La città vuota.

di PrimaLetteraDellAlfabeto
(/viewuser.php?uid=25438)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ordini. ***
Capitolo 2: *** Rincominciare a respirare. ***
Capitolo 3: *** L'onere di un soldato. ***
Capitolo 4: *** La vita fa un baccano assurdo. ***
Capitolo 5: *** Un grado più in altro. ***
Capitolo 6: *** Lasciarsi alle spalle. ***



Capitolo 1
*** Ordini. ***


Nell’aria riecheggiava solo il rumore di passi incalzanti e pesanti, che come un metronomo scandivano i secondi ed emanavano vibrazioni autoritarie, ma al contempo mal celavano una nota distorta, in cui era racchiusa un’urgenza allarmante.
L’odore di umidità ristagnava nell’ambiente, e il clima freddo e pungente proveniente dall’esterno si propagava tra le mura spesse e le gelide pareti, fino ad insidiarsi maligno in ogni angolo dell’area.
Ad ogni falcata soffici granelli di polvere fluttuavano dalle piastrelle del pavimento, come moschini fastidiosi svolazzavano nell’aria, e si mischiavano con quel lezzo madido, conferendo al posto la tipica caratteristica di un luogo non molto curato.
Con andatura sicura e altezzosa, Laxus percorreva velocemente il lungo corridoio che conduceva alla stanza d’ufficio del Tenente Generale, il quale aveva richiesto la sua presenza.
Benché non avesse percorso un breve tragitto, non ci mise molto ad arrivare.
Trovandosi la porta chiusa, bussò fugacemente con un solo colpo di nocche, e senza attendere risposta entrò all’interno della stanza.
La sua attenzione venne catturata da un uomo adulto, che al dì la di una scrivania pulita ed ordinata, contemplava il paesaggio da una grande finestra, dandogli le spalle.
Si richiuse l’uscio a ridosso, senza staccare gli occhi dalla schiena del Generale, e rimase in silenzio ad aspettare.
« Diligente come sempre Capitano. Ha fatto più in fretta di quanto potessi immaginare. » un’intonazione ironica, nettamente fuori luogo per una situazione delicata come quella. Laxus sentì la tensione prendere il sopravvento su di sé.
« L’ascolto Signore. » Più che ad un asservimento somigliò ad un ringhio.
Il Generale sfoggiò segretamente un sorriso compiaciuto, si avvicinò ulteriormente alla finestra poggiando il busto sull’infisso, e incrociando le braccia.
« Lo sa Capitano mi piace guardare le nuove reclute che si danno da fare, mi ricorda quand’ero giovane. A quei tempi ero affascinato dall’ignoto, mi sorprendevo per ogni cosa, e avevo come l’impressione che se mi sarei fermato avrei perso contro la vita. Dovevo muovermi, non mi importava poi molto di quale sarebbe stata la mia meta, io dovevo muovermi per sopravvivere. Così all’età di diciassette anni ho iniziato a viaggiare per il mondo nel tentativo di colmare me stesso, mi spostavo da un luogo all’altro, ed ero perfino convinto che prima o poi avrei visitato ogni angolo di questo emisfero.
Che anni quelli, ero così carico, così entusiasta di ciò che il fato avrebbe potuto propormi…
Non che sia cambiato granché, non sono poi così vecchio non le pare?. »

Tensione che stava inesorabilmente sfociando in rabbia.
Il giovane Capitano dovette appellarsi a tutta la sua pazienza per riuscire ad attenersi alla carica che ricopriva.
Non che ne abbia mai avuta molta lui, di pazienza.
« Generale, se non sbaglio mi ha fatto chiamare per un motivo differente dal parlare dei suoi tempi d’oro. Gradirei che mostrasse un po’ più buonsenso, e si decidesse a dirmi cosa sta succedendo una volta per tutte. »
« Non può neanche immaginare quante me ne sono capitate. Lo sa che una volta sono finito in una terra di nativi cannibali? All’inizio ero convinto che mi stessero preparando per qualche loro assurda cerimonia di benvenuto, e invece volevano mangiarmi!. Che ricordi… Era un vulcano attivo, affamato di sapere, di conoscere ogni sfaccettatura di questo mondo, non volevo farmi mancare niente dalla vita. Ero anche così pieno di ormoni, non per vantarmi ma nel mio viaggio mi sono dato parecchio da fare. Ma credo di dover smetterla di piangermi così addosso. Sa, fare parte del corpo militare ha i suoi grossi vantaggi per quello. Tra l’altro, se gli eventi sfavoriranno nel peggiore dei casi, ho sentito che la prima città in cui ci fermeremo sarà piena di belle donne…»
« Sono serio Gildarts. »
Il Generale si voltò per la prima volta da quando Laxus fece capolino nel suo ufficio, e lo guardò dritto negli occhi.
Responsabilità, questa era la parola che aleggiava all’interno di quella stanza chiusa.
La sentirono penetrargli nei polmoni, avvertirono che l’aria si stava sporcando di macchie scure e frastagliate, invisibili agli occhi, ma quasi palpabili.
Responsabilità.
Lentamente li stava inghiottendo, e pesava, come un macigno sulle spalle dal quale nessuno dei due poteva sottrarsi.
Sapevano entrambi che non vi erano vie di fuga, che avrebbero dovuto prenderla di petto, sorreggersi da loro stessi e mutare diventando uomini.

Gildarts sentì il bisogno di voltarsi nuovamente per trovare la forza di parlare.
« Sono riusciti a coalizzarsi, alla fine hanno creato un’alleanza con il fine di espandere il loro regime autoritario. Si sono anche già impadroniti di alcune città del Sud, e vogliono risalire fino ad occupare l’interno territorio. In quanto al servizio del nostro paese, noi non possiamo permettere che ciò accada. »
« Nome? »
« Alleanza Balam. Non sappiamo ancora di preciso quali siano esattamente le provincie coinvolte in quest’organizzazione, ma puoi star certo che lo scopriremo presto. »
Lasciò cadere degli attimi di nulla prima di riprendere il discorso.Voleva dare al ragazzo il tempo necessario per assimilare la notizia, quel minimo lasso di tempo di cui avrebbe avuto bisogno per riuscire a concretizzare i suoi timori.
« Il nostro Governo vacilla, ma noi siamo al servizio del Capo di Stato tutt’ora in carica, ed è stato richiesto un nostro intervento. »
Ancora silenzio.
Ne avevano entrambi bisogno, eppure Laxus sapeva fin dall’inizio il movente che spinse il Generale a richiedere la sua presenza.
Se lo sentiva nelle viscere che il peggio sarebbe diventato la sua realtà, che avrebbe preso la forma dei suoi giorni.
« Non lasceremo che Fiore cada sotto una dittatura. »
L’aveva capito da quando quel cadetto era venuto a riferirgli le intenzioni di Gildarts, gli si era appiccicato addosso mentre aveva percorso il tragitto tra la caserma e l’ufficio del suo Generale, i suoi muscoli si erano involontariamente contratti, le spalle irrigidite, i respiri si erano fatti pesanti, e lo stomaco gli si era contorto in una morsa molesta ed opprimente.
I presentimenti non sono doni, ma maledizioni.
« È guerra. »


Guerra, che parola orrenda.
Eppure viene spesso pronunciata dall’uomo, per incitamento, per gioco, come provocazione, ma quando assume la forma di una constatazione ti piomba addosso come un falco, e ha il potere di lacerarti dentro con degli artigli incorporei, lasciandoti disperare dal dolore per ogni singolo millimetro di carne strappata.
Guerra, non è vero che i soldati non hanno paura.


« Sicuramente nel giro di due settimane apriremo il fuoco. Loro non hanno la minima intenzione di patteggiare con il nostro Governo. Fra poco più di una settimana dovremo muoverci verso la città di Oracion Seis. »
« Ma non avevi detto che non eri sicuro di quali fossero le città coinvolte? »
« È vero, ma Oracion c’è dentro al cento per cento, hanno fatto un baccano assurdo laggiù, e non hanno neanche tentato di nasconderlo. Mi sorprende che tu non lo sappia. »
« Certo che lo so, ma volevo esserne certo. Prendo comunque ordini da te. »
Gildarts lo guardò nuovamente, ma questa volta era uno sguardo quasi compassionevole, quasi paterno.


Laxus, mi ricordo quand’eri un ragazzino incosciente, esaltato, sempre un po’ imbronciato, un po’ come adesso.
Hai sempre avuto fretta di crescere, di essere il migliore, ma io so che avevi un mondo di emozioni impenetrabili dentro te.
Guardati, guardati ora. Guarda che uomo che sei diventato.



« Ancora dobbiamo comunque decidere quale corpo d’armata attuerà l’attacco, quale sarà quello di difesa…, quindi hai due giorni di tempo. »
Lui non capiva, tempo, tempo per cosa?.
« Dobbiamo fare approvvigionamento di quante più armi possibili, la città più vicina che ne ha il più ampio mercato è la nostra. Con te verrà anche un ente specializzato nel commercio bellico, avranno loro il denaro, e sarà loro il compito di attuare il processo d’acquisto e di svolgere i relativi controlli, ma tu devi comunque assicurarti che facciano il loro dovere. »
Del tempo, Gildartz gli stava dando del tempo.
« Due giorni, non di più. »
Chiaro.
« Partite adesso. »
Laxus si ricompose al suo ruolo di sottoposto.
« Si Signore. »
Si avviò verso l’ingresso, quando venne bloccato da parole ardenti come il fuoco, ma avvolgenti come un abbraccio.
« Porta con te i tuoi ragazzi. »
Uscì dal suo ufficio chiudendosi la parta alle spalle, senza dire una parola.


