Il capo dei ribelli

di claudineclaudette_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Ribelli ***
Capitolo 2: *** Silfarion ***



Capitolo 1
*** I Ribelli ***


1. I Ribelli

Strisciò attraverso uno sporco condotto ricoperto di spazzatura ed atterrò in uno scolo d’acqua putrida, come al solito del resto. Comunque, nulla avrebbe mai potuto renderlo più sporco di quello che già era.
Camminò per mezzo chilometro con l’acqua dello scarico che gli entrava negli stivali vecchi e nei pantaloni troppo piccoli. Dopo molto tempo il giovane si fermò e si protesse in una conca nel muro. Si accostò le lunghe dita affusolate alla bocca e ci soffiò sopra, cercando di scacciare il gelo che gli era entrato nelle ossa. Respirò a fondo e ricominciò a camminare, ormai non faceva nemmeno più caso al fetore delle fogne. Finalmente cominciò ad incontrare altre persone, vecchie e giovani, ridotte peggio di lui che, tutto sommato, riusciva sempre a mangiare almeno due volte alla settimana. Di nuovo, il giovane si fermò. Era tutto infagottato di stracci, un grande berretto gli cadeva sugli occhi coprendogli metà viso. L’altra metà era avvolta in un altro straccio, solo un po’ più lungo, che gli faceva da sciarpa. Si soffiò ancora una volta sulle mani, anche queste rivestite di un paio di guanti bucati che non arrivavano a coprirgli la punta delle dita. Il giovane si frugò sotto i vari strati di stracci e dopo poco estrasse un pezzo di pane vecchio e rattrappito. Con una mano si abbassò la sciarpa e mise nella minuta bocca, due bocconi. Era come mangiare marmo, ma non sembrava accorgersene. Masticò a lungo e ingoiò, lo fece per altre tre volte, poi prese la pagnotta e la fissò per alcuni istanti. Alzò le spalle e la gettò in un angolo, su un cumulo di cenci, prima di voltarsi.
- Grazie, Zahan! – il giovane alzò una mano, senza dire una parola, e continuò a camminare. Quello che sembrava un altro sporco ammasso di drappi, erano in realtà tre bambinetti di cinque e sei anni che tentavano di tenersi caldo sedendo vicini.
Zahan non si voltò indietro. Stringendo i pugni sotto gli stracci si avvicinò ad una piccola costruzione fatta di cartone e lamiere. Senza una parola, oltrepassò la porta fatta di pezzi di tessuto, che prima forse erano stati dei vestiti, ed attraversò l’unica stanza fino ad arrivare a quella piccola zona che doveva rappresentare la cucina. Intenta a strofinare con una stoffa alcuni piatti, gli unici che stavano ancora insieme, c’era una donna minuta; i capelli biondi, resi quasi grigi dallo sporco e dall’età, erano legati con uno spago sulla nuca, creando una stretta crocchia. Zahan le si avvicinò cautamente alle spalle e l’abbracciò da dietro. La donna si voltò di scatto, dal principio allarmata, poi sul suo viso si dipinse un’espressione di sollievo.
- Zahan! – e l’abbracciò con slancio. – Come stai? Dove sei stata tutto questo tempo?
- Sono stato via solo una settimana – sorrise il giovane, inclinando gentilmente la testa di lato.
- Una settimana, tre giorni, un mese! Non so mai se tornerai a casa! Per me, anche un giorno è troppo!
- Ma se non stessi via – la riprese Zahan, senza smettere di sorridere, - cosa mangeresti tu?
- Patirei tutta la fame del mondo, sapendoti qui vicino a me, al sicuro. Cos’hai fatto nel frattempo, oltre che straziare il cuore di una povera madre apprensiva?
- Cinque giorni li ho passati a Simava, la città a nord – spiegò il giovane, frugandosi nelle mille tasche dei suoi indumenti. – Avevo sentito ci sarebbe passata una carovana di mercanti… il lavoro non ha fruttato quanto avrei sperato, ma è comunque meglio di quel che si racimola qui!
