The Fear in Every Fight

di MartaJonas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Chapter 1: Thomas ***
Capitolo 3: *** Chapter 2: Family ***
Capitolo 4: *** Chapter 3: Nicholas ***
Capitolo 5: *** Chapter 4: The Jonas Brothers ***
Capitolo 6: *** Chapter 5: The Letter ***
Capitolo 7: *** Chapter 6: I'm afraid. ***
Capitolo 8: *** Chapter 7: Someone ***



Capitolo 1
*** Prologue ***




The Fear in Every Fight

 

Prologue
 
Il vento sibilava tra le case malridotte di New York, creando un’atmosfera piuttosto tetra e quasi paurosa in quel parcheggio nel cuore del Bronx. Le luci dei lampioni erano fioche, e una lampadina su cinque era fulminata, mentre una soltanto – perché ormai usurata dal tempo – manifestava la sua luce ad intermittenza, come per aumentare la tensione e la minacciosità di quel posto.
D’improvviso un treno passò a tutta velocità sulle rotaie poco distanti da quel luogo agghiacciante. Quello stridio che provocava quell’ammasso di ferraglia faceva da sottofondo a quel che stava accadendo proprio sotto a quella luce irregolare.
Una figura scura, sotto un cappello con visiera, era appoggiata al palo della luce, con le mani in tasca. Quello era chiaramente un uomo robusto che indossava una felpa larga e lunga, e dei pantaloni che gli rimanevano soltanto per poco sopra il ginocchio e ciò testimoniava il fatto che fossero di sicuro di qualche taglia in più della sua. Masticava una gomma, e stava fissando un’altra sagoma scura che stava pian piano avvicinandosi con passo ovattato ma deciso. Questa era di certo un più bassa della prima, più giovane e magra. Era un ragazzo, vestito in giacca di pelle nera, jeans e maglietta bianca. Sembrava essere abituato a quel luogo: procedeva senza guardarsi indietro o esitare.
Quando quest’ultimo giunse davanti al primo, del treno ormai si udiva soltanto un fischio lontano.
-Ehi, amico. – disse il primo provocando un mezzo sorriso all’ultimo arrivato, che lo chiamò, a sua volta, con lo stesso appellativo, dandogli una stretta di mano.
-Tutto bene? Come è andata la scorsa volta? Hai provato le novità?- chiese l’uomo al ragazzo, che subito annuì, mettendosi le mani sui fianchi.
-Ho provato eccome, ed erano una bomba, cazzo. Sono andato fottutamente fuori di testa. Ho bisogno ancora di quella cazzo di roba, sono qui per questo. Magari anche una doppia dose. – esclamò il giovane, gesticolando come un pazzo, e facendo sorridere l’altro.
-Subito amico, è roba forte, non è vero? – chiese l’uomo infilando una mano nella sua tasca destra dei jeans fin troppo scesi, e estraendo da essa due bustine: una con della polvere bianca e l’altra con della pasticche azzurre. L’altro estrasse invece dei verdoni dalla tasca dei pantaloni e in un gesto furtivo e veloce, lo scambio avvenne senza alcun problema.
-Eccome se è roba forte. – rispose il ragazzo, annuendo di nuovo. – Allora, io vado Kip. Ci si vede!
Kip non era il vero nome di quell’uomo, era di certo il suo pseudonimo: non poteva permettersi che la sua vera identità venisse svelata.
-Sei tu che ti devi far vedere Joey, sai sempre dove trovarmi! – rispose l’uomo, provocando un mezzo sorriso al ragazzo, che si stava allontanando sempre di più.
Si riuscì a scorgere fino a quando non entrò nell’oscurità di quella strada, fin troppo buia per riuscire a vedere chi si fosse addentrato in essa. 









Buonasera gente!
Non riesco a smettere di scrivere. Non ce la faccio proprio. Vado in crisi d'astinenza. Per questo mi dovrete sopportare ancora una volta. Poi sento la mancanza della mia vecchia fan fictio, non potevo stare a lungo senza scrivere nulla. ç.ç
Lo so che è corto, ma tranquilli, è soltanto il prologo!
In ogni modo saranno trattate tematiche delicate, ma assolutamente non penso che tutto ciò avvenga/sia avvenuto/potrebbe avvenire nella realtà, infatti l'ho aggiunta nelle categorie AU e What if?. 
Spero di ricevere pareri in merito, positivi o negativi che siano, mi farebbe davvero tanto piacere!
Per qualunque cosa, mi potete contattare 24 ore su 24 su twitter
Un bacione grande, 
Marta <3

 

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Capitolo 2
*** Chapter 1: Thomas ***




Chapter 1

 

Thomas

 

 

 

20 months later

 

Il ragazzo camminava lungo quel corridoio di parquet, continuando a tenere lo sguardo a terra. Diede un fugace sguardo fuori dalla finestra, e notò come piccole gocce d’acqua cadessero incessanti sul vetro. Odiava la pioggia, o almeno non la amava, non più.

Anni prima considerava un temporale qualcosa di romantico, ora quasi lo temeva. Ora quando il cielo si colorava di grigio, si incupiva anche lui. Gli venivano in mente troppi ricordi, troppe sensazioni, troppe lacrime. Era come se ogni volta che piovesse, i ricordi riaffiorassero tutti in una volta.

Il giovane si continuava a chiedere perché continuavano a portarlo lì. Non ce ne era motivo, tanto non avrebbe mai spiccicato una parola. Non parlava davvero con qualcuno da due anni e mezzo, e di sicuro non avrebbe cominciato a raccontare della sua vita a uno sconosciuto.

Quando entrò nella stanza, si mise a sedere sul lettino dei pazienti senza neanche guardare il dottore che lo stava fissando. I suoi occhi ambrati passarono da analizzare le sue mani che si incastravano tra loro, al guardare fuori dalla finestra. Le sue scure e folte sopracciglia si abbassarono di nuovo, quando il rimorso ricominciò a corroderlo di nuovo. Si bagnò le labbra carnose e rosee con la lingua, per evitare di far entrare troppo nel profondo quei pensieri. Si passò una mano tra i capelli corvini sistemandoseli indietro. Fece un sospiro profondo.

-Joseph Jonas – il dottore in piedi affianco a lui pronunciò il suo nome. Il ragazzo gli concesse un rapido sguardo. L’uomo si sfilò gli occhiali da vista e li poggiò sulla sua scrivania di mogano, sedendosi poi su una poltrona accanto al lettino del ragazzo.

-Allora Joseph, vuoi raccontarmi qualcosa? – chiese il dottore, che secondo la targhetta che aveva attaccata al taschino della camicia a righe, si chiamava Thomas Mason.

Joe scosse la testa, continuando a tenere gli occhi puntati sulle gocce d’acqua che cadevano dal cielo. Chiuse gli occhi.

 

Il cielo era scuro a Los Angeles in quella fredda notte di metà dicembre. Joseph e suo fratello erano al di fuori della discoteca in cui avevano trascorso la serata. Nel momento in cui uscirono da quel locale delle gocce ghiacciate cominciarono a scendere dal cielo. Joe si alzò il cappuccio del cappotto che indossava, stessa cosa fece l’altro.

-Ma l’hai vista quella biondina come ti guardava?! – chiese Joseph al fratello.

-Ma che dici?Ti stava per saltare addosso a te quando sei andando vicino al bancone per prendere qualcosa da bere! – rispose il ragazzo, sorridendo al fratello.

Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata, dopo essersi rifugiati in macchina, Joseph al volante, l’altro affianco a lui.

 

Riaprì gli occhi, e scosse la testa dicendo che non avrebbe dovuto proseguire a pensare a quella sera.

-Tutto a posto Joe? – chiese il dottor Mason vedendo il ragazzo particolarmente turbato. Joe annuì. Lo psicologo sospirò profondamente, e appoggiò la cartellina che aveva in mano per terra, accanto alla sua poltrona.