I suoi ragazzi, Laxus era da poco diventato il Capitano dell’esercito di Fiore, e di soldati al suo servizio ne aveva davvero molti, ma non tardò a comprendere il significato di quella frase.
I suoi ragazzi. I suoi.
Percorse nuovamente quel corridoio polveroso ed umido, svoltò a destra, scese le scale, svicolò silenzioso dall’edificio appartenente al corpo militare, si infangò gli scarponi di terra bagnata e fango, e nel mentre di tutte queste sue azioni poteva vedere chiaramente il suo Generale ancora affacciato alla finestra, con un espressione lugubre in volto.
Lo sentiva sussurrare.
« Portali nella nostra città, portali a Fairy Tail. Forse sarà l’ultima volta che la vedranno…»

Si incamminò velocemente in direzione di una determinata caserma. Quand’era ancora un soldato semplice era stata anche la sua, ma ora era il Capitano, ricopriva una delle più alte cariche dell’esercito, e naturalmente aveva una sua stanza privata.
Tutti si ricomponevano con una precisione quasi meccanica al suo passaggio, e guardavano sempre oltre le sue spalle in segno di rispetto, a meno che non fosse egli stesso a richiedere il contrario.
Il suo sguardo gelido incuteva timore ad ogni soldato, a tutti, tranne che a loro.
Era nell’ora comunemente definita come pausa pranzo, per cui non si stupì di trovarli dentro una volta aperto il portone, fuori faceva un freddo cane.
Ricordò come, nel primo periodo di arruolamento, quella caserma pullulasse di soldati, quasi tutti provenienti dalla stessa città, ma in quell’istante notò quanto il numero dei cadetti al suo interno fosse rovinosamente calato.
Corrugò la fronte in un piglio di rammarico, cercando di ricordare cosa avesse portato ad una situazione tanto scoraggiante; probabilmente molti, come lui, avevano ambito a ricoprire una carica maggiore all’interno dell’esercito, e avanzarono di ruolo, magari altri dovettero ritornare in famiglia per questioni economiche, o molto più probabilmente la maggior parte di loro non aveva la stoffa del militare.
Erano rimasti davvero in pochi, erano rimasti in tre.
Piombò un silenzio spento, e venne attorniato da sguardi attoniti e respiri muti, gesti lasciati a mezz’aria, parole spezzate.
La sorpresa è figlia di Medusa.
Laxus diede un occhiata fugace a quell’alloggiamento spoglio e squallido, quando la sua attenzione venne catturata da un borsone accasciato malamente sotto ai piedi di un letto.
Lo riconobbe, era il suo, ci ficcava dentro tutte le cose in più che non entravano nell’altro più grande, tutte quelle che reputava inutili ma che comunque si portava sempre appresso, era convinto di averlo perso.
Con passi lunghi si portò al centro della stanza, e chinandosi afferrò i manici della sua borsa, sotto lo sguardo sbigottito dei pochi presenti; una volta tirata fuori da quel nascondiglio abbietto, la sbatté brutalmente per liberarla dalla polvere accumulata in quel lasso di tempo in cui era stata privata di un proprietario, e se la trascinò dietro in direzione dell’uscio.
Il suo improvvisato pubblico rimase a guardarlo ancora paralizzato sotto l’effetto dello stupore, e si isolò in un recinto invisibile fatto di occhiate istantanee, cariche di domande, ma a dispetto di tutto il caos che erano soliti creare, nessuno di loro parlò.
L’ingresso era stato lasciato leggermente aperto, il freddo umido e le foglie morte di un autunno terminale entravano moleste propagandosi fin all’interno, per un istante Laxus tentò nuovamente di spolverare il suo borsone al meglio che poteva, e spalancando il portone della caserma, se lo caricò in spalla.
« Coraggio palle mosce, si torna a casa. »













~
Devo avere qualcosa che non va per scrivere un’altra long (oddio, Long, Loooooooooong, ora che ho usato questo termine sono un’efpiana dock!) (No.)
La verità è che quest’idea girovagava nella mia testa da parecchio, poi un giorno mi è parso tutto molto chiaro, i luoghi, le azioni, i vari gradi di comando, e allora ho sentito il bisogno di scrivere.
Spero vi piaccia, e giusto per fare chiarezza l’unico fuoco che emanerà Natsu sarà quello proveniente dalla canna del suo fucile.
All’inizio poi neanche volevo scriverla, la situazione è stata più o meno questa:
-Ehi ciao, sono Idea, non farmi morire! :D -
-No mi spiace ma devi crepare, io non ho né tempo né voglia-
-Troppo tardi ormai sono nata! :) -
-Ho detto no, non ho tempo-
-Senti non cercare scusa con me e vedi di darmi una forma. Dici che non hai tempo quando certi giorni li passi ancorata per casa, invece di non fare un emerito pene potresti già iniziare a scrivermi! E adesso non campare la scusa che ne stai già scrivendo un’altra perché quella non piace nemmeno a te.-
- ..A me piace..-
-Scrivimi!!-
-..Vabbè stai calma..-

Potere degli scompensi vieni a me.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Rincominciare a respirare. ***


Al primo impatto vennero accolti da un frastuono familiare, una miriade di rumori che intrecciandosi fra loro erano in grado di comporre una sinfonia contorta, un carretto traballante, un pallone che ruzzolava sui marciapiedi, un cane che abbaiava in fondo alla strada, e poi voci, e chiacchiere, e vita.
E odore del pane appena sfornato, e delle violacciocche che tardavano a gelare, e di una pioggia passata che risaliva dal terreno; nonostante l’obbligo temporale di un clima sempre più rigido, quella terra era caratterizzata da un’atmosfera straordinariamente mite, come se non fosse inclusa al gioco di regole che incatenava una stagione all’altra, come se fosse accerchiata da una bolla che le impediva di subire il peso del mondo, come se fosse protetta.
Appena arrivarono respirarono a pieni polmoni, e lo sentirono, la loro città emanava speranza.



Fu sorpreso di notare alcuni cambiamenti, l’insegna del fruttaio ora era gialla, il condominio vicino alla piazza era pieno d’edera, la drogheria aveva chiuso bottega, eppure il suo periodo di arruolamento non durò poi così tanto, o forse si, in effetti otto mesi.
Camminava lentamente lungo le vie più affollate, seguendo l’ago di una bussola interiore che ruotava a seconda del suo volere. Era felice di essere lì, ogni angolo di quella città lo portava indietro nel tempo, gli rimescolava i ricordi facendoli riaffiorare alla luce del sole.
D’un tratto avvertì l’impellente bisogno di tornare ad essere se stesso, dopo tanto di quel tempo trascorso ad esistere sotto forma di uno dei tanti soldati, si era quasi dimenticato il concetto di personalità propria; aprì il suo borsone, ed in mezzo alla gente scalpitante, si mise nell’affannosa ricerca dell’oggetto che più di tutti lo caratterizzava, che più di tutti sentiva vicino al cuore.
Teneva la sua borsa straripante con un braccio, come se reggesse un bimbo in fasce, mentre con la mano libera scostò maglie, pantaloni mimetici, calzini, fino a che i suoi movimenti non divennero sempre più rapidi e tesi; non avere sotto mano ciò che voleva gli premeva particolarmente, ed improvvisamente si trasformò in un bambino, il quale non concepiva l’ipotesi di ricevere una risposta negativa.
La sua espressione mutò in un ringhio stizzito, al pensiero di averla dimenticata, o peggio, persa, si sentiva pressato dall’angoscia e dal rimorso, e invece no, eccola lì la sua sciarpa, acciaccata sul fondo della sacca in tutta la sua bellezza.
La estrasse con più foga del necessario, rischiando di far scivolare alcuni indumenti a terra, e sotto lo sguardo incuriosito e vagamente sconcertato dei passanti, la sventolò con forza per scioglierla da tutti gli stropicciamenti che aveva subito stando nascosta all’interno della borsa, come se fosse una bandiera, la sua.
Con un gesto rapido se la arrotolò intorno al collo, ora era davvero tornato.



Si fermò a mangiare qualcosa seduto in una panchina del parco, assaporando l’aria autunnale e gli odori che questa sprigionava.
Nonostante che le condizioni climatiche non fossero poi così critiche, la gente accanto lo fissava stupita a causa del suo abbigliamento leggero e decisamente inadeguato alla stagione, ma non ci badò molto, c’era abituato, lui per primo sapeva che a metà novembre non era cosa usuale andarsene in giro con una maglia a maniche corte, ma non poteva farci niente, a lui il freddo piaceva, gli era sempre piaciuto.
Addentò con un altro morso il panino che aveva tra le mani, mentre guardava divertito dei bambini giocare in lontananza, quando d’un tratto una voce femminile, che risuonò con un timbro di sorpresa ed entusiasmo, catturò la sua attenzione.



Non aveva una meta ben precisa, a lui semplicemente piaceva stare all’aria aperta, vagabondare tra la folla, sentire la vita scorrere accanto a sè, lo faceva sentire vivo a sua volta.
Si stava dirigendo verso il centro della piazza, ma qualcosa lo bloccò bruscamente, d’improvviso un paio di calde ed esili braccia gli impedirono di avanzare.
Le sentì avvolgergli l’addome con impeto, quasi a voler fondere i due corpi, e ad ogni secondo che passava la stretta si faceva sempre più salda, sempre più vigorosa, e lui non poté fare a meno di accogliere quell’abbraccio che trasudava affetto ad ogni respiro.
Guardò in basso, e con il cuore traboccante vide finalmente la causa della sua marcia spezzata, i piccoli arti che lo cingevano da dietro ancora non gli arrivavano al torace, sembravano così candidi, delicati, ed emanavano un tepore avvolgente.
Percepì il peso di una piccola testa poggiarsi lungo la sua schiena, ed anche se non poteva guardarla sapeva che il suo viso si stava bagnando di lacrime, dopotutto la conosceva bene.
Sorrise.



Sentire il suo nome affiorare da quelle labbra lo caricò di un’emozione strana, nuova ma allo stesso tempo passata, ordinaria, e sentì una sorta di formicolio espandersi lungo tutto il suo ventre.
Sapeva che l’avrebbe trovata lì, a pochi metri da lui, in piedi ed incredula, magari con una busta della spesa tra le mani, od un libro acquistato da poco, ma lasciò che passassero ancora una manciata di secondi prima di girarsi e rispondere al suo richiamo, d’altronde si erano sempre divertiti un po’ a torturarla, lei era sempre stata una che si lasciava prendere in giro, e da parte sua Gray era un ragazzo che godeva nel farsi desiderare.
O forse la verità era un’altra, a conti fatti stava solo mentendo a se stesso, e con uno sforzo di sincerità riconobbe la presenza di un insensato timore che gli impediva di voltarsi.
Avvertì una mordente sensazione di vuoto interiore, quell’enorme e maledetto buco allo stomaco che odiava e che già aveva subito in passato, come i minuti che precedettero il colloquio per iscriversi all’accademia militare, quell’esame che gli cambiò la vita.
Era una percezione maledettamente familiare, la sentiva ogni volta che si trovava in uno stato emotivo particolarmente teso.
Ricordò del momento in cui percepì questa sottospecie di croce per la prima volta, fu mentre percorreva lo stradello che conduceva al parco vicino casa; quand'era un bambino ancora insicuro dei rapporti con gli altri, non sapeva se una volta arrivato avrebbe trovato i suoi amici o sarebbe rimasto solo, era una preoccupazione talmente frivola, ma riusciva spesso a tormentarlo, e quella stessa sensazione lo faceva ancora.
Nonostante tutto però non riusciva a capire, iniziò a chiedersi perché si stava ripresentando proprio ora, e perché proprio con lei, avrebbe dovuto essere felice di poterla riabbracciare, allora perché?.
Si stava affliggendo con molteplici domande, ancora non sapeva che rivedere improvvisamente una persona cara dopo tanto tempo ha l’effetto di impietrirti. In un attimo lasciò cadere tutto, i dubbi, le paure, poterla riabbracciare, in un attimo stette meglio, e quando si voltò sapeva già a chi avrebbe rivolto il suo sguardo.
« Ciao Lucy. »



« Mi sei mancato tanto Natsu. »
Lui afferrò quelle piccole braccia che lo avvolgevano e gli scaldavano l’anima, e si sorprese di quanta felicità riusciva ad infondergli il suono della sua voce.
« Anche tu Wendy. »





**


Era da molto ormai che fissava la sua immagine riflessa, ma non si era guardata realmente neanche un solo istante da quando si era seduta dinnanzi allo specchio.
Spazzolava i capelli con una lentezza quasi estenuante, e ad ogni colpo di spazzola una nuova immagine della giornata appena trascorsa si annidava nella sua mente.
Erano tornati.
Quel giorno aveva rivisto Gray dopo tanto tempo, aveva passato tutto il pomeriggio a parlare con lui, e tutti i castelli in aria che aveva costruito durante la loro assenza erano inesorabilmente crollati.
All’inizio si era immaginata una scena meravigliosamente romantica, di quei ritorni strappalacrime tipici dei film che al pomeriggio proiettavano al cinema, e che andava spesso a guardare in compagnia di Levy, giusto per conservare un po’ di speranza, o per farsi del male.
Poi le sue fantasie erano paradossalmente mutate, e col trascorrere del tempo tutto il suo romanticismo si era trasformato in rabbia, tutto quel tempo senza uno stralcio di lettera, o una chiamata, e in un attimo le rimontò addosso tutta la frustrazione che l’aveva inghiottita insieme ai suoi giorni, e riiniziò a pensare, "ma come è possibile che in otto mesi non siano riusciti a trovare nemmeno il tempo di una chiamata?!".
Anche da cinque minuti le sarebbe andata bene, da quattro, da due, anche solo per sentire la sua voce, per sapere se stava bene, se era vivo.
Rabbrividì, e scacciò via quel pensiero orrendo.
No, erano tornati.
Erano tornati tutti davvero, eppure non l’aveva ancora incontrato.
Ma quella sera aveva aggiunto dieci gocce in più di essenza di rosa nella vasca, e non curante dell’aria gelida della notte, aveva lasciato leggermente la finestra aperta.
Il cuore le batteva a mille, nel silenzio in cui era avvolta poteva quasi sentire i suoi stessi battiti, ma concretizzò il fatto che non aveva senso restare sveglia ad aspettare, magari non sarebbe accaduto nulla di ciò che sperava, così decise di coricarsi a letto.
Si arrotolò sotto le coperte pesanti e spense la luce, sforzandosi di addormentarsi il più presto possibile, e dando le spalle a quello spiraglio aperto che stava tenendo crudelmente le redini del suo cuore.


