Donna in catene

di Camelia013
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Orgoglio ***
Capitolo 2: *** Contemplazione ***
Capitolo 3: *** Ragionevolezza ***



Capitolo 1
*** Orgoglio ***


Orgoglio
Quella sera sapevo di avere la carica sufficiente per affrontare quel pubblico: esso sembrava emozionato, ma che fosse anche pronto a criticare la mia esibizione.
Ricordo solo che Mitch, il mio manager, mi disse: "Falli neri, piccola." e che qualcosa, dentro di me, mi sussurrò che tutto sarebbe andato al meglio.
Presi il microfono e raggiunsi il palco mentre il mio vestito, contornato da paillettes dorate, strisciava sul pavimento; quella distesa di persone mi fece esitare per un istante, ma quando
l'orchestra cominciò a suonare, la mia voce quasi fu costretta a seguire quella melodia per cui avevo lavorato da mesi.
Quando la musica cessò, il silenzio fu immediatamente sostituito da applausi e urla. Ero andata bene?
Ritornai nel backstage e tutto lo staff che lavorò con me quasi si commosse nel vedermi finalmente davanti ad un pubblico.
"Io lo sapevo, Jamie."
 
"Complimenti Jamie, sei stata davvero brava!" esclamò emozionata Priscilla mentre mi faceva compagnia nel mio camerino.
Arrossii per le congratulazioni e mi sfilai gli orecchini d'oro, per poi poggiarli delicatamente sul davanzale: "Chissà se un altro locale mi prenderà ancora, in futuro ..."
"Stanne certa, mia cara. Stasera il pubblico ti ha mangiata con gli occhi: eri stupenda!"
Non credetti alle parole di Priscilla, anzi: per tutta quella sera non feci altro che rimuginare sugli errori fatti o sulle azzardate irrealizzate.
Mi sedetti e cominciai a struccarmi: gli occhi erano tutti appannati e rossi; dovevo essere esausta. Priscilla, invece, rimaneva poggiata sulla colonna di marmo e mi osservava a braccia consente.
"Ti è ancora arrivato." mormorò.
Spalancai gli occhi.
Era ancora arrivato?
Sì, era da parte a me. Quel meraviglioso mazzo di rose blu, rilegato da un nastro nero. Mi arrivava sempre, quando mi esibivo.
Quella volta però, oltre ai maestosi fiori e il nastro, c'era anche un biglietto. Impaziente, lo presi e lo aprii.
Ero curiosa, lo ammetto. Volevo sapere chi mi mandava quei doni.
Per Jamie.
"Tutto qui?!" sbottai.
 Priscilla sogghignò.
"Che cosa c'è da ridere?"
"Non sapevo fossi così ansiosa di sapere chi fosse il giovanotto che ti manda questi fiori."
Sorrisi in tono scherzoso, cercando di nascondere il mio imbarazzo: "Voglio sapere la sua identità solo per dirgli, finalmente, di togliersi dai piedi."
"Non essere così dura, Jamie. Lo so che dici così solo per nasconderti."
Priscilla mi conosceva fin troppo bene. La conobbi l'anno prima, quando trovai Mitch e insieme a lui decisi di iniziare questa carriera. Mi stette vicina, sia fisicamente che emotivamente, ogni qual volta dovetti esibirmi.
Aveva il doppio dei miei anni ma i suoi ragionamenti erano fin troppo paragonabili a quelli di una ragazza della mia età; forse per questo andavamo d'accordo.
Ripiegai il capo, cercando di camuffare il mio ben evidente disagio.
Priscilla mostrò il suo sorriso perfetto, strizzando gli occhi verdi.
 
