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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Giardino delle Esperidi ***
Capitolo 2: *** Mater Terribilis ***
Capitolo 3: *** L'Ingorda ***
Capitolo 4: *** Serpente ***
Capitolo 1 *** Il Giardino delle Esperidi ***
Il
Giardino delle Esperidi
"Questa era mortale, immortali e
di vecchiaia ignare le altre due; ma con essa sola si giacque
l'Azzurrocrinito nel molle prato e tra i fiori di primavera"
(Esiodo, Teogonia.)
Se
mai qualcuno mi domandasse qual sia della mia dimora il luogo che
maggiormente
prediligo, risponderei senza indugio né
perplessità alcuna ch’esso è il
giardino.
La
mia casa ha un giardino bellissimo.
Non
semplice impresa è descriverlo, credete a me, e assai
più per la sottoscritta:
son fanciulla un po’ rozza, a stento so scrivere.
Esso
s’estende per diversi stadi tutt’in torno
all’abitazione, tanto che il
prendermene cura mi risulta a tratti faticoso. Ahimè, le mie
due sorelle stan
sempre in casa, sepolte in quel labirinto di stanze, pozzi, guglie e
corridoi.
Non escono mai. Il sole è fastidioso, lamentano di giorno.
La notte è fatta per
dormire, dicono all’imbrunire. Così mi ritrovo da
sola a curarmi del giardino,
ma non me ne dispiaccio. La solitudine è bella, se te la fai
amica.
Passeggi
lastricati, sentieri in terra battuta si snodano e si districano fra i
piani
del giardino, sorgono scale d’oro come fonti fra i cespugli
di verbena. I
palmizi si piegano ad ogni ingresso in pacifica riverenza ai
visitatori… quelle
rare volte che giungono qui. Vi son rose sanguigne e gonfie, prati di
viole,
nespoli dolci. Il melo sta accanto all’arancio e
l’uva rosseggia in robusti
grappoli. I gigli si levano dal suolo verso il cielo. Le ninfee
popolano gli
stagni e i corsi d’acqua. Non v’è
differenza fra l’interno e l’esterno della
casa. L’esterno è pieno, l’interno
è vuoto. L’Architetto –chiunque egli
fosse-
mise tutta la maestria di cui disponeva nell’erigere questa
dimora degna degli
Olimpi, di Zeus in persona. Forse che Dedalo prese spunto dalla mia
casa per
costruire il suo famoso Labyrinthos
e
Semiramide, ammaliata dal mio giardino, ne volle uno simile per
sé a Babilonia?
Meraviglia fra le meraviglie è il mio giardino. Esso
è tutto per me ed io sono
tutta per lui.
Di
quando in quando mi diletto nel cogliere papaveri. Ne crescono in
abbondanza ovunque
qui. Sono i miei fiori preferiti: con delicatezza separo lo stelo dalla
radice
e fra loro li intreccio a formar ghirlande rosse e gialle.
Così semplici e così
delicati, basta uno scossone leggero per privarli dei petali.
Altre
volte mi metto a discorrere con le statue. Ve ne sono tantissime, ad
ogni
angolo. Non conosco lo scultore, ma l’arte è in
lui come mai in nessun altro.
Di sicuro è figlio di qualche Musa o forse è uno
dei bastardi di Efesto… o
magari –e gli Immortali perdonino la mia sfrontatezza-
è lo stesso Fabbro a
donarcele. Sono così ben fatte da parer vere. Tutte diverse,
non solo di forma,
ma d’aspetto. Indiani, elleni, italici, celti, egizi. Da
tutto il mondo uomini,
donne e qualche bimbo, in pose svariate. La sola cosa che li accomuna
è
l’espressione. Sempre la stessa, un frammisto di stupore e
paura. Non so perché
lo Scultore Ignoto abbia una simile predilezione.
Tal volta, come dicevo, mi diletto a parlar
con loro, fingere che siano ospiti. Li saluto, gli racconto delle mie
giornate,
del mio giardino. Soprattutto del giardino. Loro ascoltano, fanno
domande, si
complimentano e a fine giornata ci salutiamo.
Non
mi serve il paradiso; vi abito già.
Ma
io non sono –e mai lo si dica!- una padrona gelosa.
Il
giardino non ha mura né cinzioni. Nessun cancello, alcun
accesso occluso.
D’ogne dove i viandanti possono penetrarvi e non troverebbero
ostacolo o guardiano
che li respinga. La mia natura è gentile e non arcigna, non
rifiuta
l’ospitalità, invece gradisce la compagnia.
Mi
incuriosiscono le altre persone e trovo possano dar adito a notevoli
è assai
profonde riflessioni. Credo che siano simili a degli specchi sulla cui
superficie possiamo cogliere il riflesso delle nostre
qualità ovvero delle
nostre mancanze. E qual migliore specchio degli occhi? Adoro
contemplarli,
colorati, lucenti, sfuggevoli, contornati dalle ciglia. Amo vedere il
mio
riflesso nei loro sguardi e fissare la mia reale beltà.
Ed
ora, mio buon Testimone, che tanto solertemente raccogli la mia storia,
ascrivi
col solco della penna nel libro granitico della memoria queste parole,
falle
tue, recitale al mattino appena sveglio ed alla sera prima di stenderti
per il
riposo: nei tuoi occhi, o uomo, io scorgo l’Altra me stessa,
non celata dietro
idoli o maschere gorgonee; quella che ero, che sono e che poi
sarò. Io sono in
te e tu in me, tu ed io siamo uguali. La Bellezza ci unisce.
Ti
prego, non ridere di me e non prendermi per sciocca. Non sono filosofa
e so che
non posso competere con siffatti uomini illustri. Ma non si
può evitare di
pensare quando si è soli…
Sebbene
non ponga ostacoli e l’accesso alla casa sia libero, son rade
le visite. Poche anime
disgraziate bussano al mio uscio. La mia tavola non ha mai accolto
più di tre
persone: me e le mie due sorelle. Loro non sembrano crucciarsene. Amano
questo
eremitaggio cui il Fato ci ha costrette. Non io però. Ho
tanto desiderio di
chiacchierare con qualcuno, rivelare tutti i miei pensieri ad una
persona. Ne
basterebbe una per colmare i miei vuoti.
Ti
confesserò un segreto, un sogno che il mio cuore custodisce,
col rischio di
passar per fanciulla scioccherella e pretenziosa, ma non resisto. Sei
il primo
con cui parlo dopo molto tempo. L’Amore è il mio
desiderio. Oh Dio solo sa
quanto brami l’esser amata da un uomo, sentirne
l’abbraccio cintarmi i fianchi,
le labbra morbide schiudersi alla più alta delle dolcezze.
La peggiore delle
droghe è l’amore per un uomo: una volta provato,
non puoi più farne a meno.
Eppur
non sono estranea a questo mondo di delizie. Una sola volta lo saggiai,
non
ricordo quanti anni or sono trascorsi da allora.
Sorgeva
dal mare, Lui. Bello come il riflesso del sole sull’onda,
rifulgeva di quegli
stessi bagliori. Corpo possente e flessuoso al tempo, sguardo rapace
simile a quello
di certe aquile marine, riccioli stillanti la sua chioma.
