cap 1 fearles
Titolo:
Fearless
Autrice:
Epo
Rating:
R/Nc17
Genere:
Romantico, Drammatico, Introspettivo
Avvertimenti:
Slash, Lemon, AU, What if?, scritta da me
Pairing:
Blaine/Kurt
Sommario:
La maledizione della bestia poté
essere rotta con la forza più grande, il vero amore. Ciò
che raccontano è questo, lo narrano da secoli, perché le fiabe sono
coinvolgenti e colme di speranza.
Ma
Blaine ha cessato da tempo di credere alle favole e alle storie dei
buoni sentimenti. Mentre
Kurt non può fare a meno di aggrapparcisi con tutte le proprie
forze.
Note:
questa fanfiction nasce su un quaderno, un paio di mesi fa, e in
qualche notte insonne. Nasce nella spensieratezza delle vacanze e
nella voglia di fantasticare e di un po' di romanticismo. Nasce da un
vecchio desiderio, quello di riscrivere la fiaba de La bella e la
bestia, di provarci e per una buona volta riuscirci.
È
una riscrittura contemporanea, ambientata ai giorni nostri, e la
fiaba è punto di ispirazione, ma in questa fanfiction non troverete
elementi magici né mostri pelosi. La storia è interamente umana,
anche se non ho presunzione di essere stata realistica nella
narrazione. Della fiaba ho mantenuto alcuni tratti guida: se guardate
bene, forse potete riconoscerli.
Fearless
è una storia spudoratamente romantica, con tratti drammatici e
angst, che non si fa vergogna di addentrarsi in cliché. È conclusa,
e secondo una mia primaria divisione sarà di cinque capitoli di
buona lunghezza. Verrà aggiornata regolarmente.
Non
è betata e io sono miope e astigmatica, oltre che estremamente
annoiata dalle riletture: se trovate errori o avete critiche, non
fatevi problemi a comunicarle.
In
ogni caso, vi auguro buona lettura!
Fearless
*
I.
C’erano
degli indizi, dettagli che facevano intuire l’esistenza di un’altra
alternativa brutta all’essere vivi
(da
Il tempo è un bastardo, di Jennifer Egan)
*-*-*
Quell'autunno
era particolarmente piovoso. Il cielo gonfio prometteva temporali fin
dalle prime luci del mattino. Lo scalpiccio sui marciapiedi era
attutito da grovigli di foglie annegate e marcite.
Kurt
pensava che fosse bellissimo.
«
Il maglione d'angora pare in tinta con le nuvole »
canticchiò quel giorno, seguendo un ritornello giocoso ripescato da
chissà quale memoria. Il tessuto era morbido sotto le sue dita e
contro la pelle, ancora solleticante del fresco dell'armadio.
«
Ti vedo in forma » commentò suo padre quando lo vide entrare in
cucina qualche minuto dopo per sorseggiare velocemente del succo di
frutta e infilarsi in bocca un paio di biscotti, al volo.
Kurt
annuì, dietro la rima del bicchiere e l'accenno di un sorriso. «
Nuovo lavoro, forse! » disse, senza aggiungere altro, perché quelle
due parole erano sufficienti.
Nuovo
lavoro! Dopo giorni d'attesa che qualcosa accedesse. Che piovesse
dal cielo, insieme all'autunno. E infine era arrivato, insieme ai
temporali, all'umidità della stagione.
Se
osservava il cielo, gli pareva carico di promesse.
*-*-*-
Casa
Anderson era quanto di più maestoso Kurt potesse aspettarsi. Era
stato in ville di facoltosi, e qualche volta era uscito con alcuni
ragazzi economicamente molto benestanti, ma mai aveva varcato
cancelli tanto imponenti, od osservato mura che si estendevano verso
l'alto e l'orizzonte superando l'ampiezza del suo sguardo. Scrutando
le file di finestre serrate, le fronde di boschi rigogliosi e scuri,
si domandò però se potesse realmente piacergli una ricchezza tanto
opulenta e minacciosa. Aveva sempre associato il denaro alla moda dei
colori chiari, dei campi da tennis e golf, agli abiti sempre in
ordine, gli appartamenti luminosi e sereni, immensi e minimalisti
(così diversi dalla sua piccola camera stipata di oggetti).
I
corridoi di quell'edificio erano invece oscurati da pesanti tendaggi.
Un pianoforte da concerto dall'aria tristemente abbandonata e
polverosa occupava una delle sale che superò, seguendo la silenziosa
cameriera che gli aveva aperto l'ingresso e le barocche cornici
dorate che si stagliavano sgraziate e vistose sulle pareti, intorno a
specchi dall'aspetto antiquato.
Occhieggiando
rapidamente una galleria di ritratti e un salotto di divanetti e
poltroncine in velluto borgogna, si chiese per un attimo che ci
facesse lì.
O
meglio, che ci faceva lì lo sapeva bene: aveva risposto
all'annuncio, telefonando al numero indicato.
«
Vogliamo vederti, prima, conoscerti di persona, ma al momento non
vediamo motivi perché il lavoro non sia suo, signor Hummel ».
Così
aveva detto la voce che gli aveva risposto al telefono. Femminile,
gentile, un po' roca. Avrebbe potuto facilmente immaginare una
giovane donna, seduta, che attorcigliava il filo del telefono intorno
a un dito e stringeva una sigaretta tra indice e medio, nell'altra
mano, mentre gli parlava.
