovamente assorto nella lettura o nel controllo che fosse tutto a posto, dopo che li aveva degnati solamente di un'occhiata sbieca e sterile.
Kayrin condusse Phil a molti metri di distanza, sotto la luce chiara della luna e lontani dai vapori velenosi della vallata. Si nascosero tra due enormi massi crollati dal fianco della montagna, sfiorando un muschio insolitamente rosa.
«Ebbene?», domandò Phil con un po' di imbarazzo: erano estremamente vicini.
Kayrin si mise un dito sulle labbra e gli fece cenno di abbassare la voce. «Potrebbe ancora sentirci...»
Phil annuì meccanicamente, poi alzò un sopracciglio. «Non dovresti essere in grado di percepire la sua presenza non appena la maledizione di avvicina a te?»
La donna scosse la testa. «Sì, certo, ma ormai mi sono abituata alla vicinanza e poi è lontanamente paragonabile a quello che avevo provato al funerale di Savannah, si vede che ha perso molta magia tra gli umani... smettila di fare quella faccia, è solo un nome!», lo sgridò sempre sussurrando.
Phil mascherò rapidamente la sua reazione ma ormai era tardi. «Di cosa vuoi parlarmi?», domandò per cambiare discorso.
Kayrin non gli risparmiò la sua occhiataccia.
«Ora che ho letto il libro», esordì a voce bassa e tendendo le orecchie in tutte le direzioni, «Devo... cos'è stato?»
Scattò sull'attenti e si guardò attorno. Nel buio della notte, sotto la luna splendente, nulla si muoveva. Un'ombra tremò, forse a causa del vento. Kayrin alzò un braccio e spalancò la mano supra le loro teste, poi la abbassò come se stesse tirando giù una tendina e, quando toccò terra, una barriera invisibile ma palpabile si era erta tra loro e l'ambiente esterno, chiudendoli ancora di più nell'insenatura della montagna.
«Dicevo», riprese con più sicurezza, «Questa “missione” è un suicidio. Il suo, per l'esattezza, Ne sei al corrente?»
Phil iniziò a sentirsi claustrofobico e cercò di fare un passo indietro, ma la parete rocciosa lo abbracciò subito. Lo sguardo che posò sulla jiin trasmetteva più ansia del dovuto. «No, non è un suicidio... lui scende, riprende la sorella e torna su.»
Kayrin scosse la testa e ridacchiò brevemente, lugubre. «Hai davvero perso la testa per quella ragazzina...», commentò con asprezza. «Cosa ne pensa la principessa?»
L'umano si irrigidì. «Non sono più controllato», rispose convinto.
La jiin gli scrutò per un breve istante le iridi, scure e non brillanti come quelle dei sottomessi.
«Certo», disse facendo spallucce. «Ma non secondo Meede. E dopo aver passato due mesi alla sua capanna dovresti sapere che non la si può mettere in dubbio, ha sempre ragione.»
Phil scosse violentemente la testa. «La principessa non c'entra nulla, tutta questa storia è mia e...»
Lo sguardo chiaro e serio di Kayrin lo perforò fin nelle viscere. Deglutì e socchiuse gli occhi per sottrarsi a quella tortura.
«Non mentire», intimò Kayrin con voce ferma.
Phil inspirò ed espirò lentamente.
«Chawia ha ancora a che fare con te, lo so per certo. Anche se Nehroi mi disprezza perché non sono spericolata e avventata come lui, non sono stupida.»
«Mai pensato che lo fossi.»
«Quindi?»
Phil guardò altrove, cercando nell'ambiente opaco oltre la barriera della jiin qualcosa che lo distraesse. Finì col guardare le sue scarpe, impolverate e bucate su un lato. «Cosa vuoi sapere?», domandò calmo mentre con la mente vagava al ricordo di quella stupida caduta che aveva fatto il secondo o terzo giorno di marcia, di ritorno dalla ricerca di un cespuglio dietro cui nascondersi per avere un minuto di intimità.
«Perché Chawia è interessata nel recupero di Savannah.»
«Non lo è. Lo sono io.» Rispose in fretta e deciso. «Altro?»
Kayrin dondolò brevemente la testa, poi la lasciò pendente sulla spalla sinistra, come se avesse trovato il giusto punto di vista per poter osservare l'umano. Sorrise.
«Sei sicuro di essere a conoscenza del rituale che il nostro leader vuole usare per riportare la sorella indietro?»

Nehroi si immobilizzò per un po' quando li vide tornare, ma non disse nulla. Kayrin sembrava vagamente, anzi decisamente, trionfante e Phil aveva l'aria di uno a cui erano stati pestati entrambi i piedi. Non ricordava di averlo mai visto così arrabbiato, neanche dopo tutti i casini e disastri che gli avevano fatto passare.
Le parole che esplosero dalla bocca dell'umano arrivarono alle orecchie del brehkisth assorto nella sua analisi quasi con ritardo.
«Non ti ho strappato da un barattolo di pasticche o da una bottiglia per lasciarti andare a Mjoklur con un biglietto espresso!»
Il fruscio delle foglie nel vento serale riempì per pochi istanti lo spazio vuoto tra loro, lasciandolo più desolato e freddo dopo il suo passaggio. «Non so di che parli», rispose dopo un po' il ragazzo, con voce spaesata e confusa. «Il mio piano è...»
«Aprire un varco con un tributo di sangue, prendere tua sorella e magari anche il migliore amico e il nonno spezzando i tuoi anni di vita futuri per donarne la metà a loro perché possano avere altro tempo da vivere», snocciolò Phil con un tono quasi tradito, «... se effettivamente il destino ne ha in serbo per te così tanto! Non hai consultato un oracolo, non sai neanche se puoi donar loro anni o minuti!»
Nehroi si voltò di scatto verso l'umano, sovrastandolo in meno di un istante e spaventandolo un poco. «Cosa stai cercando di dirmi, che non vuoi più riprendere Savannah? Sei tu quello che mi ha manovrato per questo!», ruggì col fuoco negli occhi, poi saettò la furia verso Kayrin, additandola deciso e livido. «Lei ci sta mettendo contro, guardala!»
Phil non abbassò lo sguardo né lo seguì per obbedire al ragazzo. Scosse la testa senza mai interrompere il contatto visivo. «No, Nehroi, mi ha solamente spiegato il rituale che utilizzerai per andare giù. È troppo pericoloso!», scandì.
Il suono che giunse dopo quella manifestazione di preoccupazione lo sorprese. Nehroi ridacchiò, quella risata leggera e frizzante che ci si aspetterebbe durante la visione di un film comico.
«Mio padre si è suicidato», disse poi, rompendo di nuovo l'atmosfera in maniera inaspettata. «Stando a quello che Decra ha detto ad Annah, perché aveva perso la donna della sua vita e nulla aveva più senso. Cosa mi rende diverso da lui?»
Guardò Phil con sfrontatezza aspettandosi che si ritirasse dalla discussione. «Non parlare di persone e situazioni che non conosci», invece lo sentì dire.
Nehroi alzò entrambe le sopracciglia con sorpresa, poi scosse la testa, si sedette e rituffò il naso nel libriccino di Vedàsio. Fece anche spallucce, come a voler sottolineare che non valeva la pena continuare a discuterne.
«Almeno...», mormorò Phil poco dopo, ignorando il grugnito infastidito del brehkisth. «Almeno metti al mondo un figlio. Perché, insomma, se proprio tieni a questa stronzata della tradizione, dai la possibilità anche ad altri di seguirla», commentò pungente come una spina nel petto.
Nehroi boccheggiò e lo guardò sbalordito, dimenticando completamente di mostrare il suo atteggiamento spavaldo. «Sai che non lo farei mai!», esclamò completamente svuotato, offeso.
Tutti gli anni dell'infanzia infernale gli tornarono alla mente in un secondo o anche meno non appena pensò all'abbandono di un bambino mentre il respiro gli si affannava e le spalle pesavano più di mille tonnellate. Deglutì e improvvisamente la gravità del discorso divenne reale e quasi tangibile.
Phil annuì e sembrò tranquillizzarsi. «Certo che no, tu sei migliore di tuo padre o sbaglio? Almeno di questo possiamo parlare... Nehroi, la discendenza non è solo tramandare geni di padre in figlio e seguire le orme nascondendosi dietro gli errori del passato, ripetendoli. La discendenza è evoluzione, nella speranza che la generazione nuova sia migliore della precedente...»
Nehroi socchiuse gli occhi.
Era come se tutta la rabbia, la depressione, la paura, la negatività provata dalla morte di Savannah si fosse annebbiata. Non era sparita né allontanata: era sempre lì, a portata di mano. L'unica differenza era il modo in cui guardava ad essa.
Il brehkisth sentì di poterla superare e guardarla solamente voltandosi indietro. Davanti, c'era la speranza.
«Prometti che non...»
Aprì gli occhi e si accorse solo in quel momento che Phil era seduto, con la schiena contro la parete rocciosa e la testa tra le mani. Sembrava una persona diversa ma Nehroi non riusciva a capirne il motivo.
«Prometti che non rimarrai giù», disse l'umano con grande fatica, come se quelle parole grattassero più del dovuto nella gola. Spigolose come frammenti di vetro. «Non sprecare la tua vita e... se non la trovi subito torna indietro. Non... sai, se la situazione dovesse...»
Nehroi si chinò in avanti e lo raggiunse a carponi. Gli posò una mano sulla spalla, realizzando con stupore e vergogna che era la prima volta che lo toccava senza che la mano fosse chiusa a pugno.
«Stupido umano», gli disse, «Perché ho sempre l'impressione che tu mi conosca meglio di quanto io conosca te?»
«Prometti?», chiese Phil ignorando quel commento.
«Prometto.»

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Capitolo 5
*** Giù per il Pozzo ***


7
Giù per il Pozzo



Dopo l'ultimo diverbio nel gruppo non ce n'erano stati altri così pesanti, solo qualche battibecco sparso negli ultimi giorni di cammino.
«Dev'essere quello!», aveva esclamato Phil distogliendo l'attenzione del brehkisth dal percorso tortuoso su cui si stava inerpicando. Si erano voltati tutti e tre verso una piccola insenatura alla base della montagna, che all'apparenza poteva sembrare una grotta normalissima.
«Perché?», domandò Kayrin con scetticismo. Quel posto era troppo vicino ai fumi velenosi e violacei che fuoriuscivano persino dalle pareti perché lei potesse anche solo immaginare di camminare laggiù.
Phil la ignorò e superò per raggiungere Nehroi, che stava tornando indietro per controllare. «Se guardi bene in giro, quel punto è il più velenoso di tutti, quasi non si vede l'ingresso della grotta... ma prima una folata di vento ha spostato i fumi, ho visto chiaramente che dentro la grotta l'aria è pulita!», gli spiegò rapidamente e con voce concitata.
Nehroi annuì. «Ha senso», disse. Una lingua di fumo iniziò a fuoriuscire dal punto in cui aveva appoggiato il piede destro e si afferrò rapidamente il cappuccio e lo mise rapidamente su naso e bocca, come una mascherina. «Kayrin!», urlò alla jiin. La donna si portò subito le mani al volto, stese sulle due metà come se volesse coprirsi, e una maschera le si creò sul viso. Era opaca, chiara, e le avvolse in pochi istanti tutta la testa, chiudendosi perfettamente sul collo. Nehroi si allontanò da loro per evitare la sua maledizione interferisse con la creazione di quel sistema di respirazione per farli sopravvivere: a lui il cappuccio sarebbe bastato, aveva detto loro più volte con ostinazione.
Non appena Kayrin finì di creare la sua maschera, si voltò verso Phil e pose le mani alla stessa maniera anche sul suo viso: la maschera iniziò a crearsi anche attorno alla sua testa, dal meno alla nuca. I polmoni, che iniziavano ad essere provati dal veleno, si riempirono e svuotarono di aria con grande sollievo. Le orecchie percepivano i suoni in maniera ovattata e la sua stessa voce non riusciva a varcare la barriera.
Nehroi si voltò verso l'insenatura indicata da Phil e fece cenno ai compagni di seguirlo.
Nella coltre più profonda l'aria vive e muore”, diceva il manoscritto. Quella frase era tra le più criptiche dell'intero testo ma Nehroi e Phil ci avevano rimuginato su molto a lungo, nelle infinite camminate e scalate che hanno affrontato nelle ultime settimane, e ancora non erano certi che la loro potesse essere l'interpretazione più corretta, ma non rimaneva altro da fare che verificare di persona. D'altronde, “nella culla dei picchi lunghi e neri” c'erano arrivati...
Il brehkisth guidò il gruppo tra rocce spigolose che ferivano i polpacci e le caviglie, indicando con la mano ogni punto in cui notava che la terra sputava i fumi velenosi in maniera copiosa. Non fecero molta strada prima che quel gesto diventasse totalmente inutile, tanta era la quantità di fumo che li avvolgeva.
Kayrin avrebbe urlato di fermarsi e tornare indietro, ma la paura di finire soffocata era troppa e non era mai riuscita a trovare le forze di allentare la resistenza della maschera d'aria pulita che si era creata attorno alla testa.
Continuarono a camminare in fila indiana, spediti come soldati, silenziosi come statue. Il fumo viola attorno a loro, ormai, formava una coltre così spessa che era impossibile capire con precisione da dove venisse; probabilmente anche le nuvole in cielo lo emettevano.
Inciamparono, si rialzarono. Incapaci di vedere i loro stessi piedi o la schiena di chi stava di fronte, tutti e tre caddero più volte e si ritrovarono a percorrere la strada a carponi, muovendosi nella direzione che cercavano di ricordare dallo sguardo fugace che avevano gettato prima di applicarsi le maschere d'aria.
Nehroi proseguì l'avanzata, pregando tra sé e sé che Kayrin e Phil lo stessero seguendo e che non si fossero bloccati lungo la strada: il solo pensiero di perderli gli raggelava il sangue nelle vene.
Poi, all'improvviso, il viola perenne e quasi uniforme che riempiva il suo campo visivo si disperse. In un secondo, da un centimetro all'altro, i fumi scomparvero e un piccolo spiazzo limpido, luminoso e fresco comparve al loro posto.
Sembrava una saletta circolare, con una moquette fatta di erba smeraldina e intonsa, illuminata da un raggio di sole che penetrava da una stretta e lunga fessura nella volta della grotta che faceva da soffitto.
Nehroi si voltò e vedere i fumi viola bloccati all'ingresso come se una porta a vetri vi facesse da barriera lo stupì. Vedàsio aveva descritto ogni cosa nei minimi dettagli, ma vederle dal vivo era un'emozione completamente diversa. Inspirò profondamente quell'aria pura di montagna, fresca e profumata di prato.
Il pensiero di Phil e Kayrin graffiò la pace che quel posto aveva instillato nel brehkisth e lo fece correre nuovamente nella coltre viola, incapace di aspettare che comparissero.
«Mayson!», urlò istintivamente, prima di ricordarsi che stava inalando del gas velenoso e di tossire.
La sua gamba picchiò contro una roccia che non era riuscito ad evitare e Nehroi cadde violentemente a terra, picchiando il gomito e la spalla su sporgenze ruvide. Si rialzò a fatica e, nell'appoggiarsi alle rocce attorno, toccò il braccio morbido e caldo di Kayrin. I loro sguardi si incrociarono a fatica tra i fumi ma fu abbastanza: rimesso il cappuccio a mo' di maschera sulla faccia, Nehroi le indicò di andare avanti e la donna proseguì verso la meta, non prima di avergli indicato a sua volta dove trovare Phil. Il brehkisth corrugò la fronte quando vide dove aveva puntato la mano: come era possibile che avesse deviato tanto dal percorso?
Si avviò e lo cercò, lo cercò a lungo. Quando cadde per l'ennesima volta e le forze e l'ossigeno iniziarono a venirgli meno, Nehroi iniziò a chiedersi per quanto tempo ancora quel pezzo di tessuto avrebbe potuto proteggerlo dai fumi. Sforzò gli occhi e scrutò senza sosta l'ambiente viola che lo circondava: non si vedeva nulla, ma la speranza di trovarlo non lo abbandonava.
Poi, quando tutto sembrava perduto, vide il profilo di una roccia muoversi e vi si fiondò: era Phil, cercava di estrarre il piede dalle due rocce affilate che lo stringevano in una morsa tagliente.
Unendo le loro forze, i due riuscirono a sbloccare la situazione e Nehroi si mise l'umano sulla schiena, caricandosi come un mulo. A testa bassa, trattenendo il fiato e facendo attenzione a non cadere più, seguì il percorso giusto e raggiunse, madido di sudore e stremato fino a tremare, la minuscola radura. Non nascose il sorriso quando vide che anche Kayrin era arrivata lì indenne, poi crollò a terra esausto.
La jiin sciolse la maschera di Phil e tutti e due tornarono finalmente a respirare a pieni polmoni, liberi dai fumi che erano stati bloccati dalla porta invisibile ed impalpabile.
«Ce l'hai fatta!», gridava Kayrin eccitata indicando un angolo della grotta. «L'ingresso!»
Nehroi roteò la testa verso il punto indicato, rimanendo sdraiato a pancia in su, e vide un ammasso di rocce scure, come se ci fosse appena stata una piccola frana. «Davvero?», domandò senza fiato.
Kayrin annuì imbarazzata ed abbassò lo sguardo. «“La nera buca che le anime inganna e rapisce”», disse rossa in viso. Nehroi e Phil fissarono la donna come se fosse appena comparsa davanti a loro.«Io... potrei essermi sbagliata. Fin ora tutte le indicazioni sono corrette, quindi...»
«Hai imparato anche tu il testo?», esclamò stupido Phil mentre si strappava i pantaloni alla base per poter osservare e curare la ferita. Il rumore del tessuto che si lacerava accompagnò il cenno con la testa che Kayrin fece.
«Solo la descrizione del passaggio... per poter controllare che non sbagliassimo», disse. «Insomma, se proprio dobbiamo seguire la follia, facciamolo per bene, no?»
Nehroi ridacchiò e si tirò su a sedere. «Hai guadagnato qualche punto, te lo concedo.»
Si alzò traballante per esaminare l'ingresso individuato da Kayrin. In quello spazio sconosciuto al mondo intero, un piccolo mucchietto di sassi scuri nascondeva una voragine non tanto grande, forse la dimensione giusta perché una persona ci si potesse calare giù, di cui non si vedeva il fondo. Nera come la paura, tetra come una notte senza luna...
«Sì, dev'essere questa», confermò Nehroi.
Trovarsi finalmente di fronte all'ingresso per Mjoklur lo fece rabbrividire: il Regno dei morti gli si spalancava davanti. Per curiosità, allungò la mano verso la buca ma, sorprendentemente, toccò una superficie liscia e rigida. «Ma che...?», esclamò incredulo: la buca non era altro che un pavimento nero circondato da rocce.
«Ricorda che devi ancora aprire il portale», lo ammonì Kayrin, tornando coi piedi per terra. «Cosa dice il libro?»
Nehroi si spostò sotto la luce che penetrava dalla fessura nella volta della caverna ed estrasse il libro. Con cura ma in fretta, sfogliò le pagine fino ad arrivare a quella che gli serviva, raggiungendola senza indecisioni.
«“Sangue era, sangue tornerà. La nera buca ha fame, solo anime sterili riempiono il suo stomaco. Non curarti del freddo...”, e poi continua con altre cose su Mjoklur... ad ogni modo direi che non ci sono dubbi: rituale di sangue», concluse infine il brehkisth, chiudendo soddisfatto il libriccino e riposizionandolo sulla cinta con la corda.
Alzò la manica della felpa e mostrò ai compagni la ferita che si era procurato cadendo nel tornare indietro a recuperarli lungo il percorso. Si stava avvicinando all'ingresso del Regno dei Morti quando la mano esile di Kayrin lo afferrò per la spalla e lo fermò. «No!», esclamò.
Nehroi la guardò spaesato e arrabbiato allo stesso tempo. «Non è un po' tardi per cercare di dissuadermi?», la aggredì.
«Ragiona!», lo ignorò lei, «Vedàsio aveva un fazzoletto dell'amata, ricordi? Non è stato il suo sangue ad aprire il portale ma quello di lei!»
Il ciuffo scuro della jiin si staccò dalla fronte sudata, per poi ricaderci sopra come attratto dalla colla. «Lo hai appena letto», proseguì imperterrita, «Sangue “era”! Non puoi fare tu il rituale di apertura, tu non “eri”, “sei” ancora!»
Il brehkisth si morse la lingua e, incredulo, si diede del cretino. Era stato così tanto entusiasta nel poter essere a pochi metri di profondità dalla sorella da aver sottovalutato quel passaggio.
«Serve il sangue di... di Savannah», realizzò infine.
Si sentì malissimo, sul punto di vomitare.
Era come se tutti gli sforzi, tutti i giorni di cammino, tutto lo studio, tutto quello che avevano passato nelle ultime tre settimane fosse all'improvviso diventato vano.
«Non ce l'ho», sussurrò senza vita Nehroi, abbattuto come mai prima di allora. Le lacrime iniziavano a pizzicargli gli occhi mentre la disperazione si dilagava in lui. Com'era possibile che non avesse pensato a quell'eventualità prima?
Guardò Kayrin e non riuscì a comprendere, su quel viso in apprensione e sempre cinico, cosa volesse fare. Perché all'improvviso era così impaziente di aiutarlo? Tanto era inutile, lui non...
«Phil», la sentì dire. Gli fece un cenno con la testa e la sua espressione si fece dura e contrita.
Nehroi si voltò verso l'umano e non riuscì ad incrociare il suo sguardo: lo aveva abbassato subito, pieno di vergogna.
«Cosa succede?», domandò Nehroi guardando prima lui e poi lei. Corrugò la fronte. «Mi state nascondendo qualcosa?»
Phil si passò una mano sulla faccia e la stropicciò pesantemente. «Non sarebbe dovuta finire così...», sussurrò dolorosamente.
«Di che parli?»
Nehroi gli si avvicinò misurando i passi, con estrema lentezza. Indicò Kayrin alle sue spalle. «Di che parla?»
«Beh, prima o poi l'avresti scoperto da solo... lei l'ha trovato mentre sistemavo le medicine nella borsa...»
«Mayson!», sbraitò Nehroi facendo tremare le pareti della grotta. Un paio di frammenti di roccia rotolarono già dalle insenature.
Phil sospirò e tuffò una mano nella borsa a tracolla. Socchiuse gli occhi e iniziò a rovistare tra boccette ed erbe, in un tintinnare ovattato e confuso. Nehroi osservava ogni movimento con famelica attenzione.
Quando la mano dell'umano uscì dalla borsa, era chiusa a pugno. Stringeva tra le dita qualcosa che era impossibile vedere.
«Smettila, Mayson, non sono dell'umore», lo ammonì Nehroi con voce difficilmente controllata.
Kayrin si frappose tra loro non appena le dita iniziarono a schiudersi, nascondendole. «Ricorda che è ferito», gli disse.
Nehroi sentì montarsi nel petto una furia incredibile e spostò di lato la donna con una mano, spingendola contro la parete della caverna. Phil aveva nel palmo della mano una pietra azzurra dalla forma triangolare, molto liscia; su un vertice era sporca di marrone rossiccio e quando Nehroi iniziò a domandarsi cosa fosse, la risposta schizzò nella sua testa come un fulmine e gli accese il volto di incredulità.
«Quella... quella è...», balbettò.
«Sì», disse Phil fissandola. Nella sua direzione c'era una sporgenza che serviva a fissare la Stella Blu sull'estremità di una lancia o di un'altra arma. «È la punta della freccia che ha ucciso Savannah.»
Molte domande attanagliarono la mente del ragazzo mentre altrettante forze oscure gli stringevano le viscere in una morsa asfissiante. Sul suo viso era difficile distinguere quali emozioni lo stessero attraversando: sorpresa, confusione, ansia, dolore, rabbia, odio...
In tutto questo, si sentiva terribilmente ferito.
«Perché ce l'hai tu? Perché la stai tenendo in mano?», sputò quando riuscì a mettere in fila qualche parola di senso compiuto. Assottigliò gli occhi a due fessure iniettate di furia. «Come puoi!»
«Non perdiamo tempo così, metti quella punta di freccia sulla buca e andiamo avanti!», urlò Kayrin cercando di mettersi ancora tra loro ma venne sbattuta al muro un'altra volta. Nehroi si avventò sull'uomo ferito a terra e lo afferrò per il bavero con le mani tremanti. Phil sembrava sul punto di piangere ma se lo impedì quando vide che il volto di Nehroi era completamente bagnato dalle lacrime. Il suo sguardo inferocito era rivolto in ugual modo all'umano e alla punta di freccia che reggeva in mano.
«Te lo spiegherò quando torni», disse Phil con voce spezzata. Alzò una mano ed afferrò quella di Nehroi, rompendo la presa sulla sua camicia. Gli mise sul palmo la punta della freccia, la Stella Blu insanguinata che aveva strappato Savannah da loro mesi prima.
«L'importante, ora, è che possiamo andare a riprendercela.»
La mano di Nehroi tremò violentemente quando la Stella gli toccò la pelle e un miliardo di sensazioni e ricordi gli attraversarono il cuore.
Si alzò in piedi lentamente e, con un enorme e faticoso sforzo, annuì. Si avvicinò alla buca nera, conficcò la Stella Blu tra le rocce che delimitavano l'ingresso, premendo finché l'impronta rossastra non sparì tra esse.
La superficie nera come la pece tremò, poi oscillò come l'acqua placida disturbata da un sasso che la increspa con onde circolari. Le onde caddero una per una, scivolando in basso in una piccola cascata scura e quando scomparvero tutte, finalmente il passaggio fu aperto.
Senza degnare di uno sguardo i compagni, Nehroi si sedette sul bordo della buca ed infilò le gambe.
Si calò giù con un piccolo saltello.



*°*°*°*


Ah, Nehroi caro, hai proprio seri problemi di autocontrollo... U_U ma, ehi! Adesso sei ad un passo da Savannah! :D
Riuscirà il nostro eroe a trovare e riportare in superficie la sorella? (... e magari, già che c'è, anche l'amico Lorwaar e/o il nonno?)

Alla prossima puntata! xD
Ciao!

Shark

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Capitolo 6
*** Mjoklur ***


8
Mjoklur



Qualcosa di fresco e sottile gli pizzicò le guance e gli fece il solletico sul collo, ma non se ne curò.
Nehroi aveva gli occhi chiusi e non ricordava cosa fosse successo.
Fece mente locale senza muoversi, trovando un certo conforto nella superficie su cui era sdraiato.
Dopo essersi calato nell'ingresso di Mjoklur, tutto era scomparso: vista, tatto, sensazioni, pensieri... come se si fosse addormentato di colpo e fosse precipitato in un sonno senza sogni.
Piano piano stava cominciando a recuperare lucidità e l'aria, stantia e umida, gli inondava lentamente i polmoni.
Una risata femminile, limpida e cristallina, lo svegliò come un campanello improvviso, fulmine a ciel sereno, e Nehroi aprì gli occhi di colpo. Attorno a lui era tutto buio, nero come la pece, rischiarato debolmente da una fioca fonte di luce non ben visibile alle sue spalle, chiara e lieve come la luce della luna non ancora piena.
Scoprì che ciò che gli pizzicava la faccia erano dei capelli, capelli neri sparpagliati su di lui.
La sua mente si spense per qualche secondo, trascinata via dalla corrente di un ricordo lontanissimo, poi tornò a lavorare freneticamente e il ragazzo si tirò a sedere, strizzando gli occhi nell'oscurità per osservare cosa lo circondasse e da dove fosse provenuta quella risata.
«Che pigro che sei», disse una voce alla sua destra. «Quanto dev'essere comoda la roccia per non farti venire neanche voglia di alzarti?»
Nehroi si paralizzò ed iniziò a sudare freddo. Erano ormai tre mesi che quella voce, quella dolcissima e familiare voce non lambiva le sue orecchie e, pur avendo rivissuto i suoi ricordi con lei ogni giorno ed ogni notte, sentirla di nuovo gli fece venire un tuffo al cuore. Temeva di averla alterata nei ricordi, che non fosse più quella...
«Annah», sussurrò senza fiato.
Si udì ancora la risata ed era carica di gioia, di felicità ed eccitazione.
Nehroi si voltò verso destra e il profilo chiaro e sereno di Savannah lo colpì come un bellissimo schiaffo. Era sdraiata a terra con i lunghi capelli sparpagliati, aveva le dita intrecciate sulla pancia che giocherellavano con il bottone dei jeans e le gambe accavallate; il piede sinistro dondolava tranquillo nell'oscurità.
«Sei...», balbettò Nehroi improvvisamente con la gola secca. Sembrava troppo bello persino per le sue migliori fantasie: entrare a Mjoklur e trovarla subito... eppure i suoi occhioni violacei lo stavano fissando, era innegabile e stupendo.
Nehroi si sentì leggero come una piuma.
«Sì, Neh, sono io. Sono qui.»
Savannah allungò una mano verso il suo viso, sfiorandolo appena. «Mi hai trovata.»
Nehroi si allungò verso di lei come un assetato verso l'acqua, ma la fredda roccia tornò a premere duramente contro la sua schiena e la nuca.
Nehroi aprì gli occhi per la seconda volta e una gelida consapevolezza gli fece capire che adesso era sveglio per davvero.
Si ritrovò sdraiato a terra, esattamente come poco prima, ma non c'erano i capelli neri di sua sorella a pizzicargli il viso, né lei era sdraiata accanto a lui.
Si mise a sedere e mandò giù un boccone di tristezza ruvida mentre si rendeva conto che tutto ciò che lo circondava non era altro che il buio di Mjoklur.
«Tu!», esclamò un'altra voce femminile da qualche parte attorno a lui, una voce che non conosceva.
Nehroi si voltò a destra e a sinistra, spalancando gli occhi per cercare di distinguere qualcosa in quella penombra che lo stava già stancando. La luce bianca era troppo debole per potergli essere d'aiuto e stava già per imprecare quando all'improvviso una donna comparve dal nulla di fronte a lui. Era più pallida di un malato e dai colori sbiaditi, come se fosse stata stampata con un toner scarico o se la sua immagine fosse rimasta troppo tempo in acqua. Attraverso la sua pelle e i suoi vestiti si poteva vedere la roccia nuda che aveva alle spalle.
«Tu...», disse lei di nuovo, con determinazione calata. Osservò Nehroi con espressione corrucciata, come se stesse cercando di leggervi qualcosa con quei deboli occhi stanchi, poi abbassò lo sguardo affranta e sospirò. «No, gli assomigli... e basta», mormorò confusa.
Nehroi deglutì imbarazzato e si guardò attorno, in cerca di qualche altra anima. Non comparve nessuno e, un po' sollevato ma anche deluso, si avviò verso la fonte della luce pallida, come Vedàsio prima di lui.
Le pareti di quel passaggio, probabilmente l'anticamera del vero Regno dei Morti, erano strette e soffocanti, a tratti così tanto basse che Nehroi dovette chinarsi o addirittura procedere carponi. Nel libro, Vedàsio aveva scritto che non bisognava assolutamente toccare le rocce e Nehroi si sforzò il più possibile di seguire quell'indicazione, sebbene non fosse spiegato il motivo.
La luce, nonostante fosse debole e pallida, simile a quella di una vecchia lampada al neon, lo costringeva a tenere gli occhi socchiusi e tutto il panorama era visibile solo attraverso le ciglia.
Ad un certo punto, dopo aver percorso una ventina di metri chinato a quel modo, il corridoio terminò e la luce, ora più diffusa e forte, lo immerse completamente. Vedàsio aveva descritto un immenso spazio oltre quel punto, ma questa conoscenza non impedì al ragazzo di provare molti brividi freddi e un paio di secondi di puro terrore quando mise il piede nella luce, senza vedere più alcun pavimento, muro o appiglio solido di nessun genere.
Il piede rimase sospeso nel vuoto per poco, però, come quando non si vede un gradino e lo si trova poco dopo: una breve sensazione di vuoto prima della stabilità ritrovata.
Nehroi si coprì gli occhi con una mano tesa a mo' di visiera e si immerse completamente nella luce.
Quando schiuse le palpebre, non riuscì a non rimanere a bocca aperta.
Lo spettacolo che aveva di fronte era immenso, stupendo e stranissimo allo stesso tempo.
Nehroi si sentì annichilito mentre spostava lo sguardo su ogni cosa che lo componeva... le sue iridi smeraldine erano estasiate da tanta bellezza.
La luce proveniva dal soffitto, un finto cielo schiarito dalla nebbia, una volta probabilmente rocciosa come tutto il resto da cui pendevano rami, erbacce o alghe; perché nel corridoio d'ingresso fosse sembrata tanto forte, Nehroi non sapeva spiegarlo.
L'ambiente ricordava una costa piena di scogli, di quelle rocciose e senza spiaggia, con enormi macigni adagiati ovunque, dalla scogliera fino al mare, rendendo lo specchio d'acqua argentata un infinito percorso ad ostacoli.
Al centro di tutto c'era un immenso edificio in pietra, dall'aria molto antico e consumato, sventrato a metà e senza facciata, tanto che Nehroi ci mise molto prima di comprendere che in origine era una cattedrale, simile a quelle degli umani ma volta al culto degli spiriti passati.
«Ovvio», mormorò il ragazzo a denti stretti. E a chi altri poteva essere dedicata una cattedrale nel Regno dei Morti, se non a loro stessi?
Le navate imponenti ricoperte di muschio erano cinque e quella centrale era decisamente più ampia delle altre ai suoi lati; le ultime due a sinistra erano ridotte solo ad arcate e colonne, con poco soffitto della volta ad unirle. L'intero edificio era storto: pendeva a destra verso il fondo, come se il fondale della battigia su cui era adagiato fosse crollato all'improvviso o l'avesse fatto sprofondare nel tempo. Le onde del mare lambivano le pareti esterne con estrema dolcezza e lentezza, senza far rumore, e si poteva intuire il loro movimento solo dall'intermittenza dei deboli riflessi sull'acqua.
Nehroi inspirò l'aria salmastra, umida e stantia e non appena constatò che faceva schifo, un forte prurito gli diede fastidio su un piede. Si chinò e tirò su l'orlo dei pantaloni per controllare cosa fosse successo e quel che vide gli iniettò una scarica di panico nelle vene: la sua gamba, dalla caviglia in giù, stava diventando trasparente.
“Devo muovermi”, pensò concitato smettendo subito di lasciarsi incantare dal Regno. “Devo sbrigarmi a trovare Anna, prima che mi trasformi in uno spirito anch'io”.
Si guardò attorno in cerca delle anime e ne vide un gruppo alla sua sinistra, parzialmente nascosto dagli scogli. Nehroi scese dallo scalino dell'ingresso e cercò di raggiungerli. Non fu facile: la sabbia di quella costa era troppo umida per poterci camminare tranquillamente, o semplicemente non poteva sopportare un peso così diverso rispetto a quello di incorporee anime.
Il brehkisth si aggrappò a tutti gli scogli lungo il percorso e dopo poco li raggiunse. Non riconobbe nessuno e nessuno riconobbe lui... o diede segno di aver notato la sua presenza.
Erano tutti inginocchiati, rannicchiati o accucciati vicino alle rocce, con gli sguardi vacui e i vestiti logori e senza dettagli. Non parlavano tra di loro, mormoravano e borbottavano qualcosa in continuazione ma solo a loro stessi, come in una nenia o un mantra da ricordare assolutamente.
«Il prossimo andrà meglio, il prossimo sì, il prossimo andrà meglio», ripeteva in continuazione una donna che si teneva la testa tra le mani e si guardava attorno spaesata, senza realmente posare lo sguardo su nulla.
«Scusate, ehi», disse Nehroi cercando di attirare la loro attenzione. «Gente, reverendi... sentite, qualcuno può aiutarmi? Sto cercando mia sorella e...»
«Ho tradito la mia famiglia, sono il disonore di tutti! E adesso che dirà mio padre? Chi è mio padre? Io sono il disonore, ho tradito tutti», ripeteva a macchinetta un altro, accanto ad un bambino rannicchiato che si dondolava avanti e indietro ritmicamente.
Una morsa di inquietudine si strinse attorno allo stomaco di Nehroi quando si rese conto della condizione in cui gli spiriti “riposavano in pace”.
Alzò lo sguardo ed aguzzò la vista per cercare degli spiriti più recenti, sperando che fossero in condizione di poter parlare con lui ed aiutarlo nella ricerca.
«Ehi tu, laggiù!», urlò ad una sagoma che saltellava sugli scogli. «Ehi!»
Lottando contro il terreno in cui sprofondava, Nehroi si velocizzò e cercò di raggiungere quello spirito che, almeno da lontano, sembrava meno perso nei propri rimpianti rispetto agli altri. Quando arrivò al punto in cui credeva di averlo visto, però, non trovò nessuno. «Amico? Anima? Spirito? Dove sei? Mi serve una mano, dai!», lo chiamò mentre setacciava ogni centimetro degli scogli che lo circondavano e salendo su uno di essi per vedere meglio la zona.
«Chi sei?», sentì poco dopo alle sue spalle.
Nehroi si voltò e ciò che vide lo rallegrò e rattristò allo stesso tempo: era un ragazzino dall'aria sveglia, ma pur sempre un ragazzino. «Mi dispiace», gli disse istintivamente.
Il bambino, che non avrà avuto più di dodici anni, inclinò la testa di lato e lo guardò stupito. «Di cosa?»
Nehroi scrollò le spalle e scosse la testa. «Non importa. Senti, tu non mi sembri andato come quelli laggiù o sbaglio? Devo chiederti un aiuto o rischio di non poter tornare più indietro.»
Il ragazzino sgranò gli occhi. «Mi sembravi diverso!», esclamò stupito. «Che forza, sei un ata! Sei ancora vivo! Fiiiiico!»
«Sì, sì, esatto», tagliò corto il brehkisth rabbrividendo al pensiero della sua gamba che stava scomparendo. «Puoi aiutarmi a cercare un'anima?»
Un paio di pietre della volta più rotta della cattedrale alle loro spalle si staccarono e caddero in acqua rompendo il silenzio placido come un'esplosione improvvisa. Molte anime si agitarono come fiammelle al vento voltandosi verso l'edificio, ma quelle che rimasero immobili ed impassibili erano di più.
Il ragazzino con cui stava parlando Nehroi si spaventò e si nascose dietro uno scoglio.
«Ehi, che fai?», lo prese in giro il brehkisth aggirando il masso. Gli venne l'impulso di prenderlo per un braccio e tirarlo su ma la sua mano non afferrò nulla. «Mica avrai paura che ti piova un sasso in testa, no? Sei già morto!»
Gli occhioni del ragazzino lo spaventarono. «Non ho paura di quello», rispose sollevando un indice verso di lui. «Ho paura di te. Rompi l'equilibrio, non puoi restare qui!»
Nehroi si morse il labbro inferiore ed annuì. Tirò su il pantalone e constatò amaramente che la trasparenza era già arrivata al ginocchio. «Lo vedi? Neanche io voglio rimanere qui ma non posso andarmene senza aver trovato chi sto cercando! Aiutami e non... romperò più l'equilibrio, promesso!»
Per quanto sforzo ci avesse messo, nella sua voce era trapelata più ansia di quanto gli sarebbe piaciuto. Tirò giù il jeans come un sipario frettoloso, incapace di guardarsi svanire un secondo di più.
Il ragazzino si fece forza e si mise in piedi. «Non so se è un metodo che vale anche per te», disse in tono di scuse, «Però se pensi ai tuoi ricordi con quella persona, questi ti ci portano... o almeno avvicinano.»
«Come funziona esattamente?»
Il brehkisth sentì una gocciolina di sudore scendergli lungo la tempia mentre il nervosismo avanzava: nel libro, Vedàsio aveva trovato subito la sua amata, dopo pochi passi tra gli scogli. Il come ciò fosse stato possibile, purtroppo, non era stato spiegato bene. Phil aveva ipotizzato qualcosa sul potere dei sentimenti, ma a Nehroi non convinceva.
Il ragazzino fece spallucce e il brehkisth strinse un pugno per cercare di controllarsi.
«Chi è la persona? Sei molto legato? Beh, devi esserlo per essere arrivato fin qui...»
«È mia sorella, sono più che legato», rispose impaziente Nehroi.
Sul viso del ragazzino si dipinse un'espressione che il brehkisth non seppe identificare, triste e fiera allo stesso tempo.
«Prova a pensare ai ricordi più intensi che hai con lei, poi ti verrà voglia di camminare e non fermarti. Lei dovrebbe avvicinarsi allo stesso modo, se riesci a concentrarti molto la dovresti richiamare...»
«Con te ha funzionato?», domandò Nehroi.
Il ragazzino annuì sorridente. «Ho ritrovato Miss Betsy, la mia cagnolina!»
Nehroi alzò gli occhi al cielo, o meglio alla nebbia biancastra, ed iniziò a frugare nella sua memoria mentre fissava con ostinazione un ramoscello con appena due foglie che pendeva dal soffitto del Regno dei Morti. Socchiuse gli occhi e strinse entrambe le mani a pugno.
Furono molte le vicende che si susseguirono torrenziali nella sua mente ma lui cercò di concentrarsi su quelle che avevano avuto più importanza per lui: le molte battaglie in cui se l'erano vista brutta, le serate passate sulla sabbia gelida con Lorwaar che spiegava loro le costellazioni, le gite e gli scherzi che facevano tra gli umani, la sensazione di casa e sicurezza che avevano trovato con Meede quando avevano girato Ataklur per la prima volta, quando il nonno li aveva ripresi con sé alla vecchia casa di legno, quando si erano miracolosamente ricongiunti nella grotta di Aldeolar, uno a caso tra i molti momenti di gioia e dolore durante le ricerche degli amuleti potenti con...
«Fratello, che ci fai qui?»
Nehroi si sentì pervaso da una scossa e si risvegliò dal tepore nel petto che tutti quei ricordi gli avevano creato.
«Ehi, ma tu sei ancora... beh, di certo non sei sbiadito come noi poveri spiriti vaganti... sei corporeo?»
Quella voce, quella voce.
Nehroi si voltò di scatto, tanto rapidamente da perdere per un secondo l'equilibrio, e sgranò gli occhi mentre le labbra gli si schiudevano per lo stupore. «Lor!», esclamò eccitato.
«In etere e polvere, amico!»
Lorwaar Koslen era comparso di fronte a lui giovane ed aitante come se lo ricordava: alto ormai meno di lui, che era cresciuto molto nei dieci anni in cui erano stati separati, con la pelle scura e i lunghi capelli castani e ricciolini raccolti in tante trecce che partivano dalla fronte e gli pendevano sulle spalle. La canottiera che indossava era la sua preferita, quella bianca, ed era ancora macchiata del suo stesso sangue, in ricordo dello sgozzamento che lo aveva spedito lì sotto.
Come nella maggior parte dei ricordi del brehkisth, Lorwaar era scalzo e aveva sul braccio destro un bracciale colorato, sebbene ormai fosse sbiadito come tutta la sua figura.
Lo sguardo furbo e cupo come la notte dell'amico fece ricordare a Nehroi che gli occhi che sperava di incrociare, per quanto fosse contento di averlo rivisto, erano viola.
«È meraviglioso che ci siamo incontrati di nuovo», gli disse con sincera felicità.
«Lo è, fratello, lo è eccome!»
«Non è che... per caso, non è che hai visto Savannah? Da queste parti, intendo...»
Lorwaar deglutì e lo guardò come se avesse detto una stupidata colossale. «Cosa?», domandò sconvolto. «Annah è morta? Come...»
Nehroi si sentì abbattuto. «Quindi è un no», commentò mentre con la mente ricominciava a pensare a lei in maniera ancora più intensa, addirittura chiamandola col pensiero.
La prima notte in orfanotrofio dopo la morte del nonno, si concentrò su quel ricordo. Lui aveva aspettato che l'istitutrice spegnesse le luci per scivolare sotto le coperte della sorella ed abbracciarla mentre piangeva per l'ennesima volta da quando erano tornati in quel posto malefico: quella era la notte in cui, per la prima volta, erano rimasti completamente soli al mondo...
«Neh, non vorrei allarmarti ma stai svanendo», lo informò Lorwaar con la sua solita e odiosa calma.
Nehroi smise di pensare alla sua maglietta bagnata dalle lacrime ed abbassò lo sguardo sulla felpa blu che stava indossando in quel momento: in fondo alle maniche le sue mani erano completamente trasparenti.
«Dannazione!», esclamò allarmato mentre si tirava su la felpa e la maglietta.
Lorwaar emise un fischio di approvazione non appena vide il suo busto. «Ti sei fatto degli addominali da paura, bello!», si complimentò.
«Non è il momento, Lor! Devo trovare Annah, la trasparenza...»
“Troppo tardi”, si ritrovò però a pensare a malincuore, sentendo l'angoscia salirgli fino alla gola. “È troppo tardi”.
Nehroi era già uno spirito fino alle costole: di vivo, in lui, rimanevano il petto, le spalle, il collo e la testa.
«Come ti senti ad avere ucciso il tuo...», domandò divertito Lorwaar indicandogli il cavallo dei pantaloni.
Nehroi non lo ascoltò neanche, il suo cervello stava lavorando alla velocità della luce. Com'era possibile che avesse perso così tanto tempo? Eppure non aveva passato più di cinque minuti a chiamare la sorella con i ricordi... possibile che avesse accelerato il processo di trasformazione sforzandosi a quel modo?
Doveva trovarla in fretta senza sforzarsi più... si guardò attorno: il ragazzino aveva detto che se l'avesse chiamata coi ricordi l'avrebbe portata a lui e lui si sarebbe sentito ispirato a camminare in una direzione per raggiungerla... ma nessun angolo di Mjoklur lo stava attraendo particolarmente, né nessuna anima stava venendo nella sua direzione.
C'era solo Lorwaar.
«La tua mossa?», gli domandò l'amico appoggiato allo scoglio. «Non che abbia altro da fare, per fortuna ancora non sono rimbambito come quelli del circolo dei rimpianti.»
Nehroi sudava ormai copiosamente: stava morendo e lo stava facendo fallendo nell'unica cosa che lo aveva tenuto in vita nelle ultime settimane. Quale fine sarebbe potuta essere più patetica di quella?
«Seguimi», disse a Lorwaar con decisione e a malincuore. Si voltò verso l'ingresso di Mjoklur, identificando con gioia il buco bianco e il gradino dell'ingresso, e iniziò a correre verso di essi. «Muoviti, su!»
Corsero verso la porta il più rapidamente possibile, zigzagando tra gli scogli o saltellando sopra di essi quando era possibile. Lorwaar arrivò prima di lui, Nehroi fu rallentato dal terreno cedevole sotto il suo peso corporeo e dal suo istinto che lo portava ad evitare gli spiriti che incontrava invece che attraversarli; per quanto quelli non fossero altro che fantasmi apatici incapaci di accorgersi di lui, gli sembrava sbagliato e in qualche modo maleducato o irrispettoso.
«Dammi le mani», ordinò deciso all'amico quando furono letteralmente ad un passo dall'ingresso. «Cerca di metterle dentro le mie, attraversami come... beh, come un fantasma, ok?»
Nehroi stese le mani davanti a sé come se stesse reggendo un vassoio invisibile. Lorwaar annuì deciso e posò fiducioso le mani sui palmi dell'amico, abbassandole poi fino ad immergerle completamente nelle sue.
Il brehkisth inspirò e pregò brevemente di non sparire proprio durante il riturale ma di riuscire a resistere almeno il tempo di mettere un piede fuori Mjoklur. Poi espirò e con il fiato tirò fuori a gran voce le parole di una richiesta alla magia che Lorwaar conosceva bene: «Regno dei Vivi che animi la mia carne! Serviti della mia volontà salda e rendi a questo spirito, Lorwaar Koslen, l'onore di calcare la tua terra! Io, Nehroi Krajal, ti offro metà del...»
«Ehm», lo interruppe Lorwaar con un colpo di tosse. «Forse dovresti mettere anche il mio secondo nome, per essere più specifico. Non si sa mai, magari porti in vita qualcun altro...»
Nehroi alzò un sopracciglio. «Hai un secondo nome?»
«Come tu ora hai un cognome, bello.»
«Che stai aspettando? Dimmelo!»
«Ah, giusto. Fureen.»
«Ugh.»
«Lo so.»
Dopodiché Nehroi fece nuovamente un bel respiro e ricominciò la preghiera, aumentando la velocità. Il formicolio della trasparenza iniziava a solleticargli il collo...
«E rendi a questo spirito, Lorwaar Fureen Koslen, l'onore di calcare la tua terra! Io, Nehroi Krajal... junior» aggiunse correggendosi, anche se reticente, «Ti offro metà del tempo concessomi dalle tue Leggi che tutte le creature osservano! Non reclamerò mai più nulla dalla tua generosa gloria e non rimetterò mai più piede in un Regno che non mi appartiene! Finché tra gli ata mi vorrai, tra gli ata resterò!»
Attese qualche secondo con l'impazienza di un bambino, ma non accadde nulla. «Nell'ultimo pezzo sembravi davvero forte», gli disse Lorwaar con un ghigno divertito. «Tipo un sacerd...»
Le parole gli si mozzarono in gola non appena il suo corpo iniziò a bruciare e ad appesantirsi. Le sue mani vennero staccate da quelle di Nehroi come se qualcuno le avesse tirate su con forza e ricaddero pesantemente sui palmi bianchi con uno schiaffo sonoro. «Ehi!», esclamò con il viso completamente illuminato di gioia e saltellando. «Il mio corpo!»
«Ti meraviglierai dopo», lo rimproverò Nehroi mentre metteva un piede oltre la soglia bianca dell'ingresso a Mjoklur. Sentiva il formicolio circondargli il petto in prossimità del cuore e il collo come un cappio che si stringeva sempre di più.
I due giovani attraversarono la soglia luminosa veloci come il vento e percorsero lo stretto corridoio con una mano sulla testa per proteggersi dalle rocce più basse. Arrivarono in breve tempo allo spiazzo in cui Nehroi si era ritrovato sdraiato e preda di un sogno che sembrava sempre di più utopico e si fermarono.
«E adesso?», chiese Lorwaar. Fece una smorfia angosciata quando vide che Nehroi iniziava ad essere trasparente fino agli occhi. «Fratello, dobbiamo uscire al più presto!»
Nehroi strappò via lo spago che teneva il libro di Vedàsio legato alla sua cintura e lo sfogliò rapidamente, arrivando in un battito di ciglia al punto in cui aveva infilato uno stelo d'erba come segnalibro: il paragrafo sull'uscita.
«Cosa, ora sei un bibliotecario a tempo pieno?», commentò il ragazzo osservando l'amico in preda alla lettura feroce. «Ricordami di non chiederti in prestito nulla...»
«Bisogna far sentire alla “fredda buca” la nostra presenza di carne e sangue, così capirà che siamo nel posto sbagliato e per bilanciare l'equilibrio ci espellerà!», esclamò Nehroi concitato. «Ecco perché all'andata c'era scritto di non toccare la roccia! Presto!»
Si gettò contro la parete rocciosa come se la volesse abbracciare, cercando di premere il suo corpo, o almeno le parti ancora solide ed effettivamente ancora fatte di carne e sangue, sulla roccia. Appoggiò la fronte, ma non era abbastanza: imprecò e piegò la testa in modo da appoggiare la sommità, unica parte del capo ancora non di puro spirito. Lorwaar, con un braccio, lo aiutò a premere il petto con forza, per far sentire che il suo cuore ancora batteva e anche molto rapidamente.
Anche Lorwaar si era spinto contro la parete rocciosa e per qualche silenzioso ed angosciante istante, l'unico suono tra loro era quello dei battiti dei loro cuori, che rimbombavano lievi nella roccia. Passarono un minuto ascoltando con trepidazione ed ansia i loro battiti accelerati contro di essa, poi entrambi sentirono qualcosa di duro che colpiva le loro teste. Guardarono in alto e videro che il soffitto della grotta si era incredibilmente abbassato, o che il pavimento sotto di loro si era sollevato senza che se ne accorgessero. Non c'era nessuna luce tra loro, solo oscurità profonda.
«Dev'essere la buca», disse Nehroi con un filo di voce. «Forse si è chiusa perché l'ho aperta con il sangue di Savannah e invece ora ci sei tu.»
«Sei ancora mezzo spirito? Cioè, tre quarti... o nove decimi...»
Nehroi alzò una mano e non riuscì a toccare il soffitto. Grugnì infastidito.
«Spostati, faccio io», disse Lorwaar tutto contento. «Anche se in realtà potrei attraversarti... forte, eh? Un attimo fa eravamo al contrario!»
Il brehkisth preferì non rispondere.
Lorwaar alzò un braccio ed iniziò a picchiare contro il soffitto con forza. «Non è molto spesso», disse sollevato, poi riprese con più forza.
Dopo qualche tentativo, udirono quello che per loro e in quella circostanza era il suono più bello del mondo.

Crack.



*°*°*°*


Waaaaaaa finalmente siamo arrivati a Mjoklur!! E ne siamo anche usciti, certo u.u
Delusi che non è stata trovata Savannah? Spero che conoscere il simpaticissimo Lorwaar abbia lenito un po' la delusione... cosa, credete che Nehroi si farà fermare proprio ora? :P

Grazie mille alle mie fedeli seguaci, non farei nulla senza di voi!!
Alla prossima, cari lettori (anche coloro che non battono un colpo, so che ci siete ^^)!
Ciao!