Mani.
Si svegliò di soprassalto.
Se le sentiva sui fianchi.
Adesso erano braccia, le cingevano la vita, ed erano calde, quasi bollenti.
Non riusciva a crederci, né a trovare la forza di voltarsi, e l’unica reazione da parte sua furono delle lacrime che non tardarono ad inumidirle il volto.
Nessun movimento, o gesto, nessun segno, e nessuna parola, solo lacrime.
« Non piangere. »
E come lo spieghi ad un uomo che una donna fa sempre l’esatto opposto di ciò che le viene detto?.
« Non piangere Lucy. »
Natsu avvicinò sempre più il suo viso a quello di lei, finché non poté più fare a meno di girarsi e guardarlo.
Appoggiò il palmo della mano sulla sua guancia, e con gesti lenti e delicati incominciò ad accarezzargliela, ma ancora non emise fiato, e anche se avesse voluto non sarebbe riuscita a trovare le parole.
Al posto di compiere un errore, di parlare troppo, o troppo poco, Lucy decise di tacere e di piangere.
Pianse mentre si baciarono, ed ogni loro bacio aveva una tonalità diversa dal precedente, un’anima propria, qualcuno svelto, leggero, un po’ distratto, qualcun’altro intenso, dolce, passionale, e non smisero di scambiarsi quel gesto d’amore per tanto, tanto, tanto tempo.
Pianse mentre Natsu le sfilò la sottana leggera, mentre lo guardò spogliarsi a sua volta, mentre l’accolse dentro di se.
Ma era un pianto discreto, muto, come un segreto, che solo la persona amata può ascoltare.
Pianse fino in fondo, fino a quando non ne fu esausta, e terminò di recitare quella poesia non detta, sentendosi piena e svuotata allo stesso tempo, piena di lui, e svuotata dalla sua assenza.
Pianse liberandosi dal filo spinato intrecciato intorno a se stessa, finché non si addormentò sfinita tra le sue braccia, lasciando a Natsu il compito di raccogliere la sua ultima lacrima.





**


« Giusto per curiosità, fino a quando hai intenzione di startene lì seduto? »
« Fino a quando avrò voglia di alzarmi. »
« Veramente siamo chiusi. »
« Non per me. »
Mirajane lo guardò a lungo, e sorrise tra le mura del suo cuore.
« Già non per te…»
Si affrettò ad asciugare un altro bicchiere con uno strofinaccio pulito, prima di tentare di estrapolargli quante più informazioni possibili.
« Allora oggi com’è andata? »
« Bene. »
« Hanno tutti fatto il proprio dovere? »
« Si. » tagliò corto lui prendendo nuovamente un lungo sorso di birra. 
Lei sospirò mestamente nascosta dietro al bancone, ma non si perse d’animo.
« E quando partirete? »
« Che ore sono? »
« Le due e un quarto. »
« Allora domani. »
« Domani? Di già?. » protestò affranta, ma non notando nessuna reazione da parte sua decise di rinunciarci.
Sapeva che con lui i piagnistei non funzionavano, e accantonò anche la sua curiosità in merito alla missione, quando, e se, avrebbe voluto sarebbe stato lui a parlargliene, insistere era inutile.
« E mi dica, posso portarle dell’altro Capitano? » decise così di cambiare approccio per smorzare la stanchezza di entrambi, ed iniziò a stuzzicarlo, un atteggiamento che lui accolse di buon grado.
« In effetti si, sarebbe anche ora che mi offrissi dell’alto. »
« Senti un po’ carino, io qui ho ancora del lavoro da fare, e fin tanto che te ne stai li seduto a sporcarmi altri bicchieri non aiuti. »
Di tutta risposta il famigerato Capitano si scolò la birra da poco ordinata fino all’ultima goccia, e posò pesantemente il bicchiere sul tavolino di legno.
Lui amava il pub di Mirajane, anche se non glielo l’avrebbe mai ammesso, era un locale rustico, ma allo stesso tempo denotava una certa classe, per la verità la fama di cui godeva era dovuta alla gran varietà di alcool che offriva, ed alle belle cameriere.
Ma in fin dei conti a lui questo non interessava granché, era l’ambiente in generale che apprezzava, soprattutto quand’era chiuso.
Si alzò dalla sua postazione, e la raggiunse con una scintilla negli occhi.
« Sono 20 yen. » attestò lei con tono professionale, vedendolo avanzare verso la sua direzione.
« E per me? »
« 78 yen. »
« Ma come siamo ironici questa sera. »
« Veramente non sto scherzando, con tutte le birre che hai messo in conto ci devi un bel gruzzoletto. »
Il ragazzo si sedette in uno sgabello del bancone, e la fissò divertito con un po’ di malizia, gli piaceva guardarla mentre era indaffarata, e gli piaceva guardarla e basta.
« Troverò il modo di farmi perdonare…»
Mirajane sorrise fra sé, ma non scollò lo sguardo dall’ennesimo bicchiere che stava pulendo, sapeva che da li a poco i suoi occhi si sarebbero posati su di lui finché non ne sarebbero stati sazi.
« Sei sempre stato il mio peggior cliente, Laxus. »







~
Ormai sono sulla linea di confine fra lo schifo e il disagio lo so, ma non ce l’ho proprio fatta a pubblicare prima, un po’ perché non mi venivano le parole, e un po’ - e soprattutto- perché non avevo voglia di accendere il pc.
( Sembrerà strano, ma io faccio parte di quella fascia di ragazzi che non sente la necessità di accendere il computer ogni santissimo giorno. …Si vede che non sono su Facebook eh? :D) .

Parlando di questo qui sopra, credo che ormai sia chiaro che 2 dei 3 soldatini iniziali siano Natsu e Gray.
Dite la verità avevate paura che accoppiavo Natsu a Wendy eh?? xD
E invece io opto per tutte le coppie principali, e mi sono ripromessa che darò spazio ad ognuna di loro.
Anche se Laxus e Mirajane non sono poi quotatissimi, io tifo per loro. Cioè, il quarterback e la capo cheerleader, sono perfetti insieme.

In realtà questo capitolo non mi convince molto, non so, ho paura che sia troppo lungo, o troppo corto, che stanchi, che non si capisca quando salto da un punto di vista all’altro (potete anche ammetterlo che nella prima parte vi ho fatto dannare ^^’), ma se non avrei pubblicato oggi l’avrei fatto certamente fra altri 2 mesi, perché tanto non sarei mai stata contenta del risultato.., quindi...ecco a voi il capitolo! :D.
Nonostante tutto spero vi piaccia.
Un bacio a tutti i malati che lo apprezzeranno (ma non con la lingua. °”°)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** L'onere di un soldato. ***


Fu una percezione amara a svegliarla bruscamente dal suo sonno, pensieri crudeli si arrampicarono sul letto, e intrecciandosi tra loro, si saldarono sugli assoni dei suoi nervi, prendendo completamente il controllo delle sue emozioni.
Era scossa, come se le avessero gettato addosso dell’acqua gelida, ma sentiva la gola secca, ed il ronzio fastidioso del suo sesto senso non la smetteva di assordarle il timpano.
Si girò di scatto, e constatò ciò che le sue sensazioni le avevano già precedentemente sussurrato.
Lui non c’era.
Scostò con foga il piumone dal suo corpo, e si alzò in preda all’ansia, dirigendosi a piedi nudi verso il salotto.
Lo trovò chino sulla sua borsa, a sistemare ordinatamente alcuni indumenti puliti, illuminato dalla sola e tenue luce della lampada  da terra all’angolo della casa.
Sapeva che aveva udito i suoi passi e notato la sua presenza all’interno della stanza, eppure non arrestò i suoi movimenti, né la guardò per un solo istante, continuò la sua mansione con indifferenza, ma dai suoi gesti sgusciarono rimpianti, parole non dette, abbracci spezzati e mai nati.
Levy restò immobile, a pochi passi da lui, una distanza di sicurezza inesorabilmente necessaria per proteggersi dal dolore, e rimase a guardarlo in silenzio.
Una parte di lei avrebbe voluto fare marcia indietro, rinchiudersi nella camera da letto, e gridare con tutte le sue forze finché la  voce non le sarebbe morta in gola, ma era come paralizzata, ed anche volendo non avrebbe potuto, avrebbe dovuto ingoiare il gomitolo di aghi che la leva militare le stava offrendo, e sostenerlo, sostenerlo sempre.
Eppure le sembrava che per mezzo del suo silenzio lei lo stesse consegnando al nemico con le sue stesse mani.
Sotto il suo sguardo vigile, Gajeel avanzò verso il divano, e prese un’altra pila di magliette accuratamente ripiegate, sapeva essere un ragazzo molto preciso quando voleva, questa era una facoltà che solo a lei era data conoscere.
Con la coda dell’occhio sbirciò l’orario dall’orologio della sala, e quando constatò che le lancette segnavano le tre e mezza, la lama affilata di un pugnale le trapassò il cuore.
L’aveva fatto di nuovo.
La stanza si era fatta più piccola, più buia.
Gajeel.
Più opprimente, soffocante, persino l’odore era mutato in un tanfo acido.
Gajeel.
Per quanto avrebbe voluto raggiungerlo e fermare quella danza di preparativi che la stava facendo affogare, i suoi muscoli non rispondevano alla sua volontà, anche solo allungare una mano verso di lui le risultava impossibile, eppure era davvero stanca di restare ferma, di questi suoi atteggiamenti, e soprattutto dell’obbligo che aveva preso nei confronti dello Stato.
Il ricordo delle parole di Lucy arrivò prontamente a trapanarle il cranio, ad infestare quella che stava diventando una casa piena di fantasmi, in un secondo iniziò a tremare.
« Ma come non lo sai? »
Nonostante sentisse freddo ai piedi a causa del diretto contatto  con il marmo del pavimento, si sentiva avvampare, i respiri si erano fatti più pesanti, e qualche goccia di sudore le stava impregnando il viso, il torace.
Aveva la bocca impercettibilmente aperta, e per quanto avesse così tante cose da dire, la sua voce non voleva proprio saperne di collaborare.
Un’altra fitta al cuore, e lui ancora faceva finta di non vedere.
« Ma come non lo sai? Sono già partiti. »
Un maledetto. Stronzo.
Gajeel guardami ti prego.