Il
corpo nudo mi si accostò ardente più che il
fuoco. Vibrava come corda tesa di
lira, ed io con lui.
Il
timore che provai più non lo rammento, ma fu molto. Ed altro
mi sorse in petto
gonfiando i miei seni in accese palpitazioni.
Egli
mi prese per un braccio; e che forza v’era in quella stretta,
quanto ardore e
quanta urgenza!
Corremmo
sulla spiaggia mentre i flutti quasi si ritraevano al nostro passaggio
e non mi
bagnarono le vesti. Un prodigio!
Nel
Tempio mi fece sua sposa.
Fu
come fare l’amore col mare, l’oceano in persona mi
sovrastava in terribili
cavalloni. La furia del maremoto avea in corpo il Giovane. Mi
sconvolse. I suoi
baci bruciavano laddove si posavano. Provai la violenza dei marosi
contro lo
scoglio, la dolcezza spumeggiante delle onde che cullano. Fu piovra, fu
gabbiano. Fu tutte le cose che il mare popolano, sopra e sotto quella
superficie specchiante. Ed io vi annegai alla fine.
Con
impeto principiò, ma tutto divenne cheto. La quiete dopo la
tempesta.
Mi
abbracciò con parole affettuose e vezzose promesse
d’amore. «Bellissima»
mi diceva. «Ammaliatrice.
Hai capelli di seta. Il tuo profumo inebria come il vino.»
A
fatica recuperai la voce e un po’ d’ardimento. Gli
chiesi cosa gli piacesse di
me. «I
tuoi occhi. Mi pietrificano»
rispose.
Così
cullata m’addormentai. Non lo rividi più.
«La troppa bellezza induce al
peccato. L’amore illecito
reclama castigo. Nessun uomo mai più s’accosti a
te illeso. Tanto affascina il tuo
sguardo da lasciare gelati.»
Una
ragazza un po’ gelosa mi prese in odio. A me non
importò. La perdonai.
Scelsi
la solitudine. La solitudine mi fu imposta. Eppur quanto mi pesa. Son
sempre
una donna e temo a star sola, senza protezione alcuna.
Te
lo dico in un bisbiglio poiché non voglio che qualche
orecchio inopportuno
possa udirmi: questa casa è strana e più volte
m’è parso d’essere osservata da
qualcuno. Non vi sono specchi né vetri né
argenteria. Tutto è in pietra o
legno; par quasi di vivere in un vasto mausoleo. La casa dei
morti… per questo
m’è in odio trascorrervi del tempo. Quivi, lo
dirò francamente, non mancano i
misteri e gli orridi segreti, come quello che sto per raccontarti.
Nel
mio giardino c’è un posto dove non vado mai, ho
paura a mettervi piedi.
È
accaduto tutto un giorno. Sul lato est si trova una fonte dalla quale
si
diparte un ruscelletto che serpeggia lungo metà del giardino
e alimenta quasi
tutte le fontane. Quel dì faceva molto caldo e colta da sete
improvvisa m’ero
chinata alla sorgente per bere un po’ d’acqua
quando lo vidi… un mostro
terribile. Cielo, tremo al solo ricordo. I miei incubi mai prima furono
popolati da creature sì tanto immonde.
Aveva
due grandi occhi a mandorla e la pelle scura, come le genti che
popolano la
Libia e l’Egitto pietroso. Una bocca larga e ghignante da cui
sporgevano
ritorte zanne di cinghiale e una grassa lingua rossa penzolava floscia.
I
capelli poi… o Dio salvami! Chiome brulicanti di viscidi
serpenti. Bestie
orribili che fra tutte più aborro.
Se
ne stava lì, immobile nell’acqua a fissarmi,
faccia a faccia. E mi guardava la
creatura, sebbene dapprima sorridente e quasi felice
all’apparenza –forse
gioiva ella della sua stessa mostruosità?- , nello scorgermi
sembrò stupirsi.
Io, intimorita, non osai guardare oltre. Fuggii urlando e piangendo. Le
mie
sorelle mi consolarono; Euriale dice che non devo preoccuparmi, che non
avrebbe
mai potuto farmi del male. Steno dice che sono pazza. Steno ed io non
siamo mai
andate molto d’accordo, è sempre così
rude e volgare!
Prego
tutti i giorni gli Olimpi perché non abbia mai
più a rivedere quella spaventosa
figura. Alla sera, quando m’addormento e sogno di lei, mi
sveglio ansimante e
madida di sudore. Subito in ginocchio rivolgo preci accorate ai Numi
perché il
male allontanino da me. Fin’oggi mai nulla
m’è accaduto; gli Dèi mi ascoltano.
Ecco,
il sole sta calando. È meglio che vada.
Grazie
per avermi ascoltata con sì fatta attenzione. In eterno te
ne sarò grata.
Adesso
il giaciglio e il sonno mi attendono… e chissà,
magari sognerò del più bel
giovane del mondo, un nobile guerriero, alto e vigoroso che
verrà a salvarmi da
questa solitudine. Brandirà la spada lucente e in un sol
colpo ucciderà il
mostro del giardino. Egli sarà il mio liberatore.
Vieni,
ti aspetto con impazienza, in cambio il mio cuore ed il mio sguardo
saranno
tuoi… per sempre.
E Perseo, figlio di Zeus, armato di spada,
dal collo recise la testa della gorgone Medusa che gli uomini
agghiaccia con lo
sguardo, mentr’ella dormiva nel suo profumato Giardino delle
Esperidi.
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Capitolo 2 *** Mater Terribilis ***
Mater Terribils
“Chi, o figlio, chi fu
tua madre? Forse una ninfa eterna a Pan si unì che i monti
trascorre? O forse del Lossia una compagna?”
(Sofocle, Edipo re)
Si leva alto il bramito,
il ringhio bestiale del mostro, dall’antro. Ne tremano le
dure pareti e il suolo, si sgretola la roccia scossa. Sbuffa, graffia
la polvere, balza da una parte all’altra
dell’eterna gabbia cui è costretta, la belva
maligna. In quell’oscura caligine, sulle sponde
d’Acheronte atro ella sta, vinta nel corpo, ma non nella
volontà. Né Anima né Dio, sebbene
immortali, osano avvicinarvisi per non rischiare tormenti anche
nell’ora del riposo quieto. La Fama è dea
persecutrice più che l’Erinni, segue la vittima
fino all’Oltretomba. Così anche per il mostro
antico, e fa sì che alcuno la disturbi nel tempo della
morte, lei che più d’ogni altro poteva paragonarsi
alla Morte stessa. La Strangolatrice la chiamavano.
Continua quella orribile danza nel buio, e s’accompagnano i
passi pesanti e i latrati con voce di donna, e quale inganno essa cela
nella dolcezza del timbro e del tono! Per angelo la si scambia,
quand’ella è più che un demonio. Canta
la creatura, in ritmo luttuoso a contrasto con le movenze forsennate;
il lamento per il suo nemico, la danza gioiosa per la vendetta
compiuta.