Shark

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Capitolo 7
*** Come un Miscuglio ***


9
Come un Miscuglio



Nehroi uscì dal buco non senza fatica, facendo un grande sforzo con le braccia per issarsi ed appoggiare un ginocchio sul terreno. Il suo corpo riprese consistenza non appena la superficie della buca venne rotta e il passaggio dallo spirito incorporeo ad un fisico solido lo spossò molto.
Phil e Kayrin accorsero subito ad aiutarlo, ma il brehkisth scacciò l'umano con la mano e si lasciò tirare su solo dalla jiin. Kayrin lo trascinò un po' più in là, lasciando un solco sull'erba morbida, e poi con Phil allungò un braccio verso il nuovo arrivato, il redivivo che stropicciava gli occhi per evitare la luce del sole che riusciva a passare attraverso la fessura della piccola grotta circondata dai fumi velenosi.
«Chi...?», domandò Kayrin interpretando il pensiero di Phil quando si accorsero che quello non era assolutamente Savannah.
Lorwaar si sdraiò a pancia in giù sul terreno, issandosi rapidamente, ed agitò le mani come se stesse nuotando scalciando furioso ed eccitato per allontanarsi sempre più dal Regno dei Morti alle sue spalle. La buca ricompose silenziosamente la sua chiusura e tornò ad essere perfettamente nera ed ermetica come poco prima. La punta di freccia insanguinata venne risputata dai due sassi in cui era stata incastrata e cadde di lato con un rumore lieve.
“Aria, aria fresca”, pensò Lorwaar con un tuffo al cuore. Quanto gli era mancato respirare? Fin troppo, si rispose mentre schiudeva sempre più le palpebre e iniziava a distinguere qualche ombra colorata attorno a sé. Comprese di non essere ancora all'aperto, ma quel che vedeva era di gran lunga migliore di ciò che aveva avuto sotto gli occhi per anni. L'erba era morbida e profumata...
Provò ad inspirare a pieni polmoni ma tossicchiò, poi tossì violentemente e in maniera rumorosa, rischiando di strozzarsi.
«Vacci piano», lo ammonì Kayrin ostentando freddezza dopo esserglisi corsa vicino per dargli qualche pacca sulla schiena.
Lorwaar annuì distrattamente e strizzò ancora gli occhi, poi li aprì e finalmente riuscì a vedere più nitidamente. Si alzò in piedi barcollante e alzò le braccia verso il suo compagno di gioventù. «Nehroi! Ce l'abbiamo fatta!», urlò esplodendo di felicità. Il suo sorriso era qualcosa di semplicemente radioso e tutti si ritrovarono ad emularlo senza rendersene conto; anche Phil, nonostante quel ragazzino sconosciuto non gli ispirasse alcuna particolare simpatia.
Nehroi allargò le braccia a sua volta e lo accolse in maniera molto fraterna, con uno di quegli abbracci che durano parecchi secondi e in cui si ride l'uno sulla spalla dell'altro. Lorwaar non aspettava altro e lasciò che passasse il giusto tempo prima di staccarsi e di guardare il compare con un sopracciglio alzato e un'espressione scandalizzata. «Cavolo, amico, ti hanno arruolato tra i giganti e ti hanno strizzato?», esclamò mentre rideva e lo colpiva sul petto con una mano. «Prima non me ne sono reso conto ma... sei troppo alto!»
«Troppo?», domandò il brehkisth ridacchiando a sua volta, il sopracciglio alzato.
Lorwaar lo esaminò da capo a piedi e gli fece un versaccio. «Sei anche più grosso, guarda che spalle ti sono venute fuori! Ti sei messo a fare pesi? Che ti inietti? Sul serio, amico, l'ultima volta eri un nanetto!»
Nehroi scoppiò a ridere come un palloncino troppo pieno e Phil si ritrovò a pensare che non l'aveva mai visto così felice e sollevato, neanche prima che Savannah morisse.
«L'ultima volta è stata dieci anni fa, Lor... sono un po' cresciuto», gli disse Nehroi con un'espressione bonaria. Abbozzò anche un occhiolino ma l'amico sgranò gli occhi e il suo viso si colorì rapidamente.
«D-di...», balbettò il ragazzino, «Dieci anni? No, dico, sei impazzito? Perché mi avete fatto aspettare così tanto tempo, vi eravate dimenticati di me?!»
Phil non riuscì a trattenere una smorfia e una risatina. Lorwaar lo guardò storto, come se stesse realizzando solo in quel momento che tra loro esisteva anche un biondino spettinato, con una gamba ricoperta di sangue e con una camicia rovinata, ma l'umano non se ne curò. «Credo tu sia l'unico essere di nuovo vivente che si lamenta di essere stato riportato in vita», commentò.
Lorwaar alzò un dito contro di lui, continuando a fissarlo infastidito, poi ruotò la testa verso Nehroi e corrugò la fronte. «E lui chi sarebbe?», domandò scettico mentre le treccine gli dondolavano sulla schiena.
Il brehkisth fece spallucce. «Compagno di viaggio», liquidò. «Lunga storia.»
«Non abbiamo mai...» ma le cose sono un po' cambiate, ne sono successe tante e... è una lunga storia, te l'ho detto.»
Il suo sguardo cadde come attirato da una forza invisibile sulla buca nel terreno, quel pozzo profondo e oscuro che separava due mondi tanto complementari quanto opposti e si inumidì le labbra.
«Mi spiace per Annah», gli disse Lorwaar con voce grave. «Sul serio, non sapevo fosse...»
«Va tutto bene, tranquillo.»
Lorwaar annuì e alzò una mano per dargli una pacca sulla schiena o sul braccio ma perse l'equilibro e cadde all'indietro come un sasso, senza neanche cercare di rimanere in piedi o di reagire. La sua testa batté a terra con un bel “tonf” e il giovane jiin si ritrovò a fissare il soffitto della grotta con lo stupore di un bambino che non ha capito cosa è successo.
Tutti e tre i presenti si precipitarono da lui per aiutarlo a rialzarsi, ma Lorwaar barcollò di nuovo non appena lo rimisero in piedi e cadde dopo meno di un passo, esattamente come poco prima: come se fosse fatto di piombo e non fosse ben bilanciato.
«Che ti succede?», domandò Nehroi con un certo allarmismo.
Sul volto del suo amico era sempre dipinta un'espressione stupita. «Non lo so», rispose sinceramente.
Si mise seduto e si osservò mani, busto e gambe come se non fossero i suoi mentre, attorno a lui, occhiate imbarazzate e piene di domande venivano scambiate con frenesia.
«Cado.»
«Probabilmente devi ancora abituarti di nuovo alla materialità, al peso e all'equilibrio», ipotizzò Kayrin prontamente. Gli tese la mano esile e sfoderò un sorriso cordiale. «Mi chiamo Kayrin, piacere di conoscerti.»
Lorwaar la scrutò per un istante o due prima di tendere la ano a sua volta e di stringerla... o cercare di farlo. Le dita non sembravano volerci mettere molta forza, in quel gesto.
«Ma prima ho addirittura corso! Ho rotto quel soffitto della buca!», protestò il giovane di colore con grande stupore.
Kayrin inclinò la testa di lato con perplessità e sbatté un paio di volte le palpebre. «Adrenalina?», propose. «Forse la stai smaltendo...»
«Sei il medico del gruppo?», chiese Lorwaar con vago scetticismo mentre si metteva a sedere. «O l'enciclopedia con le gambe?»
«Kayrin è l'assistente ed allieva di Meede, oltre che una jiin di livello... rosso, giusto?», rispose Phil inserendosi nella conversazione.
La donna scosse debolmente la testa. «No, non del tutto almeno», disse, «Secondo il Guardiano sono ancora arancione, molto scuro ma non proprio rosso.»
Lorwaar tirò un angolo della bocca in un sorriso sghembo. «Allora sono un pochino sopra di te, io sono rosso certo! Come anche Annah, se ci fosse faremmo il trio dei jiin rossi!»
Guardò i presenti e l'unica reazione che vide non fu una risata o dei sorrisi come si sarebbe aspettato ma occhiate fugaci e basse. «Beh?», domandò con un po' di nervosismo. «Che c'è, un og vi ha mangiato la lingua?»
«Savannah era di livello viola», disse Nehroi non senza fatica. «Abbiamo avuto qualche... episodio difficile da che te ne sei andato. Molto da raccontare.»
Lorwaar si portò una mano sul volto e socchiuse gli occhi in un sospiro profondo. «Scusate se vi sembro irrispettoso o... non so, insensibile...», scosse la testa. «È che quando muori e fai una bella permanenza a Mjoklur diciamo che la morte non è più così pesante come presenza. Ho imparato per così tanto tempo ad accettarla che ormai non mi tocca più!»
«Nehroi ha sacrificato metà del suo tempo futuro per riportarti indietro», sottolineò Phil con un'espressione dura sul viso.
«Ehi bello, non dico che non dia più valore alla vita!», riparò in fretta il giovane jiin alzando le mani come a dichiararsi innocente. «Il contrario, anzi! Non ne do alla morte, capisci?»
Nehroi si sedette dall'altro lato della grotta e si grattò la testa con entrambe le mani, scompigliando completamente i ricci castani e sporchi. «Che ne dite se riposiamo un po'?», propose guardando tutto il gruppo. Kayrin aveva le braccia incrociate e stava dritta esattamente al centro della piccola radura nascosta, nascondendo Phil al debole raggio di luce proveniente dall'esterno. L'umano aveva un'espressione incredibilmente seria e stravolta allo stesso tempo e Nehroi si chiese se fosse tutto solamente colpa della ferita alla gamba.
«Cos'è andato storto laggiù?», chiese infatti Phil, come se avesse letto i pensieri del brehkisth. «Perché non hai trovato Savannah?»
Nehroi continuò a fissarlo per un altro paio di minuti, respirando piano, indeciso su cosa rispondere e se farlo. In un istante gli tornò in mente tutto lo sconvolgimento provato prima di calarsi nella buca e i suoi occhi saettarono verso la punta azzurra della freccia tra i sassi prima che potesse fermarli. Lorwaar se ne accorse e la guardò a sua volta, domandandosi con stupore cosa fosse. Si chinò in avanti e con due passi a carponi la raggiunse e la afferrò, per poi lanciarla via subito con un gesto secco: era ancora attiva e il contatto gli bruciava la pelle. Nehroi distolse lo sguardo ed inspirò mentre Lorwaar si massaggiava la mano. «Non ne sono stato capace», disse dolorosamente, «Non sono stato capace di attirarla a me. A quanto pare laggiù funziona in questo modo e non sono stato bravo.»
Quelle poche parole, criptiche e intrise di significati, aleggiarono tra loro come spettri inquietanti.
Il pensiero di Nehroi corse rapido al fantasma della donna che l'aveva raggiunto subito, non appena sceso dalla buca, ma ancora non riusciva a comprendere chi fosse e perché, evidentemente, la sua presenza l'avesse attratta a lui.
Kayrin si chiese per l'ennesima volta come potesse essere vero e possibile tutto ciò che le stava accadendo attorno. Pensò a sua madre e corrugò la fronte nell'immaginarla scandalizzata al sapere che tutto ciò che aveva raccontato alla sua bambina per farla addormentare non erano favole e leggende ma crude realtà...
«Non dire così, fratello», Lorwaar rimproverò Nehroi con un sorriso largo e caldo. «Con me ha funzionato! Stavo gironzolando come al solito in modo inutile e casuale quando ho sentito che dovevo andare da una parte precisa... e bam! Tu eri lì!»
Nehroi rimase lievemente sorpreso da quella versione dei fatti, ma non riuscì a rallegrarsene. «Io non ho pensato a te, se non di sfuggita tra i vari ricordi che...»
«Non so che dirti», lo interruppe Lorwaar con la sua solita insolenza, «Sarà stato anche un pensiero di striscio ma evidentemente era abbastanza intenso! Non farti le paranoie, non è colpa tua... ci hai provato», aggiunse poi frettolosamente, vedendo che Nehroi stava per abbattersi.
In realtà dentro la sua testa provata e stanca si stavano agitando molte rotelline.
«Come funziona quando arriva lo spirito di qualcuno che conosci?», gli domandò, «Lo percepisci? Lo incontri?»
Lorwaar sembrò pensarci su un attimo, incerto su cosa rispondere. «Dipende», disse poi. «Per alcuni il legame è abbastanza forte e ce la puoi fare, ma dipende da quando è in para l'altro o quanto lo sei tu...»
«In cosa?»
«In para. Paranoia. Li hai visti quelli del club del rimpianto, no? La maggior parte della gente laggiù è così, dico roba come il novanta percento, eh. Alcuni fin dal primo momento, altri ci mettono un po' ad elaborare.»
«Tu no, però», commentò Neh con una nota di fierezza nella voce. Anche i suoi occhi sembravano brillare un po' di più.
Lorwaar sorrise. «Avevo due fratelli tosti e una promessa a legarci, non ho mai smesso di pensare positivo!»
Anche Kayrin e Phil si sedettero, leggermente più vicini tra loro rispetto agli altri ma comunque distanti. Formavano un quadrato sbilenco all'interno della grotta quasi circolare, occupando ognuno un po' di prato e di luce.
«Dunque lo dovresti aver percepito», disse Phil dopo averci rimuginato un po' su. «L'arrivo di Savannah, intendo. Se da parte tua il legame era così forte... non riesco ad immaginarmela paralizzata dai rimpianti, impossibilitata a sentirti.»
Lorwaar si sentì spiazzato da quell'analisi. Per un istante, addirittura, si domandò se quell'uomo non fosse venuto giù con Nehroi e non se ne fosse accorto, tanto precisa e plausibile era quell'ipotesi.
«Ma se tu non l'hai vista giù...», proseguì debolmente Nehroi, seguendo un percorso di pensieri tutto suo.
Lorwaar si rianimò come se la roccia alle sue spalle gli avesse dato la scossa. «Giusto, ma certo! Che fonti hai, Neh? Quand'è stata l'ultima volta che hai avuto sue notizie? L'ultimo luogo? Magari non è morta, dai!»
Nehroi sentì il terreno cedergli sotto le gambe. «No, io non intendevo...»
«Te l'ho sempre detto, fratello, non dimenticare mai di constatare la verità e l'affidabilità delle storie!»
Il brehkisth chiuse gli occhi come se improvvisamente gli dolessero. Anche il suo respiro rallentò e si fece più pesante. «È morta... tra le mie braccia, Lor.»
Sembrava che stesse lottando contro l'istinto di urlare o di avere uno scatto rabbioso. «Non potrei essere più certo di così.»
Le energie svuotarono il corpo del jiin in meno di un secondo, lasciandolo come un palloncino sgonfio. «Oh», disse. Non sapeva cos'altro aggiungere.
Fu allora che Kayrin si intromise nuovamente tra loro. «Adesso riposiamo tutti quanti, domani cerchiamo di andarcene da questa gabbia e decideremo la prossima mossa quando saremo lontani da tutto quel veleno là fuori, intesi? Su!», batté le mani come una maestra o una madre. «Dormite!»

Al mattino seguente, o almeno quando tutti si svegliarono, decisero di abbandonare quella caverna utilizzando la stessa tattica dell'andata: bolle di ossigeno per tutti e cappuccio sul volto per Nehroi.
Kayrin creò la maschera trasparente anche per Lorwaar, dal momento che la sua magia ancora non era completamente affidabile: aveva provato a creare un globo di luce durante la notte e questo gli era esploso nel palmo della mano inondando tutto l'ambiente di luce biancastra. «Sembro Annah...», aveva bofonchiato deluso dal tentativo.
Questa volta i membri del gruppo mantennero una distanza molto più stretta tra loro, in modo da non perdersi di vista e non dover poi tornare indietro a recuperare nessuno. Lorwaar si era offerto di aiutare lo zoppicante Phil, ancora incapace di appoggiare completamente il piede a terra, ma fu Kayrin ad aiutarlo, non smettendo mai di lanciare occhiatacce alla schiena di Nehroi, davanti al gruppo con così tanta ostinazione da sembrare che non volesse più guardare in faccia nessuno... o almeno l'umano.
Il fumo viola era intenso come la volta prima, se non di più. Lorwaar faceva da ponte tra Nehroi, sempre davanti e con il cappuccio fortemente premuto su naso e bocca, e Kayrin e Phil, in coda al gruppo, controllando che non si distanziassero troppo. Il giovane jiin cadde un altro paio di volte, senza comprendere se fosse capitato perché perdeva l'equilibrio come la sera prima o perché inciampava nelle rocce aguzze e tortuose del percorso; in ogni caso, riusciva a rialzarsi in piedi prima che Kayrin potesse mettere giù Phil e accorrere in suo soccorso.
L'atmosfera velenosa si diradò a poco a poco, finché la luce del sole poté tornare ad accecarli e l'aria fu di nuovo fresca e frizzante. Nehroi si gettò tra la polvere ad almeno tre metri dalla fine della coltre violacea, si tolse la felpa e la sbatté per pulirla dai fumi mentre aspettava che arrivasse anche il resto del suo gruppo. Solo allora, con la felpa tra le mani e le braccia scoperte, si accorse che il patto che aveva stipulato con il Regno dei Vivi per riportare Lorwaar in vita gli aveva lasciato dei segni: sottili marchi neri gli decorrevano dai polsi per metà avambraccio, come una cascata di una decina di sottili righe nere, alcune rette e altre leggermente ondulate, che terminavano sparendo gradualmente sulla pelle a lunghezze diverse. Non erano linee continue, o almeno non tutte: alcune sembravano delle fittissime successioni di parole scritte così in piccolo che era impossibile distinguere i simboli.
Lorwaar comparve dalla coltre di fumo viola mentre Nehroi aveva il naso spiaccicato contro il braccio per cercare di leggere quel marchio e il brehkisth si interruppe non appena udì i suoi passi.
«Bella scarpinata», disse il giovane jiin crollando a sedere accanto a lui. «Cos'è quella roba?»
«La copia cliente del nostro giochetto, credo che dica “Hai buttato via un sacco di anni per un cretino”», gli rispose ridacchiando mentre si rimetteva la felpa blu.
Anche Kayrin e Phil comparvero dalla coltre velenosa e le loro maschere si dissolsero contemporaneamente a quella di Lorwaar non appena la donna si sedette a terra e riprese fiato.
Phil si tastò la gamba e sollevò l'orlo dei pantaloni per controllare lo stato della ferita. Tuffò una mano nella sua borsa e ne estrasse una scatoletta rotonda e verdina. Tolse il coperchio ed afferrò un po' della polverina rosata che conteneva.
«Non è neanche passato un giorno da quando l'abbiamo applicata», lo rimproverò Kayrin allungando un braccio per prendergli la scatolina.
«Se non funziona, io lo metto ancora», rispose di rimando l'umano, spalmano sulla ferita alla caviglia e al polpaccio il medicinale.
Nehroi alzò gli occhi al cielo e li lasciò bisticciare tra di loro con noia. Gettò la testa all'indietro e guardò Lorwaar, impegnato alle sue spalle ad ammirare il panorama con una mano testa sulla fronte come una visiera.
Il sangue incrostato sulla maglietta e sul collo, poco sotto la linea sottile del taglio che lo uccise, gli fece venire il voltastomaco. In un secondo Nehroi si ritrovò con la mente sulle colline tra Eastreth e Kyureth, non molto distanti da dove si trovavano ora. Rivide il tempo di Ajak, come se ce l'avesse di fronte, e rivide sé stesso, Savannah e Lorwaar al cospetto dei sacerdoti regali...
Strinse le mani a pugno e ricordò anche quando catturarono il suo amico e fratello, lo ricordò circondato dai sacerdoti e ricordò le loro voci possenti e minacciose quando intimavano loro di restituire il diadema della regina, il talismano più potente su cui avessero mai messo le mani da quando avevano iniziato a perseguire la missione. Nel tempio alle loro spalle le fiamme erano alte e i muri cadevano su loro stessi come birilli instabili. Il fuoco rendeva le sagome dei sacerdoti nere come spettri, mentre i loro occhi brillavano di odio nei confronti dei ragazzini che li stavano mettendo in difficoltà. Uno di loro, un enorme sacerdote con una tunica larga e bruciata, teneva saldamente Lorwaar con un braccio solo, stringendogli il torace, e con l'altro brandiva un pugnale privo di decorazioni ma dall'aria più che tagliente.
Savannah, che da poco aveva smesso di sembrare una bambina, aveva appena portato Nehroi lontano dalle macerie del tempio. Lei l'aveva innescata non appena le cariche erano state posizionate, ma avevano fatto male i conti e lui era rimasto coinvolto nell'esplosione. Far brillare il tempio per destabilizzarne le difese per potersi avvicinare al diadema era sembrato un ottimo piano, e infatti Savannah era riuscita abilmente ad intrufolarsi all'interno della cripta mentre il panico impossessava i sacerdoti e faceva scappare all'esterno anche quelli che non erano stati fatti uscire dalle provocazioni di Lorwaar all'ingresso.
Quando le sue dita sottili si erano chiuse attorno al gioiello, una vera delizia in oro bianco e smeraldi, Savannah aveva pensato che quel piano non fosse solo perfetto: di più. Ma mentre sgattaiolava via riparata dal suo scudo camaleontico che la rendeva invisibile, aveva incrociato il corpo ferito di suo fratello e aveva dovuto rallentare la fuga per caricarlo in spalle e portarlo al sicuro... mentre Lorwaar, invece, soccombeva ai sacerdoti e veniva catturato.
Nehroi chiuse gli occhi. Non poteva continuare a guardare quella ferita di Lorwaar senza ricordare che era stato lui, lui soltanto, la vera causa della morte dell'amico...

«Conto fino a dieci, ragazzi», aveva tuonato il sacerdote che stringeva Lorwaar senza via di fuga. «Il vostro amico per il diadema della regina, niente trucchi. Uno!»
Savannah aveva squittito e si era voltata verso Nehroi in uno scatto. «Dobbiamo restituirlo!», gli aveva detto all'ombra degli alberi della piccola foresta in cui si erano rifugiati.
«Due!»
Nehroi non aveva detto nulla ma l'aveva solamente fissata, osservando i suoi tratti fanciulleschi illuminati dalle fiamme arancioni dell'incendio che stava distruggendo il tempio. I suoi occhi sembravano liquidi, nel tremore del fuoco alle loro spalle.
«Tre!», continuava a scandire il sacerdote. Accanto a lui, i suoi confratelli radunavano i feriti e i caduti e li disponevano l'uno accanto all'altro con ordine e rispetto. «Quattro!»
Un'ala del tempio, quella che terminava in una torre svettante e molto elegante, stava crollando a terra e si era udito un vociferare confuso di stupore e spavento tra la polvere sollevata.
«Neh...»
Savannah aveva iniziato a mettersi in piedi e strinse il diadema. «Noi non ci abbandoniamo...»
Nehroi aveva annuito tremante mentre il sacerdote urlava “cinque”. «Certo che no», aveva detto il ragazzino.
Con uno sguardo al diadema si era sentito sopraffatto dal potere che portava con sé e dai progetti che avrebbero portato avanti una volta arrivati nella loro casetta in Virginia.
Aveva provato un brivido e si era reso conto che il sacerdote era già arrivato al sei.
«Neh!», aveva squittito ancora Savannah, sempre più agitata. I suoi occhi ora erano due piccoli pozzi di paura e frenesia. «Lo uccideranno!», aveva esclamato allarmata mentre ruotava continuamente la testa dal fratello a Lorwaar, oltre il cespuglio che li nascondeva.
«Sette!»
«Io vado», aveva detto la ragazzina alzandosi in piedi. Aveva calcolato la distanza e se avesse aspettato di più, non sarebbe arrivata in tempo.
Il braccio di Nehroi le aveva afferrato la caviglia mentre si udiva un potente “OTTO” in lontananza. «Non puoi fidarti!», aveva sibilato con durezza mentre la faceva ruzzolare.
Savannah si era ritrovata faccia a terra, il diadema ruzzolato a mezzo metro da lei. Di fronte al suo viso terrorizzato, il sacerdote aveva alzato il braccio con il pugnale e lo stava premendo contro il collo nudo di Lorwaar. «Neh!», scalciava con forza. Il fratello però la teneva saldamente.
«NOVE!»
Savannah era riuscita a liberarsi e aveva iniziato a correre a perdifiato verso i sacerdoti, verso le fiamme, verso il pugnale, verso Lorwaar. Il diadema stretto tra le sue piccole dita, le guance rosse, gli occhi terrorizzati...

Nehroi riaprì gli occhi. La lama sgozzò il ragazzo poco prima che lei riuscisse ad uscire dal bosco.
Ricordava la sua figura afflosciarsi a terra, sulle ginocchia. Era nera anche lei, in controluce come i sacerdoti, come il bosco, come il corpo di Lorwaar abbandonato sull'erba bruciata.
Il brehkisth si portò una mano al petto e si scoprì ansimante e sudato.
«Che ti succede?», gli domandò Lorwaar comparendo al suo fianco dopo aver finito di osservare il panorama. «Sembra che hai visto un fantasma...»
«Ho visto te», disse Nehroi, poi socchiuse gli occhi e riformulò. «La tua maglietta è ancora... insanguinata e io ho ricordato...»
Il giovane jiin sembrò accorgersi solo in quel momento di ciò che stava indossando. «Ah», esclamò sorpreso, «Giusto...»
Dieci”, pensò Nehroi. Il respiro era ancora pesante.
«Hai mica qualcosa da prestarmi?», proseguì Lorwaar ignorando la morsa di angoscia e colpevolezza che attanagliava l'amico mentre questi scuoteva debolmente la testa.
«Una camicia», disse poi, ricordando i suoi abiti umani che aveva stipato nella ventiquattrore di Phil quando l'aveva stordito e portato con la forza di nuovo ad Ataklur.
Lorwaar arricciò il naso e fece un verso strano. «Figurati se indosso una roba simile», borbottò mentre si toglieva la canottiera bianca e la esaminava tenendola appesa tra due dita come uno straccio. «A Kyureth non ci sono fiumi e io non posso ancora usare bene la magia...»
Si voltò rivolgendo il busto nudo verso Kayrin, intenta a sistemare una benda attorno alla gamba di un sofferente Phil, evidente vincitrice dello scontro tra opinioni di cura.
«Ehi, non è che potresti provare a sistemarla?», le disse agitando la canottiera come una bandiera.
Kayrin sbuffò e lo guardò di sbieco. «Appoggiala lì, ora sono un tantino occupata», lo liquidò mentre stringeva la benda e faceva sussultare Phil di dolore.
«Acida», commentò Lorwaar mentre obbediva e lasciava cadere l'indumento.
«Ti ho sentito.»
Nehroi inspirò e si mise in piedi. Il sole era alto sopra di loro e mentre si metteva le mani in tasca e muoveva qualche passo verso la vallata, pensò a cosa avrebbe dovuto fare.
La distesa di Kyureth si aprì davanti ai suoi occhi dopo aver aggirato qualche masso tagliente e spigoloso. Aveva sempre pensato che fosse la regione più brutta, caratterizzata così tanto dai veleni da costringere la popolazione a vivere in serre sopraelevate per sfuggirvi. Vista così, però, dall'alto del pendio e con lo sguardo stanco di chi cerca solo riposo e serenità, gli sembrò che quella spessa striscia violacea e grigiastra, che si stendeva placida come moquette letale da un lato all'altro della valle interrotta solamente dalla città, gli trasmettesse un certo senso di pace e stabilità.
Aver visto gli scogli umidi, la cattedrale distrutta e le anime piene di rimpianti del Regno dei Morti aveva cambiato in qualche modo la sua visione delle cose.
Sforzò la vista per cercare di vedere le piramidi della città che poggiavano il vertice tra i veleni, intravedendo l'anello che formavano le sette costruzioni e lo scintillante riflesso del sole sulle cupole di vetro lo accecò.
«Propongo di fare qualcosa», disse Phil zoppicando verso di lui. Era arrivato abbastanza silenziosamente da non farsi notare e Nehroi non riuscì ad evitarlo in tempo.
«Cosa?», gli chiese mentre faceva un passo di lato, aumentando la distanza tra loro. Non poteva guardarlo in volto che la sua immagine veniva sovrapposta dal ricordo della sua espressione colpevole mentre estraeva la freccia che ha ucciso Savannah. Come poteva scordare che aveva tenuto una reliquia del genere? Senza dirglielo!
«Non lo so», rispose l'umano avvicinandosi ancora. Nehroi non poté arretrare oltre: le sue spalle toccavano la roccia. «Però non possiamo rimanere qui a respirare i vapori velenosi per sempre.»
«Pensavo di...»
Le parole non arrivarono alla gola di Nehroi, non perché fosse difficile pronunciarle ma perché non c'erano: cosa avrebbe dovuto fare? Non aveva mai considerato l'ipotesi di tornare tra i vivi senza Savannah.
Scostò Phil e tornò verso Lorwaar e Kayrin, nella speranza che un'idea, una qualunque idea gli venisse in mente in qualche modo.
Vide il suo amico lisciarsi la canottiera contento e notò che era tornata bianca, immacolata come se non fosse mai stata indossata ad un omicidio.
«Visto che lavoretto?», gli disse Lorwaar indicandosi il busto. «Quella Kayrin non è male, troppo vecchia per i miei gusti, certo, ma... beh, anche molto lunatica. E bruttina. No, in effetti è male.»
Nehroi alzò gli occhi al cielo e sfiorò il libro di Vedàsio, di nuovo appeso alla cintura, comprendendo che finché Lorwaar non avesse smaltito la sua euforia del ritorno tra i vivi, non sarebbe stato di grande aiuto.
«Ah», aggiunse il jiin non appena Nehroi ebbe aperto il libro, mentre Phil tornava tra loro.
«Che c'è?»
«Dov'è Kayrin?», domandò contemporaneamente l'umano.
Nehroi ruotò la testa in tutte le direzioni ma non la vide.
Lorwaar alzò le mani ed attirò la sua attenzione. «Quello che stavo iniziando a dirti, fratello, lei se n'è andata.»
Phil corse nella sua direzione rischiando di cadere e rovinare ancora di più la ferita. «Che cosa?!», domandò quasi urlando non appena gli fu di fronte.
«Perché l'hai lasciata andare?», chiese invece Nehroi, avvicinatosi anche lui.
Lorwaar si sentì oppresso e fece un passo indietro. «Ehi, ragazzi, non sapevo fosse vostra prigioniera!»
«Non...», iniziò Nehroi quasi spazientito, poi si ricompose. «Certo che non è prigioniera, ma avrebbe dovuto avvertirci! È da sola! Dov'è andata? E non è neanche...»
«Ehi, ehi!», lo fermò Lorwaar prendendolo per le spalle. «Ha detto che torna subito, no non mi ha detto dove andava ma che non dovete preoccuparvi e blablabla cose così. Io mi fido!»
Nehroi gli scoccò un'occhiataccia. «Tu», scandì, «Non sei ancora affidabile.»
Phil si morse il labbro inferiore. «È già la seconda volta che scappa da noi», disse quasi sovrappensiero.
«Almeno l'altra volta sapevo perché, dove sarebbe potuta andare e che sarebbe tornata indietro», commentò Nehroi secco. Non riusciva a capire perché se ne fosse andata a quel modo e perché si stesse scaldando tanto. Non era una persona cara, perché allora aveva tanta paura di perderla?
«Hai visto in che direzione è andata, almeno?», chiese a Lorwaar con voce trattenuta.
Il jiin annuì e Phil guardò Nehroi fiducioso. «Tornerà, vedrai.»
Nehroi, però, scosse la testa. «No, non mi affiderò al caso. Andiamo anche noi da quella parte: magari non saremo il quartetto più affiatato del mondo ma non voglio più perdere nessuno del mio gruppo.»



*°*°*°*


... sì, il capitolo era già pronto da un pezzo ma non ho mai avuto tempo di postarlo... sono una persona cattiva U_U
Spero vi sia piaciuto! Vedere un altro pezzetto del passato dei nostri protagonisti, comprenderli un pezzettino di più... cosa succederà ora? :D

Grazie a coloro che mi seguono!
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 8
*** Punto di non-ritorno ***


10
Punto di non-ritorno



«Non capisco», disse Phil raggiungendo Nehroi in testa al gruppo.
«Dov'è Lor?», domandò invece il brehkisth guardandosi indietro e ignorando la domanda.
Phil sospirò e indicò un punto non preciso tra le rocce. «Laggiù da qualche parte, tutto contento di poter di nuovo... fare i suoi bisogni.»
Nehroi interruppe subito la marcia e si sedette a terra. Non erano passate neanche dodici ore da quando era tornato da Mjoklur e il suo corpo era ancora spossato dall'essere diventato spirito quasi completamente. Si era sorpreso più volte a tenere la mano sul petto, per sentire il battito cardiaco, e rilassarsi solo concentrandosi su quel ritmo confortante.
«Hai bisogno di riposare», gli suggerì Phil sedendosi accanto e stiracchiando le gambe.
Nehroi sbuffò. «Cos'è che non capisci?», domandò invece, per evitare una conversazione amichevole.
«Innanzitutto perché mi tratti così.»
«“Così”?»
«Se non sbaglio il tuo amichetto è vivo e vegeto grazie a me, o vuoi farmi credere che saresti riuscito ad aprire il passaggio per Mjoklur senza la punta della...»
Nehroi lo fulminò con uno sguardo incendiato. «Davvero non capisci?», sibilò più velenoso dei fumi viola che lambivano il loro percorso.
«E tu?», lo sfidò l'umano rispondendo con un'occhiata altrettanto accesa.
Rimasero lì a fissarsi in cagnesco per qualche manciata di secondi, in attesa che l'altro crollasse.
Phil distolse lo sguardo per primo, sospirando. «Comunque non è questo che volevo chiederti», disse mentre scrollava la tensione dalle spalle. «... per quanto dovresti ringraziarmi e non trattarmi sempre come un panno sporco.»
«Forse.»
Nehroi non aggiunse altro, così Phil intuì che era, ancora una volta, compito suo proseguire la conversazione.
«Non capisco come mai Lorwaar continui a dire che Savannah sia una frignona smidollata che combina solo guai», disse.
Nehroi girò la testa verso di lui con uno scatto. «Dice così?»
Phil annuì. «Ho provato a chiedergli come fosse da piccola ma continua a dirmi cose strane... descrive un'altra persona, credo. Hai detto anche tu che non è del tutto affidabile, ora come ora...»
Il sole era ancora abbastanza alto sopra le loro teste, ma ormai era pomeriggio inoltrato. Le ombre, dall'altro lato della montagna, iniziavano ad allungarsi e un venticello fresco si insinuava tra loro come un sospiro.
Nehroi scosse la testa e si aggiustò i riccioli sfatti e sudati passando le dita impolverate tra loro, senza ottenere alcun risultato. «No, descrive la persona giusta.»
Si voltò per vedere se Lorwaar fosse di ritorno, poi scosse la testa e non provò neanche ad immaginare la sua gioia nel poter disporre nuovamente di un corpo.
«Immagino che il tuo “non capisco” fosse perché non puoi far combaciare la bambina descritta con la ragazza adulta che hai conosciuto», proseguì e Phil sorrise annotando mentalmente di aver guadagnato un punto: non aveva dovuto incalzarlo di nuovo.
«Esattamente», aggiunse. «Cosa è scattato in lei? Una molla, un evento...»
Nehroi annuì e smise di lottare contro un nodo in cui gli si erano impigliate due dita. Le sfilò dal groviglio di riccioli e sospirò pesantemente, tanto che un po' di polvere si sollevò dal terreno.
«Innanzitutto devi capire che Lorwaar era il nostro capo. Era il più grande dell'orfanotrofio e noi due eravamo molto più piccoli di lui, almeno quattro o cinque anni. Quando l'istitutrice smette di accettarti nell'orfanotrofio, per la società sei automaticamente considerato come un adulto anche se sei un bambino o poco più. Noi lo eravamo, “adulti”, ma lui era più grande e forte e ci eravamo uniti in una squadra davvero... formidabile.»
Phil vide che Nehroi aveva gli occhi sognanti mentre un sorriso beato gli si stava stampando sul viso e non faceva nulla per nasconderlo.
Poi il sorriso si incrinò, si spense, si contrasse in una smorfia. Il racconto proseguì.

«Ok, ragazzi, ascoltate.»
Nehroi era scattato a sedere immediatamente, barcollando appena quando il ginocchio si lamentava del movimento repentino sui sassi. Quella foga e smania di nuove indicazioni non aveva contagiato la sorellina, lasciandola indietro e a disagio al sentire che la pace che si erano appena guadagnati stava già per finire.
«So dove la guardia nasconde ciò che si intasca dopo gli arresti», aveva proseguito Lorwaar senza badare alle reazioni della ragazzina. Il suo sguardo eccitato aveva incrociato quello di Nehroi, sulla stessa lunghezza d'onda, e a Savannah era sembrato ancora una volta che stesse parlando solo con lui. Stava osservando la sua mano scura brandire un legnetto come una matita e disegnare molto grossolanamente il forno, le Creste a ovest, la prigione, la biblioteca e l'orfanotrofio nel terreno mentre lo pensava.
Non era la prima volta che lo vedeva tracciare quei punti di riferimento della città, anzi: quel semplice gesto preparatorio era diventato così tanto una routine da rendere inutile caratterizzare ogni struttura con più di un'iniziale, o un pallino anonimo. La posizione e la distanza tra essi faceva il resto, sebbene le ombre che il globo di luce gettava su di loro ne allungasse le forme e distorcesse i tratti.
Il legnetto aveva tracciato una curva che passava vicino alla biblioteca e univa l'orfanotrofio alle Creste.
«Perché credi che nasconda lì le nostre cose?», aveva domandato Nehroi con un lieve scetticismo. «Sono solo sabbia, rocce e ancora sabbia!»
Lorwaar aveva inclinato la testa di lato e lo aveva guardato con un'espressione di sfida. Aveva sempre quella luce strafottente negli occhi, quando gli si chiedevano chiarimenti su cose a lui fin troppo ovvie. «Non ti sembra abbastanza per nascondere cose preziose? E poi ricorda: ogni roccia ha da qualche parte l'ingresso per la cavità. Cavità uguale spazio, spazio uguale...»
«Va bene, li ha messi lì», lo aveva interrotto Savannah avvicinandosi al duo. Aveva sfilato il bastoncino dalle dita di Lorwaar e indicato la prigione, storcendone il simbolo con la punta del legnetto. «Il tuo piano non prevede un'altra gita qui dentro, vero?»
Il giovane leader aveva sbuffato divertito e le aveva strappato via il bastone, cancellando con un rapido gesto quel punto della mappa di terra. «Stavolta devi preoccuparti di qualcosa di un po' più grosso. Sai, le guardie sono sempre...»
«... infide?»
«Guardie», l'aveva corretta Lorwaar. «Dobbiamo aspettarci qualche tipo di difesa o almeno di rogna. Essendo il posto in cui quel gigante nasconde la nostra roba, di certo avrà previsto che saremmo tornati a prendercela.»
Savannah aveva mormorato qualcosa debolmente ma nessuno le aveva chiesto di ripeterlo.
«Non vorrei dirlo ma credo che avrò bisogno di un altro jiin, per riuscire a riprenderci la roba senza troppo problemi», aveva proseguito Lorwaar guardando Nehroi dritto negli occhi. La luce del globo era arancione, come quella di un fuocherello. Le iridi completamente nere del maggiore del gruppo venivano illuminate dal chiarore in un modo che le rendeva liquide, non vitree come quelle di Savannah. Nehroi aveva stretto nervosamente le labbra. «Vuoi metterla in mezzo?», aveva domandato con una nota di nervosismo.
Lorwaar aveva annuito piano, poi aveva scoccato un'occhiata alla ragazzina e al suo sguardo fisso sulla mappa. Se la stesse studiando o se semplicemente non volesse sollevarlo e partecipare ai discorsi dei maschi, non sapeva dirlo.
«Non vorrei mai, lo sai. Lo sappiamo tutti, vero Annah? Di strada da fare ne hai ancora tanta, tantissima... ma un aiutino per la ronda... diciamo che mi farai da palo, per avvisarmi se stanno arrivando delle guardie a controllare la zona.»
Savannah aveva sospirato. «Devo fare da radar?», era abbattuta.
Lorwaar si era chinato verso di lei e le aveva afferrato le spalle. Le sue mani erano grandi per quelle spalle gracili da bambina e ogni volta che faceva quel gesto, sapeva che le infondeva qualcosa nel profondo del petto. «Puoi percepire Stelle Blu e altre presenze molto bene», l'aveva rassicurata.
Il visino di Savannah si era stropicciato in una smorfia di disappunto. «Però il globo di luce l'hai acceso tu perché hai paura che i miei si incendino», aveva brontolato offesa mentre rannicchiava le gambe attorno al petto e ci si stringeva come in un abbraccio.
Nehroi aveva alzato gli occhi al cielo e si era messo in piedi. Si era passato le mani sui pantaloni per togliere la terra e aveva sollevato una piccola nuvola. «Sentite, se adesso il problema più grande è l'autostima o l'allenamento, io vado a fare quattro passi», aveva annunciato annoiato.
Lorwaar aveva annuito e si era seduto al fianco della ragazzina non appena il brehmisth era scomparso dalla vista. Si era rigirato tra le dita una delle treccine che tenevano a bada i suoi capelli crespi e neri come la notte mentre Savannah continuava a farsi sempre più piccola nel suo angolino.
Il ragazzo la aveva afferrata per un braccio e il tocco delle sue dita l'aveva fatta innervosire e rilassare allo stesso tempo, paralizzandola per un lungo istante. Non aveva alzato lo sguardo dalla mappa sul terreno, troppo concentrata sull'accelerarsi del respiro e il calore che si diffondeva sulle guance.
«Annah, te l'ho promesso: ti allenerò al meglio, sarai forte e utile quanto me», la rassicurava sempre così, pronunciando ogni parola con fermezza e convinzione. La sua voce era più dolce rispetto a poco prima e la bambina lo percepì.
«Però continui a desiderare che Nehroi fosse un jiin, non io...»
Lorwaar aveva speso qualche secondo fissando il globo di luce e soppesando quell'affermazione.
«Beh», aveva detto dopo un po', «Sono sicuro che non avrebbe urlato vedendo le guardie sopraggiungere o pianto ogni due minuti o incendiato la mia giacca nel tentativo di accendere la luce o...»
Savannah aveva nascosto il viso tra le braccia che circondavano le ginocchia e ricominciato a stringersi come se volesse sparire.
«Ehi, ehi, ehi!»
Lorwaar le aveva afferrato le braccia ed iniziò a fare forza per aprire un varco e farla sbucare prima che si deprimesse troppo. Le sue spalle stavano già iniziando a sobbalzare per i singhiozzi.
«Non intendevo dire che...»
Le si era inginocchiato di fronte non appena era riuscito a sfiorare il suo viso. Le aveva messo le mani sulle guance e le aveva sollevato il mento fino a poter vedere bene i suoi occhi lucidi e arrossati. Aveva sentito qualcosa stringerglisi nel petto e continuare ad indossare i panni del leader carismatico e duro gli stava risultando difficile.
Quando Nehroi era tornato dalla sua passeggiata, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e poche note fischiettate malamente con le labbra, aveva trovato quasi due metri a separarli.
Entrambi guardavano ostinatamente nella propria direzione e non dicevano assolutamente nulla.
Il giorno dopo lo avevano passato in azione: seguendo il piano, avevano raggiunto le Creste che Lorwaar credeva fossero il nascondiglio dei preziosi intascati dalla guardia, ed erano rimasti in appostamento per molto tempo. Non era successo assolutamente nulla per gran parte della giornata, fino a rendere il lanciare sassi ai corvi il divertimento maggiore. Poi, a notte inoltrata, la guardia era finalmente comparsa all'orizzonte. Si guardava attorno con sospetto e stringeva al petto una borsa scura e così tanto piena che ai ragazzini in appostamento era sembrato che ne fosse fuoriuscito qualcosa.
Avevano atteso che si avvicinasse alla Cresta, indicando loro l'esatta insenatura in cui aveva nascosto gioielli, Stelle e tesori vari; erano rimasti con gli occhi spalancati dietro la duna osservandolo disattivare e riattivare tutte le sue trappole di sicurezza e, infine, lo avevano seguito con lo sguardo finché non era scomparso di nuovo nel deserto. Nella città di Feinreth, di fronte a lui, la roccia levigata dei tetti scintillava nel placido chiarore lunare.
«Tu rimani qui», aveva ordinato Lorwaar in un sussurro e Nehroi aveva annuito convinto. Si era sdraiato a pancia in giù e avrebbe continuato la sua osservazione del territorio dall'alto della duna, mentre sua sorella e il suo migliore amico rotolavano lungo il dorso della collinetta, scivolando nella sabbia con disinvoltura, verso la Cresta.
Lorwaar aveva indicato a Savannah un punto del deserto e lei aveva annuito come il fratello, rimanendo in posizione e con tutti i sensi dilatati al massimo delle sue capacità. Da quando aveva scoperto di avere i poteri non erano molte le cose che sapeva fare, ma due le riuscivano sufficientemente bene: aprire i portali e percepire il pericolo.
Aveva chiuso gli occhi e inspirato. Il mondo, attorno al suo piccolo corpo, era silenzioso e pacifico. Nulla all'orizzonte, gli unici rumori erano lievi e provenivano da Lorwaar, alle sue spalle, intento a recuperare la coppa dello Shiàd dalla Cresta. Senza quell'oggetto, in grado di incanalare i poteri di molti altri oggetti rendendoli inutili gingilli, sarebbe stato più difficile proseguire la raccolta per la missione.
Una brezza lieve l'aveva fatta rabbrividire. I capelli corti, poco sopra le spalle, le stavano pizzicando il collo e su quel visino era comparso un fugace sorriso.
«Annah!», sentiva bisbigliare alle sue spalle. Non era il tono che si sarebbe aspettata di sentire a lavoro concluso, sembrava allarmato... «La guardia!»
Savannah aveva aperto gli occhi e il panorama che si era ritrovata di fronte non era affatto quello che aveva visto per ultimo. La guardia era un omone tra gli adulti, di fronte ad una bambina come lei sembrava immenso e nascondeva completamente il deserto alle sue spalle.
«Corri!», le stava urlando Nehroi dalla duna.
Savannah aveva deglutito e annuito, stava per voltarsi e seguire il consiglio ma nessuno dei suoi muscoli si era mosso. I piedi erano rimasti immobili nella sabbia gelida, le ginocchia tremavano appena; la testa era rimasta alzata verso l'uomo, completamente immobile.
«Era un buon consiglio, sai?», l'aveva provocata la guardia con un sorriso diabolico. «Le bambine come te non dovrebbero uscire a quest'ora.»
«Annah!», la chiamava Lorwaar dalla Cresta. La piccola se lo immaginava con le tasche piene di tutto ciò che era riuscito ad acchiappare, possibilmente con la coppa sottobraccio, e con gli occhietti neri che scorrevano velocemente il campo di battaglia, da Nehroi sulla duna a lei paralizzata di fronte al nemico. Annah pregava che riuscisse a trovare una soluzione e in fretta, perché tra le poche cose che riusciva a realizzare c'era il fatto che non riuscisse a pensare a niente. Giorni di allenamento su come affrontare situazioni simili... e tutto ciò a cui riusciva a pensare era piangere.
La guardia aveva tuffato una mano sotto il mantello che nascondeva la divisa color sabbia e Lorwaar era scattato in avanti cercando di avvicinarsi velocemente e il più possibile per poter inglobare Savannah in una barriera con lui: per quanto più bravo dei tre potesse essere, anche la sua magia era troppo debole e acerba per riuscire ad essere determinante in situazioni di estremo pericolo. La bambina era riuscita a smuoversi e a scattare verso di lui per qualche metro, ma è stato allora che la guardia l'aveva colpita con l'Ostruitore ad una gamba, facendola cadere e frenando al tempo stesso la corsa di Lorwaar. Savannah non avrebbe mai dimenticato l'espressione ferita che attraversò il suo volto quando la vide catturata. «Neh!», urlava con tutta sé stessa quando la guardia la afferrava e issava sotto braccio come una pagnotta. Scalciava e si dimenava in tutti i modi, ma non poteva liberarsi neanche di un millimetro.
La piastra gelatinosa di polvere di Stelle Blu era ancorata saldamente al suo polpaccio, viscida come melma, e ogni tentativo di utilizzare la magia, per quanto pallido potesse essere, veniva stroncato ancor prima che lo potesse immaginare.
Savannah aveva passato così due giorni interi in una cella della prigione, dopo neanche una settimana dal suo ultimo pernottamento. All'orfanotrofio la signora istitutrice si era rifiutata di accoglierla di nuovo e quel secondo rifiuto, agli occhi del Capo e delle guardie, significava che ormai era abbastanza grande da poter essere trattata come gli adulti. L'Ostruitore azzurrognolo era rimasto incollato alla sua gamba, bloccando l'uso di ogni tipo di magia. Per quanto imbranata e senza speranze potesse essere nell'usarla, sentire che quella parte di sé era intrappolata la faceva sentire impotente e depressa. Ogni volta che una guardia passava di fronte alla sua cella sentiva crescere nel suo piccolo petto una rabbia feroce che non sapeva spiegarsi... di quelle che accecano ogni razionalità.
Lorwaar e Nehroi erano riusciti ad intrufolarsi e a tirarla fuori di lì solo tre giorni pieni di tentativi dopo. La cosa più difficile, avrebbero ammesso tutti e tre di ritorno alla tana, era togliere l'Ostruitore dalla gamba di Savannah senza staccarle anche la pelle o il muscolo.
«Ti insegnerò tutto e non andremo più da nessuna parte finché non sarai pronta quanto me», continuava a ripeterle Lorwaar con la fronte sudata, gli occhi fissi sulla melma di Stella Blu, le dita tremanti. C'era qualcosa, in quella nuova promessa, che vibrava nell'aria più delle semplici parole. Un principio, un dovere, un obbligo morale, un sentimento, un'ostinazione: qualunque cosa fosse, era potente. Lorwaar si sarebbe impegnato a fondo e Savannah avrebbe assorbito ogni nozione come una spugna.
E così avevano fatto.
Erano passati dapprima giorni, poi settimane. Quando le settimane divennero sei, Savannah iniziava ad essere accettabile per missioni a basso rischio; per lo meno, stava iniziando a controllarsi seriamente e non scoppiava a piangere alla prima difficoltà. Accettare di essere una jiin con delle concrete potenzialità, di essere lei a dover stare di fronte Nehroi e non quella che gli si nascondeva dietro... quella era la vera sfida. In una società dove la gerarchia è tutto, con i jiin ad occupare ogni gradino più alto e i brehmisth a sottostare, cambiare radicalmente mentalità non era facile.
Ad incorniciare il quadro dei cambiamenti, però, non c'era solo questo, Lorwaar e Nehroi lo sapevano bene: con Savannah poche erano le cose certe, ma l'inesistenza di notti asciutte era sempre fra quelle. Di giorno aveva finalmente imparato a trattenersi, ma la notte si sfogava come se ne avesse diritto e bisogno.
«Voglio che impari a superare quella soglia», le aveva detto un giorno Lorwaar con quel suo tono autoritario che gettava serietà su ogni cosa.
Savannah aveva deglutito ed evitato di guardarlo negli occhi. Inutile dire che non si sentiva all'altezza.
«Sai che dovrai farlo, prima o poi», la incalzava il ragazzo pazientemente.
Le mani della bambina si erano strette tanto da tremare, appoggiate con nervosismo sulle gambe. «Vuoi che diventi un... vuoi che...»
Non riusciva neanche a pronunciarlo.
Lorwaar aveva scoccato un'occhiata a Nehroi e aveva ricevuto un cenno di assenso di rimando. Si era avvicinato a Savannah ed aveva abbassato la voce, più affabile. «Voglio solamente che quando si presenterà l'occasione, sarai pronta a prendere la decisione giusta.»
Il viso di Savannah si era contratto in una smorfia disgustata e nei suoi occhi si vedeva il terrore allo stato puro. Erano freddi ma concitati, sconvolti ma lucidi. «Non voglio uccidere!», aveva esclamato con voce troppo acuta. «Io non... non posso, non voglio!»
Lorwaar aveva stretto i denti e le aveva afferrato il mento, costringendola a guardarlo. «Cerca di capire: non sto dicendo che devi andare in giro e lanciare oggetti acuminati in testa a tutti quelli che vedi, solo che se – ed è un grande “se”- dovessi essere messa nell'angolo da un adulto, in una situazione estrema... in quel caso dovresti capirla bene anche tu qual è la cosa giusta da fare. Dovrai uccidere se non vuoi essere uccisa tu, mi sono spiegato?»
Aveva occhi impassibili e una profonda ruga in mezzo ad essi. Il naso dilatato dalla concitazione, le labbra serrate. Savannah aveva annuito di fronte a quel quadro di autorità.
«Hai passato l'infanzia a subire angherie ed ingiustizie, cercando sempre e solo di cavartela e sopravvivere ai tentativi degli altri di toglierti di mezzo», aveva proseguito il ragazzo senza cambiare espressione o tono di voce. Anche Nehroi si era sentito coinvolto e sotto torchio; d'altronde, il discorso non valeva solo per sua sorella.
«Ora basta sopravvivere e subire. Sei cresciuta, stai entrando nell'adolescenza: è tempo di smettere di sopravvivere e di iniziare a vivere. Non abbiamo forse diritto anche noi ad una vita come gli altri bambini?»
Le aveva lasciato andare il mento ma la presa su di lei era rimasta. Aveva continuato a scrutare i suoi tratti ancora infantili, cercando un minimo segno dei cambiamenti che stava cercando di inculcarle da settimane.
Li aveva poi visti qualche manciata di giorni più tardi, quando un altro gruppetto di ragazzini dell'orfanotrofio, sbandati e fuggiti quanto loro, li aveva raggiunti e aveva ingaggiato una lotta per appropriarsi dei loro viveri. «Se vinciamo noi», aveva aggiunto il più grande dei quattro, «Lorwaar molla queste due palle al piede e viene con noi.»
«Non hai il diritto di decidere una cosa simile!», aveva protestato Nehroi ergendosi di fronte ai compagni.
Il ragazzino rivale aveva abbozzato un sorriso nelle tenebre e ridacchiato. «A differenza sua, io ci tengo ad avere una squadra forte con cui viaggiare...»
Era uno scontro impari e debole, ma teso al massimo delle capacità di tutti i combattenti coinvolti.
Lorwaar guidava le tattiche studiate con Nehroi, lottando schiena contro schiena, sempre attento a proteggerlo con la stessa barriera che lo avvolgeva fino ad un metro di raggio da lui, esultando quando il suo bastone finiva in testa a qualcuno riempiendo l'aria notturna con un suono secco come quello che avrebbe fatto contro il legno duro di un albero; Savannah, poco distante da loro, era ormai capace di proteggersi costruendo una solida barriera attorno a sé, lontani i giorni in cui si nascondeva e lanciava vigliacchi colpi con una fionda.
Erano due i ragazzini dell'altra banda che la affrontavano, cooperando per metterla alle strette con diabolico intento. La conoscevano bene, Savannah la frignona, e questo si poteva leggere chiaramente sui loro volti spavaldi.
Annah aveva scartato di lato un sasso che levitava pericolosamente veloce e vicino alla sua tempia e aveva reagito sollevando una folata di terra che si era abbattuta su uno dei due avversari accecandolo temporaneamente. L'altro, nel frattempo, maneggiava con destrezza un bastone simile a quello di Nehroi e le mani abili lo sapevano stringere e roteare con quell'abilità che si matura in mesi e mesi di allenamenti.
Mentre Lorwaar assestava un pugno sulla mandibola del suo avversario, il ragazzino che si avvicinava a Savannah mirava al suo torace con l'estremità malamente appuntita e la piccolissima scheggia di Stella Blu che aveva sgraffignato ad una guardia distratta perforò la barriera come carta.
La bambina aveva immaginato una lama affilata lungo il suo avambraccio ed era riuscita a troncare l'arma nemica con un taglio netto. La punta era rotolata tra le sue gambe, graffiandole una caviglia. Savannah l'aveva raccolta, sopportando il bruciore che le provocava, e aveva sentito di essersi portata in una situazione di parità con l'avversario.
Nehroi si era spostato dalle spalle di Lorwaar al suo fianco, aiutandolo a togliere di mezzo il capo della banda in cerca di grane mettendogli letteralmente il bastone tra i piedi, aiutando l'amico a metterlo al tappeto. «Chi ha fatto la scelta migliore, adesso?», aveva esclamato Lorwaar trionfale in faccia allo sconfitto.
Un rantolo spezzato e il rumore viscido di qualcosa che viene lacerato aveva interrotto i festeggiamenti e gli abbattimenti. Finita la piccola zuffa tra quasi coetanei per qualche mela e oggetti vagamente prezioso, vincitori e vinti si erano voltati verso Savannah e il suo avversario riverso a terra.
La punta della sua lancia era conficcata nello stomaco, puntava in alto, e molto sangue la circondava. Gli occhi del ragazzino erano frenetici e il suo respiro affannato, ma solo per pochissimi istanti. Poi si erano fermati.
Nessuno sapeva cosa dire di fronte ad una situazione simile: i bambini, per quanto astio potesse esserci tra loro, si erano sempre protetti dagli adulti; per quanti attriti ci potessero essere e per quanti combattimenti avessero ingaggiato, mai nessuno aveva ucciso un altro orfano. Consapevoli del segno indelebile su passato e futuro, era una regola non scritta che tutti imparavano e rispettavano da sempre.
Nehroi non riusciva neanche a respirare, immobile con ogni fibra del suo corpo di fronte alla sorellina inginocchiata accanto al suo avversario. Quando finalmente era riuscito a muoversi, aveva guardato Lorwaar e parte di lui sapeva quali pensieri stessero inondando il suo cervello, ma l'aveva ignorata, concentrandosi invece su quella che non riusciva a credere che la sua tenera sorellina avesse recepito così tanto bene il concetto della sopravvivenza ad ogni costo.
Savannah aveva abbassato lo sguardo sul ragazzino e le sue pupille si erano dilatate. Era scattata in piedi con un urlo angosciato e terrificato, squarciando la notte e quel silenzio che la circondavano. Il suo balzo improvviso l'aveva fatta allontanare di un paio di metri dal cadavere, come se le fosse appena comparso di fronte e non si fosse accorta che invece era già lì da un po'.
Scuoteva la testa incredula, le mani tremavano e quando vide che erano rosse urlò ancora, agitandole come se volesse sfilarsi dei guanti che non c'erano, per buttarli via, lontano, era terribile...


Si levò un refolo di vento gelido a segnalare l'arrivo della sera.
Nehroi schioccò la lingua contro il palato e calciò un sassolino davanti a sé, aspettando che la terra sollevata si depositasse di nuovo prima di aprire la bocca e proseguire. Phil attese con lui, mentre l'immagine di una piccola Savannah urlante si agitava nel turbine di polvere e nella sua mente.
«Fu allora che una buona ed impaurita bambina morì, lasciando uno spazio vuoto che venne poi occupato dalla fredda ragazza di cui tutti avrebbero presto iniziato a parlare con astio e timore.»



*°*°*°*


Uffi, ad ogni aggiornamento passa sempre più tempo... adesso cercherò di rimettere un po' in sesto il ritmo! Anche perché adesso iniziamo a vedere un po' più di tasselli del passato, potremo capire il futuro dei nostri personaggi... ma cosa c'è in serbo per loro?

Alla prossima! Ciao!