Ecco
cosa ci faceva lui, lì. Cercava un lavoro. Uno che gli permettesse
di aiutare suo padre a mantenere a entrambi un tetto sulla testa. Uno
che non fosse troppo impegnativo da distoglierlo totalmente dal
canto, né troppo umiliante, come altre volte gli era capitato di
dover sopportare.
“Assistenza
personale”, richiedeva l'annuncio. Lui aveva domandato
telefonicamente di che assistenza si trattasse. Aveva spiegato di non
essere un infermiere e di non avere alcuna esperienza nel campo
sanitario – se era questo tipo di assistenza che in realtà si
ricercava – e gli avevano assicurato che non vi erano problemi. Si
erano limitati a qualche rapida quesito – età, studi, passioni,
hobby, piani per il futuro – e Kurt aveva risposto tra la sorpresa
e lo sconcerto, chiedendosi cosa diamine potesse interessare al suo
datore di lavoro se nel tempo libero guardava musical o cantava con
gli amici.
Si
domandò per l'ennesima volta, non senza preoccupazione, che tipo di
mansioni si sarebbero attesi. Guidato sempre dalla speranza che, di
qualsiasi cosa si trattasse, si sarebbe comunque ritrovato a fine
settimana con una busta paga in mano. Il solo pensiero di uno
stipendio, dopo tre settimane totalmente al verde, era stato
sufficiente a fargli decidere di percorrere l'ora di viaggio fino a
casa Anderson, quel mattino, carico d'aspettativa. Oltre i cancelli
della villa v'era l'oggetto della sua “Assistenza personale” e
probabilmente una lista di compiti da eseguire.
Si
trattava di un anziano paralitico, forse? Di una donna in malattia?
Di una banda di bambini indemoniati? Di un ragazzino difficile, da
aiutare nei compiti?
Era
immerso nei propri pensieri quando la cameriera lo guidò all'interno
di uno studiolo in penombra, con le spesse tende scure tirare a
carpire ogni spiraglio di luce che potesse attraversare le finestre.
Un fuoco vivace era l'unica fonte di calore e illuminazione
dell'ambiente. (Un camino? L'ultima volta che aveva visto un
camino acceso era stato probabilmente in qualche film.)
Si
accorse solo dopo qualche istante che vi era qualcuno sulla poltrona
all'altro lato della stanza. Non riusciva a vedergli il viso,
nascosto dal buio.
«
È arrivato il ragazzo per il lavoro, signor Blaine ».
Kurt
girò lo sguardo sulla cameriera, la quale, dopo avergli rivolto un
rapido cenno – d'incoraggiamento, forse? -, lasciò la stanza e si
allontanò lungo l'interminabile corridoio che li aveva condotti fino
a lì. Kurt rimase in piedi, da solo, a chiedersi dove diamine fosse
capitato. Trascorse qualche istante di silenzio, in cui gli fu
incomprensibile capire che stesse accadendo all'altro lato della
stanza (questo signor Blaine stava dormendo, forse? Lo stava
guardando?) e in cui si limitò a respirare la depressiva atmosfera
della stanza; infine trattenne uno sbuffo e si schiarì la gola, nel
tentativo di attirare l'attenzione.
La
persona sulla poltrona non diede comunque segni di vita e Kurt iniziò
a chiedersi se fosse uno scherzo (e in quel caso Puck e Finn avevano
decisamente superato loro stessi), se dovesse chiamare un'ambulanza o
che razza di problemi avesse questo signor
Blaine. Sicuramente ne aveva meno di lui, col suo castello
principesco, la servitù e lo sfarzo barocco che adornava quel luogo.
Di certo non sapeva cosa fosse dover pagare un misero affitto che era
sempre e comunque troppo alto e cosa significasse doversi occupare di
un padre ammalato.
«
Uhm uhm » bofonchiò.
E,
finalmente, qualcosa si mosse.
«
Vieni più avanti ».
Kurt
si sorprese. La voce era... giovane, morbida, piacevole. Non il tono
rasposo di vecchiaia che si attendeva. Meno piacevole era la nota di
comando che conteneva.
Avanzò
di un paio di passo.
«
Così va bene? » chiese, sentendosi un po' stupido. Avvertì lo
sguardo dell'altro su di sé. Percepì che lo stava studiando, che
mentre lui non riusciva a osservargli il volto, al contrario questo
Blaine riusciva a scrutare i suoi lineamenti.
Si
era presentato a innumerevoli colloqui di lavoro, negli anni,
sperimentando le più assurde o spiacevoli o curiose esperienze. Ma
questa sembrava più un'audizione per partecipare a un concorso per
Reginette di Bellezza della città. E dato che lui era stato davvero
eletto reginetta, una volta, davvero no, no grazie, non aveva alcun
desiderio di tornare a quei tremendi momenti e agli stupidi scherzi
che avevano colorato
la sua adolescenza al liceo.
«
Kurt, giusto? »
«
Kurt Hummel. Sono io, presente! » Azzardò un sorriso. In genere il
suo aspetto gentile aveva sufficiente presa sui datori di lavoro, ma
non era del tutto sicuro se il Signor
Blaine-Rannicchiato-Sulla-Poltrona potesse realmente vederlo col buio
della stanza. O potesse apprezzarlo.
«
Sembri giovane. » Ok, sì. Decisamente poteva vederlo. « Quanti
anni hai? »
«
Ventisei ».
«
Mmm. Esperienze? »
Scrollò
le spalle. « Un po' di tutto. Da cameriere a custode notturno. Il
mio ultimo impiego è stato come commesso in un negozio di sport ».