«Chi possiede una sola voce, ma quadrupede si mostra e poi
bipede e tripede?» grida e canta la fiera spaventosa, preda
del delirio; è pur sempre figlia di nobile stirpe di folli e
folle ella rimane, sebbene sia sapiente più d’ogni
assennato mortale.
«Oh mio amato nemico, mio bocconcino, vedi a cosa la gloria
d’un giorno t’ha condotto? Rimpiangi adesso
l’avermi battuta? Sai bene che la colpa
t’appartiene; è tua e da te non si
staccherà. Morire avresti dovuto quel giorno, fra le mie
possenti braccia. Lo avresti voluto, lo vuoi ancora. Ricordo il tuo
aspetto, quando ti vidi. Quel che provai mi batte ancora in petto e
mantiene in vita la memoria e vince l’Oblio che in questa
tetra sede tutto divora. Oh, mai simile fremito mi colse per altro
mortale e la mia natura di donna s’impose su quella di
bestia! Giovane corpo, snello e atletico, e rada barba di primo pelo
copriva a stento le guance scurite dal sole. Le gambe robuste erano
marmoree colonne delfiche, le spalle tue ampie avrebbero sorretto bene
il cielo cui sta asservito il Titano. E le tue mani -oh potessi ancora
rivederle!- forti e venose e dalla stretta possente, identiche alle
mie. Quanto avrei voluto stringere il mio corpo al tuo, strusciare la
tua pelle alla mia e coprirti con ampie ali… circondare il
tuo giovane collo con le dita, contemplando i tuoi splendenti occhi
spalancarsi per la paura e l’orrore, prima di perder ogni
barlume vitale, scivolare nella dimenticanza della morte. Ma tu non mi
temevi, no, e questo maggiormente in me acuiva il desiderio che avevo
della tua vita. Tu mi guardavi e sostenevi il mio sguardo con fiera
fermezza da figlio di re quale sei. I tuoi genitori adottivi ti hanno
istruito bene, questo fu chiaro da subito. Gli istinti,
però, quelli tu non puoi certo reprimerli, i bassi desideri
che dall’alto ti gettano fra il fango e la mota, mutando il
tuo essere Uomo in Bestia, trasformandoti in me. E quanto siamo simili
tu ancora lo ignori, figlio mio.
Non solo io desideravo possesso quel giorno. Anche tu mi bramavi;
troppo allungo il tuo sguardo si fissò sui miei seni
scoperti e sui miei fianchi, sebbene animaleschi. Bramosia perversa la
tua, mostruosa e illegittima, contro natura, attira il biasimo pubblico
come il miele le mosche. Credevi che unendoti alla vecchia regina
avresti cancellato quel desiderio perverso? Orrore cercavi di
cancellare con un orrore più grave, ma solo ora te ne
accorgi. La verità si svela, si scopre, non si acquista.
Volevi mantenerti incontaminato e lontano da ogni difetto, uccidere la
bestialità che ti possiede. Eppure, hai ucciso solo
l’idolo, non lo spettro. Io sono ancora viva e ti attendo. So
che presto ci rivedremo, mio tesoro, mio bocconcino… e
rimedieremo. Avremo tutto il tempo.
Qual è quella creatura che ha una sola voce, ma quadrupede
si mostra e bipede e tripede?
Fu quel desiderio, quel sentimento che mi spinsero
all’indulgenza. Sapevo –io so tutto- il futuro che
ti attendeva ed il tuo passato. Ti avevo riconosciuto. Eri tu quello
che non conosceva se stesso.
Fui per la prima volta preda e non predatrice; cedetti alla compassione
e volsi a te l’enigma della tua stessa esistenza…
ma tu, cieco come sei, non comprendesti. Ti avevo offerto la risposta
su un piatto d’argento: OI
DIPODES. Tu comprendesti solo la superficie, non ne
cogliesti l’animo. Per questo sei cieco.
Dissero che mi suicidai per orgoglio ferito, perché un
mortale aveva sciolto l’indovinello millenario. Sciocchezze!
Mi diedi da me la morte perché non potevo sopportare un
secondo di più la convivenza con esseri tanto stupidi e
ridicoli come gli umani. Non accettavo che anche tu, cucciolo mio,
fossi fatto della loro pasta.
Non era “l’uomo”, ma
“Edipo” la soluzione.
Ora giaccio qui e ballo, felice delle tue disgrazie, mio bel nemico,
mio caro vincitore. Attendo il tuo arrivo; so che adesso tu brami
discender nell’Ade e raggiungermi. Io, la tua amata
Sfinge».
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Capitolo 3 *** L'Ingorda ***
L’Ingorda
Τό
παιδί τό
ʹπνιξε η
Λάμια
(detto popolare greco)
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Glielo do
all’Uomo nero,
che lo tiene un anno
intero.
Chi sono?
Cosa ci faccio io qui?
Che strane domande. Mi sembra d’essere appena nata, sorta da
chissà dove e qui improvvisamente scaraventata.
Fame. Bisogno. Vuoto incolmabile… necessità
costringe.
La mente è un pozzo profondo. La mente è
l’Abisso. “Non guardare”, sussurra la
Luna oltre le tende. “Non sporgere la curiosa vista oltre il
bordo. È brutto. È cattivo. È
Verità”… la verità
è mostruosa. Meglio dimenticarla. E l’Oblio mi
avvolge come un manto, come il velo scuro dietro il quale mi nascondo.
Ma tu non sei reso inquieto da simili pensieri, tu che ancora non hai
passato da cancellare, nella tua culla.
Come son piccole le tue manine, paffute e rosee. Profumano di fresco e
di nuovo, un po’ zuccherine.
Solo soletto nella tua culla, bimbo bello, te ne stai e tanti bei sogni
farai. Cosa vedi? Un gran guerriero? È questo, quel che
sarai? O forse un re in trono o un umile campagnolo?
No. Non credo siano questi i tuoi sogni. A voi fanciulli il futuro non
preoccupa e quasi non esiste. Non va più in là
della prossima poppata. Dormite. Mangiate. Giocate. Che belle
occupazioni! Il meglio è per voi cosa semplice, disconoscete
l’affanno degli adulti. Quanto invidio l’innocenza:
fare, per il gusto semplice di fare. Nessun progetto, nessuno scopo. La
vita è un eterno presente.
Ti agiti un po’ nel sonno. Forse il lettino che mamma e
papà t’han preparato con tanto amore non ti garba?
È scomodo? I bimbi belli van trattati con riguardo.
Su, su, non svegliarti. Non rovinar tutto prima del tempo…
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Come sono scuri i tuoi riccioli. Alla luce del lume rosseggiano; il chiarore
della luna che dalla finestra filtra, ne fa blu i riflessi. Non
è la prima volta che ne vedo simili… ma dove?
Tentazione, desiderio di ricordare. Io possiedo un passato
–certo, è ovvio. È logico-, ma
è sfuggevole, sguscia via come un serpente nel mio
pugno.
Devo acciuffarlo. È necessario, per fare quello che devo
fare.
Ma cosa devo fare?
Necessità chiama.
Sforzati cervello, resisti mente mia, rapida agguanta il ricordo.
Stringilo mentre si dibatte.