Shark <3

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Capitolo 9
*** Il Reth-pass ***


11
Il Reth-pass



«Lei, però, nacque solo quando Lorwaar morì», terminò il jiin comparendo all'improvviso dalle rocce spigolose.
Nehroi e Phil si voltarono simultaneamente verso il ragazzo, sorpresi di sapere che aveva origliato ogni cosa.
«Che?», domandò Lorwaar con menefreghismo. Si sedette tra di loro ed allargò le gambe mentre le distendeva verso le borse. «Non è giusto? Avete detto che è diventata una jiin viola ma quando c'ero io era a malapena rossa. Io la ragazza di cui parli non l'ho mai conosciuta, la mia Annah piangeva ed era deboluccia... e poi credevo fosse un modo appropriato per terminare quest'incredibile racconto del passato.»
Phil trovò la cosa divertente ma Nehroi alzò gli occhi al cielo e scacciò l'osservazione senza curarsene troppo.
«Non so se è più interessante il modo epico e convinto con cui l'hai detto o il fatto che hai parlato di te stesso in terza persona», commentò l'umano.
Lorwaar lo guardò sottecchi e sorrise. «Tra i taaanti lati di me che non conosci, forse ce n'è anche uno poetico.»
«Perché origliavi?», domandò Nehroi tutto ad un tratto.
Il ragazzo fece spallucce e le sue treccine scivolarono dietro le spalle. «Cos'è, ti aspettavi che sarei andato a pisciare per cinque ore? Sei un buon racconta-favole ma un po' lento... e poi non dovevo origliare, io c'ero! O almeno uno dei personaggi aveva il mio nome, non so se con l'età è così tanto vero che ci si dimentica il passato...»
«Lo sai che ho solo cinque anni più di te, ora?»
Lorwar ridacchiò. «Lo sai che non sapevo che tu sapessi quanti anni avevi?»
«In realtà non lo sapevo, lo so ora.»
«Molto divertente», commentò Phil con un tono abbastanza crudo da terminare il battibecco. «A volte sembrate marito e moglie...»
«Grazie caro.» Lorwaar gli mandò un bacio con un soffio sulla mano.
«Piaciuto il racconto?», li interruppe Nehroi, «Hai altre domande?»
«Eri strafottente», constatò invece Phil, abbastanza sorpreso.
Nehroi annuì. «Per questo Lorwaar ed io andavamo tanto d'accordo: io avevo la mentalità di un jiin, la stessa che aveva lui, e non ero affatto maturo a sufficienza per capire che invece avrei dovuto smetterla di alzare la cresta e spronare di più mia sorella... invece che continuare a sentirmi superiore a lei.»
«Non puoi fartene una colpa, se cresci credendo delle cose non è facile andare contro corrente.»
Nehroi non ribatté. Rimase senza parole per qualche istante, poi fissò Phil per quasi mezzo minuto, in cerca della fonte di quella saggezza che ogni tanto sapeva condividere anche con uno scemo come lui. Annuì ed abbassò lo sguardo.
«Quando... settimane fa, quando mi hai sbattuto di nuovo in questa gabbia di matti», esordì con voce bassa, senza guardarlo. «Io ero...»
«Pronto a diventare umano, sì, me l'avevi detto.»
Lorwaar schiuse le labbra dalla sorpresa e guardò l'amico con orrore. «Tu cosa?», squittì incredulo.
«Ero finalmente maturo abbastanza da capire che avrei fatto la scelta giusta!», replicò l'altro orgoglioso. «Dovevo staccarmi da queste cazzate magiche, senza Annah nulla ha più senso!»
«Fratello, parla al passato. La ritroveremo! Ehi, ehi... guarda me, guardami! Neh, io sono la fottuta prova vivente che ce la puoi fare!»
Nehroi lo guardò con scetticismo e non venne influenzato dall'aura positiva. «Hai detto di non averla vista laggiù», commentò realista.
Lorwaar lo mandò a quel paese e sbuffò sonoramente. «Certo, perché io non ho fatto altro che gironzolare in cerca di voi due aspettando il grande raduno! Bello, reggiti perché sto per shockarti: per quanto ai vivi faccia piacere pensarlo, i morti non passano la loro dannatissima esistenza pensando a loro o ancor peggio guardandoli!»
Si alzò in piedi e, pestando con forza a terra, si allontanò dai due uomini affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. Fischiettò qualcosa di allegro ed allungò una nota acuta quando vide Kayrin in avvicinamento. Poi raccolse un sasso, lo lanciò verso un grosso uccello bianco in volo, per poco non lo colpì e poi urlò soddisfatto, con tanto fiato da lasciare che l'eco rimbombasse nella vallata della regione per chilometri e chilometri.
Phil stava per salutare Kayrin quando la donna allargò le braccia e indicò Lorwaar con nervosismo. «È un cretino!», esclamò.
L'umano, la mano bloccata a metà del gesto, ritirò il saluto. «E ti ci è voluto così tanto per capirlo?», commentò ironico. «Piuttosto, credevo fossi sparita per sempre.»
Kayrin prese posto di fronte a lui ed accavallò le gambe con eleganza mentre sul suo viso si stirava un sorriso trionfale. «Mi ci è voluto un po' più del previsto ma... ho la mia sorpresina per voi.»
Afferrò la sua tracolla e la tirò per portare sulle ginocchia la borsa che le pendeva alle spalle. Slacciò i quattro cinturini di pelle che la chiudevano e poi vi immerse la mano come se stesse pescando qualcosa. La curiosità delle due paia di occhi che osservavano ogni suo minimo movimento era quasi palpabile; anche Lorwaar tornò tra loro, riprendendo il posto di poco prima.
Di fronte a tanta attesa, comparve un medaglione che sembrava infuocato: rossa la Stella incastonata, rosso il metallo che la circondava. Persino la catenina sembrava una corda di treccia insanguinata.
«Sembra il mio passpartout», notò Phil portandosi una mano al petto, come per controllare che il suo medaglione per aprire i portali fosse ancora al suo posto.
«Questo è ben più raro e speciale del tuo», disse Kayrin quasi ipnotizzata dallo splendore dell'oggetto che dondolava di fronte ai suoi occhi scuri. Per qualche istante rimase in contemplazione, catturata dall'oscillazione tenue e pacata quanto i maschi che aveva di fronte, poi scosse brevemente la testa e socchiuse gli occhi mentre racchiudeva il monile tra le dita sottili. «Chi possiede questo ciondolo e vuole andare da Eastreth a Lagireth non dovrà fare più dieci giorni di viaggio... bastano i pochi istanti di apertura e chiusura.»
«Aspetta, aspetta, aspetta.»
Nehroi fissò ancora quel medaglione come se non ci fossero dita ad ostruire la vista e la nozione appena appresa gli lasciò la gola inaridita. «Mi stai dicendo... che apre portali dentro Ataklur? Non tra un mondo e l'altro?»
Lorwaar fischiò ammirato. «Avrei dato un braccio pur di averlo anni fa...»
«Tu come l'hai avuto?», domandò Phil con sincera curiosità.
«E come si chiama?», disse invece Lorwaar portandosi una mano al mento con aria pensosa. «Inter-regioni? Pass-regni? …non-ho-più-voglia-di-camminare?»
Kayrin alzò gli occhi al cielo e ripose l'oggetto nella borsa, chiudendo ognuno dei quattro cinturini con cura. Si alzò e si pulì con cura i pantaloni sul sedere e sui fianchi. «Preferite farmi domande o metterci in marcia?», disse con un'espressione a dir poco radiosa. Erano settimane che viaggiava con Nehroi e Phil, da giorni con anche quel nuovo elemento: finalmente era il suo turno di assaporare il dolce biscotto della soddisfazione che l'essere un passo avanti agli altri e, soprattutto, d'aiuto comporta.
«Perché non entrambe?», domandò Lorwaar in tono vacuo mentre rimuginava ancora sul nome per il ciondolo.
Kayrin sospirò. «Vi ho mentito, io conosco benissimo queste zone. Mio... marito abita qui», disse pronunciando a fatica la terzultima parola, come se le venisse da vomitare.
«Tu hai un marito?», esclamò Nehroi.
«Una come te ha un marito?», disse invece Lorwaar con vivo stupore distogliendosi dall'opera di battesimo. Kayrin lo fulminò con lo sguardo. «Voglio dire...», si corresse il jiin, «Non è bellissimo? Mi stavo giusto chiedendo come non...»
«Oh, chiudi il becco», lo zittì Kayrin con una smorfia irritata. «E sì, sono sposata. Non una cosa fantastica, per fortuna nessun figlio... lui non ha mai visto di buon occhio la mia voglia di apprendere, sperava che rimanessi sempre nella sua stupida casa tra le rocce. Però è un collezionista e questo», indicò il medaglione come una ragazza delle televendite, «Questo è un pezzo grosso.»
Nehroi tossicchiò fortemente ed attirò l'attenzione della donna. «Tu...», iniziò titubante.
Lo sguardo fermo di Kayrin lo bloccò per un istante, poi proseguì. «Tu hai rubato?»
La donna gli rivolse un sorriso affabile e radioso. «Puoi avermi aperto gli occhi su cose che credevo impossibili, ma quella è ancora casa mia e lui è ancora mio... marito, quindi no, non credo di aver rubato.»
«A me sembra di sì», commentò Lorwaar con approvazione. «Hai rubato un Reth-pass!»
«Carino», commentò Phil annuendo. «Mi piace.»
Kayrin si piantò a gambe larghe di fronte a loro, i pugni appoggiati trionfalmente sui fianchi.
«Comunque sia, non è importante ora. Dobbiamo metterci in marcia! Assumendo che Savannah non sia a Mjoklur, c'è una remota possibilità che sia ancora in vita», snocciolò i pensieri che si stava tenendo dentro da giorni con precisione, cercando di farli suonare più sensati di quanto non sembrassero a lei, la prima scettica del gruppo. «C'è un solo modo per accertarcene o scartare la possibilità: andare a Feinreth a controllare il corpo.»
Phil trasalì ma non lo diede a vedere. I suoi occhi si dilatarono per neanche un istante, poi il respiro tornò regolare. Infine annuì.
Lorwaar, accanto a lui, si raddrizzò tutto e raccolse le gambe, incapace di fingersi ancora rilassato. «Cosa? Non l'avete cremata come da tradizione?»
Kayrin sospirò ed alzò gli occhi al cielo. «Sono stata io a farle la tomba...»
Spostò lo sguardo su Nehroi, curiosa di scoprire quale reazione avrebbe avuto il signorino che non si ricordava neanche del suo lavoro, ma non riuscì ad incrociare il suo volto, troppo rivolto verso paesaggi lontani per poterla considerare.
«Allora?», lo incalzò la donna con pungente insistenza, quella che dopo poco si trasforma in irritazione.
Nehroi non rispose. Forse aveva detto troppe cose difficili insieme, pensò la jiin.
Stava per aprire bocca e rispiegare tutto daccapo quando il brehkisth si alzò in piedi, sovrastandola, e la fissò con serietà. «Va bene», disse serio e concentrato. «Andiamo.»

Il procedimento era semplice, analogo a quello che praticava Phil: una volta individuata la venatura viola-argentea nella roccia, si appoggiava il Reth-pass (nessuno aveva avuto da ridire e quindi quel nome era diventato ufficiale) finché non iniziava a diventare incandescente e poi si passava attraverso il Portale appena creato. A differenza delle normali aperture dei Portali, per questo si poteva decidere la destinazione.
«Mi raccomando, pensate tutti a Feinreth», ordinò Kayrin non appena la roccia iniziò a far spazio al velo trasparente.
I tre alle sue spalle annuirono quasi contemporaneamente e poi, uno via l'altro, sono passati tutti attraverso il Portale, passando da una vallata di rocce e coltri velenose ad una successione infinita di dune, creste, sabbia, sabbia e altra sabbia. Era ormai notte, quindi questa era pure gelida e pizzicò la caviglia fasciata di Phil facendolo trasalire. L'aria era ancor più gelida di quella dell'alta montagna, ma nessuno dei quattro ci fece particolarmente caso.
«Meglio approfittare del buio», propose Nehroi mentre scrutava il paesaggio attorno a sé.
«Ti ricordi dov'è, di preciso?», domandò Kayrin speranzosa.
Nehroi continuò a setacciare il territorio con sguardo attento, poi imprecò e salì una duna. Da lassù riuscì ad intuire dove si trovassero ed allungò un braccio verso est.
Il gruppo si mise dunque in marcia, silenzioso e ligio come dei soldatini in fila indiana, salendo e scendendo dalle dune accompagnati solo da qualche sbuffo e sbadiglio.
Fortunatamente non erano molto distanti dall'obbiettivo e Phil comprese che erano arrivati perché un brivido assolutamente gelido gli penetrò nelle ossa non appena riconobbe la prospettiva che aveva quando le guardie lo avevano immobilizzato, prima che Savannah corresse come una furia verso di loro per liberarlo... il ricordo era così vivido che per un istante la notte si fece giorno e il calore del sole gli scottò la pelle, insieme alla coscienza.
Nehroi scese così rapidamente dalla duna che ruzzolò per molti metri in una nuvola di sabbia prima di fermarsi. Lorwaar lo seguì a ruota, cercando di non perdere l'equilibrio, e così anche Phil e Kayrin.
«È qui», disse Nehroi concitato non appena si fermò. «È qui, qui, è qui», continuò a ripetere mentre raggiungeva a carponi il luogo esatto.
«Sicuro?», disse Kayrin. Si guardò attorno e non riuscì a riconoscere nulla del paesaggio: ai suoi occhi, quelle dune non sembravano affatto diverse dalle decine che avevano superato prima.
Nehroi non la ascoltò ed iniziò a scavare con le mani tra i granelli argentati dai raggi lunari.
Kayrin sospirò. «Spostati», gli disse, poi alzò i palmi delle mani verso il punto in cui Nehroi stava lavorando.
La sabbia tremò e formò piccole cascate di granelli verso il centro scavato dal brehkisth, come se stessero cadendo in un imbuto. Poi, quando sulla fronte di Kayrin iniziarono a comparire delle perline di sudore, la sabbia si sollevò in forma rettangolare e poi cadde giù, scivolando quasi liquida al terreno di origine.
La bara era lì, pulita dal vento che si stava levando attorno a loro così tagliente che sembrava volesse punirli per un gesto del genere; era lì, vetro e pietra chiara, come Kayrin l'aveva creata appena tre mesi prima.
La jiin abbassò le mani e la bara si depositò con poca grazia sul terreno, crollando giù assieme alla donna sfinita. Phil la sorresse prontamente assieme a Lorwaar, poi il ragazzo lasciò l'umano da solo e corse con Nehroi verso la bara, verso l'oblò di vetro.
Le mani del brehkisth tremarono quando la sfiorarono, incerte.
«Forza», gli disse l'amico.
Nehroi deglutì e passò le dita sul vetro, pulendolo dagli ultimi rimasugli di polvere per guardarvi attraverso.
Ciò che vide lo sconvolse fin nell'anima come se qualcuno l'avesse strappata dal suo petto e l'avesse sbandierata violentemente.
Oltre il vetro non c'era nulla.
Si aspettava il viso di Savannah, gli occhi chiusi e le labbra serrate, ma non c'era nulla.
Scardinò il coperchio con forza e aprì la bara in uno scatto improvviso. Vuota.
Savannah non era lì. Che stava succedendo?
Non voleva nemmeno perdere tempo a smentire un'ipotesi, inverosimile, eppure non riusciva a non pensarci.
«Hai detto che non è mai arrivata nel Regno dei Morti», disse rivolto a Lorwaar. Il viso spento e freddo della sua sorellina gli balzò in mente come un proiettile e la ferrea consapevolezza che fosse morta gli diede ancora più fermezza. Che stava succedendo?
Lorwaar lo intuì ma strinse i denti e gli rispose a muso duro. «Non l'ho mai vista giù, lo giuro!»
Fu Phil, con la voce pacata della ragione e della logica, ad abbassare i toni della discussione. «Ma se non è neanche qui... e non è certo viva...»
A volte, però, anche la logica fa sudare freddo. Accade quando è inzuppata nell'angoscia di chi non vuole crederle.
«Dove diavolo è finita Savannah?»



*°*°*°*


Siiiiii finalmente sono arrivata a questo capitolo! Non avete idea da quanto tempo sto aspettando di pubblicarlo... per arrivare al prossimo! E a tutto l'arco spazio-temporale che si apre ora! *-* Perché, appunto... dov'è Savannah??
Ma ovviamente è inutile che ve lo dica ora, lo vedrete da voi al prossimo aggiornamento ^^

Grazie come sempre a chi continua a seguirmi! Pochissimi a dire molto ma a me basta <3

Alla prossima! Ciao!

Shark

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Capitolo 10
*** Sei Cose ***


12
Sei Cose



Le palpebre erano così tanto sigillate che le fecero male quando decise di aprirle, permettendo alle iridi violacee di posarsi nuovamente sul mondo. Alzò una mano per coprirle, la luce non era accecante ma il dolore arrivò comunque e furono molte le smorfie che solcarono il viso pallido.
Fu un attimo, un attimo bianchiccio e umido, e Savannah non poté non notare svariate cose che non le tornavano.
Primo: era viva.
L'aria che tornava nei suoi polmoni addormentati era dolcissima, sebbene avesse un pessimo odore. Varcò le sue narici irruente come un fiume in piena e rianimò tutto il suo corpo addormentato, dalla punta dei capelli fino alle dita dei piedi. Sentì qualcosa vibrare sotto la sua pelle come se avesse avuto tutto il corpo addormentato e si stesse finalmente risvegliando dal torpore di una posizione scomoda.
Per qualche istante i suoi occhi rimasero immobili a fissare un indistinto beige che regnava ovunque, incapace di mettere a fuoco qualsiasi cosa. Sbatté più e più volte le palpebre, ma non cambiò nulla per molti tentativi. Poi iniziarono a farsi largo delle righe scure molto spesse che intervallavano regolarmente quella patina chiara ed indistinta. Piano piano, aprendo e chiudendo in continuazione gli occhi, come se dovesse pulirsi le iridi, riuscì a vedere qualcosa e fu sorpresa da ciò che si ritrovò di fronte.
Secondo: grosse sbarre di ferro nero la rinchiudevano in una gabbia.
Una gabbia altissima e molto larga, con poco spazio tra una sbarra e l'altra.
Terzo: non riconosceva i casolari devastati e l'ambiente fangoso che la circondava e che si stagliava debolmente dietro di esse.
Quarto, quando abbassò lo sguardo: non era da sola.

Savannah si voltò verso i visi apatici e spenti stipati nella gabbia rettangolare, tutti colorati dello stesso beige e grigio del fango del terreno. Allungò le gambe ma le sentì fremere nervosamente e i muscoli non risposero all'appello. Sentì freddo sul collo quando si mosse per controllarle ed aggiunse una nuova voce alla sua lista non appena le sue dita scattarono sulla nuca.
Quinto: i suoi capelli non erano più lunghi.
«Ciao», le disse un ragazzino biondo con poca vita nella voce mentre lei si tastava la testa. «Ti ho vista quando sei arrivata. Li tagliano a tutti. Tranquilla.»
La sua lunga e fluente chioma nera, che aveva sempre portato come un vanto per tutta Ataklur come il crine di una leonessa, era stata ridotta a pochi centimetri scoordinati, storti ed infangati. I pochi ciuffi che erano riusciti a sfuggire all'azione implacabile di un coltello o un pugnale pendevano storti e solitari lungo il suo viso, incorniciando un'espressione agitata e smunta.
«Chi?», domandò la ragazza dando voce alla domanda che vorticava nella sua mente più velocemente di tutte le altre migliaia. La sua bocca era impastata e la mascella le fece male sulle giunture quando la mosse.
«Gli og.»
Il ragazzino si guardò attorno con sospetto non appena pronunciò quella sillaba e tutti gli altri prigionieri si agitarono tra loro come se avessero ricevuto una scossa. Erano a malapena una decina, alcuni ammucchiati tra loro per scaldarsi e altri seduti in solitaria con lo sguardo particolarmente spento. Tutti erano visibilmente feriti e deperiti, ma alla jiin quello sembrò un punto secondario tra le priorità delle cose da scoprire.
Og.
Savannah corrugò la fronte e cercò di ripescare quel nome nelle profondità della sua mente ancora frastornata dal risveglio. Era l'appellativo che si dava alle creature maligne che si manifestavano nella notte per... per...
Si portò due gelide dita alla tempia e si sforzò di più: c'era uno strano velo che aleggiava nella sua mente che le rendeva difficile ricordare, simile alla nebbia che avvolgeva quel panorama spettrale. «Non affaticarti. Passerà.», le disse il ragazzino, probabilmente incapace di articolare frasi più lunghe di tre parole. Indicò un uomo dall'altra parte della gabbia, sulla quarantina: era uno di quelli che sedevano isolati dagli altri e non fece nessun cenno o movimento quando il ragazzino lo nominò. «Hefrai è qui da tanto. Non ricorda ancora sua moglie. È normale.»
La ragazza scosse la testa e si sforzò di nuovo, disegnando una profonda riga sulla fronte. “Gli og sono quelli che... che... sono le creature che escono di notte a... prendere... prendono...”
«Siamo morti, vero?»
Hefrai e il ragazzino la squadrarono stupiti. «Ricordi?», le domandarono concitati e quasi all'unisono, come se qualcosa potesse dipendere dalla sua risposta. Anche qualche altro prigioniero iniziò a scollarsi dalla sua apatia e ad interessarsi alla conversazione.
Savannah annuì a fatica e si passò una mano sul volto per togliere le goccioline di sudore che prodotte dallo sforzo mnemonico. «Gli og mangiano i morti», disse.
Il ragazzino scosse la testa e gli altri scivolarono di nuovo nell'indifferenza, mugugnando qualcosa di incomprensibile. «Quello si dice in giro. Ma è sbagliato. Qui si sa. Gli og rubano i morti.»
«Come possiamo essere vivi?», domandò Savannah non senza provare una forte inquietudine nel dire una frase del genere, sebbene tutto il discorso sembrasse decisamente anormale anche per una come lei, lei che di stranezze ne aveva viste fin troppe.
«Loro lo fanno. Non so come funziona. Mettono di nuovo la vita nei corpi. Come uno zombie, credo. Non li ho mai visti.»
Savannah ebbe un brivido e si sentì gelare: anche solo pensare a qualcosa del genere le faceva venire il voltastomaco. Le gambe scattarono lasciando nel fango profondi solchi che si richiusero subito, e si aggrappò alle sbarre per tirarsi su. Si alzò faticosamente in piedi, scoprendo che la gabbia le permetteva di stare completamente dritta e che si sentiva tremendamente instabile su quel terreno, e decise che aveva passato abbastanza tempo lì dentro.
Afferrò due sbarre ed iniziò ad immaginarle fatte di burro, cercando di farle sciogliere tra le due dita. Tese le braccia ed iniziò a forzarle con tutta la determinazione che aveva.
Qualcuno, alle sue spalle, rise.
Savannah non ci trovò niente di divertente nel tentare la fuga, ma quelle sbarre sembravano immuni alla sua magia. Le tornò in mente qualcosa riguardo ad un incantesimo che inibiva la magia e si voltò verso gli altri prigionieri, sorprendendo quelli che avevano ancora il riso sulle labbra.
«C'è un incantesimo?», domandò voltandosi e barcollando. «O sono fatte di un materiale anti-magia?»
Il ragazzino le fece cenno di sedersi ma lei lo ignorò. «Che succede, siete tutti brehmisth? Io sono una jiin viola e posso liberarci tutti!»
«Siediti...»
«Oppure volete rimanere qui nel fango?!»
La mano esile del biondino cercò di afferrarle il braccio ma la ragazza si divincolò e aprì il palmo verso di lui per allontanarlo da sé. Nessuno dei presenti si interessò minimamente alla faccenda o si preoccupò per il ragazzo.
Sul viso di Savannah si allargò un'espressione shockata man mano che i suoi occhi si sgranavano per lo stupore. La sua mano era di fronte al ragazzino, lei aveva cercato di colpirlo... ma non era successo nulla. Gli aveva toccato il torace, come se...
Si voltò ancora verso le sbarre e si sforzò di distruggerle immaginando esplosioni, cataclismi e ogni cosa devastante che potesse venirle in mente.
Primo: era viva.
Secondo: grosse sbarre di ferro nero la rinchiudevano in una gabbia.
Terzo: non riconosceva i casolari devastati e l'ambiente fangoso che la circondava.
Quarto: non era da sola.
Quinto: i suoi capelli non erano più lunghi.
Sesto: non aveva poteri.







*°*°*°*


Waaaaaaaaaaaaaa finalmenteeeeee!! Non capite, è da almeno un anno (UN ANNO) che non vedo l'ora di postare questo capitolo!! L'ho scritto, riscritto, coccolato, amato, sistemato, adorato... e sospirato, perché l'ho scritto quando qui su EFP Savannah era appena morta. E a chi mi chiedeva "ma torna in vita, vero??" io non potevo dire "certo! l'ho anche già scritto!"... la sofferenza. ^^"
E infine, eccola!
Senza memoria, con un -ehm- lieve handicap, in una gabbia, nel fango, chissà cosa le succederà... ma insomma, eccola di nuovo viva e vegeta :D

Alla prossima!

Shark

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Capitolo 11
*** Gli Og ***


13
Gli og



Lo stomaco di Savannah brontolò così violentemente che attirò l'attenzione di un og di passaggio.
Del loro aspetto non si sapeva molto e non si poteva sperare in niente di meglio che nelle versioni ingigantite dei genitori che intimoriscono i bambini affinché non vadano oltre il circolo di montagne di Ataklur, non tornino a casa troppo tardi la sera o non parlino agli sconosciuti.
Per la prima volta, Savannah vide un og e i suoi occhi non avrebbero potuto spalancarsi di più. Era alto, molto alto, con la pelle più grigia che rosea. Quello che l'aveva guardata male aveva un'enorme testa nascosta da una bandana probabilmente grande come una tovaglia e i suoi abiti erano lerci, infangati e puzzolenti come poche cose al mondo. L'odore viaggiò rapidamente attraverso le sbarre della gabbia ma solo la ragazza storse il naso.
«Si vede che sei nuova», disse il ragazzino in un barlume di sorriso.
Le mani dell'og e la loro effettiva capacità di strizzarla senza fatica regnavano ancora incontrastate nella mente della ragazza e un velo di panico si posò sul suo volto pallido.
Scosse la testa e cercò di concentrarsi su qualcos'altro, così notò i vestiti del ragazzino di fronte a lei: sporchi, rotti, infangati dal primo all'ultimo filo. Solo in quel momento si accorse che anche lei indossava cenci simili e che la sua adorata maglietta bordeaux, i jeans, le scarpe e il giacchetto erano solo un ricordo opaco. Mosse le dita dei piedi e la viscida sensazione del fango freddo sulla pelle nuda la raggelò.
«Cosa ci facciamo qui?», domandò abbassando la voce quando un altro og passò accanto alla gabbia, in mezzo a quella che lontanamente sembrava una strada.
Anche il ragazzino mise una mano vicino alla bocca e parlò in un sussurro, sebbene non ci fosse più nessuno nei paraggi. «Aspettiamo.»
«... cosa?»
«Che ci prendano.»
«Ci prendono?»
Il biondino annuì. C'era qualcosa, nel suo modo di sorridere, che le ricordava tremendamente qualcuno... ma non sapeva chi.
«E poi cosa succede? Che si fa?»
«Quello che vogliono.»
Savannah inclinò la testa su un lato e batté le palpebre più volte, stupendosi di essere tanto stupita da qualcosa in quella strana realtà. «Come ti chiami?», domandò poi, nella speranza di pensare ad altro.
«Lazh.»
«Bene. Riesci a dire qualcosa di più utile che qualche indizio, Lazh?»
«Tipo?»
«Cosa “vogliono”?»
Purtroppo Savannah non riusciva a pensare a nient'altro che non fosse quel destino marrone ed umido in cui era stata gettata. E poi la sua mente era annebbiata: anche volendo, non riusciva davvero a pensare a nient'altro.
«Ti fanno combattere», rispose prontamente Lazh, ma con amarezza. «Per il cibo. O ti picchiano. Per divertirsi. A volte fai lo schiavetto. Poi combatti e ti picchiano. Per le donne non so. Non sono una donna.»
Savannah sentì il panico salirle su per la pelle e il groppone che le si depositò sullo stomaco gliene diede la conferma. Iniziò a sudare freddo e si sentì venir meno: nessun potere, alla mercé di creature violente e gigantesche. Non si prospettava nulla di buono.
«Poi ti riportano dentro», proseguì Lazh, noncurante delle preoccupazioni della ragazza. «Se non sei ridotto troppo male. Se no finisci nel mucchio. Non ti riportano indietro due volte.»
«Perché stai... sorridendo?»
Il ragazzino rimase basito per un attimo, come se Savannah gli avesse fatto notare una cosa stranissima, poi riprese come se nulla fosse. «Se la gabbia è troppo vuota arriva qualcun altro. Sempre così.»
«Quindi giocano con le persone finché non muoiono di nuovo?»
Era orribile, ma Savannah stava iniziando a mettere assieme i pezzi e ad ogni tassello le sembrava di inghiottire fango, lo stesso che le inzuppava i piedi fino alle caviglie.
Un og passò accanto alla gabbia correndo con foga, sbattendo i piedi con così tanta forza che tutti i prigionieri sobbalzarono e vennero schizzati. Sparì dentro un capannone urlando qualcosa in versi incomprensibili e Savannah si sentì vibrare le ossa udendo quel suono. Era più spaventoso di quanto avesse potuto immaginare vedendoli per la strada.
«Cosa ricordi?», le domandò Lazh come se non fosse appena passato un terremoto ambulante.
Savannah si strinse nella sua maglietta, che forse era un sacco per le patate, e si sfregò le mani sulle braccia per riscaldarle.
«Come sei morta?», domandò ancora il ragazzino, veramente curioso.
«Io...»
Corrugò le sopracciglia e si morse il labbro inferiore. Cercò a tentoni di ripescare qualcosa in quella mente nebulosa che si ritrovava, ma era maledettamente difficile trovare qualcosa di nitido, qualunque cosa fosse. Più si sforzava di concentrarsi sulla sua morte, più vedeva qualcosa di giallo, come un mare infinito e rovente. Iniziò a sudare e il respiro si fece pesante, anche se non ne capiva il motivo. Poi ricordò un dolore e si portò automaticamente due dita sotto al mento, sul collo.
«C'è una cicatrice», la informò Lazh. «Sei stata colpita lì.»
Savannah annuì. Non appena il ragazzino ebbe intuito quel passaggio, i suoi ricordi si fecero meno appannati e il mare giallo divenne un mare azzurro, limpido e bellissimo. Ma una sensazione di angoscia le stava attanagliando le viscere e si scoprì ad ansimare.
«Eri sola?»
No, non lo era. Non sapeva perché ne chi fosse realmente lì, ma aveva la sensazione che nel ricordo qualcuno la stesse chiamando. Vide una macchia scura avvicinarsi rapidamente e solo quando sentì che la stava toccando si accorse che era una persona. Savannah strizzò gli occhi e provò a rendere più nitido il suo volto, ma non riusciva nemmeno a capire se avesse un naso, una bocca, entrambi o nessuno dei due. Degli occhi non c'era traccia, era tutto scuro e offuscato.
«Qualcuno... qualcuno mi ha presa mentre cadevo», disse con voce spezzata.
«Hefrai ricorda molte persone. Ma non sua moglie», commentò Lazh, per poi abbassare lo sguardo alla strada fuori dalla gabbia. «È una cosa triste.»
«Perché non ricordiamo nessuno?»
«Ricordiamo, invece. Ma ci vuole tanto tempo...»
Lasciò il discorso in sospeso, ma Savannah intuì da sola quale sarebbe stata la frase successiva.
Nessuno, lì, aveva abbastanza tempo.

La porta della gabbia era larga ed alta, sicuramente della dimensione di un og, fatta solamente di sbarre e di un pesante chiavistello. Quando si aprì, i suoi cardini cigolarono così tanto che sembravano in procinto di spezzarsi e il rumore fece scattare in piedi tutti i prigionieri, rapidamente ammucchiatisi dalla parte opposta alla porta.
Un giovane sulla trentina venne gettato nel fango tra loro e nessuno fiatò, se non l'og che l'aveva lanciato con soddisfazione. «Oggi niente cibo», aveva abbaiato con un tono che sembrava severo e al tempo stesso divertito.
L'og era barbuto ma pelato e i suoi occhietti neri come il catrame si preoccuparono di squadrare minacciosamente ogni prigioniero terrorizzandolo a morte prima di chiudere di colpo la porta della gabbia, facendola sbattere con tanta forza da far tremare tutte le solide sbarre.
Nessuno osò muoversi o fiatare finché l'og non si fu allontanato di almeno dieci metri. Poi i prigionieri tornarono ognuno nel suo angolino, i visi di nuovo sbiaditi e spenti, e nessuno si curò di quel giovane ancora sdraiato nel fango, incapace di muoversi.
«Oh oh», sussurrò Lazh poco prima di fiondarsi da lui. Lo sollevò per un braccio e lo trascinò fino al suo posto, lasciando una scia scura nel terreno liquido.
«Cos'ha?», domandò Savannah.
Lazh gli sollevò il viso ed iniziò a schiaffeggiarlo per farlo riprendere; solo in quel momento Savannah si accorse che era poco più grande del ragazzino, e non un uomo sulla trentina come aveva inizialmente pensato. L'avevano ingannata il viso stanco, le occhiaie profonde e gli innumerevoli tagli e lividi che gli mascheravano i tratti adolescenziali.
«Lotta per il cibo», rispose Lazh dopo un po', non prima che il suo amico ebbe iniziato a respirare. «Non era all'altezza.»
Le ore si susseguirono implacabili e lente in quel primo giorno di nuova vita e Savannah non ci mise molto a capire che sarebbe impazzita presto come tutti i prigionieri. Non venne più nessun og fino all'imbrunire e la notte arrivò gelida e scura tra loro in un esasperante silenzio.
L'amico di Lazh si era svegliato appena in tempo per tremare violentemente, provato dalla stanchezza della lotta, dal freddo e dalla fame.
Di notte il fango in cui erano immersi diventava ancora più gelido e furono totalmente inutili i tentativi della ragazza di sfregarsi i piedi cercando di scaldarli, anche perché si congelava il sedere e la schiena ogni volta che si chinava e provava a farlo. Costantemente in movimento per non stare mai troppo seduta o troppo in piedi, passò così quella che pensò fosse la notte più scomoda della sua vita, sebbene continuasse a non ricordarne altro che gli ultimi attimi.
Il sole non splendeva su quel pezzo di terra in cui vivevano gli og, il cielo era sempre coperto da una fitta nebbia bianca che nascondeva i tetti delle case e le punte dei pochi alberi che si intravedevano in fondo alla strada. Savannah si accorse che era mattina solo quando i suoi compagni di gabbia si svegliarono e gli og cominciarono a popolare di nuovo la strada, dopo essere spariti nella notte dietro le loro finestre illuminate e sicuramente calde.
«Non hai dormito?», domandò Lazh in uno sbadiglio.
Lei era l'unica che si era fatta dei problemi e non aveva accettato di sdraiarsi nel fango, ottenendo un'espressione ancora più stropicciata sul viso stanco.
Ebbe modo di recuperare le energie durante quella giornata, oziosa e vuota come la precedente. La notte tornò con esasperante lentezza e altrettanto lentamente se ne andò, lasciando alla ex-jiin le ossa ancora più indolenzite del giorno precedente.
L'unico intrattenimento che poteva avere era l'osservazione della vita che la circondava e così scoprì che non erano solo gli og a popolare quella sconosciuta regione di Ataklur: non era raro vedere delle persone normali, come lei e gli altri prigionieri, passeggiare tranquillamente tra i caseggiati grigi, chiacchierando con i giganti come se fossero tutti alla pari. Avevano anche lo stesso apatico senso di indifferenza nei loro confronti quando passavano di fronte alla gabbia e non si preoccupavano di quei prigionieri dimenticati da tutti.
Loro erano abbandonati, nessuno si curava di come stessero e di cosa facessero, anche perché effettivamente non facevano né potevano fare nulla. Guadagnavano un po' di attenzione solo quando un prigioniero moriva e veniva tolto dalla gabbia.
Fu presto ben chiaro che l'unica fonte di cibo era la pagnotta secca che ci si guadagnava lottando, ma era insufficiente per tutti quanti e gli og non offrivano neanche tante possibilità di vincerla.
Quando non c'era nulla di interessante da vedere, Savannah si concentrava sui suoi ricordi, confermandosi amaramente che non riusciva a scavare più in profondità del momento della sua morte, pur sforzandosi giorno dopo giorno. Ricordava molte nozioni generali, su Ataklur e sulla società, su come girava il mondo o come funzionassero le cose; ricordava il suo nome e di essere una jiin viola, ma nulla di più profondo o personale.
L'amico di Lazh si riprese solo il giorno dopo il ritorno nella gabbia, se quegli occhi opachi e la pelle attaccata alle ossa potevano sembrare segni di guarigione.
Quella sera un og si avvicinò minacciosamente alle sbarre, aprì la porta con così tanta forza che sembrava la stesse scardinando e prese Hefrai per un braccio, sollevandolo come una bambola.
La porta venne chiusa subito dopo quella breve incursione e i due sparirono nella nebbia calante.
«Speriamo sia lotta per il cibo», mugugnò Lazh con un barlume misto negli occhi, di speranza e di tristezza.
Hefrai non tornò più nella gabbia. Lo videro solo per pochi istanti, il breve tempo che aveva camminato nella strada prima di crollare a terra e di essere trascinato verso quello che Lazh chiamava “il mucchio”.
L'og incaricato di lasciarlo assieme agli altri corpi tornò indietro ed aprì la gabbia per la seconda volta in quella serata, indicando l'amico di Lazh con un dito grande quanto un braccio.
Il ragazzino si alzò in piedi con la vitalità di uno zombie ed attraversò la gabbia a passi lenti e pesanti, sollevando più il fango che i suoi stessi piedi. Ci mise così tanto tempo ad andare dall'og che Savannah temette che il gigante sarebbe entrato e l'avrebbe preso con la forza.
Il ragazzino varcò l'uscio e venne inghiottito dalla nebbia e dalle tenebre della gelida notte che era scesa su di loro.
«Non tornerà», sentenziò Lazh dopo un po'. Non sembrava né triste né provato, solamente rassegnato e certo.
Tra le cose che la ex-jiin aveva imparato in quei pochi giorni passati nell'inferno fangoso, c'era la capacità di intuizione del piccolo Lazh. I suoi presentimenti erano sempre corretti, anche se spietati, e Savannah era certa che fosse una cosa naturale dopo aver passato tanto tempo lì dentro. Sicuramente anche gli altri prigionieri avevano la stessa “dote”, ma nessuno aveva abbastanza vitalità per aprire bocca e dire le cose a loro volta.
La notte passò e la mattina arrivò attutita come sempre. Quel giorno, il quarto da quando Savannah si era svegliata, la porta si aprì e una donna venne gettata tra gli altri prigionieri come il ragazzino tempo prima.
«Lei è stata presa prima», la informò Lazh, sottintendendo il periodo in cui Savannah non si era ancora risvegliata dalla morte.
La ex-jiin non si negò di osservare con viva curiosità la nuova arrivata mentre cercava di togliersi il fango di dosso e si guardava attorno per cercare un angolo in cui sedersi ed attendere la prossima chiamata. Era una donna non tanto bella ma aveva un portamento abbastanza sostenuto da farla sembrare addirittura nobile in un contesto tanto disgraziato.
Si domandò cosa le avessero fatto fare, ed ebbe anche l'impulso nonché il cattivo gusto di chiederlo. La donna le lanciò un'occhiataccia così tanto innervosita, impaurita ed arrabbiata che Savannah non ci mise più di un secondo a capire che fosse un argomento tabù. Tornò a guardare il panorama esterno e si rassegnò all'idea che avrebbe scoperto sulla sua pelle e a suo tempo quali fossero le “cose da donna” che Lazh non aveva saputo spiegarle, pur continuando a sperare in un'anteprima per prepararsi all'eventualità.
Per la seconda volta nel giro di poche ore, un og aprì la porta e grugnì qualcosa ai prigionieri.
«Arh», fu la sola cosa comprensibile in quel miscuglio di versi animaleschi e la ragazza si sentì mancare quando il dito enorme venne puntato verso di lei.
Il respiro si accelerò in un istante, portandola quasi all'iperventilazione. Il suo viso si fece più pallido del solito e le gambe iniziarono a tremare vistosamente.
Savannah aveva paura. Stava morendo di paura.
Cosa sarebbe successo? Cosa le avrebbero fatto? Sarebbe finita nel mucchio, sicuramente. Senza poteri non era altro che una ragazzina, e neanche dotata di muscoli né di particolare resistenza fisica. Stava per alzarsi in piedi quando vide con la coda dell'occhio Lazh chinare la testa come un condannato a morte che mostra il collo al boia. I suoi pugni erano stretti tanto da far sbiancare le nocche e le sue gambe si mossero decise verso l'og.
Diceva continuamente che presto sarebbe toccato a lui, lui che era l'unico rimasto in quella gabbia ad aver portato la pagnotta almeno una volta, e che sarebbe sicuramente morto perché si sentiva troppo debole per poter ripetere il miracolo. Ogni volta che diceva quelle cose, qualcosa nel petto di Savannah si scaldava: Lazh aveva uno sguardo davvero molto speranzoso che si scontrava contro quelle parole tristi, come il mare in tempesta sugli scogli. Aveva capito in fretta che lo diceva affinché nessuno, prigioniero o og che fosse, potesse anche solo immaginare di mandarlo apposta a lottare, sperando di scansare il fato ancora per un po'. Però ogni volta che i suoi occhi si illuminavano a quel modo, Savannah sentiva di aver visto ancora una volta la vita e ben presto quelle iridi divennero il suo piccolo sole.
Lazh andò a sbattere contro qualcuno e smise di camminare verso l'og, sorpreso.
Savannah era in piedi di fronte a lui, con le braccia e le gambe aperte per impedirgli di passare, formando una grande X sul suo cammino. «Prendi me», disse al gigante.
Sentiva di avere tutti gli sguardi addosso, e non solo quelli dei prigionieri stupiti come mai prima di allora: ognuno, og e non, in quella strada fangosa e puzzolente la stava fissando.
«Tu donna», biascicò contrariato il carceriere.
La ragazza inspirò profondamente e corrugò le sopracciglia con fermezza. «So anche fare cose da uomo.»
«Prendo lui», insistette l'og con evidente fatica nel pronunciare quei suoni.
«No, prendi me.»
Sentiva il respiro accelerato di Lazh alle sue spalle e i suoi deboli sussurri che la imploravano di tornare a sedere, ma li ignorò categoricamente. Al diavolo la paura e l'assenza di poteri, non avrebbe permesso al suo piccolo sole - l'unico con un po' di cuore in quella gabbia di morti viventi - di finire nel mucchio.
L'og sembrò confuso per alcuni istanti, poi si guardò attorno imbarazzato dagli sguardi curiosi dei suoi compari. Grugnì innervosito, allungò un braccio, afferrò con forza la ragazza ancora piantata di fronte al ragazzino e richiuse la gabbia facendo tremare le sbarre e il terreno.
Non le mollò il braccio neanche per un istante mentre divorava i metri che li separavano dal caseggiato in cui si svolgevano gli incontri e Savannah non riuscì a far altro che muovere rapidamente i piedi per riuscire a camminare e non essere trascinata a peso morto: ogni falcata dell'og corrispondeva a tre delle sue e comunque non riusciva a stare al passo.
Si fermò davanti ad un edificio tenuto meglio di tutti gli altri, nonostante la sporcizia che manifestava e che sembrava essere un tratto tipico del posto.
La testa della ragazza arrivava alla maniglia della porta e alla vita dell'og e solo in quel momento la paura tornò a galoppare nelle sue vene: se nella lotta per il cibo avesse dovuto combattere contro un og, il mucchio l'avrebbe accolta a braccia aperte prima di quanto potesse sperare.
La porta venne aperta e un boato di latrati, versi incomprensibili e urla varie esplose nelle sue orecchie. Notò subito il cambiamento di temperatura rispetto all'esterno: tanti giganti puzzolenti rintanati in un unico edificio producevano un tepore che rinvigorì Savannah immediatamente.
Altri og entrarono di corsa nell'edificio, diminuendo ulteriormente il poco spazio che c'era là dentro.
«Chi è quella!», urlò qualcuno tra i tanti che occupavano una sala grande come un campo da calcetto, in piedi come ad un concerto. Tutti i visi dei giganti erano arrossati dal calore e lucidi di sudore, ma nessuno sembrava intenzionato ad aprire una finestra per rinfrescare l'ambiente.
«Vuole morire, arh!»
La mano dell'og la stringeva saldamente lungo tutto l'avambraccio e la presa diminuì solo quando Savannah venne lanciata in mezzo a quella folla, facendola cadere giù di qualche metro rispetto al pavimento. Si rialzò rapidamente e scoprì di essere in una specie di arena, poco più che un'enorme buca nel terreno attorno alla quale si accalcavano gli og spettatori.
La ragazza roteò su sé stessa ed esaminò tutto ciò che la circondava, dalle irregolarità del terreno brullo all'unico og seduto, una donna enorme che troneggiava su di lei con un'aria minacciosa ed uno sguardo divertito. Se non fosse stato per il seno prosperoso che si intravedeva sotto la pelliccia, non sarebbe stato possibile distinguerla dagli og uomini.
«Femmina!», la sentì sbraitare sovrastando il vociare confuso ed assordante degli altri giganti. «Perché femmina lotta da maschio!»
L'og carceriere fece spallucce e si mescolò tra la folla, fuggendo la domanda. L'obbligo di risposta rimbalzò quindi sulla ragazza, al centro di decine di sguardi incuriositi e di schiamazzi assordanti.
Aprì la bocca per rispondere, ma la sua voce non riuscì ad arrivare alle orecchie di nessuno e, a metà della sua frase, un og scese nell'arena a grandi passi, fregandosi le mani contento.
Era più piccolo di tutti gli altri e Savannah ipotizzò che fosse più giovane, il corrispondente gigante di un adolescente. Indossava una casacca giallognola e lercia, dei pantaloni color tronco d'albero e un'enorme cintura nera che li fissava all'enorme vita; appesa con una cinghia, c'era una mazza ornata di chiodi storti, acuminati ed arrugginiti.
Quando le iridi viola la scorsero, il resto del corpo si sentì svenire.
La donna og batté rumorosamente le manone e l'eccitazione del pubblicò aumentò ancora.
«Combattete!»







*°*°*°*


Scusate l'immenso ritardo nel postare questo capitolo ma mi è morto il pc e dal tablet non riesco affatto a mettere l'html >.< ora ho sequestrato il pc della mamma e, con molta fatica, siamo riusciti a collaborare... computer mio, perché PERCHE' mi hai abbandonata!!! TT________TT

Fine del lutto, scusate u.u
Anyway, ecco un nuovo capitolo! Credo ne pubblicherò un altro prima di partire... anche perché lasciare Savannah così in sospeso mi sembra crudele xD

Grazie millemila a chi ancora segue la storia, recensisce o anche legge solamente! <3 <3
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 12
*** Nell'arena ***


14
Nell'arena



«Combattete!», ordinò la donna og.
Nessun muscolo rispose a quell'incitamento.
Savannah immaginò una frana nel terreno e si chinò a terra per indirizzarla verso il suo avversario, ma non successe nulla ed imprecò: aveva scordato di non poter più usare la sua unica arma.
Indietreggiò di corsa mano a mano che il gigante le si avvicinava e cercò di elaborare in fretta una strategia... ma non riuscì a venirle in mente nulla che non presupponesse l'uso della magia.
I suoi passi rapidi ed affannati vennero fermati dagli og del pubblico che la fecero ruzzolare velocemente giù quando sembrava troppo vicina al bordo dell'arena, in fuga.
«Lotta da maschio!», abbaiò la donna og dal suo scranno, brandendo un boccale a forma di corno come se fosse una spada e schizzando a terra parte del suo contenuto rossastro.
Savannah si rialzò dal terriccio e sentì il panico correrle sotto pelle come un treno quando si accorse che era stata fatta cadere fin troppo vicina all'avversario. Lo vide alzare le mani nella sua direzione e riuscì a schivare i primi pugni, grandi come massi che cadevano da una frana, rotolando tra loro come una formica agitata. I pugni vennero aperti e i palmi erano così grandi che lo spazio di fuga venne ridotto ulteriormente. Una mano le afferrò la gamba e l'altra si abbatté sulla sua schiena con così tanta pesantezza da farle mancare il fiato. La presa sulla gamba si allentò e Savannah si rialzò frastornata, tastandosi le costole come se dubitasse di averle ancora tutte.
Giocarono al gatto e al topo che veniva schiacciato finché il pubblico non iniziò a sbraitare lamentele di noia e fu allora che la mazza ferrata fece il suo ingresso sulla scena.
Non appena le mani dell'og si strinsero sul sul manico, la ragazza si voltò ed iniziò a correre, completamente terrorizzata dall'idea di ricevere anche solo un colpo con quell'arma che l'avrebbe sicuramente spiaccicata. Arrivata nuovamente al bordo dell'arena, però, gli spettatori formavano ancora una barriera invalicabile e la ex-jiin non poté far altro che voltarsi indietro, pallida più di un fantasma, tremante più di una foglia al vento.
Era spacciata.
L'avversario iniziò a camminare verso di lei e le sue falcate erano così dannatamente ampie da farlo sembrare in corsa.
Non poteva scappare, non poteva affrontarlo, non poteva andare da nessuna parte.
Savannah lo vide avvicinarsi fin troppo rapidamente e si sentì esasperatamente in trappola.
Fu allora che le venne in mente l'idea più stupida che potesse avere, dopo quella di essersi offerta volontaria: l'og camminava verso di lei e lei iniziò a correre verso l'og.
Corse come se stesse partecipando ad una gara, come se volesse davvero andargli incontro, come se non ci fosse altra via d'uscita se non quel gigante che l'avrebbe uccisa anche solamente andandole incontro. Non ebbe il tempo di notare l'espressione stupita dell'avversario vedendo quel gesto suicida, troppo presa dal suo ragionamento contorto.
La mazza ferrata era arrivata sopra la sua testa e presto sarebbe caduta giù su di lei ma, nell'istante in cui la vide muoversi, Savannah chiamò tutti i suoi muscoli ad uno sforzo inusuale per loro e saltò a braccia aperte, puntando al collo del gigante come se lo volesse abbracciare.
Per gli spettatori, quello fu effettivamente ciò che stava accadendo sotto i loro occhi: la ragazzina aveva abbracciato l'og.
Nell'istante successivo, però, la videro scalare l'avversario come se fosse la parete di una montagna appoggiando i piedi sulla cintura robusta e facendo presa sulla casacca giallognola.
L'og si stupì tanto di quella mossa da non riuscire a reagire prima che lei arrivò completamente sulle sue spalle. Lasciò cadere la mazza ferrata, alzò le braccia ed iniziò ad agitare le manone per afferrarla, ma lei sgusciò via come un'anguilla e si gettò a terra velocemente, confondendo ancora di più l'avversario. Lui allungò una mano per prenderla nuovamente per una gamba, ma lei si rannicchiò e rotolò dietro la mazza ferrata, stringendo la testa tra le ginocchia con così tanta forza da farsi male nel tentativo di rimpicciolirsi il più possibile.
Sentì un urlo di dolore e poi il boato delle risate del pubblico, così potente da far tremare pareti e finestre: il suo avversario era tanto occupato a cercare di afferrarla da non riuscire ad evitare gli spuntoni della sua stessa mazza ferrata, pungendosi.
«Arh arh!», esclamò la donna og dal suo trono, battendo i piedi a terra con eccitazione.
Savannah provò un senso di inquietudine di fronte a quelle reazioni, ma non riuscì a non sentirsi anche un po' soddisfatta: in fondo loro erano un pubblico e lei lo spettacolo. Forse non era andata tanto male.
Quella sensazione però non durò a lungo: il suo avversario afferrò il manico della mazza con la mano non ferita e la agitò minacciosamente nella sua direzione, pronto a bucherellarla. Savannah, troppo stanca per correre ancora, non poté fare altro che sollevare le braccia per difendersi dai chiodi in arrivo ma udì un verso animalesco e nessun urto.
L'unica cosa che le arrivò addosso fu una pagnotta, sporca di terra e secca proprio come le aveva detto Lazh.
«Buono!», sbraitò la donna og dal suo trono in un tono che sembrava carico sia di rimprovero che di gioia. L'incredula vincitrice si fiondò sulla pagnotta con famelica velocità e la strinse amorevole e al settimo cielo.
Il carceriere sbucò dalla folla come se fosse stato spinto da una molla e si precipitò da Savannah l'attimo stesso in cui le sue dita tremanti afferrarono l'ambito premio. L'enorme mano le afferrò il braccio come quando l'aveva tirata fuori dalla gabbia e la trascinò attraverso tutta l'arena, lontano dall'avversario arrabbiato, in mezzo al pubblico esaltato, fuori dall'edificio puzzolente.
Nel giro di pochi istanti il freddo pungente ed umido della notte nebbiosa tornarono ad avvolgere la ragazza. Si lasciò trascinare dall'og senza cercare di seguire faticosamente i suoi passi, troppo indolenzita e stremata per volersi muovere ancora se non per cercare di non far cadere il suo piccolo e secco tesoro tra uno sbalzo e l'altro, e cercò di reagire solo quando venne lanciata nel fango della gabbia nel tentativo di non sporcare maggiormente quella preziosa pagnotta.
La porta di ferro nero si chiuse alle sue spalle e la stanchezza e lo stress del combattimento si fecero prepotentemente largo tra l'eccitazione per la vittoria, tanto da farle addentare con avidità quel pane secco. Era duro, le fece male alla mandibola e le grattò in gola, ma era l'unico cibo che poteva toccare da cinque giorni e non riuscì a trattenersi. Faceva schifo, ma era buonissimo.
Smise di mangiare solo quando si accorse degli occhi degli altri prigionieri: in tutti i loro sguardi si poteva leggere la stessa identica bramosia di cibo e un nodo le bloccò inesorabilmente lo stomaco.
Abbassò lo sguardo sulla sua sudata pagnotta e perse subito l'appetito. Più tardi se ne sarebbe pentita, ma in quel momento non riuscì a far altro che rompere quel pane con dita esitanti distribuendolo tra gli altri. Due prigionieri si erano fiondati ai suoi piedi tendendo le mani per raccogliere ogni briciola con bramosia.
Savannah lasciò per ultimo un pezzo lievemente più grande degli altri e se lo tenne stretto mentre attraversava la gabbia per raggiungere il suo angolino accanto a Lazh, lasciandosi scivolare addosso i ringraziamenti a bocca piena dei prigionieri.
«Ce l'hai fatta», soffiò stupito il ragazzino.
Savannah gli porse il pezzo di pane e sorrise stanca. «Ce l'ho fatta.»
I suoi occhi si illuminarono e in quella notte gelida e buia, tra le sbarre spesse e nere, nel fango umido e viscido, il piccolo sole tornò a splendere.
La ex-jiin sorrise con più forza e sentì meno freddo.
Poi, come se fosse stata lanciata da un fulmine, una parola colpì la sua mente con violenza e si sentì tanto frastornata da corrugare la fronte e portarsi le mani sul viso per il dolore.
«Cosa c'è?», le domandò Lazh con apprensione, smettendo di addentare il suo pezzo di pane.
Savannah rimase immobile per qualche istante, nella disperata ricerca di quella parola che sembrava essere scappata via. Le ci volle quasi un minuto di concentrazione estrema per riuscire a ripescarla dalla nebbia dei suoi ricordi. «Niroi», disse sudata.
Lazh la guardò confuso.
«Niroi», ripeté lei, con più convinzione. Sì, era quella la parola.
«E che cos'è?»
La ragazza si stropicciò il viso e respirò profondamente. «Non lo so, forse... forse è un luogo.»
Un prigioniero, nell'angolo opposto al suo, bofonchiò qualcosa. Mandò giù il boccone di pane secco e ripeté di nuovo. «È un nome, Nehroi», disse sicuro.
«È grandioso!», esclamò Lazh mostrando fin troppa gioia per una cosa così piccola. «Hai ricordato un nome! Ora devi ricordare chi è!»
Savannah si sentì svuotata e al tempo stesso elettrizzata da quella rivelazione.
«Sì...», soffiò incredula. «Sì, è... è grandioso!»
Non fece in tempo a godere anche lei di quella piccola vittoria, però, che la porta della gabbia venne aperta di nuovo. Il giovane og, il suo avversario, entrò rapidamente e la afferrò con cattiveria per i capelli, trascinandola fuori senza fare neanche un grugnito. Una prigioniera aveva tentato la fuga mentre lui attraversava la gabbia ma non ebbe neanche modo di alzarsi in piedi e correre via che lui la rispedì dentro con un calcio ben assestato; chiuse la gabbia e se ne andò veloce come era arrivato, trascinando con sé Savannah come uno straccio.
Svoltarono l'angolo della strada e la ragazza si stupì nello scoprire che la gabbia in cui stava e anche l'arena delle lotte erano solamente nella periferia di un intero villaggio di og. Cercò di rimettersi in piedi e di camminare senza essere dolorosamente trascinata, ma l'og andava così veloce che non le permise di fare nulla. Attraversarono quattro stradine prima che entrassero in una casa diroccata e desolata come tutte le altre, vicino ad un piccolo boschetto.
Il giovane og aprì violentemente la porta ed attraversò il corridoio con marzialità, lasciando cadere Savannah in quella che sembrava essere una camera da letto, con un giaciglio che non era molto più di foglie secche raccolte in un sacco e qualche mobilio sparso e storto.
Non servì un interprete per capire cosa significassero i grugniti e i versi dell'og: Savannah stava per scoprire cosa fossero le “cose da donne” che capitavano alle prigioniere in quella terra disgraziata.

Quando emerse dalla nebbia, della luce nei suoi occhi non c'era più traccia.
Si lasciò lanciare a terra nella gabbia e vi rimase per qualche istante, insensibile al gelo e grata al fango che copriva le sue nudità.
La porta si richiuse violentemente e i vestiti vennero lanciati dall'altra parte della strada, lontani.
«Femmina non lotta», abbaiò il giovane og con tanta rabbia da far rabbrividire tutti i prigionieri. «Femmina fa femmina!»
Se ne andò infuriato e soddisfatto della sua vendetta, lasciandosi alle spalle una Savannah ferita, violata e dolorante che a fatica riusciva a trascinarsi verso il suo angolino.
Lazh scattò in piedi e la soccorse subito, esattamente come aveva fatto col suo amico due giorni prima; lei, però, non si fece toccare e lo scacciò. Si trascinò verso il suo angolino e strinse le gambe al petto con le poche forze che le rimanevano.
Chinò la testa tra le ginocchia e la sua schiena costellata di lividi e tagli iniziò a sussultare sconvolta dai singhiozzi. Le lacrime caddero pesanti e calde lungo le cosce, rigando il fango di rosa.
Comprendeva finalmente tutto ciò che non era riuscita ad intuire dallo sguardo che quella prigioniera le aveva lanciato la mattina precedente, e desiderò tornare indietro nel tempo ed impedirsi di fare quell'orribile domanda. Se avessero chiesto a lei cosa le fosse successo, non si sarebbe limitata ad un'occhiataccia.
Nessuno aprì bocca, nessuno cercò di consolarla o fece alcunché.
Forse tutti, come lei, stavano pensando che se la fosse cercata.
«Tieni», sentì dopo un po'.
Alzò gli occhi arrossati sul giovane Lazh e lo trovò a torso nudo. Le stava porgendo la sua maglietta con un sorriso. Savannah esitò mentre le lacrime continuavano a cadere dal suo viso.
«Prendila, su.»
I suoi occhi erano luminosi e sinceri, la sua espressione dispiaciuta ma grata. Il piccolo sole le ricordò perché se l'era andata a cercare in quel modo e Savannah tirò su con il naso, abbozzò un sorriso ed afferrò la stoffa.
La indossò velocemente e si sforzò di smettere di piangere. Appoggiò la testa indietro, sulle sbarre, e le sfuggì una smorfia quando sentì che le doleva ogni centimetro del suo corpo martoriato.
Socchiuse gli occhi e cercò di ripescare qualcosa di buono da quella giornata disgraziata per non ricominciare a piangere.
«Nehroi», sussurrò.
Chissà chi era...






*°*°*°*


Ehilà! Savannah inizia a ricordare qualcosa di importante! E Lazh, lui che non ha niente, le ha donato metà dei suoi vestiti... non è dolcissimo? :D Ma, soprattutto, Annah sta sopravvivendo a questo posto strano e con gente del tutto terrificante e orribile... tra due capitoli questa parentesi su di lei sarà finita: vedrà la luce alla fine del tunnel! Ma sarà buona o cattiva? Come si svolgeranno le cose? Riuscirà mai a trovare Nehroi (ora che l'ha ricordato) o Nehroi troverà lei?
Magari aggiorno un'ultima volta prima di partire ^^
Alla prossima! Ciao!