«
E non lavori più lì, perché...? »
«
Non sono abbastanza sportivo » spiegò con tono neutrale. Non disse
invece che la clientela maschile
non lo trovava sufficientemente sportivo
e che si rifiutava di scegliere i pantaloncini attillati col suo
aiuto. A un certo punto la situazione era divenuta insostenibile.
Stupidi idioti omofobi.
Per
fortuna il signor Blaine non chiese di più e se intuì la ragione
dietro il suo licenziamento non commentò. Si limitò a dire: « Non
che sia davvero importante, che lavoro hai fatto finora. Questo
difficilmente richiede qualche capacità particolare. Se si escludono
efficienza, discrezione, silenzio ». Sospirò stancamente. « Va
bene, puoi andare. Sei assunto. La paga è settimanale e ben più che
adeguata, se ne occuperà Jane, la governante. Vieni domani, alle
otto ». Agitò una mano nella penombra.
Kurt
inarcò un sopracciglio. « Ehm, non ho ben chiaro di che lavoro si
tratti, in realtà » specificò con sottile imbarazzo. “Assistenza
personale”. Doveva assistere... lui? O qualcun altro? Al telefono
avevano precisato che non si trattava di un lavoro sanitario e Blaine
aveva parlato non particolari requisiti necessari, ma...
«
Semplice. Devi fare quello che ti ordino io. Il tuo primo compito? »
Kurt,
sorpreso, lo vide alzarsi a fatica e compiere un paio di lenti e
incerti passi verso il profilo del camino. Studiò la sua figura
snella, asciutta. I capelli folti. Osservandolo di schiena si disse
che non poteva avere più di trenta, trentacinque anni. Il suo tono
arrogante e di secco comando, invece, sarebbero stati perfetti su un
acido ottantenne.
«
Il tuo primo compito è non fare domande. E ora vai, vai ».
Kurt
lo fissò, scioccato. Quasi serrò la lingua tra i denti per non
rispondergli piccato.
Solo
il pensiero dell'affitto da pagare, delle medicine per suo padre, lo
trattennero dal mandarlo al diavolo ancor prima di cominciare a
lavorare. Si girò e si allontanò. Pregando mentalmente di non
perdersi tra quei corridoi infiniti.
*-*-*-
Gli
Anderson erano una delle famiglie più benestanti del Paese, a quanto
pareva. Ricchi sfondati. Almeno così gli disse suo padre,
sorpreso che l'avessero assunto.
«
Per fare cosa? Non sapevo nemmeno che vivesse ancora qualcuno in
quella villa. Intendi quella fuori città, giusto? Un'ora di strada
sulla statale, dopo il lago e il bosco. Antica villa, quella. La
credevo abbandonata, però... gli Anderson si sono trasferiti nella
capitale da anni, ormai ».
Kurt
aveva mugugnato qualcosa su un certo Blaine – il figlio, si era
ricordato suo padre – e spiegato molto genericamente che doveva
occuparsi di “mansioni organizzative”.
Descrivergli
l'atteggiamento di tale Blaine e il compito di “assistenza
personale” avrebbero solo condotto a farlo preoccupare inutilmente
e portato a pensare male di quali queste assistenze personali
potessero essere. Non che Kurt non ci avesse pensato. Negli anni,
aveva risposto ad abbastanza annunci di lavoro da sapere che troppe
volte una semplice parola o numero di telefono potevano nascondere
aspettative sessuali; e questo impiego era sufficientemente nebuloso
da lasciar intuire solo richieste di questo genere... eppure Kurt non
riusciva a convincersene. Il suo intuito non aveva avvertito segni di
pericolo. Solo un personaggio difficile e un atteggiamento sgradevole
con cui trattare. Ma c'erano cose peggiori nella vita: come non avere
un lavoro. O perdere i biglietti per la prima di un musical a
Broadway (non aveva ancora perdonato Rachel per esserci andata
comunque, senza di lui).
E
dopotutto, se Blaine avesse voluto un... accompagnatore sessuale, di
certo era sufficientemente bendisposto economicamente da trovare ciò
che desiderava senza inserire falsi annunci di lavoro.
Digitò
sulla tastiera del computer “Blaine Anderson” e cercò su Google
i risultati.
Si
aprirono infinite pagine.
Famiglia
Anderson. Impero finanziario Anderson. Le ultime fusioni Anderson.
Cambiamenti nel consiglio amministrativo.
Kurt
scorse rapidamente con lo sguardo i titoli, aprendo a casaccio
qualche link.
«
Blaine, Blaine, Blaine... dove sei, tu? Sarai mica ancora su
quell'orribile poltrona invece che nei risultati su internet ».
Trascorse
ancora un po' di tempo a studiare articoli e materiale, ma ogni
parola pareva riservata alle attività economiche della famiglia. Una
rapida occhiata all'orologio gli ricordò che era davvero tardi e la
mattina successiva lo attendeva un'ora di strada per poter arrivare
alla villa. Che diamine stava facendo? Era davvero tanto annoiato da
cercare di indagare sul suo nuovo – e arrogante e decisamente
strano – datore di lavoro?
Non
che ci fosse poi molto da indagare. L'unico figlio citato era un tale
Cooper, già ai vertici dirigenziali dell'azienda.
Solo
in un paio di articoli si accennava all'esistenza di Blaine. Li trovò
quando iniziava a pensare di essersi sognato tutto, quel giorno, o
forse di essere realmente caduto preda di qualche scherzo ben
orchestrato. In uno, particolarmente datato, si faceva riferimento a
un certo Blaine Anderson della famiglia Anderson, che a soli sedici
anni aveva inciso un singolo di musica pop, che aveva avuto un locale
ma discreto successo.