Era più forte di me. La mia testa era colma di domande: chi era? Perché lo faceva? Perché proprio delle rose blu?
Forse era Jude, una vecchia fiamma del liceo finita male, che mi faceva degli scherzi, o forse era un uomo sulla sessantina che apprezzava il mio talento.
O forse ...
"Hei! Tu! Non devi stare qui!" sentii tuonare dalla porta la mia guarda del corpo. C'era anche lui?!
Mi precipitai al portone, uscii e intravidi un ragazzo fuggire e sparire all'angolo del corridoio.
Provai a seguirlo anche se a fatica, a causa dei tacchi.
"Signorina Gilles..!" mi chiamò la guardia poi, cominciai a sentire solo il mio fiato, il sangue alla gola e il rumore della mia corsa disperata.
Fuoriuscii dal locale e finalmente vidi il giovane che, vicino alla strada, tentava in vanamente di salire su un Taxi, sotto la pioggia.
Mi avvicinai a lui, con l'ansia che mi fermentava nello stomaco: "Scusi ..." gli toccai la spalla.
Egli si girò, ma con un scatto nervoso e un sussulto impacciato: era un ragazzino molto magro, con degli occhiali rotondi e l'apparecchio.
"Oh mio Dio! Jamie Gilles!" ansimò con un sorriso faceto.
"C-Ciao." balbettai, amareggiata per la persona ritrovatami davanti.
Mi diede una margherita: "Q-Questa è per lei, signorina Gilles." barbugliò "Arrivederci!" e fuggì.
No.
Non era lui.
"Jamie! Ma sei impazzita, per l'amor di Dio!?" avvertii una voce dietro di me: era Mitch che mi coprì le spalle con un cappotto: "Prenderai un mal di gola!" mi spalleggiò, accompagnandomi dentro.
Ma non ebbe importanza.

‘Erano da mesi che non dormivo così bene’.
Questo pensai quando, spalancati gli occhi, avvertii la freschezza e morbidezza delle lenzuola e l’odore della pioggia che scrosciava sulle persiane.
Mi alzai, mi avvolsi la vestaglia di seta e percorsi la camera tappezzata di moquette rossa, abbastanza rilassata.
“Buongiorno Coca-Cola.” Salutai la mia gatta che stava appollaiata su un cuscino, accanto al mio letto. “Dormito bene, dolcezza? Io sì: da favola.” Mormorai al felino.
La sera prima non ebbi avuto modo di ispezionare la stanza che mi aveva prenotato Mitch così, in quel momento di tranquillità, iniziai ad osservare il soffitto, i mobili e i quadri: i muri perdevano la modestia, con quella masserizia in mogano e i dipinti costosi.  Le finestre, grandi quanto trasparenti, mostravano il paesaggio urbano che non sapevo se ammirare o disprezzare: una quantità spropositata di gente percorreva la strada, coperta dagli ombrelli, in contrasto con i Taxi gialli, persi nel traffico.
Attempando quell’ambiente, per un istante ripensai a quel mazzo di rose blu e quella mattina tranquilla si tramutò in una tempesta di pensieri, dubbi e speranze.
Non capivo perché quegli stupidi fiori avessero avuto un impatto così devastante su di me. Dovevo assolutamente scoprire chi me li mandava o non mi sarei mai messa il cuore in pace.
Questo piccolo segreto lo ritenevo imbarazzante e vergognoso, infatti non ne parlai con nessuno, tranne che con Priscilla.
Mitch diceva sempre: “Il segreto del successo è la sicurezza e l’insensibilità.” e io non dovevo invaghirmi di niente. E di nessuno.
Quando iniziai questo lavoro, il mio staff mi fece il lavaggio del cervello: stava cercando, infatti, di tramutarmi in una sciacquetta egocentrica, ma con un grande talento; io non volevo subire questa trasformazione, anche se il terrore di un futuro congedo mi terrorizzasse.
Ero scappata di casa, a soli 18 anni e fu Mitch a trovarmi: papà non accettava il fatto che non volessi iniziare il college, ma che piuttosto desiderassi cominciare una scuola di canto.
Mia madre morì dieci anni prima, perciò mio padre pensava di comandare solo lui. Non ce la facevo più.
Fuggii una mattina di Dicembre: faceva molto freddo e aveva appena cominciato a nevicare. Presi una borsa e posi, al suo interno, quello che riuscii a trovare: vestiti, qualche soldo, un paracqua e una coperta.
Papà lavorava come infermiere, perciò aveva la maggior parte dei turni lavorativi durante la notte, per questo rimanevo spesso da sola, alla sera.
Fu il momento ideale per darsela a gambe.
Scrissi un biglietto e lo misi sul comodino che era situato nella camera da letto. Ricordo di avergli augurato felicità e che me la fossi augurata un po’ anche per me.
Venni fuori dal portone di casa e, con un sospiro deciso, percorsi il marciapiede gelido, contornato dai fiocchi di coltre bianca. Dopo qualche minuto, una forte sensazione di sicurezza si accese in me, come il fuocherello che comincia a germogliare in un caminetto, durante una precipitazione nevosa. Quella destrezza mi scaldò tutta la notte, mentre dormivo nel treno rigido della Metropolitana, che mi stava portando chissà dove.
Transitai cinque interminabili giornate di girovago per la Louisiana, con una preghiera stretta in grembo.
Quella fiamma celatasi giorni prima si spense: c’era troppo gelo, in quel mondo ignorante; non riuscii a tenere in vita quel fuoco.
Iniziai a pentirmi della mia decisione: ‘Forse, avrei dovuto cominciare il college!” oppure “Dovevo rimanere a casa!” pensai. Ma era troppo tardi.
Arrivò il momento in cui dovetti dimostrare al Pianeta che ero diventata una donna.
Forse, il focolare si sarebbe riacceso.
Si riaccese.
“Tutto bene, ragazzina?” percepii una voce, uno di quei giorni. Quell’ammonimento apparteneva ad un signore di media statura, con delle simpaticissime basette scure. Era Mitch.
Presa da un senso di solitudine e frustrazione, raccontai a quell’uomo la mia disavventura, accompagnata da qualche singhiozzo o lacrima; in poco tempo, scoprii che la persona che incontrai stava cercando disperatamente la chiave del suo successo: una Musa, una cantante … più o meno: gli bastava una giovane intonata, bella e appetibile, ma soprattutto che non facesse domande e che non ricattasse per denaro. Avevo tutto i requisiti, secondo lui.
Ero consapevole che mi stesse sfruttando e che mi avesse scelto per la mia ingenuità, ma non mi importava: volevo cantare e mi bastava un tetto e del cibo; magari anche della compagnia.
Accettò le mie condizioni e mi portò via dalla Louisiana.
In quel momento fui veramente lontana da casa: mi trasferii in California.
Realizzai il mio sogno: Mitch m’iscrisse ad una scuola di musica e diventai una cantante professionista nell’arco di un anno.
Ma ricevetti la felicità che mi augurai nella lettera indirizzata a papà? No. Però c’era una cosa di cui andavo molto orgogliosa: tutto quello che compii e tutte le scelte che effettuai le feci perché lo volevo io.


