When the heaven met the hell.

di IWishLiamPayne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ricordi d'estate. ***
Capitolo 2: *** ormai ero una F, una F per tutti. ***
Capitolo 3: *** autodistruzione. ***



Capitolo 1
*** ricordi d'estate. ***



L’odore di birra è forte, come un paio d’anni fa. Mi giro intorno e tutto è come una volta: i divanetti di velluto rosso tetro, le luci basse, il bancone di mogano lucidato da poco, ma pieno di sfregi come il viso di un pugile clandestino. C’è il tipico silenzio di tarda serata, rimane pur sempre un bar lurido nella periferia del sud dell’Inghilterra.
Mi giro un po’ intorno e in ogni angolo rivedo qualcosa di me. Lì, si, proprio lì, in quell’angolo, di muro sporco di vomito dopo sbronza, c’è buttata la mia verginità. Oh, invece lì, sul quel divanetto rosso in fondo, tra la porta sul resto e la porta per i cessi, ci sono le mie ripetute litigate con Sunny, il mio orgoglio poggiato sul tavolo, la mia testardaggine appesa al muro, il mio vomito nei bagni, le mie canne fumate sull’uscio dell’entrata.
Ho solo vent’anni eppure ho vissuto così tanto, tanto da poter morir domani e dire “mi sono goduta ogni attimo” ed entrare qui riporta tutto alla mente, troppi anni strazianti, troppe delusioni, troppe emozioni contrastanti. Questo luogo è stato il mio destino scosceso, il tormento dell’anima, penso soprattutto per quella di mia madre. Avevo sedici anni e passavo le mie notti qui, tutto per non entrare in quella casa demoniaca, con quei genitori pazzoidi e un fratello schizofrenico. Casa mia non la conoscevo, me ne sono andata via da lì a diciassette anni con venti sterline in tasca, un borsone con quattro pezze dentro e il mio rossetto rosso, la mia eyeliner, la mia lacca e le mie unghie finte. E nel cuore, se l’ho portato con me, non avevo niente, tanto che ho dovuto lavorare per riempirlo di cose, di sentimenti, contrapposti, sbagliati, negati, indirizzati a gente sbagliata, messi in cose sbagliate, non so, il mio cuore passò da un posto tetro e polveroso, pieno di ragnatele a un deposito di scarti, una discarica vuota dove tutti venivano a gettare le loro scorie radioattive e divenne pieno, pienissimo, quasi che scoppiava.
Mi siedo, sul solito divanetto, quello che da di spalle al finestrone alla fine della sala. Questa volta non mi butto su di esso come una bambina euforica, mi siedo con grazia, quella che ho potuto acquistare negli ultimi due anni. La mia gonna lunga nera tocca terra, la mia camicetta rossa mi copre il busto per bene, ho gli occhiali da sole neri nei capelli anche se sono le dieci passate di sera. Ho voglia di una birra, niente vodka, con quella ho davvero chiuso, mi ha portato fin a troppi guai, e mischiata con canne ed eroina, oh, le migliori nottate in ospedale della mia vita.
Vedo avvicinarsi il barista, avrà una cinquantina d’anni, sarà uno di quei falliti che si sono ridotti a lavorare qui diciotto ore al giorno per sei giorni alla settimana per massimo ottocento sterline. Sposto i capelli ondulati all’indietro, qui mi conoscevano come Bonny la mora, quella dagli occhi verdi, i fianchi larghi e un bel sorriso da bambina innocente. Ora sono molto diversa, dentro, fuori, dai capelli allo stile. I miei capelli ora sono biondi, non troppo lunghi, non penso mi riconoscano, tra i pochi visi che vedo qui non mi sembra di ricordare nessuno.
-Signora, cosa prende?- il tuo tono, stizzito, stufo, stanco, i suoi occhi bassi su quel foglio bianco. È sicuramente sveglio dalle prime ore dell’alba e i suoi occhi ancora devono trovare refrigerio dalla lunga giornata.
-Signorina- tento io di puntualizzare –una birra, comunque.- sorrido poggiando la mia borsa di pelle marrone sul tavolo.