Kurt
non poteva credere ai propri occhi.
Nell'altro
articolo, il signor Edward Anderson affermava in un'intervista che
sì, aveva anche un figlio di dieci anni minore rispetto a Cooper (il
che riferì a Kurt, dopo un breve conto mentale, che Blaine aveva
trentadue anni), ma che non partecipava all'attività lavorativa di
famiglia. “Mio figlio Blaine conduce una vita tranquilla e
ritirata”, era scritto in risposta a una domanda della giornalista.
Leggendo
quelle parole, Kurt inarcò un sopracciglio e sbuffò leggermente,
scettico.
“Vita
tranquilla e ritirata”. Con tutti i soldi che avevano, uno si
sarebbe immaginato giornate oziose sdraiato a bordo piscina, a bere
cocktail colorati e mangiar canapè al cetriolo. Non certo il lugubre
mausoleo dai passati fasti e le tende tirate. Quello stesso lugubre
mausoleo in cui anche lui, dal giorno successivo, si sarebbe dovuto
relegare.
Certo,
sempre se si fosse alzato in tempo. Si decise a spegnere il computer
e si infilò sotto le coperte.
Questo
signor Blaine pareva davvero essere un tipo piuttosto strano.
Per
fortuna pagava decisamente bene.
*-*-*
La
faccenda del lavoro si rivelò piuttosto inaspettata. Per le prime
due settimane, non vide proprio Blaine. L'unica sua cosa che scorse
fu... la calligrafia. Ogni mattina, infatti, trovava ad attenderlo
sul tavolino all'ingresso una breve lista.
Libri
da acquistare, commissioni da eseguire, strani oggetti da reperire, e
soprattutto dischi e album da trovare. Numerosi, nuovi, datati.
Alcuni davvero introvabili. Per fortuna conosceva “i luoghi giusti”
e il negozio musicale di Puck era sempre una meta fidata, nonostante
si dovesse attraversare il peggior quartiere della città per
arrivarci. Un paio di volte si spinse fino a un mercatino a un paio
d'ore di macchina, eppure un giorno non riuscì comunque a trovare
l'album richiesto, nonostante le estenuanti ricerche. Al ritorno a
villa Anderson, quel pomeriggio, ripose la lista sul solito tavolino
e scrisse, accanto al titolo che Blaine aveva richiesto,
“Irreperibile. Mi dispiace :(”. Sperando che Blaine conoscesse il
significato di una faccina. Sul biglietto del giorno successivo, il
nome dell'album era nuovamente riportato. Con sua sorpresa, Blaine
aveva specificato, accanto: “Ritento, magari sarò più fortunato
;)”.
Ma
a parte questo piccolo episodio, la sua vita lavorativa procedeva
monotona. Ogni mattina, Jane, cuoca e governante, gli comunicava la
lista della spesa e le commissioni necessarie per la gestione della
casa (ritirare la posta, passare in lavanderia...). Kurt si sentiva
un autista e facchino, più che un “assitente personale”.
Trascorreva la maggior parte del proprio tempo in auto, tra il lavoro
e le due o tre ore di viaggio per arrivare alla villa e poi tornare a
casa, ore che lo vedevano imbottigliato nel traffico di punta del
mattino e del tardo pomeriggio.
Vedeva
troppo poco suo padre e « Tutto benissimo! » rispondeva ogni volta
che gli poneva domande.
Perché
andava tutto benissimo, giusto?
In
auto ascoltava musica, non aveva screzi o clienti inopportuni e la
paga era decisamente alta. Le mansioni erano semplici, a volte
particolarmente noiose, a volte sufficientemente interessanti.
Andava
e veniva da casa Anderson alla stregua di un facchino. Mangiava in
qualche bar lungo la strada o, un paio di volte, nella cucina di
Jane, dove in silenzio e solitudine si godeva una porzione dei
manicaretti destinati a Blaine.
Su
quest'ultimo, però, non era riuscito a scoprire altro.
Inizialmente
aveva immaginato che trascorresse le proprie giornate fuori casa.. Ma
qualcosa ben presto gli aveva lasciato intuire che forse, in realtà,
non lasciava affatto la villa. E Kurt non aveva dimenticato di quando
l'aveva visto alzarsi dalla poltrona: faticosamente, come se fosse
ferito o provato da una malattia. Magari era stato un caso, un fatto
episodico (come quella volta che lui si era addormentato rannicchiato
sulla sedia della propria scrivania e aveva trascorso il giorno
successivo piegato come il gobbo di Notre Dame), o forse, al
contrario, si trattava di qualcosa di più serio.
V'era
la probabilità che l'avessero assunto per quello, rifletté, per
questo periodo in cui Blaine non poteva guidare e gestire le proprie
commissioni. Magari Blaine aveva avuto un incidente giocando a
tennis.
Chissà...
un incidente orchestrato dalla mogliettina - una modella bionda e
magra - e dal suo commercialista e migliore amico, amante di lei? Col
cuore spezzato e seriamente ferito, Blaine Anderson si era quindi
ritirato a vita solitaria per rimettersi in forma e orchestrare
vendetta
Non
pareva uno scenario così improbabile. Anche se, si ripromise, doveva
assolutamente smettere
di vedere quelle dannate soap opera che piacevano tanto a Finn.
*-*-*
Finché,
circa due settimane dalla sua assunzione, quel piovoso autunno
esplose in un temporale che scosse furiosamente i boschi di villa
Anderson.