Un’immagine. Una sensazione
Erano setosi e profumati i suoi capelli.
Comincio a ricordare.
Li ungevo con olio d’oliva al mattino, sì che
fossero lucidi e belli.
A quale vita risale?
La memoria troppo vecchia fatica a serbare tutto in ordine. Qualche
cosa sfugge e si perde. Qualche cosa si sposta e si mischia a qualche
altra. La mente è una libreria più simile a
Babele che ad Alessandria.
Ecco, m’è sfuggito.
Non importa.
Avvicino le dita alla tua chioma. Esito, ma troppo è il
desiderio.
Sfioro un boccolo, lascio che s’annodi all’indice
come vite al tralcio. Sono morbidi anche i tuoi.
Come sei bello, bimbo mio. Come sei bello.
Sento un rumore provenire dal corridoio.
Mi scosto con uno scatto. Mi appiattisco alla parete, fra le ombre.
Risate sommesse. Un uomo e una donna. I fortunati genitori. Sembrano
allegri; pensavo dormissero.
Li spio dalla porta socchiusa. Non avranno più di
trent’anni: lei ha una voce cristallina, gioiosa. Lui le
bisbiglia poggiando le labbra nell’incavo del collo. Non
comprendo le parole che si scambiano, tuttavia colgo il tono vibrante,
carico, urgente, desiderante. Chi lo vive non lo dimentica. Anche io lo
udii un tempo e fu tutto per me. Lo so, ma non lo ricordo. Ho la
certezza di conoscerlo quasi fosse parte di me, ma non rammento le
circostanze né l’ora o il dì in cui fu
per me la prima volta. Troppe lune sono sorte e calate.
Dallo spiraglio vedo le due sagome avvinte l’una
all’altro. Si baciano, si sfiorano, si toccano. Si vogliono.
Si amano?
Amore. So cosa significa, ma ne ho perduto il senso reale.
Ho mai amato in vita mia?
Due occhi dorati. Due occhi rapaci. Le iridi come folgori. Occhi
divini.
Ecco, vedo ancòra.
La mano sicura e potente m’accarezzò le gote
ancora umide di luttuoso pianto. Si mosse gentile, mostrando la
delicatezza che s’è soliti usare con le cose
più fragili. Ero cristallo per Lui. Ero vetro sottile. Un
fiore.
Passò l’indice dallo zigomo alla mascella
seguendone l’armonico disegno sino al mento, e da
lì, lento e inarrestabile, tracciò il contorno
delle labbra gonfie, truccate di rossa terra; prima quello inferiore,
dopo, quello superiore. Arrivò alle narici, al mio naso un
po’ all’insù, e via fino agli archi
delle sopracciglia.
Non dicevo nulla. Mancava la parola, che in me era tanto abbondante.
Non ebbi né forza né cuore (e forse, nemmeno
volontà) d’infrangere quel mistico incanto.
Un inganno si nascode fra questi frammenti di memoria. Un male
incolmabile, un peccato che mi appartiene.
È di Eros la colpa? È d’Afrodite? Fu
mia o Sua?
Non so. Accadde, tuttavia, quello che accadde e ridicolo è
crucciarsene adesso. Il passato non si cambia. Ne godetti;
n’ebbi parte e non sono esente da peccato. Due nature
distinte è bene che mai si miscelino, ma distanti restino.
Un simile abominio richiama castigo.
Il dito solerte raggiunse gli occhi, ultima meta, e vi si
soffermò. Passò il pollice sulle palpebre. Lo
sostituì con le proprie labbra. Più volte in
teneri baci. Li venerava.
Gli occhi sono il primo strumento del sapere. Lui me ne donò
un paio nuovo, per vedere meglio, dentro e fuori di me. Per ricordare e
mai nulla dimenticare.
Al termine dell’amplesso mi parlò.
La sua voce era un bisbiglio gutturale, simile al bramito roco del
tuono che s’attarda e ancor celato stenta a partorire dai
nembi e lontano resta.
Mi disse ch’ero bella, superiore a Cipride. Disse che
m’amava, e che gli onori con cui m’avrebbe
ricoperta sarebbero stati immensi ed eterni se l’avessi
ricambiato. Io ricambiai, ma non per gli onori… fu ben altro
il mio motore.
Quante promesse fanno gli uomini pur di conquistare non il cuore ma
l’imeneo. Al talamo più che all’amore
sono votati.
Ma se il male sopraggiunse, credo d’averlo meritato. Feci
l’amore col Cielo e gli generò dei figli il mio
ventre!
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Figli… oh Tartaro infinito, ora rammento.
Il fiume della memoria ha divelto gli argini del tempo e scorre libero.
A ricordo segue ricordo. Ad ombra succede altra ombra. Ce
l’ho fatta!
Anch’io ebbi dei figli… che bella questa parola:
figli. Ha un gusto tutto suo. Scivola sulla lingua, dietro le guance,
nel fondo della gola. È miele… la scandisco, la
mastico, la assaporo. Fa male al cuore; un dolore meraviglioso.
Piccini miei, quali erano i vostri nomi? Quale, il vostro numero?
Dove siete adesso, bambini?
Il piccolo nella culla mugola ancora. Non dorme bene.
Avverto l’odore di latte del suo respiro. Mi disgusta e mi
affascina e non riesco facilmente a spiegarne la ragione.
Un bisogno si risveglia, assopito che era dal profluvio di pensieri.
È straziante, mi dilania le viscere come un mostro. Un
famelico spettro s’agita dentro di me; viene ogni notte a
farmi visita, come un tempo faceva il mio Amante. Mi sospinge alla
ricerca costante, al moto perpetuo. Vuol distrarmi da ciò
che sono, allontanarmi dalla memoria? Se si è in dubbio,
confusi e dolenti, c’è un solo farmaco: il
movimento. Finché esisterà lui, saprò
d’essere viva.
Glielo do
all’angioletto,
che lo vegli accanto al
letto.
Non ci sono angeli qui, piccino mio. Siamo solo noi due.
Alla luce dei ricordi mi sento più umana. E fa male.
Vorrei tanto abbracciarti, bimbo bello. Ma ahimé, non posso.
Quanto mi manca il contatto con un fanciullo; sentirne la pelle
vellutata, prendermene cura. I bambini hanno un bisogno costante di
amore, ed io ne ho tanto da donare. Non basta una cisterna per
contenere l’acqua del mare, come non basta il cuore a
contenere il mio donare.
Non usai mai la nutrice, con nessuno dei miei figli. Volli pensarci io,
sebbene i molti impegni me lo vietassero. Cedere un solo istante della
loro vita ad un’altra era per me come dar via parte di me
stessa.
Li portavo con me anche alle riunioni di Stato. I miei alti consiglieri
–tutti miseramente uomini- mal sopportavano il mio agire. Non
capivano. Non li hanno portati loro in grembo.
Io ero la regina designata, unica erede di mio padre, la mia parola era
legge. Come dea in terra, per il popolo.
Un’altra immagine arriva.