≈Angolo Scrittrice≈
Salve a tutti! Per ora non conosco nessuno su EFP, e mi sono iscritta per far conoscere questa storia un po' particolare. Non sono brava a scrivere, però mi sono impegnata. Se ci sono degli errori, ditemelo in un commento. Ne aspetto molti! Grazie ancora, ciao!

 

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Capitolo 2
*** Contemplazione ***


Contemplazione
Quelle rose, dipinte accuratamente di un blu acceso, mi apparvero durante la notte: togliermele dalla testa sembrava un ostacolo invalicabile; anche quando c’erano le tenebre esse splendevano come il sole di mezza giornata.
La mia fantasia sconfinata immaginava un ragazzo bello, aitante e in gamba che si era preso una bella cotta per me e che avesse deciso di corteggiarmi in modo totalmente segreto, ma la ragione immaginava un qualcosa di assolutamente diverso, ossia un illusione.
Il problema non era il mazzo di rose, ma quello che provavo quando le vedevo.
Dovevo darci un taglio.
 
“Jamie, voglio essere sicuro al cento per cento: saresti disposta a farti sballottolare per mezza America, esibendoti ogni dannata sera, in ogni dannato locale?” mi chiese all’improvviso Mitch, durante un incontro con tutto lo staff.
“E’ una domanda a trabocchetto?” reclamai.
Priscilla rise, susseguita dal coro generale che fu divertito dalla mia buffa e inappropriata domanda; ma Mitch non stava ridendo, anzi, aggiungerei che assunse lo sguardo più serio e autorevole che avessi mai visto: “Jamie, per l’amor di Dio, ascoltami.”
Il coro si spense, appena l’uomo pronunciò quelle gravi parole.
“Si tratta della tua vita. Non hai più diciotto anni; è arrivato il momento di farti conoscere al mondo, piccola stella, ma è una tua scelta. Giuriamo di starti accanto durante questo cammino travaglioso, ma non temere: la gente ti adorerà.” disse Mitch.
“Come fai a sapere che la gente mi adorerà?”
“Lo so e basta.”
Cosa significava Lo so e basta? Lo proferì solo per darmi il contentino, forse? Non mi piacque quella risposta. Mi pentirò tutta la vita per non avergli chiesto il perché di tale risposta.
Ho un ricordo evanescente di quello che accadde quella sera, dopo il ritrovo riflessivo con tutta la squadra: rimembro di aver avuto un forte mal di testa, susseguito da nodi allo stomaco tenaci e durevoli e che avessi fatto un bagno turco.
 