Kurt
entrò nella villa bagnato fradicio, nonostante l'ombrello. Non era
sicuro di come fosse riuscito ad arrivare, i vetri completamente
oscurati dall'acqua che cadeva a secchiate.
«
Emily! Vai a prendere degli asciugamani, subito! » ordinò Jane alla
cameriera, prima di rivolgersi a lui. « Non ero sicura saresti
riuscito a venire. Ho chiamato a casa tua, questa mattina, ma tuo
padre mi ha detto che eri già partito. E non eri rintracciabile al
cellulare ».
«
Non c'era rete » soffiò Kurt, ancora affannato dalla corsa lungo
l'ultimo tratto del viale d'ingresso, ridotto a un pantano
inaccessibile in auto.
«
Beh, in ogni caso sei qui. Grazie al cielo. Stanotte sono caduti
degli alberi sul lato nord del parco. Stiamo aspettando che
schiarisca perché vengano a sgomberarli e a controllare la
situazione. Fino a quel momento, non è sicuro allontanarsi e
inoltre... » Sospirò. « C'è bisogno di qualcuno che aiuti, qui ».
«
Qui? » chiese sorpreso.
«
Sì, qui, Kurt. Non posso fare tutto io. Arriveranno per gli alberi e
sicuramente il telefono squillerà ogni due secondi. Inoltre la casa
è un disastro e io sono indietro come non mai! »
Kurt
si guardò intorno. La casa gli sembrava esattamente come sempre.
Lugubre, buia, orribilmente sfarzosa. Non che l'avrebbe mai detto ad
alta voce, certo.
«
Che problema c'è? » si limitò a chiedere.
«
Problema? » Jane si portò le mani ai capelli. « È arrivata la
signora, la madre di Blaine. Ieri sera, inaspettatamente, senza
nemmeno chiamare. Per fortuna si alza sempre tardi al mattino e in
genere i temporali le danno emicrania, quindi rimarrà nella propria
camera ancora per un po' e, per l'amore del cielo, forse riusciremo a
dare un aspetto decente a questo posto ». Si voltò verso il
corridoio. « Emily?! Emily?! » chiamò. « Diamine, ma quanto ci
mette a prendere un paio di asciugamani, quell'inetta? Cadrebbe a
pezzi, senza di me, questa casa. A pezzi. E con tutto ciò che ho da
fare, oggi! Oh, cielo! Oh, cielo! ».
*-*-*
Kurt
non avrebbe saputo dire come, ma la villa realmente si trasformò.
Certo, l'arredamento era ancora irrimediabilmente baroccheggiante e
pacchiano, e l'atmosfera lugubre pareva risiedere intoccabile dietro
ogni angolo e ombra, ma nonostante ciò si espanse un'inattesa
luminosità dalle ampie finestre ora scoperte, pure con le nubi scure
di pioggia e il cielo opaco. I camini accesi diffondevano un calore
confortevole e famigliare.
L'aria
polverosa pareva essersi rarefatta e la musica accesa – qualche
brano classico pianistico – rendeva meno rigidi i silenzi e meno
secchi i passi rimbombanti sui pavimenti lucidi.
Poco
prima di pranzo, Kurt si ritrovò libero dal lavoro, in cucina. Aveva
rapidamente telefonato a suo padre per rassicurarlo che sì, stava
bene, era arrivato e no,non sapeva quando sarebbe tornato a casa.
Jane, intorno a lui, era indaffarata in modo insolito.
«
Sono proprio necessarie cinque portate? » le chiese scettico. La
stanza era colma di calore e profumi invitanti. « Non che di solito
tu non dia il meglio di te, per quello che ho potuto assaggiare la
tua cucina è fantastica, ma... insomma, è semplicemente un pranzo a
casa in famiglia, no? Voglio dire, due volte su tre io e mio padre
ordiniamo del cibo da asporto, e spesso è impossibile chiedergli di
non guardare la partita a tavola e di non urlare imprecazioni contro
la televisione mentre stiamo mangiando! » Si strinse nelle spalle
alla sua occhiata di disapprovazione. C'era stato un periodo, durante
la sua adolescenza, in cui si era appassionato di cucina, ma i
risultati disastrosi erano serviti solo a far sì che suo padre
mangiasse inimmaginabili schifezze di nascosto. Infine aveva ceduto:
almeno così l'aveva sott'occhio, invece che coglierlo in fragrante
mentre riceveva alle tre di notte un'ordinazione di pizza peperoni e
salsiccia e una porzione doppia di pollo fritto con salse. Anche se
ancora gli capitava di pensare che, avendo più tempo, non sarebbe
stato male potersi dedicare a preparare qualcosa di casalingo, di
tanto in tanto, non solo per il pranzo della domenica. Forse poteva
fare dare la ricetta del roast beef da Jane. A suo padre sarebbe
piaciuto. Certo, avrebbe potuto prepararlo se fosse mai arrivato a
casa in tempi umani, una qualche volta.
«
Non conosci la signora Anderson » gli spiegò Jane, interrompendo i
suoi pensieri e mettendogli davanti una tazza colma di tè caldo che
lui accettò con un sorriso grato. « È una brava donna, solo che...
» Esitò.
«
Che? »
«
Non dovrei spettegolare, ma... ha alti standard. È di famiglia
ricca, sai? Fin dalla nascita. Ha nobili origini o qualcosa del
genere, a differenza del marito ».
Il
marito è solo ricco
sfondato, certo, pensò Kurt.