Sotto i suoi occhi si stava svolgendo una frammento di vita che non ha nome, e che senza chiederle il permesso l’aveva inglobata.
Seppur contro la sua volontà, aveva preso parte ad un meschino gioco di ruolo, e per un attimo cercò di etichettare la situazione in cui entrambi erano coinvolti, di classificarla, ma in fatti concreti, in una casa qualunque, ad una tarda ora della notte, una ragazza stava guardando il proprio uomo prepararsi verso una strada di morte, esiste davvero un termine per una cosa del genere?.
Gajeel era impegnato a sistemare altri capi, nel borsone c’era ancora un po’ di spazio, ma Levy sapeva che nel giro di breve avrebbe terminato il suo compito.
Chiusa in una bolla di silenzio che la separava da quell’ambiente tossico, lasciò che le onde di una nuova chimera la trascinassero a largo, ed iniziò a creare immagini, parole,  ciò che avrebbe voluto accadesse nella realtà.

« Quindi partite adesso?. »
« Si. »
« Avresti dovuto svegliarmi. »
« No invece, so che non riesci a dormire bene quando sono fuori, e per una volta che riposavi tranquilla non sarei stato di certo io a svegliarti. Potrai non crederci, ma l’ho fatto per te. »
« Si, d’accordo. »

Forse quello che la sua mente aveva appena formulato era solo una scusa, ma in fin dei conti non le importava.
Non voleva scovare nei meandri della sua ragione, per quanto una parte di lei sperava di ricevere una spiegazione, aveva seriamente paura di scoprire cosa lo aveva nuovamente spinto ad agire in quel modo, ma non aveva intenzione di affliggersi ulteriormente.
Sentiva solo il bisogno di continuare a dar vita a quei dialoghi apocrifi.

« Mi raccomando stai attento. »
« Si. »
« E non strafare, e cerca di non prendere freddo, e comportati bene, soprattutto con i tuoi superiori. »
« Guarda che lo so. »
« E stai attento. »
« L’hai già detto. »
« Ti prego stai attento Gajeel …»

Se solo avesse trovato la forza di formulare davvero quelle parole, e invece niente, non riusciva a dire niente, era tutto nascosto dentro, tutto schiacciato sotto il peso del suo cuore.
Era una carneficina di sentimenti la loro.

« Mi penserai? »
« Certo. »
« Mi penserai sempre?. »
Ma lui non rispose.
Persino nella sua immaginazione Gajeel era l’antitesi dell’uomo perfetto.

Il rumore di una zip che si stava chiudendo la riportò con i piedi per terra.
Ecco, ha finito, pensò ancora tra sé e sé.
E di fatto era così.
Gajeel si caricò il borsone pesante su di una spalla, e le rivolse quasi completamente la schiena, avrebbe potuto bofonchiare un saluto ed andarsene, ma anche lui rimase immobile ad aspettare che accadesse qualcosa.
Loro erano sempre stati così, erano una coppia strana, fatta di parole mute, di silenzi che solo loro erano in grado di criptare, ma non questa volta, questa volta ognuno era avvolto nel proprio, di silenzio, ed era sporco, corrosivo, sapeva di rinuncia, e faceva schifo ad entrambi.
Gajeel si sistemò meglio il borsone sulla schiena, e Levy sgranò gli occhi avvolta dalla paura che se ne andasse, ma non accadde, non ancora.
Continuò a darle le spalle, a trattenere su di sé quell’aria seria ed altezzosa, non aveva battuto ciglio da quando lei era entrata nel soggiorno, eppure, senza neanche accorgersene, teneva lo sguardo basso.
Levy decise che ne aveva avuto abbastanza, sentì la necessità di confermare quanto l’uno avesse bisogno dell’alta, ma invece di esternare tutti i suoi precedenti pensieri, disse:
« Ti preparo i cupcake al cioccolato quando torni. »


Non l’avrebbe mai ammesso a nessuno, ma lui amava Levy.
L’amava, ed era anche grazie a lei se si era salvato.
Con lunghe falcate ricoprì la distanza che era riuscita a dividerli per tutto quel tempo, e posandole una mano dietro la nuca, le diede un bacio sulla fronte, pressando un poco, il minimo perché conservasse il calore finché non se ne sarebbe andato.
Chiudendo gli occhi, sentì che lo stava avvolgendo dentro di sé, come se stessero facendo l’amore, e dopo aver sprecato tutto quel tempo ad essere uno stramaledetto, orgoglioso bastardo, si lasciò trascinare dalle emozioni che solo un suo contatto riusciva a provocargli.
Era questa la magia di Levy, con lei poteva sentirsi libero.
Li riaprì poco dopo, staccando le labbra dalla sua pelle con un leggero schiocco, e dopo essersi riempito dei suoi occhi, se ne andò, senza parlare, e senza voltarsi, lasciando Levy sola con un’unica lacrima, e con la fronte ancora accaldata.
 


 
**


 
Il sole era già altro quando arrivarono, e dal rumore degli scarponi sulla terra umida e dei cori intonati, capirono che l’allenamento per gli altri cadetti era già iniziato.
Scesero dal loro veicolo, e si lasciarono travolgere da una vista che di certo non gli era mancata.
Fiaccamente si diressero verso la loro caserma per cambiarsi, finché un orda fastidiosa li costrinse a voltarsi.
Il Capitano era appena sceso dalla sua autovettura, e già alcuni soldati chiamavano la sua presenza, radunando una folla stranamente scalpitante, e, incitata dalla portata del numero di persone coinvolte, a volte quasi esigente.
Si avvicinarono curiosi, ma la loro attenzione venne catturata da un numero spropositato di mezzi di trasporto che avevano fatto il loro ingresso all’interno del loro campo militare.
Si guardarono tra loro con lo sgomento in volto, solo Gajeel sembrava essere più calmo, come se già sapesse ciò che stava succedendo, e forse era così davvero.
Le voci si fecero più intense, ma il Capitano non rispose a nessuna di quelle domande, che avevano preso l’aspetto di suppliche.
A dispetto delle sua normale natura non ordinò il silenzio, ma ignorò impettito i suoi sottoposti, e con lunghi passi si diresse verso l’edificio dove sapeva di trovare il Generale del suo corpo d’armata.
Natsu venne colto da un istintivo bisogno di sapere ciò che stava prendendo forma, gridò.
« Laxus. »
Il Capitano si fermò improvvisamente, come trattenuto da una cinghia morale, e roteò leggermente il viso alle sue spalle.
Di tutta risposta Natsu si voltò verso i veicoli appena giunti, li aveva riconosciuti subito, come tutti del resto, quelli erano mezzi adatti al trasporto di materiale bellico.
La sua voce era quasi rotta dall’inquietudine, troppo flebile per essere udita a quella distanza.
« A cosa servono tutte queste armi? »
 
 



Dopo aver riunito tutti i soldati, fu il Tenente a spiegare loro la situazione, un certo Freed Justine, responsabile e diligente, davvero un ottimo militare.
Se solo avesse voluto, avrebbe potuto alzarsi al grado di Capitano con sorprendente facilità, ma nutriva eccessiva ammirazione e rispetto nei confronti di Laxus, per cui gli cedette il posto con inverosimile servilità.
Al suo fianco vi era il Sottotenente Bickslow, anch’egli un ottimo punto di riferimento per la truppa, ma a differenza del primo, lui era decisamente molto più aperto e brioso.
Il Tenente fu chiaro e conciso, spiegò dell’imminente guerra nella quale si sarebbero cimentati, chi era il loro nemico e a quali obbiettivi miravano, ed assegnò ad ogni squadriglia un preciso ruolo da ricoprire in battaglia.
Il risultato fu che più squadriglie avrebbero svolto il medesimo ruolo, ma in diverse posizioni.
Aggiunse inoltre che ognuna di queste sarebbe stata affidata al comando di un Caporale Maggiore, una novità che riscosse turbamenti, dato che fino a quel momento ogni soldato era sempre stato sotto la giuda dei due, e del Capitano.
Dopo aver appreso la notizia ognuno tornò alla propria caserma.
I tre ragazzi discussero tra loro dell’informazione appena assimilata, si scambiarono dubbi e pareri, mentre tra una parola e l’altra raccattarono le loro cose per andarsi a spostare in un’altra caserma, dove avrebbero condiviso l’ambiente con altri soldati addetti alla loro stessa carica.
Si diressero con le loro borse verso la caserma indicata, carichi di una strana sensazione di sconforto e di adrenalina al tempo stesso.
Una volta giunti a destinazione trovarono il portone aperto, e la prima cosa che si accaparrò i loro sguardi fu una figura piantata al centro della stanza, che non appena sentì dei passi alle sue spalle, si voltò.
« Bene ragazzi, siete arrivati finalmente, d’ora in poi io sarò il vostro Caporale. »
Un cumulo di ghiaccio osteggiò i loro corpi, ognuno di loro restò basito di fronte alla presenza di quella persona, e da ciò che gli era appena stato comunicato.
Solo dopo svariati istanti, Gajeel decise di rompere il silenzio con un sibilo contrariato.
« Roba da matti. »
 
 






 
~
Ed eccomi, anche sta volta dopo un salto di 10 giorni, ma come sono precisa nei miei ritardi.
È che il tempo mi vola proprio, e volevo spenderci un po’ più di energia in questo capitolo dato che ci sono Levy e Gajeel, non potevo proprio non sforzarmi almeno un tantino per loro.
E sinceramente, il ritardo è dovuto solo a causa di questi due, ho cercato di renderli al meglio, anche se sono sicura che una volta postato mi verranno in mentre frasi e parole sicuramente più azzeccate (come sempre -.-'), il resto invece l’ho scritto molto di getto..
Anche se questo è molto incentrato sulla loro scena, prometto che nel prossimo capitolo, o al massimissimissimo prossimo ancora, inizierà la guerra.
Per chi segue la storia spero comunque che l’attesa sia stata compensata.
Au revoir! ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La vita fa un baccano assurdo. ***


Quel luogo era infinito, e l’infinito regnava in quel luogo.
Una distesa d’erba pura e perfetta, aria muta e gelida delle ultime ore di una notte, e delle prime di un’alba nuova.
L’incontro mozzafiato tra terra e cielo. Opera divina della mano di un pittore Celeste.
Chiunque avrebbe potuto perdersi davanti ad una vista del genere, o salvarsi.
Una solitaria goccia di rugiada scivolò lentamente lungo un filo d’erba, impegnato a  sua volta in una danza con il vento, ma poi ecco, la macchia d’inchiostro nero che andò a sconvolgere quel capolavoro, lo sfregio sottile e penetrante che intaccò quella vetrata serafica, l’uomo.
In lontananza passi incalzanti e fragorosi inquinarono l’ormai perduto suono del nulla, lo imbrattarono con rumori molesti, dalla ritmica snervante.
E si facevano sempre più vicini, sempre più forti, sempre di più.
 