- Zahan! Tesoro, metti subito via quel denaro! – sibilò atterrita la donna appena vide quel che il ragazzo si era rovesciato sulla mano. Cinque corone! Cinque monete d’argento! Con quelle la povera donna avrebbe potuto vivere per un‘intera stagione. L’unica moneta più importante delle Corone erano le Aquile, tozze monete dell’oro più puro. Se tra le persone che vivevano nelle loro stesse condizioni si fosse saputo che donna Livia possedeva quattro monete d’argento, una l’aveva tenuta Zahan, l’avrebbero derubata anche della biancheria che non possedeva. Erano tutti ladri laggiù, Zahan non faceva eccezione, era solo più abile degli altri. Erano una numerosissima comunità di persone, costituivano quasi la maggioranza della popolazione. Non era corretto chiamarli ladri, perché non erano solo quello. Non era corretto chiamarlo zingari, perché erano molto diversi e certamente gli zingari se la passavano meglio. Non era corretto chiamarli mendicanti, perché andava contro il loro orgoglio andare in giro a elemosinare carità a quelle stesse persone che li disprezzavano e sputavano loro addosso quando passavano. Insomma, tutte quelle persone che si rifugiavano laggiù avevano un nome particolare, come vanivano chiamati dalla piccola borghesia e dalla gente comune: Ravusisch. Significava topo, spazzatura nella loro lingua. Nonostante fosse un appellativo dispregiante, tutta quella gente lo accettava, sebbene non avessero bisogno di un nome specifico. Tra di loro si conoscevano tutti, dal primo all’ultimo. Poteva sembrare strano, tanto erano numerosi, qualunque Ravusisch ne incontrasse un altro, sapeva come si faceva chiamare, conosceva i suoi genitori, se non di persona, almeno per sentito dire.
Il motivo per il quale così tanta gente potesse vivere in una tale situazione catastrofica, quando a qualche centinaio di metri di distanza, sopra le loro teste, si estendeva una vasta città con nobili borghesi e aristocratici che con un millesimo del loro denaro avrebbero potuto sfamare un’intera famiglia per un anno intero, era un mistero. O meglio, per alcuni era un mistero ma per altri, come Zahan, la verità era chiara e palpabile: chi li governava era un tiranno. Un dittatore che aveva assoggettato con l’inganno il loro paese. I Grandi Sacerdoti erano corrotti e lo seguivano senza esitazione, i guerrieri e i nobili erano ricchi e non traevano che vantaggi dalla sua politica parziale. I mercanti, invece, si adattavano a qualunque tenore di vita nonostante tutti avessero preferito quello antecedente il dittatore, il cui nome era Kuuner. Re Kuuner. Però… la gente comune se la passava molto male. Una famiglia dopo l’altra finiva sul lastrico a causa delle tasse troppo alte, agli sproporzionati favoritismi verso chi era di rango più elevato. Una dopo l’altra, erano sempre di più le persone che vendevano la loro casa e i loro ultimi averi per saldare i debiti. Da quel momento in poi, acquisivano il nome di Ravusisch. Venivano marchiati a fuoco e andavano a vivere nelle lunghissime e vaste gallerie che rappresentavano le maleodoranti fogne della città. Ormai nessuno badava al cattivo odore perché, insieme a quello, giungevano le malattie, con le malattie venivano i morti e le infezioni, con le infezioni le epidemie e con le epidemie migliaia di morti. Ma per quanto forti potessero essere gli stenti e le malattie, molte persone sopravvissero e sempre più persone arrivavano. Nessuno aveva il coraggio o solamente la forza di reagire, di opporsi. Nessuno tranne un contenuto gruppo di uomini, non più di una ventina. Erano un semplice corpo di resistenza, ma il popolo intero li chiamava orgogliosamente ribelli.
- Zahan! Sei tornato finalmente, diavolo bastardo! – enfatizzò un ragazzo circa dell’età di Zahan. Salutò la madre del ragazzo con un buffo inchino di scherno e trascinò via l’amico. – Fratello, sei tornato e non sei nemmeno passato a salutarci?
- Prima sono andato da mia madre – rispose il giovane, rimanendo serio.
- Ma adesso sei qui con noi – esclamò uno dei suoi compagni. Erano Kir, Aisan, e Meldon. Il ragazzo corso a salutare Zahan e sua madre, con la sua lunga chioma di capelli neri, era stato Kir.
- Siiiiiiiii beve! – gridò Aisan facendo apparire due belle bottiglie piene di raffinato belgrem, un liquore prodotto con il midollo delle capre.
- Alla salute – assentì Zahan, concedendosi un sorriso.
- Sei troppo serio, fratello! – lo sgridò Meldon. – Scommetto che hai avuto interessanti notizie laggiù, dove sei andato a imbucarti.
- No davvero – assicurò Zahan passando ad Aisan la bottiglia di liquore. – Nulla di nuovo, e certamente per nulla preoccupante. Me ne sono andato a Samiva per un paio di giorni.
- E dici che non c’era nulla di interessante? – domandò Kir, poco convinto.
- E’ impossibile, Samiva è la città più pettegola esistente dalla costa fino a qui!
Zahan continuò a sorridere ermetico, poco partecipe all’entusiasmo dei suoi compagni. Si bagnò ancora una volta le labbra con il liquore e un dolce calore gli invase tutto il corpo, riscaldandolo finalmente. – Forse – disse dopo un po’, dopo averci pensato su – l’unica cosa che ho sentito con un minimo di rilevanza, è che pare che il capo della resistenza sia stato visto a Samiva ma, cosa più importante, che fosse diretto qui.
- Nella capitale commerciale del regno?
- Sei serio, Zahan?
- Ma certo che è serio, hai mai visto Zahan scherzare?
- Ma, se lo catturassero?