Acclamazione, scetticismo, realizzazione e appagamento.
“G-grazie.” Tartagliai, dopo quel vortice di emozioni, verso il microfono che tenevo in mano.
Quella sera mi esibii ancora, in un locale di San Diego: quella volta ci fu molta più gente del previsto e la mia insicurezza si presentò in un primo momento; poi, iniziai a farmi travolgere dalle note profonde e incalzanti del basso e dalla batteria altalenante e corrosiva.
Conclusasi la mia performance, il pubblico encomiò e io rimasi sorpresa da quella reazione, ma quando concretizzai, per la prima volta, di essere andata davvero bene, un qualcosa, detta soddisfazione, invase tutto il mio corpo, coperto da un vestito nero lungo fino alle caviglie.
Concepii che ce l’avrei potuta fare, capii di essere pronta.
Pensavo che forse, in un futuro prossimo, avrei acquistato la felicità che augurai a mio padre, anche se tuttora non ho idea di cosa sia questa cosa ricercata da tutti.
 
Quando andai nel mio camerino, passai un quarto d’ora davanti allo specchio, osservandomi: le corde vocali del mio collo erano evidenziate a causa del palese sforzo e qualche gocciolina di sudore adagiavano sulla mia ampia fronte scura.
“Questa è Jamie Gilles.” Pensai, fissando i miei occhi, troppo scuri e desiderosi di possedere un colore più chiaro ma dotati di ciglia lunghe e corvine.
Sobbalzai quando la porta venne aperta all’improvviso: c’era Mitch che, avvicinandomisi con un sorriso fiorente e gli occhi minuti e azzurri, mi abbracciò. Rimasi immobile, senza respirare.
Per un periodo indeterminato credetti di essermi innamorata di Mitch: la sua abilità nel mantenersi concentrato e responsabile in qualsiasi momento suscitava in me un senso di tranquillità e il fatto che mi avesse strappata dalla Louisiana mi faceva pensare di non poter stare senza di lui.
Il calore che mi regalò in quell’istante non lo scorderò mai.
La stretta si fece sempre più debole, finché Mitch smise di stringermi: “Brava piccola.” disse, poi arrivarono gli altri che, a turno, mi fecero le congratulazioni. Ma io continuai a guardare Mitch, senza volerlo: come un istinto, come un bisogno.
Lui sorrideva allo staff e guardava l’orologio, finendo per attribuirsi uno sguardo assente.
Chissà a cosa stava pensando.
In quel momento desiderai che Mitch fosse il ragazzo che, ad ogni esibizione, mi abbandonava il mazzo di rose, anche se la cosa potesse sembrare del tutto impossibile.
Appartenevano a lui quei fiori meravigliosi, colorati dallo stesso tono dei suoi occhi piccoli ma penetranti? O forse mi considerava solo la sua piccola, ossia la sua minuscola gallinella dalle uova d’oro?
Cominciai a piangere, compassionata da tutti, compresa Priscilla che ostentò un’espressione intenerita. Nessuno seppe che gemetti perché Mitch mi abbracciò e abbandonò lì, in mezzo a tutte quelle persone, dicendo un semplice “Brava piccola” che si potrebbe benissimo ripetere ad un cagnolino che è stato ubbidiente. Cosa gli costava pronunciare “Sono fiero di te” o qualcos’altro di altrettanto sincero e profondo? Le lacrime che scorsero le mie guance rosse erano solo piene di rabbia e frustrazione. Volevo sentirmi dire da Mitch qualcosa di più e lo volevo a tutti i costi, ma quell’uomo continuò a fissare il vuoto e non si girò, neanche per un attimo, a scrutarmi.
 