Shark <3

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Capitolo 13
*** Guerrieri ***


15
Guerrieri



Per tutto il giorno successivo, la porta della gabbia rimase completamente chiusa e nessun og vi passò neanche vicino. Il giovane avversario di Savannah non si fece più rivedere, e la ragazza non poté che rincuorarsene.
Passarono le ore, noiosamente e lentamente, fino al sopraggiungere della notte che si faceva largo nella fitta nebbia che nascondeva ai loro occhi il villaggio fangoso.
Era quando la gabbia e i prigionieri venivano abbandonati completamente in quel limbo bianco che Savannah riusciva a pensare meglio ai suoi ricordi perduti, nella disperata ricerca di risposte.
Chi era Nehroi?
«Non riesco a vederla», disse Lazh all'improvviso, distraendola. Era completamente rannicchiato su sé stesso, con le mani a coprire il busto nudo nel tentativo di riscaldarlo.
«Cosa?»
«Mia mamma. A volte ci riesco. Poi dimentico.»
Savannah annuì e tornò alla sua ricerca.
«Magari è tuo padre», la distrasse di nuovo.
La ragazza sospirò e si sistemò meglio la maglia sotto al sedere. «Può darsi», rispose stizzita. «Se mi lasciassi provare...»
«Scusa.»
Nella gabbia erano sempre e solo loro due a parlare, gli altri sembravano essere altrove o incapaci di articolare suoni comprensibili. Savannah considerò che le uniche parole che aveva ricevuto da qualcuno che non fosse Lazh erano state l'aiuto di quell'uomo laggiù, quello che le aveva detto che “Nehroi” era un nome e non un luogo, e che le aveva guadagnate con un pezzo di pane. Mentre stava pensando a quelle cose, la donna che aveva cercato di scappare quando il giovane og aveva lasciato aperta la gabbia per portarla via si accasciò a terra con un gemito lieve.
Nessuno si mosse, neanche Savannah e Lazh, sebbene fossero gli unici che parevano essersene accorti.
«E adesso?», sussurrò la ragazza. Era la prima volta che succedeva.
Lazh non disse nulla, poi scattò in avanti e le mise una mano sul volto. «Andata», disse furtivo. Le si inginocchiò accanto ed iniziò ad armeggiare con i suoi vestiti.
«Che stai facendo! È appena morta!», lo sgridò Savannah, gli occhi sgranati per ciò che stava vedendo: la stava spogliando senza il minimo riguardo.
«I vestiti non le servono», si limitò a dire il ragazzino mentre le sollevava le gambe pesanti.
Le sfilò in fretta i pantaloni e li lanciò alle sue spalle: un og si stava dirigendo verso di loro ad ampie falcate e Savannah realizzò il piano di Lazh solo quando l'ansia e l'adrenalina le inondarono il cervello come un fiume in piena.
Si accucciò anche lei accanto alla donna ed iniziò a spostarle le braccia mentre il compagno afferrava la maglietta. L'og aprì la gabbia ed afferrò la donna morta velocemente, tanto da strappare sulla spalla l'indumento che i ragazzi stavano ancora tirando via.
«Siamo saccheggiatori di cadaveri», soffiò Savannah, stupendosi di quanta soddisfazione potesse aver espresso in quella frase. Se Lazh non le avesse donato la sua maglietta, lei sarebbe stata sicuramente peggio, sebbene per colpa della sua testardaggine anche il ragazzino aveva dovuto sopportare il disagio di essere mezzo nudo.
«Fa sempre più freddo», fu l'unico commento di Lazh. Lo pronunciò con tanta desolazione che a Savannah sembrò una scusa per il suo disinteresse nei confronti della prigioniera appena morta.
La ragazza infilò i pantaloni e Lazh la maglia. Non era molto, ma almeno avevano recuperato un po' di dignità e una minima protezione dal fango gelido.
«Potremmo... potremmo dormire vicini», propose Savannah, improvvisamente terrorizzata dall'idea di finire congelata e andarsene in quel modo. «Per riscaldarci a vicenda.»
Lazh sbatté le palpebre come se avesse appena ricevuto un'illuminazione. «Hai ragione», constatò con ammirazione. Si lasciò annodare la spalla della maglietta dove l'irruenza dell'og l'aveva strappata e poi si accucciarono l'uno accanto all'altra, contenti di aver trovato quella buona soluzione.
Forse fu solo una sua impressione, ma anche altri prigionieri si addormentarono più stretti tra loro.
Quella fu la prima notte in cui entrambi sentirono per la prima volta la cosa più vicina ad una famiglia.
Il tepore di quella piacevole sensazione li cullò fino al brusco risveglio, causato dai versi di un og che sbraitava verso un prigioniero. «Tu», intimò al più anziano tra i rimasti. L'uomo si alzò con la dignità di un condannato e seguì l'og con così tanta diligenza da non rendere necessario un trascinamento violento come quelli che erano stati riservati agli altri.
«Non lotterà», sentenziò Lazh.
«Perché no?»
A Savannah quello era sembrato un prelievo come un altro, ancora non era in grado di prevedere o intuire cosa stesse succedendo come faceva Lazh.
Il ragazzino scrollò le spalle e guardò altrove, evitando di rispondere.
Quell'uomo non tornò prima di un giorno e mezzo, stremato e senza pagnotta. «Schiavo», disse solamente e bastò quella parola per rispondere agli sguardi interrogativi degli altri prigionieri. La delusione sui loro volti era più che evidente: tutti speravano che sarebbe tornato con del cibo.
Savannah sospirò e si massaggiò lo stomaco dolorante. Fu quell'organo a farla scattare in piedi e a costringerla ad offrirsi ancora volontaria quando un og aprì la gabbia e fece per prendere un altro prigioniero.
«Ugh», grugnì lui. Non era lo stesso carceriere che l'aveva presa il giorno della prima lotta, ma sembrava la conoscesse già. La ignorò e prese comunque il prigioniero che aveva scelto fin dall'inizio. Savannah si gettò contro il suo braccio, pregandolo di scegliere lei, ma venne gettata indietro bruscamente e sbatté contro le sbarre nere. Non fece in tempo a rialzarsi e tentare di nuovo che la porta venne chiusa.
«No!», urlò esasperata. «Prendi me!» L'og sparì nella nebbia. Savannah allungò le dita tremanti verso il chiavistello, attraverso le sbarre, e cercò di farlo scorrere quel tanto che bastava da poter aprire la gabbia. Afferrò quello che voleva sembrare un pomello e tirò con tutte le sue forze, ma non riuscì a spostare la barra di metallo neanche di un centimetro. Lei era stanca e debole, e quel chiavistello era dannatamente pesante. Scivolò lungo le sbarre e si sentì abbattuta. Sperava davvero di poter combattere, anche solo per poter riattivare i muscoli e la mente, per non diventare parte integrante del fango. Sentiva che avrebbe potuto farcela, avrebbe potuto sfamarsi e sfamarli tutti...
«Arriverà qualcuno.»
Si voltò verso Lazh e cominciò a prendere seriamente in considerazione l'ipotesi che fosse un veggente.
«Siamo pochi», rispose lui alla tacita domanda che si era disegnata sul suo viso.
Savannah si voltò e contò i presenti: cinque. Provò una strana sensazione di estraniamento nell'accorgersi solo in quell'istante di quanto si fosse diminuito il numero dei prigionieri nei dieci giorni passati lì dentro.
Cercò di non pensarci troppo per tornare invece al suo hobby preferito: ricordare.
Per quanto si fosse sforzata, l'unico frammento della sua vita passata rimaneva l'istante della morte. Quella mattina, però, riuscì a scorgere una seconda figura nel panorama che aveva di fronte: prima vedeva tutto giallo, poi il dolore al collo e tutto diventava azzurro; qualcuno le si avvicinava e la prendeva mentre cadeva e qualcun altro rimaneva un po' più lontano.
«Sarà chi ti ha ucciso», ipotizzò Lazh quando glielo riferì.
La ex-jiin scosse la testa. «No, non credo fosse ostile... senti, credi che “Fil” possa significare qualcosa?»
Il ragazzino scrollò le spalle e sbuffò scocciato. «Forse è un altro nome.»
«Tu invece cos'hai ricordato di nuovo?»
Lazh spostò con ostinazione lo sguardo sulle case beige e grige.

Nei giorni successivi, gli og comparvero molte volte nella gabbia: prendevano prigionieri, talvolta riportavano qualcuno, prendevano e riportavano ancora.
Ogni volta che la porta si apriva, Savannah si lanciava verso di loro e si offriva volontaria, ma veniva sempre spinta indietro e non ci volle molto perché quelle manate lasciassero lividi sulla sua pelle debole come se fosse già entrata nell'arena. A turno, tutti i prigionieri vennero scelti, ma nessuno tornò mai con una pagnotta. Neanche Lazh.
I loro sguardi erano sempre più cupi, tristi e desolati. Quando Savannah si offriva disperatamente, riusciva a leggere un barlume di speranza nei loro occhi: d'altronde lei era stata l'ultima a portare del cibo tra quelle sbarre.
Passarono altri due giorni e gli og sembravano volerla deliberatamente ignorare.
La sera del secondo giorno, però, la ex-jiin sentì il suo stomaco brontolare così tanto forte da farle male e si alzò in piedi. Afferrò saldamente le sbarre della porta ed iniziò a sbracciarsi e a urlare a tutti i passanti. «Ehi! Scegliete me, femminucce! O avete paura che vi prenderò tutto il pane? Fatevi sotto! Vi sto aspettando!»
Lazh si catapultò dall'altra parte della gabbia e la afferrò per le spalle, strattonandola. «Ti uccidono!», sibilò preoccupato.
La ragazza se lo scrollò di dosso e riprese fiato. Altri insulti e altre provocazioni scivolarono fuori dalla sua bocca affamata, ma scatenò così poche reazioni che ad un certo punto si domandò se capissero la sua lingua.
Un uomo dai lunghi capelli bianchi, non og, fermò la sua camminata e si appoggiò al muro di una casa dall'altro lato della strada. Spostò il suo mantello marrone dietro una spalla, incrociò le braccia al petto e la osservò interessato. Sorrideva quando la sentiva sperticarsi in insulti più elaborati e offensivi, tanto che Savannah iniziò ad indirizzarsi a lui.
«Tu sei in combutta con loro, vero?», gli urlò contro. «Perché non fai qualcosa di utile e ci aiuti! Tu non sei come loro, sei come noi!»
L'uomo rimase immobile, limitandosi solamente a sghignazzare divertito.
«Bene!», proseguì Savannah, «Resta pure lì, insensibile! Sono contenta che tu non sia come noi, se no mi vergognerei!»
Sentì Lazh tirarla per un braccio e la gola le si era seccata quel che bastava per convincersi a dargliela vinta. Urlare a quel modo non aveva avuto altri effetti se non stancarla inutilmente.
«Almeno ci hai provato», la consolò il ragazzino con un'alzata di spalle.
Quando Savannah alzò lo sguardo e scrutò l'altro lato della strada, non c'era più nessun uomo a spiccare nella nebbia.

«Tu», apostrofò faticosamente un og carceriere alzando l'enorme dito verso Savannah.
Le sembrava profondamente malato e sbagliato, ma si ritrovò a sorridere e si sentì contenta.
Scattò in piedi ed uscì dalla gabbia quasi di corsa, poi l'og la afferrò saldamente per un braccio e chiuse la porta alle loro spalle. La trascinò alla stessa arena della sua prima lotta ma gli og che vi trovò dentro erano ancora di più.
Come l'altra volta, venne lanciata dentro l'arena e ruzzolò giù sul terreno umidiccio. Quando si alzò in piedi, però, non poté non notare un'enorme differenza rispetto alla precedente lotta: tra lei e il pubblico c'era una grata bianca.
Gli og sembravano infastiditi da quella novità, ma ciò non impedì loro di esultare come esaltati per lo scontro che stava per iniziare.
«Femmina che lotta da maschio!», tuonò l'enorme donna og seduta sullo scranno, troneggiante come sempre. Batté le mani contenta e Savannah si sentì vibrare le ossa. «Combatti!»
Si aprì un varco in quella barriera bianca e una decina di uomini armati di Vaìn fece il suo ingresso nell'arena. La ex-jiin corrugò la fronte e si voltò verso la donna og.
Sul suo viso la perplessità lasciò rapidamente il posto allo stupore: l'uomo contro cui aveva inveito dalla gabbia era seduto accanto alla og e sorseggiava amabilmente un drink da un calice di metallo dall'aria raffinata. Senza la nebbia e ad una distanza minore, Savannah riuscì ad osservarlo meglio e scoprì che i capelli bianchi l'avevano ingannata: era molto più giovane di quel che si poteva intuire da lontano e, seduto lì accanto agli og, sembrava piccolissimo.
Non aveva più il mantello ma una morbida camicia verde muschio nascosta da un gilet di pelle nera. Quando incrociò il suo sguardo con quello della ragazza, alzò il calice verso di lei come se stesse proponendo un brindisi e sorrise.
«Combatti!», ripeté la donna og indicando gli uomini.
Savanna li vide impugnare con vigore i loro Vaìn e iniziare ad agitarli nella sua direzione per colpirla come se fossero delle lance. La ragazza alzò le braccia sul viso per proteggersi ed indietreggiò quasi fino a toccare la grata.
«Femmina!», la chiamò la donna og con irritazione. Cosa le sarebbe successo se avesse deluso il pubblico?
Scartò di lato un Vaìn puntato all'addome e rotolò giù nell'arena, allontanandosi dal gruppo di avversari. Doveva pensare a qualcosa, e anche rapidamente: con così tanti avversari, quell'arena era diventata decisamente troppo stretta.
Savannah ansimò e sentì il panico attanagliarla come durante il primo combattimento, quando aveva realizzato di essere completamente disarmata.
Gli spettatori iniziarono a battere ritmicamente i piedi e la ragazza ebbe la sensazione di essere sull'epicentro di un terremoto. Gli avversari si avvicinarono e lei barcollò fino a cadere a terra nell'indietreggiare.
Lanciò un'occhiata di sfuggita alla donna og e la vide dannatamente innervosita. Non stava andando bene, non stava andando per niente bene. Eppure l'uomo accanto a lei sembrava così tranquillo e divertito... era stato lui a farla combattere contro così tanta gente? Savannah iniziò a pensare di essersi scavata la fossa da sola sbraitando contro di lui a quel modo.
Un Vaìn le arrivò pericolosamente vicino alla gola e un'immagine si fece improvvisamente nitida nella sua mente. La sua morte divenne nitida, ma non era una premonizione: era il ricordo. Ciò che l'aveva colpita alla gola era un Vaìn, finalmente ricordava.
Alzò un braccio e lo allontanò da sé, poi iniziò a correre per depistare gli uomini e prendere tempo per pensare. Quel flash la stava distraendo: quanto tempo le avrebbe concesso la donna og prima di scocciarsi e farla spedire nel mucchio?
Si ritrovò tre uomini di fronte, altri due dietro e i rimanenti sul fianco destro. Tutte le armi puntavano verso di lei e la inchiodavano contro la barriera bianca.
Pochi centimetri, e sarebbe stata definitivamente spacciata.
La sua schiena toccò la barriera e sentì una scossa elettrica che la fece sobbalzare.
Fu in quel momento che ricordò cosa fossero realmente quelle armi: Stelle blu che mangiano la magia.
Perché munire degli uomini con lance simili se lei non poteva usare la magia? Sarebbe bastata una spada normale o qualunque altra cosa...
Si chinò a terra e posò entrambe le mani sul terreno.
Immaginò di aprire una voragine sotto i piedi dei suoi avversari, pregando e scongiurando tutti gli spiriti perché succedesse qualcosa ma, come durante la prima lotta, il terreno rimase immobile.
I Vaìn si avvicinarono ancora di più e Savannah iniziò a sudare freddo. Il suo ragionamento era sbagliato?
«Andiamo...»
La terra tremò, gli avversari vacillarono e un sorriso si allargò sul viso provato della ragazza.
Li scavalcò approfittando del loro stupore, sgusciando in fretta tra loro, corse al centro dell'arena e sentì di aver recuperato molti punti. Si guardò le mani e l'energia jiin tornò a scorrerle nelle vene.
Quando gli uomini si voltarono brandendo ancora i loro Vaìn, Savannah rise. «Finalmente ad armi pari», disse soddisfatta.
Sentì istintivo fare una barriera tra lei e gli avversari, così alzò i palmi delle mani verso di loro ed immaginò un vetro spesso. Si sentì rinvigorita quando la magia fluì nel suo corpo e diede forma alla sua volontà, ma i Vaìn vennero puntati contro la barriera e Savannah perse la sua euforia.
La barriera si sgretolò come se un foglio di carta bruciato, mangiato dalle Stelle blu, e la ragazza si sentì di nuovo al punto di partenza.
Che senso aveva permetterle di usare i poteri se non poteva usarli? Continuava a non essere uno scontro ad armi pari, constatò delusa.
Il pubblico esplose in un boato quando videro quello che forse per loro non era altro che un effetto speciale e Savannah comprese. Spettacolo, girava sempre tutto attorno al divertimento del pubblico.
Abbassò le mani e si sforzò di elaborare metodi abbastanza visivi ed efficaci per contrattaccare.
La terra tremò e stalagmiti affilate comparvero sotto ai piedi degli avversari, dividendoli mentre gli puntavano contro i Vaìn, facendoli scomparire ad uno ad uno.
Quando anche l'ultima stalagmite fu ridotta a banale terriccio, un muro marrone si erse alle spalle degli uomini e si abbatté su di loro come un'onda anomala, travolgendoli senza scampo.
Barcollavano come ubriachi quando si rialzarono dopo l'impatto, cercando a tentoni i bastoni dei Vaìn sepolti nella terra smossa.
Emergevano a fatica, scrollandosi lo sporco di dosso ed imprecando contro il mare marrone che li aveva sorpresi. Udirono un potente boato del pubblico e si voltarono tutti rapidamente verso la fonte del rumore che lo aveva provocato, scoprendo un loro compagno fulminato ai piedi di Savannah. Emanava un fumo sottile dalla pelle bruciata, completamente nera, e non si muoveva.
Tutti gli uomini impugnarono prontamente i loro Vaìn e si portarono in formazione attorno alla ragazza, accerchiandola come avevano già fatto prima.
Savannah rimase immobile al centro e si limitò a seguire i loro movimenti con la coda dell'occhio.
Per alcuni istanti, il tempo si fermò.
Il silenzio scese nell'arena e si diffuse in tutto l'edificio come una macchia d'olio.
Il pubblico di og esaltati smise di schiamazzare assordante e la tensione divenne palpabile.
Tutti erano in attesa della prossima mossa, della ragazza o degli uomini che l'avevano in pugno.
Uno di loro gridò l'attacco, ma la terra si aprì improvvisamente sotto i loro piedi: tutti vennero risucchiati in un crepaccio rotondo e profondo prima ancora di muovere un passo verso l'avversaria.
Gli og rimasero ancora immobili e silenziosi, stupiti da quell'istante in cui erano scomparsi tanti uomini contemporaneamente. Chi non era riuscito a vedere la scena se la faceva raccontare dai vicini e il vociare di stupore e meraviglia si sparse tra i giganti come un brusio in fermento.
Savannah si voltò verso la donna og e le sorrise. «Ho vinto», disse soddisfatta.






*°*°*°*


Evviva, dopo un'ora sono riuscita ad aggiornare la fic dal tablet!! Giubilio massimo!
Ok, non so se voi potete capire ma io mi sentivo senza un braccio, da quando è mancato il mmio pc (T____T) non posso fare un sacco di cose... almeno adesso questa l'ho recuperata ^^

Grazie a chi mi segue ancora! Dai che la storia ormai è densa di azione, no? :)

Alla prossima, ciao!


La rediviva Shark

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Capitolo 14
*** Andare via ***


16
Andare via



La sua performance era stata troppo rapida, forse brutale o sconvolgente, e il pubblico non aveva gradito. Probabilmente non aveva neanche capito cosa fosse realmente successo, ma se alla donna og che siede come una regina in mezzo a quella mandria di giganti puzzolenti e analfabeti lo spettacolo non era piaciuto, poco importavano le reazioni degli altri. Il suo giudizio era legge e quando Savannah aveva alzato gli occhi su di lei, due occhi così carichi e potenti che spaventarono chiunque, la donna aveva sputato per terra e aveva urlato qualcosa di incomprensibile. Poi la jiin era stata sollevata come una bambola ed era stata trascinata fuori dall’arena e di nuovo in gabbia in fretta e senza onori, come un cane in punizione
Savannah era ruzzolata a terra e quasi non si era accorta dell’ormai solito freddo, viscido fango… provava una sensazione nuova che distoglieva la sua attenzione da qualsiasi altra cosa: la magia era rimasta tra i cumuli di terra e guardie nell’arena. Savannah si sentiva vuota.
Preso nuovamente il suo posto nell’angolo della gabbia, un paio di lacrime calde le erano scese sul viso mentre tutti i prigionieri la fissavano stupiti.
«Hai… vinto? », aveva chiesto Lazh con timore e prudenza.
Savannah aveva in un primo momento scosso la testa, poi annuito. Aveva spiegato quanto successo, ma nessuno era in grado di capire perché stesse piangendo.
Agli altri, interessava solo la pagnotta.
Per tutta la notte Savannah sognò i modi in cui sarebbe riuscita a scappare da quella gabbia, da quei mostri, da quel posto orrendo se solo avesse potuto avere ancora i poteri. I suoi poteri… dall’istante in cui le erano stati sottratti di nuovo, aveva sentito un vuoto dentro al petto incredibile, profondo, freddo.
La mattina dopo, Savannah si svegliò col sorriso: avere qualcosa a cui pensare, qualcosa di così liberatorio, l’aveva messa di buon umore.
Non che a qualcuno importasse.
«Davvero niente pagnotta? », domandò Lazh a bassa voce.
Savannah si limitò a fissarlo.
Il ragazzino le si avvicinò di più e mise una mano davanti alla bocca. «Se l’hai mangiata puoi dirmelo», disse con fare cospiratorio.
Lei ridacchiò. «Ti giuro che non ho visto neanche una briciola.»
Quel pomeriggio arrivarono nuovi prigionieri. Cinque, per la precisione, ed iniziò a piovigginare in maniera fastidiosa proprio nel momento in cui la porta della gabbia venne aperta.
«Si sta stretti», commentò Lazh in uno sbuffo quando si dovette avvicinare Savannah dovette avvicinarsi a lui abbandonando il proprio angolo per poter lasciare spazio ai nuovi arrivati che vennero lanciati tra loro come vecchi stracci.
Coprivano tutte le età, dall’adolescenza alla vecchiaia, e probabilmente non ce n’erano due provenienti dalla stessa regione.
«Quanto ci ho messo io a svegliarmi?», domandò Savannah non appena si accorse di essersi incantata nell’osservare le palpebre serrate di quelle persone prossime alla rinascita.
«Un sacco», rispose Lazh dopo un po’. «Ma non tutti ci mettono uguale.»
Nessuno si svegliò prima di sera, ma due paia di occhi si aprirono la mattina seguente assieme a quelli di Savannah e di Lazh.
Seguirono le presentazioni, le spiegazioni, i momenti di sconforto.
Non tutti si erano ancora svegliati quando un og aprì la gabbia ed afferrò un uomo, uno dei nuovi, portandolo via con sé senza neanche proferire un grugnito.
«Lotta», disse Lazh.
Savannah sospirò. «Come fai a dirlo? Hai un trucco? Capisci il linguaggio degli og? »
Il ragazzino scosse la testa con leggerezza e tossicchiò. «Forse sono qui da troppo tempo», ipotizzò facendo spallucce.
La ex-jiin si perse nei suoi occhi, nel loro colore così brillante e pieno di vita da farle dimenticare tutto il resto. Si era accorta che già da settimane ne era drogata, ma non fece nulla per smettere.
Il prigioniero neo-risvegliato tornò nella gabbia poco dopo. Tra le mani, la mitica pagnotta.
Gli stomaci di Savannah e di Lazh ulularono gioiosi all’unisono non appena a scorsero tra quelle mani non ancora del tutto infangate, e i due ragazzi scattarono in piedi rapidamente.
«Evviva!», esclamarono.
L’uomo, però, scoccò loro un’occhiata di fuoco e si voltò rivolgendo le spalle verso tutti i presenti nella gabbia. Iniziò a mangiare il pane con voracità, senza quasi respirare tra un morso e l’altro, e la terminò in neanche un paio di minuti.
«Ehi», disse Lazh con voce rauca ma forte. «Siamo sulla stessa barca.»
Savannah annuì. «Già, qui quando qualcuno vince la pagnotta, la divide con gli altri!»
L’uomo fece un verso e si pulì le dita dalle briciole. «A me sembra una tattica cretina», sentenziò. «Non sarò qui da molto, ma non ho intenzione di affamarmi per sfamare chi è troppo debole per sopravvivere da solo.»
«Che cosa?», esclamò la ex-jiin, colpita nel vivo. «Come osi!»
«Ma guardatevi», proseguì il prigioniero. «Cosa credete di fare? Siete due sacchetti di ossa senza muscoli. Deboli e malaticci. Non durerete un’altra settimana, non sprecherò il mio cibo con voi.»
Purtroppo per i due ragazzi, il discorso convinse gli altri nuovi arrivati e quell’episodio di egoismo ed ingordigia non fu l’unico.
I nuovi prigionieri erano diventati la maggioranza, lì dentro, e per Savannah proporsi volontaria per combattere e cercare di recuperare ancora qualcosa da mettere nella pancia divenne a dir poco difficile.
Passarono giorni su giorni, prima che Savannah venisse scelta. Il momento in cui l’og puntò il dito contro di lei e disse “femmina che lotta” fu tra i più felici della sua seconda vita.
L’arena apparve ai suoi occhi stranamente più bella: le reti di contenimento magico, la donna og sul suo scranno, i puzzolenti og tutt’intorno… e ancora quell’uomo enigmatico dai capelli bianchi.
Quel giorno il suo gilet era bordeaux.
«Femmina!», grugnì la donna og. «Combatti bene!»
Savannah annuì. Si sarebbe impegnata a reprimere la sua voglia di sfogarsi contro il mondo e avrebbe fatto un bello spettacolo per quei bifolchi, non si sarebbe mai permessa di perdere l’unica pagnotta della settimana per nessuna ragione al mondo. L’odioso prigioniero aveva ragione: era troppo debole per sopravvivere ancora a lungo e Lazh iniziava a tossire troppo e a sembrare un fantasma. Avrebbe lasciato la metà più grande del premio a lui per rimetterlo in forze, se lo era promessa già da un po’
Il combattimento iniziò e Savannah si concentrò al cento per cento per fare un bello spettacolo. Sviluppò le idee elaborate nei giorni precedenti in maniera semplice e quasi naturale, non riscontrando grandi problemi. L’unica cosa che non aveva previsto era l’aumento degli avversari muniti di Vaìn, più del doppio rispetto all’ultima volta, ma questo non la fermò.
Dopo circa mezz’ora, la pagnotta ruzzolò a terra e Savannah mollò l’avversario per precipitarsi a raccoglierla
«Grazie», disse Savannah mentre si rialzava in piedi. Guardò la donna og, ricevendo la sua approvazione, e poi guardò l’uomo alla sua destra. Sembrava intento a leggere qualcosa sul suo viso con uno sguardo profondo e divertito. La jiin scosse la testa e si avviò da sola verso l’og carceriere, percependo con malinconia che la magia era scomparsa da lei ancor prima di varcare la barriera dell’arena.
Lazh la accolse con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. «Sei fantastica!», disse con entusiasmo vibrante. Afferrò la sua metà di pane con così tanta eccitazione da avere le mani tremanti.
«Hai freddo? », domandò Savannah con preoccupazione.
Il ragazzino affondò i denti nel pane, godendosi il momento ancor di più guardando sottecchi gli sbruffoni che li avevano affamati tanto con il loro egoismo, e scosse la testa. «Sto bene», disse.
Savannah terminò il suo pasto con voracità, graffiandosi una guancia con la crosta dura, e poi si avvicinò a Lazh per posargli una mano sulla fronte. «Sei più che bollente, Lazh! »
L’altro la scacciò e continuò a mangiare. «Non preoccuparti», disse con il tono più serio che lei avesse mai udito da lui. Poi tossì violentemente.
Due giorni dopo un altro og comparve alla gabbia, e di nuovo il suo dito enorme e sporco puntò verso Savannah. «Uhg», le grugnì.
La ragazza stringeva Lazh fra le braccia come un figlio, cercava di tenerlo al caldo e gli sussurrava in continuazione che ce l’avrebbe fatta. Quando l’og la chiamò, sbiancò e spalancò gli occhi con terrore. «No! », esclamò. «No, ti prego! »
L’og grugnì arrabbiato ed entrò nella gabbia, spostando le gambe degli altri prigionieri con i suoi passi pesanti. La afferrò per un braccio e la scrollò per farla staccare dal ragazzino. «Tu vieni», scandì feroce.
Savannah tentò in ogni modo di sfuggirgli e di tornare da Lazh, ma fu tutto vano.
La porta della gabbia venne chiusa rumorosamente e il viso sciupato dell’amico, con gli occhi azzurri non più animati dalla forza della vita, la colpirono come se il combattimento fosse già iniziato. Parte di lei temeva che non l’avrebbe mai più rivisto.
Venne gettata come sempre nell’arena, ancora una volta circondata dalle barriere di contenimento della magia. Il numero di avversari muniti di Vaìn era rimasto lo stesso dell’ultima volta, ma a Savannah quello e altri dettagli non potevano importare di meno.
Combatté rapidamente e male, secondo gli standard a cui doveva attenersi per ottenere il premio, e non appena l’ultimo avversario mollò a terra l’arma e scappò in ritirata, Savannah cercò lo sguardo della donna og. Non era per niente soddisfatta, anzi era furibonda, ma alla jiin interessava solo essere lasciata andare. Mai aveva desiderato tanto tornare nella gabbia.
La donna og le lanciò addosso l’enorme calice che aveva in mano e per poco non centrò la ragazza. Mentre la coppa di metallo rotolava dietro le gambe di Savannah, l’uomo dai capelli bianchi si sporse verso la donna og e le sussurrò qualcosa all’orecchio. La jiin per un istante si domandò come potesse esistere una donna tanto enorme, dato che il suo orecchio era grande quando l’intero volto dell’uomo, ma il dubbio cessò non appena il grugnito della regnante echeggiò nell’edificio. L’og carceriere scese subito a recuperare la ragazza e la sensazione di vuoto la pervase ancora.
Corse per cercare di stare al passo con l’og, tentando anche il sorpasso, e tornarono alla gabbia a tempo di record.
Scrutò in lontananza tra le sbarre e si sentì mancare: Lazh non c’era più.
«Dov’è! », urlò con occhi sempre più spalancati dal terrore ancor prima che la porta venisse aperta per farla rientrare. Un prigioniero, uno dei nuovi, stava guardando verso il mucchio con curiosità e Savannah fece altrettanto.
Un og se l’era caricato in spalla e lo stava portando oltre le case, là dove tutti scomparivano…
«NO! », ruggì fuori di sé. Il pane le cadde a terra e si agitò così violentemente da riuscire a liberarsi dalla presa dell’og. Corse con tutte le sue forze dietro a quell’og che aveva prelevato il suo amico, il suo piccolo sole, come un pupazzo.
Inciampò, si rialzò. Il fango scorreva viscido sotto ai suoi piedi e non la aiutava, ma niente l’avrebbe fermata. L’og scomparve dalla sua vista ma dopo aver superato anche lei le case di legno marcio lo recuperò e finalmente lo vide: il mucchio.
Nessun altro nome sarebbe stato più adatto.
Su un carretto da fruttivendolo senza una ruota e infossato nel terreno, corpi su corpi erano stati impilati scompostamente come sacchi della spazzatura. In cima, l’og lanciò Lazh.
Savannah osservo la scena con orrore e ogni dettaglio del suo amico si impresse a fuoco nella mente: gli occhi aperti e vuoti, le braccia storte, il petto immobile…
Sentì i passi pesanti dell’og che la stava rincorrendo e vide che quello che aveva inseguito si era accorto di lei.
«Vieni», disse l’og carceriere.
Il suo piccolo sole si era spento. Il suo unico amico, il suo motivo per resistere.
Cosa avrebbe fatto nella gabbia da sola?
«Tanto vale che ci vada da sola, nel mucchio», mormorò la ragazza con occhi asciutti. «Nulla ha più senso. »
Fece un passo avanti ma l’og che aveva portato via Lazh la afferrò violentemente per i capelli e la trascinò indietro.
Mancavano poco più di una ventina di metri alla gabbia quando i suoi capelli scivolarono tra le dita del gigante e la ragazza cadde a terra. Inzuppata come un biscotto, rimase immersa nella scia che il suo corpo aveva solcato nel fango. L’og si voltò per recuperarla ma non lo fece e Savannah non perse tempo a chiedersi perché.
Si girò e cercò il mucchio con lo sguardo ma le case lo avevano già nascosto, le avevano già rubato Lazh. Non appena realizzò quel pensiero, lacrime calde scesero senza sosta lungo il suo viso, inumidendo ancor di più il fango su cui era sdraiata. Singhiozzò violentemente, scossa come se la stessero picchiando, e pianse e pianse a lungo, fortemente.
L’og si guardò attorno e vide che la ragazza stava attirando l’attenzione dei passanti. Si chinò su di lei e la prese per un braccio quasi con delicatezza, come se fosse spaventato da quella crisi di pianto.
Savannah si lasciò sollevare, mai si era sentita tanto priva di energie, nel fisico e nello spirito.
Riconobbe il classico cigolio dei cardini della gabbia, anche se non riusciva a vederla perfettamente: tra la nebbia e le lacrime era tutto offuscato ed indistinto.
Lo era la gabbia, lo erano le case, i passanti… l’unica cosa che riusciva a vedere bene era l’og che la teneva in piedi.
Quando arrivò in prossimità della gabbia, però, vide l’uomo dai capelli bianchi.
Era dove l’aveva visto per la prima volta, su quella passerella dall’altro lato della strada, tranquillo e pulito come sempre.
Savannah si accorse che la stava fissando ma non riuscì ad arrabbiarsi. Era così tanto stanca di tutto che non notò neanche che il suo sguardo non era incuriosito come sempre, ma serio e concentrato.
L’og liberò dalla presa sul braccio la ragazza e la lasciò libera di rientrare da sola, senza essere lanciata o spinta come al solito.
Savannah guardò i volti dei prigionieri, tutti vuoti ed indifferenti allo stesso modo, e poi scorse l’angolo di Lazh. Vederlo vuoto fu l’ultimo schiaffo che riuscì a sopportare e crollò a terra, tornando nuovamente a sprofondare nel fango.
Sentì l’og spostarsi alle sue spalle e si stupì debolmente di non essere ancora stata gettata dentro.
«Ne hai abbastanza? », disse una voce sconosciuta alle sue spalle.
Savannah si voltò verso destra e scorse un paio di belle scarpe di cuoio, pulite e raffinate. Alzò la testa e vide l’uomo dai capelli bianchi.
Le stava tendendo la mano, una mano chiara dalle dita lunghe ed affusolate.
«Se vuoi andartene da qui ed essere libera… vieni con me.»






*°*°*°*





Sigh, addio Lazh ç_ç
... bene, e anche lui è andato. Da cui il titolo, anche se è stata una scelta per entrambi i protagonisti: chi è quell'uomo (citando Killuale xD) e dove porterà Savannah? No, non è spoiler. lei accetterà di sicuro la sua proposta, qualsiasi essa sia. Mi sembra chiaro u.u
Fine di Ogklur, mi ero stufata di scrivere "fango" ogni due righe xD

Ieri sono stata investita da un mare di recensioni da parte di Silvar Tales, magnifica ragazza! La ringrazio molto, anche se leggerà questo messaggio probabilmente ad agosto, pensando "ha ragione"... ringrazio cmq ^^

Così come ringrazio le mie donzelle che non si fermano e continuano a leggere, recensire ma, soprattutto, tifare!! Caspita, quanto entusiasmo per le vicende e i personaggi che vedo ogni volta, mi viene da commuovermi sempre! <3

Alla prossima, ciao!!


Shark

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Capitolo 15
*** Capi e Generali ***


17
Capi e Generali



«Davvero buona», esclamò Lorwaar con un’espressione beata mentre masticava qualcosa di azzurro. «Cavolo, fratello, quanto mi era mancata! … ehi, quella la mangi? »
Nehroi si accorse solo grazie al dito di Lorwaar agitato verso di lui che stava tenendo in mano una ciotola di frutta caramellata e se ne stupì, osservandola come se gli fosse stata data per caso in quell’istante.
«Non per farti pressione ma ho una fame…», proseguì l’amico inumidendosi le labbra scure.
Il brehkisth batté un paio di volte le palpebre, ancora sulle sue, e gli porse la ciotola senza emettere alcun suono, liberandosene. Si voltò verso Kayrin, alla sua destra, e sospirò sonoramente. «Se non altro, questa fame è un buon segno per lui. »
Anche la donna stava mangiando, però nella sua ciotola c’erano pesciolini di lago e di fiume. Lo guardò perplessa. « “Se non altro”? », domandò, poi fece spallucce. Indicò con il mento la folla che si stendeva davanti a loro in maniera quasi continua nella città di Haffireth ed alzò un sopracciglio.
«L’ultima volta c’era meno gente», disse.
«L’ultima volta… non è stata una trentina d’anni fa? », domandò Nehroi perplesso.
Kayrin annuì. «Ventotto, in realtà. Deiry non era ancora nata quando suo padre vinse il Grande Torneo. Io ero seduta su quel tetto con mio marito. »
Nehroi corrugò la fronte e provò ad immaginare quanti anni avesse la sua nuova compagna di viaggio, la quale continuava a rivelarsi sempre più grande di quanto il suo aspetto potesse far intuire. Scosse la testa. «Novità da Mayson? »
La jiin sbuffò e diede un’occhiata al disco luminoso che portava sul petto come un ciondolo fuori misura: la superficie perlacea vibrò per un secondo e subito dopo l’immagine di un mercante bruno con una folta barba comparve nitida nella cornice. Nessuno, tra la calca che li circondava, notò quella trasformazione. «La copertura regge», Kayrin si limitò a comunicare. «E ora non distrarmi, stanno iniziando le prove di magia. »
Una stretta fiamma alta almeno una decina di metri esplose nella piazza, illuminando il pubblico e gettando una vampata di calore ed entusiasmo su chiunque, sovrastando per pochi istanti il brusio di malcontento generale che vibrava tra la folla. La musica proveniva dai tetti, dove i musicisti e gli artisti di strada si erano accomodati con i loro strumenti, per diffondere note tra il pubblico come coriandoli. Il suono si intensificò non appena la fiamma si alzò nel cielo e, tra i vari strumenti, si aggiunse anche un potente tamburo; Nehroi riuscì ad intravederlo sul tetto di un palazzo un po’ nascosto rispetto a lui per un istante prima che l’oceano di gente che aveva attorno lo spingesse di una decina di passi in avanti, facendolo uscire dalla traiettoria giusta per vederlo.
Un giovane su un palco lontano, la terrazza di una casa piuttosto bella, tuonò «Popolo di Haffireth! » con voce di potenza pari a quella di dieci uomini e quietò il popolo della Regione dei Laghi per attirare l’attenzione.
«Con i poteri a me conferiti dal nostro saggio e pacifico Capo», iniziò il giovane annunciatore, sebbene messo a disagio dagli insulti e dai versi di disapprovazione e dai fischi che resero quasi impossibile sentire il resto del discorso, «Capo Kaloi Goon» fece una pausa, in attesa di un applauso che non arrivò, «… io dichiaro aperto il Gran Torneo dei jiin di Haffireth! »
Altre fiammate si allungarono verso il cielo dalla piazza, fiamme strette ma potenti e colorate. Una violacea nascose l’annunciatore al pubblico e quando si spense, lui era sparito.
Le guardie portanti il simbolo dei Laghi sul petto e sulle maniche spinsero indietro la folla ed allargarono lo spazio all’interno della piazza, formando un cerchio quasi perfetto. La banda dei tetti iniziò a creare una ritmica tensione che ricordava il battito di un cuore, un cuore in attesa, pronto a correre.
Sei alte fiamme azzurre comparvero all’interno della piazza, sprizzando dal terreno come geyser, perfettamente disposte ai vertici di un esagono alle spalle delle guardie. Le fiamme guizzarono per tre metri d’altezza, poi si sciolsero come cascate e rivelarono i partecipanti al Gran Torneo.
Quattro uomini e due donne: tutti seri, concentrati, in tenuta sportiva e con dei segni blu dipinti sul volto.
«Jhon! », esclamò Kayrin avvicinandosi a Nehroi, «Finalmente ti ho ritrovato! »
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo ed allungò un braccio per tirarla a sé, spostando qualcuno nei paraggi. «Ti sei persa lo spettacolo d’apertura? », le domandò mellifluo; poi si chinò al suo orecchio. «Non ti lascerò mai più decidere i nomi degli alter ego», sussurrò scocciato.
«Allora avresti dovuto battezzarti prima di lasciarmi l’iniziativa», ribatté lei.
Dalla piazza del Torneo si udì un urlo femminile e la folla fece un’ovazione. Il giovane annunciatore era comparso nuovamente, questa volta nella piazza tra i candidati al titolo e nella veste di arbitro, con tanto di bandierine colorate. «Memorabile, incredibile! Annabeth non ha avuto neanche un attimo per replicare, complimenti Lokren! Facciamogli un applauso! »
La folla si agitò ancora e Nehroi si abbassò per sfuggire all’occhio indiscreto di una guardia che aveva indugiato troppo nella sua direzione. Trascinò Kayrin con sé sotto al balcone di una casa, un po’ più lontano dalla piazza, e quando riuscì a respirare la folla rombò di nuovo e con loro l’annunciatore.
«È stato molto rischioso avvicinarsi tanto», commentò la jiin con voce neutra. «Saremo anche camuffati magicamente ma c’è sempre qualcuno che si insospettisce di più…»
Nehroi fece un grugnito e si specchiò nell’oblò di una porta: odiava vedere il suo aspetto modificato, sebbene una volta lo divertisse. «Non avevo mai visto un Gran Torneo, scusa. »
Si scompigliò i capelli rossi e poi si appoggiò al muro. «Dov’è Lorwaar? », domandò.
Kayrin sbuffò ed indicò una tettoia poco distante da loro: tra le piante rampicanti spuntava un ragazzino dalla pelle scura con gli occhi incollati sul Torneo. «E dove, se no? », brontolò. «Mi domando quanto tempo gli serva per riprendersi e diventarci utile…»
«Passa anche tu una decina d’anni a Mjoklur e poi fammelo sapere», tagliò corto Nehroi con voce aspra. «E poi non era l’utilità il motivo per cui… lasciamo perdere. Mayson è riuscito a scoprire qualcosa? »
La jiin annuì ma la sua espressione era sconsolata. «L’ho incontrato poco fa, ha detto letteralmente “ancora niente” e poi è sparito di nuovo. Chissà dove sta cercando…»
«L’importante è che scopra qualcosa», sentenziò Nehroi.
Lo sguardo di Kayrin si assottigliò. «E se venisse scoperto? Non abbiamo ancora discusso un piano di recupero. »
Nehroi soffermò gli occhi verdi su di lei per qualche istante, come se stesse ricordando qualcosa.
«Perché non ce n’è uno», disse.
Allungò il collo verso la piazza, in tempo per vedere la barella portare via una partecipante. «Povera Gyss, purtroppo nelle sue stelle non era scritto il destino da Capo! », commentava l’annunciatore. Il pubblico rise ed applaudì in egual misura. La musica si fece più accesa.

Lorwaar aveva sempre apprezzato Haffireth, la riteneva la regione più originale di tutte. Gli infiniti laghetti lo avevano attratto fin da piccolo, lui che da quando era nato non vedeva altro che oceani di sassi o di sabbia. Inoltre, la gente di quella regione era sempre stata la più cordiale che avesse mai conosciuto; forse a causa del territorio così vasto e difficile da comprendere e vivere, si sentivano tutti più propensi a solidarizzare anche con gli stranieri.
Il giovane jiin aveva gli occhi puntati sull’uomo che si destreggiava nella piazza, semifinalista assieme ad altri due concorrenti, e si lasciò incantare dalle magie che sfoggiava per impressionare il pubblico ed ottenerne il calore, oltre che per il combattimento vero e proprio.
«Se non vince lui mi arrabbio», disse il ragazzo mentre si sporgeva in avanti.
La ciotola di cibo, ancora stracolma, giaceva in un angolo dimenticato della terrazza, accanto ad una piccola pozza di vomito.
«Koon Guth e Lokren Lacry vanno in finale! », tuonò dalla piazza l’annunciatore; poi dichiarò una pausa per allestire la piccola arena per l’ultimo scontro, non più di combattimenti ma di strategia, abilità e cultura, e Lorwaar si distese tra i rampicanti. La musica cambiò: da tesa per lo scontro che era, si allentò e le note che fluivano dagli strumenti trasformarono l’atmosfera in quella di una festa di paese. Comparvero venditori ambulanti tra la folla e tutti si distrassero da ciò che succedeva in piazza, permettendo ai finailsti di cambiarsi e respirare.
Lorwaar alzò lo sguardo verso gli altri tetti, stretti attorno alle strade senza lasciare un centimetro libero, pieni di gente tanto quanto il terreno sottostante. Haffireth era la più vasta regione di Ataklur ma aveva la più piccola capitale, eretta a fatica su un pezzo di terreno strappato secoli fa agli onnipresenti laghi e laghetti.
Lorwaar si stiracchiò e guardò il suo cibo abbandonato. Allungò la mano ed afferrò una strisciolina di frutta caramellata, rossiccia. Inspirò per farsi forza e poi la mise in bocca. Dopo un paio di secondi una morsa allo stomaco lo costrinse a smettere e una fortissima nausea lo devastò. Sputò tutto e lanciò il resto del cibo giù dalla tettoia, triste ed affamato, senza badare alla gente sottostante.
«Popolo di Haffireth! Gentili ospiti! », tornò a tuonare l’annunciatore dal balcone trasformato in palco mentre i musicisti sui tetti ricominciavano a creare un’atmosfera degna di una finale di quel calibro. «Che ricominci il Gran Torneo! »
Lorwaar incrociò le gambe e tornò a concentrarsi sulla gara, mentre qualche metro più in basso Nehroi e Kayrin lo tenevano d’occhio, in attesa di notizie da Phil.
«Un po’ mi inquieta l’idea di averlo mandato in giro da solo», confidò Kayrin mentre incrociava le braccia e si appoggiava al muro come Nehroi. «Insomma, un umano sotto copertura…»
«Passerà inosservato davanti ad ogni rilevatore e non avrà reazioni strane agli strumenti di individuazione», rispose lui terminandole la frase. «Senza contare che con il tuo Reth-pass può spacciarsi per un alto generale delle guardie senza il minimo problema e ce conosce perfettamente l’originale che finge di essere. »
«Con le guardie di Feinreth però non hai voluto rischiare», borbottò lei, la fronte sempre corrucciata.
Nehroi allungò il collo per riuscire a vedere qualcosa della finale, ma c’era fin troppa gente anche per uno alto come lui. «Credimi, sono fin troppo allenati a riconoscere camuffamenti e false identità…»
Kayrin tirò un angolo della bocca in un sorriso sghembo e ridacchiò tra sé e sé.

Lontano dalla folla per il Gran Torneo, in precario equilibrio sul tratto di terreno un po’ fangoso stretto tra due laghetti, grandi come pozzanghere ma incredibilmente profondi, Phil camminava con passo sicuro e col mento in alto. Si stava avvicinando alla caserma delle guardie di Haffireth, poco più che una baracca di legno scuro con un’altissima palizzata e molti più uomini all’interno e all’esterno di quanto si potesse pensare per mantenere la struttura in sicurezza.
Si fermò al posto di blocco che precedeva quello strano fossato formato da piccoli laghi uniti tra loro rompendo gli argini che li separavano. «Identificazione», ordinò con voce piatta la guardia accanto all’ingresso.
«Generale Onnan, secondo in comando del capo Nekkis», rispose prontamente Phil gonfiando il petto. Kayrin gli aveva donato un’aria molto più adulta e vissuta di quanto possedesse lui realmente, e anche una struttura più robusta in cui non si ritrovava ma che non gli dispiaceva.
La guardia di controllo schiuse leggermente le labbra, perplesso, e ci mise un paio di secondi ad elaborare. «… quel generale Onnan? », soffiò incredulo.
Phil lo guardò senza vacillare. «Ce ne sono altri? »
«Signore, non… mi perdoni, credevamo fosse morto! »
«A quanto pare qualcuno si è arreso troppo in fretta e ha diffuso la notizia sbagliata. Ora, se non vi dispiace, avrei da fare. Urgentemente. »
La guardia si grattò una tempia. «Devo… devo fare un controllo, signore. »
Phil sbuffò e si mostrò molto irritato. «Fa’ ciò che devi e fallo in fretta», disse col tono di una minaccia. La guardia estrasse dal taschino sulla manica un rilevatore, tondo e grande meno del palmo di una mano, e glielo avvicinò. All’interno del vetro comparve un lieve fumo giallo scuro quando la guardia se lo mise di fronte, per verificare che funzionasse, poi il rilevatore venne rivolto verso Phil/Onnan e tornò trasparente e vuoto.
«Vuoi anche controllare se ho la mia chiave inter-regioni? », lo prese in giro Phil estraendo dall’interno della divisa il Reth-pass di Kayrin. «Immagino saprai che ce l’abbiamo solo io e Nekkis…»
La guardia chinò il capo e si spostò di lato, liberando il passaggio. «Non ce n’è bisogno, signore! Bentornato! »
Phil si trattenne dal sorridere e varcò la soglia della caserma.
«Signore», gli si avvicinò un giovane senza gradi sulla divisa, «Mio padre ha combattuto nella stessa battaglia in cui voi eravate stato dato per spacciato», disse con riverenza.
Phil lo osservò per un istante, poi tornò a fissare altrove tutto impettito. «Era un uomo di valore. Devi essere fiero di lui. »
Il ragazzo sorrise ed annuì vigorosamente. «Grazie signore! », esclamò orgoglioso, poi fece il saluto delle guardie e tornò dai suoi compagni.
Phil si sforzò di non seguirlo con lo sguardo e proseguì dritto verso il centro di comando. Il ricordo del vero generale Onnan era vivido in lui, come se lo avesse di fronte a sé e non fosse morto da una decina d’anni. Dare la giusta descrizione a Kayrin per il camuffamento non era stato facile, ma le era riuscito più facilmente quando avevano deciso di conferirgli un’aria vissuta, più anziana e anche un po’ trasandata come si potrebbe immaginare per un uomo di tanta risma ma anche disgrazia.
Phil aveva conosciuto Nekkis e Onnan insieme, durante la sua prima visita ufficiale a Tolakireth, e sapeva che non avrebbe mai potuto scordarsi neanche un dettaglio: per questo non aveva avuto remore nel proporlo come falsa identità da assumere per infiltrarsi tra le guardie.
«Chi mi crederà mai se invento di sana pianta un generale che nessuno conosce? », aveva detto quando stavano elaborando il piano d’azione.
«E se incontri qualcuno che conosceva il vero Onnan? Se ti scoprissero? », le apprensioni di Kayrin erano molto dolci ma per Phil anche inopportune. Lo conosceva abbastanza da sapere che non parlava molto e che trattava tutti allo stesso modo. «Le poche cose che diceva erano sempre giuste e ponderate e…», aveva sorriso con una strana e potente luce negli occhi mentre lo diceva, «Senza offesa, ma le parole sono proprio la mia specialità. »
Il centro di comando era un edificio dall’aria instabile come ogni altro ad Haffireth, ma aveva un’aria un po’ più imponente delle altre baracche del campo. Nonostante il sole a picco e il cielo terso, dentro le palizzate l’aria era umida e stantia a causa del terreno fangoso tipico della regione.
Phil arrivò alla porta del centro di comando ed aprì la porta senza bussare, senza chiedere permesso.
La guardia all’interno ruotò sulla sua sedia all’istante e scattò in piedi per il saluto. «Signore! », esclamò.
«Riposo», disse Phil. «Sto seguendo una traccia per conto del capo Nekkis, hai il grado adatto per informarmi? »
«Sì signore! »
Phil lo fissò dritto negli occhi. «Bene. Dimmi tutte le attività anomale che si sono verificate nel deserto di Feinreth, zona nord-ovest, sui confini. »
La guardia rimase perplessa per un istante ma elaborò la richiesta poco dopo e, dopo aver annuito vigorosamente, si spostò verso l’archivio ed estrasse alcuni fascicoli. «Non molto dallo scontro contro i Fein Anis, in realtà», iniziò a raccontare. «A parte un’incursione non identificata e sterile. » Phil corrucciò la fronte rugosa. «Aggiornami», ordinò da sotto i baffi scuri.
«È successo una notte, poco dopo lo scontro. »
Il giovane estrasse il fascicolo di pergamena e carta grezza e lo porse al generale con titubanza. Phil lo afferrò con decisione, quasi strappandoglielo di mano, e lo aprì.
«Vuoto? », domandò preoccupandosi di sembrare scocciato.
«Signore… non abbiamo ricevuto altro che una segnalazione…»
La guardia gli indicò l’unico foglio presente nel fascicolo, un appunto non classificato. «La zona è con molta probabilità quella dello scontro con i Fein Anis e sappiamo solo che un individuo molto grosso con una gerla sulla schiena è stato avvistato lì e ha sostato per un po’, poi… se n’è andato. »
«E nessuno ha controllato? »
«Pare ci fosse una bara, ma era distrutta e vuota. »
«Indizi sul cadavere? »
La guardia lo guardò colpito. «Cadavere? »
Phil gettò il fascicolo sul tavolo con molta forza. «Chi lascia una tomba vuota in mezzo ad un deserto, ragazzo! », sbottò. «Non avete investigato sul suo proprietario? »
«Le guardie di Feinreth dicono che appartenesse a Savannah Krajal ma non sanno dove sia. »
Con la coda dell’occhio, Phil vide il comandante delle guardie di Haffireth entrare nel campo. La guardia che gli aveva rievocato il padre lo fermò e probabilmente avvisò della sua presenza.
«Speravo sapeste qualcosa di più dell’ovvio», sibilò irritato. Si lisciò la barba e mise una mano sullo stomaco. «C’è un bagno in questo centro? »
La guardia annuì e lo accompagnò verso un corridoio stretto che conduceva a quattro porte chiuse.
«La seconda a sinistra, signore. »
Phil grugnì e vi si fiondò a gran velocità, chiudendo la porta nell’istante in cui il comandante varcò quella d’ingresso al centro. «Dov’è? », lo sentì urlare alla guardia.
Udì la voce affievolita del ragazzo riferirgli di averlo accompagnato nel corridoio e poi i passi pesanti di chi deve smascherare qualcuno.
Sfondò la porta del bagno poco dopo e tutto ciò che trovò fu una divisa da generale, perfettamente piegata sulla tavoletta.