Zahan rimaneva in silenzio, non era sua abitudine parlare troppo, se non aveva nulla da raccontare. Forse perché la maggior parte del tempo lo passava da solo, o forse solamente perché trovava troppo divertente vedere i suoi amici esaltarsi.
- Il capo dei ribelli non può essere catturato – disse una voce rauca e profonda alle spalle dei giovani. I ragazzi si voltarono e si trovarono a faccia a faccia con Frekum, una delle persone più anziane nell’intera comunità.
- I miei omaggi – salutò immediatamente Zahan, balzando in piedi.
- Ciao nonno!
- Ehilà, nonno! – si limitarono invece Meldon e Aisan. Kir, dopo un po’ e con notevole calma, fece un cenno con la testa per poi ripetere il saluto di Zahan.
- Ragazzi sconsiderati – sospirò il vecchio scuotendo la testa. – Stavate parlando dei Ribelli, ho sentito.
Zahan annuì mentre gli offriva il liquore da assaggiare. – Del loro capo.
- Ahh – sospirò il vecchio. – Quello non è un uomo, è una leggenda!
- Raccontaci di lui, nonno – supplicò Meldon, posando da parte la bottiglia di belgrem.
- Ma prima – avvertì il vecchio, tirando fuori una vecchia pipa, - cercatemi un fiammifero.
- Dovrei averne io un paio – esclamò Kir frugandosi nelle tasche. – Chissà dove li ho ficcati…
- Ecco, signore – disse Zahan, porgendo al vecchio una scatola di fiammiferi.
- Ehi, Zahan! Quelli sono i miei!
- Sempre il solito, Zahan – risero Aisan e Meldon.
- Non ridete, idioti! Dannazione, un giorno riuscirò a beccarti con le mani nel sacco! – ringhiò Kir.
- Sei l’unico a cui si riesce sempre a fregare qualunque cosa – lo schernirono gli altri due ragazzi, continuando a rotolarsi per terra dalle risa.
- Ah, sì? – ghignò allora Kir, - e quelle cosa sono?
Il giovane aveva puntato il dito contro Zahan, che già da qualche minuto stava facendo dondolare con la mano una fascia di tessuto che fungeva da cintura, una moneta di bronzo, chiamata veliero, e un pugnale.
- Ehi! – esclamarono mortificati i giovani. – Quella è la nostra roba!
- Dannato ladruncolo, quando smetterai di fregarci la roba sotto il naso?
- Ringraziamo il fatto che ce la restituisca sempre, ragazzi – sospirò Aisan, riallacciandosi la cintura in vita.
- E’ colpa vostra che non ve ne rendete conto – li dileggiò Zahan, ridacchiando leggermente. – Potrei sfilarvi i pantaloni e nemmeno ve ne accorgereste.
- Oh, oh, oh – rise il vecchio, divertito da quel buffo teatrino. – Zahan, ragazzo, sei forse il miglior ladro di queste parti!
- Dai nonno – gemette Meldon– raccontaci dei ribelli!
- Sono solo un gruppo di resistenza – sbuffò Zahan stendendosi sulla schiena, coprendosi gli occhi col cappello.
- Non capisci nulla, Zahan!
- Non è dei ribelli che vi voglio narrare - precisò il vecchio, – io desidero solamente farvi capire chi è il loro capo. Il suo nome lo conoscono in pochi, anche il suo aspetto è sconosciuto ai più. Ma è giovane, un giovane leader di ventitré anni. Io non ho mai avuto la fortuna di incontrarlo, perciò quel che vi sto raccontando è frutto di racconti altrui. Si dice sia un uomo freddo e coerente, ma anche responsabile. Una volta…
Zahan ascoltava distrattamente le montagne di favole che narrava il vecchio, certo erano interessanti, erano belle da ascoltare, ma il giovane dubitava altamente che tutto quello che gli veniva raccontato combaciasse al vero.
- Sai come decise di diventare un membro della resistenza? – domandò solamente, levandosi a sedere qualche racconto dopo.
- Sono ribelli! – ringhiarono i compagni del ragazzo, testardi sul punto.
- Ahimé! Quell’uomo è un mistero ma… una cosa ve la posso dare come sicura. Un tempo era un nobile, ma ha abbracciato la causa trovandosi in disaccordo con la nuova politica. A questo proposito, mi hanno riferito che…
Zahan sbuffò, mentre sentiva che le persone vicino a loro cominciavano ad allontanarsi verso le proprie cucce per passare la notte, un nobile che fa il lavoro dei contadini… come mettere un gatto a tenere insieme un gregge di pecore.