Sono seduta sul bordo d’una fontana, nei giardini regi: la
pelle scura delle spalle esposta al sole dalla veste di lino,
contornate dalle stille lucenti dell’acqua, spruzzi della
fonte. Fra le braccia stringo qualcosa. Sembra un fagotto, un ammasso
di stoffe. Forse roba preziosa… no, non è un
oggetto, ma un neonato. Una bambina. Scilla! L’ultima nata.
Per lo Stige, devo sedermi. Ho un mancamento.
Non repiro… aria. Aria…
Devo calmarmi. Quest’immagine mi ha sconvolta. Le sensazioni
che richiama le pensavo appassite in me da lunghi secoli.
Cos’è questa cosa che mi striscia in petto, chiusa
nella gabbia toracica, che accelera i battiti d’un cuore
rattrappito?
Il ventre! Che male al ventre… ritornano le doglie
d’un parto lontano. Stringo le braccia e gemo.
È l’utero che palpita. Ha riconosciuto sua figlia,
il frutto dei suoi dolori.
Dov’è adesso Scilla, la mia bambina? Chi se ne
prese cura in mia vece?
Figlia mia, sapessi quanto la mamma ti cerca. Quanto ti ama. Vorrei
cullarti ancor come facevo in quei giorni. Cantare per te fra gli
alberi resinosi.
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Freme il mio corpo. Si scuote in singulti. Si contorce come una biscia.
Sono giunta al limite della ricerca. Perché ancora non sono
morta?
Devo ritrovare i miei figli. Devo dir loro quanto li amo, che non li ho
mai dimenticati.
Bimbo caro, non sai ancòra quanto sei fortunato. Chi ti mise
al mondo l’hai accanto. Sono la tua forza e tuo scudo. Sei tu
loro speranza.
Ecco, il silenzio è tornato a posarsi su questa casa. I
giochi di Afrodite han ceduto sede a Hipnos e la sua progenie di Sogni.
Per te, nascita e concepimento sono ancora un mistero che
tarderà a svelarsi. Ma non temere; conosciuti li amerai.
Nessuno li dispregia, se sano di mente.
Mi rialzo. Sistemo la veste spiegazzata e scomposta. Devo esser pazza
più di quanto sospettassi se smanio a questa maniera solo
per dei ricordi.
Ora credo sia l’amore a tenermi in vita. Il desiderio che
provo, è quello di riabbracciare i miei figli. È
lui a guidarmi di culla in culla ogni notte.
L’impazienza mi monta in petto. Li riconoscerò?
Certo che li riconoscerò. E prima dell’occhio
sarà il mio sangue, sarà il mio grembo lesta
sentinella. Una madre sa.
Per nove mesi li tenni in grembo; sono miei! Come potrei non
riconoscere parte di me stessa… la parte più
preziosa?
Voglio abbracciarti, piccolino. Usarti –sì lo
ammetto!- per provare ancora quel dolce piacere di coccolare un
pargolo. Fingerò d’essere tua madre, per
questa notte, e tu quieto starai a recitar la parte della mia Scilla.
Ninna nanna, ninna oh
Questo bimbo a chi lo do?
Glielo do
all’uomo nero,
che lo tiene un anno
intero.
Ecco, ti raccolgo fra le mie braccia. Sei così minuscolo,
così leggero e delicato. Chi avrebbe mai cuore di farti del
male?
Su piccino, non ti agitare, da bravo. Rovinerai tutto, altrimenti. Sono
io la tua mamma adesso. Ti tratterò bene; ti
cullerò, canterò la ninna nanna, ti
accarezzerò, ti stringerò a me e non ti
lascerò. Mai. sarai per sempre con me.
Finché
l’odio divino non calò dal cielo quale folgore
funesta.
Come puoi, madre, uccidere dei bambini?
Nessuna creatura al mondo è più terribile
d’una donna offesa nei suoi diritti di sposa, né
cuore brama sangue più del suo.
Come puoi, madre, uccidere dei bambini?
La fiera si scatenò sopra gli inermi. Ne avvinse i colli
deboli. Fece strazio dei loro corpi e banchettò con loro.
Sangue. Sangue ovunque. Il mio sangue sparso.
Come puoi, madre, uccidere dei bambini?
Ero ingorda. Ingorda di gioie. Ingorda d’amore e per questo
fui punita.
A cosa mi valse il dono che mi facesti quel giorno? Cambiar vista,
vedere come vedono gli altri; volgere gli occhi dentro al cranio per
scovare i miei difetti. Tutto questo mi ha risparmiata dalla furia dei
malvagi, dall’egoismo dei veri ingordi?
A cosa giova capire l’altro, se costui non comprende te? A
che pro’ usar giustizia se alcuna mano si solleva in tua
difesa quando occorre? Avevi il dovere di pensare al mio bene e non lo
facesti. A te donai il cuore. Tu me lo strappasti gettandolo in pasto
alle fiere.
Avresti dovuto tuonare in mia difesa, non startene in silenzio, privo
di lingua. Ti diedi amore. Mi ricambiasti con l’indifferenza
e senza troppe cure volasti verso un altro letto. Mi dimenticasti. Tu,
più ingordo di me, ma di piaceri che rapidi scemano. Odio te
e la tua genìa. Mi avete dato tutto e poi, senza ragione,
d’ogni cosa mi privaste.
Non rivedrò mai più i miei figli, ora che
l’Orco li ha divorati. Sotterra giacciono a imputridire e
contaminare il suolo. Privati di me. Privata di loro. Dimentichi
entrambi. Ma non il mio ventre scorda il loro passaggio; brucia
l’assenza. Un vuoto che chiede di essere colmato…
il vuoto è spaventoso. Il vuoto è mostruoso.
È la natura dell’Abisso. Non è mai
sazio. Deve sempre mangiare.
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Glielo do
all’angioletto,
che lo vegli accanto al
letto.
Non è l’amore né la speranza che mi
tengono ancorata alla vita. È l’Odio…
anzi no, è la Fame. Odio e Fame sono la stessa cosa. Bisogno
incolmabile, mostruosa necessità. Loro mi sorreggono.
Spirito di Vendetta, m’ha resa Erinni terribile.
La mia gioia nessuno abbia più a provarla. Il mio dolore sia
conosciuto e di contrada in contrada riecheggi.
Nulla posso contro i Numi miei carnefici. L’Olimpo
è ben sicura sede per degli infami. Dall’alto
osservate, godendo dei dolori umani: le nostre maledizioni sono la
vostra ambrosia.
I nembi vi proteggono anche troppo bene dai nostri strali. E
ciò non meno, Dike non scampa nessuno, nemmeno voi. Siano un
dì gli Dèi chiamati in giudizio. Sul Tonante
penda la spada d’accusa. A loro rinvio i miei gesti quale
causa prima. Sono un coltello, non la mano che lo stringe.
Non ho più anima. Solo ricordi. Memoria che ogni
dì muore fra le acque di Lete e la notte dolorosamente
riaffiora.
Adesso so chi sono. So cosa mi spinge nei giacigli infantili.
È la fame.
Ecco, bimbo bello. Ecco, si compie l’ultimo atto. Anche per
questa notte… io eterna insonne, ne sono protagonista
assieme a te.