Phil si ritrovò in mezzo alla folla del Gran Torneo e il frastuono misto di urla, incitamenti, musica e telecronaca da parte di un annunciatore molto su di giri lo travolse come una valanga. Nascose in tasca il Reth-pass prima che qualcuno lo potesse notare ed iniziò a girare tra la gente in cerca dei suoi compagni.
«Un testa a testa incredibile! », urlò l’annunciatore. «Non so voi, signori, ma io inizio a pensare che entrambi meritino il titolo! »
Scorse Kayrin, probabilmente in piedi su una sedia, e accanto a lei una chioma rossiccia. «Oh, eccoli! », esclamò. Iniziò a sgomitare tra la gente tagliando la calca in orizzontale e ricevendo molti insulti. «Se mi perdo il vincitore vengo a cercarti! », gli urlò uno.
«Ma che problemi hai? », apostrofò un altro.
Phil però non si lasciò intimorire e proseguì il guado. «Scusatemi, signori, scusate…»
Una mano robusta lo afferrò e lo trascinò a sé senza complimenti, tirandolo fuori dalla folla.
Quando la densità della gente fu diminuita, Phil riconobbe Nehroi e si sentì così contento di rivederlo che ebbe la tentazione di abbracciarlo. «Me la sono vista brutta», soffiò stanco, incerto se riferire quella frase alla rocambolesca fuga dal campo delle guardie o alla folla che lo stava
massacrando di spintoni. «Per fortuna che ti ho riconosciuto subito», ridacchiò Nehroi. «Sei imbarazzante anche se travestito da uomo vissuto. »
«Ha parlato il pel di carota», replicò Phil.
Kayrin guaì sulla sedia, gli occhi puntati sulla piazza. «Eccolo, eccolo! », esclamò eccitata.
«Chi? Chi vince? », domandò Nehroi cercando di salire anche lui sulla sedia.
Phil si guardò attorno, più infastidito da quel Torneo che emozionato. «Lorwaar? »
Non ottenne risposta e non riformulò la domanda una seconda volta: ai suoi piedi si formò un tornado della dimensione di una sua scarpa e, quando smise di vorticare, tra la polvere sollevata comparve un rotolino di pergamena.
«Signore e signori! Haffireth ha un nuovo Capo! », urlò l’annunciatore e la folla andò in delirio.
«Non capisco chi è…», lamentò Kayrin spostando la testa a destra e a sinistra per cercare di capire chi avesse superato tutte le prove.
Phil si chinò a raccogliere la pergamena e Nehroi smise di cercare di salire sulla sedia per leggere assieme a lui. «Una missiva da Eastreth? », domandò incuriosito e perplesso. «Non avevi detto che Chawia ti aveva liberato dal controllo? »
Phil boccheggiò. «… c’è scritto che Savannah è lì. Viva. »







*°*°*°*


Ci sono, ci sono! Non sono morta sotto i colpi della mia improvvisata attività sartoriale per i cosplay, né per la fiera di Lucca, né per il io compleanno o per gli esami universitari che sono -aiuto!- ricominciati... ^^"

Scusate l'immenso ritardo, questo capitolo non l'avevo ancora scritto e dopo tanto fare quella che "ma io li ho già scritti fino al millemila, mi basta mettere l'html e aggiorno", ho esaurito la scorta e adesso tornerò ad aggiornare a ritmo più "da me"... ho qualcosa di già scritto ma spezzoni a caso e oltre a rimetterli a posto, devo dargli sostanza e continuità xD

Vi è piaciuto il capitolo? Annah LIVES e adesso inizia una delle parti migliori di tutta la storia... la trama si infittisce! *^*

Grazie infinite a chi riesce ancora a starmi dietro <3

Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 16
*** Nella stanza azzurro cielo ***


18
Nella stanza azzurro cielo



Nehroi, Phil, Kayrin e Lorwaar giunsero ad Eastreth appena un quarto d’ora dopo aver ricevuto il messaggio rivelatorio, lasciando passare giusto il tempo necessario ad uscire da Haffireth e trovare un posto adatto per far funzionare il Reth-pass.
Quando misero piede nella città sprofondata nel terreno, tra gli altissimi palazzi eretti per catturare la luce del sole e diffonderla tra le strade come mille specchi, l’accoglienza fu delle più gelide possibili: una pattuglia di guardie li individuò subito e circondò.
«Abbiamo ordine di scortarvi a Palazzo in totale segretezza», annunciò il comandante della squadra mentre un suo sottoposto si toglieva i guanti e creava una barriera attorno a loro per renderli invisibili ai cittadini.
Vennero scortati come prigionieri, più che sorvegliati a vista, con passo ferreo e rapido che Kayrin fece fatica a sostenere.
La barriera venne sciolta non appena varcarono l’ingresso del palazzo del Capo di Eastreth, e vennero lasciati lì nell’atrio senza una parola. Le guardie uscirono e tornarono a pattugliare le strade senza neanche congedarsi con un minimo saluto.
L’ingresso era spoglio e così tanto bianco da sembrare etereo, così come il piccolo chiostro che si apriva davanti a loro come una visione paradisiaca, fulcro centrale della circolarità del palazzo.
«Direi che i travestimenti adesso non servono più», ragionò ad alta voce Phil, sentendosi in tremendo imbarazzo ad essere quasi in presenza della Principessa con l’aspetto di un barbone qualsiasi.
«Oh, certamente! », esclamò Kayrin. Avvicinò le mani al suo viso e si concentrò per restituirgli l’aspetto originario, focalizzando i pensieri sui ricordi dei suoi capelli biondi, del viso rasato, degli occhi dal colore castano ma anche giallino…
Quando schiuse le palpebre, la jiin aveva la fronte imperlata di sudore e Phil era tornato ad essere sé stesso. Lo lasciò al cambio d’abiti, ripescati con cura dalla valigetta di pelle che ormai di portava sempre dietro a tracolla, e si voltò verso Nehroi. Non era alle sue spalle, dove l’aveva lasciato assieme a Lorwaar: adesso il brehkist stava osservando le scale con bramosia, visibilmente incapace di trattenere i piedi dal salirle e cercare la sorella, dovesse setacciare ogni angolo di quell'immenso edificio.
«Nehroi! », lo sgridò Kayrin con un tono che gli rievocò il ricordo dell’istitutrice quando lo riprendeva durante una marachella.
«Che vuoi? », sputò lui senza neanche voltarsi.
«Torna qui! Non puoi gironzolare come se…»
Nehroi tornò indietro di qualche passo, avvicinandosi a lei solo per poterle sibilare tra i denti parole che non voleva urlare a chiunque ci fosse stato nei paraggi. «Come se Savannah fosse qui e fosse viva? », sussurrò velenoso, «Quello che non posso fare, credimi, è stare qui. Fermo! »
Lo sguardo negli occhi della jiin si fece tagliente. «Fatti almeno restituire il tuo vero aspetto», suggerì bonaria, certa che non avrebbe mai vinto un testa a testa con lui, soprattutto se verteva sulla sorella.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo ed annuì poco accondiscendente. «Credo che, in mancanza di inviti, dovremmo rimanere qui in attesa», disse Phil comparendo tra loro con le scarpe pulite e lucide, i pantaloni neri, la camicia bianca immacolata e la cravattina scura a dividere in due il petto e coprire il suo passpartout per i portali.
«In mancanza di… inviti? », ridacchiò Nehroi mentre i capelli perdevano la tonalità rossiccia e tornavano castani.
Phil si fece più serio mentre si sistemava i ciuffi all’indietro. «Siamo nel palazzo della Principessa Chawia, non una casa qualsiasi», disse. Poi corrucciò un attimo la fronte e si corresse: «E se anche fossimo in casa d’altri, credo che dovresti rispettosamente essere invitato a fare qualcosa e non prendere l’iniziativa. »
«Figurati se ci importa», ridacchiò a sua volta Lorwaar incrociando le braccia dietro la testa. «Principessa o contadina, se nasconde Annah farebbe bene a non mettersi…»
«…sulle vostre strade? »
La voce giunse da un’alta e ampia scalinata che comparve in quel momento, rivelandosi a poco a poco da un muro nel chiostro oltre l’ingresso, come se fosse scolpita nel momento in cui gli scalini venivano calpestati da un’altra dimensione celata oltre la parete.
Phil scattò in avanti e superò i compagni di viaggio, con un sorriso sfolgorante sul volto. «Principessa! », esclamò gioioso.
Mief Chawia incurvò lievemente un angolo della bocca e non sforzò oltre i muscoli facciali per i convenevoli. Fece passare uno sguardo curioso e di disapprovazione sui presenti, soffermandosi più su Lorwaar e Kayrin che sul furioso e trepidante Nehroi.
«Voi chi siete? », domandò la Principessa con voce quasi annoiata.
«Dov’è mia sorella!», domandò a muso duro il brehkisth, ricevendo come risposta solamente un’alzata al cielo degli occhi smeraldini di Chawia.
«Il mio nome è Kayrin, mia signora, sono una jiin e un medico di Norreth», rispose la donna, chinando la testa in un inchino.
Lo sguardo di Chawia si spostò su Lorwaar ma il ragazzo si limitò a fissarla di rimando, con un irriverente ghigno sul viso. Un’occhiata infuocata di Phil lo fece ricomporre. «Io sono Lorwaar, Lorwaar Koslen… e boh, sono un jiin anch’io», fece spallucce.
«Garantisco io per loro, mia signora», disse rapido e deciso Phil, facendo un passo avanti verso Chawia.
Le labbra della Principessa si arricciarono appena, poi tornarono rilassate. «Mayson», disse con voce lieve ma decisa, «Rapporto.»
Si voltò e tornò a salire la scalinata nel muro, prontamente seguita da Phil e da Nehroi.
«Ehi! », esclamò il ragazzo, furioso.
Chawia ruotò appena la testa, senza guardarlo. «Non uscite dal palazzo e non gironzolate, verrete convocati al momento giusto. Tranquillo, Krajal… entro al massimo un’ora rivedrai quella piaga che chiami “sorella”. »
Principessa e consigliere salirono le scale e, ogni volta che il piede di lui si sollevava dallo scalino appena superato, quello scompariva e tornava ad essere muro liscio. Nel chiostro rimasero solamente in tre.
Nehroi tirò un pugno al muro incantato, poi un altro… e un altro. La mano gli doleva già al primo, vista la forza che ci aveva messo, ma la frustrazione era più forte.
«Nehroi…», sussurrò Kayrin sconsolata, posandogli dolcemente una mano sulla spalla. «Ha promesso che la vedremo, porta solo un attimo di pazienza…»
Il ragazzo strinse i pugni ed ebbe un tremito. «Non… non sopporto che sia lei ad averla. Che sia lei a decidere se e quando posso vederla. Non sopporto… lei, in generale. »
«Perché invece non pensi che manca poco per riabbracciare tua sorella? », propose lei con un sorriso caloroso. «Non è una fortuna che tutti possono sperare di avere, dopo mesi e mesi dalla sua morte. »
Nehroi inspirò ed espirò un paio di volte. Annuì, convincendosi che stava dicendo cose giuste, man mano che i secondi passavano. Si tranquillizzò e si sedette ai piedi della scalinata scomparsa, con Kayrin al suo fianco e Lorwaar dall’altro lato del chiostro, spaparanzato a gambe larghe come se non potesse proprio esistere una posizione più adatta.
«Mi domando cosa si stiano dicendo», mormorò Kayrin dopo un po’, pensando ad alta voce.
Nehroi sospirò. «Scommetto il libro di Vedàsio che le sta raccontando ogni cosa che ci siamo detti durante il viaggio, sulla missione, sui nostri piani, i segreti… tutto. Per fortuna che gli ho mentito sulle cose più importanti.»
La donna sussultò. «Credi che ci venderebbe così? », esclamò scandalizzata ma a voce bassa.
Lorwaar si avvicinò loro, incuriosito, con le treccine che dondolavano ipnotiche sulla schiena.
«Kayrin, lui è stato controllato da Chawia per chissà quanto tempo. Sì, “controllato” nel senso di marionetta, è risaputo… non so come, poi ha convinto Annah che non lo era più e che stava dalla nostra parte, ma hai visto come è saltato quando l’ha vista. Cavolo, sembrava una molla! » «Adorante, per di più», commentò Lorwaar.
«Beh, è molto bella…», aggiunse Kayrin.
«È una stronza manipolatrice, priva di scrupoli e che pensa solo ai suoi fini», sputò Nehroi come se non potesse più trattenersi.
Gli altri due rimasero in silenzio per qualche istante, guardandosi perplessi. Kayrin si sistemò il ciuffo dietro l’orecchio ma questi sfuggì e tornò esattamente dov’era prima. «Sembra che la conosci molto bene…» Nehroi abbozzò un ghigno. «Ho avuto il dispiacere a Tolakireth», ridacchiò brevemente.
«Quando avete distrutto tutto? »
«Prima, ovviamente. »
«Ma…», azzardò la donna mordendosi il labbro. «Il popolo la ama, e non solo a Eastreth… la acclamano come Principessa, no? Come può essere quello che dici tu? »
Lorwaar fece un verso per celebrare l’avvenuta comprensione della situazione. «Ecco perché non la chiamava Capo! … ma perché “Principessa”? Ataklur non è un regno con un solo Capo! »
«Pare che voglia unificare tutte le regioni sotto di sé, perché ha il potere e vuole far guerra ai Capi che non vogliono sottomettersi, sottraendo la gente dalla loro guida facendo leva su qualche scontento… e, a giudicare dalla quantità di guardie a Eastreth, direi che ha anche un discreto appoggio da parte delle armi», lo informò Nehroi sforzandosi di fare un riassunto della situazione.
Lorwaar lo guardò perplesso, e anche Kayrin sembrava sconvolta. «Ha il potere di fare una cosa del genere? », domandò il giovane jiin.
«È di livello viola, solo un Capo può tenerle testa se dovessero scontrarsi», disse. Nehroi pensò per un secondo a Silar e deglutì per rimandare giù il disgusto che gli stava provocando il suo ricordo. «Non sono neanche sicuro che sia una valida alternativa, anche quello non è un tipo a posto…»
«In pratica… Ataklur è spacciata», concluse Lorwaar in tono grave. Poi si scrocchiò il collo e si grattò la nuca. «Beh, è stato bello! Io torno a Mjoklur, lì non si stava poi tanto male! »
Risero tutti e tre, ma per non più di una manciata di secondi. Fu Kayrin la prima a tornare seria.
«Però non capisco…», disse. I due ragazzi smisero di essere allegri e l’atmosfera tornò normale. Ancora nessun’anima si era fatta viva né nel chiostro, né nell’atrio o nei corridoi che vi si diramavano.
«Cosa? », chiese paziente Nehroi. La prospettiva e la certezza dell’imminente incontro con la sorella l’aveva tranquillizzato molto e quella risata di poco prima, per quanto breve, ne era la prova.
«Se non ti fidavi di Phil, perché te lo sei portato dietro fin qua? È solo un umano, no? »
Nehroi non seppe cosa rispondere, o almeno non subito. Molti pensieri gli sopraggiunsero, vaghi e sparsi, difficili da riordinare. Non c’era una risposta semplice e rapida, era il risultato di una lunga equazione e di molti momenti, tutti diversi, che si sono succeduti in pochi ma determinanti mesi. Raramente gli era successo di non avere un’opinione precisa su qualcuno: per tutta la vita aveva avuto pochissime persone certe, di cui potersi fidare assolutamente, e si potevano contare sulle dita di una mano; tutti gli altri erano sospetti o nemici. Philip Mayson gli aveva aperto una categoria diversa, viaggiando a cavallo tra le due zone di bianco e nero che aveva delineato nella mente fin da quando era piccolo, camminando una volta di qua e una volta di là.
«Annah si fidava di lui», esordì. «Ma credo… non so, forse le piaceva e non lo vedeva bene. Non è perfetta neanche lei, insomma. »
La sua frase precipitò miseramente, preda della confusione che svariati momenti si succedevano nella sua testa. Era stato doppiogiochista, aveva pensato alla sua pelle, alla sua posizione prima di tutto; poteva biasimarlo? Come aveva appena sottolineato Kayrin, era solo un umano in un mondo di squali. A tratti invece era stato fedele e sincero, ma non si poteva mai sapere per certo quando finisse un lato del suo essere e dove iniziasse l’altro.
«Ci ha aiutati… mi ha aiutato», disse poi. «Sarei un umano tra gli umani, adesso, se non fosse stato per lui… ma ancora non sono riuscito a capire il suo disegno più grande. A cosa mira veramente. E questo suo entusiasmo verso Chawia mi fa dubitare nuovamente. E poi perché lei ha contattato lui per chiamarci qui? »
«Magari stava riferendo solo a lui e ci ha portati qui di sua volontà per non lasciarci a vagare per tutta Ataklur», ipotizzò Kayrin. «In fondo, la principessa non sapeva chi fossimo… forse non eravamo attesi. »
Nehroi soffermò lo sguardo su di lei per un lungo istante, perso nei ragionamenti. Annuì poco convinto e guardò Lorwaar, scoprendolo rabbuiato.
Non poté fare in tempo a chiedergli cosa gli fosse preso quando, da un corridoio che termina nell’atrio del palazzo, comparve una giovane ragazza. Aggraziata, con i capelli raccolti in una treccia come la principessa Chawia, attirò la loro attenzione con il lieve scalpiccio dei piedi scalzi. «Venite pure», li invitò.
Tutti e tre scattarono in piedi velocemente e la seguirono quasi correndo. «Qual è la prima cosa che le dirai quando la vedrai? », domandò Kayrin a Nehroi, visibilmente eccitata e contenta per lui.
Nehroi sorrise da orecchio a orecchio. «Oh, non ne ho idea! La abbraccerò, credo, e resterò incredulo a fissarla… probabilmente. »
Kayrin rise e anche la giovane che li stava conducendo con passo sicuro nel palazzo del Capo di Eastreth.
Lorwaar spostò Kayrin e si mise prepotentemente in mezzo a loro. «Sul serio, non hai pensato a nulla da dire in questi mesi? », prese in giro l’amico con i suoi soliti modi fragorosi, tirandogli una pacca sulla schiena.
Nehroi abbozzò un altro sorriso, poi si rattristò di colpo. Svoltarono un angolo stretto ed iniziarono a comparire delle porte, ma la ragazzina che li guidava non si soffermò davanti a nessuna e continuò a camminare.
«Le dirò che mi dispiace… che sia morta a causa mia. Che non ho potuto salvarla, che non sono andata a prenderla…»
La sua voce si spense man mano che diceva quelle cose dolorose.
Lorwaar comprese di averlo costretto a toccare un tasto dolente e si pentì di aver tentato di farlo aprire; ormai avrebbe dovuto capirlo che sotto la scorza dura ed inondata di positività, il suo amico e fratello nascondeva sempre oscurità…
Rallentò la camminata e tornò in coda al gruppetto, lasciando a Kayrin l’arduo compito di tirargli su il morale. «Non è vero che è colpa tua», tentò lei, senza successo.
«Non direttamente, no… ma tutto quel che è seguito, i miei fallimenti e la mia debolezza sì. E non posso neanche guardarla e fingere che non ci siano stati… spero solo che mi possa perdonare e che torneremo come prima. »
« “Possa il filo mai spezzarsi” », terminò per lui Lorwaar. Nehroi si voltò e lo guardò con un po’ di nuova luce sul volto e anche il jiin si sentì meglio, mentre invece Kayrin tornava a chiedersi cosa significasse quella frase, come aveva fatto il giorno in cui l’aveva incisa magicamente sulla lapide di Savannah.
Mentre parlavano, la giovane ragazza scalza li aveva condotti su per una larga scalinata e poi lungo un altro corridoio. Questa volta, c’era un’unica porta ed era in fondo di fronte a loro: la meta.
«La Principessa concede l’ingresso solo al fratello della nostra ospite, gli altri sono pregati di seguirmi nella sala d’attesa. Non potrete vederla fino a che non vi sarà dato il permesso. »
La ragazza terminò di comunicare le regole con un rapido ed inquietante sorriso, noncurante delle reazioni che queste avevano scaturito in coloro che l’avevano seguita dall’atrio.
«Che storia è questa? », protestò Lorwaar. «La Principessa non ha autorizzato nessun altro a parte il fratello. »
«È stato Mayson a suggerirlo? », insinuò Nehroi.
Kayrin si frappose tra la giovane e i suoi compagni di viaggio.
«Smettetela, va tutto bene! », li sgridò. «Se ha deciso così ci sarà un motivo, no? E poi tu hai più diritto di tutti di vederla, quindi entra e noi aspetteremo ovunque la Principessa ci dirà di aspettare. Palazzo suo, regole sue. Va tutto bene. »
Si voltò verso la giovane e le sorrise per rassicurarla, poi prese Nehroi per un braccio e lo avvicinò alla porta. «Vai», lo incoraggiò.
Nehroi abbassò la maniglia mentre Kayrin si allontanava con Lorwaar e la giovane ragazza scalza, ma aprì la porta solo quando non sentì più i loro passi alle spalle. Spinse il legno in avanti ed entrò in una stanza color azzurro cielo.
Per un attimo gli mancò l’aria e non riuscì a muoversi dall'uscio: Savannah era lì.
Era davvero lì.
Sdraiata su un enorme letto sfatto, addormentata in una camicia da notte di raso.
Nehroi avrebbe preferito vederla sveglia, magari intenta a fare qualcosa per dimostrargli che era davvero tornata. Invece era a pancia in giù, con un braccio sotto la testa e le gambe piegate leggermente.
Il ragazzo si avvicinò con cautela e la scrutò attentamente, come se fosse incerto e quella potesse essere solamente una sosia.
Era strano vederla con i capelli corti, conoscendo il suo perenne vanto dell'avere quella che lui chiamava una criniera, e anche con quei vestiti bianchi ed aggraziati.
Savannah sospirò nel sonno e Nehroi si sentì tornare al mondo, finalmente, con i polmoni che gli si riempivano e alleviavano per la gioia, smettendo di essere ingabbiati nel lutto di tutti quei mesi in ansia e in colpa. Era lei, era lì, respirava!
Il ragazzo fece un salto entusiasta ed iniziò ad agitarsi per la stanza in un buffo balletto, indeciso se svegliarla e stringerla a sé o continuare ad esultare in silenzio e lasciarla dormire.
Alla fine, dopo pochi ma lunghissimi istanti, saltò sul letto e la abbracciò poderosamente.
«Sei viva!» le urlò nelle orecchie mentre iniziava anche a piangere di gioia. «È un miracolo, Annah sei viva! Non ci posso credere... SEI VIVA!»
La ragazza si sentì soffocare ed iniziò ad agitare le braccia per dargli dei pugni per respingerlo, ma non fu facile staccarselo di dosso. Quando ci riuscì, le dolevano le mani e tossicchiava.
«Scusa, hai ragione, mi sono lasciato trasportare...»
Nehroi si asciugò le guance col dorso della mano e ridacchiò. Il suo viso era più luminoso del sole.
Allungò due dita verso la sorella e le sfiorò il volto, come se temesse che potesse scomparire da un momento all'altro e quello non fosse altro che un meraviglioso sogno di breve durata. Ne aveva avuti miliardi, simili e non, ma questo era così tanto emozionante e vivido che non poteva non essere reale.
Savannah si tirò indietro e non si lasciò toccare, stringendo le labbra con diffidenza.
Il ragazzo incurvò all'ingiù il sorriso e si pietrificò.
Sua sorella non sembrava altrettanto contenta di rivederlo, perché non sembrava altrettanto contenta di rivederlo? Un pensiero nero e pesante gli saltò in mente: e se fosse arrabbiata come temeva?
«Cosa c'è?», domandò in un soffio, fallendo nel mascherare l'angoscia.
La sua fronte era corrugata e gli occhi viola lo scrutavano attentamente. Dalle labbra ora schiuse non usciva alcun suono.
Sembrava che non lo riconoscesse.
«Annah», disse piano con un po' di disperazione. «Annah, sono io... Nehroi, non mi riconosci? Tuo frat...»
La ragazza si illuminò all'improvviso. «Allora sei tu Nehroi!», esclamò vitale come un tempo.
Il ragazzo sorvolò sulla stranezza dell'affermazione e rise dello scherzo.
«Mi hai fatto prendere un bello spavento, per un attimo ci avevo creduto!»
Rivedere quel sorriso era la cosa più bella al mondo, per lui. La voce, poi, la sua voce…
«Da mesi mi chiedo chi sia, il nome continuava a tornarmi in mente ma non sapevo a chi appartenesse!», proseguì lei noncurante.
Nehroi sentì qualcosa graffiarsi nel suo petto. «Cosa?», esalò. «Non... non ti… non ti ricordi più chi sono?»
La consapevolezza di aver aggiunto una virgola sbagliata nella precedente esclamazione della sorella si insinuò viscida in lui.
Savannah sorrise desolata, una smorfia in realtà, e scosse la testa. «Mi dispiace, no. Hai detto che sei...?»
«Tuo fratello.»
La ragazza alzò entrambe le sopracciglia e si illuminò nuovamente, ma di meno. Si voltò verso la porta con nervosismo, poi tornò al ragazzo con lo sguardo fisso sulle lenzuola.
«Sì, la Principessa me l'aveva detto, mi aveva detto che ho un fratello...»
Nehroi si sentì terribilmente male e il materasso sotto le sue gambe gli sembrò non essere più un solido sostegno. Il bellissimo sogno si era trasformato in un incubo e il ragazzo sperò non fosse più reale. Scese dal letto e camminò per un po' in giro per la stanza, con le mani strette tra i capelli. Aveva sognato tanti scenari, spesso uno più brutto dell’altro, ma questo faceva molto più male.
«Scusami», disse Savannah in un pigolio sincero.
Nehroi la guardò stupito. «No, non... insomma, immagino che non sia una passeggiata tornare dall'aldilà, non scusarti», cercò di recuperare ragionevolezza sotto la disperazione interiore che stava cercando a tutti i costi di nascondere.
Savannah sbiancò e si sentì in procinto di vomitare, ma riuscì a trattenersi e a non lasciare a Ogklur e a quei ricordi la possibilità di prendere il sopravvento, non di fronte a qualcuno. Si chinò comunque oltre il bordo del letto e se ne accorse solo molti istanti dopo, quando Nehroi ormai l’aveva notata ed aveva alzato un sopracciglio. «È ancora tutto nella nebbia», disse con la voce che era poco più che un sussurro.
«Nella nebbia», ripeté Nehroi con più curiosità di quanta ne volesse dimostrare.
Savannah annuì convinta e si sforzò di sorridere. «Se mi aiuti sono certa che riuscirò a recuperare…»
Nehroi sentì stringersi il cuore e le sorrise di rimando, ma anche il suo era un gesto carico di amarezza. Le prese le mani nelle sue e strinse con determinazione, fiducia.
«Ma certo che ti aiuterò, Annah. Farò tutto il possibile, conta su di me.»








*°*°*°*


Siiiiiiii finalmenteeeee!
Scusate ancora una volta il ritardo ma ho avuto un po' da fare... adesso nelle vacanze natalizie vedo di recuperare e scrivere un po' di capitoli, così da non lasciare più buchi tanto lunghi tra un aggiornamento e l'altro! Anche perché adesso... hihihi cosa non combino... ^^

Grazie mille per le recensioni allo scorso capitolo! Il mio ammmmore per tutti voi è infinito! <3
Alla prossima! Ciao!

Shark

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Capitolo 17
*** Il mio posto ***


19
Il mio posto



La scalinata magicamente racchiusa nel muro terminò in un ufficio finemente arredato, con un ampio tavolo di marmo con fiori e foglie magnificamente scolpiti sul bordo e sulle gambe, un’enorme lampadario di vetro che pendeva dall’alto soffitto e un divano dorato ad occupare un’intera parete, sotto un grande dipinto di mal’Kee galoppanti verso terre lontane e sopra un tappeto ruvido e spartano all’apparenza ma morbido e caldo come una pelliccia.
«Sei giunto con una comitiva», commentò con una nota seccata la principessa mentre si adagiava tra i cuscini dorati.
Il suo sguardo colpì Phil come una lama affilata, immobilizzandolo laddove la scalinata era appena scomparsa nel muro.
«Mi è diventato impossibile rimanere da solo o fare anche un solo passo senza essere sorvegliato, mia signora», si scusò chinando leggermente il capo. «Non credo si fidino ancora del tutto… o almeno, non Nehroi. »
«Nonostante tutto il tempo passato con loro? L’avergli trovato e consegnato quell’inno al suicidio che ha tanto apprezzato? L’averlo condotto mano nella mano fino al buco? L’averlo portato ora qui, da quel cencio? », sputò Chawia con veleno.
Phil la fissò brevemente, perplesso. « “Cencio”?», domandò.
La jiin sbuffò ed agitò una mano nell’aria mentre si stendeva più comodamente sul divano. «La sorella più debole, sciatta, ricercata e glorificata nella storia di Ataklur.»
Un libro dalla copertina verdastra e lucida fluttuò verso di lei, aprendosi in volo in corrispondenza del nastro segna-pagine rosso che pendeva lungo il dorso, mentre una penna stilografica si librava nell’aria dal tavolo e accorreva a sua volta.
Chawia afferrò entrambi gli oggetti ed iniziò a scrivere freneticamente qualcosa, poi strappò la pagina e la lanciò verso la candela rotonda posata sul davanzale della finestra, la cui fiamma si accese non appena il foglio si avvicinò, bruciandolo. Phil si domandò a chi avesse scritto, e cosa.
«Quello che vorrei discutere con te adesso, mio caro consigliere…», la voce della donna si fece suadente ma l’irritazione era , come sempre, intrinseca. «È ben altro. »
Phil annuì deciso e fece un passo avanti, avvicinandosi al divano ma rimanendo sempre in piedi, con le mani giunte dietro la schiena.
«Dimmi, hai assistito al Gran Torneo? »
«Solo in parte, mia signora. »
Chawia appoggiò il libro bianco e la penna sul divano, con la delicatezza che avrebbe riservato a degli ospiti. «Quale umore regnava tra la folla? »
«Gioia, molta eccitazione… normale tifo da combattimento, direi. »
«Niente riguardo i Capi? Qualcosa che mi possa aiutare? », insistette lei mentre lasciava vagare lo sguardo nella stanza, come in cerca di qualcosa.
Phi si sforzò. «Probabilmente, in quel momento stavo indagando per la ricerca di Savannah. Ma sono sicuro di aver percepito astio nei confronti del Capo Goon…»
«Ex Capo», precisò lei.
«Ma certo, mi scusi. »
Chawia inspirò brevemente e soffermò lo sguardo sull’umano al suo cospetto. Ripensò al ragazzo che aveva conosciuto anni prima e a quando fosse cambiato, come da lei temuto.
«Mi sembri un po’ distratto, Philip… Non hai davvero nessun’informazione utile per me?», abbozzò un sorriso.
Phil deglutì e si strinse le dita dietro la schiena, lievemente agitato. «Mia signora, ammetto che la questione Krajal mi abbia tenuto parecchio impegnato… abbiamo sempre viaggiato lontano dalle città, evitando ogni genere di contatto umano. È difficile assentarsi quando ti trattano come un prigioniero di guerra e…»
La sua voce si indebolì.
«E? », incalzò Chawia.
L’umano esitò per un istante. «Lei è davvero qui? Savannah, è davvero viva? », domandò in un sussurro, con trepidazione. Aveva i nervi e i muscoli tesi come se avesse appena finito una corsa.
La principessa si portò le dita alle tempie e si massaggiò brevemente la fronte. «Si può sapere cosa c’è di tanto speciale in quella squilibrata? », disse tra sé e sé, poi sospirò scocciata ed annuì.
Phil sorrise senza riuscire a trattenersi.
«Parla, cammina, respira, non mangia, piange, a volte non la troviamo più, non ha detto nulla su cosa le sia successo, dove sia stata fin ora e, soprattutto, perché sia qui a darmi fastidio. »
Phil si sentì strano, un misto di sollievo ed angoscia combattevano in lui e lo inquietavano.
«Suppongo sia plausibile, immagino che...»
«Voglio liberarmene», aggiunse Chawia interrompendolo con freddezza, forse fastidio.
L'umano si inumidì le labbra, senza sorpresa. «Però non ha comunicato agli altri Capi che è qui, o sbaglio? », chiese.
La jinn rise per un paio di istanti, fingendosi divertita, poi la risata si spense e sul viso le si disegnò una smorfia disgustata. «Non “comunico” più con quei deficienti, hanno preteso di essermi superiori troppo a lungo. Ti sei perso la riunione in cui mi deridevano, quando sostenevo che avremmo dovuto eseguire il rituale funebre per jiin anche su Krajal e loro ritenevano che non fosse necessario. Ah! E adesso cosa direbbero, vedendola nella mia stanza degli ospiti?», esclamò infine.
Poi il suo viso si rabbuiò. La voce si fece più grave. «… il mondo sta cambiando Philip. Anzi, credo sia già irrimediabilmente cambiato. Non ci sarà mai più una riunione a Tolakireth. Anzi… non esisterà più Tolakireth.»
Phil sentì un nodo allo stomaco, sempre più stretto, e gli venne uno spiacevole senso di nausea. «Mia signora…», iniziò, bloccandosi. Il pensiero della guerra imminente ed inevitabile lo aveva sfiorato, nei mesi precedenti, conoscendo le abitudini della principessa. Quel che non si aspettava, però, era il raggiungimento tanto rapido di quel temuto punto di non ritorno.
«Mia signora, lei prevedeva di liberarsi di Savannah fin dal vostro primo incontro, poi ha tentato di ordinare il funerale delle fiamme ed impedire che tornasse in circolazione… perché adesso che è letteralmente in suo potere, la mantiene?», ragionò ad alta voce, col cuore colmo di fitte che gli urlava di smettere. «Intuisco che se i Capi non sanno che è viva, non sappiano neanche che sia qui sotto il suo tetto…»
Chawia annuì.
«Infatti», asserì. «Non lo sanno. Non lo devono sapere. Ho mandato delle guardie, a Feinreth, e ne ho corrotte alcune del posto perché guidassero i miei e facessero nel deserto ciò che quei ritardati di governanti non hanno voluto fare. Fu tutto inutile, la tomba era vuota, come hai potuto constatare anche tu stesso. Questo però è avvenuto tre o quattro giorni dopo la dipartita della ragazzina…»
Le iridi verdi della principessa si posarono su Phil, lasciandogli il compito di tirare le fila.
«Quindi la sta tenendo qui per capire il suo mistero? », azzardò lui. La principessa annuì lentamente ed aprì la bocca per continuare, ma non poté aggiungere nulla perché l’umano la precedette. «Savannah è rimasta qui per tutti questi mesi? E non me l’ha mai detto? », esclamò più ferito del dovuto.
Chawia rimase perplessa per un istante, poi tornò sprezzante e scosse la testa. «È arrivata qui due giorni fa, non so nulla del tempo mancante né mi interessa particolarmente saperlo. Ciò che voglio capire è tutt’altro… ma non ora. Non ho tempo di preoccuparmi di queste cose secondarie, ho una guerra da mandare avanti. »
«Certamente», annuì Phil. Si ricompose e tornò ad indossare i panni del consigliere fidato, seppellendo in un angolo del suo spirito le preoccupazioni per Savannah. «Ho visto che ha aumentato notevolmente il numero di guardie qui in città, mia signora.»
«Molti sono stufi dei litigi da bambini che i migliori di noi continuano a mostrare, dividendo le regioni più di quanto già non siano. Le accademie delle guardie di Eastreth sono così piene di nuovi volontari che ho dovuto erigere nuovi edifici per loro, in superficie. Arriva gente da tutte le parti, Philip, anche se nessun Capo si è ancora ufficialmente schierato dalla nostra parte… dovresti uscire di palazzo, fare un giro e vedere quanta gente attraversa Ataklur pur di unirsi a noi.»
I suoi occhi brillavano di gioia e di eccitazione, notò Phil. La principessa sembrava ancora più bella ad ogni parola che diceva, ringiovanendo quasi per incanto. Phil rievocò nella mente l’immagine di una Mief ragazzina, molti anni addietro… ma fu solo per un istante, poi scacciò quel pensiero.
«Gli altri Capi non fanno nulla? Heim, Silar? », domandò quindi, dimostrandosi incuriosito. «E Nekkis? Dovrebbe aver notato una simile affluenza…»
«Nekkis se l’è data a gambe non appena ho dichiarato guerra ai Capi e nessuno l’ha più visto. Come capo delle guardie posso comprendere la sua scelta: la sua sarebbe stata la prima testa a rotolare per le strade, per mano dei Capi stessi o mia…»
Chawia tirò un angolo della bocca in un sorriso spettrale e smorto. Mirando all’unificazione di tutte le regioni e guidando le sue guardie armate contro altre guardie armate, una persona che conosceva perfettamente tutte le fazioni in campo sarebbe stata scomoda, se in mano ai nemici; da generazioni, i capi dei vigilanti di Ataklur sono stati le prime vittime dei conflitti tra regioni e, purtroppo per Nekkis, lui non sarebbe stato graziato da quella decisione.
«Per quanto disprezzi questa specie di tradizione», concluse. «Come uomo, certo, si è comportato da codardo e questo non ha contribuito all’accrescimento della mia già poca stima verso di lui. Avrebbe potuto venire da me, mesi fa, e chiedermi di diventare mio generale…»
Phil annuì debolmente. «Mi perdoni, non sono un esperto di logiche tra guardie ata, sono molto diverse da quelle tra soldati umani…»
«Credo che abbia pensato che un giorno non si sarebbe ritrovato dalla parte dei vincitori, stando con me», lo aiutò Chawia con pazienza, proseguendo nel suo ragionamento. «Il che non aumenta ovviamente la mia stima.»
«Potrebbe anche essere che non volesse scegliere da che parte stare perché non avrebbe potuto combattere i suoi stessi uomini?», ipotizzò Phil, cercando di guadagnare qualche punto e di non sembrare inutile.
Chawia strinse le labbra. «Per questo i capi delle guardie vengono uccisi all’inizio delle guerre. Possono essere un immenso danno. »
Rimasero qualche secondo in silenzio, ognuno ragionando sul da farsi a modo proprio.
«Se posso aggiungere un tassello al quadro», disse Phil attirando la sua attenzione. «Lui e Silar Gerit sono piuttosto amici. »
«Ho considerato anche questo. Manderai un ordine di cattura nei suoi confronti rivolto a tutte le guardie a me fedeli che ho disseminato ad Atalur, specialmente a quelle che lavorano a Kyureth. Non voglio vittime collaterali, Philip… con la sua collaborazione potremmo avere molti meno problemi di quanti non siano necessari. »
Guardò l’umano, soffermandosi sui suoi occhi debolmente gialli alla luce del fine lampadario.
“E se non volesse collaborare, lo controllerà come fa con me”, comprese tristemente Phil.
«Non fare quella faccia», lo sgridò la principessa alzandosi dal divano. Schioccò le dita verso la porta, ma non successe nulla.
«Seguire la via armata è stata anche una tua idea», gli disse lei avvicinandosi di qualche passo.
Phil annuì. «Neanche un Capo può opporsi all’esercito», confermò lui.
La porta si aprì e una ragazzina scalza entrò nell’ufficio. Si inchinò educatamente e la principessa si voltò verso di lei. «Accompagnali pure», ordinò.
La ragazzina annuì, si voltò ed uscì. La sua treccia ondeggiava lungo la schiena mentre tornava verso la porta.
Chawia camminò leggiadra verso il tavolo in marmo bianco, sfiorò un fiore scolpito e questi sembrò muoversi come se fosse vero. Le dita della principessa scivolarono sul banco, delicatamente, fino ad incontrare un disco d’argento, sottile e levigato, grande poco più del suo palmo. Lo afferrò, si voltò e lo lanciò come un frisbee contro la parete alle sue spalle, dove si allargò ed appese come uno specchio.
Phil rimase colpito e strabuzzò gli occhi.
«Vai», gli ordinò la principessa mentre appoggiava mani e glutei al tavolo, sedendosi appena. «Ordina a tutte le mie guardie di cercare Aner Nekkis e di portarlo da me. Vivo. »
Phil chinò la testa in un inchino e si voltò verso la porta. Aveva già afferrato la maniglia quando la principessa gli diede un altro compito.
«Sì, mia signora», rispose puntuale, ed uscì.
Non appena la porta si chiuse, Chawia scrollò le spalle e stiracchiò il collo. Respirò con tranquillità e si rilassò. Poi si chinò lievemente verso lo specchio argentato sul muro e lo accarezzò lungo il bordo.
L’immagine di Savannah, addormentata sul letto, e di suo fratello sulla soglia della stanza comparve nitida di fronte a lei.

Nehroi tenne le mani di Savannah tra le sue per più di un minuto, o forse anche più di dieci. C’erano stati molti altri momenti, nella loro infanzia, in cui si erano ritrovati l’uno a gambe incrociate davanti all’altra, in silenzio, uniti in quel contatto esclusivo. Le mani di Savannah, però, erano meno lisce e più calde; quelle di Nehroi, senza molti tagli sulle nocche.
«Mi dispiace», disse Savannah con voce impastata. «Ricordo… quasi tutto. Nozioni, nomi, posti. Ma quando si tratta di persone per cui provo sentimenti, ho una specie di… di blocco, non so più nulla. »
«Non ti preoccupare», la rassicurò il fratello, stringendo di più le mani. «I blocchi sono come i muri: sono fatti per essere infranti. Supereremo anche questo, come abbiamo superato sempre tutto. »
Non riusciva a smettere di guardarla.
«Ci credi davvero? »
Nehroi sorrise e si perse nei suoi occhi viola, stupendosi di quanto fossero molto più beli di quelli che aveva solamente potuto vedere attraverso ricordi sempre più opachi e meno precisi. Però… mancava in loro qualcosa. Una luce che sua sorella aveva sempre avuto, anche nelle situazioni più tremende.
«Sì», rispose convinto. Avrebbe ritrovato quella luce ad ogni costo, fosse dovuto scendere nuovamente a Mjoklur per farlo.
«Sai…»
Savannah mosse lievemente le dita ma non si liberò dalla presa, iniziò però a sembrare a disagio.
«Sono contenta di vederti. O almeno, di vedere qualcuno che non sia la cameriera», disse con una smorfia.
Nehroi ridacchiò. «Chi? »
«Quella di Tolakireth, quella stramba donna… lei l’ho ricordata dopo pochi minuti. »
«Come mai è qui? »
Savannah fece spallucce. «Pare sia arrivata da sola chiedendo di me. Chissà come ha scoperto dove fossi…»
La sua voce si spense e tornò a fissare le mani, quasi ipnotizzata, mentre Nehoi rimuginava.
«E tu? », le chiese poi.
Savannah alzò lo sguardo e rimase perplessa. «Io cosa?»
«Tu perché sei qui?»
La ragazza non seppe cosa rispondere. Continuò a fissare il fratello come se non ci fosse altro che potesse fare, e rimase in silenzio. Osservò con attenzione i peli della barba, le labbra seccate dal vento, le occhiaie profonde e scure; i capelli arruffati, il naso rosso e gli occhi imploranti, verdi come le praterie di Tolakireth.
E poi scese sul suo torace ampio e robusto, sotto quelle spalle ricurve dalla fatica che in qualche modo le facevano tenerezza; le braccia muscolose, che poco prima la stavano stritolando in un abbraccio, per un attimo le sembrarono un rifugio caldo e sicuro.
Alzò una mano verso il suo petto, sfiorando la felpa bluastra, come una falena attratta verso la luce.
Quando la punta delle dita toccò il tessuto, Nehroi sussultò. Poi si accorse di aver spaventato la sorella e le afferrò la mano e gliela fece distendere sul petto.
Savannah sorrise sentendo il suo cuore battere.
«Qui sotto c’è anche il sigillo che mi facevi sempre…», le disse piano.
Il battito divenne musica che scorreva tra loro, armonizzando il loro ricongiungimento.
«Sigillo…», ripeté lei come in trance.
«Te lo mostrerei ma l’ha fatto Kayrin… un’altra jiin, sì, e sinceramente non è un granché… sembra uno dei primi che mi facevi tu, tutto aggrovigliato! Terribile, ma almeno funziona. »
Savannah continuò a guardarlo perplessa, con entrambe le sopracciglia alzate, poi scosse la testa.
Nehroi socchiuse gli occhi, stanco. Lasciò la presa sulla mano della sorella e si sdraiò sul letto a braccia aperte. Sospirò mentre le lenzuola chiare e finissime si sollevavano e tornavano giù sul materasso, poi sorrise quando Savannah gli si sdraiò accanto.
«Annah…»
La cinse con un braccio e la tirò a sé, stringendola. Lei si accucciò sul fianco e si lasciò spostare, spinta dal ricordo di un movimento che improvvisamente le sembrava familiare.
Nehroi la sentì incastrarsi nell’abbraccio come era solita fare fin da quando era una bambina e il cuore gli si riempì di gioia.
Si addormentarono entrambi, dopo essere rimasti svegli e immobili per parecchi minuti. Quando si svegliarono, si ritrovarono completamente abbracciati e ancora sorridenti.
Nehroi pensò che se non ci fossero stati i capelli corti a ricordarglielo, quello sarebbe potuto essere un risveglio come centinaia di altri che avevano vissuto.
Savannah sembrava nuovamente la sua sorellina, tutto era tornato alla normalità.
«Posso chiederti una cosa?», domandò, esitante.
La ragazza strinse le labbra e non annuì. I suoi muscoli entrarono in tensione e Nehroi lo percepì ma non ci fece caso.
«Come sei tornata in vita? O con chi, qualcuno ti ha aiutata? »
Savannah scosse la testa.
«No?», chiese lui, tirandosi su a sedere, rivolto verso di lei. «“No” come “non c’era nessuno” o come “non lo voglio dire” o…»
«Non chiedermelo», soffiò rapidissima Savannah, rotolando giù dal letto. Andò verso la porta e fece come per aprirla, ma si fermò.
«Non puoi dirmelo o non lo sai?», insistette il brehkist, non sapendo cosa pensare di quel repentino cambiamento d’umore.
Savannah si guardò attorno ed iniziò a respirare pesantemente, come se avesse un attacco di panico. «Lo so, non voglio dirtelo, mi fa male, ah! No!»
Il volume della sua voce si alzò ad ogni sillaba, fino a farle urlare il rifiuto.
«Va bene», Nehroi scese rapido dal letto e la riprese con sé, faticando un po’ per farle accettare l’abbraccio e per tranquillizzarla. «Va bene, lasciamo stare, va bene… non importa, sul serio. »
Savannah si calmò ma rimase sempre in tensione.
«La cosa più importante», proseguì lui con voce pacata e rassicurante, «È che tu sia qui e stia bene. Il resto non conta. »

Chawia scattò verso lo specchio argentato ed agiò la mano come se volesse scacciare una mosca. L’immagine dei Fein Anis abbracciati nella stanza si dissolse come una nuvola di fumo al vento e la principessa strinse le labbra con rabbia ed irritazione.
«Polua! », chiamò a gran voce.
Un giovanotto dai capelli rossi come una carota varcò la porta del suo ufficio in un istante, come se fosse rimasto in attesa accanto all’uscio per tutto il giorno solo per quel momento. «Mia signora!>, esclamò tutto impettito.
«Convoca nel mio ufficio la cameriera di Savannah e portami il comunicatore per Kyureth, devo parlare subito col Capo Silar.»








*°*°*°*


Hola! Questa volta, e non è la prima, il titolo ha un duplice significato, diviso tra le coppie protagoniste dei due paragrafi del capitolo: Chawia-Phil e Savannah-Nehroi. A proposito, vi siete mai chiesti come ha fatto Phil ad essere controllato da Chawia? E perché entrambi ricordano l'altro/a... da giovane? :P
Prima o poi lo svelerò... intanto godetevi i tasselli del puzzle di Savannah, un mistero alla volta!

Grazie mille a tutti per le recensioni <3 Come regalino prenatalizio vi posto in fretta il capitolo nuovo, yuhuuu!
Alla prossima, ciao!

Shark

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Capitolo 18
*** Colori ***


20
Colori



All’immensa tavola del palazzo del Capo di Eastreth, tra le mille pietanze che la ricoprivano, quella sera il piatto principale era areep in salsa bianca, un volatile tipico di quella valle cucinato secondo tradizione. Il piatto su cui la pietanza era stata adagiata era d’oro con intarsi neri molto raffinati e anche la tovaglia che ricopriva il marmo era invece completamente nera con decori dorati.
Nehroi si sentì a disagio a mangiare in tanto lusso e per qualche minuto rimase quasi paralizzato all’idea di tanto cibo prelibato e ben servito, mentre invece Kayrin e Phil si erano subito adattati ed avevano iniziato a mangiare educatamente; Lorwaar, come al solito, era riuscito a distinguersi e aveva disseminato macchie di salsa bianca ovunque nel raggio di mezzo metro da sé, sotto gli occhi dei camerieri che lo osservavano impotenti e un po’ sofferenti.
«Quando arriva Savannah? », domandò Nehroi mentre giocherellava con una strana forchetta.
Il cameriere inclinò leggermente la testa verso l’ospite, rispondendogli con un sorriso garbato.
«Sono certo che arriverà a momenti. »
Nehroi sbuffò. «Certo, non appena Chawia avrà deciso se può vederci o se deve mangiare in camera da sola come una prigioniera», borbottò nervoso piegando uno dei denti di metallo.
«Le consiglio di consumare la cena prima che si freddi», consigliò con un largo sorriso il cameriere per terminare la conversazione spiacevole.
Attesero altri venti minuti circa prima che le porte della sala da pranzo si aprirono e il Capo Chawia le varcò con un vestito blu notte svolazzante ai suoi lati, che le dava quell’apparenza regale ed elegante che la contraddistingueva e caratterizzava, forgiando forse un po’ troppo i suoi modi superiori. Savannah la seguiva a distanza di un paio di passi, col viso teso e un abito verde semplice ma piuttosto raffinato, probabilmente scelto dalla principessa in persona.
«Siediti qui», le disse il Capo indicando distrattamente una sedia mentre la superava per andare alla propria poltroncina.
Chiudeva il corteo la brutta e seria cameriera di Tolakireth, a passo pesante e marziale come suo solito. Quando chiuse i battenti della porta dietro di sé, il silenzio tornò a fare da contorno per l’areep.
Savannah si sedette senza guardare negli occhi nessuno, come se in quel salone ci fosse solo lei.
Guardò il cibo nel piatto ma non allungò neanche un dito verso le posate.
L’improvviso rumore di metallo caduto a terra le fece alzare la testa di scatto: incrociò lo sguardo di Lorwaar, fisso e perso nella sua direzione, con la mano che non stringeva più il coltello era rimasta a mezz’aria e si trasformò in un saluto striminzito dopo qualche istante di paralisi.
«Annah», sospirò il jiin, ancora sotto shock.
Savannah strinse le labbra e smise di guardarlo, spostando brevemente gli occhi su Nehroi e poi di nuovo sul suo piatto. La salsina aveva iniziato a formare una piccola patina sulla superficie, doveva essere stata servita da un bel po’.
Lorwaar si alzò in piedi spostando la sedia in maniera rumorosa. I suoi occhi neri erano sempre immobili su Savannah, mentre il corpo si muoveva verso l’altro capo del tavolo, verso di lei.
La principessa intuì le sue intenzioni ed alzò un dito dalla forchetta, il mignolo, paralizzando il ragazzo; poi si portò il pezzo di areep alla bocca e lo degustò con calma, mentre il jiin rimaneva fermo come una statua a neanche un metro dalla sua sedia.
«Se avesse voluto parlarti o guardarti un secondo di più, l’avrebbe fatto», disse Chawia con il suo tipico tono altezzoso. «E credimi, la capisco benissimo.»
Lorwaar non poteva muovere neanche un muscolo.
Nehroi picchiò un pugno sul tavolo e si alzò in piedi di scatto. «Lorwaar e Savannah non si vedono da più di dieci anni, non puoi essere un po’ più comprensiva? », esclamò irato. Phil gli lanciò un’occhiata di fuoco e mise giù il boccone che stava per addentare. «Nehroi! », lo riprese imbarazzato, gesticolando di tornare seduto.
La principessa squadrò il brehkisth da sotto le lunghe ciglia con sprezzo, fastidio. «Come osi chiedermi altra comprensione? », sibilò la donna. «Non hai idea di quello che sto rischiando per tenerla qui al sicuro. Senza contare tutto il sostegno e il tempo che le dedico… dovresti, invece che sbraitarmi contro, iniziare a pensare a qualche ringraziamento. »
Chawia abbassò lo sguardo su Savannah, la quale continuava a fissare il suo piatto con un’espressione tormentata. Tornò poi a Nehroi, senza stupirsi nel vederlo ancora sul piede di guerra.
«Siedi», gli disse glaciale. Mosse ancora il mignolo e Lorwaar tornò a muoversi, questa volta per tornare amareggiato e con la coda tra le gambe al suo posto.
Nehroi si sedette solo quando anche Lorwaar lo fece, ma non ricominciò a mangiare. Teneva in mano il coltello, soppesandolo come se fosse una spada, mentre continuava a sbirciare verso la sorella e la principessa al suo fianco che la proteggeva e sottraeva agli altri come una madre premurosa.
«Perché? », domandò ad alta voce.
Chawia sospirò irritata ma continuò a mangiare con tranquillità. «Perché sei qui e non in strada o in una grotta come al solito? », lo derise.
«Perché ti stai disturbando tanto per lei», replicò serio Nehroi, senza raccogliere l’offesa. «Lei può non ricordarselo, ma io sì: a Tolakireth eravamo tutto tranne che buoni amici, tu e noi.»
Savannah sollevò la testa udendo quelle parole e guardò Chawia con stupore, ma la principessa non se ne curò e continuò a mangiare.
«Tu non vuoi proteggerla», proseguì il ragazzo, «Per quello che ti importava di lei all’epoca, avresti dovuto consegnarla ai Capi ancor prima di farle varcare la porta del palazzo. Perché le guardie ci hanno scortati e non arrestati? Ho visto che anche a Eastreth sono ricercato e, adesso che Annah è di nuovo in vita, dovrebbe esserlo assieme a me. Perché stai insabbiando tutto? »
La principessa non permise neanche ad una di quelle parole di scalfire la sua tranquillità e finì di cenare come se Nehroi fosse stato muto.
Savannah, invece, non perse una sillaba. Guardò Nehroi con gli occhi viola spalancati e rapiti, cercando di fare tesoro di tutto ciò che stava dicendo per usarlo contro la nebbia che le attanagliava la mente. Era così tanto rapita dal fratello, da non accorgersi che Lorwaar e Phil fissavano invece lei, e senza neanche nasconderlo troppo.
Nehroi stava per proseguire quando la principessa fece cenno ad un cameriere di avvicinarsi e gli sussurrò qualcosa che nessuno udì. Il brehkisth rimase interdetto e non riuscì a dire null’altro perché il ragazzo in divisa tornò in meno di un minuto, porgendo a Chawia un disco di vetro dal bordo dorato.
«Un… rilevatore? », domandò Phil senza comprendere.
La principessa se lo rigirò tra le dita un paio di volte, poi lo frappose tra il suo volto e tutti i presenti come una lente d’ingrandimento: all’interno del vetro comparve magicamente del fumo viola, più scuro del color glicine di Savannah. Nehroi e i suoi compagni di viaggio avevano passato settimane a viaggiare tra le regioni di Ataklur evitandoli come la peste per non essere individuati dalle guardie e vedere quell’oggetto lì, a cena, senza un motivo, lo spiazzò.
«Che stai facendo? », domandò quindi alla jiin.
Chawia abbassò il rilevatore e sorrise. «Vi dimostro che funziona», disse delicata.
Nehroi fece spallucce. «Buon per te», ridacchiò senza capire a cosa mirasse.
La principessa si mise il rilevatore sulla mano tesa e lo porse a Savannah. «Ora tu», le disse.
La sua voce non era piena d’astio o di fastidio come al solito, ma dolce e pacata.
Savannah scosse la testa e spinse via la mano con uno scatto nervoso, facendo cadere il rilevatore sul tavolo. La reazione attirò maggiormente l’attenzione dei presenti al tavolo e la ragazza andò ancora di più nel panico.
«Annah, tranquilla», disse Nehroi avvicinandosi. Lanciò un’occhiataccia alla principessa ma lei non sembrò volerlo bloccare come Lorwaar poco prima. Camminò lungo tutto il tavolo ed arrivò sul lato opposto in un lampo, a braccia tese verso la sorella. «È solo un rilevatore… non ti succederà nulla.»
Chawia sbuffò. «Non ha paura dell’oggetto in sé, idiota, ma di quello che può dirci.»
Nehroi corrugò la fronte e fissò la sorella con un’espressione enigmatica. «Viola, no? Cos’altro può dirci?»
Savannah guardò rapidamente verso la porta e fece per corrervi e scappare, ma Nehroi la afferrò per un braccio e la trattenne saldamente; poi, con l’altro braccio prese il rilevatore che Chawia gli stava gentilmente porgendo, con un sorriso malizioso che non si sforzò neanche per un attimo di nascondere. Savannah lo guardò in cagnesco e cercò di sfuggire alla presa, ma ormai Nehroi aveva sollevato il rilevatore davanti al viso della sorella.
Attesero qualche secondo, ma non accadde nulla.
Di viola, attraverso il vetro magico, si vedevano solo gli occhi di Savannah.
Nehroi sentì i polmoni svuotarsi. «Non… non hai più poteri?», esalò.
Savannah distolse lo sguardo, poi scosse la testa. «No», confermò anche a voce. «Nehroi, io…»
Nehroi però si era già voltato verso Lorwaar. Con lo sguardo gli chiese una conferma e il ragazzo comprese subito ed aprì il palmo della mano: un globo di luce, perfettamente rotondo e luminoso, comparve tra le sue dita e fluttuò a pochi centimetri da loro, rischiarando la tovaglia nera e le macchie di salsa.
«Non è una cosa dei ritornati, fratello», rispose il ragazzo al brehkisth.
Chawia posò lo sguardo su di lui. «Ripetimi chi sei», gli chiese.
«Lorwaar», rispose, come se bastasse il nome a raccontare tutto quello che la principessa voleva sapere.
Phil prese la parola prima che Chawia esprimesse la sua indignazione. «È il ragazzo tornato da Mjoklur al posto di Savannah, mia signora», disse prontamente.
Chawia annuì sovrappensiero. «In maniera diversa, è evidente che lui invece i poteri li ha.»
«Non importa», sussurrò Nehroi accarezzando il viso della sorella. «Non importa. Ci siamo già passati, anche se forse non te lo ricordi…»
Savannah sorrise, ma i suoi occhi erano sfuggenti e rivolti al pavimento. «Voglio tornare in camera», disse poi. Si voltò verso Chawia in cerca di un permesso e la cosa irritò Nehroi.
La principessa annuì e Savannah si liberò dalla presa del fratello ed andò verso la porta.
«Io vado con lei», annunciò Nehroi con voce seria ed imponente.
Chawia non lo guardò ma intuì che la stesse sfidando e lasciò correre. Mosse brevemente la mano e li invitò ad andarsene, se non altro per poter allentare la tensione che si era creata nella sala da pranzo.
Phil si distese sullo schienale quando la porta si chiuse alle spalle dei Fein Anis. “Non avranno poteri”, pensò, “Ma riescono lo stesso ad essere il centro dell’attenzione e a fare danni”.
Kayrin, accanto a lui, prese timidamente la forchetta e terminò di mangiare l’areep, abbandonato per il trambusto che si era creato durante la cena.
Phil guardò verso la principessa e la vide assorta nei suoi pensieri, rivolta verso l’alta e raffinata finestra. La luce della luna le imbiancava il viso, combattendo contro il calore del lampadario sopra di lei.
L’umano sospirò, non sapendo cosa dire o fare, e lasciò vagare lo sguardo per la stanza.
Venne incuriosito dal piatto di Savannah, accanto alla principessa: era completamente pieno, intatto, e le posate non erano neanche state spostate.
Guardò poi il piatto di Lorwaar, intento a gironzolare per la stanza ammirando i dipinti e le decorazioni. Anche lui, nonostante la disseminazione della salsa e il gran trambusto che aveva fatto, non aveva mangiato praticamente nulla ma solo distrutto il cibo.
«Mayson», disse la principessa alzandosi da tavola.
Phil scattò in piedi, sull’attenti. «Sì, signora?»
«Potete alloggiare dai tuoi parenti? », gli domandò. «Questo palazzo non è un albergo. »
Phil annuì. «Certamente, non c’è problema. »
La principessa si congedò silenziosamente ed avanzò nella sala ad ampie falcate, scomparendo rapidamente oltre la porta. Percorse i lunghi corridoi e salì le scale segrete per raggiungere il suo ufficio. Lì, scrisse un paio di missive in Carta Chiacchiera e le bruciò con cura, con il fuoco della candela che le danzava negli occhi.
«Polua», chiamò a bassa voce. Il ragazzo comparve nel suo ufficio in fretta e furia come sempre.
«Eccomi, mia signora. »
«Il rilevatore che avevamo a cena?»
Il ragazzo vacillò per un istante. «Non è stato restituito, temo… vuole che lo vada a cercare?», propose.
La principessa ridacchiò per un istante. «Eravamo a cena con tre ladri professionisti, non credo sia difficile immaginare dove sia… vai pure. È tutto.»
Il ragazzo chinò la testa brevemente, poi indietreggiò fino ad uscire dall’ufficio, probabilmente rimanendo accanto alla porta per essere pronto al prossimo bisogno del Capo.
Chawia si sedette alla scrivania di marmo e tamburellò le dita per qualche istante sulla superficie liscia, producendo un ritmo carico di ansia e di pensieri. Erano molti i tasselli che non quadravano nel suo puzzle e la cosa la infastidiva non poco.
«Odio quando mi sfugge qualcosa», borbottava mentre le unghie picchiavano sempre più freneticamente sul tavolo.
Alzò una mano e fece un gesto verso la libreria, chiamando a sé alcuni tomi voluminosi. I libri atterrarono sulla sua scrivania dopo aver volteggiato in aria nell’ufficio e si aprirono sui capitoli che interessavano a lei. Vedàsio, incantesimi di non-morte, rituali per sottrarre i poteri… lesse tutto avidamente e si adirò nel non trovare nulla che fosse utile o plausibile per la situazione che aveva davanti. O meglio, al piano inferiore.
Stava sfogliando frustrata “Miti e Leggende di Ataklur – conferme e smentite dal Creatore ai giorni nostri”, volume cinque, quando la stanchezza iniziò a farle chiudere gli occhi e spinse via il libro.
Sul tavolo, sotto a tutti i tomi pesanti e polverosi, spuntava per pochi centimetri il disco argentato che utilizzava per osservare chi stava nel suo palazzo e le balenò in mente un’idea.
Lo sollevò e lo lanciò contro il muro come aveva fatto quella mattina, trasformandolo in uno specchio che magicamente mostrava ciò che voleva.
Vide i Fein Anis, addormentati sul letto, abbracciati l’una all’altro. Savannah sembrava un angioletto.
«L’ha tranquillizzata… almeno qualcosa di buono quell’arrogante di un brehkist la sa fare», borbottò Chawia mentre si sistemava la lunga treccia.
Stava rifacendo gli ultimi centimetri dell’acconciatura, un po’ provati dalla giornata, quando vide Nehroi alzarsi furtivamente dal letto, tutto attento a non svegliare la sorella.
Chawia tornò ad interessarsi a ciò che stava guardando e lasciò perdere la treccia.
Nehroi fissò la sorella per qualche istante, poi mise la mano in tasca ed estrasse il rilevatore scomparso durante la serata. «Ovvio», commentò la principessa con un sorrisino.
«E ora che vuoi fare?», domandò allo specchio con vibrante curiosità.
Il ragazzo si rigirò l’apparecchio tra le mani un paio di volte, osservandolo in controluce e confermando, ponendolo davanti al proprio viso, che funzionasse e non rivelasse nulla.
Poi lo indirizzò verso la sorella, tenendolo a debita distanza per non interferire con la misurazione.
All’interno del vetro del rilevatore non accadde nulla, rimase vuoto e limpido per almeno un minuto intero.
«Cosa ti aspettavi, tonto?», commentò la principessa mentre tornava a giocherellare con la treccia.
Poi Nehroi fece un balzo all’indietro e Chawia scattò con lui.
«Non è… possibile, no», balbettò spaventata.
Il disco di vetro si era riempito di un fumo viola che si era rapidamente scurito, fino a diventare di un colore che da secoli non si vedeva nei rilevatori di Ataklur…
Chawia era senza fiato, incredula e spiazzata come mai in vita sua. «Savannah è uno jiin nero.»