-Da mangiare niente?- mi chiede il barista quasi stizzito dopo la mia piccola puntualizzazione.
-Mmh, ora che mi ci fa pensare- prendo una piccola pausa –non mi dispiacerebbe una porzione di chips fritte.- sorrido di nuovo, quasi per farlo innervosire. La mia indole quasi malvagia non è andata via, con i miei sorrisi voglio mandare in tilt la sanità mentale di quel poveraccio, fargli capire che io sono qui e lo tengo sotto schiaffo con le mie decisioni. Mi piace mantenere il potere, mi fa sentire felice, e io non sono quasi mai felice.
Lo vedo allontanarsi sbuffando e mi lascio andare in una piccola risata. Accavallo le gambe sotto il tavolo e passo le mie dita sotto gli occhi quasi per eliminare la matita nera della lima inferiore che sicuramente sarà colata con questo caldo asfissiante.
È metà agosto e sono quasi alla fine del mio viaggio di memorie. Sono tornata qui in Inghilterra per ricordare, anche se fa male. Devo chiudere col passato, una volta per tutte, non basta mettere punti, virgole, parentesi, cambiare pagina, capitolo o libro, devo stravolgere tutto, devo prendere il libro del mio passato e bruciarlo, nascondere le ceneri, non voglio più ricordare, la notte ancora non dormo per gli incubi, i ricordi insaturi che tornano alla mente, quando chiudo gli occhi, sembra sempre un paradiso oscuro dove non c’è via di scampo e la mattina faccio sempre a pugni con lo specchio e il correttore diventa il mio migliore amico, devo nascondere le occhiaie.
In questo momento mi manca l’Irlanda, la mia nuova casa, la mia vera casa, lì mi trovo davvero bene e nessuno sa dal mio passato.
Mi alzo, vado al bagno, devo sciacquarmi il viso, fa troppo caldo e i due ventilatori che sono in questo bar non servono ad un eremito cazzo. Ricordo quale delle due porte è, ci entro spedita, e noto che sono sempre tenuti male, sporcizia ovunque. Apro la manopola dell’acqua, la faccio scorrere un po’, poi unisco le mani e le poggio sotto all’acqua, poi le porto al volto e faccio toccare il liquido cristallino con la carne. Mi guardo allo specchio, quel poco di mascara rimasto è colato, prendo un fazzoletto dalla mia borsa, mi asciugo il viso e mando via le tracce di nero da esso. Ora sono struccata, non mi piaccio e cerco nella borsa il mio mascara, metto solo quello, fa troppo caldo per metter altro. Esco dal bagno e torno al mio tavolo, noto che la birra è arrivata insieme alla chips. Mi siedo, prendo la birra e porto il bordo del boccale alle labbra, è ghiacciata, come piace a me. Assaggio le chips, sono bollenti, mi ustiono quasi la bocca, le finisco dopo poco, proprio come la birra. Rimango seduta per un po’a fissare il vuoto, sento salire l’ansia e non so il perché, il passato è l’unica scusa, decido di alzare a andare a prendere una boccata d’aria.
Sospiro di sollievo appena sono fuori, ormai è quasi mezzanotte e si intravedono le stelle. C’è luna piena, è bellissima, come Sunny. La luna mi ricorda lei, quel sorriso candido, quei capelli lucenti, quegli occhi azzurri, è bellissima, o meglio, lo era.
Mi incammino verso la panchina sotto al lampione che antecede uno spiazzato di terre immenso, desolato. Mi siedo, ho lo sguardo assente, sta salendo qualcosa in me, sono i ricordi di Sunny. Sto per piangere, lo so, stanno arrivando le lacrime, sto cercando di tenerle a freno, niente viso bagnato, stop. Ho bisogno di scrivere. Poso la borsa sulla panchina e prendo l’agenda con una penna. Incrocio le gambe sulla panchina e metto l’agenda su di essa. Scrivere è l’unico modo per mandare via i pensieri cattivi e subito ricordo, ricordo tutto quello che mi è successo negli ultimi quattro anni, i quattro anni più brutti di sempre.