-Lo so cosa stai pensando Joseph. Lo so che stai pensando che non parli con qualcuno di te da una vita ormai, e che di sicuro non comincerai a parlare con uno strizzacervelli, che cercherà di psicoanalizzarsi come se tu fossi un malato mentale. È la quinta volta che entri in questo studio e non dici una parola, per te non fa differenza parlare o meno, tanto puoi sprecare tutti i soldi che vuoi, ne hai in abbondanza, ma per me no, per me ogni volta è una sconfitta. – si sfogò lo psicologo con un tono che non sembrava né da rimprovero, né da delusione, sembrava un semplice pensiero filtrato dalla voce. Ma sembrava vero. I suoi gesti, la sua voce, sembravano comunicare che tutto ciò che gli stava dicendo lo avesse davvero preoccupato per giorni, tanto che catturarono lo sguardo di Joseph, che cominciò a fissarlo.

Thomas era un uomo sulla quarantina d’anni, che però dimostrava molti anni di meno. Sembrava un trentenne per la fantastica forma in cui era. Aveva fatto crescere la barba, i capelli erano biondo cenere, e i suoi occhi azzurri sembravano colpire fin dentro all’anima ogni volta che si incontrava il suo sguardo.

-Non l’ho mi fatto prima d’ora, Joseph. Ma visto che il massimo che hai fatto con me è stato rispondermi a monosillabi, allora parlerò io di me. – sospirò, cercando di sciogliere quel nodo alla gola che gli si era appena formato – Mi sono sposato all’età di 22 anni con la donna che era stata la mia ragazza per i 7 anni precedenti. Avevamo la stessa età. C’era una sintonia bellissima tra noi, quasi magica, era uno di quei rapporti che tutti invidiano e ancora non riesco a vedere in nessuna delle coppie che conosco. Quando si crea quella sintonia, in cui il litigio non supera mezz’ora, e l’umore dell’uno è l’umore dell’altra e viceversa, significa che con quella persona resterai per il resto della tua vita. Lei era la cosa più bella che fosse mai stata mia. – A pronunciare quelle parole a quell’uomo vennero gli occhi lucidi, e le parole facevano sempre più fatica a uscire dalla sua bocca – Un tumore al seno me l’ha portata via quando aveva 30 anni. Sono entrato in depressione. Ho cominciato a bere sperando di dimenticare per un po’ di ore, non riuscendo a spiegarmi perché lo stesso Dio che pregavamo insieme ogni giorno ci avesse fatto questo, senza riuscire a darmi una risposta. In poco tempo sono diventato un alcolizzato, e mi hanno rinchiuso in un centro di riabilitazione. Ero nella tua stessa situazione. L’alcool è una droga, Joseph, quella che tutti sottovalutano, ma che provoca più morti di tutte le altre. Il centro riabilitazione metteva a disposizione dei pazienti anche uno psicologo. Ecco, quell’uomo mi ha salvato la vita. Se sono ancora qui è merito suo. Non credo mi sarei mai ripreso se quell’uomo non mi avesse dato la forza necessaria per andare avanti, se non mi avesse dato qualcosa in cui credere, se non mi avesse posto un obbiettivo. Quando sono uscito da lì mi sono iscritto a psicologia, e adesso, come puoi vedere, sono qui. Sogno di salvare vite, a modo mio, proprio come quel dottore ha fatto con la mia. Perché il 90% del problema, della dipendenza è qui dentro – disse il dottor Mason, indicando la sua testa – se riusciamo a domare cosa c’è qui dentro, siamo capaci di ogni cosa. Ora sono sposato da due anni, e ho un bambino di appena 9 mesi. Ho vinto la mia battaglia, e vorrei che anche tu la vincessi. Voglio soltanto dirti che non sei da solo, Joseph, che uno psicologo non è uno strizzacervelli , è qualcuno che può aiutarti davvero, che può essere tuo amico.

Joseph non riuscì a trovare nessuna vena di falsità in quelle parole. Non erano un artificio che utilizzavano gli psicologi per far si che il paziente cominci a parlare, era una pura e semplice storia di vita. Era dettagliata, era piena di sentimenti, era vera.

Sono le cose che vengono dal cuore, le cose vere che colpiscono le persone. Thomas lo sapeva, e anche Joseph lo sapeva bene, e per quel motivo il ragazzo pronunciò per la prima volta delle parole che non fossero monosillabi.

-Non chiamarmi Joseph, chiamami Joe. – disse il ragazzo bianco in viso e con delle occhiaie nere sotto gli occhi. Era stanco, era spossato. Stava male, non solo fisicamente. Aveva bisogno di qualcuno, aveva bisogno di un amico, di un’ancora di salvezza, adesso, che, solo due persone della sua famiglia gli rivolgevano la parola, era ancora più solo.

Quando il dottore sentì la voce del giovane uomo si aprì in un sorriso.

-Ti chiamerò Joe, solo se tu mi chiamerai Tom – gli rispose rivolgendogli si nuovo un sorriso.

-Affare fatto, Tom. – rispose Joe. Forse quel Thomas era davvero una persona speciale, forse gli avrebbe davvero salvato la vita, o almeno, per ora, gli piaceva pensarlo.






Buona sera a tutti!
Bene, sappiate che mi sono portata il pc in vacanza solo per voi, poi dite che non sono brava! u.u
E sono capitata in un hotel - e non solo quello - bellissimo, quindi non so quanto sarà presente nei prossimi 4-5 giorni!
Comunque, ecco a voi il primo capitolo! Che ne dite? Risciute a intuire qualcos'altro oltre a ciò che c'è già scritto? Fatemi sapere!
Volevo anche ringraziarvi tutti per le rencesioni che avete lasciato nel prologo, grazie mille, davvero!
Un bacione grande grande!
Marta <3

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Capitolo 3
*** Chapter 2: Family ***




Chapter 2

 

Family

 
 