« Forza con quelle gambe!. Su!. »
 
Un ansimare di respiri affannati tutt’intorno.
La scena sarebbe potuta apparire perfino ironica gli occhi di un cinico, un’orchestra ben coordinata di fiati pesanti e maldestri, tutti ritmati, per carità, ma tutti di troppo.
 
« Ma perché ci stiamo allenando all’aperto, fuori dal campo?  »
« Perché Erza vuole così. »
« Io l’ammazzo. »
 
Un ammasso di corpi ben compattati che emanava vapori caldi, un’unica grande ombra che seguiva le movenze del suo possessore, una paradossale mandria di belve inermi e sfiancate.
 
« E non possiamo neanche guardargli le tette che sobbalzano mentre corre. »
« Io l’ammazzo. »
 
E Dio li guardava e rideva. Ho fatto dell’uomo il più animale tra le mie creature.
 
« E allora tu guardargli il culo. »
« Vero, almeno quello. »
« No, io giuro che l’ammazzo sul serio. »
 
Il caporale svoltò a sinistra, si fermò, e prese fiato.
Avvicinò il busto agli arti inferiori, poggiando i palmi delle mani sulle ginocchia per sorreggersi meglio, del tutto incurante dell’accozzaglia di uomini alle sue spalle.
I suoi respiri erano sonanti ed estesi, rilassanti, e per un istante si diede il permesso di immergercisi dentro,  di staccare momentaneamente la spina dai suo doveri per dedicarsi solo a se stessa. Chiuse gli occhi.
Un flash, uno sospiro, un bisogno invisibile guizzò dentro di lei, e la esortò a riaprirli, a voltarsi a guardare.
Spostò il viso leggermente inclinato alla sua destra, e obbedì al suo istinto, aprì gli occhi.
Rimase immobile con quella postura per un po’, con il naso arrossato, il petto ancora ardente per la corsa, le gambe tremanti, e gli occhi traboccanti di stupore, colmi di qualcosa di bello.
Poi si alzò, camminò piano verso l’apice della collina, la parte più vicina a toccare il cielo, e si lasciò travolgere dai colori della terra.
Perché uno si può abituare a molte cose nella vita, l’occhio rimane indifferente anche alla più bella delle visuali se concepita come quotidiana normalità, ma se guardi il sole sorgere e non riesci a sentire la tua anima espandersi, se non rimani catturato da quel miscuglio di colori caldi e freddi dipinti nell’aria, se ammiri la nascita della luce, e non ti affacci a guardare neanche un po’ dentro te stesso, allora significa che una parte di te ha gettato la spugna.
Che si è incrinata, o si è rotta, che si è arresa, che non ti importa più. Che non ti importa più di niente.
 
Erza respirò a pieni polmoni l’aria fredda che l’avvolgeva tutt’intorno, e chiuse gli occhi per un attimo.
Eppure non riusciva proprio a stare troppo a lungo senza contemplare il sole, o il cielo, era più forte di lei, e quando li riaprì, sentì una nuova energia provenire dal suolo umido e diffondersi all’interno suo corpo.
Si lasciò abbracciare da quel panorama, ed ascoltò lo scrosciare silenzioso della vita, sentiva che il mondo era anche suo, che ne faceva parte.
Che era viva, ed era sveglia. Ma soprattutto era viva, e soprattutto era sveglia.
 
Voltò lo sguardo alle sue spalle, ed osservò i suoi soldati sparpagliati lungo tutto il campo, chi in piedi, e chi accasciato sull’erba.
Avrebbe voluto rimanere sotto l’effetto di quell’incanto che la legava al vento ancora un po’, ma non poteva, lei era una persona seria, responsabile, era un Caporale adesso, doveva mostrarsi forte, e di certo non avrebbe permesso a nessuno di dire che non era in grado di esercitare un simile grado di comando. 
Avrebbe difeso il suo ruolo, ed avrebbe difeso il suo nome.
« Altri tre giri!. Marsch!. »
 
 
 
 
 
 
Era mattina inoltrata quando la squadriglia d’attacco numero 12 fece ritorno alla base militare, e noncurante dello scontento generale, il Caporale alla guida del gruppo non interruppe l’allenamento.
Non appena arrivarono, i soldati coinvolti iniziarono immediati una dura esercitazione fisica, mentre Erza osservava vigile le quattro file da tre che aveva assestato.
« Ma che cacchio però! Abbiamo già fatto un anno di addestramento, ed una volta entrati nell’esercito, ci siamo spaccati ulteriormente la schiena con otto mesi di allenamento speciale, mi dici perché cavolo ci fa fare ancora ‘ste robe?. »
« Zitto e fa quello che dice. »
Ogni tanto lanciava un incitamento, spostava il peso da una gamba all’altra, o passeggiava autoritaria in mezzo ai suoi sottoposti, obbligati a svolgere una serie di addominali.
« Io l’ammazzo. »
« E piantatela Gajeel! È tutta la mattina che vai avanti con ‘sta cantilena. » replicò Natsu in maniera pungente, infastidito dai brontolii del compagno affianco.
« Per me è pazzo, prima o poi lo fa sul serio. » mormorò Gray tra uno sforzo e l’altro, enunciando la frase con una tonalità mista fra l’ironico e l’allarmato.
Ma Gajeel non rispose né al rimprovero, né alla provocazione, e continuò con costanza l’esercizio fisico in cui era coinvolto.
Eppure neanche la vista di un cielo sereno riusciva a domarlo, benché la sua prolungata irritabilità non era dovuta ad un addestramento che reputava superfluo.
Era il semplice fatto di essere capitanato da una donna che lo tediava nell’orgoglio, specie se in passato avevano condiviso lo stesso pub.
« Io gli sgonfio i meloni a suon di pugni a quella. » grugnì debolmente con voce roca, scaturendo le risate sommosse dei suoi compagni di leva.
Nel giro di breve quella sua frase impudente scivolò furtivamente di bocca in bocca, fino a coinvolgere anche il membro più distante.
A volte la socializzazione è un’arma a doppio taglio, quando si condividono docce e posti letto, anche una persona poco più che sconosciuta può piombare all’interno della tua realtà, e sguazzare dentro la tua vita come un bambino nel fango.
« A Gajeel piacciono quelle con le tette piccole! »
Quella frase di scherno gli arrivò dritta alla testa come una freccetta da gioco.
Con gli occhi sgranati percepì i suoi muscoli contrarsi, ad ogni nuova risata i suoi battiti accelerarono, e mentre si alzò abbandonando il suo esercizio, sentì l’astio fare le capriole all’interno del suo stomaco, non tanto per l’offesa arrecatagli, tanto perché non era il solo a cui era stata rivolta.
« Ok, chi è stato? Chi cazzo è stato?! »
« Redfox! Per te altri trenta giri di campo! »
 
 
 
**
 
 
Quello stesso giorno, nel primo pomeriggio, ogni soldato arruolato per la guerra partì per raggiungere la base militare di Lamia Scale, area scelta per accogliere la maggior parte delle Forze Armate di Fiore a causa della vastità del suo accampamento.
Il viaggio durò poco più di qualche ora, e quando arrivarono il sole stava già calando a causa della breve durata dei giorni autunnali.
Sui volti dei soldati si leggevano la stanchezza data il traffico, lo stordimento di trovarsi in un luogo al quale non appartenevano, e lo stupore del numero di persone che portavano lo loro stessa divisa.
La confusione regnava sovrana, ogni uomo era carico di un ardore impiastrato di un’inquietudine strana,  sentivano tutti il bisogno di farsi forza a vicenda, ma stavano tutti sulle difensive.
Dopo essersi accertato l’ingresso di ciascuna base militare che il suo campo avrebbe ospitato, il Generale fece radunare ogni milite prima di tenere il suo discorso.
Guardandoli tutti dalla sua piattaforma, constatò che erano davvero molti, qualche decina di migliaia a occhio e croce, forse troppi.
Alla sua destra era affiancato dal Tenente Generale, mentre alla sua sinistra, posizionato leggermente più in dietro rispetto al primo, troneggiava il Capitano dell’esercito, scortato dai suoi Sottotenenti.
Ogni soldato che era stato messo in riga era circondato da un’aura vigile, quasi fiera, e guardava verso la sua direzione.
In un attimo fu il silenzio più totale.
Un lungo respiro prima di cominciare le danze, prima di trovare il coraggio di guardare in faccia quegli uomini mentre spianava una strada di caduti con le sue stesse mani.
Un lungo respiro necessario anche per uno come lui, il Generale di tutte le Forze Armate, l’uomo di roccia.
 
 
 
 
« …Gray. »
 …
« Gray!. »
« Che vuoi?! »
« Io non c’ho capito niente, ho sempre creduto che ci fosse Gildarts al capo dell’esercito, ma chi è che comanda davvero qui? »
« Il pelato. »
« Ah… »
 

 
« Certo che siamo tantissimi. »
« Già, siamo una marea. »
« Sh! »
 

 
« Ma quanto la fa lunga? »
« Parecchio… »
« Cazzo, io devo pisciare. »
 

 
« Oi, dimmi la verità, ma tutta questa situazione, dico, non ti esalta? »
« Esalta? Forse, un po’. »
« Shh! Fate silenzio idioti! »
 

 
« Io sento che sto per esplodere, mi sento in fiamme. »
 
 
 
 
La proclama del Generale durò all’incirca mezz’ora, non appena terminò ci fu uno scrosciare di fragorosi applausi coronati da urla e fischia, dopodiché i soldati ruppero le file, e vagabondarono per il campo cercando di ammazzare il tempo aspettando l’ora di cena.
Gray guardò Natsu allontanarsi e dirigersi verso Erza, circondata dai suoi uomini, e da altri soldati di diverse squadriglie. Notò che stava già conversando con un uomo di bassa statura, se non cadeva in errore, doveva trattarsi di un militare che ricopriva la sua stessa carica di Caporale Maggiore.
Per un secondo sbirciò neutro l’espressione di lei, ed intuì che nonostante cercasse di mascherarlo, sembrava essere a disagio, in effetti l’altro Caporale le stava decisamente troppo vicino, ed era un uomo orrendo.
Tossicchiò divertito a causa della scena che aveva di fronte, ma non aveva voglia di instaurare un dialogo, o di intelare nuove conoscenze, così girò i tacchi, e se ne andò a bighellonare per l’acquartieramento dell’esercito.
Mentre passeggiava con le mani in tasca, scorgeva delle espressioni tranquille nei volti dei soldati, alle sue orecchie giungevano tracce di conversazioni apparentemente serene, ogni tanto udiva perfino qualche risata.
Tutto gli sembrava così artefatto, così falso, come se stesse guardando all’interno di uno specchio deformante che stava sconvolgendo la realtà.
 