 
 

 

 

 

-buon giorno o buona sera o quel che sia a tutti. questa storia che sto scrivendo per me ha un significato ben profondo, voglio che sia una delle mie prime storie serie, voglio renderla magica e spero che possa piacere.

vi chiedo un piacete, recensite in tanti, voglio sapere il vostro parere, i vostri consigli, quello che avete da insegnarmi.

baci. xx

@iwishliampayne-

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Capitolo 2
*** ormai ero una F, una F per tutti. ***


«Mamma esco con Sunny, ci vediamo domani mattina. » corsi per le scale, strinsi il cappotto intorno alla vita, mi avvicinai alla porta, non potevo farmi vedere con quei vestiti indosso.

«Bonny, dove vai? » mia madre uscì dalla cucina con un libro di ricette tra le mani.

«Mi ritrovo con Sunny al bar in periferia, poi dormo da lei.» dissi aprendo la porta, non mi girai, mamma poteva intravedere qualcosa sotto il mio cappotto.

«Piccola, domani hai scuola, i libri? Il cambio? » guardò la mia sagoma di spalle «sai che quel bar non mi piace, manco la compagnia di Sunny, sai sempre come contrastare le mie idee. » il suo tono divenne più duro, si irrigidì e io sbuffai.

«Mamma, domani c’è sciopero, te l’ho detto a pranzo e poi da Sunny ho tutto quello che mi serve, poi, per la questione del bar, lo sai, ne abbiamo parlato, non mi succederà niente.» avevo paura di una sua risposta, quindi uscii lasciando sbattere la porta alle mie spalle e mi incamminai verso casa di Sunny. Era distante qualche isolato, niente di più.

Appena arrivata da Sunny bussai tre colpetti sul portoncino, mi venne ad aprire suo fratello James, il ragazzo per cui il mio cuore aveva perso migliaia di battiti.

«Ciao dolcezza!» mi disse aprendo la porta. Si morse il labbro, lo faceva di proposito, sapeva che a me faceva impazzire. Mi si avvicinò con calma, le mie braccia scendevano morbide lungo i fianchi, rimasi immobile, socchiusi gli occhi e lui mi diede un bacio sul collo. Era un suo vizio, un vizio altamente provocatorio. Aprii gli occhi quando le sue labbra lasciarono andare la carne del mio collo, abbassai lo sguardo e la prima cosa che incrociarono i miei occhi furono i suoi molteplici tatuaggi sulle braccia. “Die young” sull’avambraccio era il mio preferito, diceva parecchio di lui, diceva anche parecchio sulla mia cotta. Di lui amavo la sua spontaneità e quel fare ribelle proprio come sua sorella, il suo infrangere tutte le regole, come infrangeva il mio cuore, ripetutamente, quando lo vedevo baciare altre ragazze.

«Ciao James, tua sorella?» mi ripresi dal suo bacio ed avanzai qualche passo.

«In camera sua, come sempre del resto. » si spostò per farmi entrare, poi chiuse la porta «dammi il cappotto, lo poso.» mi disse venendomi, di nuovo, incontro.

Vacillai appena, dovevo farmi vedere quasi svestita, poi sentii il suo respiro posarsi nell’incavo del mio collo e le sue mani poggiarsi sul fiocco di raso del mio cappotto. Le sue mani massicce e tatuate sfilarono quel fiocco, delicatamente e lentamente. Lasciò scivolare a terra la cintura e poi cercò di levarmi il cappotto. Il raso sfiorava le mie spalle scoperta, scivolò lungo la mia schiena fino a poggiarsi per terra. Ero priva del mio soprabito, mi sentivo al quanto nuda, in sintesi, avevo sono una minigonna di jeans e un top nero che mi lasciava scoperto l’addome e copriva a mala pena il seno poco prosperoso.