Dopo un altro po’, finalmente il vecchio s’allontanò verso la cuccia della famiglia di sua nipote e scomparve. Zahan rimase indeciso qualche istante: si chiedeva se dormire con la madre o con i suoi amici, ma alla fine Kir decise per lui. Gli afferrò il giubbotto e lo trascinò a terra sugli stracci che formavano i letti di quei tre, passarono pochi secondi e tutti e quattro si addormentarono, così com’erano, uno sopra l’altro. Zahan detestava avere un eccessivo contatto fisico con i suoi amici o con chiunque altro, ma quella notte si abbandonò nelle braccia del sonno e si addormentò. Non sognò nulla, da quando era nato poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui aveva sognato.
Si svegliò abbastanza presto, a causa del ginocchio di Aisan conficcato nella sua schiena. Zahan si levò con uno sbadiglio, stirando le braccia e allungando le lunghe gambe davanti a sé. Il giovane recuperò alcuni parti dei suoi indumenti e si allontanò dal gruppo di amici. Avevano passato una bella serata, erano stati al caldo, ma Zahan non aveva altro tempo da perdere. Passò davanti alla casa della madre, di certo stava ancora dormendo. Il ragazzo sorrise pensando a lei e si sistemò meglio il cappello sulla testa, non l’aveva tolto nemmeno per dormire. In verità, non toglieva mai quel cappello, tanto che chi lo conosceva sapeva che i suoi capelli erano castani quasi per un semplice atto di fiducia. Era quasi impossibile vedere il ragazzo con la testa scoperta. Zahan ripercorse le lunghe gallerie che aveva attraversato il giorno prima, chiedendosi per quale motivo non si fosse girato dall’altra parte per rimettersi a dormire. Dopotutto, era solo l’alba! Come facesse a saperlo, era un mistero. Uno dei tanti che circondavano Zahan, in pochissimi riuscivano a capirlo, tra tutti i suoi amici, a parte sua madre, solamente Kir riusciva ad intuire qualcosa.
Finalmente uscì all’aria aperta. Nonostante non gli desse più fastidio l’odore dei sotterranei, ogni volta che usciva all’aria aperta e vedeva il cielo si sentiva come se stesse nascendo di nuovo. Zahan respirò a pieni polmoni, attraversando lentamente la piazza del mercato, semideserta. Avrebbe cominciato a riempirsi entro due ore, né prima né dopo. Decise di attendere che ci fosse più vita e fece per allontanarsi dalla strada principale, ma all’improvviso Zahan si sentì urtare e prendere per i vestiti. Un ragazzo, un po’ più grande di lui, tentò goffamente di gettarlo a terra frugandogli nelle tasche. Zahan non gli lasciò continuare, gonfiando i muscoli afferrò a propria volta gli abiti del ragazzo, allontanandolo da sé e sbattendolo con violenza contro un muro.
- Che diavolo hai intenzione di fare, stronzo? – gli ringhiò contro, fissandolo col suo inquietante sguardo.
- Z-zahan? – gemette il ragazzo terrorizzato. – Io non sapevo… dicevano che fossi partito!
- Sono tornato – lo informò allora Zahan, mentre i suoi occhi si gelavano sempre di più. – Non accetto che nessuno cerchi di taccheggiarmi. Capito?
- Sì! Sì! Chiedo scusa! – supplicò il giovane.
Zahan lo lasciò andare, spingendolo lontano da sé. Gente come quello la detestava, e detestava chi era terrorizzato dai suoi occhi. In verità… per molto tempo avevano spaventato anche lui. Zahan rifletté anche su quello, mentre aspettava che il mercato si animasse. Aveva detestato a lungo i suoi occhi, il suo sguardo magnetico ma, soprattutto, detestava il loro colore. L’occhio destro era color lavanda, per mancanza di pigmento, l’altro era dello stesso colore dell’ambra. Ecco! Quello sarebbe dovuto essere il colore dei suoi occhi, sebbene sarebbe rimasto un colore insolito, con le sue profonde ramificazioni marroni, quello era il colore dei suoi occhi! Non lavanda!
Una lacrima solitaria solcò il viso del giovane. Zahan la raccolse sulla punta di un dito e continuò a fissarla, sapeva di avere le ciglia bagnate in quel momento. Anche le ciglia erano particolari, lunghe e nere, incurvate verso l’alto. La pelle chiara e liscia, le labbra sottili e rosse, il naso minuto e la fronte alta. Troppo femmineo era il suo aspetto, troppo per quello che Zahan pretendeva di essere. Il ragazzo si risvegliò dai suoi angoscianti pensieri quando, accidentalmente gli pestarono i piedi. Finalmente la piazza stava cominciando a riempirsi. Zahan si levò dal gradino su cui si era seduto, e camminò fino al centro della piazza. Un ragazzetto, che non riusciva nemmeno ad arrivare al bacino di Zahan, si stava sgolando come un matto cercando di distribuire il giornale locale. Zahan gli si avvicinò e gli lanciò un veliero, il ragazzetto lo prese al volo e gli porse il giornale in cambio.
- Grazie Zahan! – ringraziò il piccoletto.
