Never stop dreaming

di Robertaddict
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

NEVER STOP DREAMING

Prologo
 
"Siamo nati soli, viviamo soli, moriamo soli.
Solo attraverso l'amore e l'amicizia
possiamo creare l'illusione, per un momento,
di non essere soli." 


- Orson Welles

 
Il suono delle onde che si infrangono sulla spiaggia. 
Lo stridio dei gabbiani. 
La brezza marina che rinfresca il viso.
Le mani raggrinzite a causa dell’acqua marina.
I vestiti sporchi di sabbia.
Le braccia appiccicose per il caldo torrido e
le labbra screpolate dall’acqua del mare e dal vento.
Gli occhi e le labbra pieni di dolci ricordi,
la mente e il cuore pieni di amore.
Un’estate piena di ricordi, forse troppi.
Un autunno pieno di lettere e lacrime.
Un inverno troppo freddo, gelido.
Una primavera triste e senza vita.
Una nuova estate passa,
così come un nuovo autunno,
un nuovo inverno e una nuova primavera.
Le stagioni continuano a scorrere ma tu non passi mai.
Gli unici ricordi che rimangono sono quelli impressi nella mente.
Quelli del cuore sono troppo dolorosi da sopportare.
Non lasciarmi andare più.
Quasi non è mai abbastanza…




 
Come ogni volta che pioveva, il vetro della sua camera diventava simile a un quadro di Picasso.
Spiccavano disegni strani e lettere immaginarie.
Il suono prodotto dalle fronde degli alberi, che, a causa del vento, toccavano il vetro,
le faceva tornare in mente la sua infanzia,
quando sua madre le rimboccava le coperte e sotto la pioggia le raccontava una favola per farla addormentare.
Amava la pioggia, perché, oltre a ricordarle l’infanzia, la faceva sentire terribilmente bene.
Sentiva di non essere sola quando piangeva.

Ci sono persone che aspettano la pioggia per non piangere da soli.”

Ogni volta che cominciava a piovere, lasciava perdere ciò in cui era impegnata e si rannicchiava vicino alla finestra 
aspettando che la pioggia cominciasse a bagnare i vetri.
L’autunno e l’estate erano le stagioni che preferiva, grazie alla pioggia e al mare.
L’inverno e la primavera, invece, erano delle stagioni così tristi: c’era il freddo e gli insetti e soprattutto, per lei,
ogni tipo di allergia possibile e immaginabile.
Non sopportava l’odore del fumo e del tabacco.
Il fuoco le faceva, quasi, paura.
In molti l’avevano definita pazza, strana, asociale e lunatica, ma nessuno aveva mai capito chi fosse in realtà Arwen White.
Ma lei non ci faceva caso, continuava a guardare la pioggia e tutto ciò che rappresentava.
Perché lei sognava ad occhi aperti, continuava a farlo sempre e comunque.
Perché Arwen White non era una ragazza comune, lei era speciale.
Come l'arcobaleno dopo la pioggia.




Continuava ad aspettare, perché era la sola cosa che sapeva fare.
Anche se di fuori pioveva, sapeva che lui in quello stesso momento stava guardando insieme a lei la pioggia e sospirava.
La cioccolata calda ai piedi della coperta.
Le mani in mezzo alle cosce nel vano tentativo di riscaldarle. 
I denti che continuavano a mordicchiare insistentemente il labbro inferiore. 
Gli occhi chiusi e le orecchie aperte.
I capelli, indomabili, sparsi sulle spalle come tanti fili d’erba intrecciati.
Il naso rosso per il freddo e i piedi ghiacciati nonostante la coperta li coprisse fino in fondo.
Il vetro bagnato.
Il rumore del vento che scuoteva le cime degli alberi.
Il suono della grondaia del tetto che gocciolava. 
I fulmini che squarciavano l’aria illuminandola.
Il temporale si avvicinava.
Aveva paura.
Lo sapevano tutti, i temporali non portavano mai a nulla di buono.
Di solito c’era lui, lì con lei.
La tranquillizzava, l’abbracciava, la faceva sentire al sicuro tra le sue braccia.
Adesso, invece, c’erano solo lei, il temporale e il gatto che graffiava il legno della porta spaventato dal rumore provocato dai tuoni.
Non sapeva perché rimaneva a fissare la pioggia, nemmeno quando un fulmine cadde a pochi centimetri dal vetro della finestra e lei sobbalzò spaventata.
La cioccolata si rovesciò a terra. 
La coperta cadde di lato e le labbra sanguinavano.
Una, due, tre lacrime solcarono il suo viso, prima che venisse bagnato da altre, numerose.
Si sentiva sola, stanca e bisognosa di affetto.
Aveva paura del temporale.
Degli abbracci mancati.
Delle parole sussurrate nel cuore della notte.
Del sapore dolciastro delle sue labbra.
Aveva paura di amare, ancora