Erano trascorsi esattamente 16 mesi e 3 giorni da quando era stato rinchiuso lì dentro. L’avevano portato lì il 5 gennaio del 2014. Ricordava poco di quel giorno. L’unica cosa che ricordava, prima di chiudere gli occhi e ritrovarsi in quella struttura che odiava tanto, era polvere bianca, fin troppa polvere bianca. Quando si era risvegliato, un uomo sulla cinquantina lo stava fissando con occhi attenti, e proprio accanto a questo era comparsa sua madre che sembrava fin troppo stanca, ansiosa e impaurita da quella situazione. Probabilmente non doveva avere proprio un bell’aspetto.
Un centro di disintossicazione non era mai un bel luogo in cui stare, soprattutto quando metà della propria famiglia non vuole neanche più sentire nominare la parola “Joe”. È ancora più dura quando si rimane solo. È ancora più difficile quando si entra in crisi, non lasciarsi semplicemente morire.
Ormai Joe non riusciva più a contare le volte in cui si era chiesto a chi importasse di lui ormai, per chi la sua assenza o la sua presenza fosse davvero importate. Sarebbe dovuto morire, quel Dio avrebbe dovuto prendere lui, e non qualcun altro.
Erano state soltanto due le persone che non gli avevano mai voltato le spalle: sua madre Denise, e la moglie di suo fratello Kevin, Danielle. Con il resto della famiglia aveva perso ogni contatto. Era stato incolpato da tutti gli altri, era stato condannato dal resto della sua famiglia, per il suo comportamento, per le sue azioni. Non parlava da due anni con suo fratello Kevin, e suo padre non lo aveva neanche più guardato in faccia subito dopo lo scioglimento della band.
A quel punto poteva affermare che quella famiglia che aveva creduto che gli volesse bene, non aveva mai provato nessun tipo di affetto nei suoi confronti.
Come ogni giovedì, sua madre e sua cognata erano lì, sedute a quel tavolo nella sala dei ricevimenti, ad aspettarlo. Entrambe gli sorrisero e si alzarono ad abbracciarlo, quando lo videro entrare nella stanza. Il sole entrava nella stanza tramite i vetri delle finestre aperte, illuminando tutta la camera di luce viva.
Danielle era bellissima come sempre, e Joseph l’aveva sempre ammirata. Era sempre stata una ragazza da principi saldi, e dal cuore d’oro. Tanto da aver affrontato suo marito a testa alta per andare a trovare Joseph ogni giovedì, alla stessa ora, in tutti i 16 mesi trascorsi, soltanto perché lo riteneva giusto, perché non voleva abbandonarlo, perché tutti possono fare uno sbaglio, perché voleva tanto bene a quel ragazzo che era diventato praticamente un fratello per lei.
La sua cara mamma Denise gli si presentava con un bel sorriso sulle labbra. Lei era sempre stata dalla parte del figlio, anche quando tutti gli andavano contro, anche quando tutta la famiglia stava attraversando uno dei momenti peggiori, lei l’aveva sempre difeso. Era suo figlio, e anche se aveva fatto degli errori, gli avrebbe sempre voluto bene.
Dopo essersi seduti al tavolo rotondo, Danielle prese la parola.
-Ti vedo in forma, Joe. Sicuramente più in forma della settimana scorsa! – disse la ragazza sorridendogli. – Quando dovrebbero dimetterti?
La notte tra il mercoledì e il giovedì mattina della settimana prima Joe non aveva chiuso occhio, quindi oltre alle sue solite condizioni fisiche, delle occhiaie nere gli erano comparse sul viso e della spossatezza atroce l’aveva colpito.
-Il 5 luglio, se non ho altre crisi. Devo trascorrere almeno un anno e mezzo qui dentro, con tutte le cure e il resto, poi se non ho problemi mi possono rilasciare. – disse il giovane. C’era una domanda che il giorno prima si era ripromesso di fare loro, anzi, era qualcosa che si riprometteva sempre il mercoledì sera, ma che poi il giorno dopo non aveva mai il coraggio di fare.
-E stai procedendo bene con le cure? Ti sei sentito male negli ultimi giorni? – gli chiese sua madre, mentre gli afferrava la mano sul tavolo.
-Tutto bene, ormai credo di essermi stabilizzato. – disse il moro. I primi mesi in quel centro di disintossicazione per Joseph erano stati l’inferno. Aveva crisi d’astinenza più volte al giorno, aveva vomito, crisi di nervosismo, spasmi muscolari, arresti respiratori, convulsioni, allucinazioni. Credette di essere stato sul punto di morire due centinaia di volte. Ma ogni volta il suo corpo aveva reagito, aveva resistito. Era come se il suo stesso corpo disubbidisse alla sua stessa volontà di morire, di chiudere gli occhi per sempre e non respirare più. Era come un’eterna lotta, tra il suo corpo e la sua anima.
Ormai, però, di tutto quel periodo gli restavano dei brutti sogni, e dei momenti di esagerata agitazione. Ora, fisicamente stava quasi a posto, ma psicologicamente non stava affatto bene; e questo era un problema, un grande problema. Perché bastava proco per rientrare in quel circolo vizioso che è la droga, quando il problema psicologico non è superato.
-Come stanno gli altri? – Joseph non seppe come ebbe il coraggio di fare quella domanda. Era sempre stato terrorizzato dalla risposta, dal fatto che fosse davvero stato ripudiato o peggio dimenticato. – Come stanno papà, Kevin e Frankie?
Frankie era il figlio più piccolo di Denise e Paul, i genitori di Joe.
-Frankie sono mesi che chiede di te. Dice che vuole venire a trovarti, che non gli importa di come stai o che potrebbe impressionarsi, vuole solo vederti.- disse sua madre, e  comparse un sorriso sul viso di Joe.
-Lascialo venire. Giovedì prossimo lascialo venire qui. – rispose sorridendo alla madre.
Joe aveva imposto a Dani e Denise di non far venire nessuno a trovarlo dal giorno in cui tutta la famiglia lo era andato a trovare. Aveva appena trascorso una settimana lì dentro, quando tutti si presentarono, con sguardi disprezzanti, frasi pungenti e lo avevano trattato come un malato, non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello mentale. Dal quel momento aveva permesso solo a quelle due donne di venirlo a trovare, soprattutto se tutti gli altri si dovevano comportare in quel modo.
-Kevin chiede poco di te, ogni tanto ne parlo io, allora lui chiede informazioni su come stai. – aggiunse Danielle.
-Tuo padre non chiede mai di te, e quando gliene parlo lui cambia argomento. Non sai quante volte abbiamo litigato per questo motivo, io non lo capisco – disse sconsolata la madre Denise.
Beh, almeno non lo avevano dimenticato, o almeno il fratello chiedeva a volte di lui. Era già meglio di quanto avesse immaginato.
-Non devi litigarci, mamma. Ha ragione di non volerne più sapere di me. – la riprese il figlio.
-No, non è affatto vero. Lui è tuo padre e tutti possono sbagliare. – disse la madre.
Joe alzò le spalle sapendo che qualunque cosa avesse detto in contrario la madre lo avrebbe sostenuto, anche se lui stesso pensava di essere indifendibile. Era colpa sua, solo e soltanto colpa sua








Buonasera!
Sono tornata proprio ieri dalla bellissima Puglia e già mi manca ç.ç come faccio?
Lo so, non vi interessano le mie lamentele ahahahahah
In ogni modo, ecco a voi il secondo capitolo. Lo so, non è lungo. Però l'antefatto si sta delineando. 
Credo sia chiaro,ma lo dico comunque: NON penso assolutamente che tutto ciò possa avvenire/sia avvenuto/ potrebbe avvenire nella realtà. Ricordo sempre che è una fan fiction, quindi non c'è nulla di vero. 
In ogni modo, già le cose nel prossimo capitolo evoleranno. 
Comunque, ho bisogno di alcuni nomi femminili inglesi per questa storia, me ne suggerite qualcuno che vi piace? Perché ci impiego anni a sceglierne! ahahahahah Davvero grazie se lo farete!
Ancora un grazie enorme a chi recensisce/ aggiunge la storia nelle preferite/ seguite/ ricordate!
Davvero, grazie mille a tutte, un bacione, 
Marta <3

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Capitolo 4
*** Chapter 3: Nicholas ***




 
Chapter 3
 
Nicholas
 

 
 
Joseph accese l’automobile, dopo essersi tirato indietro i capelli bagnati. Il fratello gli toccò il braccio per richiamare la sua attenzione.
-Non credi che dovremmo aspettare Derick? – chiese il ragazzo all’altro.
-Ho bevuto poco stasera, sono in grado di guidare, tranquillo. – gli rispose mostrandogli un sorriso.
-Beh giusto, eri troppo impegnato con quella ragazza alta il doppio di te per bere, capisco – disse il fratello con sguardo ammiccante facendo ridere Joe, che sfrecciò sull’asfalto bagnato. Era in corso un vero e proprio temporale. Le palme di Los Angeles si piegavano al forte soffio del vento, e praticamente ogni cosa veniva ricoperta d’acqua, bagnata, colpita da gocce di pioggia, incessantemente.
Si fermarono a un incrocio, a due centinaia di metri da casa di Joseph, dove soggiornava anche il fratello per qualche girono. Il semaforo era rosso, così si fermarono. Joseph si girò a guardare il giovane uomo che aveva al suo fianco.
Non era più il suo piccolo e docile fratellino, ormai aveva i suoi 21 anni, aveva la barba, ed era addirittura diventato più bello di lui, anche se non gliel’avrebbe mai detto apertamente. I riccioli non c’erano più, e i capelli erano più corti ed erano stati acconciati perfettamente. Così per un attimo si ritrovò a pensare quanto fosse orgoglioso di suo fratello, di chi fosse diventato in quegli anni, di tutto ciò che aveva fatto. Si ritrovò a sorridere mentre lo guardava scrivere un messaggio a una sua amica.
Notò che il semaforo era diventato verde,così ingranò la prima, e cominciò ad avanzare con la macchina. Intravide una luce lontana provocata da due fari di un camion alla sua destra, ma non ci fece molto caso, solo un attimo dopo sentì lo scontro tra quel mezzo che andava a tutta velocità e la sua macchina. Da quel momento non vide né sentì molto: udì in grido, provò un dolore lancinante che non sapeva precisamente da quale punto del corpo provenisse, vide sangue, tanto sangue, troppo sangue, e quello non era soltanto il suo sangue.
 