Il giovane fece un cenno con la testa e si allontanò stringendo il rotolo di carta sotto il braccio, cercando un posto tranquillo dove mettersi a leggere. In realtà, Zahan non capiva per quale folle motivo continuassero a distribuire giornali laggiù visto che, probabilmente, lui era l’unica persona nel raggio di mezzo miglio a non essere analfabeta. Sulla scia di questi pensieri, Zahan s’infilò in un vicolo di collegamento e pochi attimi dopo si ritrovò nella strada principale parallela a quella che portava al mercato. Il giovane rimase sbalordito per qualche secondo, mezza città si era riunita laggiù, spingeva e urtava, urlava e imprecava. Cosa stava succedendo? Zahan cercò di vedere oltre le teste delle persone, non riuscì a vedere nulla a parte un enorme cappello di paglia con uno strano uccello impagliato sopra. Il giovane sospirò, scuotendo la testa, doveva essere accaduto davvero qualcosa di grosso! Si guardò attorno e il suo sguardo s’incrociò con quello di un soldato. Per un attimo ebbe un tuffo al cuore ma si riprese immediatamente e si avvicinò cautamente all’uomo in divisa.
- Scusatemi - chiamò, sfoderando tutto il suo ambiguo fascino, - saprebbe dirmi cosa sta succedendo?
La guardia lo studiò a lungo prima di rispondere. Certamente era stato combattuto tra la possibilità di arrestarlo oppure no, i Ravusisch erano tutti ricercati. Certo, quell’uomo non poteva esserne sicuro, ma non aveva un grande margine d’errore, quella gentaglia si assomiglia tutta! Tuttavia, alla fine abbandonò quella scomoda idea, non gli avrebbero dato nessuna ricompensa e la soddisfazione che provava era troppo grande.
- Finalmente, è stato catturato quel cane del capo dei ribelli! – spiegò l’uomo.
Zahan strabuzzò gli occhi, incredulo. Non aveva certo creduto alle storielle di Frekum, ma era convinto che non sarebbero, davvero, mai riusciti a catturare il capo della resistenza. – Buon per voi – disse allora il ragazzo, riuscendo velocemente a mascherare lo stupore, quindi si allontanò, ficcandosi le mani infreddolite nelle tasche. Il capo dei Ribelli… sbuffò Zahan tra sé e sé, arrendendosi all’idea di chiamarli “ribelli” così come, pareva, fossero chiamati da tutti. Bah… evaderà nel giro di tre giorni. Molto prima che pensino solamente a trasferirlo alla capitale. Le prigioni di questa città sono le più scadenti che abbia mai visto.
Zahan, come tutti i Ravusish, era finito un paio di volte in prigione ma, a contrario di quello che si potesse pensare, c’era andato per salvare quell’impiastro di Kir. Zahan era troppo abile per farsi catturare, o almeno, così credette fino a qualche giorno dopo. In ogni modo, le celle e le loro sbarre erano scadenti, poste abbastanza distanziate da permettere ad una donna molto piccola e magra di passarci attraverso. Siccome di donne, di solito, non ne avevano, non era un problema, ma consisteva comunque di una grave pecca. Per loro fortuna, però, ogni cella era costruita ad un piano diverso delle prigioni. Queste, in effetti, erano una semplice ex-torre di vedetta, costruita al centro della città. Forse essere rinchiusi nella cella in cima alla torre sarebbe stato un bel problema, per chi avesse intenzione di scappare. Probabilmente avrebbero rinchiuso lì il capo dei ribelli, ma Zahan rimaneva della sua idea: nel giro di pochi giorni sarebbe evaso.

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Capitolo 2
*** Silfarion ***


2. Silfarion

Passarono i giorni, passò una settimana ma nessuno era ancora evaso. Anche la notizia dell’arresto, ormai, stava perdendo importanza. Ogni giorno erano sempre di meno le righe dedicate al capo dei ribelli, la novità andava perdendo tutta quell’attenzione che aveva attirato su di sé. Probabilmente, l’unico motivo per cui ancora se ne parlava era perché i capi di Stato non si decidevano a scegliere una data per l’esecuzione.
Con un sospiro, Zahan appallottolò il giornale e se lo buttò alle spalle con noncuranza, prima di immergersi nel mare di folla del mercato. Camminava agile e silenzioso tra la gente, passava accanto ai banchi con la merce esposta e proseguiva, a volte dopo averci buttato una breve occhiata. Un improvviso refolo di vento riuscì a penetrare attraverso il muro di persone e s’insinuò sotto i vestiti di Zahan. Il ragazzo ebbe un brivido, ma proprio in quel momento aveva trovato quel che cercava. Sorrise malizioso, prima di proseguire si calò per bene il cappello sugli occhi. Infilò le mani nelle larghe tasche della giacca e si avvicinò incerto ad un banco particolarmente invitante. Doveva essere nuovo, perché Zahan era sicuro di non aver mai visto gioiellieri in quella parte della città. Dopo una prima occhiata si disse che chiamarlo gioielliere poteva sembrare un’esagerazione, ma qualcosa della merce che vendeva non era male. Rallentò prima di trovarsi vicino al banco interessato, lo raggiunse e lo superò, mantenendo sempre la stessa andatura.