Lasciati cullare. Lasciati stringere. La pelle del tuo collo
è così morbida, l’osso tanto fragile.
La vita che ti pulsa in petto sazierà il mio Odio.
Ninna nanna, ninna oh,
questo bimbo a chi lo do?
Glielo do alla sua mamma,
che lo ninna e poi lo
nanna.
“Belo ebbe una
bellissima figlia, Lamia, che governò sulla Libia; e Zeus, a
riconoscimento dei suoi meriti, le concesse il singolare potere di
levarsi gli occhi dalle orbite e rimetterseli, a piacere. Lamia
generò a Zeus alcuni figli, ma tutti furono uccisi da Era
ingelosita. Lamia si vendicò uccidendo i figli degli altri,
strangolandoli e divorandoli, e divenne tanto crudele che il suo volto
si trasformò in una maschera da incubo.”
(Robert Graves, I Miti
greci)
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Capitolo 4 *** Serpente ***
Serpente
“Tutto degenera nelle mani
dell’uomo. L’uomo costringe una terra a nutrire i
prodotti di un’altra, un albero a portare i frutti di un
altro albero. Capovolge ogni cosa, sfigura tutto, ama i mostri e le
difformità. Non vuole nulla secondo natura, nemmeno
l’uomo. Se così non fosse, andrebbe ancora peggio;
la nostra specie non vuol essere forgiata a metà.”
(J.J. Rousseau, Emilio)
Quando, intorno al 1885,
Wilhelm Dörpfeld, già in odore
d’onorificenza ma non ancora Professore, iniziò i
suoi scavi intorno l’Acropoli di Atene, non immaginava di
rinvenire un simile reperto. Egli non era certo uno sprovveduto e
l’esperienza accumulata nei trascorsi anni, dapprima ad
Olimpia e poi con lo stesso Schliemann presso Hissarlik, gli avevano
insegnato che sotto la greve terra possonsi celarsi meraviglie
d’ogni sorta. Tuttavia, qualsiasi tesoro mitico in nulla
avrebbe rivaleggiato con le reliquie che rinvenne.
Era, per la precisione, il 16 maggio del 1885. Sulla Grecia
gravava ancora il pugno ottomano, benché il clima non fosse
dei più sottomessi. Un’ondata di patriottismo,
soffio identitario d’una nazione antica come
l’Occidente, invase la popolazione su tutti gli strati.
Ciò donò linfa e sostegno all’affamata
archeologia, pronta anch’ella a rinvigorire il proprio
spirito poco avvezzo alla pratica, non ancora scevro dai fantasmi dei
passati miti.
Quando Dörpfeld –come detto, non ancora professore-
s’accinse a scavare intorno quelli che individuò
subito quali i resti dell’Eretteo, il luogo in tutta
l’antica Atene più sacro, con grinta e parsimonia,
era circondato da pochi e stretti collaboratori. Verso l’ora in cui i
buoi si sciolgono dal faticoso lavoro, incendiava il sole
l’occaso di baluginii porporini mentre l’oriente
già scuro mostrava le prime, timide stelle. Un cielo
sì splendente nel dì e nella sera Wilhelm se lo
sognava soltanto, nella fredda Germania; per questo a Dio fu dato dagli
antichi di quelle terre il nome di Zeus,
“splendente”.
Sbuffando negli impolverati abiti, il Nostro lavorava di spatola e
picchetto nella piccola stanza quadrangolare, poco più
grande d’un loculo, che più tardi
s’identificò quale tempio di Posidone Eretteo.
Lì si custodiva, in età dimenticate, la sacra
roccia ove il Dio infisse d’un colpo gagliardo il Tridente,
facendone scaturire una polla d’acqua salmastra, imbevibile,
qual dono agli ateniesi per chiedere i di questi favori. In quella
medesima roccia restò impressa l’impronta
dell’Arma divina e la fossa in cui l’acqua si
raccolse zampillando, a memoria dell’accaduto e venerazione
dei posteri... Di tutto ciò, però, non
v’era più traccia e nessuna fonte a noi pervenuta,
prima e dopo i fatti di questo racconto, ha mai rivelato il destino
ultimo di quelle sacre spoglie.
Fu in quel mentre che, scostando un grosso mattone di calcare
evidentemente fuoriposto, s’avvide della presenza
d’un foro nel terreno, non più largo
d’un capiente bollitore, dai bordi intonsi seppur levigati,
palese opera d’uno scalpellino distratto, scavato nella dura
roccia giallastra dell’Acropoli.
“Ecco” pensò con rigore scientifico,
“una fossa per i sacrifici o uno scolo per l’acqua
lustrale”.
Osservò con curiosità il foro, attratto dal vuoto
sul quale si spalancava. Il bagliore del giorno morente ormai non
bastava ad illuminare la cavità né la lampada
accesa che accanto posava al suolo. Sembrava inghiottire ogni luce.
Non seppe mai dire qual forza lo spinse incautamente, cosa lo attirava,
che sorta di curiosità s’era accesa nel suo petto
e scalpitando l’aveva piegato sul piccolo abisso, costretto a
distendere il braccio ed immergere nella fossa avventatamente la mano.
Col senno di poi si disse che poteva esservi qualsiasi cosa celata
lì dentro, una vipera, per esempio, o un insetto velenoso.
Ma sul momento non vi badò affatto.
La curiosità è causa di tutti i mali; non fosse
stato per lei, Pandora mai avrebbe aperto il vaso maligno o Ulisse
solcato i mari al confine del mondo trovando la morte, né
Eva assaggiato il frutto ferale del bene e del male.
Dörpfeld trasse fuori dal quel buco oscuro poche tavolette
d’argilla, alcune spezzate, altre integre ma delicate come
cristalli. (Il tempo è impietoso con tutto; Crono
divorò la sua stessa progenie e non n’ebbe
rimorso). Su ciascuna spiccava fitta un’iscrizione in
caratteri greci dall’aspetto arcaico, risalenti ai primordi
di quella lingua, madre di splendidi discorsi. Mosso da quel medesimo
spirito che l’aveva condotto al ritrovamento, Wilhelm con
naturalezza e gesto rapido fece scorrere le tavolette dentro la
bisaccia che portava seco, attento che nessuno lo notasse. E poi, con nonchalance,
comunicò ai collaboratori ch’era giunta
l’ora del riposo; avrebbero ripreso i lavori la mattina
seguente.
Tutti si dileguarono rapidi come il fumo scosso dal vento, tutti
diretti ai propri alloggi, tutti carichi di stanchezza e sonno, eccetto
Dörpfeld. Egli stringeva con fare spasmodico la bisaccia,
accarezzandola di quando in quando, lungo il tragitto che lo portava in
albergo. Dentro di sé esultava, sentiva d’aver
trovato qualcosa di straordinario.
Non perse tempo prima d’esaminarle, con mani tremanti e fiato
corto; ogni qualvolta estraeva una tavoletta (una ad una con saporita
lentezza) il cuore veniva meno d’un battito. Le dispose
avanti a sé, sul tavolinetto; non sapeva quale cominciare a
leggere, doveva per prima cosa intuire l’ordine corretto e
quali frammenti mancavano e quali con altri s’appaiavano.