«Non fa troppo freddo? » sentii posare la sua mano sulla mia spalla. Rimasi immobile, un brivido mi percosse la schiena.

«Per cosa? » gli domandai rossa in viso.

«Per questo tuo abbigliamento, siamo solo alla fine di febbraio. »mi rispose andandosi a sedere sulla poltrona che era di fronte a me.

«Tua sorella mi ha detto di vestirmi così e poi non ho freddo, sto bene così, grazie per l’interessamento James.» continuai tenendo lo sguardo basso.

«Sai che c’è? » rise «mia sorella ti sta portando proprio sulla cattiva strada, prima non eri così, eri quella ragazzina docile che tutti prendevano in giro per la troppa timidezza, mia sorella era la prima, ricordo quando veniva a casa soddisfatta per averti riempita di pugni e io non mi spiego proprio perché tu l’abbia perdonata per tutto quello che ti ha fatto passare. » tornò per un attimo serio.

«Le voglio davvero bene, mi ha salvata. » mi morsi l’interno del labbro e sospirai pesantemente.

«Sei convinta che ti abbia salvata, ma mi sa che tu abbia salvato lei dalla solitudine, però…» si alzò dopo essersi seduto poco prima «un consiglio fraterno?! Scappa da lei, ti darà solo problemi. » mi si piazzò di fronte.

«James, tutto questo interessamento? Tu sei proprio come lei, non ti frega di nessuno e ora non capisco queste parole d’amore fraterno nei miei confronti da dove escano» rialzai lo sguardo, lo fissai con aria di sfida.

«Ti sta davvero bene questa gonna. »rise guardandomi le gambe scoperte e poi tentò di allungare la mano sulla mia coscia. Io mi scostai velocemente, in realtà non so neanche io perché lo feci, amavo ogni contatto che avevo con lui, di qualsiasi genere, ma quella volta odiavo il solo pensiero che la sua carne toccasse la mia, forse per le parole che aveva detto su Sunny o il sol fatto che avesse riportato alla mente i duri anni della mia prima adolescenza, di come, non solo sua sorella, mi ricopriva di lividure che dovevo nascondere a mia madre e al mondo.

«Vado di sopra, tua sorella mi sta aspettando. » girai le spalle, raccolsi il cappotto e salii di sopra e arrivata di fronte camera di Sunny bussai delicatamente. «Posso?- sussurrai fuori dalla porta.

«Entra! »disse lei con una voce decisa.

Entrai, senza far rumore, in punta di piedi. Sunny era sdraiata sul letto, sul pavimento una sessione di abito sporchi, il beauty del trucco spaparanzato sulla scrivania e l’autoabbronzante colato sulle coperte. Si stava facendo una canna, sarà stata sicuramente la quinta in tutta la giornata.

«Un tiro? »mi sorrise poggiando la schiena contro la testata del letto, me la tese e io la presi. Un tiro, uno solo ne feci, avevo già mal di testa e quella sera avrei già bevuto tantissimo e fumato minimo un pacchetto da venti di sigarette. Mi sedetti al suo fianco, ispirai e buttai via, tossii appena, era forte, parecchio. Lei rise guardandomi, poi si alzò, era nuda, non l’avevo notato prima. Arrossii appena, era una situazione imbarazzante. Camminò per la stanza, prese un vestitino da terra, quello rosso che a me tanto piaceva. Aprii il comodino di fianco al letto, tirò da lì dentro un paio di mutande, mutande molto sexy, proprio nel suo stile, le mise e poi infilò il vestino, niente reggiseno, il suo seno era sodo e compatto, una bella terza, niente a che fare con la mia misera seconda calante. Era già truccata e con un bello strano di autoabbronzante, era quasi pronta, le mancavano le scarpe, un bel paio tacchi chilometrici rosso fuoco.