Zahan non riuscì a reprimere un ghigno, sentendo il freddo metallo sotto i vestiti. Silenzioso come un’ombra aveva trafugato uno dei migliori pezzi della collezione del mercante. Con quello avrebbe dato a sua madre almeno un altro mese di autonomia. Il giovane, alla pari del vento e altrettanto veloce e invisibile, già si preparava a svoltare nel primo vicolo, per poi scomparire definitivamente della calca. Ma qualcosa era andato storto: qualcuno l’aveva visto rubare. O meglio, aveva visto una collana scomparire contemporaneamente al suo passaggio. All’improvviso Zahan si sentì afferrare da dietro con violenza, strattonato per un braccio.
Dannazione pensò immediatamente dopo aver voltato la testa. Di tutte le persone, proprio un soldato della guarnigione? I due si fissarono truci per un istante, Zahan si domandava se era meglio bluffare o darsela a gambe. Impiegò poco tempo per decidere. In rapida successione piegò il braccio che veniva stretto e subito dopo lo distese, facendo scivolare la presa al soldato. Poi, senza attendere nemmeno un attimo, si voltò e corse via ma il soldato cominciò a rincorrerlo, e non da solo: con un gesto della mano aveva chiamato a sé due suoi compagni e adesso erano in tre ad inseguirlo. Zahan correva veloce, con l’estremità del lungo spolverino che gli sfiorava gli stivali. Aveva sollevato leggermente il cappello per ampliare la propria visuale. In quel momento si trovava nel centro del mercato: da una parte era un bene, perché era anche il punto in cui la folla si concentrava, ma dall’altra era un male, trovandosi molto lontano da qualunque via di fuga. Zahan si guardò velocemente intorno, cercando con gli occhi i suoi inseguitori. Quando non li vide, pensò di averli seminati, cosa affatto difficile essendo lui abbastanza piccolo e gracile d’aspetto e loro molto più grossi e muscolosi. Al centro della piazza, costruita su un rialzo di pietra, si trovava una fontana circolare. Scolpite nella roccia, tre immagini di donne gli sorridevano mentre rovesciavano nella fontana le loro anfore colme d’acqua. Zahan rivolse il suo sguardo al cielo: viaggiavano molte nuvole, portate dal vento, ma alcune, quelle scure e grigie, portavano la pioggia. Il ragazzo scosse la testa sconsolato, pensando ai cunicoli sotterranei che si riempivano d’acqua, forse era giunto il momento di fare ritorno a casa. Assicurandosi che la refurtiva fosse al sicuro al suo posto, si abbassò nuovamente il cappello sugli occhi certo che, a quell’ora, i soldati avessero rinunciato a dargli la caccia e se ne fossero ritornati ai loro posti. Prima di rientrare, però, si avvicinò alla fontana, salì gli scalini e si soffermò a fissarsi nello specchio d’acqua. Restò lì immobile per alcuni istanti, quasi ipnotizzato da quel riflesso trasparente. Distrattamente, notò che una ciocca dei suoi capelli era sfuggita da sotto il cappello e gli solleticava dolcemente la guancia, allora la respinse velocemente sotto il copricapo. Di nuovo spostò il suo sguardo sullo specchio d’acqua e fissava duramente i suoi occhi bicolori, in una specie di gara. Non riuscì a reggere il suo stesso sguardo e affondò una mano nella polla, increspandone la liscia superficie. L’acqua era gelata e Zahan tirò fuori la mano, che già cominciava a diventare livida. Ci alitò sopra, nel vano tentativo di scaldarla: perché aveva fatto una cosa tanto stupida? Basta, l’unica cosa che poteva fare era correre a casa il più velocemente possibile, accendere un fuoco e accostarci la mano. Fino a quel momento decise di sfilarsi la sciarpa dal collo e avvolgerla intorno alle dita ed al polso, poi si voltò e andò a sbattere dritto dritto contro una delle tre guardie che lo afferrò, questa volta per entrambe le braccia, e lo trascinò insieme ad uno dei suoi compagni verso le prigioni.
- Sentiti fortunato – gli disse il soldato. – Di solito ai bastardi come te tagliamo la mano destra, Ger trova la collana, ma con la cattura di quel cane di un capo dei ribelli, simili dettagli diventano insignificanti.
Il secondo soldato si avvicinò per frugare sotto i vestiti di Zahan, ma questi lo anticipò:
- E’ nella tasca interna, sotto la manica sinistra.
I due soldati alzarono lo sguardo sul ragazzo, confusi dal suo comportamento insolito, soprattutto quando trovarono effettivamente lì la collana.
- A che gioco stai giocando? – domandò il primo soldato, alzando diffidente un sopracciglio.