«
Diciamo che tende a notare ciò che è fuori posto e ciò che non
rispetta le sue aspettative, e mi dispiacerebbe lasciarle credere che
non sto eseguendo per bene il mio lavoro. Quando è il solo il signor
Blaine.... la casa è come la vuole lui, semplicemente ».
Lugubre,
buia, antiquata?
«
E... che ne pensa di suo figlio, la signora Anderson? » osò
domandare. In quelle due settimane avrebbe potuto chiedere a Jane
tante cose su quella casa. Dettagli che non riusciva a spiegarsi. Ma
non l'aveva fatto: la propria curiosità lo imbarazzava e lui stesso
era insofferente ai pettegolezzi. Inoltre, sospettava che Jane non
avrebbe apprezzato domande indiscrete, né vi avrebbe dato risposta.
Non
aveva intuito scorrettamente: alla sua domanda la vide esitare. Lo
fissò qualche istante, come studiandolo, cercando di inquadrarlo.
Sapevano così poco l'uno dell'altra, si rese conto Kurt. Lui andava
e veniva, Jane si occupava della casa letteralmente a tempo pieno.
Sapeva che aveva una camera personale, vicino alle cucine. Così come
l'aveva la silenziosa Emily.
Quali
fossero i suoi rapporti con Blaine non avrebbe saputo dirlo – non
li aveva mai visti insieme e lei raramente lo nominava. A un certo
punto aveva pensato potessero essere amanti, nonostante la posizione
subalterna di lei, il suo naso schiacciato, le sue maniere sbrigative
e rumorose, perché dovevano essere coetanei, all'incirca, e non
aveva mai visto alcuna donna andare e venire dalla villa. Ma non
aveva mai visto proprio nessuno in generale, a pensarci bene.
Infine
Jane parve decidere che in qualche modo meritasse risposta e, le
labbra tese in una leggera smorfia, disse: « Blaine è l'eccezione,
per quanto riguarda le aspettative. Non ne ha rispettata alcuna,
ma... diciamo che nessuno ha alti standard nei suoi confronti,
vogliono solo che viva la sua vita e che stia... bene. Non si fanno
vedere molto da queste parti, i signori Anderson, ma Blaine è un po'
il loro punto debole. Farebbero qualsiasi cosa per lui ». Sospirò a
fondo, tornando alle proprie pentole e preparazioni, segnalandogli
che la discussione era chiusa e, qualsiasi cosa avrebbe voluto
sapere, non avrebbe dovuto chiederla a lei.
Kurt
rimase seduto, accigliato. Chiedendosi che vi fosse di tanto speciale
in questo Blaine.
*-*-*
Incrociò
la signora Anderson per caso, imbattendosi in lei mentre si dirigeva
verso il telefono per chiamare il giardiniere per domandargli di
passare il giorno successivo. Il temporale era ormai placato e non
parevano esserci stati particolari danni.
La
signora Anderson stava attraversando l'ingresso a passo veloce,
frugando nella propria borsa. Kurt non si chiese nemmeno per un
istante chi fosse la donna di fronte a lui. Doveva avere più di una
sessantina d'anni, come minimo, ma ne dimostrava una decina di meno.
Elegante, impeccabile, e piuttosto affascinante. Kurt ripensò alla
figura smilza e zoppicante vicino al camino, al buio, e si chiese se
vi fosse qualche somiglianza tra lei e Blaine. La signora Anderson
sollevò il capo e lo fissò per qualche istante, confusa, come se
cercasse di capire chi si trovava davanti. Poi si i suoi lineamenti
si distesero in comprensione.
«
Il nuovo arrivato, giusto ». Lo studiò da capo a piedi. Kurt si
sentì subito a disagio nel semplice maglione chiaro e nei jeans che
indossava. « L'assistente personale » disse, con un accenno di
ironia ben udibile.
«
Kurt » specificò lui.
«
Kurt, sì. Mio figlio ha menzionato ».
Si
domandò che cosa potesse aver menzionato Blaine, dal momento che non
si erano praticamente mai visti.
«
Capisco. Beh, signora, è stato un piacere, ora devo- »
«
Mi è stato riferito che ti occupi di commissioni con l'auto ».
Annuì.
« Esatto ».
«
Stavo per chiamare un taxi, ma credo sia meglio che mi accompagni tu
in stazione. Se hai già dei compiti assegnati, puoi occupartene
domani ».
Leggermente
interdetto dal suo tono di comando e dall'idea di trascorrere del
tempo solo con lei, annuì di nuovo. « Va bene, sì, io... Vado a
prendere la giacca e ad avvertire. Sarò qui tra qualche minuto ».
*-*-*
Per
il primo quarto d'ora, non si erano rivolti parola.
Il
cielo era limpido, ora, e la strada piuttosto libera. Kurt guidava
tenendo lo sguardo fisso sulla strada, mentre la signora Anderson,
seduta sui sedili posteriori come fosse realmente su un taxi, parlava
al telefono. Doveva trattarsi di affari e faccende mondane. Kurt
perse interesse dopo i primi istanti, vagamente infastidito dal suo
costante e animato chiacchiericcio.
Si
riscosse solo quando si sentì chiamare.
«
Volevo trascorrere qualche minuto da soli, Kurt. Per parlare un po'
in confidenza ».
Kurt
le lanciò un'occhiata sorpresa dallo specchietto: vide che stava
ancora digitando sul telefono, ma dopo qualche istante, forse
sentendo il suo sguardo su di sé, lo ripose nella borsetta.