*°*°*°*


Buon Natale!! Ah no, aspetta... è appena passato -_-"
Per quello che vale, ho provato ad aggiornare prima come regalo da parte mia, mi è riuscito male e infatti arrivo adesso al 27/12 appena scoccato a mettere il capitolo sotto l'albero... ma a voi va bene lo stesso, vero? x3

Nelle recensioni ho notato che mi ponete molte domande e che avete confidato in questo capitolo per delle risposte... e invece vi dono altri interrogativi! Mwuahahahahahah!! =D Ma al prossimo capitolo giuro che ne tolgo alcuni! Giurin giuretta!

Alla prossima, dunque! Cerco di aggiornare prima di capodanno ma chissà... ^^"
Ciao!

Jingle Shark

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Capitolo 19
*** Una spanna sopra tutti ***


21
Una spanna sopra tutti



Nehroi non sapeva cosa pensare.
Il rilevatore nella sua mano poteva aver sbagliato? Aveva visto male lui a causa della notte?
Si avvicinò rapidamente alla finestra e scostò la tenda di poco, quanto bastava per illuminare il disco di vetro con i raggi lunari: il fumo che lo riempiva era inequivocabilmente nero, come la pece.
Le dita del brehkisth tremarono violentemente mentre il respiro accelerò come se avesse appena corso. Il fumo nero scomparve dal rilevatore, tornando trasparente come sempre in presenza di Nehroi.
Il ragazzo si stropicciò la faccia con l’altra mano e si sedette sul letto, cercando di non svegliare Savannah, posando lo strumento sulle lenzuola.
La sua mente era completamente paralizzata.
Era evidente che a cena aveva ingannato il rilevatore nascondendo completamente i suoi poteri, ma come aveva fatto? E soprattutto, perché?
Perché nascondere di essere aumentata di grado? Probabilmente le avrebbero chiesto come ci fosse riuscita, essendo un livello di magia che nessun jiin era riuscito a conquistare da molti secoli, se non addirittura dai tempi del Creatore. Voleva dunque evitare domande scomode? Poteva essere solo quello il motivo?
Nehroi pian piano riuscì ad arrivare ad una certezza: qualcosa era successo durante i mesi in cui era scomparsa sia da Ataklur sia da Mjoklur, qualcosa di grosso, e scoprirlo sarebbe stata la chiave per ottenere tutte le risposte di cui necessitava.
Si voltò verso la sorella: le iridi viola lo stavano fissando e splendevano nel buio come quelle di un felino.
«Annah! », esclamò Nehroi col cuore in gola. «Spiriti, mi hai fatto prendere un colpo… credevo stessi dormendo. »
La ragazza non si mosse, rimase rannicchiata in posizione fetale come se lui fosse stato lì al suo posto e lei gli fosse ancora stretta accanto.
«Ti sei mosso», disse solamente.
Nehroi sentì che nella sua voce c’era qualcosa di strano. «Mi hai… visto? »
Passò qualche istante di silenzio assoluto. «Sì», disse poi lei.
Il ragazzo rimase in attesa. Chiedere se avesse visto la scoperta del suo nuovo grado sarebbe stata un’ammissione volontaria, mentre parte di lui sperava di averla svegliata solo sedendosi sul letto, a rilevatore disattivato.
«Non farmi domande», sussurrò Savannah prevenendolo. «Ti prego, non posso risponderti.»
Nehroi corrugò la fronte e sentì il mondo sgretolarsi un altro po’. «Perché no, Annah? Cosa non puoi dirmi? … e non intendo “cosa” cioè esattamente quel che non puoi dirmi, ma in generale…»
La jiin si inumidì le labbra ed inspirò brevemente. «Quello che è successo dopo. È … troppo. Non posso.»
Si rotolò sulla schiena e distese gli arti con fare liberatorio. «Scusa se a cena ti ho mentito… non potevo mostrarlo a tutti.»
Nehroi scosse la testa e si allungò sul letto. Le prese la mano e la strinse fra le sue. «Annah, tu… mi puoi dire tutto. Quando vorrai, quando potrai. Prenditi tutto il tempo che ti serve, non voglio metterti fretta… ma sappi che non ti lascerò mai più, perché anche se non lo ricordi io sono tuo fratello e lo sarò sempre. Sempre.»
Quell’ultima parola la sussurrò mentre le baciava le dita, con commozione.
Savannah sentì gli occhi inumidirsi e si alzò in piedi, sciogliendo la presa di Nehroi. Si diresse verso la porta e sembrò indecisa su cosa fare, dondolò la testa e strinse i pugni.
Poi afferrò la maniglia. «Lo ricordo», disse.
Uscì dalla stanza e Nehroi giurò di averla sentita tirare su col naso.

Il corridoio era vuoto, ovviamente, come dovrebbe essere nel cuore della notte.
Savannah chiuse gentilmente la porta, si asciugò gli occhi e poi iniziò a camminare con la decisione di chi ha una meta precisa.
I suoi corti capelli neri dondolavano sul collo chiaro ad ogni passo che faceva, pizzicandole la pelle.
Arrivò di fronte ad un muro spoglio, senza alcuna decorazione o alcun utilizzo. Savannah posò le dita sottili sulla parete di marmo eburneo e una lieve luce verde venne sprigionata al contatto: il primo scalino delle scale segrete ed invisibili comparve ai suoi piedi. La jiin vi posò il piede sopra e gli altri scalini, a mano a mano che saliva, comparvero di fronte a lei.
Percorse due rampe intere in un ambiente completamente bianco e senza finestre o oggetti, poi la scala terminò con una luce calda ed un tappeto morbido.
«Immagino che avrei dovuto aspettarmelo», la accolse una voce familiare.
«Immagino di sì», rispose Savannah.
Lo sguardo di Chawia era pieno di astio e diffidenza. «Stai diventando un mistero sempre più fitto, Savannah Krajal.»
La ragazza si accomodò sul divano come se fosse stata invitata a farlo e mise i piedi sul tavolino basso, stropicciando qualche pergamena di Carta Chiacchiera ancora inutilizzata.
«Vuoi mettermi un rilevatore in faccia anche tu?», le domandò, poi rise. «Ah, no. Ci hai spiati, sai già tutto.»
Chawia si sentì presa alla sprovvista, ma cercò di non darlo a vedere. «E così te ne sei accorta>, si limitò a dire con voce piatta.
Savannah fece spallucce e sorrise. «Ops», si finse desolata.
La principessa accese con un gesto altre candele, illuminando maggiormente l’ufficio, e si avvicinò alla ragazza. Si sedette sul bordo opposto della scrivania, rivolta verso l’ospite, e la osservò come se la stesse vedendo per la prima volta.
«Hai finto tutto? », le domandò. «L’amnesia, l’apatia, l’agonia dei ricordi…»
«Troppe parole difficili, principessa! Ti ricordo che io non sono altro che un’orfana di Feinreth che non è andata molto a scuola», ridacchiò Savannah.
«Noto che l’arroganza è aumentata di pari passo con la magia», commentò Chawia senza smettere di fissarla. «Non credevo fosse possibile essere più insopportabile di quanto già fossi.»
«Sì, ho finto tutto», rispose invece Savannah, senza accorgersi di quel che aveva detto l’altra. «Ricordo ogni cosa ed ogni persona, non ho alcun blocco mentale o psicologico e sto alla grande.»
«Perché, allora?»
Savannah inclinò la testa su un lato e le sorrise come si sorride ad un bambino nello spiegare una cosa semplicissima. «Quale modo migliore per infiltrarsi se non essere invitati ad entrare? Soprattutto se sei docile, pacifica e vulnerabile…»
Chawia raddrizzò la schiena ed iniziò ad avere una spiacevole sensazione. «Infiltrarsi? Cosa vuoi da me?»
«Non mi leghi più ad una sedia con un migliaio di incantesimi per bloccarmi?», le domandò invece Savannah alzandosi dal divano. Si avvicinò alla finestra e guardò distrattamente fuori, senza realmente vedere il panorama di Eastreth. «Dev’essere dura, adesso che non sei più la jiin più potente tra le due…», disse quasi sovrappensiero.
Lo sguardo della principessa si assottigliò e diventò furente. «Ho ancora molti assi nella manica, stai tranquilla. »
Savannah annuì distrattamente e sfiorò la tenda con due dita, accarezzando il tessuto con aria assente.. «Certo, certo… »
«Quindi cos’è successo, hai scoperto le tue doti da attrice nell’aldilà?»
La ragazza strinse le labbra e le sue mani tremarono per un istante. Inspirò, dapprima a fatica, poi respirò con più calma recuperando i nervi saldi. «Cercavo solo di non essere sospetta», rispose molto dopo, «Vedi, se non ricordi nulla nessuno si aspetterà una risposta alle sue domande e, se insistono troppo, fingi una crisi e voilà! Fine del problema. Ha funzionato, come previsto, e mentre tu hai cercato di studiarmi per capire come potessi essere viva… mi hai dato tempo prezioso per girare indisturbata nel palazzo durante il “riposo”, ti ringrazio molto.»
Chawia iniziò ad agitarsi così tanto da non riuscire più a nasconderlo: le guance arrossate, le mani strette al bordo del tavolo fino a sbiancare le nocche, la postura rigida la tradivano irrimediabilmente. «Girare per il palazzo», ripeté sconcertata. «Cosa stavi cercando? E perché!»
Savannah tirò verso l’alto un angolo della bocca e continuò a non guardare la principessa direttamente, certa di averla paralizzata solamente mirando alla sua stabilità con poche e giuste parole. «Ho un messaggio per te», le disse.
Chawia sollevò un sopracciglio, sorpresa.
«Il mio Padrone mi ha chiesto di riferirti che se non interferirai con i suoi progetti, lui non interferirà con i tuoi.»
La donna ci mise qualche secondo ad elaborare la frase. Si soffermò dapprima sul messaggio, poi sul mittente. «Il tuo…»
«Hai sentito.»
Chawia si domandò se non fosse tutto un tremendo scherzo giocato dai Fein Anis. Era davvero possibile che Savannah fosse morta, tornata indietro e diventata uno jiin nero? La persona meno incline a fare ciò che le veniva suggerito, adesso eseguiva addirittura degli ordini?
«Sei stata controllata?», le domandò.
La ragazza scosse la testa e sembrò innervosirsi.
«Posseduta?», tentò ancora la principessa. Le opzioni possibili non erano moltissime, per giustificare un simile cambiamento, ma una di quelle che conosceva doveva pur essere. «Comprata? Marchiata?», proseguì rapida, cercando una reazione nella sua ospite che potesse tradire l’informazione corretta.
«Conosci tutti i metodi di manipolazione, che brava studentessa…», ironizzò Savannah con voce tetra. Non aveva avuto nessuna reazione particolare ad alcuna delle possibilità elencate da Chawia.
«Chi è il tuo padrone?», le domandò allora. «Come so che non sto interferendo nei suoi piani se non so chi è?»
Savannah si indicò la tempia con due dita e sorrise alla donna. «Sei molto sveglia, lo capirai da sola», le disse.
La principessa non si arrese e proseguì. «Posso aiutarti a liberarti, se uniamo le forze…»
Savannah si voltò di scatto e camminò ad ampie falcate verso la scala segreta. «Tu pensa a ricordare le sue parole, il resto non ti interessa», esclamò autoritaria un attimo prima di scomparire nella parete.

Chawia rimase immobile ancora per qualche istante, dopo che la ragazza scomparve nel muro del suo ufficio così come era arrivata. Ripensò a tutta la conversazione, alle scoperte, e si sentì mancare le forze.
Come era possibile che all’improvviso fosse comparsa ad Ataklur una jiin più potente di lei? E non una qualsiasi, ma proprio quella che le stava creando più problemi da ormai molti mesi.
Chawia crollò a terra e si sorprese a tremare. Il mondo era cambiato in un istante e, per la prima volta in vita sua, non era pronta ad affrontarlo.
Aveva esercitato i suoi poteri per tutta la vita, tanto da riuscire a guadagnare il livello più alto possibile, soprattutto a dispetto delle predisposizioni genetiche dovute a due genitori di scarse doti magiche. Era stato difficile, ma aveva raggiunto l’obbiettivo e, con esso, il titolo di Capo di Eastreth. Si era sempre sentita in una botte di ferro, intoccabile; inoltre era molto intelligente e i suoi studi l’avevano posta sempre un passo avanti agli altri, permettendole di essere la migliore anche tra i Capi.
E poi era arrivata Savannah, un’orfana senza arte né parte, jiin viola senza essersi sottoposta come lei a costanti allenamenti e senza neanche minimamente conoscere gli incantesimi e le magie più potenti. I Capi avevano intuito il potenziale che rappresentava la giovane e avevano cercato di girarla contro di lei, Chawia, la minaccia alla loro stabilità… ma era riuscita ad evitarlo. Poi Savannah era morta e la principessa aveva tirato un sospiro di sollievo; dopodiché il suo corpo era scomparso, Phil le aveva riferito che Nehroi sarebbe andato a riprenderla e la principessa aveva iniziato a perdere il sonno. Infine era ricomparsa, quell’enigmatica ragazza, e come se non fosse abbastanza… era diventata jiin nero.
Chawia tirò su la testa e smise di tremare.
“Sei molto sveglia”, le aveva detto.
“Sì”, si disse. “È vero”.
Sentì il suo cervello lavorare alacremente man mano che ripercorreva le vicende, trovando un nesso, un indizio che forse avrebbe portato un po’ di luce nel mosaico.
«Nero…», bisbigliò continuando a pensare ad alta voce.
C’era qualcos’altro nella sua memoria che veniva richiamato da quel dettaglio.
Non ci mise molto: quando arrivò a comprendere, i suoi occhi si spalancarono e il suo viso si illuminò. Alzò una mano verso la parte della libreria che conteneva l’archivio dei rapporti della regione e un paio di rotoli fluttuarono verso di lei rapidamente. Ne afferrò uno al volo, lasciando l’altro a depositarsi alle sue ginocchia da solo, e lo aprì voracemente.
«“In data odierna è stata rilevata la presenza di un casolare abbandonato agli abitanti sconosciuto, nella periferia nord, nei pressi della vecchia fabbrica di pentole. Pare che l’accesso sia vietato e ogni tentativo di rimozione è ostruito da una barriera di protezione. Gli abitanti mormorano che sia la casa dei demoni…”», lesse febbrilmente.
Gli altri Capi avevano ricevuto rapporti analoghi: mesi prima era comparsa la stessa identica casa in ogni regione e nessuno sapeva da dove fosse arrivata o perché fosse lì.
«Demoni… o’Shea…», ripeté Chawia con il cervello che lavorava a pieno ritmo.
Allungò un braccio sul tavolo e tirò giù sul pavimento alcuni dei tomi sui miti di Ataklur che aveva consultato nel pomeriggio. Li sfogliò in tutta fretta e poi si bloccò all’improvviso quando trovò ciò che cercava:
“Sin dai tempi del Creatore, la popolazione è stata a conoscenza degli o’Shea, creature potenti e maligne che si celavano in rifugi che nessuno poteva frequentare. Essi non erano celati o lontani dagli occhi, ma in piena vista nelle città per ricordare alle genti di ogni regione che la presenza del male non era distante. Esperti di mitologia sostengono che questi demoni, rinominati o’Shea, non fossero altro che la rappresentazione della controparte del Creatore, colui che plasmò Ataklur come posto ideale per tutti i jiin, e quindi maligni; essendo il Creatore solo un termine d’insieme per riferirsi a tutti i jiin neri che lavorarono alla costruzione del Regno magico, anche gli o’Shea sono plurimi e di pari potenza…”
Chawia si sentì i polmoni completamente svuotati e la stanchezza della giornata venne dissipata dal terrore che quelle righe le avevano gettato addosso.
«Savannah… è diventata una o’Shea?», esalò non del tutto certa. Continuò a ragionare, ignorando il mal di testa che le era venuto. «Ma no, impossibile… se lei è una o’Shea ed è una jiin nera… chi è così potente da essere il suo padrone?»








*°*°*°*


Ohibò, buon anno! Buona befana! Poco ci manca e vi auguravo anche buon carnevale in ritardo ^^"
Ma sono sempre qui, seppur piena di ritardi come sempre, ad aggiornare la storia e ad infilare nuovi dubbi nelle vostre testoline! Spero siate riusciti tutti a seguire il ragionamento di Chawia e a non capire nulla dei piani di Savannah... anche se dovreste avere un indizio in più rispetto alla principessa per rispondere alla sua domanda ahah :P

Grazie a chi mi segue ancora e recensisce! <3

Alla prossima, prometto tempi più rapidi!
Ciao!

Shark

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Capitolo 20
*** Sensazioni ***


22
Sensazioni


Savannah sbucò nel corridoio dal quale aveva acceduto di nascosto all’ufficio privato della principessa. Si guardò attorno, certa di aver sentito un rumore di passi in lontananza, poi fece spallucce e si avviò nella direzione opposta rispetto alla sua stanza, scendendo delle scale meno lucide e curate delle altre del palazzo. Arrivò nel piano sotterraneo e ad accoglierla c’era un lieve rumore di acqua corrente e di piatti appoggiati. Savannah si avvicinò alle cucine con passo leggero e si appoggiò al muro, poco prima della porta. Chiuse una mano a pugno, poi la riaprì e liberò dal palmo una mosca bianca. L’insetto volò rapido dentro la cucina ed ispezionò ogni cosa e persona presenti.
Quando tornò, Savannah la ripose nella mano e strinse le dita, assorbendo le informazioni ricavate. Sfiorò il muro con l’altra mano e una sottile barriera sonora si estese lungo tutto il perimetro della cucina, coprendola come una tenda.
«Maille», disse entrando nella cucina.
Una donna sulla quarantina, dal viso stanco e con i capelli mal raccolti in una retina, la guardò con astio dal lavandino.
«Tutta sola, per di più», aggiunse Savannah avvicinandosi.
«I miei ossequi», disse sprezzante l’altra con una smorfia. «Signora Heebrit.»
Savannah la fissò ardentemente e con occhi bui. «Non. Chiamarmi. Così», sibilò.
Maille fece un’altra smorfia e le diede le spalle. «O cosa?», la provocò.
Continuò ad asciugare col grembiule il piatto che aveva stava lavando, poi però le venne a mancare l’aria e lo appoggiò al bancone per portarsi le mani al collo. Boccheggiò sotto lo sguardo fermo della jiin, ancora rancoroso e ferito. Un lieve dolore le sfiorò la gola, ombra di quello che stava infliggendo alla sguattera.
Dopo pochi secondi la lasciò andare e Maille tossicchiò un po’ di volte. «Questi giochetti inutili», commentò tra un colpo e l’altro.
«Tu sei una di quelle che desidererei non fosse alla nostra corte».
«È reciproco, tranquilla».
Maille riprese in mano il piatto e proseguì quello che stava facendo con naturalezza. «Sono molto occupata, come vedi… puoi levarti di torno?», disse alla jiin con altezzosità.
Savannah si guardò attorno ed esaminò i piatti della cena di quella sera. «Dev’essere una rottura quando ci sono ospiti… che peccato che il Padrone ti abbia vietato di usare i poteri e che tutte le altre sguattere siano infortunate».
Il piatto venne appoggiato con troppa forza sulla pila di quelli puliti e Maille socchiuse gli occhi per un istante, paziente. «E per entrambe le cose devo ringraziare te», commentò con falsa ironia. «Grazie di cuore».
«Di nulla», rispose Savannah. «Il Padrone ti avrebbe mandata a Kyureth se non gli avessi chiesto di infiltrarci entrambe qui. Pensa ad Arrig, laggiù tutto solo… Silar lo scoprirà subito».
«Tanto non può ucciderlo», bofonchiò Maille afferrando un altro piatto. Aprì il rubinetto e l’acqua riprese a fluire tiepida sulle sue dita.
Savannah non disse nulla e continuò a fissare i piatti, senza vederli realmente.
«Prima o poi verrai rilasciata dal marchio, tranquilla», le disse poi con voce atona.
«Di questo devo ringraziarti davvero, nuova pupilla del Padrone. Finché Heebrit avrà te, potrà non aver bisogno di noialtri.»
Savannah strinse le labbra. «Godi a ricordarmelo sempre, vero?»
Maille sorrise. «Sì, è divertente.»
«Allora mi divertirò anch’io quando quel momento arriverà», le rispose altrettanto sorridente Savannah. Maille si paralizzò per un attimo, basita, immaginando la sua libertà, bramata da ormai dieci anni, sette mesi e undici giorni, troncata a pochi minuti dal suo ottenimento dalla ragazzina alle sue spalle.
Gli occhi le si fecero umidi sopraffatti da rimpianti infiniti. «All’inizio non eri così, sei cambiata… quel demonio ha avuto troppa influenza su di te», mugugnò mentre riprendeva a scrostare con forza residui di cibo con una spazzolina.
«Capita.»
«Perché sei qui? Ho sentito che tra chi è arrivato oggi c’è pure tuo fratello. Non dovresti passare del tempo con lui? Heebrit ha…»
«So cosa mi ha detto il Padrone, grazie» tagliò rapida la jiin. Si sedette con un piccolo saltello sul bancone vicino ai fornelli in pietra levigata ed accavallò le gambe. «Nehroi si è piantato nella mia stanza con tutte le intenzioni di restare e mi sta probabilmente aspettando sveglia. È stressante mentire a tutti e recitare la parte in continuazione… ah, ho appena recapitato a Chawia il messaggio.»
Maille si voltò e la guardò con un’espressione implorante. «Oh!», esclamò solamente. Aveva pregato in tutti i modi il padrone di dare a lei quel compito, ma lui aveva deciso diversamente. «Che avrei dato per vedere la sua faccia…»
«Effettivamente era impagabile» confermò Savannah con un sorrisetto compiaciuto.
Un bruciore lancinante la colpì violentemente al petto, come se i polmoni le si stessero ustionando all’improvviso. Savannah si accartocciò sul bancone premendo con forza le mani sul cuore mentre sudava sempre di più e il respiro iniziava a mancarle.
Maille fece appena in tempo a voltarsi verso di lei al primo gemito di dolore che la stessa sensazione la colpì a sua volta, sebbene con intensità minore. Si portò anche lei le mani al petto ed iniziò a sentirsi debole ed appesantita, mentre le smorfie le rugavano il volto.
«Non…», gemette Savannah mentre cercava di restare lucida e di resistere. «Non viene da un solo membro della corte, possibile che… ne abbiano colpiti tanti tutti assieme?», disse a fatica.
Maille si accasciò sul pavimento gelido, trovandolo confortante in quel momento rovente.
Savannah strinse i denti e saltò giù dal bancone, barcollando appena. «No, dev’essere vicino…», mormorò.
Si udì dalla strada un vociare sempre più acceso, unito a passi frenetici e a campane che rintoccavano in maniera poderosa un allarme. Qualcuno urlò di un incendio in periferia…
Savannah imprecò. «È qui! La casa ad Eastreth!»
Maille spalancò gli occhi. «Chawia è una persona saggia, non avrebbe mai fatto una cosa del genere!»
«Sei tu l’infiltrata nella servitù, non hai sentito nessuna voce contro le dimore degli o’Shea?»
La donna scosse la testa, terrorizzata.
«Maledizione! Era il tuo compito!», ringhiò Savannah. Il dolore iniziò ad affievolirsi, probabilmente qualcuno stava spegnendo l’incendio.
Maille si rialzò in piedi, ancora scossa. «Vado alla dimora!», annunciò un istante prima di scappare fuori dalla cucina come un fulmine. La retina per capelli le scivolò via e cadde a terra mentre Savannah ancora si stava riprendendo. Il marchio sulla sua clavicola destra le doleva da impazzire e comprese la volontà del Padrone: “non seguirla”.
Si erse per tutto il suo metro e sessantacinque ed inspirò sollevata. Per quanto quella potesse essere stata solamente una sensazione, percepire la propria carne bruciarsi dall’interno e non poter fare nulla per impedirlo l’aveva provata non poco. Il legame di marchiatura con l’intera corte del Padrone e con le dimore demoniache era qualcosa che ormai comprendeva bene, ma a cui probabilmente non si sarebbe mai abituata. Non essere padrona delle proprie sensazioni era forse la cosa che le dava più fastidio di tutta quella situazione.
Camminò verso l’ingresso con recuperata nonchalance, soffermandosi un secondo sull’uscio della cucina. Guardò indietro e vide ancora le pile di piatti e pentole sporche che Maille si sarebbe ritrovata a dover pulire dopo aver controllato se la dimora fosse stata ancora in piedi.
«Mi devi un favore», sussurrò Savannah lasciando defluire un po’ di magia fuori dalle sue dita.
Quando chiuse la porta, ogni piatto, pentola, mestolo e posata era così lucida da potercisi specchiare.

Savannah tornò nella sua stanza, aprendo lentamente la porta per non svegliare il fratello.
Nehroi però era ancora seduto a gambe incrociate sul letto ad aspettarla, come previsto. «Sei tornata», esclamò con un sorriso. Dalla tenda filtrava un po’ di luce lunare che rendeva la stanza bellissima e la figura del fratello molto scura; nonostante quelle condizioni, il suo volto sembrava luminoso.
Savannah si sentì orribile e gli sorrise di rimando. Si sedette accanto a lui sul letto e lo fissò dritto negli occhi verdi. «Certo che sono tornata», disse.
Nehroi annuì e fece un respiro liberatorio, rilassando le spalle dalla tensione che lo aveva catturato da quando la schiena della sorella era sparita oltre la porta.
Savannah lo osservò attentamente. «Temevi che me ne fossi andata?», domandò incuriosita.
Nehroi si grattò la nuca e ridacchiò imbarazzato. «Che ti posso dire… dopo mesi ti ritrovo nell’ultimo posto in cui ti avrei mai immaginata, prima non ricordi neanche me e sei senza poteri e adesso ricordi tutto e sei jiin nero… non so più cosa pensare. Puoi biasimarmi?»
La ragazza abbassò lo sguardo. «Direi di no», rispose abbattuta. «Scusa.»
«Inoltre c’è appena stato un gran casino qua fuori, ho sentito qualcuno urlare all’incendio…», proseguì lui corrucciato.
Savannah si morse un labbro e pensò in fretta. Avrebbe dovuto dargli qualche informazione?
«Non so che dirti, dal bagno ho sentito solo un po’ di vociare ma qui capita spesso», mentì facendo spallucce.
Nehroi la fissò per un istante, poi annuì poco convinto. «In bagno… per più di mezz’ora. »
Savannah ridacchiò. «Vuoi sapere i dettagli?», scherzò.
Il fratello ci mise un secondo di troppo a ridere di rimando e quell’esitazione la ferì più della sensazione di poco prima.
Gli prese la mano e la soppesò, stringendola un poco. «Neh, dobbiamo andare», disse.
La sua voce era un miscuglio di tonalità che al ragazzo sembrò indecifrabile, come tutto il mistero che aleggiava attorno alla sorella. Sembrava preoccupata ma anche ansiosa e pacata, imperativa ma dolce. Nehroi non riuscì a comprendere alla perfezione cosa fosse nascosto dietro quella richiesta, così finse di non averla analizzata affatto. «Dove?», domandò solamente.
«Haffireth.»
«Scherzi? C’ero fino a stamattina!»
«Eri lì per la missione?»
Nehroi non si aspettava quella domanda e rimase perplesso per un secondo. In quell’istante, ogni dubbio sulla sorella sembrava avere meno senso. «La missione?», ripeté imbambolato.
Savannah inclinò la testa da un lato, perplessa a sua volta. «Ma certo. Avevamo trovato lì il punto migliore per rompere la tu-sai-cosa, no?», domandò.
Nehroi annuì come in trance. «Certo, è solo che… insomma, non credevo volessi riprenderla subito! Sei appena tornata, magari volevi…»
«Sono pienamente in forma, non mi serve la convalescenza!», lo tranquillizzò lei mostrando gli scarsi muscoli delle braccia con fare da body builder.
Nehroi sorrise guardando quella scenetta. «Oh, lo vedo. Devi aver passato in palestra otto ore al giorno tutti i giorni negli ultimi tempi!»
Savannah ridacchiò, pensando agli estenuanti combattimenti magici a cui era stata sottoposta per mesi per allenare ed essere allenata, poi si grattò la nuca. Sembrava imbarazzata.
«Non hai idea di quanto sia importante riuscire nell’impresa… e poi adesso c’è Lorwaar», aggiunse.
Nehroi annuì fiero. «Già. Siamo al completo. »
La sorella, però, non sembrava esattamente contenta. Anzi, era decisamente inquieta. «Come lo hai ripreso? Vedàsio?»
Nehroi le raccontò tutto, omettendo le settimane di depressione tra gli umani, le continue litigate con Phil, il suo disagio nel gruppo, la punta di freccia. Il resto lo raccontò per filo e per segno, stupendosi nel vedere la curiosità sul volto di Savannah quando descriveva Mjoklur, con la sua cattedrale agli spiriti e le anime tormentate dai rimpianti tra gli scogli. Le raccontò di quanti ricordi avesse sfogliato per cercare di attrarla a sé, osservando i suoi occhi inumidirsi. «Mi dispiace», la sentì sussurrare.
Nehroi poi sollevò le maniche e le mostrò le scritte che gli erano comparse sulle braccia, dal polso fino a metà avambraccio, come conseguenza del patto per condividere il suo tempo con Lorwaar per riportarlo indietro e Savannah le guardò avidamente, come se dovesse imparare ogni segno a memoria.
«Quando siamo usciti dalla buca eravamo entrambi corporei e questo è tutto», concluse infine.
Savannah corrucciò la fronte, pensierosa, e grazie alla luce della luna che le illuminava di bianco pallido il volto, Nehroi ricordò un altro dettaglio del viaggio nel Regno dei Morti.
«Ah, ora che mi viene in mente… ho incontrato un’anima, all’inizio. Mi è venuta incontro subito, ma non so perché.»
La ragazza lo fissò incuriosita. «Chi?»
«Era una donna, molto bella, e… adesso ti suonerà stupido, ti avverto, ma credo fosse la mamma», confessò.
Savannah schiuse le labbra, colpita nel profondo. «Tu…»
«Era solo una mia ipotesi, però ci penso da quando l’ho vista. E adesso che tu mi sei davanti… hai molto di lei. Sì, era la mamma.»
La jiin si portò le mani al volto, stropicciandoselo, come se volesse risvegliarsi da un brutto sogno. «Ha detto qualcosa? Altri indizi? Insomma, poteva essere chiunque, no?», tentò. L’incredulità era fin troppo evidente nelle iridi viola.
Nehroi le accarezzò una guancia. «No, vedi…», arrossì un poco. «Credo che stesse cercando papà… e che mi avesse scambiato per lui», le disse sicuro.
Savannah sussultò. «No», mormorò. Gli occhi le si stavano inumidendo.
Il fratello sembrava nella stessa condizione. «Mi ha detto che gli somigliavo…»
Una lacrima bagnò la guancia della ragazza. «Neh, smettila, smettila…»
«So che non ti piace che parliamo di noi, ma sono settimane che me lo tengo dentro e… Annah, per quale altro motivo si sarebbe sentita attratta da me? Era la mamma, ne sono certo!»
«Smettila, ti prego…»
«Ma tu non sei stata a Mjoklur, giusto?», la voce di Nehroi cambiò improvvisamente. Diventò grave, pesante. Savannah si sentì urtata da quel cambio, l’emozione si dissipò in fretta. Lo guardò in cagnesco. «Avevi detto che avresti aspettato», sibilò ferita.
Nehroi fece spallucce. «E tu che non ricordavi nulla. Comunque… sto solo raccogliendo un indizio. Mentre ti raccontavo di Lorwaar ho avuto l’impressione che fossi stato più tempo io laggiù che te. Tutto qui. »
Si sdraiò sul letto e le indicò il suo cuscino. Savannah si distese ma rimase in tensione e non gli si accoccolò accanto come al solito. Fissò il soffitto per un po’, chiedendosi come avesse potuto pensare che Nehroi potesse essere così tanto sprovveduto da crederle senza riserve.
Si voltò dandogli le spalle e si maledisse per avergli confessato la menzogna dei ricordi perduti, solo per provare per qualche minuto la gioia di essere di nuovo sua sorella.








*°*°*°*


Ci ho messo una vita, scusatemi infinitamente, ma ero stra indecisa se mettere prima questo o prima il capitolo successivo, che conterrà un flashback muy interessante sugli ultimi tempi di Savannah... bisogna fare un po' di chiarezza, no? ^^

Appuntamento alla prossima puntata! Ciao!

Shark

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Capitolo 21
*** Al Castello ***


23
Al Castello


Attraverso il vetro spesso della piccola finestra che dava sul cortile, Savannah osservava le decine di persone che si erano radunate ai cancelli del castello del Padrone. Si erano ordinati in una fila precisa, aspettando diligentemente il proprio turno, certi che sarebbero stati ricevuti.
Accanto a lei, appoggiata al muro, c’era la sua compagna di stanza e sorvegliante, Maille Geat.
«Incredibile quanta gente venga a rivolgersi al demonio», aveva borbottato mentre un uomo attraversava tutto impettito e contento il cortile, per poi sparire oltre il portone d’ingresso.
«Di propria volontà, tra l’altro», aveva aggiunto Savannah.
Maille le aveva scoccato un’occhiataccia di disapprovazione. «Fossi in te non mi lamenterei. »
Savannah l’aveva guardata con un’espressione indecifrabile ma serena. «Non lo sto facendo», aveva detto. «Sono davvero grata a Heebrit per quello che mi ha concesso, ma quei tizi laggiù…»
Aveva interrotto la frase ed aveva iniziato a fissare la compagna, distratta da un battibecco nella coda di persone.
Maille era una donna matura, una di quelle che potrebbe aver già messo al mondo almeno tre figli. I suoi capelli erano ricci e castani, una tonalità così chiara da essere bionda in alcune ciocche, e li teneva sempre raccolti in chignon impeccabili, mai scomposti, che Savannah invidiava.
I suoi capelli, invece, da sempre neri come la notte e folti come una criniera, erano stati tranciati dal coltello di qualche orribile og e da allora non erano mai più ricresciuti, neanche di un millimetro, neanche con la magia.
«Vestiti, andiamo giù», aveva detto la donna interrompendo i pensieri della giovane jiin. «Vediamo chi entrerà a far parte della corte.»
Savannah indossava solamente la parte superiore della divisa nera che il Padrone voleva vederle addosso sempre, tranne quando esplicitamente richiesto, e le sue gambe asciutte erano rimaste svestite da quando si era svegliata, durante tutta la mattinata di straordinario riposo.
Scostatasi dal muro e dalla finestrella, aveva afferrato ed indossato subito i pantaloni, diventati neri al tocco, lisciando la stoffa con le dita in prossimità delle tasche. Maille ne indossava una identica, dalle rifiniture ai bottoni bianchi, ma la stoffa era blu.
Le due donne erano scese dal quinto piano in cui alloggiavano fino al primo piano, dove c’era l’enorme ufficio del Padrone e dove, in quel momento, si stavano svolgendo i colloqui e le selezioni della folla che era giunta al castello da tutta Ataklur.
Attorno a loro, mentre camminavano, la corte del Padrone le salutava con riverenza e chinava il capo. Uomini, donne, anziani, che fossero cuochi, consiglieri, guardie o giardinieri: nessuno ignorava il loro passaggio.
Maille e Savannah, però, non se ne curavano.
Avevano varcato la soglia del salotto privato del Padrone senza guardare in faccia nessuno, per poi attraversarlo e raggiungere l’ufficio.
«Entrate», aveva detto loro il Padrone ancor prima che avessero bussato.
Maille aveva aperto la porta senza indugio, completamente a suo agio tanto in quel luogo quanto nella sua divisa, e si era posizionata subito accanto al Padrone, sulla sinistra. Nessuna espressione sul volto, nessuna parola ai presenti se non un saluto rispettoso verso l’uomo al suo fianco.
Savannah, invece, sebbene abitasse in quel luogo da più di un mese, ancora non si sentiva degna di tali libertà ed aveva piegato la testa ed il busto in un profondo inchino verso il giovane ed enigmatico uomo coi capelli bianchi.
«Reggeresti in mano questa sfera?», stava chiedendo lui ad un ragazzino indicando un oggetto sulla scrivania. Sembrava essersi a malapena accorto delle donne in divisa.
Il ragazzino avrò avuto al massimo diciotto anni, secondo Savannah, e quella strana richiesta sembrava averlo sorpreso. «Solo… prenderla?», aveva chiesto dubbioso.
Il Padrone aveva annuito, paziente e sornione.
Il ragazzino aveva allungato la mano verso l’oggetto, una sfera di cristallo trasparente e bellissima, senza imperfezioni di nessun tipo, e l’aveva stretta con le dita nodose. Aveva provato a sollevarla, ma sembrava pesare troppo per lui. Anche aiutandosi con l’altra mano non riusciva a smuoverla di un millimetro.
«È tutto», aveva detto il Padrone in un sospiro.
Il ragazzino aveva spalancato gli occhi terrorizzato. «Non…?»
«No», gli aveva risposto. «Sparisci.»
Il candidato si era abbattuto come se gli avessero comunicato un lutto. Aveva chinato il capo in un inchino, provando ad elogiare il Padrone, ma lui lo aveva scacciato come una mosca, spostandolo con la magia fino alla porta. Lì, il ragazzino aveva visto Savannah. «Tu…», aveva balbettato riconoscendola. «Tu non eri all’orfanotrofio di Feinreth?»
Savannah lo aveva guardato con indifferenza, come se non lo vedesse reallmente. «E tu sei troppo debole per la corte.»
Quando la porta si era chiusa dietro di lui, la jiin aveva sentito un familiare bruciore sulla scapola destra. Si era voltata: il Padrone la stava fissando e il suo sguardo diceva molte cose.
Savannah aveva annuito e si era congedata subito. Aveva seguito il ragazzino e, prima che avesse potuto uscire nel cortile principale, di fronte agli altri in coda, lo aveva afferrato per un braccio e trascinato in una piccola stanza in cui stava lavorando solamente una domestica. «Vattene», le aveva detto. Lei era uscita all’istante.
Il ragazzino aveva guardato Savannah spaesato e spaventato. «Che succede?», aveva chiesto con gli occhi sgranati.
«Mi spiace», aveva detto lei. La mano destra sollevata nella sua direzione, come se volesse prendergli il collo a distanza. I suoi occhi viola erano così scuri da sembrare neri ma sul volto aveva un’espressione davvero provata. «Mi spiace davvero. Non avresti dovuto riconoscermi… Ataklur non deve ancora sapere che sono viva.»
La magia fluì dalle dita non appena l’immagine di quel che avrebbe dovuto fare si era visualizzata nella sua testa. Il ragazzino aveva annaspato, boccheggiato, roteato gli occhi all’indietro; infine, aveva smesso di dimenarsi e Savannah lo aveva lasciato cadere inerme in un tonfo.
Uscita, la cameriera era poco distante dalla porta. «Sbarazzatene», le aveva ordinato prima di tornare nell’ufficio del Padrone.
Lì era sotto esame un’altra persona, un uomo alto e grosso, pelato e un po’ puzzolente.
«Voglio servire, signore», stava dicendo. «Ero un membro delle guardie di Lagireth, ma sono nato a Bastreth. Mi sono arruolato laggiù perché speravo in un po’ d’azione ma sono rimasto deluso.»
Il Padrone aveva alzato un sopracciglio ma non si era mosso oltre. «Azione… ai confini dimenticati del mondo?»
Lo stava guardando interessato dalla sua poltrona di pelle scarlatta, tutto rilassato nella sua divisa identica a quella che indossavano Maille e Savannah, ma bianca con rifiniture e bottoni argentei.
I capelli bianchi e lunghi, erano raccolti in un codino laterale che cadeva morbido sulla spalla, come se la stesse accarezzando. Il viso giovanile e gli occhi vispi e neri erano una calamita per chiunque e Savannah stessa si era sorpresa molte volte persa nella loro contemplazione, sebbene fosse conscia che buona parte dell’attrazione che provava nei suoi confronti era dovuta alla marchiatura e, per la restante parte, alla gratitudine ed al rispetto che avrebbe avuto comunque, date le circostanze ad Ogklur.
«Speravo che il Capo Hartis, con le sue numerose dichiarazioni di guerra agli altri Capi, volesse prima o poi fare sul serio.»
«Nessuno ha mai preso sul serio quella pazza, a parte il popolo delle Alte Montagne. Ti saresti dovuto far trasferire ad Eastreth, adesso è lì che il gioco si fa duro.»
“Il Padrone lo sta prendendo in considerazione ed in simpatia”, pensava la giovane jiin dal fondo dell’ufficio, in piedi accanto alla libreria in legno massiccio. “Scommetto che quest’uomo lo teniamo.”
«Reggeresti in mano questa sfera?», aveva chiesto poi alla ex guardia.
L’uomo non si era fatto scrupoli ed aveva allungato la grossa mano tozza verso l’oggetto.
“Il Padrone lo usa come test”, aveva spiegato Maille a Savannah il primo giorno in cui le era stato concesso di presiedere alle selezioni. “Quella è solamente una sfera fatta dello stesso vetro che si usa nei rilevatori di magia, ma la gente non lo immagina perché si aspetterebbe il solito disco. Inciso sopra la superficie, a caratteri minuscoli e di solito verso il lato del tavolo, c’è un incantesimo che impedisce a chi è debole e poco motivato di sollevarla. Quando chiede di prenderla in mano, a prescindere dalle risposte false alle domande di convenevoli, lui capisce chi è degno di entrare nella corte.”
“Ma io non l’ho mai toccata”, aveva replicato Savannah. “A me non ha mai fatto quel test…”
Maille l’aveva guardata male per un attimo, forse invidiosa o colpita, poi la sua espressione era tornata normale. “Forse è per l’altra cosa. Quando una persona solleva la sfera, questa rimane trasparente e non si vede nulla, ma il Padrone sì. Nessuno sa con esattezza cosa riesca a vedere, se solamente il grado magico o l’anima intera, e quando decreta l’idoneità o meno di qualcuno ad entrare nella corte, solo lui ne conosce il motivo. Forse… forse questo potere non dipende dalla sfera e lui l’ha usato con te direttamente?”
L’uomo aveva sollevato la sfera senza problemi, stringendola nella mano come una grossa biglia pronta per essere lanciata sulla sabbia. «E adesso?», aveva chiesto mentre ne osservava la bellezza. Gli occhi del Padrone erano gemme nere incastonate in un viso eburneo e fissavano l’uomo con vivo interesse. «Adesso», aveva detto dopo un po’, «Puoi rimetterla giù. Come ti chiami?»
«Haich Brumenop.»
«Benvenuto nella corte, Haich.»
Il suo sorriso era a dir poco diabolico mentre lo diceva e Savannah provava sempre un brivido nel vederlo.
«Maille ti accompagnerà nella Sala Iniziale», aveva detto poi, congedando tutti i presenti ed alzandosi dalla poltrona. Maille lo aveva guardato ferita nell’orgoglio e anche Savannah rimase sorpresa da quel cambio di programma, pronta ad accompagnare l’uomo come aveva sempre fatto.
Nessuno, però, osava replicare agli ordini del Padrone. Maille aveva stretto le labbra, ingoiato la lamentela ed attraversato l’ufficio con il nuovo membro della corte al seguito.
A porta chiusa, erano rimasti solo Savannah ed il Padrone.
«Guarda», le aveva detto mentre si voltava a contemplare il cortile dall’ampia vetrata che riempiva un’intera parete.
Savannah si era avvicinata quasi correndo. Sul tavolo c’era una copia di AtaNotizie, un quotidiano non ufficiale che quando veniva distribuito nelle regioni veniva prontamente sequestrato dalle autorità perché le notizie che riportava erano troppo grezze e non approvate dai Capi.
La ragazza si era stupita molto nel vedere un giornale del genere tra le importanti carte del Padrone. «Questo?», aveva chiesto.
L’uomo non si era neanche degnato di risponderle, così lei lo aveva sollevato e spiegato, lasciandosi colpire dalle parole della prima pagina.

ATAKLUR SPACCATA
Prima era solo il palazzo di Tolakireth ad essere distrutto, ora lo sono anche i Capi e le popolazioni. Tra chi sostiene la monarchia capeggiata dal Capo di Eastreth, Mief Chawia, con lo slogan “Uniti nella stabilità” e chi continua a sostenere il Consiglio dei Capi e la loro capacità di mantenere la pace da oltre un secolo, la tensione è altissima.
La propaganda per convincere la popolazione continua ferrea, mentre i confini tra le regioni si cancellano sempre più man mano che la gente si sposta per unirsi a questa o a quella fazione.
Anche le guardie non rispettano più la lealtà verso il Capo della propria regione: da quando Aner Nekkis, capo delle guardie, è scomparso nessuno sa più a chi rivolgersi ed ogni soldato sceglie da sé, trasferendosi autonomamente dove preferisce servire. L’affluenza di guardie a Tolakireth e ad Eastreth, pronti a giurare fedeltà ad una delle due parti in conflitto, è immensa se paragonata alla quantità di uomini rimasti nei propri territori. Una gioia per ladri e lestofanti: infatti, questi scombussolamenti non fanno altro che portare alle stelle la criminalità in ogni città.

Nella colonna di destra c’era un altro articolo, un trafiletto che rimandava alle pagine interne. Parlava delle dimissioni del Capo di Haffireth, Kaloi Goon, e faceva il resoconto dei motivi di tale scelta.
Nella colonna di sinistra, invece, c’era un altro articolo interessante e gli occhi di Savannah lo lessero avidamente.

DIMORE DEMONIACHE – Lo sono davvero?
Da qualche settimana in tutte le città è comparsa una casa, identica alle altre ed ugualmente vuota. Alcuni abitanti le hanno rinominate le “Dimore degli o’Shea” ma, di demoniaco, hanno solamente la loro apparenza fatiscente a causa dell’evidente stato di abbandono in cui si trovano. La tesi degli o’Shea è stata avvalorata, oltre che da alcune credenze e miti, dai rilevatori: posti di fronte ad esse, questi si riempiono sempre di un vivido e spaventoso colore nero. Ma chi le ha costruite? Perché? E, soprattutto, perché sempre più gente scompare dalle città da quando sono comparse? Anche in questo caso le spiegazioni della gente non mancano: oltre alla classica morte da maledizione che va per la maggiore, molti sostengono che queste persone vadano in cerca degli o’Shea per unirsi alla loro fazione e ribaltare completamente la Ataklur che conosciamo.
“Fesserie”, ha dichiarato di recente l’autoproclamatasi Principessa Chawia, “Gli o’Shea non esistono e, se anche esistessero, di certo non se ne starebbero nascosti ma agirebbero per distruggerci, tanto quanto sto facendo io per il bene della popolazione.”
“Qualunque cosa celino”, ha ribattuto il Capo Gerit, dal suo palazzo a Kyureth, “I Capi uniti possono sconfiggerlo, come hanno sconfitto ogni minaccia che ad Ataklur dalla notte dei tempi”.


«Sul retro», aveva detto il Padrone distogliendo la ragazza dalla lettura, accompagnando le parole con il gesto di un dito che ruota.
Savannah aveva girato il giornale e ciò che aveva visto l’aveva colpita come uno schiaffo: per più di metà pagina c’era Nehroi, in una grande foto vecchia di qualche anno. Nonostante lì fosse più giovane di come lo ricordasse, con i ricci più ribelli e lo sguardo meno maturo, vederlo all’improvviso aveva provocato un forte tremore nelle mani della jiin. Il suo respiro era diventato irregolare per un po’, man mano che si perdeva in quell’immagine come se la stesse bevendo e ne andasse della sua vita.
«Cos’ha di pericoloso tuo fratello?», le stava chiedendo l’uomo distraendola ancora una volta.
Savannah non si era accorta del resto della pagina.
RICERCATO
Per numerosi crimini contro i Capi e le Regioni.
Vivo o morto.
Ricompensa: una Stella d’oro.
(qualunque informazione utile sarà opportunamente ricompensata)

«Con una Stella d’oro una famiglia di brehmist vive senza problemi per almeno due generazioni, cosa ha fatto di tanto grave per valere tanto?»
Savannah non aveva risposto. Sentiva gli occhi inumidirsi al pensiero di non poter essere là fuori a proteggerlo.
«Di solito c’eravamo entrambi su questa pagina dei giornali», aveva risposto dopo poco, riprendendosi del tutto. «Quello che ha fatto lui è quello che ho fatto io, ma adesso non possono più darmi la caccia.»
«Scempiaggini che, se fossi stata già marchiata, ti avrei impedito di fare», aveva commentato il Padrone. «Mi servivano Tolakireth in piedi, i Capi uniti e nessuna guerra interna alle regioni. Hai portato il caos, Savannah, nella maniera più inutile e controproducente del mondo.»
Vedere il fratello come unico ricercato di tutta Ataklur le aveva fatto venire voglia di scappare ed andare a cercarlo, per aiutarlo a non sopportare da solo il peso delle azioni che avevano commesso assieme, per proteggerlo, confortarlo…
«Mi dispiace», aveva detto poi, appoggiando il giornale sul tavolo. Non avrebbe mai potuto disobbedire al Padrone, mai.
«Mi hai detto che era un brehmist… quindi perché ricercarlo tanto? Cos’ha di pericoloso?», aveva ripetuto il Padrone, intento a fissare la gente in attesa fuori dai cancelli o la distesa di terreno vergine che circondava il castello.
«Lui…»
Savannah aveva evitato di parlare troppo di Nehroi durante il periodo di cura a cui il Padrone l’aveva sottoposta dopo Ogklur. Non appena avevano lasciato quell’isola di fango, falsa vita e morte, la nebbia che le offuscava la memoria si era dissolta e Savannah aveva ricordato tutto. Era stato come tornare in vita un’altra volta, per davvero. Ogni nome, ogni volto, ogni luogo, ogni momento della sua vita era tornato al proprio posto, nitido e preciso come era sempre stato. Quando il Padrone le chiedeva dettagli della sua vita, però, lei cercava sempre di restare sul vago, come se sentisse di non doversi mettere completamente a nudo di fronte a lui.
Un forte bruciore sulla spalla, laddove era stata marchiata, la stava spingendo a vuotare il sacco e rinunciare alle distanze tanto difficilmente mantenute.
«In realtà è stato maledetto, è un brehkist. Ha il potere di respingere la magia, ne è completamente immune e tutto ciò che c’è di magico attorno a lui ne risente. Se è un oggetto smette di funzionare o lo fa in maniera sbagliata e se invece è una persona… soffre in quantità proporzionale alla magia che possiede».
Il Padrone si era voltato verso di lei con interesse. «Tu hai sempre vissuto con lui».
«Sì, esatto».
«Come hai resistito?»
«Ho imparato, è stato un… allenamento costante. Poi ho scoperto come sigillare la sua maledizione e negli ultimi anni non è più stato un problema».
L’uomo aveva sorriso soddisfatto e le si era avvicinato. Con una mano le aveva afferrato un braccio, con l’altra le aveva sollevato il viso. «Non passa giorno che tu non diventi sempre un po’ più utile, Savannah.»
Poi si era chinato e l’aveva lentamente baciata sulle labbra.
Anche sul viso della ragazza si era formato un sorriso. «È il mio dovere e piacere, Heebrit», aveva risposto fiera.