Pensò a se stesso, a quello che era, o a quello che credeva che fosse, ai suoi sbagli, a tutte le innumerevoli volte in cui era inciampato, ai suoi stupidi, stramaledetti sbagli, al fatto che non voleva morire.
Era un uomo, un soldato, sarebbe morto per la patria, ma non voleva morire.
E per quanto ognuno lì in mezzo si eccitava all’idea di fare l’eroe, nessuno era davvero pronto per lasciarsi indietro la sua dannata vita, ci avrebbe scommesso il culo.
Che poi come si fa ad essere pronti per una cosa del genere, non si può, non lo si è mai, ma quando non hai altra scelta ti ci lasci trascinare, ti abbandoni e basta.
Ma lui la scelta l’aveva avuta, ed anche con un nodo allo stomaco, non ne faceva un rimpianto, sapeva di aver fatto quella giusta, ma poi arriva il momento in cui ci sbatti la faccia, in cui fai i conti con la tua vita, e sai che non puoi scappare da te stesso, allora solo lì, inizi a tremare.
E tremava anche di rabbia, perché più realizzava che il suo nemico aveva un volto, un nome, più si chiedeva perché diavolo nutriva l’insano desiderio di rendere quello schifo di mondo ancora peggiore di quel che era.
La fame di risposte, di conoscere e di ammazzare lo travolse come le onde dei un oceano.
Di sapere cosa pretendere ancora dalla vita, se era davvero tutto lì, cos’era, e da cosa nasceva la malattia dell’odio.

Ma gli uomini non saranno mai in grado di capirsi realmente, mai.

Infondo erano tutti buoni propositi, i suoi, ma nel giro di poco sarebbe davvero potuto morire, e dietro questa constatazione la ferocia scivolava lenta dentro di lui, perché gli uomini sono bestie, e quello non era nient’altro che una sorta di istinto di sopravvivenza.
O io, o te.
 
 
Sentiva lo sgomento crescere alla vista di ogni nuovo viso sorridente, e ad ogni passo aumentava, si diramava dentro di lui mischiandosi ad una sensazione di fastidio.
Un sorriso amaro si stampò tra le pareti del suo animo, perché i suoi compagni avrebbero potuto coprirsi gli occhi per tutto il tempo che volevano, avrebbero potuto far finta che tutto ciò non stava accadendo, che non ne erano coinvolti, che quello era solo un gioco, ma i fatti non sarebbero cambiati.
L’indomani mattina sarebbero entrati in guerra.
Questa era la realtà.
 
 

 
« Guarda, guarda…, allora è vero che certi cadetti valgono meno dello sterco di topo. »
 







~
Come inizio adesso?. Così.
Ho fatto ritardo perchééé…perché per quanto ora vi possa sembrare una cretinata che io non abbia un attimo di tempo per scrivere codesti scempi, vi garantisco che non lo è.
Il fatto è che sto davvero tutto il giorno fuori casa, ma la Fiesta non me la mangio perché sa di alcool rancido, e al contrario di quanto afferma la molto credibile pubblicità, fa venire ancora più fame.
L’università che ho scelto è fantastica, ma mi porta via davvero un sacco di tempo (certi giorni esco alle 6 e mezza e torno alle 8, e non lo dico tanto per dire.), quando sono a casa devo dedicare parecchio tempo al mio cane che se no si intristisce, a volte qualche weekend lavoro, e se la sera non sono più morta che viva, mi lascio intrappolare in quelle orribili, orribili cose chiamate relazioni sociali…
Lo so che pensate che siano tutte storie, e lo continuerete a pensare finché magari un giorno vi ci ritroverete dentro.
 
Ora la smetto con tutto st’ egocentrismo e parlo del capitolo. Giuro che ho provato a dare maggiore rilevo ai fatti, lo giuro! Ma non ce la faccio, se non scrivo le sensazioni io non sono contenta, così ho dovuto tagliarlo, e l’ho impostato come volevo io :).
Avevo anche detto che in questo o nel prossimo avrei iniziato la guerra, bene avete appena conosciuto il mio lato bugiardo.
Il prossimo aggiornamento però sarà abbastanza rapido, perché una parte l’ho già scritta visto che appunto dovevo mettere tutto insieme, quindi non dovrei metterci poi così tanto..
 
Un’altra cosa che non c’entra niente col capitolo, domani cercherò di mettermi al pari con tutte le storie che seguo qui, promesso.
Ringrazio davvero tanto tutti quelli che leggono, e soprattutto che recensiscono, la mia storia ( e spero che mi possiate perdonare per il ritardo), sapere che a qualcuno piace ciò che scrivo mi sprona a continuare a farlo.
Spero quindi che vi sia piaciuto anche questo, e grazie ancora. :)
 
Ps: Non mi importa se ormai per lo stato sociale sono a tutti gli effetti un'adulta, a me piacciono ancora i cartoni animati giapponesi e i manga, e quindi devo dirlo, ma quanto è figo Laxus nello scorso scorso capitolo del maga?! è proprio così che me l’ero immaginato come capitano! E poi la sua scena con Mira…godo!!  (in effetti devo ancora leggere quello di ieri, se è uscito..).
 
...madò quanto ho scritto, alla prossima, ciao!! ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Un grado più in altro. ***


« Guarda, guarda…, allora è vero che certi cadetti valgono meno dello sterco di topo. »

Quella voce.
Gray sentì un formicolio dietro la nuca, all’altezza del collo, e una voragine aprirsi in mezzo al cuore.
La sua voce.
Non ebbe neppure la forza di pensare.

Troppo vicino.

Strinse i pugni, e dovette fare appello a tutto il suo orgoglio per poter recitare la parte del ragazzo stizzito e poter sfoggiare uno sguardo brusco che in quel momento non sentiva suo.
Scaraventò in un angolo remoto il suo turbamento, e si ricompose in un’espressione altera.
Non gli avrebbe permesso di leggergli dentro, non a lui.
Si girò.

« Avanti non autocommiserati in questo modo, è vero che fai schifo, ma ammetterlo così ad alta voce non ti fa bene. » ribatté assumendo un aria spavalda.

Era più alto di come lo ricordava, più robusto.

« Non sei neanche in grado di replicare come si deve, io ho detto cadetti, ovvero l’ultima ruota del carro. »
« Ma sei stupido? » domandò Gray confuso.
Il suo interlocutore ghignò divertito, ed afferrò fra indice e pollice il tessuto della sua divisa, sopra il petto, nell’area in cui vi era ricamato il distintivo, e glielo espose beffardo.
« Mi chiedo a cosa potrà essere utile un orbo nella schiera d’attacco…» sospirò maligno.

Gray si succhiò l’interno della guancia, senza staccare gli occhi dal distintivo, mentre qualcosa dentro di lui iniziò a bruciare.
« E
da quando? »
« Il mese scorso ho fatto richiesta e mi hanno preso. Pensa un po’, ho ricevuto le coordinate della mia squadriglia ed è proprio vicino alla tua. Non sei contento?. Così potrò prenderti a calci in culo tutto le volte che vorrai. »
E bruciava come solo il rimpianto può fare.
« Sei davvero ridicolo a vantarti così. »  sentenziò mostrandosi annoiato « Io potrei essere un Caporale migliore di te, e lo sai anche tu. »
« Già, peccato non lo sei eh?. » lo canzonò l’altro. Il ghigno sul suo viso divenne decisamente più marcato.

 In quell’istante le voci dei soldati in lontananza ed il rumore delle varie autovetture presenti all’interno campo si insidiarono tra loro, prendendo il posto del silenzio che li avrebbe dovuti attorniare.

Si ricordava un ragazzo.
Ora stava guardando un uomo.
Ed era un uomo che forse non conosceva.

 
No.
Non guardarmi in quel modo.

 

L’altro interruppe per un attimo il contatto visivo, ed esternò una breve risata prima ricominciare a parlare.
« Avanti Gray, l’invidia è una brutta bestia…»
Ma Gray non rispose.

 
Io e te eravamo come fratelli, quindi non guardarmi in quel modo.

 
« Non sapevo nemmeno che ti fossi arruolato. » disse con una tonalità più amara di quanto avesse voluto.
« Beh se è per questo nemmeno io. »  E come a specchio, anche la voce di Lyon divenne più cupa.

 In un istante il passato tornò a fare rumore all’interno della mente di Gray, ad accozzare contro le pareti del suo cerebro, che impudente stava vomitando una serie infinita di ricordi scomodi, di parole sfumate e disordinate, alcune delle quali facevano più male di altre.
Eppure sapeva che il sorriso sprezzante dipinto sul volto di Lyon serviva solo a  soffocare la stessa e reale sensazione di vuoto che premeva dentro lui.
Non si ricordava neanche da quando avevano smesso di parlare.
« Comportati bene con me, che con uno schiocco di dita posso anche toglierti quella specie sbobba che ti rifilano per pasto. »
Il perché era al contrario lampante, era vivo davanti ai suoi occhi, e lo sovrastava tronfio con un aurea per lui difficile da sopportare, la vista di colui che un tempo era il suo migliore amico era in grado di portargli alla mente ricordi che lo mangiavano dentro.
« Ci vediamo. » concluse Lyon con un soffio dandogli le spalle e allontanandosi dal posto.

 

Gray rimase muto e immobile a fissare la schiena impolverata di un uomo che era così simile a lui, che sentiva suo, eppure che non riconosceva, che non voleva riconoscere.
Non gli importava di muoversi, aveva perfino dimenticato come si faceva a camminare, non gli importava di respirare, voleva solo annegare un po’ in quel mare di rimpianti che da tempo non lo bagnava.
Per un attimo ebbe l’assurdo impulso di correre dietro al suo amico, e di provare a picchiarlo, o abbracciarlo, che poi era la stessa cosa.
Ci manca solo che divento frocio.
Pensò, e approfittandosi di quella personale e fugace ironia si voltò e con passo svelto iniziò a camminare lontano, il più lontano possibile.

 

**

Era sera inoltrata, l’ora di cena era passata da un pezzo, e ad ogni soldato era stata affidata una nuova base militare in cui pernottare.
Gray sedeva sopra un tavolo poco distante dal suo edificio, i piedi ben poggiati su una panca, a fumare la sua terza sigaretta all’aria aperta.
Il fumo lo distraeva, lo aiutava a non pensare, a non torturarsi.

« Oi. »
Deviò lo sguardo verso chi aveva reclamato la sua attenzione, e fece un cenno col capo in segno di saluto.
Natsu si avvicinò e si sedette sulla panca accanto a lui, distendendo i gomiti sul tavolo.
«
Si sta bene eh. » disse volgendo gli occhi al cielo stellato.
«
Già.» convenne Gray guardandosi gli scarponi.
Rimasero in silenzio.
Natsu tirò su con il naso un paio di volte, Gray tossì.
Portandosi la sigaretta alla bocca incurvò leggermente la schiena, e si soffermò a guardare l’amico con aria incerta, sentiva come se ci fosse qualcosa di strano in lui, ma lasciò cadere in fretta questa sensazione e sbuffando il fumo orientò il suo sguardo da un'altra parte.

« Senti un po’, stavo pensando a una cosa.» disse infine a bruciapelo.
Gray rimase in ascolto.
« Sai pensavo… Che per colpa dei giornali e delle radio noi soldati non abbiamo più il segreto militare che per tanto tempo ci ha caratterizzati, ormai i cittadini sanno di un nuovo scontro prima di noi praticamente.» ultimò con un sorriso sghembo.
Gray intuì ciò che poco fa non era riuscito ad afferrare, e sforzandosi di non guardarlo si mise a sua volta a scrutare il cielo per rispetto nei suoi confronti. Natsu era imbarazzato.
« E quindi niente, pensavo…prima o poi lo sapranno comunque, quindi glielo diciamo?. Che stiamo entrando in guerra, glielo diciamo? »

Doveva essere parecchio in difficoltà per chiedere consiglio ad uno come lui.
Temporeggiò brevemente facendo ruotare il suo sguardo da una stella all’altra, inciampando sui suoi pensieri, incapace di essere razionale, di prevedere le conseguenze delle sue scelte.
Avrebbe fatto i conti una volta tornato a casa, sempre se sarebbe tornato.