Il ragazzo aveva cominciato a respirare rapidamente e affannosamente, si agitava sul suo letto quando l’infermiera entrò nella sua camera perché chiamata dal compagno di stanza del giovane. Era in piena notte, aveva fatto un altro dei suoi soliti incubi. I suoi però non erano solo brutti sogni, ma ricordi. Ma questo nessuno lo sapeva.
Era in iperventilazione, il suo respiro era troppo rapido e superficiale. Era agitato, lo si poteva chiaramente vedere dai suoi occhi, dal continuo stato d’ansia in cui si presentava, dalle occhiaie nere che gli cerchiavano gli occhi, dalla continua richiesta d’aiuto che inviava ogni qual volta qualcuno lo guardasse negli occhi.
L’infermiera gli diede un sacchetto di carta in cui respirare, per aumentare il livello di anidride carbonica nel sangue, in quel momento troppo bassa.
-Ehi, ehi, Joe, dai stai calmo, era solo un sogno. – disse la giovane donna. Ormai lo chiamava per nome, erano quasi diventati “amici”, sempre se due ragazzi che ogni tanto scambiano quattro parole sul tempo, e sulla condizione del giovane possano definirsi così.
Era una ragazza castana, dai gradi occhi blu, magra e costantemente sorridente. Forse era stato proprio quel sorriso che aveva contribuito a far uscire di bocca qualche parola a Joe. Gli erano sempre piaciute le persone sorridenti, quelle che hanno un sorriso stampato in viso senza un preciso motivo, forse solo perché sono al mondo e di questo considerano solo le cose positive.
La ragazza, che aveva fatto mettere a sedere sul letto il paziente, gli si era seduta accanto e cercava di tranquillizzarlo: gli accarezzava la schiena, gli rivolgeva un sorriso sincero, gli sussurrava parole gentili.
In poco tempo Joseph tornò ad avere un respiro regolare, e l’infermiera di nome Elizabeth, si alzò in piedi, si assicurò che Joe tornasse a dormire, e gli sorrise.
-Per qualunque cosa, lo sai che basta premere il pulsante del campanello. Sarò in un attimo da te, ok?  - gli disse la ragazza sempre con tono moderato e gentile, e con un mezzo sorriso sulle labbra.
-Va bene. Grazie per tutto. – rispose Joe, davvero grato per ciò che quella ragazza faceva per lui ogni giorno.
Quando chiuse gli occhi temette di sognare di nuovo, di fare incubi, che quei ricordi gli si riproponessero di nuovo; così riaprì gli occhi, e come accadeva per la maggior parte delle notti lì dentro non riuscì più a dormire.
 
*
 
Era un caldo venerdì di metà maggio quando, di nuovo faccia a faccia con i dottor Mason, Joseph cominciò a parlare di sua spontanea volontà. Neanche Joe capì fino in fondo perché lo stava facendo, forse aveva davvero bisogno di qualcuno che lo ascoltasse, che lo incoraggiasse almeno un po’.
-Si chiamava Nicholas. Mio fratello, intendo. Era di tre anni più giovane di me. Era un bel ragazzo. Era diabetico, ma riusciva a restare in forma. È sempre stato il mio migliore amico, il mio confidente, l’unica persona da cui andavo per qualsiasi problema. Ricordo che quando era ragazzo si preoccupava del fatto che non gli crescesse la barba, e si chiedesse se mai ne avrebbe avuta. – a Joseph cominciarono a diventare gli occhi lucidi, ma nello stesso momento cercava di sorridere a quei ricordi, mentre il dottor Mason cominciava davvero a interessarsi a quel che stava dicendo – Aveva talento nella musica come nessun altro. Riusciva a scrivere canzoni in mezz’ora e a farle diventare hit mondiali. Si grattava rapidamente il naso e guardava in basso ogni volta che era imbarazzato, e io mi divertivo a farlo diventare rosso. Ha sempre rimorchiato più di me, anche se tutti hanno sempre creduto il contrario. So cose di lui che non ha mai rivelato a nessun’altro, e nessuno mai saprà. E la cosa era reciproca. Era davvero diverso da me, ma è sempre stato il mio migliore amico. Era divertente, anche se non sapeva raccontare le barzellette come so fare io. È stato il ragazzo con più forza d’animo che io abbia mai conosciuto. E io …  - i suoi occhi si riempirono di lacrime – io l’ho ucciso. – si fermò un attimo, per cercare di sciogliere quel nodo che aveva alla gola – Eravamo appena usciti fuori da una discoteca, era cominciato a piovere, faceva freddo, era dicembre. – il respiro del ragazzo cominciò a farsi sempre più veloce e ad agitarsi – Ho insistito a guidare io stesso, nonostante avessi bevuto un paio di birre. Ci siamo fermati ad un semaforo. Quando è scattato il verde ho fatto avanzare la macchia, e un camion ci ha investiti. Io sono qui, vivo e vegeto, invece lui ha esalato il suo ultimo respiro tra le mie braccia, quella stessa sera, sull’asfalto bagnato, sotto a una pioggia torrenziale.
Le lacrime sulle guance di quel ragazzo ormai non riuscivano più a fermarsi. L’una seguiva l’altra, incessantemente, instancabilmente.
Joseph continuò a piangere mentre il dottor Mason gli diceva che non era colpa sua, che quel camion si sarebbe dovuto fermare, mentre Thomas gli ripeteva che i migliori se ne vanno per primi,e che doveva riuscire a superare quel trauma, perché il fratello era in un posto migliore in quel momento.
Ogni volta che ripensava a quel giorno cominciava a piangere finché le lacrime che aveva in corpo non fossero terminate, ora che l’aveva raccontato sembrava chiuso nel suo mondo, sentiva ogni voce ovattata, ogni rumore attutito, ogni immagine sfocata, mentre si materializzava davanti ai suoi occhi il ricordo del viso di suo fratello Nicholas, il suo piccolo e dolce Nick.






Buonasera!
Allora, probabilmente mi vorrete ammazzare, perché ho ucciso Nicholas. Ma avete ragione, non posso mica darvi torto!
In ogni modo, spero che vi possa piacere anche se è estremamente triste come cosa. 
Se avevate già intuito qualcosa, beh, come avete notato Nick era l'unico che mancava all'appello!
Fatemi sapere che ne pensate, e grazie ancora per tutto il supporto! :)
Un bacione, 
Marta <3
                                                                                                            

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Capitolo 5
*** Chapter 4: The Jonas Brothers ***




Chapter 4

 
The Jonas Brothers

 
 