La matita guizzava sul foglio imprecisa, torbida.
Un segno nero dopo l’altro, la figura cominciava a formarsi.
Perché tutto ritraeva il suo volto?
La carta si avvolse a terra in un groviglio, la penna tornò al suo posto insieme al blocco.
L’aula era silenziosa, fuori non si sentiva nessun suono.
La notte cominciava ad avvolgere la giornata e nessuno voleva rimanere fuori al buio.
Il cammino verso casa era veloce e ridotto.
Al di là della piazzola c’era un uomo, un ragazzo.
La fissava, mentre lei abbassava lo sguardo incapace di sostenere il suo.
Diventava rossa ogni volta che lui la guardava, e poi un giorno tutto ciò scomparve come le nuvole nere durante un temporale.
Ora, al di là della piazzola c’era il vuoto, nessun uomo, nessun ragazzo.
Solo lei, il gatto e il loro vicino burbero.
Se ne era andato e con lui era andato via anche il sole che illuminava i giorni a seguire.



“Nessuno le aveva mai detto come ci si sente ad essere soli.”









ANGOLO AUTRICE
Bene, questa è la mia prima storia qui, nelle Originali.
Spero di essere stata all'altezza e di non aver peccato.
Se avete qualsiasi cosa da dirmi, critica o altro, potete contattarmi o recensirmi.
Ho davvero bisogno di sapere se questa storia potrà andare avanti o se è una colossale schifezza.
In questo prologo viene delineato solo il carattere della protagonista, Arwen.
Non sappiamo nulla del misterioso uomo che viveva al di là piazzola.
Sappiamo solo che avevano un legame.
Nel prossimo capitolo verranno introdotti altri personaggi e si comincerà a delineare la storia.
Un bacio a tutte. 
Vi lascio con una gif della protagonista.

 



Grazie a johnnyaddict per il banner :)

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***





CAPITOLO 1 
 

"La vita è fatta di piccole solitudini." 
Roland Barthes - La camera chiara, 1980


Una giornata come tutte le altre, si sforzava di pensare.
Anzi cercava di non pensare a nulla, perché sapeva che non appena avesse pensato una qualsiasi cosa, sarebbe ricaduta in quell’oblio.
Alzarsi dal letto era sempre stata un’impresa per lei, non era diverso quel giorno.
Diede da mangiare al suo gatto e alzò lo sguardo verso la finestra.
Dopo due settimane di nuvole tetre e pioggia improvvisa, quel giorno regnava un sole bellissimo.
Sorrise.
Nonostante amasse la pioggia, ci voleva un po’ di sole per rallegrare la giornata.
Infilò di fretta i suoi jeans preferiti e scese le scale, saltando alcuni gradini.
Afferrò le chiavi di casa e si diresse a passo spedito verso il suo luogo di lavoro.
Aprì il cancelletto per uscire e solo allora notò qualcuno che entrava e usciva dalla porta accanto a lei.
Davanti alla piazzola, infatti, c’era un uomo abbastanza alto che portava alcuni scatoloni dentro la casa.
Si perse ad osservare quel movimento fin quando l’uomo non appoggiò a terra gli scatoloni pesanti e urlò qualcosa in direzione della casa.
Lo vide voltarsi verso di lei, ma non fece in tempo a fingersi disinteressata che gli occhi verdi penetranti dell’uomo la travolsero.
Due occhi verde brillante contornati da una corta chioma riccia.
Le labbra sottili e il naso dritto.
Attorno al collo era avvolta una collana con appeso un ciondolo, come quello portato dai Marines.
Le spalle possenti e le mani grandi erano distese lungo i fianchi.
Era alto quasi il doppio di lei.
Le sorrise.
Semplicemente pensò che il suo sorriso era bellissimo.
Una donna, dai lunghi capelli biondo cenere e dagli occhi azzurri uscì dalla casa e raggiunse in pochi passi l’uomo sferrandogli uno schiaffo sul collo.
L’uomo mormorò qualcosa non ben decifrabile, mentre la donna sorridendo le si avvicinò sinuosa.
“Irina, Irina Jones.” Replicò con un tono di voce suadente, mentre le porgeva una mano.
Prontamente l’afferrò stringendola.
“Arwen. Arwen White.” Rispose, continuando a osservare l’uomo.
“Lui è mio fratello, Nathan Jones. Siamo i nuovi vicini.” Aggiunse la donna, facendole un occhiolino malizioso.
Arrossì leggermente e sciolse la presa.
“Mi vogliate scusare, ma devo recarmi a lavoro. Spero di incontrarvi di nuovo quando tornerò a casa.” Affermò allontanandosi non prima di aver lanciato un sorriso imbarazzato all’uomo.