Questo fu un lavoro difficile.
Gli toccava tradurre almeno le prime due righe e le ultime due per
poter comprendere, e non era facile, vista e considerata
l’arcaicità del linguaggio e la scarsa
leggibilità delle incisioni, quali tavolette fra loro si
legavano. Ma tant’è, alla fine riuscì
nell’intento di metterne in fila tre parti.
E qui accadde la prima delle cose incredibili che circondarono questa
scoperta.
Perdonate l’imbarazzo in cui il Biografo di tale storia
incorre; fate conto che siate voi al suo posto. Se sapeste quel che
egli conosce, certamente qualche remora ve la porreste prima di narrare
quanto è dovuto, anzi, probabilmente rifiutereste di
credervi, scambiando il tutto per buffonerie fuoriposto. Ahilui, il
nostro caro Biografo non per sentito dire o dopo aver letto apprese i
fatti, bensì conobbe in anni giovanili il professor
Dörpfled medesimo ed assistette –sebbene non agli
accadimenti in oggetto- a quel che vi seguì e che non poteva
confermare nulla di diverso se non questo resoconto, raccolto dalla
bocca stessa del Professore in punto di morte.
Quella notte, il professore in
nuce, per quanto vi provasse sforzando occhi e neuroni,
non riuscì a tradurre alcunché. Sapeva che non
v’era nulla di complesso in quelle frasi e chiunque
masticasse il greco poteva capirne l’argomento
principale… e tuttavia ogni parola sembrava letteralmente
sfuggirgli dal cervello. Appena credeva d’aver capito, subito
dimenticava qualche regola o qualche significato o la traduzione dei
passi stessi, e sembrava che quelle lettere antiche si prendessero
malignamente gioco di lui ruotando e scambiandosi di posto. Solo la
prima frase, incompleta giacché una frattura
n’aveva sbriciolato il margine restante, riuscì a
tradurre con ferma certezza. Due parole e una mezza: Ἐγώ
εἰμί Κέ…
Per ore vi lavorò senza arrivare da alcuna parte. Fu
sull’orlo d’urlare per la frustrazione quando
decise che, probabilmente, questa misteriosa dislessia (tale la
considerò) doveva esser figlia della stanchezza.
Abbandonò sullo scrittoio le tavolette d’argilla
preferendovi –finalmente- l’abbraccio
più morbido del cuscino. Toccò il materasso con
languido piacere, lasciando che il peso d’una giornata non
priva di fatiche fisiche e mentali scivolasse lungo gli arti spossati
con un brivido. Il più profondo sopore di cui mai ebbe
memoria lo colse immantinente, e nel lasso breve d’uno
sbatter d’ali già aveva ceduto armi e scudo (o nel
suo caso spatola e picchetto) a Morfeo.
Ed ecco il momento che tanto si teme a narrare poiché
avvenuto nel mondo onirico –se non eccessivo peso ontologico
vogliamo dare alla famosa frase di Shakespeare “siamo fatti
della stessa sostanza dei sogni” traducendo così
le nostre vite in effimeri artifizi della fantasia di qualche celeste
divinità o della nostra mente- e non scevro è da
dubbi né diverso nella forma dai vaneggiamenti di un folle.
Solo un infermo di mente avrebbe mai potuto immaginare simili spettri
fargli visita notturna e darvi peso di realtà. E forse
Dörpfled era già folle per aver sognato la figura
mostruosa e antica d’un essere metà uomo e
metà serpente.
Si cruccia il Biografo non sapendo bene quale persona usare, se parlar
della creatura dicendo “Lui” o un più
inumano “Esso/a”. Era o non era umano? Si
può definire persona un siffatto scherzo della natura?
Se nell’ermafrodito convivono uomo e donna senza lotta,
ciò è dovuta alla natura umana d’ambo i
sessi che li accomuna e media fra loro. Ma in questo caso, nulla
v’era di simile fra le due metà che, in vero, si
mostravan già nell’immagine in perenne discordia;
se la parte superiore umana potevasi dir bella, potente nei muscoli
slanciati e tonici delle braccia e dell’addome, nel collo
poderoso come d’un toro, il viso dal cipiglio severo ma
saggio, lo sguardo antico, contornato da folti riccioli neri ed una
barba striata di grigio; la parte inferiore era assai orrida alla
vista, viscida, e irta di scaglie bitorzolute dal colore del fango.
S’attorcigliava su se stessa, non smetteva mai di muoversi e
tali erano i giri che compiva da render impossibile stabilirne la
lunghezza: in sé una sagoma terribile, un’ombra
chissà da quale recesso della mente sorta o
dall’Ade richiamata. Quale Dio insano aveva dato vita a
quell’abominio, chi era il padre e chi la madre
d’una simile aberrazione? Nemici al cielo e al suo santo
ordine dovevano essere per concepire una simile sconcezza.
In mano, s’accorse, il mostro reggeva uno specchio dal manico
d’osso lavorato; lo teneva basso, quasi nascosto
–forse paventava di scorgervi riflessa la propria
deformità?-.
Dörpfeld tentò di parlare, ma una misteriosa forza
gli teneva avvinte le labbra l’una all’altra.
Urlò, si sforzò di rompere quei legami
invisibili, ma non vi fu verso. Si sentì mancare e la rabbia
montò. Voleva scagliarsi contro il mostro,
sospettando ch’egli fosse la causa di quella malia. Voleva
abbatterlo prima che questi a sua volta potesse aggredirlo. Ma nulla di
tutto questo realizzò. Non poté: la creatura
cominciò a parlare.
«Duplice è la natura umana»
dichiarò con voce stranamente dolce per un mostro di tal
fatta, «in sé contraddittoria e litigiosa. Campo
di battaglia in cui s'oppongono due forze possenti: la prima terrigena
che traina verso il basso la misera creatura, e che striscia fra
polvere e limo, primitiva, s'aggroviglia in mille spire e mai conosce
requie. L'altra è uranica. Tira verso l'alto in moto
ascensivo. Non violenta e quieta per carattere, aspira solo
all'immobilità, cristallina e gelida. La prima si proietta
in avanti, la seconda s'avviticchia al passato. In mezzo, oggetti di
lor contesa ed unico giudice, sta il terzo spirito che voi chiamate
Anima.
Questa è la composizione dell'Uomo, teso fra l'alto e il
basso, fra il moto e la quiete. Come la freccia e la corda di lira,
vibra ad ogni scossone pronta al movimento, ma trattenuta. Combattuta,
indecisa, contesa e poi sfinita. Tale è la stirpe degli
uomini.»
“Anche i mostri, oggigiorno, filosofeggiano”, si
trovò a pensare il Nostro. Ma nulla profferì, non
potendo emetter sillaba (e s’anche avesse potuto, certo per
sé avrebbe trattenuto le parole, temendo
d’offendere la creatura).
Il mostro gli rispose.
«Nulla v’è di più filosofico
della Verità. Non esiste cosa che più in odio
possiede della Verità la filosofia. Chi acquisisce la
Verità diviene filosofo. Chi filosofeggia per tutta la vita,
dispregerà il Vero preferendo le mere fantasie. Se trovi
contraddizione nelle mie parole, dirò che hai vista lunga e
udito sottile. Il contrasto genera tutte le cose. La Guerra risiede in
tutte le cose. Tale è la stirpe degli uomini.