Mitch era un uomo nella media: era poco più alto di me, ma possedeva spalle estese e un mento distinto; gli occhi azzurri contornavano il viso e i capelli castani chiari gli arrivavano alla nuca.
Chiunque l’avrebbe definito un uomo normale, un trentottenne per la precisione, con in capo una forte personalità, nonché una professionalità fuori dal comune. Lo definivo tenace come un lupo e furbo come una volpe ma anche posato e affascinante.
Portava sempre uno smoking che poteva essere nero, beige o azzurro, per non parlare delle cravatte che teneva, ogni giorno di colore e fantasia diversa.
Sapevo poco del suo passato: un po’ me lo raccontò lui; anche Priscilla mi aiutò ad accrescere la mia conoscenza sul suo conto:  era figlio unico, apparteneva alla famiglia Piece del New Jersey e a diciotto anni si iscrisse alla scuola militare: voleva rendere fiero suo padre, Louis Piece che ebbe un trapassato da tenente, durante la Seconda Guerra Mondiale. A ventiquattro anni lasciò l’accademia, alla ricerca di una promettente sorte, finché mi trovò, dopo svariati anni di randagio passati ad accalappiare lavoretti per gli U.S.A.
Sua madre Anila morì l’anno precedente e le cicatrici di Mitch si riaprivano, ogni tanto. Per quello lo capivo, tremendamente: la sofferenza lacerante e straziante che provai quando morì mia madre non lo dimenticherò mai e quando vedevo Mitch manifestare espressioni di amarezza, quel maledetto dolore che provai si ripresentava nuovamente, finendo per affliggermi, insieme a lui.
Sembravamo fatti della stessa pasta, ma questa teoria sembrava esistere solo nella mia immaginosa mente poiché tutti dicevano che Mitch poteva essere a modo mio padre, dato che avevamo diciotto anni di differenza.
Continuai a contemplarlo, dopo aver smesso di singhiozzare, essendo stata soccorsa da tutti che mi diedero un fazzoletto e una pacca affettuosa.
Ma quando capii di essere inascoltata, smisi di correre dietro a quella figura che non si voltava verso di me e decisi di guardare gli altri che mi mostrarono sinceramente interesse.


≈Angolo Scrittrice≈
Ringrazio tutti quelli che mi scrivono
!
 

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Capitolo 3
*** Ragionevolezza ***


Ragionevolezza
San Diego era senza alcun dubbio meravigliosa ed esotica, ma in mezzo a quei palazzi non riuscivo ad esalare la magia che si poteva respirare, in quella scintillante città che si affacciava sull’Oceano Pacifico, a causa della mia insormontabile inabilità nel scalare la salita delle mie preoccupazioni.
Continuavo ad immaginare un pubblico insoddisfatto e pronto a sputare veleno sul palco dove tentavo di danzare, con le corde vocali, sulla pista del pentagramma, nonostante il convincimento che si manifestò tre giorni addietro, durante quella esibizione.
 
Ricordo che a quindici anni, in un pomeriggio di Novembre, fui spedita in ospedale a causa di un attacco di panico insostenibile: mio padre non sapeva cosa fare e così chiamò un Taxi che mi inviò in quel palazzo bianco, popolato da omini in camice color latteo e puzza di disinfettante.
Mi fecero una flebo e, sbuffanti, mi mandarono a casa la sera stessa: dissero che l’ansia non era un sintomo abbastanza gravoso per essere mandati in clinica. Io invece, dissi loro che non ebbero capito proprio niente.
Presi la lametta che usava mio papà per tagliarsi la barba argentata e, dopo un sussulto indisponente, incominciai a percuoterla verso l’avambraccio interno, poco distante dal polso sinistro. Patii un dolore paragonabile al trafitto di mille lame taglienti, ma saggiai il sapore del sollievo.
Dopo qualche secondo ripresi conoscenza e, piangente, presi una benda e me la strinsi sulla ferita.
Mi ero punita e sfogai la mia depressione su quel povero arto superiore.
 