«Le scarpe.. prendi quelle nere per me? » le dissi sdraiandomi sul letto. Ero uscita con delle scarpette da ginnastica, non potevo di certo farmi vedere da mia madre con dei gran tacchi, mi avrebbe chiuso in casa per il resto dei miei giorni.

«Piccola Bonny, stai diventando proprio una cattiva ragazza. » la sentii ridere aprendo l’armadio, si mise in punta di piede e prese le scarpe, per entrambe.

«Sunny, tutto merito tuo. » la mia risata fu quasi isterica, ci trovavo gusto nel mio repentino cambiamento. Ero passata da figlia di papà tutta sola, ad una cattiva ragazza tenuta sott’occhio da tutti.

A volte non mi spiego neanch’io questo cambiamento, ricordo solo che ero stufa di essere quella sbagliata per la società. Ormai se non fumavi, bevevi, o facevi la facile eri una fallita. Avevo solo sedici anni ed ormai ero una donna fatta. Stavo vivendo cose disumane per la mia età, uscivo tutte le sere, non studiavo più, ero diventata un piccolo disastro, uno di quei pesi per famiglia e professori. “Non arriverai da nessuna parte piccola Bonny se continui così”, ormai mi ripetevano solo questo i professori dopo la consegna dei compiti in classi. F, sempre la solita F, sempre una stupida lettera a giudicarmi, sempre il parere di falliti depressi che sfogavano le loro frustrazioni in persone fragili in tutti i sensi, ormai ero una F, una F per tutti, era più facile, per la gente, identificarmi così, una lettera dell’alfabeto risparmiava alle persone di impegnarsi per conoscermi, si sono sempre tutti basati sulla mia apparenza, nessuno mai, a parte Sunny, è sceso nelle viscere del mio cuore per capire davvero chi era Bonny Winchester.

«Domani mariniamo scuola, no? » mi chiede Sunny prendendo la borsa dalla scrivania e andando verso la porta.

«Si, non preoccuparti, ho detto a mia madre che domani non si entrava. » risposi. Avevo detto una frottola a mia madre, e sicuramente non era la prima.

Sunny scese le scale, io sospirai lievemente e infilai le scarpe, poi la seguii. Di sotto James non c’era più, aveva lasciato una bottiglia di birra semi vuota sul tavolino del salotto.

«Quel maiale di mio fratello, è uno stronzo. » Sunny prese la birra poggiata sul tavolino, pulì il bordo e fece un sorso «non lo reggo più da quando papà è andato via» sospirò sedendosi sulla poltrona. Poggiò le gambe sul tavolino e finì di bere quella birra. Io rimasi immobile di fronte a lei, l’argomento – padre andato via di casa con l’amante – era molto delicato d’affrontare, Sunny non l’aveva accettato, si era imposta che suo padre sarebbe tornato e l’avrebbe portata via con lui. Sua madre, in un certo senso, l’aveva data vinta al dolore e si era rintanata a casa di qualche amica e si era data all’alcol. Ed è così che Sunny e James si erano ritrovati a vivere da soli, in una casa enorme, con bollette arretrate e senza limiti.

«Su.. Andiamo dolcezza» fece uno scatto veloce e balzò dalla poltrona, si scosse i capelli e deglutì buttando la bottiglia di birra ormai vuota sul tavolino. Si sentì un tonfo, la bottiglia si era rotta, il vetro si era riversato sul pavimento e vidi sul viso di Sunny frustrazione. Mi spaventai vedendola così, quindi le andai vicino, le sorrisi e poi andai verso la cucina «Le dive si fanno desiderare» le dissi prendendo dalla cucina una scopa e una paletta. Tornai in salotto e raccolsi i pezzi di vetro e feci una veloce sistemata. Riportai tutto in cucina e tornai da Sunny sorridendo «E le dive sono finalmente pronte per spaccare stasera». Sunny sorrise dolcemente, con quei miei gesti la tranquillizzai e ne fui felice. Lei aveva fatto così tanto per me  e qualsiasi cosa facessi per lei non mi pareva mai abbastanza.