Zahan alzò le spalle, per quanto gli fosse possibile. – L’avreste trovato comunque – rispose tagliente, - e non mi piace quando un uomo mi palpa, perdonate la franchezza.
- Siamo delicati, eh? - ghignò il secondo soldato, che stringeva nella grossa mano pelosa il monile. Lentamente se lo infilò in una tasca della divisa e poi diresse un pugno dritto dello stomaco del ragazzo. Zahan lo fissò con lo sguardo rovente per qualche secondo, ma quando gli arrivò un secondo colpo dietro la nuca, perse inevitabilmente i sensi.

Lentamente aprì un occhio, poi l’altro. Con una gran confusione in testa cominciò a guardarsi attorno. Si trovava sdraiato sul pavimento di pietra, il gelo che ormai gli stava penetrando nelle ossa. Zahan non conosceva il posto dove si trovava perché probabilmente non c’era mai stato, ma era uno solo il luogo dove quei due soldati avrebbero potuto portarlo. Aggrappandosi alle sbarre di ferro della cella, si trascinò fino al muro dove riuscì a gettare un’occhiata fuori dalla piccola finestra, bloccata con delle spesse sbarre di metallo. Zahan vide poco, pochissimo, ma quello poco che vide gli provocò un brivido: l’avevano rinchiuso nella cella all’ultimo livello dell’ex torre di vedetta, e se non era l’ultima, poco passava. Si sentì quasi come le principesse delle favole, ma la battuta non lo fece affatto ridere: non sarebbe stato facile evadere di lì!
- Guardate un po’ chi si è destato dal suo sonno: il bello addormentato!
Zahan volse la testa verso la voce. Quattro guardie della prigione lo stavano fissando ridendo di gusto. Il ragazzo però non sfuggì lo sguardo e li fissò con i suoi inquietanti occhi.
Una delle guardie ebbe una smorfia quando vide il duplice colore delle iridi del giovane.
- Ehi ragazzi – chiamò – guardate che orrore!
- Che Dio li perdoni – esclamò allora un altro dei quattro uomini, - questi due si fanno concorrenza!
- Via, via, lasciamoli in pace – rise la terza guardia, aprendo una porta e cominciando a scendere le ripide scale a chiocciola. – Il nostro turno è finito, tra un po’ verranno a darci il cambio.
Le due guardie che prima avevano parlato se ne andarono velocemente come la prima, ma una di loro si intrattenne ancora un attimo presso le sbarre.
- Scusa per la compagnia ometto – disse sarcasticamente – ma ti assicuro che quello sporco cane rosso non ti mangerà! – poi Zahan rimase solo.
Scusa per la compagnia? Si domandò il ragazzo confuso, poi si voltò e vide che effettivamente non era l’unica persona in quella cella. Di fronte a lui c’era un uomo, leggermente più vecchio, che doveva avere da venti ai trent’anni. Sedeva a terra, semisdraiato, con la schiena appoggiata al muro. L’uomo non lo fissava, non si era nemmeno girato a guardare Zahan da quando questo si era risvegliato: rimaneva immobile, con lo sguardo fisso di fronte a sé. Come aveva detto l’ultima guardia, i capelli dell’uomo, che gli cadevano disordinati sulle spalle e intorno al viso, erano rossi, un rosso molto intenso. Zahan non riusciva a giudicarne precisamente la statura, ma era certo che fosse abbastanza alto, certamente più alto di lui. Le spalle erano larghe e coperte da un lungo mantello beige particolarmente elaborato, decorato con rifiniture in oro e in argento. Certamente non è qualcuno che soffre la fame pensò Zahan infastidito e infreddolito, ma allora cosa ci fa chiuso qua dentro?
Il volto dell’uomo era molto fine ed elegante, non come poteva essere quello di Zahan, ma avrebbe affascinato molte donne. Il naso scendeva dritto, ma senza creare una linea continua con la fronte. La sua espressione non era serena ma corrucciata, dopotutto, cos’altro ci si poteva aspettare da un uomo rinchiuso dietro a delle sbarre?
Anche Zahan si sedette a terra, lontano il più possibile da quello strano uomo che lo inquietava, emettendo una singolare aura di forza e carisma, eppure il ragazzo continuava a fissarlo incuriosito. L’occhio sinistro dell’uomo, l’unico che Zahan riusciva a vedere dalla posizione in cui si trovava, era grande e limpido, ma di un’inusuale forma allungata. Continuava a guardare fisso a terra e il ragazzo gli invidiò quel semplice e contemporaneamente bellissimo color blu mare.
Non sapendo cosa fare, senza la possibilità di evadere o la ben che minima intenzione di rivolgere la parola al suo inquietante compagno di cella, Zahan chiuse gli occhi e tentò di riposare. Dopo alcuni minuti si addormentò.