Se ancora t’agiti e ti domandi se mai ti farò
danno, chetati pure. Non sono qui per dolerti. Abbi timore
dell’uomo, non dello spettro. Che male può farti
quel che più non esiste?»
“Chi è costui che sa leggere gli altrui
pensieri?” si chiese stupito Wilhelm Dörpfeld che
mai aveva fatto sogni sì strani né mai creduto a
simili scempiaggini. “Come conosce le parole della mia mente
prima che le esponga?”
Non tardò la risposta.
«Io nulla conosco se non il passato. Un morto non sa niente.
Io sono morto.
Quello che dico non viene da me ma dal Dio che ogni cosa comprende. La
mia forma è esemplare, la mia bocca profetica, il mio
sguardo giudice. Eppure, nulla conosco che non provenga dai Numi, che
soli hanno la verità.»
“Perché, spirito mostruoso, invadi i miei
sogni?” pensò. Era quello, aveva capito, il solo
modo per comunicare con l’uomo-bestia.
«Non io ho scelto te, ma tu m’hai chiamato. Hai
aperto la mia tana e detto il mio nome, strappandomi ai Campi
d’Asfodelo e alle paludi di Lete. Hai invocato il Sacro
Serpente di Atene, l’Oracolo della Vergine che tutti
chiamavano Erittonio. Io sono costui e sono più antico di
lui; padre di molti re, giudice in divine contese e fondatore
dell’illuminata Polis. Altro è il mio nome, che tu
ben conosci ed Erittonio è solo la copia.»
E fu allora che Dörpfeld comprese chi aveva innanzi. Un moto
di referenza l’atterrì: era lo spirito di quel re
antico che sorse dalla terra, figlio di Gaia che mai ebbe padre. Il
valente sovrano che civilizzò l’uomo dalla
barbarie e che di sapienti popolò il mondo. Amato da Athena
e Posidone che, scesi a contesa, l’avevano chiamato giudice
di loro stessi. Atene bella ricevette il nome da quell’evento
e l’olivo sigillò come segno ai posteri
l’accadimento.
Wilhelm lo conosceva.
Riprese il Grande Re a dire: «La mia parola ascolta e
accogli. È il messaggio che mando agli alti uomini, io che
sono umano più di loro. Le vostre fattezze ingannano; in me
si palesa quel che in voi si nasconde. Non temete la vostra
natura, in sé bestiale e razionale. Divina e animale. Siete
polvere e fumo sulla pira, erba che cresce sul tumulo putrescente. Tale
è la stirpe degli uomini. Quale sono io: Cecrope.
La distinzione è follia, illusione d’un malevole
pensiero. È dalla Discordia che sorge l’unione e
fu Caos fautore del Cosmo. Come il fango non sarà mai sola
acqua o sola terra, ma entrambe nel suo essere mischiate e che da tale
mescolanza il fango può dirsi fango, così
l’uomo mai sarà sola Bestia o sola
Virtù poiché dall’una si ridurrebbe ad
animale e dall’altra a Dio, e non più quel che in
verità è. Siamo quello che siamo
nell’unione delle nostre parti. La distinzione è
follia. Chi null’altro vede se non la singola parte
è cieco e sciocco, destinato a perire in terribile sorte.
Accostati e osserva, se vuoi vedere il Dio che mi comanda, come io
stesso lo vidi, com’è per quel che è.
Vieni e osserva nel mio specchio.»
Quando il Professore narrò siffatti avvenimenti ormai giunto
nell’ora estrema, si dice c’ebbe un eccesso di
tosse ed un forte sussulto, come d’attacco epilettico di cui
le cause restano oggi ignote. Tuttavia a colpire grandemente gli
astanti fu il suo viso ricolmo di stupore come se proprio in quel
momento stesse tornando a scrutare nella fredda superficie dello
specchio di Cecrope.
«Io sono l’immagine e simbolo.» diceva
l’enigmatico Serpente, novella Sfinge.
Ancora una volta un rettile donò all’uomo la
Conoscenza di sé, e se il primo con la forcuta lingua
saettante spaccò il mondo a metà, in Bene e Male;
il secondo lo ricompattò.
E Wilhelm Dörpfeld vide nello specchio il suo volto, e quello
di suo padre, quello della madre, della moglie, dei figli futuri. Vide
i volti dei suoi assistenti. Tutti confusi al proprio che mutava e mai
stava fermo, dall’uno all’altro passando
senz’ordine. E divenne fiera, leone, aquila, balena. Fu
albero e sasso, fiume e rosa. Fu drago e fu Cecrope. Fu tutto e fu
nulla.
«Tale è la stirpe degli uomini. Tale sono io.
Questi sei tu. Questi è il Dio.»
E sull’eco di quelle parole, l’archeologo si
ridestò.
Si dice –voce non confermata dal protagonista- che a quel
punto, come un pazzo, si precipitò fuori dal suo alloggio e
correndo raggiunse la vetta dell’Acropoli; chi lo
incontrò, confermò lo sconvolgimento sul suo viso
e lo sguardo da folle, iniettato di sangue, che possedeva.
Nulla di tutto questo è stato detto da Dörpfeld.
Non smentì né confermò.
Rivelò soltanto d’essersi improvvisamente trovato
accanto ai resti dell’Eretteo, dal lato del loggione decorato
con figure di donna soprannominate Cariatidi.
Ai suoi piedi, una buca fresca d’escavazione e lì,
in bella mostra, delle vecchie ossa semipietrificate, ancora sporche di
terra e detriti. Era lo scheletro evidente d’un uomo di
statura enorme, vigoroso e possente; un uomo vissuto qualche migliaio
di anni prima.
In ciò il gentile lettore non vi potrebbe trovare nulla di
strano, se non fosse che quello scheletro non possedeva gambe, ma una
lunga fila di vertebre si dipartiva dal bacino, quasi continuazione
dell’osso sacro, più simile alle ossa molli
d’un grosso serpente. Era quella la tomba dello spettro che
l’aveva visitato. Era quella la dimora del riposo ultimo e
quello lo scheletro del re Cecrope, il Serpente Sacro.
Ἐγώ
εἰμί
Κέκροψ
Conclusione.
Di quelle ossa non si seppe più nulla. Si dice che il
Professore le celò assieme alle tavolette
d’argilla in qualche magazzino segreto
dell’Istituto Archeologico Tedesco di Atene, cui fu secondo
segretario dopo i lavori nell’Acropoli. Taluni dicono che,
preso dall’orrore, distrusse i ritrovamenti quella notte
stessa.
Il professor Dörpfeld continuò il proprio mestiere
di archeologo raggiungendo fama internazionale e, successivamente,
passando alla storia egli stesso come fondatore del metodo scientifico
archeologico. Mai fece parola di quanto accaduto, se non in punto di
morte. Si spense, tuttavia, con serenità, sebbene
l’ombra di quella notte ne offuscasse sempre una parte del
viso.
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