Iniziai a immaginare la gente che mi guardava durante i miei spettacoli barbugliare cose disgustanti nei miei confronti e la loro espressione comparabile a quella di un diavolo.
Non potevo sopportare tutta quella attenzione, tutta quella responsabilità. Non ci riuscivo: non era scritto nel mio DNA essere una persona piena di certezze e intrepidezza e me lo garantivo ogni qual volta mi osservavo, attraverso uno specchio.
L’ansia che si esibì cinque anni prima ritornò, come un colpo di scena, a causa dell’assenza temporanea: dovevo punirmi.
Era sera e la mia camera di hotel ospitava le tenebre notturne: non riuscivo a dormire. Dovevo farmi del male. Mi alzai ma inciampai, generando un tonfo chiassoso. Mi rialzai, mordendomi le labbra e, con affanno insaziabile mi guardai attorno, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa.
Non ricordo cosa mi frullò per la testa in quel momento e mi faccio una grande paura nel ripensarci.
Sul bancone della piccola cucina trovai un coltello: nell’istante in cui mi avvicinai, sentii una dolce brezza entrare dalla finestra, ma essa non riuscì ad arrestare il mio intento azzardato.
Presi l’arnese e lo osservai per qualche secondo: la mano tremava, come una foglia autunnale che tenta inutilmente di tenersi stretta al suo albero sebbene il vento scrosciante, mentre reggeva il manico del pugnale. Rivolsi la punta verso di me e iniziai a gemere e a sudare.
Ma finalmente, dopo pensieri assolutamente disumani e desideri contro natura, riafferrai la ragione.
Scoppiai a piangere senza pudore e mi lasciai scivolare sulla parete del bancone, finendo per accasciarmi vicino al tappeto.
Avvertii una vigorosa stretta circondarmi la vita, finché mi ritrovai in braccio a Mitch che, forse avendo sentito i rumori, mi sopraggiunse. 
Non proferì alcun che e mi poggiò sul letto, rimboccandomi le coperte, poi mi baciò la fronte e si sedette sulla branda. Lo guardavo come uno zombie: ero come intontita, ma fui felice di vederlo. A dire il vero, non aspettavo altro.
Le mie labbra, traballanti a causa del freddo della tarda serata, provarono a balbettare qualcosa, ma si limitarono a vacillare tutto il tempo, senza proferire alcun che.
“Tu sei pazza.” Ruppe il silenzio improvvisamente Mitch, posato sulle sue proprie gambe.
“Non capisci quello che ho ottenuto.” Mi feci coraggio a rispondere.
Mitch, ad occhi spalancati, si voltò verso di me, guardandomi con stupore, o forse con sbigottimento.
Inteso il suo torpore, continuai: “Ho ottenuto la tua attenzione.”
Finalmente riuscii a dirglielo: arrivai a sradicare ciò che mi tenni per giorni nel mio povero stomaco, vittima di squartamenti e nodi continui.
La silenziosità sembrava l’unica protagonista della scena, lasciando l’occhiata di Mitch che, con occhi azzurri, mi fissava con assoluto choc, susseguito da me che sostenevo in alto la testa, con orgoglio.
Un suono acuto piombò d’improvviso: Mitch mi tirò uno schiaffo.
Guardai il basso, massaggiandomi la guancia.
“Non devi fare la bambina per ricevere delle attenzioni. Ma ti rendi minimamente conto di quello che stavi per fare!? Sei una mocciosa viziata, ecco cosa!” sbraitò e se ne uscì dal vano, con passo violento.
 
E’ orrendo quando la gente non crede ad un tuo vero stato d’animo: è come se stessi affogando e la gente, invece che gettarti il salvagente, ti ridesse dietro, criticando la tua dote d’attore, lasciandoti sprofondare nell’Abisso della disperazione.
Dovevo riafferrare la mia ragionevolezza e continuare a camminare su quel percorso, anche senza di lui. Anche senza Mitch.
Mitch mi considerava una “mocciosa viziata” e mi riflesse tale anche prima di quella sera, ne ero pienamente certa.
 
Uno spicco di bagliore penetrò i miei occhi dormienti, finché essi si aprirono, irritati dal fulgore.
Mi alzai, notando la mia gatta che mi osservava e stiracchiai verso l’alto le braccia.
Infilai un grande pullover e dei pantaloni di jeans, quel che capitò. Il mio chiodo fisso era un altro.
San Diego mi aspettava. Che c’era di male nell’uscire e conoscerla?
Il sole prosperava sopra la grande città, ma il freddo invernale non ne voleva sapere di andarsene; camminai tra i palazzi, ammirando le bellezze di quella metropoli, sorridendo. Quella mattina ritrovai un po’ di pace.
Cominciai a studiare le persone che passavano per quella carreggiata: nessuno trovava il tempo di alzar il capo e guardare il cielo limpido e meraviglioso che voleva essere solo squadrato; erano troppo presi dalla vita.
Notando un uomo in giacca e cravatta, il volto di Mitch mi ricomparve nella mente, come un lampo a ciel sereno: rammentai il veleno che sputò quando mi diede della mocciosa viziata e di quello scappellotto doloroso e umiliante. Scossi la testa nella speranza di non pensarvi più.
“Tu sei Jamie Gilles, giusto?” sentii, inaspettatamente, una voce rauca e maschile.
Mi voltai, vedendo un giovane: egli mi sorrise e mi strinse la mano.
“Piacere, io sono Carter.”

Angolo scrittrice!
Salve lettori. Volevo precisare che la scena del taglio è molto generica, perché non ho mai provato una cosa simile, però so per quale motivo lo si fa, poiché ho la mamma che soffre di questo problema.
Non siate troppo critici! Grazie.

 

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