Quando Joseph aprì gli occhi vide il vetro del parabrezza a pezzi, e sentì un dolore insopportabile al braccio. Guardò alla sua destra per vedere come stesse suo fratello. Lo sportello dell’auto da quella parte praticamente non esisteva più, era stato accartocciato dal camion in piena velocità, come una mano riesce a fare con un foglio di carta velina.
Suo fratello Nicholas giaceva sull’asfalto bagnato, gli unici suoi arti che rimanevano sull’auto erano le gambe.
Fuori continuava a piovere a dirotto. Incessantemente. Qualche uomo guardava da lontano l’accaduto, qualcun altro era al cellulare e chiamava l’ambulanza.
Joe guardò meglio suo fratello, e si accorse che aveva perso fin troppo sangue. Sembrava quasi non respirare, e anche dopo aver gridato il suo nome non si era mosso di un millimetro. Così scosse la chiusura della cintura di sicurezza, per togliersela il più velocemente possibile, e si trascinò fuori dall’autovettura. Il braccio non era l’unica parte del corpo in cui provava dolori lancinanti, ma era sofferente e ferito praticamente dappertutto, tanto da zoppicare per una fitta alla caviglia destra. Oltre alla pioggia che cadeva decisa e scrosciante, c’era il vento che gliela direzionava proprio nel senso opposto al quale stava tentando di procedere.
Quando finalmente riuscì a giungere da suo fratello Nick, si lasciò cadere a sedere per terra, sull’asfalto bagnato, e prese sulle sue gambe il viso del ragazzo fin troppo giovane, fin troppo bello, fin troppo retto per morire.
-Nick! Nick! Nicholas! Dai, andiamo svegliati! – gli gridò Joe, mentre lo scuoteva con vigore, mentre le sue lacrime si confondevano con le gocce di pioggia.
Titubò prima di appoggiare al collo del fratello l’indice e il medio, chiedendosi se volesse davvero sapere la risposta. Ma poi lo fece e sentì un debole battito cardiaco, che continuava a tenerlo in vita. Joseph si accorse che Nick aveva battuto la testa, e aveva perso fin troppo sangue dall’addome, a causa di un pezzo di sportello che si era andato a scontrare con il suo corpo e lo aveva trafitto passandolo da una parte all’altra.
Con una forza incredibile, Nick riuscì ad aprire gli occhi e a guardare in quelli del fratello.
-Joe, ti voglio bene. Dì a mamma, a papà, a Kevin, a Frankie, a Dani, a tutta la famiglia che voglio bene a tutti loro. Promettimelo, va bene? – ogni parola pronunciata, sembrava per lui una sofferenza infinita. C’era dolore in ogni sillaba, ma Nicholas non avrebbe mai potuto evitare di pronunciare quelle parole.
-No, Nick, tu non morirai, non morirai. – Joe piangeva disperatamente mentre gli ripeteva quelle frasi. Sembravano quasi non notare la pioggia torrenziale sotto la quale erano.
-Sì, invece. Promettimelo. – la sua voce era decisa, anche se ormai stanca. Stava morendo davvero,la luce in quei suoi occhi castani stava per spegnersi.
-Te lo prometto. Ti voglio tanto bene anch’io, Nick. – Joseph piangeva senza sosta quando, subito dopo aver pronunciato quella frase, gli occhi di suo fratello si chiusero per sempre.
Joe strinse a sé il corpo senza vita del ragazzo, scoppiando in un pianto disperatissimo.
Il cuore del fratello smise di battere, Joseph continuò a piangere, la pioggia aumentò ancora di più la sua intensità.
Nicholas,suo fratello, il suo migliore amico, il suo amico fidato ormai non c’era più, ed era stata solo colpa sua, soltanto colpa sua.
 
Joseph si svegliò nel bel mezzo della notte. Il cuore gli batteva forte, era l’unico rumore che riuscisse a sentire, ed era il suono che continuava a farlo sentire in colpa ogni santo giorno da quel 12 dicembre 2013, il giorno che continuava a sognare, a ricordare.
Provò a chiudere gli occhi, ma non riuscì a tenerli serrati per più di quattro secondi. Si alzò a sedere sul letto, e poi scese da esso. Uscì dalla camera, inoltrandosi nel corridoio. Le sue pantofole rosse scricchiolavano sul parquet che rivestiva il pavimento, provocando un lieve rumore, che però in tutto quel silenzio sembrava particolarmente forte.
Le luci erano fioche e giallastre, e illuminavano con un debole bagliore tutto il lungo corridoio. Le ampie pareti bianche erano intervallate da delle porte in legno che segnavano le entrate in ognuna delle camere.
Quello era uno dei centri di recupero più importanti e funzionali degli stati uniti, si trovava a Los Angeles, ma sembrava esser in mezzo al nulla, come se fosse un carcere. Era inutile anche solo pensare di scappare da lì dentro. I soldi a lui e alla sua famiglia non erano mai mancati, quindi non era un particolare problema pagare la quota settimanale. Visto che doveva rientrare in forma, tanto vale che lo facesse per bene. Questo era quello che aveva risposto sua madre alla sua domanda sul perché pagare 10 mila dollari alla settimana per farlo restare in quel posto.
A Joseph invece non importava neanche arrivare a fine giornata ormai. Aveva smesso di vivere da quasi tre anni e mezzo ormai. Si limitava a sopravvivere, a chiudere gli occhi ogni sera con un vago desiderio di non riaprirli più. Per lui sarebbe stato più facile, più semplice di affrontare tutto ciò a cui doveva adempiere.
Decise di mettersi a sedere su una delle tante sedie di legno in corridoio, e magari di aspettare l’arrivo della luce del giorno da lì. Tanto non sarebbe riuscito ad addormentarsi di nuovo.
Cominciò a ricordare, a rimembrare tutto quello che lui e suo fratello Nicholas avevano attraversato insieme. Ogni volta che tentava di ritrovare il momento in cui entrambi fossero al culmine della felici vedeva lui e i suoi fratelli davanti a una folla di fan. Quello era il loro lavoro, era ciò che amavano fare da sempre, e le loro fan erano sempre rimaste lì per loro. I Jonas Brothers non sarebbero mai stati dimenticati, questo Joe lo sapeva per certo, e anche Nicholas e Kevin ne erano coscienti. Ricordò quei giorni felici, e subito dopo pensò a come si fossero conclusi: Nicholas morì e la band insieme lui. Sospirò abbassando lo sguardo.
Joe sentì il rumore di passi che provenivano dalla sua destra e continuavano ad avvicinarsi a lui, così si girò verso quella direzione. Vide Elizabeth, l’infermiera che si occupava principalmente di quella zona di edificio, che si dirigeva velocemente verso di lui. Si fermò proprio davanti ai suoi occhi, e lo fissò chiaramente agitata.
Quella ragazza doveva avere più o meno la sua età, i suoi capelli castani e mossi le ricadevano sulle spalle. I suoi occhi erano così azzurri che potevano far invidia al cielo. Gli stava sorridendo, mentre sulle guance si stavano cominciando a formare delle fossette. Non l’aveva mai guardata davvero prima d’allora, ma in quel momento, con le mani ai fianchi e un sorriso stampato in viso, era impossibile non notarla.
-Mi hai fatto prendere uno spavento! – disse la ragazza sedendosi accanto a lui. Joe alzò le sopracciglia, come per dire di non sapere a cosa si stesse riferendo. Lei sospirò. -Il tuo compagno di stanza mi ha chiamato dicendo che eri scomparso. Mi hai fatto prendere una paura incredibile, ma per fortuna non sei andato da nessuna parte! – gli spiego lei, aiutandosi con gesti con le mani per far percepire meglio cosa volesse dire. Lui le rivolse un mezzo sorriso.
-Non volevo farti prendere uno spavento! – disse semplicemente rivolgendole l’espressione più dispiaciuta che poteva.
-Tranquillo. Non è meglio che tu vada a dormire? – chiese la ragazza, appoggiando un braccio sullo schienale della sedia per guardarlo meglio.
-Tanto non riesco a dormire. – alzò le spalle, e sospirò. La giovane storse le labbra come per cercare un rimedio al problema.
-Sonnifero? Parole crociate? Libro? Posso procurarti tutto questo e molto altro se vuoi. – disse la ragazza. Lo fece sorridere. –Ah, aspetta! – disse balzando in piedi. – Ho dimenticato di darti una cosa oggi pomeriggio quando sono passata per le medicine!
L’infermiera aprì l’ultimo cassetto della scrivania che era sempre presente all’imbocco del lungo corridoio, ed estrasse da esso una busta delle lettere.
-Ecco, è arrivata oggi, ma mi sono scordata di dartela, perdonami! – annunciò porgendogliela, e sorridendogli subito dopo. 
-Tranquilla, non c’è problema. – disse mentre prendeva in mano quel pezzo di carta, e cominciava ad analizzarlo. In quasi un anno e mezzo non aveva mai ricevuto posta lì dentro, e adesso si stava davvero chiedendo che diavolo fosse quella roba.
-Bene, allora vado a fare un giro per vedere se è tutto a posto! – gli sorrise e cominciò a camminare.
-Va bene, grazie Elizabeth! – le rispose, dopo aver girato la busta tra le sue mani.
-Chiamami Beth! – lo corresse, e Joe le sorrise di nuovo.
Joseph lesse il mittente sul retro della busta. Claire Stewart. Quel nome gli era familiare, fin troppo familiare.
Aprì lentamente la busta, sentendo pian piano la carta rompersi, staccarsi proprio sotto il tocco delle sue dita. Un senso di ansia, provocato da non sapeva neanche che cosa lo avvolse, spingendolo a velocizzare quel processo.
Davanti a lui si presentarono due fogli bianchi scritti a mano, occupati da una grafia ordinata, precisa, ma allo stesso tempo decisa. Cominciò a leggere, poco dopo ebbe un colpo al cuore. 