«
Di cosa voleva parlare? »
«
Oh, niente di grave, Kurt, non ti preoccupare. Solo... conoscerti
meglio. Capire e definire le tue mansioni ».
«
Blaine ha specificato che si tratta di fare ciò che lui mi domanda »
gli sfuggì detto in tono piatto. Non era sicuro se la sua risposta
fosse stata indiscreta: non capiva la propria posizione tra madre e
figlio.
La
sentì sospirare. « Sì, certo. Ovviamente, ma... sei consapevole
del tipo di aiuto che mio figlio richiede e... delle domande che non
ti porrà? »
Lui
rimase in silenzio, confuso.
«
Ieri sera, al mio arrivo, ho trovato Blaine a terra ».
Cosa?
Kurt quasi si voltò verso di lei per la sorpresa.
«
Certo, non dico che questo accada abitualmente, so che non è così,
il suo equilibrio e la sua motilità sono migliorate abbastanza negli
anni, anche se non quanto avrebbero potuto. Ma sono dell'idea che
necessiti di un aiuto professionale, se mi capisci ».
Non
capiva, no. Ma intuiva che, di qualsiasi cosa si trattasse, era un
tipo di impiego per cui lui non era idoneo.
«
Io svolgo solo le commissioni » mormorò.
«
Certo ».
«
Compro... i dischi ». Era consapevole di essere arrossito,
imbarazzato.
«
Sei conscio del tipo di assistenza di cui mio figlio avrebbe bisogno,
Kurt? Nonostante lui la rifiuti e mi assicuri di aver trovato un
adatto, ah!, assistente personale... »
«
Io... no. Cioè, in parte. Io e Blaine non ci incrociamo spesso »
ammise. Non spesso era
davvero un eufemismo.
La
signora Anderson dovette intuirlo. «
Mai, cioè » replicò in tono fermo. Lui non rispose. Che avrebbe
dovuto dirle? Che fino a quel momento non aveva nemmeno compreso che
Blaine avesse problemi fisici non temporanei? Che non era un
infermiere né altro del genere, ma in quelle due settimane si era
impegnato al meglio in quel lavoro e non voleva essere licenziato?
«
Kurt, posso farti una domanda? »
«
Certo, signora ».
«
Come hai ottenuto questo lavoro? »
Il
quesito lo sorprese. « Ho telefonato al numero indicato
sull'annuncio. Ha risposto Jane, credo. Mi ha chiesto cosa mi piace,
i miei interessi, cose così ». Le spiegò, abbandonando la statale
per dirigersi verso la stazione. Non mancava molto, per fortuna.
«
Ah. Quindi Blaine non ti ha visto prima di assumerti, giusto? Visto
in faccia, intendo ».
«
Blaine? » Che razza di domanda era? E che aveva la sua faccia che
non andava? « Sì, lui... mi ha fatto un colloquio, per così dire.
Sono andato alla villa e mi ha detto che il lavoro era mio ».
Le
lanciò una rapida occhiata dallo specchietto e colse la sua
espressione sorpresa e vagamente preoccupata.
«
Davvero? Pensavo che... niente, lascia stare. Lascia stare. Volevo
solo dirti che Blaine, beh, non so quanto tu sappia in merito, ma mio
figlio ha subito un... un incidente. Molti anni fa ».
«
Mi dispiace » mormorò. In un istante, le implicazioni dei segni
intravisti in quelle due settimane gli fu più chiara.
«
Certe ferite non sono guarite, in tanti sensi ».
Rimasero
in silenzio, mentre si avvicinavo alla stazione. La signora Anderson
pareva essere tornata al suo elegante distacco. Si sporse appena e
fece scivolare un biglietto da visita nel portaoggetti, prima di
scendere dall'auto. « Chiamami, per qualsiasi cosa. E, te ne prego,
cerca di aiutare mio figlio. Mi sembri una persona discreta e lui...
ha bisogno di tante cose, anche se è troppo orgoglioso e solitario
per ammetterlo ».
Kurt
le rivolse un flebile sorriso e la osservò allontanarsi sotto la
pioggerellina della sera. Non disse che l'avrebbe chiamata, e non
pensava che l'avrebbe fatto. Aveva già problemi a sufficienza di cui
occuparsi, senza doversi occupare della clausura di un ricco
ereditiere invalido. Anche se, nonostante tutto, si ritrovava a
pensarci più spesso di quanto fosse necessario.
*-*-*
Come
appariva lugubre quel luogo di ricchezza e malattia; il contrasto col
pensiero della giovinezza di chi vi viveva era quasi insopportabile.
Nonostante
avesse salutato la signora Anderson ripromettendosi mentalmente di
non lasciarsi immischiare nei loro problemi, il mattino successivo
Kurt si era ritrovato a percorrere i corridoi di quella villa
sentendo nuove presenze, prima ignorate, percependo la vita di chi vi
abitava anche nelle tende tirate, nei pianoforti abbandonati.
Tornò
dalle proprie commissioni poco dopo pranzo. Non venne nessuno ad
accoglierlo all'ingresso e forse fu questo – trovarsi da solo
nell'atrio deserto – che lo spinse a prendere una decisione
improvvisa.
Cercò
di ritrovare nel ritmo degli specchi e dei propri passi il percorso
di un paio di settimane prima – di quel colloquio – e presto si
ritrovò di fronte a una porta chiusa e una targhetta dorata sul
legno scuro.
Blaine.
Esitò,
un attimo, forse di più. Il pugno sollevato, pronto a bussare. Che
stava facendo? Che ci faceva, lì? Si sarebbe arrabbiato tanto da
licenziarlo, forse?