Le persone arrivavano e andavano via come un fiume in piena.
Sorrisi, lacrime, speranze e sogni entravano da quella piccola porta a vetro e uscivano senza essere ricompensati in alcun modo.
Molti definivano il bar un locale dove si beveva qualcosa o al massimo si potevano scambiare due parole con il vicino al tavolo.
Ma il bar era tutt’altro.
La gente, di ogni cultura, di ogni religione e lingua, entrava da quella porta e si sedeva ai tavolini del bar.
C’era la ragazza bionda che guardava fuori dalla finestra sospirando, magari pensando a un amore ormai finito.
C’era il ragazzo bruno che messaggiava al telefono, mentre sua madre lo rimproverava perché non le prestava attenzione.
C’era l’uomo di affari, seduto davanti al pc con una cioccolata in mano, che leggeva attentamente le ultime notizie di borsa.
E poi c’era lei, posta dietro al bancone, che osservava tutti senza giudicare, solo provando una grande empatia per quelle persone.
Molte volte si era rimproverata il suo essere così troppo emotiva, anche per questioni che non la riguardavano personalmente, ma lei era fatta così e nessuno sarebbe riuscito a cambiarla.
Il filo conduttore dei suoi pensieri fu interrotto dalla voce squillante di una donna che la richiamava.
Abbandonò la sua postazione e si diresse sorridendo alla cassa.
“Mi dica. Cosa desidera?” Chiese gentilmente.
Una signora grassoccia, dai capelli neri legati in una coda e dalle mani ingioiellate le rispose con voce squillante.
“Cosa desidero? Desidero che il proprietario di questa baracca si faccia avanti. Non mi paga l’affitto da due mesi!” Replicò con voce quasi stridula.
Non volendo, esibì una smorfia sul volto degna di Damon Salvatore.
“Certo signora, glielo chiamo subito.” Si allontanò dalla postazione raggiungendo le cucine, dove il proprietario del “Holiday’s Cafe” risiedeva.
“Mr. Habbinton c’è una signora qui fuori che chiede di lei.”
Un uomo alto e magro, con un paio di baffi neri e due occhi grigi da far paura, uscì dalla cucina dirigendosi al bancone.
“Grazie Arwen, qui ci penso io. Continua a servire gli altri clienti.” Le rispose accompagnando la donna nel suo ufficio.
Annuì dirigendosi alla cassa e continuando a prendere le ordinazioni, mentre osservava con la coda dell’occhio la donna che discuteva animatamente con Mr. Habbinton nel suo studio.
La donna, palesemente innervosita, come mostravano le sue grasse gote rosse, arrancò verso la porta e ne uscì sbattendola.
Sussultò nonostante si aspettasse una simile reazione.
Il suo capo uscì silenziosamente dallo studio senza rivolgerle la parola e tornò in cucina.
Se lui ne avesse voluto parlare l’avrebbe fatto, quindi non chiese nulla e tornò al suo lavoro.




La giornata terminò normalmente, fu l’ultima a uscire.
Salutò l’uomo nello studio che però, evidentemente in sovrappensiero, non la sentì.
Uscì piano dal locale e si diresse a casa, pensando a cosa si sarebbe potuta cucinare quella sera.
In meno di dieci minuti arrivò davanti all'abitazione e vide le luci della casa accanto accese. Ricordò l’incontro della mattina.
Gli occhi verdi dell’uomo le tornarono in mente e arrossì quando si accorse di star pensando a lui.
Nathan , aveva detto la sorella.
Era un nome strano quello della bionda, Irina, lo aveva letto e sentito l’ultima volta che aveva visto Twilight.
Rabbrividì al pensiero di aver letto quel libro.
Ogni volta cercava di scusarsi affermando che era un'adolescente in piena crisi “vampiresca” e che a 13 anni poteva anche credere che un vampiro luccicasse come una palla da discoteca.
Il rumore di una porta che si apriva la fece ridestare e si nascose sotto il portico della sua casa.
Un paio di uomini in divisa uscirono dalla porta, seguiti da Nathan.
I due portavano una divisa della Marina, mentre il proprietario della casa indossava un paio di pantaloni mimetici e una maglietta verde chiaro.
I tre si salutarono con il gesto militare e si congedarono salendo su un auto e scomparendo dietro il vicolo.
L’uomo si guardò intorno prima di rientrare.
Lei si appoggiò alla porta riflettendo sull’incontro strano dell’uomo.
Cosa nascondevano i nuovi vicini?   