Buonasera!
Bene, soddisfatte della risposta alla domanda "che fine ha fatto Nick?"
So per certo che dopo questa descrizione, qualcuno mi vorra uccidere ahahahaha
In ogni modo, stiamo entrando nel vivo della storia, e spero che vi possa piacere  :3
Che ne dite? Fatemi sapere!
Grazie ancora a tutti voi che continuate a sostenermi, davvero! ç.ç
Un bacione, 
Marta <3

 

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Capitolo 6
*** Chapter 5: The Letter ***




Chapter 5

 
The Letter
 
 
 

May 2, 2015

 
Caro Joe,
per prima cosa, ti starai chiedendo chi io sia. Be’, come puoi leggere sulla busta, sono Claire Stewart, ma tu mi conoscevi soltanto come Cla. Probabilmente neanche ti ricorderai di me, Joe. Probabilmente ero soltanto una storiella d’estate di appena una settimana. Nessuno dei due desiderava altro che questo. L’ultima volta che ci siamo visti era il 21 agosto 2012, sotto casa tua a Los Angeles. Mi avevi sorriso e prima che mi allontanassi tanto da non sentirti più, con un sorriso sulle labbra, mi avevi gridato “Sono stato benissimo con te, mi mancherai”. Dovevi passare del tempo a New York, dai tuoi fratelli a scrivere musica, e lì non ti avrei mai potuto raggiungere, e quindi i nostri giorni giunsero al termine. In quei sette giorni trascorsi insieme, però, non mi hai lasciato solo un bel ricordo di te, ma anche qualcosa di più “impegnativo”.
Si chiama Hal, ha compiuto 3 anni il 15 maggio, a fine agosto comincerà a frequentare l’Olympic Primary Center. Per ora è a un centro estivo, sempre nello stesso edificio, in preparazione all’anno che verrà. Se non ti fosse ancora chiaro, sì Joe, Hal è tuo figlio, nostro figlio. Se non mi credi, puoi anche fare l’analisi del dna, però è davvero evidente, perché non è soltanto tuo figlio, è un piccolo Joe Jonas in miniatura, con qualche tratto caratteriale della madre.
C’è una ragione per cui non ti ho detto nulla a proposito e ce ne sono altre due ben precise se adesso ti sto scrivendo questa lettera.
Non ti ho mai detto nulla a proposito, perché, semplicemente, non volevo nulla in cambio da te. Sei un cantante di fama mondiale, e se un giorno mi fossi presentata da te dicendo che avevo il tuo bambino in grembo, chiunque mi avrebbe considerata qualcuno che è solo in cerca di soldi.
Così ho deciso di tenere il segreto, neanche la mi famiglia ne è a conoscenza, mi sono confidata soltanto con mia sorella, Maggie.
Ho deciso di dirtelo, perché, per prima cosa ho capito che non fosse giusto nei tuoi confronti, era un tuo diritto saperlo e dovevo dirtelo prima, quindi mi scuso per questo; inoltre ho capito che Hal può crescere senza uno dei genitori, ma non senza entrambi. Se stai leggendo questa lettera, Joe, significa che io non ci sono più. Il cancro ha avuto la meglio su di me, un tumore al seno mi ha portata via prima del tempo.
So dove sei in questo momento, e capisco che tu non stia attraversando un buon momento della tua vita. Ho fatto alcune ricerche, quindi so di tuo fratello, e so della tua dipendenza. Sono riuscita addirittura a trovare il centro medico dove sei, quindi sono ben informata. Non sai quanto mi dispiace sapere tutto questo. Ma sappi che a volte le cose brutte accadono, senza che ci sia un vero motivo o che sia colpa di qualcuno in particolare , ma bisogna essere forti, così forti da cadere ma riuscire a alzarsi sempre.
Ora ti chiedo solo una cosa Joe, ti chiedo di provare a fare il padre. Non subito magari, esci da lì dentro, rialzati, e poi guardalo sorridere e giocare, osservalo mentre corre, e parlaci. Ti vedrai riflesso nei suoi occhi. Ti posso assicurare che non è difficile fare il genitore, devi solo metterci il cuore.
Ti ho lasciato dietro al foglio il numero di mia sorella, lei ti porterà da Hal in qualunque momento tu voglia, e in ogni modo tuo figlio è tutti i pomeriggi tranne la domenica nel cortile del Olympic Primary Center. Ho infilato nella busta anche una foto di me ed Hal, così da poter ricordarti per bene chi sono io, e identificare il piccolo una volta all’asilo.
Non ti ho mai ringraziato per avermi donato Hal, quindi grazie Joe. Quel bambino mi ha aiutato a superare tutti i miei momenti più bui.
Ti ho sempre voluto bene, Joe, prenditi cura di lui.
 

 Cla.
 

Joseph lesse quella lettera così velocemente senza pensare veramente a quello che c’era scritto. Un figlio? Sembrava assurdo. Cla morta? Doveva essere uno scherzo.
Ricordava Cla, ricordava quella ragazza spumeggiante e piena di entusiasmo, dai capelli biondi e gli occhi marroni. Era costantemente felice, felice per ogni cosa che faceva. Le aveva voluto bene, ma la loro rottura era stata necessaria: a lui aspettava un nuovo album, mentre a lei un nuovo anno di college.
Infilò una mano nella busta bianca, dalla quale ripescò un foto a colori che ritraeva Claire e Hall sorridenti. Il piccolo era sulle gambe della madre e guardava l’obbiettivo. Il bimbo era davvero il ritratto del padre in miniatura. Sembrava quasi stesse rivedendo una sua vecchia foto. Erano incredibilmente uguali.
Si ritrovò a fissare quella foto, senza riuscire a realizzare cosa stesse davvero accadendo. Gli sembrava tutto così surreale, come se fosse uno sbaglio, un incredibile falsità messa in atto solo per spaventarlo, per fargli ricordare di avere delle responsabilità, di avere motivo di vivere. Gli sembrò un sogno, uno strano sogno, dal quale ci si sveglia scossi ma con la consapevolezza del fatto che fosse soltanto un sogno quanto più verosimile, ma pur sempre un sogno.
Guardò di nuovo la foto che teneva stretta tra l’indice e il pollice della mano destra, poi dette uno sguardo all’ordinata scrittura della ragazza, e un senso d’ansia lo avvolse, come se ogni cosa venisse messa in discussione, come se vivere o morire per lui non fosse più la stessa cosa. Si mise a fissare un punto non ben definito del corridoio, mordendosi il labbro inferiore.
Un figlio. Avrebbe potuto semplicemente buttare nel cestino il tutto, e continuare la sua vita come se non gli fosse stato recapitato nulla; d’altronde se anche l’infermiera non l’avesse visto lì si sarebbe dimenticata di quella lettera. Poi c’era quella voce che continuava a sussurrargli che quel che stava pensando fosse terribilmente sbagliato, che quel bambino aveva bisogno di suo padre, che aveva il diritto di avere un padre, che non doveva essere codardo, ma doveva rispondere delle sue responsabilità.
Magari quel bimbo sarebbe potuto essere la sua ancora di salvezza, magari lui stesso poteva essere la salvezza per suo figlio. Soltanto il pensiero che un bambino potesse chiamarlo papà gli sembrò come innaturale. Chi mai vorrebbe un padre sciagurato come lui? Drogato, emarginato e depresso? Chi mai vorrebbe prenderlo come esempio? Chi mai potrebbe fidarsi di uno come lui?
Claire si è fidata di te le rispose quella voce, quella stessa voce che era restata in silenzio per anni, e che solo in quel momento di stava ripresentando ossessivamente; o forse era stato soltanto lui che non l’aveva più ascoltata nonostante fosse sempre rimasta lì? E chi meglio di sua madre sa cosa è meglio per suo figlio? continuò ancora quel sibilo dentro la sua testa.
Guardò per l’ennesima volta foto e si vide in quel sorriso, in quegli occhi, in quei capelli corvini che gli contornavano la testa. C’era un po’ di lui in quel bambino. Conoscerlo sarebbe stato come ricoprirsi, come ritrovare quella parte di sé che credeva persa, come scoprire che qualcosa di buono riuscisse a farlo anche lui. Gli si velarono gli occhi di lacrime soltanto pensando a un’eventualità del genere.
Ripose la lettera e la foto nella busta bianca, si alzò dalla sedia e si riavviò in camera sua, con un paio di certezze. La prima era che quella notte non avrebbe davvero chiuso occhio, l’altra che voleva provare a fare il padre