Le ero debitrice, di vita, quella sociale.

 

 

-rieccomi qui, ho fatto abbastanza veloce a postare il secondo capitolo perchè lo avevo scritto tempo fa. Non è il massimo, ma è un introduzione di tutte le avventure/disavventure che vivrà la nostra protagonista.

Non voglio assolutamente deludere nessuno, se potete, recensite. grazie.

baci xx

iwishliampayne-

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Capitolo 3
*** autodistruzione. ***


«Ne bevi un’altra?»

Guardai Sunny un po’ preoccupata, era la quarta birra di fila che beveva dopo solo quaranta minuti che eravamo in quel bar.

«Su con la vita piccola Bonny, stasera dobbiamo divertirci!» fece una piccola risata isterica, quella classica, nel suo stile.

«Si, hai ragione, ma divertirsi non significa obbligatoriamente distruggersi d’alcol.» mi alzai dallo sgabello che dava verso il bancone e le misi una mano sulla spalla sinistra, scoperta.

«Quante cose ho ancora da insegnarti! Non capisci un cazzo, sei ancora troppo ingenua!». Sunny disse quelle parole con la sua voce rauca e l’accompagnò con un violento e veloce movimento rotatorio della spalla tanto da farmi ritrarre la mano con la stessa velocità.

Stranamente, anzi no, niente stranamente, quelle parole mi ferirono, mi sentii così piccola, piccola d’animo. Abbassai meccanicamente lo sguardo e tornai a sedermi. Tenni per un po’ il viso, fisso, rivolto verso il bancone di legno scheggiato e dentro di me elaborai una futile promessa: non mi sarei mai più sentita in quel modo, non mi sarei mai più sentita piccola d’animo.

«Allora insegnami, porta via da me l’ingenuità!». Rialzai lo sguardo dal bancone e lo portai si di Sunny. Lei appena sentì la mia voce si girò dal mio lato. Un sorriso, uno grande, pieno d’orgoglio, proprio come una madre sorride orgogliosa ad una figlia che porta a casa un bel voto.

Sunny stava costruendo il suo mostro, e il suo mostro ero io.

 


 


La testa girava, i ricordi sfocati, ma nitido l’odore di uno scadente whisky. I piedi a fuoco, le gambe pesanti, la musica  a tutto volume, le gocce di sudore che scendevano lungo la schiena, le mani tra i capelli e i poderosi fianchi che si muovevano in tutte le direzioni. Ancora alcol, polvere bianca, risate isteriche spezzate dal mormorio di qualche parola cantata, occhi indiscreti, le due di notte, i ragazzi, l’adrenalina, il sesso, Sunny che infilava la lingua nella gola di chiunque. Io avevo bisogno di una pausa da quella roba.

Barcollavo sui miei tacchi, ma avevo bisogno di aria.

Mi catapultai fuori alla discoteca vicino al bar cha avevamo lasciato poche ore prima.

Una volta fuori feci un lungo respiro e mi mantenni, con entrambe le mani, la testa che stava quasi per esplodere. Mi sentivo uno schifo. Lo stomaco sottosopra, le gambe che non mi reggevano e la consapevolezza di stravolgere me stessa. Ero stravolta, mi stavo stravolgendo, mi sarei stravolta e mi sarei resa stravolta, al limite, se ne avevo uno.

Mi tolsi le scarpe e gironzolai sul retro esterno cupo e stretto della discoteca. Ne vidi delle belle, da ragazzi che spacciavano a ragazzi che vomitavano persino l’anima, ma il mio sguardo si fermò su due ragazzi con qualche anno in più a me, seduti su un muretto che si scambiavano baci ed dolci effusioni.