Nella Sala Iniziale c’erano solamente tre persone: Maille, un uomo sulla sessantina e Haich Brumenop.
«Benvenuto al test pratico», gli aveva detto il vecchio non appena era entrato nel grosso cerchio rosso disegnato a terra. «Qui valuteremo le tue capacità in modo da capire come puoi essere utile alla corte e al Padrone.»
Ai lati del cerchio rosso, in una striscia marrone scura poco delineata, erano posizionati alcuni carrelli di legno pieni di armi di ogni tipo, anche umane, e altri pieni di ingredienti divisi in ciotole e bottigliette.
«Tenetevi pure la roba da erboristi, sono uno che va al sodo», aveva detto il nuovo arrivato con una risata gutturale.
Maille si era slacciata il primo bottone della divisa ed era entrata nel cerchio rosso con lui. «Lo vedremo», aveva detto con uno sguardo acceso. «La tua prova sono io.»
Haich aveva alzato un sopracciglio e la donna aveva scosso la testa.
«Devi riuscire a sconfiggermi», aveva aggiunto paziente. «… o almeno, cercare di essere un valido avversario.»
«Non combatto contro le donne.»
Maille aveva ridacchiato con voce squillante, poi aveva allargato le braccia e ogni arma presente sui tavoli si era sollevata, con la lama o la canna rivolte verso Haich.
«Non avresti dovuto dirlo.»
Le armi erano fluttuate fulminee verso l’uomo, conficcandosi nella barriera che era riuscito ad erigere in tempo. Aveva lasciato la barriera al suo destino creandosene un’altra, più piccola ma più solida. Poi aveva iniziato a camminare, accorciando la distanza con l’avversaria.
«Uh uh uh, provocare Maille in questo modo…», rideva di gusto il vecchio.
Haich era arrivato a quasi un metro e mezzo dalla donna, soddisfatto nel vederla provata per mantenere tutte le armi verso di lui pronte a scattare. Sentiva la pressione di ogni strumento letale, era molto forte, ma la difesa era sempre stata l’orgoglio dell’ex guardia e la sua barriera non l’aveva mai tradito. Giunto sufficientemente vicino, aveva estratto dalla tasca un pugnale, la cui anima era in metallo ma la lama era ricoperta di polvere di Stella Blu.
Nel giro di un istante, Haich aveva rotto la barriera, le armi erano cadute al suolo e il pugnale era saettato verso il cuore della donna.
«Ah-ha! », aveva esclamato il vecchio segnando qualcosa su un taccuino con vigore. «Mira eccellente!»
Maille aveva lo sguardo perplesso ed era rimasta senza fiato. Poi aveva chinato la testa ed aveva visto il pugnale conficcato nel petto e il sangue che sgorgava copioso dalla ferita.
«Che dici ora, sono stato un valido avversario?», aveva chiesto Haich con soddisfazione.
Con sua grande sorpresa, Maille aveva smesso di ansimare ed aveva fatto spallucce. «Abbastanza», aveva risposto mentre estraeva il pugnale con qualche gemito. «Ottima difesa, ma uno stratagemma banale. Di tutti gli strumenti a tua disposizione», commentava tranquilla tastandosi il petto, «Hai preferito usare un’arma esterna alla collezione e devo dire… che è stata una mossa interessante.»
Haich osservava esterrefatto la donna, certo di non aver mai visto nulla di tanto sconvolgente in tutta la sua vita. Aveva sentito qualche voce riguardo alla Marchiatura del demonio, un contratto indelebile che vincolava per sempre la vita di un individuo a quella di tutti gli altri membri della corte, ma quello che aveva davanti non era mai stato raccontato da nessuno.
«Non sei morta?», aveva chiesto con un filo di voce e molto stupore.
Maille aveva ridacchiato lugubre. «Certo che no.»
«Ma… il cuore…»
«Sì, il cuore. Anche lui ha sentito la lama nel petto, vero Tintel?», aveva risposto voltandosi verso il vecchio.
«Molto poderosa, bel lancio», aveva fatto un occhiolino battendosi il petto con vigore.
«Chiunque altro della corte ha percepito lo stesso, ma i loro cuori non sono stati fisicamente feriti e questo impedisce al mio di esserlo. La condizione di salute degli altri influisce sulla tua e ti impedisce di rimanere ferito a lungo o di morire, ma ti permette anche di percepire gioia e dolore, emozioni di ogni genere… fa niente, lo capirai subito quando sarai marchiato anche tu», aveva proseguito Maille senza scomporsi.
Haich, invece, sembrava ancora più confuso.
«Praticamente…»
«Non vivi più del tuo solo corpo», aveva terminato Heebrit entrando nella stanza con Savannah ad un passo di distanza. «Per questo sono certo che domineremo Ataklur e non solo. È un potere immenso… siamo tutti una grande famiglia, più uniti di noi non si può essere.»
L’ex guardia sembrava colpita ma meno spaesata. «Ho capito. E tutti sono ai suoi ordini, giusto?»
Il Padrone aveva annuito e si era avvicinato a Maille, ispezionando la ferita. «Come ti è stato detto, siamo tutti collegati. Voi allo stesso modo, io su un piano diverso. Quello che provate voi io lo percepisco, ma quello che provo io voi lo percepite in maniera più ampliata. È così che io posso controllare tutta la corte. Nessuno può disobbedire.»
«Ecco perché tutti la chiamano “padrone”».
Heebrit aveva sospirato brevemente. «In realtà non ho mai chiesto a nessuno di chiamarmi così ma non ho potuto non notare che è una cosa che viene naturale all’intera corte quindi, in effetti, può essere causato dal potere del marchio».
Aveva poi preso in mano il taccuino di Tintel, molto più fitto di appunti di quanti Haich avesse visto scrivere in quei minuti di combattimento, e lo aveva scorso con attenzione.
«Ti affiderò alle missioni di avanscoperta, mi serve qualcuno in grado di resistere senza sfruttare la marchiatura. La userai come piano B se le cose andassero male», aveva decretato poi.
Haich sembrava però aver perso un po’ di entusiasmo e Heebrit se n’era accorto.
«Se non vuoi più unirti a noi lo capisco… ma sappi che non sarebbe una scelta saggia andarsene ora.»
L’uomo aveva scosso la testa con decisione. «No, signore, non è questo. Ho combattuto contro questa donna, ma capisco che non ha fatto altro che mettermi alla prova. Mi chiedevo se anche la magia si accomunasse nella corte. Vede, io… sono solo un livello arancione.»
Il Padrone aveva sorriso sornione, nella sua maniera affabile, inquietante e decisamente unica. «Il settantotto percento delle guardie è addirittura brehmist, eppure sono ugualmente utili. Tu dovresti saperlo meglio di me. Ad ogni modo, quando qualcuno si unisce alla corte mantiene il proprio grado. Al massimo può imparare qualche trucco, verrà sicuramente allenato allo scontro, ma il colore non cambierà a meno di maturazioni personali. L’unione non influisce… è successo in un solo caso, ed è ancora avvolto nel mistero.»
Haich aveva corrugato la fronte, perplesso. Il Padrone aveva appena detto che era in grado di venire a conoscenza di qualunque cosa accadesse nella corte, com’era possibile che succedesse qualcosa senza che lo sapesse?
Heebrit si era voltato verso Savannah, ancora alle sue spalle, e l’aveva invitata ad avvicinarsi.
«Questo scricciolo?», aveva commentato Haich senza riuscire a trattenersi. «Senza offesa, ma è solo una ragazzina…»
«Piccola corporatura, pochi anni alle spalle, un’apparenza poco minacciosa sotto ogni punto di vista… te lo concedo, anch’io all’inizio ero dubbioso. Eppure ha vissuto più esperienze della maggior parte delle persone che abbia mai vissuto ad Ataklur», la voce di Heebrit era melliflua e Savannah stava sorridendo senza accorgersene; un sorriso che ad Haich e a Maille sembrava sghembo e sinistro.
«Quando è stata marchiata, però, è salita di grado. Non me lo spiego, ma ne sono ovviamente molto contento», aveva terminato poi il Padrone accarezzandole i capelli come se fosse un gatto.
Haich la stava fissando incuriosito e Heebrit fissava lui. «Se ti stai chiedendo che grado abbia raggiunto, basta che guardi il colore della sua divisa. Sia lei sia Maille, la tua avversaria, indossano una divisa in Tessuto Cangiante.»
L’uomo sbiancò. «Ho combattuto contro una jiin blu… e lei, questa… questa ragazzina è uno jiin nero?», balbettava mentre faceva un passo indietro, come se Savannah potesse esplodere da un momento all’altro.
Sbatteva le palpebre freneticamente, sempre più incredulo di tutta quella situazione, con le ginocchia che tremavano. Poi i suoi occhi si erano posati sulla divisa di Heebrit, e si erano spalancati ancora di più: era bianca, lo stava notando realmente solo in quel momento.
«Signore, lei… anche lei indossa una divisa cangiante?»
La sua voce tremava e il respiro era irregolare, frenetico.
Il Padrone aveva sollevato il mento ed aveva annuito pacato.
«Sì», aveva risposto fiero e sereno. Maille, Tintel, Savannah e la corte intera percepivano un forte orgoglio nel petto. «Sono uno jiin bianco. L’unico al mondo.»
Haich era sbiancato ed era caduto in ginocchio, senza fiato, con gli occhi sgranati.







*°*°*°*


Gh, chiedo perdono a tutti. Ci sto mettendo davvero troppo ad aggiornare, ultimamente... sono solo moltomoltomoltomolto presa da moltissime cose e, purtroppo, questo è il risultato. Questo capitolo era solo da ricontrollare e quindi, quando stamattina mi sono finalmente ricordata di EFP e della storia (la mia testa è altrove T_T), ho deciso che avrei dovuto fare qualcosa al riguardo... e per fortuna che non scrivo mai un solo capitolo alla volta xD

Ringrazio infinitamente chi ancora segue la storia! Pian piano qualcuno esce allo scoperto... e la cosa non può che farmi piacere <3

Il meglio sta arrivando, spero vi sia piaciuto questo capitolo di spiegazione/flashback!
Alla prossima, ciao!!

Shark - l'esaurita

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Capitolo 22
*** Al suo fianco ***


24
Al suo fianco


«Mangia».
Heebrit stava ticchettando le dita sul bordo del piatto, producendo un suono scocciante e carico d’irritazione. Maille stringeva i pugni e teneva il capo basso: il Padrone innervosito non era mai un buon segno.
Savannah, invece, non sembrava sentirlo. Fissava il contenuto del piatto davanti a lei come se fosse il suo peggiore nemico e teneva le braccia sotto al tavolo, con le dita intrecciate con forza.
«Mangia», aveva ripetuto con falsa pazienza il Padrone, lasciandosi sfuggire una nota di esasperazione.
Neanche l’occhiataccia di Maille scoccata verso la ragazza nuova stava avendo effetto.
«Da quanto sei qui, Savannah? », aveva chiesto allora Heebrit, smettendo di ticchettare. Ora stava sorseggiando con calma il vino rosso sangue dal suo calice argenteo.
«Trentasei giorni», aveva risposto la ragazza senza distogliere lo sguardo dal cibo. Un’invitante fettina di carne con contorno di funghi chiari e patate dal profumo irresistibile, ancora fumante.
Maille si era schiarita la voce e le aveva lanciato un’altra occhiata di rimprovero. Savannah l’aveva percepita senza alzare gli occhi.
«Trentasei giorni, signore», si era corretta.
«Maille», la voce di Heebrit era calma ma controllata. Aveva posato il calice sul tavolo. «So di averti dato il compito di istruirla sulle nostre regole, ma non quando sono presente anch’io».
«Chiedo perdono, padrone. Non capiterà più».
«Perché conti i giorni come se fossi prigioniera, Savannah?», aveva poi chiesto alla ragazza.
Savannah si era inumidita le labbra prima di aprire bocca. «Abitudine, signore».
«Eri denutrita, malata, senza uno scopo… un cadavere che si muoveva. Cerca di tenere a mente che non sei trattenuta qui, ci sei venuta di tua spontanea volontà e che tutti noi vogliamo solo il meglio per te. Adesso dimmi, quanti pasti ti abbiamo fornito da quando sei arrivata?»
Savannah aveva spostato la concentrazione sui denti della scintillante forchetta a destra del piatto per fare il calcolo. Tre pasti al giorno, spesso anche la merenda. «Più di cento, signore». Non era mai stata a scuola e fare di conto non era tra le sue capacità migliori, andare a spanne le era sempre bastato.
Heebrit invece aveva il numero preciso stampato in mente, ma non era importante. «Esatto. E quelli che hai consumato si possono contare sulle dita di una mano sola».
Il Padrone non sembrava arrabbiato, solo desolato. Che la salute di Savannah fosse sempre stata al centro dell’attenzione da quando aveva messo piede nel Palazzo era risaputo, ma Maille si stava stupendo di quanto potesse essere paterno nei suoi confronti. Era difficile trattenersi dal provare invidia nei confronti di quella ragazzina ingrata.
«Mi dispiace».
«Non dispiacerti, Savannah. Aiutami, piuttosto, a capire cosa possiamo fare per farti stare meglio».
Savannah aveva finalmente alzato lo sguardo e lo stava fissando dritto in volto. «Mi avete portata via da Ogklur, lavata, vestita, curata, fatto rimettere in forze, fatto recuperare la memoria, dato un senso alla mia nuova vita. Padrone, non c’è nient’altro che io possa desiderare o necessitare, avete fatto per me molto più di quello che chiunque altro avrebbe fatto per una sconosciuta!»
Heebrit aveva annuito pacato, come se non si sarebbe aspettato nessun’altra risposta. «Quindi non vuoi aiutarmi a capire quale cibo non ti sembra marcio o disgustoso? », aveva insistito poi, accarezzando le decorazioni sul suo calice.
«Non è più quello il problema, ho superato quella fase. Adesso, semplicemente… non ho più fame».
«Altri che ritornano dal Regno dei Morti, invece, hanno sempre fame ma non trovano nulla di loro gradimento, soprattutto tra i cibi che adoravano nella precedente vita».
Savannah si era incupita.
«Ma ovviamente non vale per te, tu hai avuto un’esperienza completamente diversa… devo ricordarmi di dire agli og di dispensare qualche pagnotta in più a chi mi interessa».
Heebrit si era alzato in piedi, con un bambino in divisa arancione ad aiutarlo prontamente a spostare indietro la pesante e decorata poltrona di legno e velluto, ed aveva indicato il piatto di Savannah a Maille. «Lo vuoi tu? », aveva chiesto.
La donna era sazia ma aveva annuito ed aveva allungato il braccio per afferrare il piatto. Savannah, invece, aveva seguito il Padrone.
«Vai ad allenarti», le aveva detto.

Haich stava per iniziare la sua seconda settimana di permanenza nel castello del Padrone e non poteva far altro che esserne contento. Finalmente la sua vita aveva un senso e il suo operato serviva a qualcosa: la sua smania di essere utile ad Ataklur era soddisfatta. Sebbene non avesse ancora mai preso parte a nessuna missione, tutti gli allenamenti ed i vertici tattici gli avevano provato che l’unico vero regnante del Regno magico era la persona con più carisma, potere e buon senso che esistesse: Lord Heebrit.
C’era solamente una cosa che non gli piaceva fare, e purtroppo gli capitava spesso quella mansione: aiutare negli allenamenti la pupilla del padrone, Savannah. Se si potevano chiamare così quelle torture a cui la sottoponeva per, ufficialmente, “rafforzarla”.
«Sei una jiin nera», gli stava dicendo quel giorno, mentre le gettava addosso una secchiata d’acqua gelida. Savannah non tremava neanche più, come se avesse sempre ignorato come si facesse. «Perché hai bisogno di tutto questo?»
La ragazza non indossava la divisa durante quegli allenamenti. Tutto ciò che ricopriva il suo corpo era una canottiera sgualcita sull’orlo destro, macchiata di sangue e altre cose indefinite, e dei pantaloncini che le arrivavano a metà coscia, rovinati e sporchi come la parte superiore. La pelle chiarissima di Savannah era solcata di ferite fresche, con piccoli rivoli di sangue che colavano sul pavimento della sala sotterranea in pietra scusa. I suoi occhi erano accesi, donandole un’espressione energica sul viso che stonava con la stanchezza e l’evidente sforzo a cui era sottoposta.
L’acqua e i cubetti di ghiaccio la colpivano ripetutamente in pieno e scivolarono lungo il suo corpo inzuppandola dalla radice dei capelli fino ai piedi scalzi, ma lei non batteva mai ciglio e restava focalizzata su ciò che stava facendo: rovistare la mente di un povero disgraziato rinchiuso in una cella a pochi metri da loro. Quell’uomo non aveva altra funzione se non quella di fornire alla jiin qualcosa di difficile da fare e pronunciava strani versi gutturali disarticolati mentre soffriva l’inquisizione mentale.
«Se il Padrone vuole che lo faccia, lo faccio», rispondeva meccanicamente lei senza neanche guardare l’uomo che le lanciava secchiate gelide ogni minuto.
Heebrit le aveva ordinato di scoprire il nome dell’animaletto d’infanzia della vittima usando esclusivamente la magia più subdola ed invisibile.
Haich aveva ancora il secchio d’acqua in mano, vuoto, e non sembrava pronto a volerlo riempire ancora. «Cosa stai facendo, esattamente? »
«Parlo con te mentre mi distrai dal mio vero obbiettivo», aveva risposto Savannah senza guardarlo. «Che sarebbe? »
L’uomo nella cella sudava, faceva infinite smorfie e versi soffocati, mentre con gli occhi implorava la ragazza di smettere. Ma lei non cedeva, non poteva.
Anzi, si impegnava di più e, inoltre, rispondeva ad Haich. «Non te lo posso dire, se no lui inizierà a pensarci e renderà inutile questo allenamento».
«Quindi non vuoi che lo sappia così non te lo può dire? »
Haich stava davvero cercando il senso di quell’attività, ma gli era difficile.
Savannah aveva invece trovato divertente quella domanda. «Non potrebbe neanche volendo», aveva risposto in un ghigno.
Il nuovo arrivato non aveva ancora notato che l’uomo nell’altra cella aveva una strana incisione sulla gola ed ai lati della bocca tremante. Piangeva senza ritegno, mentre allungava le braccia oltre le sbarre per chiedere pietà e perdono per qualsiasi cosa avesse fatto per meritarsi quella tortura.
«Continuo a non capire…», Haich aveva riempito il secchio d’acqua e lo stava per rovesciare di nuovo su Savannah. Aspettava il momento in cui la vedeva più concentrata per poterla disturbare meglio, come gli era stato ordinato. Nel frattempo, per intrattenersi mentre il silenzio veniva rotto solamente dai lamenti disperati ma deboli dell’uomo in cella, osservava la ragazza. Gli venivano i brividi vedendola in azione, sapendo cosa stesse facendo e cercando di non farsi traviare dalle apparenze: sembrava solo uno scricciolo malnutrito in piedi in una stanza, inzuppata come un pulcino e stanca come se avesse fatto una maratona, ma sotto la superficie non era niente di così semplice.
«Il Padrone vuole che sia in grado di portare a termine i suoi compiti, qualunque essi siano, senza farmi rallentare dalle distrazioni o dagli impedimenti», rispondeva tranquilla anche mentre l’acqua la congelava da capo a piedi ancora una volta. Il rumore della secchiata aveva interrotto fragorosamente la sua frase, ma a stenti era riuscito a sovrastare i lamenti dell’uomo.
«Lo fai ogni giorno, quindi?»
«Poppit!», aveva esclamato Savannah con soddisfazione. Interrotto il collegamento mentale con l’uomo in cella, questi era crollato a terra sfinito ed i suoi lamenti avevano iniziato ad affievolirsi fino a diventare piccoli gemiti.
Savannah si era passata una mano sul viso ed aveva sistemato all’indietro i capelli fradici per liberare la visuale. «Chi avrebbe mai immaginato che il tuo animale d’infanzia fosse un serpente …»
Haich non sapeva cosa dire o pensare. La paura che prima o poi quella ragazza, grazie a quegli atroci allenamenti, sarebbe riuscita a leggere la mente degli altri con meno fatica e più rapidamente lo inquietava oltre ogni dire.
«Wow», era riuscito solamente a dire. «Impressionante».
Savannah aveva scosso la testa, delusa. «No, lo sarà quando ci metterò di meno, non mi stancherò così tanto e l’altra persona non se ne renderà conto. Il Padrone sarà scontento di questo allenamento».
«I jiin normalmente non possono manipolare la mente, è troppo contorta», aveva osservato Haich mentre metteva via il secchio, appeso al chiodo che sporgeva dal muro, pronto per l’allenamento del giorno dopo. «Anzi, non sapevo si potesse fare».
«È vero, normalmente non si può. Ma il Padrone vuole che lo faccia, e io obbedisco».
Aveva preso l’asciugamano che le stava porgendo Haich e se lo stava passando addosso. La spugna era morbida ma puzzava.
«Io mi sono unito alla corte perché voglio combattere», Haich la guardava dritto negli occhi con quell’espressione piena di domande che Savannah ultimamente odiava, da momento che in molti gliela rivolgevano. «Credo che il Padrone sia la persona con i mezzi migliori per ristabilire l’ordine ad Ataklur e che potrebbe essere un Capo migliore di tutti gli altri, unificando il Regno».
«Buon per te».
«Tu, invece, perché ti sei unita alla corte? »
Savannah era rimasta col fiato sospeso per un paio di istanti, poi lo aveva rilasciato in un sospiro pesante e denso di episodi spiacevoli. «Andiamo a fare rapporto», aveva consigliato.
Haich però non mollava. «Sul serio, mi piacerebbe saperlo… sei un enigma, voglio solo riuscire ad inquadrarti meglio. Per favore».
L’uomo in cella aveva smesso di gemere, forse era svenuto o si era addormentato o peggio. A nessuno importava, ma quell’assenza di lamenti aveva reso la sala sotterranea più ampia e cupa del normale. L’unico rumore era il vento che soffiava fuori dalla finestrella alle spalle dei due jiin. Soffiava con violenza, ululando come un lupo e facendo tremare il vetro opaco.
«No».
Savannah gli aveva dato le spalle e stava iniziando a salire le scale, ma la voce di Haich l’aveva fatta fermare.
«Tu sei una dei Fein Anis, giusto? », stava dicendo. «Savannah e… Nehroi, sì. Le piaghe di Feinreth, sai… nella mia città eravate il miglior pretesto per creare barzellette contro le Guardie di Feinreth, quegli stupidi mangiasabbia che non riuscivano a mettere nel sacco due bambini…»
Haich ridacchiava, ma Savannah combatteva internamente per non mostrare emozioni, cercando sia di non piangere sia di reprimere la voglia di staccargli la testa dal collo.
«Non ho avuto un’esistenza facile», aveva detto allora la ragazza. La pausa le aveva dato modo di cercare la frase più semplice e corta per terminare quella conversazione in maniera civile, senza danni collaterali. «Ho perso sempre tutto e tutti, mi era rimasto solo mio fratello, ma poi ho perso anche la mia stessa vita. Dopodiché ho sofferto ancora, di quel poco che avevo ritrovato, avevo perso ancora una volta tutto… e il Padrone mi ha salvata. Ero un guscio vuoto e rotto, lui ha riparato le crepe e mi ha curata, accudita, mi ha dato uno scopo e non posso che essere al suo fianco in qualsiasi cosa voglia da me».
«E tuo fratello? »
Savannah non sapeva cosa dire. «Non importa».
«Credevo foste due metà di un tutto, inseparabili».
«Sì, poi sono morta. Adesso tutto il mio essere è rivolto verso il Padrone, il resto non conta».
«Sì ma tu sei la sua arma, non credo abbia... »
«Sentimenti? Non m’interessano, se vuole che io sia la sua arma, sarò la sua arma! Non sei il primo che mi vuole “far ragionare”, ma non c’è davvero niente su cui io voglia cambiare idea».
La sua voce era potente e decisa, Haich iniziava a credere di non aver fatto bene nel volerle chiedere cose così private. “Dannata voglia di sapere i retroscena della gente”, si rimproverava.
Savannah non aveva notato la sua espressione trasformata in rimorso.
«Non me ne frega niente di quello che vuole fare ad Ataklur, se vuole essere il Grande Capo, il re o solo un distruttore», aveva detto per terminare il discorso. «Qualsiasi cosa voglia da me, gliela darò».

Heebrit la stava fissando da più di due minuti interi, senza proferire parola. Savannah si era lavata e resa presentabile, aveva indossato la divisa nera ed era andata nell’ufficio del Padrone come era solita fare dopo gli allenamenti.
Avrebbe voluto chiedergli se avesse potuto fare qualcosa per sbloccare quella situazione, ma il buon senso imposto da Maille le diceva di restare in silenzio.
«Sei stata molto deludente», aveva poi detto il Padrone, senza distogliere lo sguardo dalla ragazza. Savannah aveva chinato il capo per la vergogna. «Mi dispiace, signore».
«Ho sentito i lamenti di quel pover’uomo fin qui, a ben due piani di distanza… non ti avevo chiesto di toglierli le corde vocali, per evitare questo fastidio?»
Savannah aveva annuito. «L’ho fatto, signore».
Heebrit aveva schioccato la lingua con disappunto. «Allora sei stata ancora più deludente. Come puoi pensare di introdurti da qualche parte, di nascosto, e non riuscire ad estrarre neanche un’informazione così stupida senza che mezza città lo sappia?»
Savannah non aveva risposto. Aveva chinato ancora di più la testa, colma di un’orribile sensazione. «Da domani chiederò ad Haich di romperti qualche osso di tanto in tanto, e di lanciare anche acqua bollente. Devi diventare più rapida ed indolore, Savannah, o sarai inutile».
«No!», aveva esclamato lei punta nel vivo. Aveva fatto diversi passi avanti e si era inginocchiata ai suoi piedi, implorante. «Farò tutto quello che vuole, migliorerò, glielo prometto! »
Nei suoi occhi era emersa la paura del fallimento e delle sue conseguenze, ed Heebrit non trattenne un sorriso sghembo nel vederla. «Sarà meglio che tu dia il massimo».
Erano passate altre tre settimane, Haich era andato in missione a raccogliere informazioni da alcuni infiltrati nelle varie regioni e Maille era riuscita ad entrare nella dimora del nemico più pericoloso del Padrone: la autoproclamatasi Principessa Chawia.
Lì aveva il compito di spiarla e di entrare nelle sue cerchie, creandosi dei precedenti positivi per riuscire ad avere accesso a più aree del Palazzo senza dare nell’occhio. Savannah, invece, era stata impegnata soprattutto al castello, al servizio diretto del Padrone, accogliendo ogni sua richiesta con piacere e rafforzando la lealtà nei suoi confronti.
Aveva messo il naso fuori dal giardino solo poche volte, ma in tutte le occasioni il suo compito era l’eliminazione silenziosa e senza tracce di gente scomoda e lei era diventata così rapida e brava che presto nel castello si erano diffuse voci e leggende sul suo conto.
C’era chi diceva che fosse in grado di sterminare una legione di guardie in meno di dieci secondi, chi sosteneva di averla vista far rimpiangere al più saldo degli uomini di essere nato; altri ancora dicevano che in realtà fosse addirittura più forte del Padrone, e che fosse per questo che lui non usciva mai dal suo ufficio per mandare sempre lei a fare il lavoro sporco. Infine, c’era chi sosteneva che lei non fosse altro che la sua lucciola, che la sua divisa fosse nera non per rappresentare il suo grado e che ogni cosa sul suo conto fosse inventata per tenerli buoni.
Lei non smentiva né alimentava nessuna di queste voci.
Di ritorno dalla quotidiana formazione delle truppe, era solita sottoporsi agli allenamenti di rafforzamento, i quali avevano raggiunto degli apici di tortura così elevati che per chiunque altro erano semplicemente insostenibili. La prova di ciò erano i due sottoposti dalla dubbia lealtà alla causa che, per essere raddrizzati e per dissuadere chiunque altro dal scegliere lo stesso percorso, avevano dovuto provare a superare il labirinto demoniaco che Savannah attraversava ogni sera.
Nessuno dei due aveva percorso più di due metri dei cinquecento che separavano l’ingresso dall’uscita, e tutte le altre nuove reclute avevano imparato la lezione.
«Quando sarete davanti al nemico, ovvero chiunque voglia intralciare la vostra via, niente dovrà fermarvi», tuonava la ragazza dopo aver dimostrato come si superavano le prove del labirinto, senza sgualcire la divisa e quasi senza spettinarsi. «La corte del Demonio non si deve piegare davanti a niente».
«La corte del Demonio non si piega!», tuonavano di rimando le fila di uomini e donne al servizio del Padrone.
«La corte del Demonio non si piega!»
«La corte del Demonio non si piega!»

Il motto rimbombò dal sogno alle sue orecchie e Savannah si svegliò di soprassalto. Era nella stanza che Chawia le aveva riservato nel suo palazzo, e Nehroi era ancora accanto a lui.
Aveva il respiro pesante, come se avesse corso per chilometri prima di fermarsi, e il cuore batteva all’impazzata. Quel sogno non poteva essere casuale…
Guardò Nehroi e notò che il suo volto non era completamente rilassato. Stava forse avendo degli incubi anche lui?

«Voglio che tu raggiungi Maille ad Eastreth», le aveva ordinato il Padrone pochi giorni prima.
«Dovrai recapitare un messaggio al Capo Chawia e credo che tu sia la persona adatta per farlo permeare al meglio».
Qualsiasi cosa per il Padrone.
«Ah», le aveva poi detto fermandola sulla soglia, un secondo prima che uscisse dall’ufficio. «Ci saranno anche un po’ di persone della tua vita passata. Spero non sarà un problema».
Savannah aveva esitato. «Cosa devo farci?», aveva chiesto, pregando internamente che non le chiedesse di ucciderli. Non sapeva se sarebbe riuscita a…
«Oh, niente di tragico, tranquilla», aveva per fortuna risposto lui con un sorriso ampio. «Dimostrami solamente come sai gestire una situazione spinosa. Sei libera di fare quello che vuoi, non ti controllerò per giorni».

Savannah accarezzò Nehroi ed il suo cuore si sciolse in un tepore caldo e troppo a lungo sepolto.
«Neh», gli sussurrò all’orecchio. «Andiamo», lo esortò con dolcezza.
Il fratello grugnì qualcosa ed aprì debolmente gli occhi. «Ma è notte», pigolò lamentevole.
Savannah sorrise e gli aggiustò un ricciolo sulla fronte amorevolmente. «Su, non sprechiamo altro tempo. La missione ci aspetta».







*°*°*°*


Habemus aggiornamentum! Ahahah!
Scusate per l'immenso ritardo, mi sono fatta schifo da sola e adesso, in questi giorni, mi sono autopresa per le orecchie e mi sono costretta a ripescare l'ispirazione dal fondo dei miei impegni e ho scritto. Ho scritto! Ben tre capitoli e lo schema per i futuri 7, mi sembra un buon ritorno "alle armia" ^^
Grazie a tutti per la pazienza, la costanza ecc se siete ancora qui! Andiamo avanti con la missione, dajeeeee!

Alla prossima! Che giuro non sarà troppo in là! xD

Finalmente di nuovo vostra,
Shark

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Capitolo 23
*** Ye Old Pub ***


25
Ye Old Pub


Erano passati quasi tre mesi dall’ultima volta in cui Phil aveva messo piede nella vecchia taverna dello zio William e di sua figlia Jenna e più di vent’anni da quando l’aveva fatto per la prima volta in vita sua: all’epoca era appena un bambino, vagabondo nell’immenso Regno magico. Guardando l’insegna di legno logoro rinforzata da inserti di metallo nero, che notò esser stata ridipinta di recente, per un istante si sentì come quella volta e quasi poteva sentire tra le dita la carta ruvida sulla quale erano segnati i nomi di quegli sconosciuti parenti lontani, con brevi indicazioni e descrizioni per arrivare al luogo in cui vivevano, il tutto scritto nella bellissima e rincuorante grafia di sua madre.
Quella sera, però, non era in cerca di una famiglia nuova ma del rifugio sicuro che l’aveva accolto a braccia aperte numerose volte durante quelle esperienze ad Ataklur e che, ancor più spesso, l’aveva protetto ed aiutato a restare in piedi tra i giganti magici che lo circondavano.
Il locale era stato reso caldo, allegro e puzzolente dai tanti clienti che vi facevano abitualmente tappa prima di tornare alle famiglie dopo una giornata di duro lavoro, e Phil varcò la soglia della taverna come uno di loro. Kayrin e Lorwaar lo seguirono senza perderlo di vista neanche per un momento, ignari di cosa stessero facendo realmente lì.
«Un altro giro, dolcezza!», tuonò un uomo alto molto più della media e grosso il doppio di chiunque. «La mia compagnia qui deve sanare la schiena spezzata! »
La chioma rossa di Jenna sbucò dalla folla che nascondeva il bancone del bar e il viso stanco ma felice illuminò l’area liquori come un faro. «Massa di sudore e peli che non siete altro!», sbraitò con un sorriso agli uomini di fronte a lei. «Fate largo che devo servire un tavolo!»
Kayrin scostò una figura barcollante che stava per caderle addosso ed afferrò Phil per un braccio, stringendolo come se fosse uno scudo. «Che stiamo facendo qui?», gli chiese senza nascondere un po’ di apprensione.
“Sono a casa”, avrebbe potuto rispondere l’umano con fierezza. «Sto cercando un vecchio, sicuramente seduto a parlare e a bere, dalla corporatura enorme», rispose invece.
Kayrin sbuffò. «Auguri», commentò acida. La percentuale di clienti che corrispondevano alla descrizione superava il cinquanta per cento e lo trovò sconsolante.
Phil si chinò sulla spalla destra della donna. «Tu pensa a tener d’occhio Lorwaar», le disse all’orecchio. «Ricorda che è un ragazzino, non dovrebbe poter stare qui… e in generale, meglio controllarlo».
Kayrin annuì e si voltò per afferrare Lorwaar, rimasto dietro di lei, ma non lo trovò. Tentò di riferirlo a Phil ma ormai era già al bancone. «Perfetto», si disse.
Un uomo reso sicuro di sé dall’alcol le mise una mano sulla spalla. «Bambola, vuoi tenermi compagnia? Mia moglie è fuori città… e mi vengono in mente mille cose che potremmo fare assieme», le disse ammiccante.
La donna lo fulminò con uno sguardo che valeva più di mille parole, poi lo scacciò aprendo le dita della mano davanti al suo volto e causandogli un’irritazione magica della pelle. Il viso dell’uomo divenne completamente rosso e lui non riuscì a trattenersi dal grattarsi e dal cercare qualche cosa di fresco che potesse alleviare e fermare la cosa.
Kayrin non si curò di tutte le belle parole che le stavano arrivando dagli amici del suo ammiratore ed iniziò la ricerca di Lorwaar, sperando che trovare un ragazzino di colore scalzo, con treccine lunghe fino a metà schiena, pantaloni bordeaux ed un bracciale con una piuma lilla sul braccio non fosse troppo difficile in un locale pieno di uomini adulti, con più esperienze che anni sulle spalle e tutti con un boccale di qualcosa in mano.
C’erano anche alcune donne, con la stessa tempra ed attitudine degli uomini più energici lì presenti, ma in quantità minore. «Il prossimo giro lo offro io!», urlò una mentre Kayrin la superava per raggiungere la parte di taverna che ancora non aveva visitato. «Lunga vita agli sposi!»
«Lunga vita agli sposi, e fate bei marmocchi!», urlò di rimando qualcun altro. Si udirono boccali tintinnare tra loro, risate e qualche canto di festeggiamento.
Lorwaar era arrivato fin là dove si stava spingendo Kayrin e stava intrattenendo una conversazione con un vecchietto decrepito che, pur da seduto, teneva dritta la schiena appoggiandosi al bastone con tutte le sue forze.
«Non mi dica, anche lei è di Bastreth!», esclamò il ragazzo.
Il vecchio annuì piano ma con orgoglio. «Sì, giovinotto, ero il primo medico della clinica», rispose con voce tremante. «Sai… all’epoca non si mescolavano le diavolerie umane con la nostra sacra arte…»
Lorwaar sembrò essere toccato da empatia. «Non me ne parli, l’integrazione è sempre una gatta da pelare. Mio padre era cuoco alla mensa generale della città e una volta gli chiesero di utilizzare i cibi già pronti degli umani per far prima, ma lui si rifiutò!»
«Brav’uomo, ah!»
«Infatti! … ma poi dovette fare come gli dissero, sa, quella roba costa meno di giornate a caccia o raccolta…»
Kayrin decise di intromettersi allora. «Lorwaar», lo richiamò.
Il vecchietto la perlustrò con lo sguardo da capo a piedi e poi si chinò verso il ragazzo. «Tua madre è una gran bella donna», commentò facendo un occhiolino pieno di rughe.
Lorwaar ridacchiò e gli fece una pacca sulla schiena, stando attento a non usare troppa forza. «Mio caro concittadino, dovrebbe farsi curare la vista!»
Kayrin sbuffò e lo afferrò saldamente per un braccio. «Sei fortunato che non sia davvero tua madre>, gli sibilò velenosa all’orecchio.
«A letto senza cena?», la provocò Lorwaar. «Che peccato che abbiamo già mangiato… sarà per domani, mammina».
Phil, intanto, era riuscito a farsi largo tra la folla attorno al bancone ed era riuscito per un soffio ad evitare che un boccale volante di birra blu lo centrasse in faccia. «I boccali non sono bravi a sterzare!», rise l’uomo accanto a lui, trascinando nell’ilarità della battura altri quattro clienti. Una era una donna e la sua risata assomigliava allo stridere di una carrozza in frenata.
«Grazie della dritta», disse Phil con educazione. La sua attenzione era già rivolta alla chioma fluente, riccia e rossa che ondeggiava a ritmo delle canzoni popolari che riecheggiavano nella taverna mentre la sua proprietaria creava qualche combinazione di alcolici.
Jenna fece un balzo quando si voltò per lanciare il boccale al cliente e scorse l’umano accanto a lui. «Cugino!», esclamò sprizzando gioia da ogni poro. «Che bella sorpresa!»
Un pappagallo verde atterrò sul bancone ed aprì il becco verso l’uomo che stava per ricevere la bevanda appena preparata, ma quello lo cacciò via con la mano. Phil stava per dire qualcosa quando il pappagallo si alzò in volo e gli defecò sulla spalla dicendo “Paga! Paga!” tra le risate generali.
L’uomo imprecò ed iniziò a bere la sua bevanda come se non fosse successo nulla, ma il pappagallo gli lasciò subito altri ricordini addosso: sull’altra spalla, sulla schiena, sulla testa.
L’uomo allora sbottò e cercò di togliersi gli escrementi di dosso ma sembravano incollati, irremovibili. Iniziò allora a prendersela col pennuto ma Jenna, che fino ad allora era rimasta ferma a gustarsi la scena, gli tese una mano davanti. «Conosci la regola, paghi al pappagallo bianco o quello verde farà giustizia… a modo suo».
Solo in quel momento Phil notò il pappagallo bianco che svolazzava tra i clienti, atterrando sui tavoli con eleganza e volando via con delle monete nel becco, che riponeva meticolosamente in una fessura del soffitto prima di ricominciare a girare nella taverna. «Non era rosso, qualche tempo fa? », domandò alla cugina.
Jenna alzò le monete del cliente in aria ed il pappagallo bianco le prese subito nel becco. La jiin poi ripulì il cliente con la magia, facendo scomparire gli escrementi come nuvole fini, e fece spallucce. «Che ci vuoi fare, Phil… il tempo passa per tutti».
Il suo sguardo chiaro ed intelligente si posò sul cugino ed all’improvviso fu come se non ci fosse nessun altro a parte loro. «Chi sono la donna ed il ragazzo?», domandò.
«Certo che non ti sfugge nulla…»
Jenna ammiccò con malizia. «So sempre chi entra nella mia taverna, ricordalo».
«Dovresti affinare l’abilità per scoprire anche cosa vuole chi lo fa», ridacchiò lui. Non credeva potesse esistere nessuno al mondo in grado di fare una cosa del genere, se non qualche veggente molto abile, ma una cosa certa di Ataklur era l’infinita possibilità di essere stupiti. «Abbiamo bisogno di un posto per la notte», aggiunse poi. «Non è che avresti…?»
Jenna si sporse oltre il bancone, tra i fischi di approvazione generale dei clienti che gradivano la visione, e lo abbracciò forte. «Stupido elegantone, lo sai che c’è sempre un posto qui per te», gli disse scoccandogli un bacio sulla guancia. Gettò un’occhiata ai compagni di Phil e strinse le labbra. «Per te e per chiunque riesca a seguire i tuoi giochi».
Phil abbassò gli occhi con rammarico e si inumidì le labbra, improvvisamente asciutte. Giochi.
«Non li chiamo così da molti anni», sussurrò in preda ad un ricordo lontano e doloroso.
Jenna non lo sentì, intenta a versare da bere ad un nuovo cliente. I pappagalli svolazzavano rumorosamente sopra le loro teste.




*°*°*°*




Saaaaaaaaalve. Chiedo scusa ma ho avuto fin troppi problemi, sono finita in ospedale, poi mi hanno investita, nel mentre ho cercato di fare degli esami all'uni e sono andata e tornata dalle vacanze. Adesso che avevo un paio di giorni di respiro ho deciso (grazie anche al rientro in patria di Madame Ispirazione)(la stronzetta latitante) di riprendere in mano la storia ed ho scritto -mi sembra- 4 capitoli. Non credo mi fermerò in fretta, questi capitoli sono nati tutti da un flashback (che inizia col prossimo) su Phil e che mi si è allungato enormemente (e te pareva xD) Ma d'altronde, povero ciccino, mica poteva arrivare al sessantesimo capitolo totale della storia come semi protagonista senza neanche avere un flashback o conoscere la sua storia, no?? ^^
Quindi eccoci qui, questo capitolo è cortissimo e infatti fa da ponte tra la monopolista storia di Savannah e il frammento su Phil, indispensabile per poter andare avanti... quindi buona lettura! Sperando che ci sia ancora qualcuno a leggere ahahah ^^"

Grazie a tutti per il sostegno, visivo o immaginario che sia! Vi lovvo lo stesso!
Al prossimo (prestissimo!) capitolo, ciao!

Shark

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Capitolo 24
*** Thè e Latte ***


26
Thé e Latte


Sul tavolino c’erano due tazzine, una con ancora molto liquido arancione scuro e l’altra con il solo fondo di foglie e briciole di biscotti, appoggiate sui rispettivi piattini. Era una coppia di porcellana molto semplice ma elegante, bianca, corredata di cucchiaini di metallo decorato con petali vari che si susseguivano; il tutto era disposto su un vassoio di legno dipinto di nero, con due piccoli manici.
«Gordon, vieni a finire il tuo thè», diceva una donna al bambino di sei anni che correva in cortile.
«Ma… mamma!»
«Stasera vuoi andare al cinema o no?»
Il bambino aveva trascinato i piedini fino al tavolo del thè ed aveva bevuto ciò che rimaneva nella sua tazzina, accompagnandolo con molti biscotti.
«È un rituale molto bello», commentava la donna mentre guardava il figlio bere.
«Noioso», ribatteva il piccolo tra un sorso e l’altro.
«Da dove vengo io non c’è nulla del genere… mi piace molto. È elegante ed infonde una gran pace con il mondo».
Il piccolo Gordon era a metà di un biscotto quando un pensiero nuovo gli era entrato nella mente. Sotto quei ciuffi biondi si era insinuato un dubbio, uno di quelli che i bambini della sua età devono assolutamente scoprire, come se ne andasse della loro vita. «Mamma, tu da dove vieni? »
La donna era arrossita, imbarazzata. «Andiamo al cinema, Gordon. Te lo dirò quando sarà il momento».
Ciò che erano andati a vedere sul grande schermo era un cartone pieno di fantasia, creature inventate e magia. Il piccolo Gordon aveva gli occhi così illuminati da tante cose meravigliose da farlo sembrare il bambino più eccitato del mondo. La madre, invece, era triste. Non una delle meraviglie viste in sala l’avevano stupita, colpita o meravigliata.
«Mamma, cosa c’è?», le aveva chiesto il bambino.
La madre non riusciva più a sopportare quel peso. Il ciondolo che portava al collo era troppo prezioso da lasciare incustodito, ma avere un monito così costante e vivido di ciò che non poteva più avere la distruggeva ogni giorno di più. «Gordon…»
«Papà!», l’aveva interrotta il bambino. Il padre si stava dirigendo verso di loro, con un sacchetto di carta in mano recante il logo di una pasticceria vicina. Il cappotto gli svolazzava alle spalle come un mantello scuro.
«Ecco la mia scimmietta preferita!», stava esclamando l’uomo. Sua moglie aveva già cancellato dal viso i segni dei pensieri che la attanagliavano. «Com’era il film?»
«Molto forte!»
Gordon aveva raccontato nei minimi dettagli quasi tutte le scene, o perlomeno quelle che aveva capito. Neanche i muffin erano riusciti a farlo stare zitto, tra le strade di Manchester immerse nella penombra della sera che stava calando su di loro. Riscaldati dalle luci dei lampioni, sotto il sole morente, la famiglia passeggiava tranquillamente in direzione della loro casa, sull’onda delle fantasie viste al cinema.
«Alla fine l’hai portato lo stesso a vedere questo stupido film», aveva sibilato con stizza l’uomo alla moglie facendo attenzione a non farsi sentire dal bambino, pochi passi più avanti.
«Rupert…»
«Non credere che non sappia cosa ti frulla in testa, riconosco quello sguardo».
«Se solo potessi… non ci sarebbe nulla di male…»
«Nulla di male? Aretha, gli hai già raccontato fin troppo! Ti rendi conto di quante fesserie vuoi mettergli in testa?»
La donna era rimasta visibilmente ferita da quella reazione intransigente. Aveva smesso di camminare, e lanciato un’occhiataccia al marito. «Fesserie!», aveva ripetuto con risentimento. «Quello che ha visto oggi al cinema era una fesseria! Non c’è nulla di inventato nei miei racconti!» Rupert aveva continuato a camminare imperterrito, fermandosi solamente per aprire il cancello del giardino di casa. Fatto entrare il piccolo Gordon ed avendogli detto di entrare in casa e guardare la televisione, era tornato indietro dalla moglie.
Mentre la porta veniva accostata alle sue spalle, il bambino era andato da bravo a sedersi sul divano, ma non aveva premuto alcun bottone sul telecomando. Dietro la televisione c’era una finestra adornata da sottili tendine bianche e, oltre il vetro che nascondevano in parte, riusciva a distinguere i suoi genitori che discutevano. La mamma sembrava stesse piangendo, aveva le mani sul viso e si toccava spesso gli occhi; il papà invece era scocciato e si guardava continuamente attorno in maniera nervosa.
Gordon non sapeva perché i suoi genitori discutessero in quel modo ogni volta che si parlava di fantasia e di cose che non esistono, ma capiva che se quegli argomenti creavano tanti problemi, sarebbe stato meglio non tirarli fuori mai. Era un bambino sveglio, ma non capiva perché quelle magie e meraviglie che costellano giocattoli, cartoni e libri e che piacevano così tanto a lui ed ai suoi amici dovessero essere vietate in casa sua. Che male c’era?
Quando i genitori avevano varcato la soglia di casa, la madre aveva il naso rosso e gli occhi lucidi ma asciutti e il padre aveva il volto tirato. Gordon stava facendo i compiti.
Qualche giorno dopo, Aretha si era seduta di fronte al bambino, fissandolo dritto negli occhi. Aveva uno sguardo acceso e furbo. «C’è una cosa che devo dirti», aveva esordito.
Gordon non le aveva dato troppa soddisfazione. «No», aveva detto. Non voleva fare arrabbiare il papà.
La madre non si era lasciata scoraggiare. Si era piegata verso di lui e stava bisbigliando con un’espressione complottistica. «Hai presente le favole che ti raccontavo da piccolo? Quelle della buonanotte?»
Il bambino aveva annuito, incerto. Le ricordava, ma non era sicuro se avesse dovuto rispondere di sì oppure se sarebbe stato meglio evitare l’argomento.
La madre si era abbassata sul tavolo, portando il viso all’altezza di quello del figlio. «È tutto vero!», aveva sussurrato piena di eccitazione. «Le creature animali, i jjin, la magia, il cielo sempre sereno…»
Gordon era visibilmente combattuto, dilaniato dal desiderio di credere alla madre ma anche dal timore dell’ira del padre quando avrebbe scoperto questa rivelazione.
«La magia non esiste», aveva poi risposto il piccolo con voce seria e volto impassibile.
Aretha l’aveva guardato sconvolta, come se le avesse dato uno schiaffo. «Come?»
«Papà ha detto che non esiste.»
«Ma certo che esiste, lui non vuole crederci… non ha una mente molto aperta, se non vede non crede…»
Gordon aveva inclinato la testa da un lato. «Forse è giusto», aveva osservato. «Se non lo vedi non c’è, no?» Quella che a lui era sembrata una semplice frase, aveva gettato nella madre uno sconforto terribile ed il bambino se ne era pentito subito, ma ormai era troppo tardi. Aretha era andata via, triste come mai si era mostrata prima di allora.
Era tornata alla carica quasi due anni dopo, all’inizio dell’estate, e il suo sguardo era ancora più acceso ma su un viso tirato e sofferente. Gordon non se n’era mai accorto fino al momento in cui la madre gli si era seduta di fronte, analogamente al precedente tentativo, e si era tolta il medaglione dal collo.
«Ti va di fare una gita?», gli aveva chiesto.
Secondo Rupert, quel medaglione era la chiave dello squilibrio della donna, in quanto le infondeva nuova forza per sostenere le sue storie ogni volta che riuscivano a farla ricredere. Più volte il padre di Gordon aveva cercato di sottrarglielo, nasconderlo, rubarlo in qualche modo, cosicché svanisse per sempre dalla loro vita, inutile monito di un mondo inesistente… ma non c’era mai riuscito, Aretha riusciva sempre a ritrovarlo, anche a costo di ribaltare letteralmente la casa.
Vedere la madre toglierselo e proporre una gita, per il piccolo Gordon significava solo una cosa: era guarita, la sua mamma stava finalmente diventando come le altre mamme. Niente fantasie, niente liti per delle convinzioni. Suo papà aveva sempre fatto attenzione a non farsi scoprire mentre lo diceva, ma lui era riuscito a sentirlo, più volte: “mia moglie è pazza”.
Gordon aveva pensato che quella sera avrebbe detto al padre che si sbagliava, che la mamma non era più pazza.
«Sì!», aveva esclamato lui tutto contento, precipitandosi in camera a mettere le cose essenziali per una gita nello zaino di scuola. Riempitolo di giocattoli, merendine, animali di gomma e pennarelli, aveva sceso le scale e messo la sua manina nella mano calda e morbida della madre.
Il viaggio in macchina era durato più di un’ora, erano andati in montagna, oltre la riserva di Torside; Gordon aveva riconosciuto il lago artificiale. Aretha aveva parcheggiato ai piedi di un bosco e, messo lo zaino in spalla come il figlio, lo aveva guidato tra gli alberi.
«Tieni, vedremo dei luoghi meravigliosi», aveva detto all’inizio porgendogli una macchina fotografica usa e getta.
Pochi minuti dopo aveva dovuto fermare Gordon dallo sprecare tutte e ventiquattro le foto in albero, insetti e viste del lago. «Non sprecarle!», gli aveva detto. «Ti sto portando in un posto ancora più bello da fotografare!»
Il bambino si era sentito perduto. «Ma tu hai detto che…»
«Quante ne sono rimaste?»
Gordon aveva abbassato lo sguardo sulla rotella in alto a destra. «Sedici», aveva risposto.
Aretha aveva sospirato e sorriso. «Va bene, Gor, sono ancora abbastanza. Adesso però aspetta che te lo dica io quando fare le foto, va bene?»
Non avevano più parlato di scatti e panorami finché la madre non lo aveva fatto fermare davanti ad una parete rocciosa nascosta tra i muschi ed i cespugli.
Gordon le si era avvicinato pensando che avesse trovato qualche incisione interessante o magari un fossile di dinosauro. Le dita della mamma però stavano sfiorando una strana venatura violacea nella roccia. «Cos’è?», le aveva chiesto, curiosissimo.
Aretha aveva sorriso. «Una cosa meravigliosa», aveva risposto mentre si toglieva lo zaino dalle spalle e rovistava nelle tasche laterali. Il medaglione era tornato a splendere tra le sue dita lievemente sporche del bosco. Gordon era indietreggiato di un paio di passi, spaventato.
«Perché l’hai tirato fuori?», le aveva chiesto. «Cosa vuoi fare?»
La madre sorrideva come non l’aveva mai vista fare, se non quando gli raccontava le favole della buona notte. «Fidati di me, tesoro. Non c’è nulla di cui avere paura, te lo prometto».
La cosa, però, non aveva affatto tranquillizzato il bambino. Nonostante tremasse tutto, aveva ancor più paura di addentrarsi nel bosco da solo, avendo scordato secondo quale sentiero fossero giunti fin lì. Era la sua mamma, non gli avrebbe mai fatto del male, si ripeteva.
La curiosità che nutriva per quello che stava succedendo, ad ogni modo, era superiore alla paura dell’ignoto. Il medaglione era costituito da una specie di rubino, una pietra preziosa rossa e grossa, liscia e trasparente. Era circondata come una foto nella cornice da una serie di motivi eleganti dorati, che la avvolgevano sul retro. La catenina anch’essa dorata era stretta tra le dita della madre, tanto da non far oscillare molto il prezioso. Aretha stava avvicinando il rubino alla venatura violacea. «Dammi la mano, Gordon… e preparati ad essere meravigliato! »
Il bambino non capiva quello che stava succedendo: vedeva la striscia viola illuminarsi come una lampadina, poi la luce si era ampliata e tutta la roccia era diventata bianca… e liquida. Sembrava che si fosse trasformata in un buco candido come la superficie della tazza di latte del mattino, prima di metterci i cereali al cioccolato, ma messa in verticale.
Aveva stretto la mano della mamma con entrambe le sue, sempre tremante ma mai così incuriosito. Lei sembrava sicura che sarebbe andato tutto bene, e parte di lui si era fatta convincere della cosa. Aretha lo aveva stretto a sua volta a sé, ed insieme avevano varcato il Portale.