Buonasera gente!
Beh, che dire, ci sono tante novità in questo capitolo, non credete?
Che ne pensate? Che pensate di Cla? di Hal? e di Maggie?
Fatemi sapere! Un bacione! Ci sentiamo al più presto!
Marta <3

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Capitolo 7
*** Chapter 6: I'm afraid. ***




Chapter 6

 
I’m afraid

 
 
Quando Joe entrò nella stanza sembrava parecchio agitato. Come aveva previsto, la sera precedente non aveva chiuso occhio, e aveva continuato a riflettere su quelle parole che Claire gli aveva rivolto in quella lettera. Il dottor Thomas lo salutò con un sorriso sulle labbra e un sonoro “Ciao Joe”. Il paziente si sedette sul solito lettino, si soffermò un attimo a guardare fuori dalla finestra. C’era un bel sole,e un bellissimo cielo terso. Non si riusciva a scorgere neanche una nube. Era una fantastica giornata là fuori, mentre all’interno di Joseph era come se fosse in atto una tempesta con tanto di ciclone amazzonico. Si chiese ancora una volta se fosse il caso di raccontargli tutto, soltanto alla fine si decise.
-Dottor Mason … - cominciò il ragazzo mentre si stava massacrando la pellicina del dito indice della mano destra. Quello era un chiaro segno di agitazione, e Thomas lo aveva capito.
-Tom – lo corresse con un sorriso, poi proseguì – C’è qualcosa che non va Joe?
-Tom … - sospirò prima di proseguire il discorso – dovresti fare una cosa per me.
-Certo, qualunque cosa sia in mio potere! – gli rispose disponibile come sempre. Joe estrasse dalla tasca dei suoi pantaloni una busta bianca, e la porse al dottore.
-Mi è arrivata ieri. Leggila. – affermò lasciandola nelle mani di Thomas. Lo psicologo cominciò a leggere, sotto lo sguardo attento del paziente che poteva riuscire a capire l’esatta riga che stesse leggendo, guardando soltanto l’espressione del volto dell’uomo. Poi l’aveva riletta così tante volte durante la notte che ormai poteva anche recitarla a memoria. Qualche minuto dopo, il dottore staccò gli occhi da quel pezzo di carta. Un secondo dopo Joe gli passo anche la foto. Tom la osservò.
-Wow. È davvero una bella cosa Joe. – esordì lo psicologo, colto anche lui alla sorpresa da quella situazione. Era incredibile come le cosse potessero cambiare da un momento all’altro.
-Non credo di essere il padre che tutti sperano di avere. – disse il ragazzo e gli occhi si fecero lucidi.
-Non bisogna essere il padre che tutti sperano di avere. Non esistono genitori perfetti così come non esistono figli perfetti. Ma sei suo padre, e c’è qualcosa di te in lui, anzi, guardando la foto c’è molto di te in lui. Perché non dovresti essere un buon padre? Gli errori che hai fatto in passato non determinano il padre che sei. Tutti ne fanno di errori, non sei il primo a farne e non sei neanche l’ultimo. – rispose l’uomo con il sorriso più dolce che ci possa essere. 
-Ho paura – disse il giovane guardando negli occhi Thomas. Era in cerca di un aiuto, di un consiglio.
-Non sempre avere paura è una cosa negativa. Se in una battaglia non si avesse nulla da perdere, non avresti motivo per vincere. Se sei solo, se non hai un obbiettivo, se non hai una ragione per restare in vita, non lotteresti. Saresti indifferente ad ogni cosa. Avere paura di perdere significa tenerci, tenerci alla vita, avere uno scopo. Fin’ora vivere o morire per te è stata la stessa cosa, adesso, quella lettera ti ha dato un motivo per cui lottare. Quindi sì, fa sii che quel bambino sia la paura in ogni tua battaglia, così da riuscire a vincere sempre. – rispose il dottor Mason rivolgendogli un altro sorriso.
-Forse però io non sono un bene per lui. – rispose il ragazzo. – forse dovrei solo lasciar perdere e far finta che non mi sia mai arrivato nulla.
-Questa Joe è una tua scelta, ma la decisione che prenderai non influenzerà solo questo ambito. Questa è una scelta di vita. Vuoi continuare ad essere nessuno? Vuoi essere un ipocrita che pensa solo a se stesso? Vuoi piangerti addosso per il resto della tua vita, oppure vuoi essere un uomo con delle responsabilità? Con la possibilità di essere qualcuno? Con l’occasione di avere una vera famiglia che ti voglia bene per il resto della tua vita? Pensaci. Questo qui è uno dei momenti fondamentali della vita, che capitano a tutti almeno una volta nella vita, in cui quel che farai determinerà chi sei. – rispose lo psicologo, sorridendo poi al ragazzo. Il sorriso del dottore è come se fosse qualcosa di rassicurante, anche se l’argomento era uno dei più tesi e più difficili da affrontare.
-Ma … il bambino verrebbe a vivere con me? … nel senso, io avrei l’affidamento? – chiese il ragazzo che di queste cose non ne sapeva proprio nulla. Sembrava assurdo, sembrava un film, uno di quei film pieni di colpi di scena, che fino all’ultimo non si riesce a capire mai come si concluda.
-Leggendo la lettera, credo che la madre l’abbia affidato a te. Non potrei giurarci, ma credo di sì. Se non l’avesse fatto, non ci sarebbe stato motivo di contattarti. – concluse Tom.
Joe sospirò, ormai davanti a una realtà in cui non riusciva a riconoscersi. Non avrebbe mai immaginato nulla del genere.
-Sembra tutto così pazzesco. Nel senso … io non so neanche come si fa. A fare il padre intendo. – disse il giovane. Lo psicologo sorrise.
-Nessuno lo sa fare prima dell’arrivo del suo primo figlio. Sarà dura, ma sta a te decidere. Però, ricorda sempre che è un bambino, ha bisogno di una persona matura e responsabile come genitore. – disse Thomas.
-Mi occupo a malapena di me stesso, come potrei occuparmi di Hal? – chiese, quasi sconsolato. – Non so che fare.
-Hai cominciato a parlare con me da non molto. Ma negli incontri in cui non mi dicevi neanche una parola, io ti osservavo. Il linguaggio del corpo aiuta a capire come è una persona, più di quanto facciano le parole, perché al contrario di queste ultime, non mente. Avevo capito molto su di te, ancora prima che tu mi parlassi davvero. Avevo già intuito che tipo di persona sei: sei insicuro, probabilmente lo sei sempre stato ma lo hai sempre nascosto; hai bisogno di un’ancora di salvezza a cui aggrapparti sempre, hai bisogno di un punto di riferimento, e Nicholas era il tuo punto fermo nella tua vita; necessiti di far trasparire un altro carattere rispetto al tuo vero atteggiamento, perché gli altri potrebbero non accettarti. In fondo però, tu, Joe, sei una persona speciale. Sei uno di quei ragazzi con dei veri ideali, che si emoziona davanti a un film sentimentale, o a delle semplici parole ma dette con il cuore. Mi sono anche accorto del fatto che tu adori i bambini, dai quando lo so? Al nostro primo incontro. Mia moglie aveva portato mio figlio ancora in fasce qui in studio, senza il mio permesso. Tu lo avevi guardato con degli occhi che sprizzavano felicità, curiosità e un sorriso era momentaneamente comparso sul tuo viso.  Tu adori i bimbi, forse perché hanno il coraggio di dire sempre le cose come stanno, non sono falsi, sono genuini, puri, gentili, e di norma sempre sorridenti. – lo psicologo aveva concluso con questa frase lasciando Joe con gli occhi lucidi che annuiva, confermando la sua tesi.
-È vero, è tutto vero. – disse il ragazzo con una voce tremante.
-Quindi Joe, segui il tuo cuore. Ti dirà che fare. – rispose Tom, sorridendo subito dopo.