Scusa amico, ma proprio non ce la faccio a pensare alle donne in questo momento.

Guardando serio l’orizzonte soffiò via il fumo dalla bocca.
« No. »

 

 

 

 

~

E poi boh, ti rimetti a scrivere una cosa lasciata lì da tempo.
Mi è ripresa voglia, tantissimo, ma in realtà ho voglia di scrivere storie mie, non incentrate su Fairy Tail, però a continuare questo capitolo mi ci sono ritrovata senza neanche accorgermene.
Se vi piace ditemelo, e non me ne frega delle recensioni chilometriche perché tanto capita anche a me che non so mai cosa dire, un “carina continua” per me basta.
Che poi ho lasciato indietro un sacco di storie che volevo leggere, ma aprire qui mi ricordava che dovevo continuare le mie, mi faceva salire l’urto perché non trovavo l’ispirazione e allora chiudevo.
Ovviamente ringrazio chiunque voglia iniziare o continuare a leggere. *inchino*.

Volevo dire solo un’ultima cosa che ho capito solo iscrivendomi qui: pensavo di essere molto più brava.
Mi ricordo che davo della povera idiota alla mia professoressa di italiano quando nei temi non mi dava mai più di 7 e mezzo. Mi dicevo che non riusciva a capire il mio genio, e invece rifilava sempre lo stesso voto alla mia compagna di classe che per carità, le volevo e le voglio bene, ma secondo il mio non modesto parere a scrivere era una merdina.
Poi mi sono cimentata qui, e i pensieri non sono mai come li formulo nella mia testa, i periodi sono troppo lunghi, e le sensazioni troppo dettagliate, ma mai abbastanza per comunicare quello che voglio dire.
Arrivo qui, e una volta postato guardo ciò che ho scritto con occhio obbiettivo, e non è mai, e dico mai quello che mi aspetto da me.
È una cosa abbastanza ovvia, eppure l’ho realizzata solo entrando in questo sito: scrivere, e dico scrivere bene, è difficile.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Lasciarsi alle spalle. ***


Erano in viaggio ormai da parecchie ore, e per tutto il tragitto fino a quel momento compiuto nessuno all'interno del furgone aveva osato macchiare quel rispettoso mutismo scheggiandolo con parole vuote.
Natsu poggiò la testa nell’acciaio freddo dell'autovettura, il suo orecchio era ormai abituato al perpetuo rombare del motore, quel suono riusciva quasi a distenderlo, a domarlo, e con lui tutta la squadriglia nutriva la necessità di colmare l’aria con quel rumore incalzante.
Sapevano che se si fosse fermato, sarebbero rimasti schiacciati sotto il peso del silenzio da loro stessi creato.
Chiuse gli occhi, e lasciò che una dolcissima e fatale marea lo levigasse dall’interno, lasciandolo vuoto come un guscio di pietra.
Niente più stomaco, o intestino, niente più nervi, niente più sangue, niente più cuore.
Erano queste le regole del gioco, e vinceva solo chi non aveva paura di perdere se stesso.

Il veicolo sobbalzò nuovamente incontrando un altro rilevante masso lungo la propria strada.
Natsu riaprì meccanicamente le palpebre, lasciandole sempre un poco socchiuse. Da lontano si sarebbe creduto che fosse un ragazzo solo, quasi arreso, quasi malinconico.
Con il braccio destro strinse più forte il fucile, schiacciandolo contro sé, permettendogli di entrare nel nucleo del proprio addome. Vi rinchiuse la sua anima.
Nessuno osava guardarsi negli  occhi.

 


Un’indistinta quantità di voci barbare e confuse lo svegliarono bruscamente.
In quell'istante caotico capì di essersi addormentato.
Si affrettò a rimuovere un rivolo di saliva posatosi lungo il margine delle sue labbra, assumendo la faccia sgomenta di un bambino al quale era stato detratto il pane dal piatto.
Alzò gli occhi verso i propri compagni e vide che erano tutti in piedi scalpitanti sopra di lui, che fremevano mentre sistemavano al meglio le poche cose da raccattare, che si incitavano fra loro intrecciandosi e parlando con voce decisamente troppo alta per quello spazio così esiguo.
Spostò lo sguardo alla sua destra e fissò Gray caricarsi il fucile sopra le spalle, illuminato dalla luce accecante di un sole freddo, mentre osservava di fronte a lui un punto evanescente, troppo lontano, irraggiungibile.
Lì, immobile come una statua di marmo, impettito come un imbecille, a guardare qualcosa che non c’è.
Sapeva che stava cercando di ascoltare una risposta muta tra il chiarore dei raggi , che si stava specchiando nel vuoto.
In quel momento Natsu si accorse che il mezzo era fermo, ed il portone aperto.
 

Troppo marasma intorno a lui, lo aggrediva tenendolo impigliato con una fastidiosa rete astratta; se lo sentiva addosso tutto quel pandemonio, e non sapeva davvero come uscirne.
Semplicemente, risentito iniziò a camminare assieme al suo schieramento come un gregge di pecore ben addestrato. Raggiunsero Erza.
Lei spiegò in breve come avrebbero dovuto muoversi, dettò ordini, e insieme si incamminarono verso una ripida collina.
Natsu seguitò a camminare con gli altri, tenendo gli occhi fissi a terra e sforzandosi di non ciondolare le braccia. Sentiva ancora la puzza del viaggio sotto le narici. Gli veniva da vomitare.
Con entrambe le mani si aggrappò al fucile premuto contro la sua spalla.
Quanto odiava i mezzi di trasporto.

 

Arrivati sulla cima della collina, Erza si guardò intorno, tirò fuori da una tasca una cartina geografica e la scrutò attentamente. Si trovavano a circa trenta chilometri da una città in cui, sapeva, avrebbero trovato null’altro che ceneri. Ma lì erano diretti.
Rammentando le coordinate datele all’inizio della missione da parte del Generale delle Forze Armate, chiuse frettolosamente la piantina, riponendola nella tasca dei pantaloni mimetici, e si diresse ad Ovest avanzando verso una boscaglia e comandando ai suoi sottoposti di riprendere la marcia.
Dopo aver aspettato che il suo stomaco la smettesse di turbinare, Natsu raggiunse Erza alla testa del gruppo, e le chiese:
« Dov’è Gajeel? »
Lei rispose affaticata, tra un passo e l’altro:
« Con Laxus, in un’altra città. »
«
Che?! »
«
Con Laxus, in un’altra citta! »
«
Ho sentito, ma…»
«
Non provare a discuterne. Il capitano avrà avuto le sue ragioni per volerlo con sé. »
Natsu si fermò di colpo. Erza lo lasciò indietro.

«
Cazzo, ha iniziato anche a piovere. »
Quella rimostranza proveniente da un soldato della loro stessa schiena esortò gli altri a guardare il cielo.
In pochi minuti la terra venne completamente irrigata.

Che spettacolo magnifico la pioggia.
Ha il potere di ampliare i sensi, di appannare la vista, ma è per questo che è bella.
Dona un paesaggio nuovo, ricco di suoni ovattati, di odori segreti.
Può accarezzarti cullandoti come un’amante, o pungerti come una vespa indispettita.
Persino il suo nome è poesia.
Così labile, sfuggente, così misteriosa…
Nessuno capisce il suo segreto finché non giunge alla conclusione che non c’è nulla da capire.
Poiché solo se l’ascolti ti mostrerà le sue bellezze.
Solo se l’accogli potrai trarne l’essenza.
E giù, giù verso dune infinite.
Giù, ad occhi chiusi, i piedi ancorati al suolo umido ed i palmi delle mani distesi verso l’esterno, aperti per l’inconscio desiderio di toccare quella fluida figlia della natura.
Giù, per assaporarla con le labbra, che così incerte si schiuderanno pronte a riceverla.
Giù, per la gola.
Per sentirsi in pace, per sentirsi vivo.
Giù, tra quelle gocce.

 

Guarda, guarda come piove.
Non lo trovi anche tu uno spettacolo lugubre?.
Sai, sono convinta che la pioggia riveli tristezza, eppure io non riesco a smettere di trovarla affascinante…
Gli esseri umani la scongiurano continuamente, solo quando si sentono soli fanno di lei la loro compagna migliore.
Ma io non voglio essere così crudele, io non l’ho mai disprezzata.
Al contrario, mi è sempre piaciuto pensare che la pioggia sia come me.
Già, proprio come me.

Come me.

 

 

L’aria di fine novembre divenne ancor più fredda di quanto già non fosse in precedenza.
Un’ acquazzone di quella portata spinse tutti i soldati al riparo più immediato. Erza si assicurò di trovare un rifugio sufficientemente pratico in modo da garantire a lei ed alla sua schiera di restare all’asciutto, ma il terreno non offriva depressioni dentro le quali proteggersi, così si ingegnò insieme ai suoi uomini nella costruzione di un bivacco, utilizzando dei teli tenda forniti dall’organizzazione militare e della legna smarrita nel suolo.
Solo Gray rimase fermo nella sua posizione.
Così, fermo.
A fare che?
Niente, a fare niente.
Solo a guardare, a guardare la pioggia dal basso della sua condizione.
Un mortale che contempla un evento più grande di lui.
Allungò il braccio all’altezza del cuore, ed aprì il palmo verso l’alto, aspettando di raccogliere l’acqua proveniente dal cumulonembo che lo sovrastava.
In pochi istanti una goccia di pioggia si posò sul palmo della sua mano, la guardò a lungo, con un’espressione indecifrabile in volto, così serio…
Velocemente ne soggiunsero altre, ed in breve divenne completamente fradicio, ma lui non se ne curò, continuò ostinato a fissare la prima lacrima celeste riversatasi sulla sua pelle.
Chissà perché, proprio lì, proprio in quel momento, iniziò ad ammuffire di dolore.
Strinse il pugno.

 

 

Ripresero il cammino una volta che la pioggia ebbe finito di battere.
Era il tramonto, le nubi si erano ormai dissipate, così da permettere ai colori scarlatti del cielo di vezzeggiare l’erba alta della terra.
La squadriglia d’attacco numero 12 giunse ad una vasta radura stipata di verde, il clima rigido non li infastidiva, al contrario, fungeva da tonico per quei visi stanchi e completava il dipinto che si prospettava dinnanzi a loro.
Un soldato sorrise leggero.
« Caspita, che bello qui. »
Ma come ogni storia racconta, la serenità non può esistere nei campi di battaglia.
L’attimo dopo fu l’inferno.

Uno scoppio lancinante piombò improvviso su di loro, frastornandoli e trasformando ogni singolo milite in un fantoccio confuso ed affannato.
Ma la granata proveniente dagli arbusti a Nord-Est li mancò, per poco.
«
Giù! State giù!. »
Un’altra esplosione, questa volta più vicino. Un fragore terrificante.
I più sfortunati dovettero coprirsi il volto per evitare che qualche scheggia proveniente dall’ordigno esplosivo li colpisse in viso.
Un polverone grigio come la paura si innalzò dal terreno e calò inarrestabile sulla loro schiera, inghiottendoli con la bramosia di sopraffare ogni sfumatura di vita.