Fu un freddo rumore di ferraglia a svegliarlo. Placidamente aprì gli occhi e diresse lo sguardo verso la porta della cella. Altre quattro guardie, diverse da quelle che avevano dato il ben svegliato a Zahan, fissavano i due prigionieri seduti a terra. Una di queste guardie stava aprendo la porta della cella, mentre un’altra entrava guardinga e posava accanto al ragazzo ed all’uomo dai capelli rossi due piatti pieni di un liquido biancastro. Zahan ci buttò un’occhiata per poi ritirarsi disgustato: non aveva l’aspetto di nulla che avesse visto nei suoi diciassette anni. Il giovane alzò lo sguardo irritato e, con enorme sorpresa, si trovò a fissare una decina di soldati che li osservavano con i fucili puntati. Involontariamente Zahan spalancò la bocca, basito: che cosa diavolo stava succedendo? Le guardie richiusero la porta a doppia mandata e solo allora i soldati posarono i fucili. Le chiavi della cella furono affidate alle guardie di servizio, tre in tutto, mentre gli altri, guardie e soldati, cominciarono a scendere le scale. I tre uomini rimasti si spostarono nella stanza attigua, si sedettero presso un tavolo, estrassero carte e rhum e si dimenticarono di Zahan e dell’uomo dai capelli rossi.
Solo allora il ragazzo provò a prendere in mano il piatto portatogli e lo fissò diffidente. Il suo compagno di cella, invece, lo afferrò con entrambe la mani e cominciò a sorseggiare la brodaglia bianca contenuta. Zahan lo fissò perplesso. Provò ad annusare lo strano liquido, ma non percepì alcun’odore, allora prese in mano il rozzo cucchiaio di legno e si portò la pietanza alle labbra. L’assaggiò con la punta della lingua e con un’espressione contrita sputò a terra disgustato.
- Puah! Ma che cos’è questa roba? – esclamò. – Persino la suola delle scarpe ha un sapore migliore.
E’ anche fredda! Rifletté nauseato. Il giovane alzò lo sguardo, dirigendolo verso l’uomo dai capelli rossi.
- Come fai a mangiarla? – domandò.
- E’ l’unica cosa che si può mangiare in questo posto – rispose l’uomo, parlando per la prima volta. Aveva una voce profonda, sommessa ma nitida. Lentamente finì di mangiare, poi ripose in un angolo il cucchiaio e il piatto vuoto.
- Beh, io sono stufo di starmene chiuso qui dentro! – esclamò Zahan, gettando un’occhiata alle guardie nell’altra stanza, prossime a cadere addormentate. – Me ne vado. Tu resti?
- Sto aspettando delle persone.
- Ho capito…credo che aspetterò ancora un pochino – decise allora Zahan, tornando a sedersi.
Seguì un lungo silenzio. L’uomo dai capelli rossi pareva parlare solo se interpellato, e Zahan aveva terminato le domande da porgli. Distrattamente, controllò che il suo cappello fosse ancora al proprio posto, posandosi le mani sul capo. Lo toccò, lo raddrizzò e sentendosi soddisfatto lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. S’arrestò un attimo, c’era qualcosa che non quadrava: si guardò le mani. Entrambe funzionavano perfettamente, non sentiva alcun dolore o un freddo particolarmente intenso. Cos’era successo alla mano che aveva imprudentemente immerso nell’acqua gelida?
- Spero non ti dispiaccia.
Zahan voltò la testa verso l’uomo, probabilmente dalla sua espressione lasciava facilmente intuire che non aveva compreso le sue parole.
- La tua mano - continuò allora l’uomo, guardandola fisso. - Te l’ho scaldata io o avrebbe gelato.
Zahan spostò lo sguardo da lui alla mano e poi di nuovo su di lui.
- Grazie - riuscì solamente a rispondere. Poi non riuscì più a continuare.
Dovette ripetere mentalmente la loro piccola conversazione per molte volte, prima di riuscire realmente a coglierne il significato. Quando finalmente comprese lo fissò sbalordito. Perché l’aveva fatto? Per passare il tempo? Il giovane continuò a crucciarsi a lungo ma senza trovare una risposta abbastanza verosimile da prendere in considerazione. Alla fine si arrese.
- Perché hai… - cominciò, ma poi si interruppe. La domanda sarebbe stata completamente inutile. Sospirò. - Io sono Zahan.
L’uomo dopo un po’ levò lo sguardo sul giovane volto del ragazzo, rispondendogli solo dopo un lungo silenzio.
- Silfarion.
- Che nome strano - borbottò Zahan. - Tra quanto credi che arriveranno le persone che aspetti? - domandò dopo pochi istanti.
- Tra poco - passavano sempre lunghi istanti prima che l’uomo rispondesse alle sue domande.
Per un po’ Zahan tentò ancora di fare conversazione, ma nulla sembrava risvegliare l’interesse di Silfarion, che continuava a rispondergli sempre con lo stesso, monotono tono di voce.

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