Non
poteva rischiare questo.
«
Che diamine m'è saltato in mente? » borbottò.
Poi
però il suo sguardo cadde sull'adesivo. Non l'aveva notato subito,
nonostante fosse all'altezza della targhetta, vicino allo stipite.
Era vecchio, rovinato dal tempo, tanto liso da essere integro solo in
un lato, che il tempo aveva ancorato alla porta in un grumo di carta,
colla, polvere. Kurt intuì un “Do not disturb” tra le lettere
sopravvissute e quelle cancellate. Uno di quegli adesivi da
adolescenti – anche lui ne aveva avuti, messaggi e simboli intorno
all'armadio, sulle pareti – poi il momento era passato, e anzi,
Kurt s'era ritrovato a trascorrere un intero pomeriggio grattandone
furiosamente i residui. Ma questo adesivo, sulla porta di Blaine,
aveva resistito ad alcol e raschietto. Non li aveva mai incontrati.
Era rimasto incollato, ancorato al legno e al passato, del tutto
inatteso lungo il corridoio di marmo lucido, sotto i lampadari
pendenti che diffondevano una luce opaca.
Forse
fu l'adesivo, forse la sera prima al pub non avrebbe dovuto bere
nemmeno quell'unico bicchiere di vino, sfidando la propria
intolleranza all'alcol, quasi leggendaria; quale che fosse la spinta
che gli diede coraggio, infine Kurt si decise: sollevò la mano
stretta a pugno e batté le nocche contro la porta con decisione.
*-*-*
«
E non ti ha aperto? »
Scosse
la testa. « No, proprio no ».
«
Oh ».
Rachel
fissò accigliata la propria coppa gelato, il cucchiaio sospeso a
mezz'aria, come indecisa su da che lato aggredire quei tredici
centimetri di panna, crema, cioccolato.
«
Magari non era in camera, o non ha sentito » aggiunse, speranzosa.
Come
se Kurt non ci avesse già pensato – sperato – fin dal primo
momento.
«
Quando sono sceso, Jane mi ha detto che era appena stata da lui per
portargli il pranzo. E ha uno spioncino alla porta, quindi è a me
che non ha aperto... E dubito che non abbia sentito, dopo che ho
bussato come un idiota per cinque minuti di fila! »
La
verità era che mentre era lì, davanti all'ingresso della camera,
gli erano tornate in mente le parole della signora Anderson su come
avesse trovato il figlio a terra, caduto, un paio di giorni prima.
Era stato sufficiente perché scenari drammatici si materializzassero
tra i suoi pensieri. Aveva bussato ansiosamente, di nuovo. Proprio
come un idiota.
«
Non lo sopporto » digrignò tra i denti.
Rachel
sbuffò una risata. « Ma se non l'hai mai nemmeno visto in faccia!
Ti rendi conto che stai qui a lamentarti di qualcuno che non conosci
nemmeno? » Kurt arrossì. « Ci sono capi ben peggiori, Kurt, e lo
sai pure tu... pensa a quel tipo che ti dava le pacche sul sedere
ogni volta che gli passavi davanti! »
Quello
era stato davvero umiliante. Quasi quanto spiegare a suo
padre, dopo, perché aveva dovuto licenziarsi.
«
Oppure il cuoco che non si lavava mai le mani, nemmeno dopo essere
andato in bagno o essersele infilate nel naso...»
«
Oddio, Rachel! Ti prego! Adesso che me l'hai ricordato tornerò ad
avere gli incubi e a non mangiare, ne ero appena uscito... »
Lei
si strinse nelle spalle. « Era solo per dire che... c'è di peggio
».
«
Sì, lo so » sbuffò. « Hai ragione. Non so perché mi sono
intestardito con queste assurdità. Cosa mi interessa a me se sua
Maestà Blaine Anderson vive come un vecchio recluso... »
Rachel
rise e allungò una mano per accarezzargli l'avambraccio. « Io lo
so, che ti interessa. Prima di tutto sei curioso come un gatto ».
Gli fece l'occhiolino. « E secondariamente... beh, non riesco a
immaginare cosa sia successo a questo Blaine, ma di certo pare roba
brutta. E lui mi pare un tipo strano. Tanto che con tutti i suoi
soldi non mi fa nemmeno un po' invidia, non mi pare abbia una vita
molto felice. E tu, Kurt... anche quando cerchi di non darlo a vedere
sei un cuore d'oro. E cerchi sempre speranza in ogni cosa ».
«
Ti sbagli, ho perso la speranza di far mangiare frutta e verdura
cinque volte al giorno a mio padre ».
«
Digli che se vuol essere una stella splendente come Rachel Barry,
deve farlo ».
«
Oddio, di certo lo convincerò così! » Rise brevemente, poi fissò
i cerchi chiari lasciati dal caffè nella tazza. Sospirò.
«
Kurt? »
Sollevò
il capo. « Uh? »
«
Kurt, ti voglio bene per come sei, lo sai. Ma non infilarti in
problemi che non puoi risolvere. Hai già tante cose a cui pensare,
per quanto cerchi di non darlo a vedere ».
Sbuffò,
poi annuì. Rachel aveva ragione. Doveva smettere di interessarsi
alla vita del proprio datore di lavoro. Assolutamente.
«
Hai ragione, Rachel... Da questo momento, al diavolo Blaine Anderson!
Chissene importa, di Blaine Anderson! Non esiste nemmeno, per me,
Blaine Anderson ».
... fine del primo capitolo
|