Erza sibilò mesta tra i denti, fremente di rabbia: « Merda…»
Con uno scatto veloce, si voltò alla sua sinistra.
«
Seguitemi, svelti! »
Rapida condusse i soldati verso un avvallamento alle loro spalle, l’unico porto sicuro in quella situazione così critica.
La selva era decisamente troppo distante dalla loro postazione, non riusciva nemmeno a scorgerne le chiome. Correre fin dentro ai boschi sarebbe stato indubbiamente rischioso.
E la posta in gioco era troppo alta.

Ogni cadetto si acquattò alle spalle del proprio Caporale, nascondendosi tra la vegetazione rigogliosa e selvaggia, ed attese degli ordini che non tardarono ad arrivare.

« Fucili alle mani, state pronti a sparare. La granata proveniva da ore due,  ma non sappiamo quanti, né quali cani dell’Alleanza ci stanno fronteggiando, perciò dobbiamo essere prudenti.
Dividiamoci. Voi sei alla mia destra dirigetevi ad ore tre percorrendo questo scavo, cercate di aggirare il nemico e di visualizzarlo, ma sempre da una posizione sicura, non esponetevi finché non sentirete un mio sparo.
Voi due a sinistra cercate di contattare i rinforzi utilizzando la ricetrasmittente, dovrebbe esserci una squadra d’attacco nelle vicinanze alle nostre coordinate, cercate in primo luogo di mettervi in contatto con loro, ed in seguito fate passare il segnale. 
I cinque che si trovano alla mia sinistra si dirigeranno ad ore dieci, non possiamo permetterci di rimanere scoperti. Nel caso in cui non scorgeste nessuno nei paraggi, al mio segnale riassestatevi immediatamente al mio gruppo.
Gli ultimi quattro laggiù in fondo, che coprano le spalle alla prima squadra che ho schierato, rimanete ad una distanza di circa venti metri da loro, mimetizzatevi nell’erba e tenete gli occhi aperti, non perdeteli di vista. State pronti a lanciare granate nel caso in cui il nemico aprisse il fuoco, lanciate senza aspettare un mio segnale, siamo intesi?.
Gli altri rimarranno con me, li attaccheremo frontalmente. 
Le possibilità di sfruttare il fattore numerico a nostro vantaggio sono davvero minime, ma possiamo batterli in astuzia e velocità, se tutto va come dovrebbe andare potremmo circondarli ed annientarli.
Non fatevi ammazzare. Andate!.
»

Tutti i soldati obbedirono ai comandi senza riversare obbiezioni.
Natsu e Gray rimasero nascosti all’ombra di Erza.
Erano così in preda al panico che i loro occhi roteavano frenetici da un polo all’altro, con la stessa velocità del battito d’ali di un uccello in gabbia. Non riuscivano nemmeno ad udire i loro stessi respiri singhiozzanti.

 « State tranquilli.»
Erza li stava guardando in viso, a tutti e due. Con meraviglia di entrambi dal suo sguardo non affluivano vibrazioni autoritarie, tutt’altro, emanava un aurea compassionevole, quasi materna, ed avvolta da quel sole scarlatto come i rubini nei suoi capelli, sorrideva.
Lei, matura sorella maggiore, ostinata sostenitrice della giustizia, temuta compagna di giochi dei giorni passati.
Inarrestabile, bellissima Erza.
«
State tranquilli, non gli permetterò di farvi del male.»

Parole vane se pronunciate in un contesto come quello che si affacciava davanti ai loro occhi, eppure i due giovani uomini sentivano di dover credere a quel conforto, vollero caparbiamente crederci.
Se la possibilità di ricoprire il ruolo di Caporale fosse stata data a loro, mai avrebbero pronunciato quelle rassicuranti parole, non avrebbero rischiato di battersi il petto solo per aver voluto sostenere l’animo dei propri compagni, perché mai si sarebbero presi la pesante responsabilità di formulare una promessa che non erano sicuri di poter mantenere.
Ma Erza era un grado più in alto rispetto al loro, lo era sempre stata.

 

E poi così, come niente, come una cometa, dal suolo esplose un boato.

 

Il nulla.
Il nulla più assoluto.
Un raccapricciante paesaggio morto.
Silenzioso come il ghiaccio, ed oscuro come l’inferno.
Ogni cosa era spenta, perché niente esisteva lì dentro, in quello spazio infinito, eppure così soffocante.
Forse, un incubo.

Ad un tratto udì un fischio.
Un fischio lunghissimo. Un fischio lunghissimo e penetrante.
Di quelli che si sentono quando la radio è incapace di trasmettere bene la ricezione.
Un rumore strisciante ed assordante, così alto che temette gli perforasse i timpani.
Tutto buio, solo, quel fischio.
…Che fastidio.

E odore di terra bagnata, di erba, e di sangue.
Di sangue…
Un palcoscenico nero, un fischio, una sensazione di caldo opprimente, e del sangue.
Avrebbe dovuto essere altrove.
Lottando contro la paura di capire, raggiunse infine la consapevolezza di ciò che lo avrebbe atteso.
Formulò un pensiero.

È questa la guerra?. Fa schifo.

 

E dopo attimi che sembrarono eterni, finalmente, Natsu riaprì gli occhi.

 

Uno scoppio di spari agghiacciante.
«
Caporale, presto! Si è svegliato... »
Erza corse alla svelta verso chi aveva richiamato la sua presenza, chinandosi a terra prese un uomo per le spalle, e lo guardò dritta negli occhi.
«
Natsu!. Grazie a Dio stai bene!. »
Ma non lo sorresse protettiva troppo a lungo, non poté permetterselo. L’istante successivo spostò lo sguardo alle sue spalle, e si alzò dirigendosi verso i soldati impegnati in un’intermittente sparatoria.

Eppure i suoi occhi ricaddero spesso su di un Natsu accasciato al suolo, abbandonato contro se stesso nella sfumata speranza di riprendere i sensi. Da lontano gli urlava tracce di parole, forse un “Alzati”, forse un “Qualcosa è andato storto”, forse  una domanda.
E tra tutti quegli spari Natsu avvertì con orrore una striatura di incertezza nella sua voce.
Perfino lei era rimasta incrinata da tutto quello.

E poi accadde, dopo lo scoppio di un’ennesima granata, in lontananza qualcuno prese fuoco.
Lui rimase lì, disteso al suolo come un moribondo, attaccato a quei fili d’erba come se fossero nettare per la vita, e si trattenne a guardarlo.
Un suo compagno bruciante tra le fiamme.
Se non ci fosse stata una vita inghiottita tra quell’incendio, avrebbe trovato lo spettacolo di un incanto disarmante. Fiamme vive che danzavano flemmaticamente, con movimenti fluidi, maestosi, magnifiche proiezioni della sua volontà.
Ma la bellezza si spezzò nell’attimo in cui sentì delle grida agghiaccianti tra le fiamme, che così accese e così furenti stavano consumando un corpo ormai esanime.

Una scena orrenda.
Ma fu a causa di ciò che era appena accaduto che la rabbia montò dentro di lui come una belva inferocita.
Si alzò, incurante del sangue gocciante dalla testa, dei graffi aperti sul viso e sul corpo,  incurante perfino dei muscoli che faticavano a rispondere alla sua determinazione.
Digrignò i denti, e svuotò la mente, solo la collera rimase impressa su di lui come un marchio a fuoco sulla pelle.
Ansimante, prese il fucile tra le mani.
Sentendo ancora quello stridio nelle orecchie.
Vedendo, con la coda dell’occhio, qualcosa muoversi tra l’erba alta a circa trenta metri di distanza, proprio dritto davanti a lui.
E fu quello il momento in cui decise di lasciarsi tutto alle spalle, perfino se stesso.
Perché la guerra è una sentenza senza riscatto, e ad ogni grilletto premuto corrisponde una macchia di vuoto nel cuore.
Sparò.

 

 

 

 

 

 

 

 

~

 

Bhe, volevo dire qualcosa, volevo dire che mi piace scrivere anche se questa storia sta diventando pesante dal punto di vista emotivo, che nonostante tutto in questo fandom ci sono dei confini già tracciati, ed ogni volta che mi cimento a creare qualcosa di mio ho paura di quello che potrebbe venirne fuori.

Personaggi miei, regole mie, un piccolo Dio, ma ogni volta mi fermo. Anche se sto lavorando per un progetto che, molto probabilmente, non pubblicherò qui.

Volevo dirvi che lo scrivere non ha età, che conosco ragazze più piccole di me che mi danno non dieci, ma venti giri, ed un ragazzo, anche lui più piccolo, che è un poeta. E io non mi espongo mai troppo a complimenti. Ma c’è anche l’altro lato della medaglia, ragazzi che si firmano con l’anno ’93, che… dai lasciamo perdere.

Volevo dire che a settembre devo dare 8 esami e mi sento malissimo.

Volevo mostrarvi per la prima ed ultima volta il mio lato serio, dirvi che non ha senso morire da ignoranti, e con ignoranti non miro al livello di cultura personale, ma ignorare ciò che accade davvero nel mondo.

Voglio farvi capire, con queste poche righe scritte male, che la guerra è orrenda, e che purtroppo, anche se lontano da noi, esiste.

Ed ho capito finalmente il perché io ci stia scrivendo sopra. Che poi l’ho sempre saputo. Che di notte piango perché mi spaventa la mia stessa volontà. Che da piccola volevo fare il supereroe, e non lo scrivo al femminile perché è il nome di una droga e non mi piace come suona, volevo salvare il mondo, ma crescendo ho capito che purtroppo non posso fare il ninja, e non posso comandare né l’acqua, né soprattutto il fuoco, che palle, che sfiga, a me ancora oggi piacerebbe comandare il fuoco, ma non si può quindi ciao. Come mi smentisco io non lo fa nessuno, alla faccia della serietà... Il fatto è che mi è rimasto incollato addosso questo assurdo ideale di salvare il mondo, di salvare, di salvare qualcuno,  e non corrisponde ai mie sogni, al contrario, le due cose quasi si annullano, ma io so cosa devo fare, e ci credo davvero, e se avrete anche solo un minimo di perspicacia l'avrete sicuramente capito anche voi, ma non voglio dirlo, perché sa di arie, e non voglio, che non c'è niente che mi fa rabbia come ciò che leggo sui giornali, che non riuscirò mai ad esprimere quanto io seriamente devo farlo, al di la delle uscite, delle distrazioni, dello scrivere, e che sto studiando per essere l’eroe che ho sempre voluto , così che quando da adulta mi guarderò allo specchio finalmente vedrò chi sono davvero.

Che queste cose escono fuori quando ho molto sonno, e si certo,  grazie se leggerete il capitolo.

E non credo proprio che domani cambierò quello che ho scritto qui, a me piace tanto parlare senza filtro, buonanotte.


Oggi è domani ed all'inizio ero fermamente convinta di voler cancellare tutto, che questo non è il posto adatto per parlare di certe cose, che ho esposto male tra l'altro, che certi pensieri è meglio se me li tengo per me, ma poi, in effetti, che mi importa? :)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2200963