Buonasera gente! 
Dovete perdonarmi per il ritardo ç.ç Ma è la solita storia: ricomincia la scuola -> non si ha più il tempo di fare nulla. 
Cercherò di aggiornare il più possibile, ci proverò davvero, lo prometto! 
In ogni modo, scusatemi anche per il capitolo cortissimo ç.ç 
Mi farò viva al più presto, promesso! Grazie mille a tutte!
Un bacione <3

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Capitolo 8
*** Chapter 7: Someone ***




Chapter 7

 
Someone

 
 
Joseph si trovava finalmente, dopo mesi ormai, con un cellulare in mano. Era andato nello studio del direttore di quel centro medico tre volte per ottenerlo. Ai pazienti di quello stabilimento era vietato possedere o entrare in contatto con telefoni cellulare o fissi che fossero, a meno di casi eccezionali.
Si era inventato una scusa per poter fare quella chiamata: aveva detto che doveva chiamare suo padre per una questione privata che preferiva non rivelare, e che avrebbe voluto che nessuno assistesse alla chiamata proprio perché il motivo era estremamente intimo. La prima volta che aveva incontrato il direttore, questo aveva storto il naso e lo aveva liquidato con un “ci penserò”. Poche ore dopo era tornato dentro quello studio chiedendogli se ci avesse riflettuto. L’uomo si era fatto scappare un sorriso vedendo l’impazienza di quel ragazzo che, giovane com’era, sarebbe potuto essere suo figlio.
-È tardi ragazzo mio, domani passa dopo pranzo e ti darò il cellulare per la tua chiamata. Potrai fare con tutta calma, e appena avrai terminato lo restituirai a me qui in ufficio. – gli aveva risposto l’uomo poggiandogli un braccio sulle spalle e sorridendogli. Joe aveva tirato un sospiro di sollievo e aveva annuito.
In quel momento si trovava nel giardinetto antistante alla clinica, dove era possibile trascorrere il pomeriggio quando non si avevano altri impegni, con quel cellulare stretto in una mano e quella lettera, quella stessa lettera che aveva riletto un milione di volte, nell’altra. Si ritrovò davanti al numero di cellulare della sorella di Claire, e non seppe se volerlo chiamare davvero. Cosa le avrebbe detto? “Sono il padre scomparso di tuo nipote, quello di cui tua sorella ti aveva parlato. Sono un drogato, lo sai, vero?”. Poteva andare? Al diavolo le frasi di presentazione. Non era mai stato bravo a presentarsi, odiava farlo. Probabilmente perché tutti vedevano soltanto la sua parte esteriore, e non avrebbe voluto stupire tutti dicendo che lui non era poi tanto quello “carino e simpatico”, ma c’era qualcosa di più. Neanche lui riusciva a vedere quella parte. Forse l’unica persona che l’avesse colta davvero era stato suo fratello. Ma ormai non c’era più.
Lasciò agire le dita sul quel cellulare, senza pensare davvero a cosa stesse facendo, e si ritrovò con il telefono all’orecchio che suonava.
-Cosa sto facendo? – si chiese a bassa voce prima che qualcuno gli rispondesse prontamente alla chiamata.
-Pronto! - la voce era quella di una ragazza giovane, era squillante, ma gradevole da ascoltare. Gli trasmise sicurezza, non sapeva neanche lui il vero perché.
-Pronto, parlo con Maggie Stewart? – chiese il ragazzo al quale cominciò a tremare leggermente al voce.
-Sì, sono io. – disse la giovane. – Tu chi sei?
-Sono Joseph Jonas, cioè Joe … Joe Jonas. Ho ricevuto la lettera di tua sorella Claire, e … - cominciò a dire ma Maggie lo interruppe.
-Sì, certo, sei quel Joe. So chi sei, Joseph. Non so cosa mia sorella abbia scritto su quella lettera, ma sappi che, qualunque cosa tu stia per dirmi, deve essere una tua scelta. Se non vuoi farlo, non devi farlo. Ma se vuoi farlo io ti darò tutte le informazioni utili, e ti sosterrò in ogni causa, non importa quale sia la tua situazione, perché questo era il volere di mia sorella. – disse la ragazza con voce seria, mentre Joseph fu travolto di nuovo da un’onda di paura, proprio come una accade a una barca in tempesta, lasciata da sola in mezzo al mare. Sarebbe stato così semplice lasciar perdere tutto. Avrebbe potuto ancora dire di no. Doveva solo scegliere che tipo di persona essere nella sua vita.
-Se ti ho chiamato è perché ho deciso che voglio farlo. – Joe non era mai stato così deciso in una scelta come quella volta. Gli era bastato ricordare le parole di Thomas, per fare la scelta giusta. – ma ho un problema …
-Quale? – chiese la ragazza, la quale, forte com’era, continuava a essere capace di resistere a quella pressione senza piangere, senza pensare al fatto che sua sorella non c’era più, che non avrebbe potuto raccontargli di quella chiamata, che Cla non avrebbe potuto abbracciarla e dirle che sarebbe stata capace di gestire tutta la situazione.
-Sono ancora in riabilitazione, ma esco il 5 luglio. – la informò il ragazzo sperando in una rassicurazione da parte della giovane.
-Non credo che sia un problema poi così grande. Ieri abbiamo aperto il suo testamento, e Claire ha affidato Hal a te. Ha stabilito anche un termine alla validità di questa sua decisione. Hai un anno di tempo per presentarti e chiedere un processo per l’affidamento del piccolo, che per ora lo hanno in affidamento i miei genitori, cioè i genitori di Claire. – disse la ragazza spiegandogli la situazione.
-I tuoi genitori ne sapevano qualcosa? – chiese il giovane, preoccupato.
-No, infatti sono sconvolti. Cercherò di mettere qualche buona parola su di te. – assicurò Maggie.
-Grazie, davvero, non sai quanto te ne sia grato. Non so quando potrò avere accesso al cellulare di nuovo, quindi ti va bene se ci diamo appuntamento per il 6 luglio allo Starbucks sul Wilshire Boulevard, per le 10 di mattina? – chiese il ragazzo.
-Aspetta che lo scrivo da qualche parte … ok, fatto. – disse la ragazza, poi sospirò – Beh, allora ci vediamo il 6 se non riesci a chiamarmi prima.
-Va bene, grazie ancora per tutto, Maggie. – ripeté Joseph.
-Ciao Joseph. – salutò la ragazza.
-Ciao! – rispose il moro chiudendo subito dopo la chiamata.
Vide lo schermo del cellulare diventare scuro, nero, e per un attimo Joe si sentì così. Vuoto. Scuro. Indecifabile. Non sapeva neanche lui in cosa si stesse cacciando, non sapeva se ne sarebbe davvero stato capace. A fare il padre. O meglio, a fare da padre a un bimbo di tre anni che ha appena perso la madre e per il quale lui è un completo estraneo.
Eppure c’era qualcosa che lo spingeva ad andare avanti. Forse non era qualcosa, era qualcuno. Qualcuno che lo spingeva a ricominciare a vivere






Buonasera!
No, non sono morta. Sono viva e vegeta. Mi dovete perdonare, ma è colpa della scuola. Ogni anno diventa peggio, sapete?
E non voglio pensare al prossimo anno, visto che sarà l'ultimo. 
Comunque, per chi non mi conosce, sappiate che in tutta la mia storia non ho mai lasciato a metà una fan fiction, quindi non accadrà neanche questa volta!
Il capitolo non mi piace molto, in realtà. Però è tutto ciò che sono riuscita a tirare fuori in una domenica sera in cui ero particolarmente assonnata ahahahah
Un grazie enorme a tutte voi che continuate ad esserci, davvero!
Un bacione enorme <3

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