ANGOLO AUTRICE 

Sono tornata, scusate il ritardo ma la scuola mi impegna parecchio.
Qui abbiamo Nathan e Irina i nuovi vicini di Arwen.
Lei rimane parecchio colpita dall'aspetto dell'uomo.
Mr. Habbinton tornerà in qualche episodio, si scoprirà di più sull'incontro, non temete.
Cosa ci facevano due militari della Marina davanti casa dei Jones?
Avrete risposte presto, lo prometto.
A presto. Un bacio a tutte.
Alla prossima. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***




CAPITOLO 2
 

"L'amore non è che il risultato di un incontro casuale.
La gente gli dà troppa importanza.
Per questo motivo una buona scopata è tutt'altro che da disprezzare."
Charles Bukowski
 

 

Quella mattina si era svegliata con una strana consapevolezza.
Come se tutto quello che fosse successo, in quel giorno, sarebbe dipeso da lei.
Si era recata al supermercato per rifornire il frigorifero, che era un tantino vuoto, e si era messa a pensare ai suoi nuovi vicini.
Dopo l’episodio della scorsa settimana, dei due Marines fuori dalla porta, aveva visto i nuovi arrivati, in tutto, due volte.
Di cui una e mezza l’uomo.
Rifletté poi che quell’uomo, Nathan, era strano.
Certo non che lei non lo fosse, ma lui era troppo strano, nonostante questo la affascinasse tantissimo.
I suoi tratti delicati e allo stesso tempo rudi, come se avesse passato metà della sua vita a combattere contro i demoni del suo passato, la incantavano ogni volta.
Per non parlare dei suoi occhi, dei suoi bellissimi occhi.
La facevano impazzire.
Probabilmente era attratta da lui, ma le faceva male solo sostenere un’ipotesi del genere.
Così si limitava a pensare ad altro, cosa non facile.
Pensava troppo, glielo avevano sempre detto.
Una voce squillante la fece sobbalzare e si rese conto, non solo di essersi persa nei suoi pensieri, ma anche di essere rimasta impalata a osservare il reparto dei latticini.
Irina le si fermò accanto recuperando alcuni vasetti di yogurt magro.
“Arwen è un po’ che non ti vedevo. Come va?” Le chiese educatamente, mentre l’interessata afferrava alcune confezioni di latte e avanzava.
“Bene, Irina. E tu? Come vanno le cose nella casa nuova?” Rispose educatamente, guardandosi bene dal chiederle del fratello.
“Meglio di quanto pensassi. È un quartiere molto calmo e le persone sono tutte educate. Non vorrei davvero averti fatto una brutta impressione, Arwen, se in questi giorni io e mio fratello non siamo venuti mai a salutarti. Ma sai come è il trasloco, ti occupa tutta la giornata.” Sorrise, avanzando e posizionandosi davanti a lei.
Aveva come l’impressione che quella donna volesse dirle qualcosa, ma non volesse farglielo intendere esplicitamente.
“Ma figurati. Posso immaginare cosa stiate passando. È successo anche a me quando mi sono trasferita.” Ricambiò il sorriso cercando di decifrare quello della donna davanti a se.
“Bene, sono contenta che tu abbia capito. Mi farebbe piacere, anzi ci farebbe piacere, se tu venissi stasera a cena da noi. Sai come scusante per non esserci presentati a dovere.”
Pensò immediatamente che il fine della donna era quello di punzecchiarla talmente tanto da spingerla ad andare. E lei non se lo sarebbe fatto sfuggire.
“Sarebbe davvero un piacere Irina. Ovviamente se non disturbo.” Rispose soddisfatta nel notare il radicale cambiamento di espressione della donna.
Un cipiglio sorpreso le si dipinse sul volto, ma stette ben attenta a non farlo notare.
Un sorriso, stavolta molto più sincero, le illuminò il volto.
“Certo che non disturbi. Allora a stasera Arwen. Ci vediamo.” Dicendo ciò si allontanò sorridendo.
Quando metabolizzò quello che effettivamente aveva fatto si diede mentalmente della stupida e ricordò di dover continuare la spesa, altrimenti sarebbe rimasta senza pranzare quel giorno.