*°*°*°*




I capitoli sono un pochino più brevi del solito, ma solo per scandire meglio il flashback. Con tutto quello che ci ho messo dentro (sono tipo 10-15 anni, insomma!) è bene renderlo più chiaro, no? ^^ Spero vi piaccia! Ah, non conoscete Gordon? Massì, dai, che poi capite chi è... ;)
Grazie per il sostegno, sto mantenendo la promessa di ricominciare a postare più in fretta! Happy? :D

Shark

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Capitolo 25
*** Il Nuovo Mondo ***


27
Il Nuovo Mondo


«Come puoi vedere, Gordon», aveva detto Aretha con l’orgoglio di una vita nella voce. «Tuo padre è un’idiota».
Gordon non riusciva a credere a quello che era successo. Il suoi occhi avevano visto una roccia qualunque diventare luminosissima, poi liquida ed infine… una prateria immensa, verdissima, baciata da un sole caldo ed irrorata da un vento dal sapore dolciastro ma che lo faceva sentire bene come mai prima di allora.
«Cos’è?», era riuscito a boccheggiare dopo qualche minuto in cui i suoi occhi si erano riempiti di quella visione incredibile e il suo cervello aveva accettato (forse) l’accaduto.
Aretha aveva lasciato la presa del figlio e non aveva risposto. Gordon avrebbe ricordato per sempre quell’istante: sua madre stava piangendo come una fontana. E sorrideva piena di gioia e di vita.
«Questa… figlio mio, questa è Ataklur!»
I singhiozzi e le risate della mamma avevano fatto da sottofondo al ripercorrersi di tutte le favole della buonanotte che gli aveva raccontato, da quando ne aveva memoria fino a due anni addietro, quando il padre le aveva vietato di “riempirgli la testa di cose inutili e fasulle”.
«È tutto vero!»
Gordon non sapeva cosa pensare. Sua mamma non era pazza, non lo era affatto. Suo papà lo era! Come aveva potuto trattarla in quel modo, facendola passare per pazza, irresponsabile, indegna del suo ruolo… e non solo in famiglia, ma anche in tutto il vicinato?
In un secondo gli stavano tornando in mente tutte le prese in giro degli altri bambini, che si vantavano che la loro mamma aveva tutte le rotelle a posto, mica come la sua. I nonni che si sperticavano pur di passare più tempo con lui, per sottrarlo alla madre. I vicini che evitavano di invitarlo alla festa, perché probabilmente avrebbe portato il seme della follia anche nei loro figli. «Dobbiamo dirlo a papà! Dobbiamo dirlo a tutti!», aveva esclamato sull’onda della rabbia e dell’eccitazione.
La madre si era abbassata alla sua altezza, ma le gambe non avevano retto per l’emozione e quindi era praticamente caduta sulle ginocchia. Stava ancora piangendo di gioia, ma improvvisamente i suoi occhi erano tornati tristi. «No, Gordon… lascia stare gli altri. Ci sono voluti due anni per trovare il modo di riattivare questo medaglione e portarti qui… perché l’unica cosa importante per me sei tu. Non dire nulla o crederanno che sei pazzo come me, ti isoleranno, non avrai mai degli amici…»
Gordon non capiva. «Non lo devo dire a nessuno?», era confuso.
«Lo so, è difficile… io ci sono riuscita per un po’ di anni, poi quando sei nato tu non sono più riuscita a mentire».
La sua voce era dolce ed interrotta da qualche singhiozzo o dai momenti in cui si asciugava gli occhi e le guance. «Ma adesso non potevo più resistere, tu… non volevo che anche tu mi credessi pazza. Gordon, per me non c’è altra persona più importante di te al mondo, in entrambi i mondi! Ameno tu dovevi credermi! E dato che l’unico modo era provare che non raccontavo fantasie…»
Il bambino aveva sentito il petto gonfiarsi di calore e il suo volto era andato a fuoco dall’arrossire. «Io ti credo, mamma», le aveva detto mentre la stringeva in un abbraccio lunghissimo.
Avevano passato poi molte ore a correre e saltare nella prateria, lasciandosi alle spalle le montagne rossastre come il Grand Canyon da cui erano arrivati. Il sole li baciava amorevole e i fiori li accarezzavano come amici colorati che indicavano la via della felicità. I loro cuori battevano all’unisono e Gordon era convinto di aver finalmente visto sua madre, per la prima volta, dopo otto anni di vita assieme. Era diventata ancor più bella, la gioia e il sorriso l’avevano cambiata radicalmente.
Dopo un po’ di giochi, domande e corse, erano giunti ad un enorme cratere. L’erba smeraldina era finita all’improvviso, lasciando il posto a rocce e terra rossastra, come le montagne. Il cratere era profondo alcune decine di metri, estendendosi da sotto la prateria in un unico e pericolosissimo dislivello, senza discese; dentro questo cratere c’era la città più bella che Gordon avesse mai visto, neanche in televisione o sui libri.
«Questa è Eastreth», aveva detto Aretha prendendolo per mano ed indicando una scalinata per scendere, a qualche centinaio di metri da loro. «Casa mia è laggiù, vicino a quei due alberi con le foglie azzurre».
Gordon non capiva perché, ma sua madre aveva tirato fuori un foulard dallo zaino e vi aveva riposto il medaglione, nascondendolo bene. Le sue piccole dita premevano il pulsante della macchina fotografica e un sordo “clack” imprimeva gli storti e bellissimi grattacieli di vetro di Eastreth sul rullino mentre Aretha si nascondeva i capelli in una strana cuffia con quel foulard, legandolo con un nodo sulla fronte. Stava ruotando la rotellina per avvolgere la pellicola e prepararla al prossimo scatto – la sua bellissima mamma che sorrideva, catturata di nascosto – quando ormai erano arrivati alla scalinata di pietra.
Avevano poi camminato tra le strettissime o larghissime vie della città, sbagliando strada un paio di volte. Gli alberi che aveva usato come riferimento non erano più visibili grazie agli enormi grattacieli che catturavano la luce dall’alto e la riflettevano nelle profondità del cratere grazie ai loro vetri coloratissimi, e più volte Aretha aveva chiesto indicazioni. Sui negozi campeggiavano cartelli scritti con caratteri così strani che a Gordon non sembravano altro che pastrocchi incomprensibili, ma la madre li leggeva senza problemi e a volte li usava per orientarsi.
Dopo un po’ di scarpinata, erano giunti ad una locanda in pietra grigia, costruita in uno stile che il piccolo Gordon non aveva faticato a riconoscere come inglese: la stessa insegna lo aveva fatto sentire un po’ più a casa, “Ye Old Pub”.
Aretha non aveva mai lasciato la sua mano, neanche per un istante, da quando avevano sceso il primo scalino della città. Anzi, ogni volta che si avvicinava qualcuno la stringeva ancora di più, come per paura che qualcuno avrebbe portarle via il suo bambino. Gordon aveva apprezzato molto questa premura, anche se con una mano sola a disposizione aveva scattato molte foto storte o sfuocate.
Stringendo ancora una volta la manina del piccolo, Aretha aveva varcato l’ingresso del pub non senza indugi, piombando in un ambiente denso, umido, con un odore di alcol misto a tabacco.
Un pappagallo rosso ed uno bianco più piccolo avevano gracchiato all’unisono ed erano svolazzati verso i due appena entrati. «Ma che mi venga un colpo», aveva detto qualcuno dall’altro lato del salone d’ingresso, pieno di tavolini e sedie sgangherate.
Era un uomo gigantesco, il più grande che Gordon avesse mai visto. Una barba ispida che gli ricopriva il mento e le guance, capelli nascosti da un berretto marrone e abiti stravaganti, come quelli di tutti gli abitanti di quella strana città.
«Aretha?», le aveva chiesto incerto.
«Ciao William… è bello rivederti».
Sia la mamma di Gordon sia quell’omone non sembravano esattamente contenti di essersi incontrati. I versi dei pappagalli erano gli unici suoni che rompevano il silenzio tra loro. Non c’erano abbracci, sorrisi, esplosioni di gioia…
«Mamma, chi è lui?», aveva chiesto il bambino cercando di capirci qualcosa.
La madre gli aveva accarezzato i sottili capelli biondi. «Gordon, lui è tuo zio William. Marito di mia sorella Arla e padre di una bellissima bambina».
«Jenna», aveva aggiunto lui, attento.
Aretha aveva inclinato la testa ed annuito leggermente. «Oh sì, Jenna. È nei paraggi? Magari possono giocare e conoscersi un po’…»
«È da amici».
La donna si era inumidita le labbra. «Certo. E Arla?»
«Cosa ci fai qui, Aretha?», aveva domandato invece lui, facendo tuonare la sua voce pacata ma profonda in tutto il locale mentre le si avvicinava, passando accanto al bancone straripante di bottiglie di ogni tipo di liquore e bevanda alcolica esistente.
«Tu che dici? Volevo mostrare a mio figlio… beh, il mondo. Il nostro mondo».
«Il nostro mondo», aveva ripetuto William. «Che non è più tuo. Hai scordato come funziona l’esilio?»
Il volto di Aretha si era indurito come la pietra. Gli occhi assottigliati, le labbra tirate in una linea stretta; persino la sua mano sembrava meno morbida e calda al piccolo Gordon. «Lui doveva sapere. Tu non hai idea…»
«Io non ho idea», l’aveva interrotta subito, indicandola con un ditone accusatorio. «Ma tu sì. Quando hai fatto tutto quello che hai fatto, tu sapevi a cosa andavi incontro. Stupida guerrafondaia che non sei altro, adesso torni qui nascondendo la criminale che sei, sventolando la bandiera di tuo figlio in nome del mondo che hai cercato di rovinare? Avresti potuto andare in qualunque altra città, magari non ti avrebbero riconosciuta!»
«E perché mai dovrei andare altrove? Questa è casa mia! Lo è sempre stata e sempre lo sarà!»
William rise lugubre e profondo, facendo tremare il bambino. «No, Aretha. Accetta la realtà: sei stata esiliata, questa», indicò il suo pub, poi la città che si vedeva dalla finestra di fronte al bancone. «Questa non è più casa tua».
La donna inspirava ed espirava pianissimo, aveva anzi quasi smesso di respirare. La mano di Gordon si stava agitando nella sua e lei se ne accorgeva a stento. Poi l’aveva lasciata ed aveva afferrato il figlio per le spalle, portandoselo di fronte. «Voglio che diventi casa sua. Accetterò la mia situazione senza fare mai più storie, non mi vedrete mai più, lo giuro! … ma lui è mio figlio, tuo nipote!»
La sua voce si era accesa di calore mentre le dita si chiudevano con forza sulle spalle di Gordon, messo di fronte al gigante come una formica inerme. Gli occhi di William avevano esitato per un attimo, poi si erano finalmente posati su di lui, squadrandolo nei minimi dettagli come se ne dovesse fare un ritratto.
«Ti prego… lui merita di vivere qui, è mezzo brehmisth. Inoltre è un bambino molto sveglio e capace, sarà…»
«Vorresti affidarci tuo figlio? Ah! Sei sempre stata una testa calda, ma questo… sei pazza!»
«NO!»
Aretha e William avevano abbassato lo sguardo sul bambino in contemporanea, stupiti allo stesso modo. Il suo testolino biondo fremeva dalla rabbia. «La mia mamma non è pazza! È la mamma più bella e forte e coraggiosa del mondo! Non dice le bugie e non l’ho mai vista più felice di oggi! Non è pazza, tu sei pazzo se le dici queste cose!»
I pappagalli avevano iniziato a gracchiare più forte, senza dire nessuna parola sensata ma sembarva che stessero urlando a loro volta contro il bambino.
Lacrime orgogliose erano scivolate lungo le guance di Aretha mentre sentiva il suo ometto difenderla a spada tratta di fronte ad uno sconosciuto che fino ad un secondo prima l’aveva fatto tremare come una foglia. Anche William ne era rimasto colpito, ma l’unica a parlare era stata una donna, appena comparsa sulle scale che conducevano da dietro il bancone ad un piano superiore.
«Che cipiglio, accidenti!», aveva detto. Gordon aveva pensato subito che quella fosse sua madre, ma indossava altri vestiti e sembrava più vecchia… «Sei proprio figlio di mia sorella».
«Arla!»
La donna era scesa di corsa e si era gettata subito tra le braccia della sorella, ed entrambe si erano strette in un abbraccio lunghissimo e pieno di lacrime, ricordi, amore. Persino William si era tranquillizzato molto, il che aveva sciolto parecchia tensione anche in Gordon.
Arla era alta come la sua mamma e le assomigliava incredibilmente; aveva qualche ruga in più e i capelli un poco più spenti, ma sembrava ancora piena di energie.
«Aretha Fillscah, la mia scapestrata sorellina… come sei riuscita a tornare? Ti ho cercata in lungo e in largo, dove sei andata a vivere?»
«Manchester, ci siamo trasferiti lì quando è nato lui. A proposito, vi presento ufficialmente: Arla, ti presento mio figlio Gordon. Ha otto anni».
«Che bell’ometto che sei», aveva commentato la nuova zia tendendogli la mano. «Molto piacere».
«Cara, non dovresti stare qui…», aveva fatto notare William mettendole una manona sulla spalla con fare premuroso.
«Non posso passare a letto la mia vita, Will, soprattutto non in un momento come questo. Vi preparo subito qualcosa da mangiare, sarete affamati! Accomodatevi! E voi due, stupidi pennuti, lasciateli stare: sono ospiti, non clienti!»
Gordon avrebbe capito molti colpi di tosse dopo il senso di quella risposta, e anche perché quella donna sembrava così sciupata. La madre gli aveva rivelato che erano gemelle mentre un piatto di cibo sconosciuto gli compariva fumante sotto al naso e mentre una bambina dai capelli rossicci e ribelli entrava nel pub. «Perché il cartello dice che è chiuso? Perdiamo clienti!», era entrata borbottando.
«Jenna!», aveva esclamato Arla chiamandola ai due tavolini che erano stati avvicinati per far sedere tutti assieme. «Vieni che ti presento tuo cugino!»
Gordon avrebbe ricordato la sua espressione sospetta per tutta la vita, soprattutto perché Jenna non l’aveva tolta neanche mentre mangiava o giocavano assieme per lasciare gli adulti parlare tra di loro. Jenna gli stava mostrando con orgoglio e superiorità cosa era in grado di fare con la magia, dopo aver esaminato incuriosita tutti i giocattoli con cui lui aveva riempito lo zaino. «L’ho imparato oggi a scuola», gli aveva detto poco prima di unire assieme due animali di gomma, un cavallo ed un serpente, mischiandoli per creare un animale tutto nuovo. Il cavallo aveva la testa e la coda di serpente ed il colore era un misto uniforme di marrone chiaro, con striature verdine. «Aspetta», gli aveva detto. Si stava impegnando molto, era evidente dalle perline di sudore che le bagnavano la fronte.
«Non fa niente, è già una forza così», le aveva detto lui preoccupato.
La bambina, di qualche anno più grande di lui, non l’aveva ascoltato e poco dopo, sotto gli occhi sempre più increduli di Gordon, il cavalpente aveva iniziato a muoversi, galoppando pieno di vita e sibilando rumorosamente.
«Forte, eh?»
Gordon non aveva parole. «Come hai fatto?», era riuscito a dire dopo un po’, quando ormai aveva rinunciato a cercare una logica conosciuta in quella magia indescrivibile.
«Basta pensarlo e volerlo molto intensamente», gli aveva risposto Jenna passandosi la mano sulla fronte. «Ed esercitarsi davvero molto… non tutto quello che immagini può riuscire o riuscire bene. A scuola studiamo molto per imparare le cose da tenere a mente quando vogliamo realizzare le cose e poi ci alleniamo moltissimo!»
«Devi essere la più brava della classe», aveva commentato Gordon estasiato.
Il cavalpente però stava smettendo di muoversi e, poco dopo, si era separato del tutto, tornando i due giocattoli iniziali. Jenna aveva sospirato pesantemente, stanchissima.
«No, non sono per niente la più brava… c’è una bambina fortissima in un’altra classe, lei riesce a fare di tutto e non si affatica mai. Che invidia…», gli aveva risposto con un po’ di tristezza nella voce.
«Ma se ti alleni tantissimo puoi diventare come lei?»
«Se corri tantissimo non è detto che diventi il più veloce, se non hai le gambe adatte».
Gordon aveva impiegato qualche secondo a capire l’analogia. «Quindi… lei ha le gambe e tu no?»
Jenna aveva ridacchiato. «Se così ti è più chiaro… sì».
Gordon aveva corrugato la fronte. «Posso farlo anche io?»
«Scherzi? Tu sei umano!»
«La mamma prima ha detto che sono mezzo bralist…»
«Brehmisth. Che è praticamente umano. Devi essere jiin per fare magia!»
Il bambino aveva annuito, ma subito dopo tutto era diventato appannato e l’aria era diventata strana, pesante, come se non riuscisse più ad entrargli nei polmoni. Gordon ricordava sua madre correre verso di lui all’urlo spaventato di Jenna (“è svenuto!”), ricordava che l’unica cosa che riusciva a vedere era il soffitto e il collo della mamma in cui lui premeva il viso, spaventato. «Che mi succede?», provava a chiedere, ma non usciva alcun suono dalla sua bocca.
Zia Arla li aveva guidati in fretta nel parco più vicino ed aveva aperto per loro un Portale, mentre lo zio William copriva loro le spalle assicurandosi che nessuno li notasse. Appena il tempo di ringraziare la sorella, poi Aretha aveva varcato la soglia luminosa che separava ed univa i due mondi ed in lampo di luce bianchissima lei e suo figlio erano di nuovo nella foresta da cui erano partiti.
«Come ti senti?», gli aveva chiesto mentre il Portale si chiudeva alle loro spalle con un suono che assomigliava allo strappo di un tessuto.
Gordon aveva capito a malapena cosa gli fosse successo, ma era sicuro di una cosa: in quella foresta l’aria era tornata fresca, pungente, sana.
«Oh tesoro, mi dispiace tanto… mi ero scordata che le prime volte per gli esterni possono essere pericolose… perdonami! », singhiozzava la madre senza lasciarlo andare.
«Cos’è successo?»
Aretha gli aveva spiegato della magia nell’aria e nella difficoltà dei polmoni di chi proviene da un mondo di riuscire a sostenere la differenza nella sua concentrazione: l’aria degli umani non conteneva magia, quella di Ataklur ne era satura. Il fisico riesce a sopportare il cambiamento, ma fino ad un certo limite.
«Come quando nuoti e trattieni il respiro, per un po’ resisti e poi devi respirare. Qui è simile, prima non te ne accorgi perché è comunque aria… poi hai bisogno della tua aria».
«Ma… perché hai detto che vuoi che viva lì con loro se non posso neanche respirare?», aveva chiesto il piccolo con la voce ancora tremante per lo spavento.
«Non voglio costringerti a fare nulla, tesoro mio. Ne riparleremo… Oggi abbiamo avuto abbastanza avventure, che ne dici? Torniamo a casa».




*°*°*°*




Sto guardando Pechino Express in questo momento e vi assicuro che il titolo non è ispirato al nome dell'edizione di quest'anno xD
Grazie a tutti per il sostegno, il nostro piccolo Phil/Gordon ha ancora un po' di storie d'infanzia da raccontarci... anzi, la bomba cruciale deve essere ancora sganciata! ^^

Alla prossima, ciao!zì

Shark

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Capitolo 26
*** Madre, Padre ***


28
Madre, Padre


Rupert era seduto sui gradini del cortile, di fronte alla porta di casa, e fumava nervosamente una sigaretta. Quella doveva essere la ventesima, in realtà, a giudicare dalla quantità di mozziconi che aveva lanciato sul prato.
Quando la macchina di Aretha era entrata nel vialetto e le ruote si erano fermate, era buio pesto.
«Dove diavolo eravate», aveva sibilato il padre pieno di apprensione. Rivederli sani e salvi lo aveva rasserenato per un attimo, ma ben presto la rabbia aveva superato quello stato. «Perché siete sporchi di terra?»
«Oggi era una bellissima giornata e l’ho voluto portare in montagna, non può passare tutti i giorni in casa».
Rupert stava abbracciando il figlio, socchiudendo gli occhi ed annusando tra i suoi capelli biondi un odore strano, che non riconosceva. «Senza il mio permesso?», gli era scappato dalle labbra ancora arrabbiate.
Aretha aveva drizzato la schiena con fierezza. «Sono sua madre», gli aveva ricordato.
L’uomo aveva sospirato. «Almeno avresti potuto avvertire, in caso vi fosse successo qualcosa… come l’avrei potuto scoprire?»
«Avrei trovato un telefono pubblico o bussato a qualche casa chiedendo di usare il loro, non so!»
Gordon gli aveva rivolto un enorme e bellissimo sorriso. «Stiamo bene, papà, la mamma è stata grande!»
Rupert aveva messo da parte i sospetti e le preoccupazioni, ma la cosa non era durata molto. Suo figlio aveva iniziato ad andare sempre più spesso in giro da solo, spesso per ore intere. Aretha stranamente non era preoccupata, anzi: sembrava contenta. I sospetti di Rupert crescevano ogni giorno che passava, di pari passo con la sfiducia verso la moglie, ma Gordon non notava nulla: lui era contentissimo di aver trovato, nel Museo di Storia naturale, una ricostruzione di alta montagna dotata di un masso vero trasferito dalle Alpi tra i vari animali impagliati. Quel masso, aveva notato durante la gita scolastica di qualche settimana prima, aveva la stessa scia viola che aveva usato sua madre per aprire il Portale e, da allora, ogni giorno andava al Museo ed aspettava il momento in cui non passava nessuno per scavalcare la corda rossa, entrare nella ricostruzione evitando l’aquila appesa, il cervo e le marmotte sul muschio finto e poi andare ad Ataklur.
Là, i primi tempi, Jenna lo attendeva puntuale nel punto in cui solitamente sbucava e poi gli faceva da guida e cicerone, mostrandogli il mondo. Si sforzava sempre molto per ricaricare di magia la Stella Rossa del suo medaglione, in modo da assicurargli il ritorno a casa e un nuovo viaggio da lei e lui ne era sempre molto grato. Dopo qualche tempo, però, Gordon era diventato abbastanza bravo ed esperto da non richiedere più la sua presenza continua ed aveva iniziato a girare da solo, tornando da lei in serata per la magia. I suoi tempi di permanenza diventavano ogni volta un pochino più lunghi, fino ad arrivare dopo qualche mese a poter restare per un pomeriggio intero senza aver bisogno dell’aria umana.
Un giorno era al parco, lo stesso in cui Arla aveva aperto il Portale di emergenza quando si era sentito male la prima volta, e c’era una ragazzina solitaria che giocava con dei bastoni. Li faceva fluttuare e cadere in picchiata come lame, disponendoli a formare vari tipi di costruzioni muovendo le dita candide e delicate. Aveva appena creato una torre di castello, con tanto di guglie realizzate con pezzi di corteccia, quando Gordon le si era avvicinato.
«Wow», aveva esclamato. «Non sembrano neanche più dei bastoni… complimenti!»
La ragazzina lo aveva fissato brevemente con i suoi occhi verdi e poi aveva fatto spallucce, senza degnarlo di una parola.
I bastoni erano tornati a fluttuare e si erano disposti come uno stadio, con tanto di scalinate e tetto; la parte più difficile era curvare i legni senza farli spezzare, per seguire la forma ad ovale della costruzione.
«Sei incredibile», aveva detto ancora Gordon, sempre più stupefatto.
«Sparisci».
«Perché? Voglio solo vedere, non ti darò fastidio…»
La ragazzina aveva sbuffato e gli aveva dato le spalle, girando sé stessa ed anche il suo stadio. «Tu bazzichi con Jenna, quella incompetente», aveva replicato con disprezzo mentre i bastoni si disponevano a terra ordinati per lunghezza.
«Mi conosci?»
«Non mi piace non sapere cosa succede attorno a me».
La mano un po’ sporca di terra del bambino biondo le era entrata nel campo visivo, così come il suo sorriso impertinente. «Allora, se già mi conosci, presentiamoci!»
La ragazzina aveva alzato gli occhi al cielo. «Va bene», aveva convenuto poi, accarezzandosi la lunga treccia castana. «E dopo mi lasci in pace?»
«Promesso. Mi chiamo Gordon».
«E basta?»
«Oh, no, sono Gordon Mayson… Anzi, Fillscah», aveva deciso poi. Era il mondo di sua madre, gli piaceva l’idea di omaggiarla prendendo il suo cognome e non quello dell’uomo che l’aveva confinata in casa come una minaccia.
La ragazzina aveva rizzato la testa udendo quel nome. «Fillscah?», aveva ripetuto incredula.
Gordon non capiva il perché di tutto quella tensione. «Sì, perché?»
«Spero tu stia scherzando a farti vedere in questa città con un cognome del genere. L’altro era meglio, quello umano».
«Non capisco…»
«Non importa, lascia che ti dia un consiglio: se non vuoi finire in prigione o peggio, non dire mai più quel nome. Fidati, ne so qualcosa».
Gordon era rimasto molto sorpreso ed interdetto da quell’affermazione. Perché il cognome di sua madre era così pericoloso? Improvvisamente gli era tornato in mente che anche Jenna gli aveva detto qualcosa del genere, anche se con meno durezza.
«Aspetta», aveva detto poi. «Mi presento di nuovo».
Se non poteva usare Fillscah, allora l’avrebbe omaggiata spogliandosi del nome di battesimo, quel nome che lei aveva sempre definito “troppo pesante per un bambino”. «Mi chiamo Phil Mayson», si era auto-battezzato annuendo convinto.
«Phil?»
«Abbreviativo di Philip. Suona un po’ come Fills…»
«D’accordo, va bene», l’aveva interrotto subito lei. «Non ripeterlo mai più».
Gordon, anzi, Phil aveva annuito ancora e un ciuffo biondo gli era caduto sulla fronte. «E tu sei…?», aveva domandato mentre lo rimetteva a posto.
La ragazzina si era raddrizzata tutta con fierezza, assumendo un atteggiamento molto pomposo pur vestendo un abito comune e sporco. «Mief Chawia», si era presentata scuotendo la treccia all’indietro. «Ricordati il mio nome, un giorno sarò regina».
«Accidenti, ho conosciuto una principessa! Sei figlia di un re!»
«No, di un architetto».
«Quindi sposerai un principe?»
«Non esistono qui, abbiamo i Capi».
«Allora sposerai un Capo».
«Ma costì non diventerei principessa!»
« … non capisco, come fai a diventare regina?»
«Ci riuscirò, non preoccuparti».
Phil iniziava a conoscere sempre più il regno di Ataklur: se Jenna gli mostrava luoghi, costumi, cibi e gli insegnava a leggere la loro lingua, Mief lo indottrinava sulla politica, le dinamiche, i segreti e le tattiche delicate che governavano le diverse regioni.
Ataklur lo affascinava a dir poco, e l’effetto proseguiva anche una volta tornato a casa dalla madre, quando le raccontava tutto quello che aveva visto ed imparato e lei, a sua volta, gli raccontava quelle che una volta erano le favole della buona notte: le sue avventure ed imprese, senza però arrivare mai al motivo per cui era stata esiliata e perché lui non potesse dire in giro di essere suo figlio.
Purtroppo il suo visitare Ataklur quasi ogni giorno toglieva tempo allo studio e si era ritrovato nei guai con la scuola. Un giorno suo padre lo aveva fatto sedere in cucina intimandogli di non muoversi con voce seria, chiedendo spiegazioni per dei così brutti voti in quasi tutte le materie.
Phil si era scusato infinitamente ed aveva spergiurato che avrebbe recuperato, soprattutto per paura che il padre avrebbe scoperto cosa stava succedendo realmente in quella casa, e così aveva iniziato a regolare le sue attività, ritagliando i giusti spazi di tempo per tutto.
Era riuscito ad tenere quel ritmo fino all’adolescenza, approdando al liceo con ottimi voti scolastici. Ciò nonostante, non aveva tenuto conto dei sospetti sempre crescenti di suo padre, alimentati dalla paranoia che tenere un doppio segreto, il suo e quello del figlio, aveva generato in sua madre. La casa pullulava di segreti e doppie vite, e la tensione era sempre così palpabile da aver praticamente reso Rupert un estraneo nella vita di Phil.
L’uomo aveva poi preso posizione ed agito: quando Phil aveva quasi dieci anni, Aretha era stata spedita in un manicomio, sfruttando la sua testimonianza come prova della pazzia. A nulla era servita la strenua lotta che aveva fatto Phil contro gli uomini dell’ospedale, non era riuscito a smuoverli neanche un po’.
«Che cosa hai fatto!», aveva urlato al padre, fuori di sé.
«Quello che avrei dovuto fare molti anni fa. Adesso potrai andare avanti con la tua vita, come avresti dovuto fare fin dal principio. Niente frottole».
Phil non aveva parlato al padre per anni ed anni, conservando il fiato per gli zii ad Ataklur, per quella che considerava già da tempo la sua vera famiglia, e per la madre quando le andava a fare visita.
Un giorno, a quindici anni, Phil era tornato a casa da scuola ed aveva trovato suo padre nella stanza. Stava sfogliando l’album di fotografie che aveva scattato fin dalla prima visita ad Ataklur.
«Che bei posti», aveva commentato l’uomo non appena il ragazzo era entrato nel suo campo visivo. «Non ricordo che tu abbia fatto così tante gite scolastiche».
Phil stava sudando freddo come mai in vita sua. Con la coda dell’occhio aveva guardato il suo armadio, violato, e la scatola di metallo con lucchetto aperta rovinosamente per terra, accanto a delle tenaglie.
«Sai che non mi piacciono i segreti», aveva detto l’uomo seguendo lo sguardo del figlio.
«Non l’avrei mai detto, dato che hai sposato una donna proveniente da un altro mondo e che l’hai tenuto nascosto a tutti quanti, fino a volerlo tenere nascosto pure a te stesso per vivere meglio dopo che la cosa ti era diventata scomoda», aveva risposto Phil con veleno nella voce.
Il padre lo stava guardando stupito, assolutamente sorpreso da una simile frase.
«So tutto», aveva proseguito Phil senza curarsi dei suoi shock. «Potrei dirti che quello è un album dei miei amici, che molte foto sono loro o comprate in edicola… ma non voglio. Preferisco ricordarti che hai sposato parte di Ataklur, innamorandoti di mamma. Che lei non può non farne parte o dimenticarla, così come tu non puoi dimenticare il Kent della tua infanzia. Io stesso non posso non farne parte».
Rupert aveva lanciato a terra l’album con forza e si era avvicinato al figlio col viso livido. «Non oserai…»
«Ho già osato», aveva ribattuto con orgoglio, estraendo il medaglione dal colletto della maglietta. «Non c’è settimana che non vada lì. Da anni».
La rabbia del padre era un fiume burrascoso in piena. «Tu non hai idea di quello in cui ti vuoi immischiare, Gordon! Lei è stata cacciata brutalmente da quel postaccio, volevano ucciderla addirittura! Per grazia di qualche santo è riuscita a scamparla e venire qui, non hai idea di quello che abbiamo passato i primi tempi, finché non ha smesso di fare quelle diavolerie magiche! Ho aspettato per anni prima che la magia smettesse di scorrerle nelle vene, sopportando le visite restrittive ed i controlli continui di quelle guardie là! Quando finalmente era diventata come noi, non sai che gioia! E finalmente abbiamo potuto iniziare una vita, ci siamo trasferiti, abbiamo avuto te! … ma no, lei doveva rovinare tutto andando a rivangare quelle porcherie e riempiendoti la testa così che anche tu potessi trovarti nei guai! Gordon, credimi, ascolta un avvocato: ad Ataklur credono di avere un sistema legislativo che funziona ma non è vero, la gente si ammazza come ridere! Le guardie e i Capi, poi, sono uno peggiore dell’altro! Tua madre ha cercato di far l ’eroina e guarda com’è finita… Ascolta chi ti vuole bene: Non. Andare. Mai. Più. Lì».
Quelle parole avevano colpito il ragazzo con violenza inaudita, schiaffeggiandolo come mai gli era successo in vita sua. Il viso del padre era paonazzo, il suo respiro pesante ma sembrava si fosse anche levato un grosso peso di dosso, liberato del grande segreto che guidava le sue ossessive maniere.
«L’hai rinchiusa in manicomio…», riusciva solamente a dire Phil. «Nonostante tutto questo che mi racconti, tu sai cosa ha passato eppure l’hai fatta rinchiudere?!»
Rupert aveva inspirato profondamente. «Gordon… ho dovuto. Non potevo fare altro per allontanarti da quel mondo di squilibrati. Che scelta avevo?»
«Accettarlo, guidarmi anche tu, rendermi partecipe di questa vita che è pure mia!»
L’uomo aveva annuito gravemente, ma non per dargli ragione. «Conosco l’attrazione che si prova per quel posto, anzi… fin troppo bene. È un mondo seducente, così diverso e più bello del nostro che non si può resistere. Tutto quello che vedi è la bellissima facciata di qualcosa di demoniaco e perdutamente pericoloso. Sai che anche l’amore è magia, lì? Non è come da noi, che può essere intenso quanto vuoi ma non crea mai realmente un vincolo… e invece ad Ataklur è una maledizione. Un modo per controllare ed essere controllati, una specie di incantesimo naturale. Se ti va bene, sei alla pari con l’altro. Se ti innamori a senso unico, è come diventare un pupazzo e non sto esagerando. Spero… spero per te, figlio mio, che la tua attrazione per Ataklur non ti abbia condotto a questo».
Il suo sguardo era cambiato, ma a Phil non sembrava ancora lontanamente paterno. Ormai aveva imparato ad associare la figura di un padre a quella dello zio William, non al suo vero genitore.
«Non ti racconterò delle mie storie amorose, padre», gli aveva risposto con freddezza.
Rupert lo aveva guardato dritto negli occhi.
«No, non ne sono degno. Ormai è tardi per aprirsi, lo so. Sei cresciuto».
Aveva chiuso gli occhi con stanchezza, poi li aveva riaperti e l’uomo sembrava invecchiato di dieci anni. «Io ti voglio bene, Gordon. Più della mia stessa vita. Non innamorarti mai ad Ataklur, non farti coinvolgere, non farti nemici… se proprio vuoi andarci ok, fallo. È evidente che non posso fermarti. Ma ricordati che il nostro mondo, qui, è il tuo vero mondo. Qui c’è casa tua, la tua vita. Continua a studiare, diventa un uomo».
Phil si era abbassato a raccogliere l’album di foto, rimettendolo nella cassetta di metallo rotta. Poi si era tolto lo zaino dalle spalle, se l’era scordato, e l’aveva messo sotto la scrivania come faceva sempre. Aveva tolto le scarpe, preso un libro dalla libreria e si era sdraiato sul letto.
«Farai tornare qui la mamma?», gli aveva chiesto con nonchalance, senza guardarlo, mentre cercava il segno da cui ricominciare a leggere.
Rupert non aveva risposto, non aveva ancora deciso nulla.
«Allora non voglio diventare un uomo come te. Lo diventerò a modo mio», aveva proseguito poi il ragazzo. «E, a proposito: mi chiamo Phil, ora».




*°*°*°*




Ebbene, eccoci giunti arrivati al momento dell'autobattesimo (finalmente si è spiegato il doppio nome xD), a quello della scoperta di ciò che è successo alla madre di Phil (a grandi linee, ma non so se lo elaborerò più direttamente, credo lo lascerò sempre un episodio solo raccontato da terzi) e a chi era la bambina con cui cercava di rivaleggiare Jenna! Una bella vecchia conoscenza, vi sareste aspettati di vedere una miniChawia? ^^
Al prossimo capitolo che, vi posso già anticipare, è pieno di angst! A mille, proprio!

Ciao!

Shark

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Capitolo 27
*** Niente di più forte ***


29
Niente di più forte


Quello che Rupert non sapeva e che Phil mai gli avrebbe detto, era che lui si era già innamorato da molto tempo di qualcuno ad Ataklur. Tutte le questioni sull’amore, sul legarsi realmente a qualcuno, sul provare un sentimento più profondo del più profondo amore umano, lui le aveva già conosciute e le stava provando sulla sua pelle e nel suo cuore. Crescendo, aveva trovato nuovi luoghi in città o appena fuori città per aprire un Portale in tranquillità, anche se magari per farlo doveva prendere un autobus e viaggiare un’ora. Ogni volta che varcava quella soglia, col fisso pensiero di lei, aveva un sorriso smagliante ad accompagnarla, e qualche regalino nello zaino.
Quel giorno aveva una scatola di cioccolatini prelibati e due rose rosse, accuratamente incartate per paura che si potessero rovinare prima della consegna. Indossava dei jeans scuri e una maglietta nera a maniche lunghe e i suoi capelli erano biondissimi come sempre. Mief invece aveva i capelli raccolti al solito in una elaborata treccia, quel giorno arrotolata sulla nuca a formare uno chignon, ed indossava un abito di lino bianco. Anche lei sorrideva sprizzando gioia, soprattutto dal momento in cui l’aveva visto sbucare in cima alla scalinata.
«Phil!», aveva esclamato entusiasta correndogli incontro.
Lui aveva iniziato a scendere le scale più rapidamente e si erano incontrati a metà scalinata, abbracciandosi stretti e poi premendo le loro labbra in un lungo ed intenso bacio.
Quando si erano staccati, lui le aveva donato le rose. «Perché due?», aveva chiesto lei confusa. Ad Ataklur non c’era quel fiore particolare, solo una versione selvatica e velenosa, e lui non poteva essere più contento quando gliene portava uno o più, di tutti i colori. «Perché sei così bella e ti amo così tanto che una non basta», aveva risposto lui con semplicità.
Mief aveva annusato le rose chiudendo gli occhi con passione e poi gliele aveva battute sul petto dolcemente, usandole per scandire le sue parole. «Ti. Amo. Anche. Io», aveva detto, per poi scoppiare in una tenera risata.
I loro pomeriggi assieme passavano così, chiacchierando, ridendo, baciandosi… a volte, quando non c’era nessuno, andavano persino in camera sua e lei poteva sbizzarrirsi in tutti gli incantesimi di protezione, barriere e silenziatori che voleva perché nessuno li disturbasse.
Molto spesso Phil litigava con Jenna, quasi in continuazione. Lei era sempre stata invidiosa di Mief e non le piaceva il modo in cui assurdamente anche suo cugino si sentiva in diritto di criticarla quando la sua magia non era abbastanza per fare qualcosa. Jenna odiava profondamente Mief per averle plagiato il cugino, fin da quando aveva scoperto che era stata lei a suggerirgli di cambiare nome. Spesso lo chiamava ancora Gordon per fargli dispetto.
Ma quel periodo idilliaco per i due giovani amanti non era destinato a durare. Phil aveva diciassette anni e Mief diciannove quando il Capo di Eastreth era venuto a mancare per una malattia che lo logorava da anni. Era successo poco dopo che anche la madre di Jenna, Arla, morisse per il suo tumore allo stomaco, gettando Phil e la sua famiglia nello sconforto.
La morte del Capo presupponeva una sola cosa: l’indizione di un Grande Torneo per decidere chi sarebbe diventato il successore a guida della regione.
Tutti i jiin più potenti vennero invitati a parteciparvi, inclusa la giovane Mief. Il suo grado era stato certificato dalla suola pochi giorni prima dell’inizio del Torneo: jiin viola, congratulazioni.
«Ti prego, non partecipare», le aveva chiesto Phil una sera, al chiaro di luna, nella loro intimità.
Mief si era irrigidita sotto al lenzuolo e l’aveva guardato male. «Stai scherzando? Come potrei diventare regina senza prendere nessuna posizione di comando?», aveva ribattuto piccata.
«Ma perché devi essere così ossessionata dal potere! La gente muore nei Tornei, non voglio che ti capiti…»
Mief aveva corrugato la fronte, pensierosa. «Ho vissuto in una topaia per anni, prima che mio padre si decidesse a venire a prendere me e mia madre. Non scorderò mai le orribili sensazioni che ho provato, è da allora che mi sono ripromessa che non le avrei mai più provate e ho sempre cercato di diventare la migliore. Domani al Torneo vincerò, non ti preoccupare», aveva concluso poi, dandogli un bacio e passando le dita candide tra i capelli biondi.
Phil non riusciva a non essere preoccupato, ma la determinazione che scaturiva dagli occhi verdi di quell’angelo, ancora più belli incorniciati nei lunghissimi capelli castani finalmente che scioglieva solo in quelle occasioni, non poteva essere contraddetta.
Ciononostante, l’indomani, Phil era in tribuna ad assistere alle prove di resistenza, combattimento, astuzia, abilità e non c’era momento in cui non temeva di essere prossimo ad in infarto, soprattutto quando la sua amata veniva graffiata o buttata a terra dagli avversari. Jenna, seduta accanto a lui, non riusciva ad esserne felice, consapevole della potenza del legame che lo univa a lei: c’erano innamorati che giuravano di riuscire a percepire le ferite fisiche ricevute dal proprio partner, ma lei non aveva ancora potuto appurare la cosa di persona.
Phil aveva poi esultato come il più esaltato degli esaltati quando Mief aveva conquistato, sporca e sanguinante ad una gamba, il gradino più alto del podio, diventando a tutti gli effetti il nuovo Capo di Eastreth. Avrebbe sempre ricordato quella infinita gioia nel petto, raddoppiata da quella che provava lei, mentre la guardava e tutta la popolazione la acclamava e festeggiava lanciando fiori e coriandoli colorati al cielo.
Ma a fronte di tanta luce, esiste sempre tanta ombra.
L’ascesa di Mief aveva comportato la venuta a galla di tutti i lati della sua vita privata, improvvisamente diventata pubblica. E così, dal nulla, anche Phil si era ritrovato famoso, “l’umano con cui se la fa il Capo”. La gente per strada non lo ignorava più, sembrava che tutti volessero sapere tutto anche di lui, ma nessuno della sua famiglia avrebbe mai rivelato alcunché.
I più ostili oppositori di Mief, sostenitori di un altro partecipante al Torneo, non potevano sopportare che una ragazzina fosse arrivata a governarli e più volte Phil si era risvegliato in ospedale con ossa rotte e contusioni di ogni tipo: era diventato il bersaglio ideale per colpire indirettamente il Capo e spingerla a dimettersi.
Mief ogni volta era lì, pronta a sostenerlo e ad aiutare i medici con la sua magia per curarlo più in fretta. «Devo trovare il modo di proteggerti, Phil… resta nel Palazzo, lì sarai al sicuro!»
«Non posso vivere per sempre tra quelle mura, anche tu le soffri…»
«Allora ti darò una scorta», gli aveva detto una volta, alla seconda aggressione. «Non posso permettere che ti facciano questo, amore mio!»
Ma anche la scorta non era sufficiente, anzi: aumentava solamente il numero di persone che finiva in ospedale.
Mief impazziva dal dolore, tra quello che percepiva con il legame amoroso e quello che provava da sola non riusciva più a concentrarsi e governare correttamente. Il popolo iniziava ad essere scontento e dopo poco tempo si era ritrovata spalle al muro. I sostenitori dei suoi rivali, ovviamente, erano al settimo cielo prevedendo una imminente rinuncia al titolo da parte della ragazzina innamorata che aveva tentato il passo più lungo della gamba.
Phil aveva provato ad esserle d’aiuto restando a Palazzo con lei, senza disturbarla tra riunioni e piani d’azione per migliorare la città, ma ben presto si era sentito in prigione e fuori luogo. Aveva iniziato a passare meno tempo ad Ataklur, concentrandosi sui suoi studi in legge al college per cercare di distrarsi e pesare su di lei il meno possibile, ma la lontananza era insopportabile per entrambi.
Jenna viveva a distanza le sue pene, rattristata a sua volta dal non poter essere d’aiuto. Aveva provato anche lei ad aiutarli passando più tempo con lui, cercando di proteggerlo… ma si era ritrovata coinvolta negli agguati come il cugino e lo zio William le aveva proibito severamente di mettersi in pericolo un’altra volta, relegandola nel pub.
Erano passati a quel modo due anni, due travagliati e complicati anni, in cui l’unica cosa che era sopravvissuta era l’amore tra Phil e Mief, indissolubile.
Un giorno, esasperata dalla situazione sempre più agguerrita, Mief gli aveva fatto visita al college. Era la prima volta che metteva piede fuori da Ataklur, ma con la sua pacata eleganza e le sue buone maniere sembrava una habitué.
«Forse ho trovato una soluzione», gli aveva detto comparendo alla porta della sua stanza condivisa coi compagni di corso. «Ma… non ti piacerà».
«Tutto, pur di restare insieme», aveva replicato lui, pronto.
«Ti ricordi i legami tra persone?»
Si erano seduti sul letto, mano nella mano, approfittando dell’assenza dei coinquilini. Lei indossava un bellissimo cappottino beige ed aveva una sciarpa rossa, comprati all’improvviso essendo stata colta dall’autunno, con le temperature che ad Ataklur non si potevano mai sentire in nessun periodo dell’anno, se non andando sulle alte montagne di Lagireth.
«Certo», aveva risposto Phil ammiccando malizioso, «Lo provo sempre, con te».
Mief aveva stretto le labbra nel tentativo mal riuscito di trattenere un sorriso. «Non quel legame…»
«Sì, gli altri… dunque, gli altri erano… »
Phil stava corrugando la fronte nel tentativo di ripescare dalla memoria le nozioni generali che gli aveva impartito lei anni prima, quando erano solo due bambini curiosi l’uno dell’altra.
«Possessione, Controllo e Marchiatura, che è una via di mezzo tra le altre due».
«Esatto. Ho letto su un testo avanzato che il Controllo nei tempi antichi, quando ancora il corpo delle guardie non era regolarizzato come adesso, era utilizzato per proteggere le persone a distanza. Praticamente… permette al controllante di seguire le mosse del controllato, in modo da poter intervenire subito se questi fosse in pericolo perché lo percepirebbe allo stesso modo!»
«Ma… questo non mi priverà della libertà, vero?»
«Oh no, non lo permetterei mai! Tu mi piaci così come sei, non voglio un burattino!»
Phil aveva tirato un sospiro di sollievo, ma la “soluzione” ancora non gli piaceva. «In realtà volevo mostrarti una cosa… ci ho lavorato un bel po’ ultimamente, anche se avrei bisogno di tornare ad Ataklur e, con il tuo aiuto, prendere altre materie prime».
Mief aveva alzato entrambe le sopracciglia in un’espressione incuriosita e sorpresa. Lo aveva invitato a mostrarle tutto subito, e lui lo aveva fatto, mostrandole con orgoglio una pistola a sei colpi.
«Cos’è?», aveva domandato lei allungando le dita affusolate verso la canna lucida.
«Questa… spara. Normalmente spara dei proiettili, ad una velocità tale da uccidere o almeno ferire molto male una persona. Una persona cattiva, ovviamente. La usano le nostre guardie, cioè i poliziotti e tutte le forze dell’ordine… e purtroppo anche i criminali. Il motivo per cui questa pistola è speciale, però, è che io adesso l’ho caricata con Stelle. Stelle Blu, per la precisione, le ho lavorate con gli strumenti del nonno di Mark, il mio compagno di stanza», aveva precisato indicando una porta in corridoio. «Lui era orafo, così ho potuto tagliare le pietre e… insomma, che te ne pare?»
Mief non aveva mai avuto un’espressione più confusa. «Non capisco», aveva risposto solamente, con estremo imbarazzo.
Phil allora aveva acceso il computer di un altro suo compagno di stanza, Harry, ed aveva cercato un video in cui si mostrasse il funzionamento di una pistola. Mief l’aveva guardato con vivissima attenzione, sobbalzando ai momenti degli spari ed inorridendo alla vista di cosa poteva succedere. Phil aveva poi cercato altri video, in modo da mostrare in maniera ancor più precisa l’applicazione della sua arma senza però traumatizzarla troppo.
«Ecco, ora immagina se una cosa del genere dovesse succedere ad un jiin che mi attacca per le strade. Se sparassi proiettili normali potrebbe bloccarli con una barriera o deviarli ma, essendo questi fatti di Stelle Blu…»
«… annulleranno l’effetto della magia e il colpo non mancherà il bersaglio», aveva concluso la ragazza. «Biondo, sexy e pure geniale: sei proprio il mio fidanzato, Philip Mayson!»
Un lunghissimo bacio e le sue conseguenze avevano archiviato la scoperta di quella soluzione. Nel cuore della notte, però, lei si era svegliata di soprassalto, agitata da un sogno orribile. A Phil avevano teso un agguato, lui aveva estratto la pistola ed aveva sparato: un assalitore era morto, gli altri però avevano usato la magia per disarmarlo e si erano vendicati del compagno, non limitandosi a mandarlo in ospedale…
«Cosa c’è, amore?», aveva mugugnato lui non appena si era accorto che lei era seduta e non più sdraiata accanto a lui, col respiro pesante ed allarmato.
«La pistola non funzionerà», stava balbettando lei in preda al panico. «Ho appena fatto un sogno… un incubo!»
Phil si era tirato su a sua volta e l’aveva abbracciata, accarezzando i lisci capelli scuri. Quella notte non c’era la luna e tutto sembrava più tetro. «Era solo un sogno, Mief, non ti angosciare… ho fatto pratica al poligono, se mi dovessero attaccare non ci sarà una seconda volta per quei farabutti».
«No, io… non posso sentirmi al sicuro se hai in mano quel pezzo di metallo e basta. Non posso perderti!»
Phil aveva intuito come sarebbe andata a finire la situazione. «Quindi… ti sentiresti meglio solo se mi controllassi?»
Mief non aveva dubbi e Phil non poteva che accontentarla. Dopo aver fatto tutte le domande in merito, su ogni minimo aspetto che riguardava l’incantesimo, alla fine era giunto il giorno designato per attuarlo e, sotto lo sguardo attento del maestro di scuola di Mief per controllare che tutto andasse per il verso giusto, tutto si risolse. Phil era diventato controllato di Mief.
All’inizio non capiva cosa fosse successo. Un secondo prima Mief ripeteva parole strane, poi il mondo è diventato giallastro ai suoi occhi e, infine, era svenuto. Al rinvenimento non aveva notato niente di strano o di diverso in sé e continuava a rispondere “no” a tutte le domande di controllo della ragazza. I benefici derivanti dal Controllo si erano fatti vedere pochi giorni dopo, quando Phil si era ritrovato in mezzo a cinque jiin, di cui un paio già presenti in altri agguati. Non appena si era accorto della loro presenza, Mief l’aveva percepito e si era precipitata al suo fianco, proteggendolo. Molte volte era intervenuta direttamente lei, mentre altre aveva dato l’ordine ad una squadra speciale che riusciva puntualmente a fare il suo dovere.
Da quando le iridi di Phil erano diventate più luminose, ingiallite dal sigillo del Controllo, Mief finalmente era tranquilla, ma il ragazzo stava iniziando a rendersi conto di una cosa strana. Oltre all’inquietudine dovuta al costante mentire a Jenna e allo zio (non aveva infatti avuto il coraggio di confessare ciò che aveva fatto), se n’era aggiunta un’altra. Il suo cuore non sussultava più per Mief, i suoi pensieri non faticavano a discostarsi dal suo amore, baciarla non gli dava più le stesse emozioni di poco tempo prima. Dall’oggi al domani, il suo sentimento si era affievolito. Mief se n’era accorta quasi in contemporanea con lui, ma l’indebolimento del legame era avvenuto solo dalla sua parte: lei lo amava ancora follemente.
«In presenza di Controllo, effettivamente era possibile e plausibile che il legame d’Amore si potesse fare da parte», aveva commentato il maestro esperto quando lei l’aveva interpellato. «Quel povero ragazzo non può essere sotto l’influenza di due tipi di legame, uno dei due doveva spezzarsi… e purtroppo è successo a quello amoroso, mi dispiace. Il nostro incantesimo era perfetto».
Phil provava un immenso dolore sapendo cosa aveva perduto e non riusciva più a recuperare: per quanto intensamente ci provasse, non riusciva davvero ad innamorarsi di nuovo di lei. Mief non poteva crederci. Anni di relazione perfetta e stabile, sfumati all’improvviso… per proteggerlo.
Troppo ironico, troppo crudele.
Lei continuava ad amarlo, ma su di lui ogni parola dolce ed ogni premura scivolavano come se fosse fatto di cera. Si vedeva che cercava di nasconderlo, ma lei poteva sentire la menzogna, la sentiva a grande distanza. Neanche tentare di indebolire l’incantesimo riusciva a migliorare la situazione.
Le ci era voluto un po’ di tempo, troppo, ma alla fine anche lei era riuscita ad attenuare il suo sentimento. I suoi modi erano diventati più rudi, la sua lingua più tagliente, le parole avevano sempre un retro velenoso. Aveva individuato nella carriera l’unico interesse da perseguire e Phil, rimanendo sempre sotto il suo Controllo, la aiutava e sosteneva come poteva. Si sentiva in debito con lei e così era diventato suo consigliere, andava sotto copertura ad osservare le mosse degli altri Capi per prendere ispirazione o migliorarsi, la affiancava nei viaggi diplomatici e restava con lei fino a tardi a riempire scartoffie e controllare documenti. Phil aveva iniziato a vestirsi in maniera più elegante per non essere in jeans al fianco di una ragazza tanto splendida e curata, e lei lo aveva apprezzato tanto che il Controllo gli aveva fatto diventare naturale vestirsi “come un damerino”, come diceva Jenna storcendo il naso. “Un damerino invischiato in giochi di potere”, sottolineava lo zio William. “Occhio a non farti uccidere sul serio, è un lavoro pericoloso”.
Per lo meno, si ripeteva Mief, Phil non era più in pericolo. La notizia della fine della loro storia aveva fatto il giro della città, gli assalitori non avevano più motivo di usarlo come leva e lei, in ogni caso, era sempre pronta a difenderlo.
Tra loro due era sceso un freddo divisorio e niente era più come prima e su entrambi i loro volti non c’era altro che tristezza.
«Non ce la faccio più», aveva detto lei un giorno mentre si scioglieva la treccia. Erano nella sua stanza, Phil era appena stato convocato.
«A fare cosa? », aveva domandato confuso.
«Voglio che tu ti faccia assumere da qualche altro Capo, non posso…», aveva sospirato. I capelli lunghissimi le coprivano l’intera schiena. «Phil, io ho cercato in tutti i modi di riconquistarti, e tu non te ne sei neanche accorto!»
Phil aveva fatto spallucce, impotente. «Mi dispiace», aveva detto.
«Fai i bagagli, ho sentito che Heim vuole un nuovo assistente e tu sei molto più qualificato di altri».
«Ma io non…»
«Non posso più vederti ogni giorno, per così tante ore, sapendo che non sarà più possibile nulla di quello che avevamo. Non voglio soffrire così. Non posso».
Phil aveva chinato la testa. Non c’era giorno in cui non malediceva quell’incubo che li aveva spinti a scegliere il Controllo come soluzione ai loro problemi. Avrebbe dovuto dare ascolto a suo padre e non innamorarsi mai…
«Ovviamente non dirai nulla di noi, o del Controllo», aveva aggiunto Mief.
«Ovviamente».
«E mi farai rapporto se ci saranno cose che potrebbero interessarmi».
«Certo».
Qualche istante di silenzio assoluto, poi Mief si era asciugata una lacrima ed aveva fatto un gesto con la mano verso Phil. «Va’ pure, è tutto».
Phil, però, invece di allontanarsi le si era avvicinato. «Non sarò più in grado di amarti», aveva detto, «Ma non sono morto dentro e non ho scordato neanche un secondo della nostra storia. Mief, vedo come mi guardi… e non sai che darei per poter tornare indietro».
Le aveva preso il viso tra le dita e l’aveva baciata dolcemente, mettendo tutta la passione che aveva a disposizione. Mief aveva singhiozzato ma anche sorriso. Poi gli aveva preso il viso con entrambe le mani e l’aveva trascinato a sé.
Era una notte senza luna, ma il buio sembrava meno oscuro.




*°*°*°*




Ahh... c'est l'amour! E c'est i legami magici, che rompono l'amour. Ora sappiamo perché e come Phil e Chawia sono legati, fine del flashback! Mi ha fatto molta pena scrivere cose così tristi... un profondo amore svanito all'improvviso. Non sarei onesta se omettessi che l'ispirazione mi è venuta da una relazione finita esattamente così, ma senza incantesimo (quindi ancora peggio), e sono contenta - diciamo - di aver appioppato la mia sorte a qualche personaggio delle storie, cosa che ho fatto fin dall'alba dei tempi (ah, 13 anni fa... ^^) per sopportare meglio ciò che mi succedeva.
Ottimo, ho divagato anche abbastanza. Ora che sappiamo i retroscena di Phil e di Chawia (poverini! ma perché adoro scrivere storie così crudeli T_T) possiamo andare avanti con Annah, Neh, Lor e la missione! =D

Al prossimo capitolo, ciao!

Shark

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Capitolo 28
*** Compagni di Viaggio ***


30
Compagni di Viaggio


«Dunque… esattamente voi come conoscete Phil?»
La voce secca ed al tempo stesso curiosa di Jenna veniva indirizzata senza remore verso una tesa Kayrin ed un annoiato Lorwaar, in cerca di qualcosa di più di quel “Puoi ospitarli?” di suo cugino. Phil, nel frattempo, era già andato a dormire al piano di sopra, stanco ed abbattuto dalla giornata.
Will era su uno sgabello appena fuori dalla porta, assorto nei suoi pensieri mentre fumava una elaborata pipa rossa che profumava di tabacco il pub alle sue spalle. La porta era tenuta aperta da un tavolo rotto a metà, così che la figura immensa dello zio sbucasse per più di metà e rapisse gran parte dei raggi lunari che sarebbero altrimenti entrati.
«Siamo compagni di viaggio», rispose Kayrin guardando fisso il boccale che le aveva portato Jenna in automatico non appena si era seduta; non aveva neanche idea di cosa contenesse, né del perché gliel’avesse dato. Lorwaar invece non si era fatto scrupoli ed aveva bevuto tutto il suo.
«Un gran viaggio», aggiunse il ragazzo dopo aver abbassato rumorosamente il boccale sul tavolo, facendo traballare il liquido rosa contenuto in quello di Kayrin. «Una cosa davvero importante che ovviamente non possiamo dirti… c’è un bagno qui?»
Jenna lo fissò senza battere ciglio, probabilmente incerta su cosa pensare. Alzò poi un dito verso la porta in fondo al locale, dietro il bancone, e Lorwaar corse via gettando la sedia a terra e spaventando i pappagalli appollaiati sui boccali puliti e capovolti sui ripiani.
«Non sapevo che Phil avesse un gruppo di viaggio», disse poi a Kayrin, squadrandola a sua volta. «Credevo fosse sempre solo.»
«Oh, credo sia effettivamente sempre stato così», convenne la donna inclinandosi verso il boccale per annusare la bevanda misteriosa. «In realtà non siamo proprio un gruppo… non che abbiamo un ruolo preciso, siamo solo persone che per un motivo o per l’altro viaggiano assieme.»
Jenna non sembrò soddisfatta. «Viaggiate assieme», ripeté.
«Sì.»
«Senza uno scopo comune?»
Kayrin prese il coraggio a due mani e sollevò il boccale, non riuscendo a mascherare del tutto la sua espressione poco decisa a proseguire con l’assaggio. «All’inizio era una missione di soccorso, ora non so…»
«È tisana di fiori locali», la rassicurò Jenna con voce seccata. «Non offro i miei preziosi alcolici a chiunque mio cugino molli alla locanda», proseguì alzando gli occhi al cielo. Kayrin si rilassò molto e bevve senza timori.
«A proposito, come mai era così stanco? Intendo, più di voi… suoi “compagni”.»
A Kayrin andò di traverso il sorso e tossicchiò un paio di volte mentre Lorwaar tornava dal bagno con una strana aria soddisfatta. «Dovresti chiederlo a lui», rispose la donna.
«È successo qualcosa a Palazzo con quel Capo gnocca», proseguì Lorwaar rovinando il tentativo di riserbo di Kayrin, la quale gli lanciò un’occhiataccia e tentò di riprendere in fretta e furia le redini della risposta che voleva dare. «Sì, ma non possiamo risponderti a qualsiasi altra domanda sull’argomento perché siamo stati sbattuti fuori non appena ci abbiamo messo piede, quindi non sappiamo nulla», aggiunse in fretta vedendo l’agitazione crescente della barista.
«Ancora quella…», mugugnò Jenna con le mani che fremevano. «Ditemi che non c’entra anche quella criminale di Feinreth», intimò ai due ospiti. Lorwaar sollevò le sopracciglia quasi con divertimento e Kayrin socchiuse gli occhi in un sospiro grave. Jenna picchiò un pugno sul tavolo.
«Perché è così idiota, sempre gli stessi errori!»
«Jenna…», la richiamò suo padre Will in una nuvola di fumo dall’esterno del pub.
«Non è possibile!», continuò invece ad arrabbiarsi lei.
«Lascialo vivere la sua vita», proseguì l’uomo dalla strada. «Se gli piace complicarsela a questo modo, che puoi farci.»
Jenna si alzò in piedi e con due ampie e pesanti falcate raggiunse il padre. Si affacciò dallo stipite e continuò a lamentarsi di Phil con lui, parlando rapidamente e cercando di non farsi sentire da Kayrin e Lorwaar, ancora al tavolo.
«Certo che ci tiene a lui», commentò il ragazzo mentre giocherellava con una delle sue treccine. «Io ho mille cugini ma non mi è mai importato nulla di loro! Ah!»
Kayrin fece spallucce e sorseggiò ancora la tisana, cercando di farsi sopraffare dal suo profumo per scacciare i pensieri.

Era notte fonda quando Savannah fece irruzione nella stanza per gli ospiti in cui Kayrin, Phil e Lorwaar stavano dormendo tranquillamente, comparendo pallida come un fantasma e leggiadra come un angelo.
Posò una mano sulla guancia di Lorwaar, come una madre con il figlioletto, ed un sorriso le si era disegnato sul volto. «Dobbiamo andare», gli disse.
Lorwaar era scattato subito in piedi, memore di tutte le volte in cui lo stesso messaggio era stato recapitato da Nehroi, Savannah o da lui stesso agli altri due. «Annah!», aveva esclamato, ma lei gli aveva fatto cenno di non fare rumore ed il ragazzo aveva annuito ed iniziato silenziosamente a raccogliere la sua roba.
Savannah si era poi chinata su Phil, toccandolo ad una spalla. «Sveglia», disse anche a lui, «Dobbiamo andare, in fretta.»
Phil aveva fatto un mugolio ed aveva iniziato a stropicciare gli occhi, incapace di aprirli al primo tentativo come il ragazzo del deserto. «Cosa…», chiese, ma la ragazza gli scrollò il braccio e lui si svegliò del tutto. All’inizio gli era sembrata una visione impossibile, come poteva essere lei lì? Poi gli pizzicò la spalla e tutto divenne più nitido. «Che succede?»
Savannah lanciò un’occhiata a Lorwaar, sorridendo soddisfatta vedendolo pronto alla porta, e fece un cenno a Phil. «Su, prendi la tua roba che dobbiamo andare.»
«Dove?»
Annah non rispose ma si alzò in piedi e si avvicinò a Lorwaar.
«Aspetta!»
Phil fece uno scatto e si mise le scarpe in un secondo. «E Kayrin?», domandò.
La ragazza lo guardò come se avesse chiesto degli alieni. «Chi?»
L’umano indicò la donna addormentata dall’altro lato della stanza, di spalle sotto la coperta. «Lei, non viene con noi?»
Savannah la esaminò per un breve secondo, con la testa inclinata come se stesse guardando un quadro da una certa prospettiva. «Tu la vuoi?», gli domandò.
Phil rimase interdetto per qualche istante da quella domanda. «Non è che io la voglia… ha fatto tanto per noi. Non è giusto lasciarla indietro.»
Annah gli lanciò uno sguardo che lui intese al volo: la carta del “è giusto, non è giusto” con lei non funzionava mai. Si immaginò il risveglio di Kayrin, lei che aveva sacrificato la sua vita normale ed accettato rischi assurdi per gente che non conosceva e che non le interessava: sola nella locanda di altrettanti sconosciuti che non la desideravano e che lei non avrebbe mai avvicinato. «È l’allieva di Meede… ci serve», tentò di nuovo Phil, per evitarle quella sorpresa.
La ragazza sembrò accettare di più quel dettaglio. «Dubito che sia vero, ma se ci tieni tanto… svegliala.»
Phil si avvicinò in fretta alla donna e la mise rapidamente al corrente di tutto, dicendole di sbrigarsi. Poi, tutti e quattro scesero le scale, circondati dalle barriere sonore che la jiin aveva eretto per non farsi sentire da Jenna e da Will. Raggiunsero Nehroi, di guardia all’ingresso del pub, e si incamminarono verso il confine sud di Eastreth mescolandosi tra la folla agitata.
Le luci dell’alba si confondevano con il chiarore dell’incendio che divampava alle loro spalle e nessuno, tra gli abitanti e le guardie occupati a spegnerlo e contenere l’agitazione dell’attacco alla casa degli O’Shea, sembrò accorgersi di quei cinque forestieri che andavano in direzione opposta.


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Hola! Ebbene sì, non sono morta!
Ci hanno provato, credetemi... ma volevo farvi sapere che non ce l'hanno fatta. La Shark ha la pelle durissima!!

Si sta concludendo l'anno e vi confesso che sono mesi che non scrivo una sola riga di questa storia, pur pensandoci molto spesso. Una settimana fa ho prestato la mia copia stampata della prima parte della storia (in pratica "il volume 1", quello concluso qui su EFP) ad un mio amico e se l'è letteralmente divorato mentre noi divoravamo pranzi e cenoni... quindi mi ha fatto tornare la voglia di scrivere! Anche perché è vero che ho mille cose da fare, esami su esami da dare ecc... ma non posso non terminare la storia dei miei amorini! E poi li avevo mollati in un momento così pieno di suspance! Cavolo, dovevo rimediare.
E quindi ecco un piccolo capitolo a fare da ponte tra le ultime vicende e il prossimo arco narrativo! Mi sembrava giusto postarlo per concludere l'anno ed iniziare il prossimo! <3
Grazie come sempre a chi legge e recensisce!! No, non andrei proprio da nessuna parte senza di voi! :)

Ebbene, un buon 2016 a tutti!! (ma non posso assicurare nulla per i nostri protagonisti, LOL)

Vostra,
Shark

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