Quello che mi colpì fu la delicatezza con cui lui la toccava, le sue mani che le percorrevano il viso, i suoi baci dolci e soffici come nuvole e subito, lì, un brivido mi percorse la schiena tanto fa farmi stringere nelle spalle e farmi diventare ancora più piccola e ancora più indifesa. E indifesa la mia mente si posò sulla sagoma di una persona nei miei ricordi.

James.

James e la sua maledetta perfezione/imperefezione. Prima di lui non mi ero mai presa una cotta per nessuno e forse è per questo che lo ricorderò per sempre.

La voglia di averlo di fianco a me mi spiazzò, sgranai gli occhi e mi morsi il labbro nel suo ricordo.

E mi sentii cingere la vita e mi sentii andare a fuoco. Chiusi gli occhi e buttai leggermente la testa all’indietro. Ero talmente presa dal mio pensiero di James che pensai che il mio desiderio fosse diventato realtà e lui era proprio dietro di me.

Una stretta forte ai fianchi, forte ma non abbastanza. Una voce quasi mi svegliò da quel sogno ad occhi aperti.

«Baby, è una serata da sballo.». Era Sunny, ubriaca, sudata, adrenalinica.

«Non credi sia tardi? Andiamo a casa. » la guardai con più attenzione, il suo corpo le implorava riposo, era stremato, e in quel momento il freddo pungente di febbraio si fece sentire sulla mia pelle scoperta e non.

«Dieci minuti, piccola. » Sunny stava per accendersi l’ennesima sigaretta e io la guardavo stringendomi nelle spalle. Stavo morendo assiderata.

«Ce la fai ad aspettare che finisco di fumare sta sigaretta maledetta o mi muori di freddo prima? » mi guardò e fece un tiro, dopo tossì leggermente. Non era da lei. Fumava più o meno da tre anni.

Precoce la ragazza.

«Sbrigati e fammi fare un tiro. » le dissi muovendomi a passi fatti sul posto, dovevo tenermi calda.

Sunny arrivò a metà sigaretta e me la passò, feci un tiro abbastanza lungo, era arrivata quasi vicino al filtro. Spirai e la diedi di nuovo a Sunny. Finì con fretta la sigaretta e la buttò per terra schiacciandola col tacco.

«Andiamo? » mi guardò e io annuii. Lei camminava e io le stavo dietro. Mentre ci dirigevamo all’auto pensai a troppe cose, in dieci minuti mi distrussi nel pensare. Una miriade di miei sospiri si susseguirono nella notte gelata e persi la sensibilità alle dita delle mani.

Appena entrata in auto tornai a vivere, in un certo senso. Accesi subito lo stereo e subito il cd di Lana tanto amato da me e Sunny iniziò a donarmi sollievo.

«Remember how we used to party up all night, sneaking out and looking for a taste of real life, drinking in the small town firelight…» cantavo io a squarciagola. Quella canzone sembrava stata scritta per me e Sunny e mi rendeva felice ascoltarla in sua compagnia.

«Sweet sixteen and we had arrived, walking down the street as they whistle, "Hi, hi!" » centavo e ridevo e mi sentivo stranamente felice, sollevata, direi.. realizzata.

E da quella sera che, forse, io, avevo messo le radice della nuova sbandata me, il prima era stato un futile tentativo di una scalata sociale, in un certo senso, falsa. Volevo stare in alto continuando ad essere la povera ingenua dai principi sani, ma alla fine capii che se volevo stare lì, al fianco di Sunny, in alto, dovevo dirmi addio completamente, e abbracciare l’idea di una me che non sarebbe stata più la stessa.

E se solo potessi tornare in dietro mi distruggerei di meno perché.. da allora la mia è stata un’autodistruzione completa.

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