Mezz’ora.
Mezz’ora per decidere cosa avrebbe dovuto indossare.
Ogni volta che estraeva un abito dall’armadio lo gettava sul letto non convinta della scelta.
Alla fine, dopo dieci abiti passati sotto accurata osservazione, si era decisa a chiamare Selene, quella che doveva essere la sua amica a distanza.
Viveva in una casa in New Jersey e si erano incontrate due volte dopo che avevano iniziato a essere amiche di penna.
La suddetta le consigliò un abito casual, non troppo elegante, e si fece promettere il resoconto dettagliato della cena al suo ritorno.
Così aveva optato per un maglioncino color beige e un paio di leggins scuri, concludendo il tutto con un paio di tronchetti neri, i suoi preferiti.
Abbigliamento casual, senza trucco e pronta per entrare nella casa del nemico.
Non capiva mai perché definiva “Casa Jones” il nemico.
Troppi telefilm e libri le davano alla testa, ne era certa.




Irina le aprì la porta raggiante.
Indossava un abito color pesca che si abbinava perfettamente ai suoi occhi azzurri e ai capelli biondi.
Nonostante si sentisse a disagio accanto a una tale bellezza eterea, l’altra apprezzò molto il suo abbigliamento poiché si complimentò con lei.
Le porse una torta, una sua specialità, e la bionda la ringraziò eccessivamente per il dono, a quanto pare, gradito.
La fece accomodare in sala promettendole che suo fratello sarebbe rientrato a momenti.
In effetti non dovette aspettare molto.
Nel momento esatto in cui sentì la porta aprirsi, si alzò e vide comparire sulla soglia Nathan.
Il suo abbigliamento era molto… discutibile.
Indossava un paio di pantaloncini corti che mostravano le gambe atletiche e toniche e una maglietta a maniche a giro, ovviamente bagnata, che mostrava i suoi bicipiti e alcuni tatuaggi impressi su di essi.
L’uomo si tolse le cuffiette e si avvicinò di pochi passi porgendole la mano.
“Mi dispiace non salutarti diversamente, ma come puoi vedere sono un po’ indecente.” E le sorrise, facendola quasi cadere a terra svenuta.
Gli strinse la mano e sorrise di rimando.
“Figurati. Anzi sono io a essere un’intrusa, ma Irina ha insistito molto.” Gli rispose.
“Già, Irina sa essere decisamente insistente a volte. Torno subito.” La congedò con un sorriso e salì di fretta le scale.
Solo allora si rese conto di non aver mai sentito prima la sua voce.
Era dannatamente sexy, roca e sexy.
Quando la bionda tornò in salotto si riscosse dai pensieri e la seguì in sala da pranzo.




Nathan le raggiunse quasi dieci minuti dopo, stavolta indossava un paio di jeans e una maglietta nera con stampato sopra il logo dei Guns n Roses.
“Nate! Potevi vestirti in modo più appropriato, abbiamo ospiti.” Replicò stizzita la sorella.
L’uomo alzò le spalle.
“Non credo si scandalizzi a vedermi con una maglietta del mio gruppo preferito, non sono mica nudo.”
Nascose un sorrisino. “Davvero Irina non c’è problema. Come ho già spiegato prima, sono io l’intrusa, questa è casa vostra.” Rispose guardandoli entrambi.
La donna sospirò augurando buon appetito, mentre l’uomo le sorrise rimanendo a fissarla per un po’ prima di cominciare a mangiare.
Durante il pranzo, che fu molto più silenzioso di quanto si sarebbe aspettata, parlarono del lavoro e del quartiere.
Irina era una designer di arredamenti interni, per questo aveva avuto urgenza di trasferirsi in quella stradina.
Non venne però accennato il lavoro di Nathan.
Spiegò anche che, avendo entrambi quasi trent’anni, precisamente Nathan ventotto e Irina ventinove, era necessario per loro affittare una casa.
Non chiese altro perché non le sembrava il caso di approfondire la questione.
Passarono del tempo anche seduti sui divani in pelle del salotto a discutere anche di cose divertenti.

Verso metà serata, però, Nathan fu costretto a uscire per rispondere a una chiamata e Irina mormorò un: “Neanche qui ci lasciano in pace”, prima di tornare a parlare con lei come se nulla fosse.
Al suo rientro, Nathan, aveva uno sguardo piuttosto pensieroso e per il resto della serata rimase quasi del tutto in silenzio.
L’aria si era fatta pesante e per questo decise di andare via per non disturbare ancora.
Salutò con una stretta di mano l’uomo e si avviò verso l’uscita seguita da Irina.
Questa, però, prese un cappotto e uscì insieme a lei.
“Arwen devo essere sincera con te. Pensavo fossi una donna diversa, sai una di quelle con la puzza sotto il naso, invece se una persona molto sincera e solare. Mi hai sorpresa in positivo. Grazie per la bellissima serata.” Le disse tutto di un fiato la donna, facendola rimanere di stucco.
“Oh, ma figurati. Grazie a voi Irina, siete stati molto gentili.” Sorrise stringendole una mano.
“Ah, mi scuso per il comportamento di Nate. Da quando è in congedo si comporta spesso così, pensa troppo.” Rispose, prima di allontanarsi e rientrare in casa.
Non colse il senso della frase fino in fondo.
Ma le rimase impresso il “pensa troppo”.
Aveva trovato qualcuno simile a lei.
Sospirò lanciando un ultimo sguardo alla casa, prima di rientrare nella sua.
Non si accorse che qualcuno la stava guardando dalla finestra del piano di sopra.


Pensi troppo, si rispose, prima di chiudere le tende e tornare nel buio della sua camera.   








ANGOLO AUTRICE
Mi scuso per l'IMMENSO ritardo.
La scuola mi distrugge e non riesco mai a trovare il tempo per dedicarmi un poco alla scrittura.
Ma non siete qui per sentire le mie lamentele.
In questo capitolo rivediamo i due vicini, Irina e Nathan.
Hanno qualcosa da nascondere, come ha già capito la nostra protagonista, però ancora non si riesce a capire cosa.
Viene inviata a cena e si accorge di provare attrazione per l'uomo di casa, Nathan.
Cosa succederà nella prossima puntata? Resterà a voi capirlo.
Ok, sembra un telefilm, ma capitemi sono fusa.
L'altra volta mi sono dimenticata di mettere una foto di Irina, rimedio subito.
Un bacio.


Irina

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***




CAPITOLO 3
 

"Dolore.
Stato d'animo particolare che può essere di origine fisiologica,
se il corpo subisce qualche malanno, o psicologica,
se ci tocca assistere alla fortuna di qualcun altro."

- Ambrose Bierce

 

Sospirò sedendosi a terra sul pavimento, coperto dalla moquette, di casa sua.
Si prese un minuto per ripensare a tutto quello che era successo e non riuscì a trovare una soluzione logica.
Era accaduto tutto nel giro di cinque ore, solo cinque ore.
I personaggi più disparati e stravaganti avevano fatto tappa in casa sua e ancora non riusciva a rendersi conto, del tutto, di quello che avevano portato.




5 ore prima


Dietro il bancone cercava di servire e accontentare tutti i clienti, nonostante fosse faticoso gestire il caffè da sola.
Mentre ringraziava l’ennesimo cliente per aver scelto il loro bar, sentì chiaramente la voce di Mr. Habbinton provenire dal suo ufficio.
Solitamente il tono di voce del suo capo era sempre molto basso, raramente lo aveva sentito alzare la voce.
Quel giorno, evidentemente, era il suo giorno fortunato.
Questo bar non chiuderà solo perché tu non vuoi aiutarmi con le rate dell’affitto, Matthew.”
Le arrivarono chiaramente quelle parole dall’ufficio e si gelò sul posto.
Matthew, Matthew.
Non poteva davvero parlare di lui.
Il rumore della porta che sbatteva la risvegliò, mentre vide il resto dei clienti allontanarsi borbottando qualcosa sulla maleducazione dell’uomo.
Il suo capo la raggiunse, sedendosi sullo sgabello accanto a lei.
Ormai il bar era deserto e anche lei si accinse a ripulire la cassa.
“Mi dispiace per tutto quello che sta succedendo Arwen. Non avrei voluto ridurmi a questo punto, ma non c’è soluzione.” Le spiegò l’uomo, passandosi una mano sul volto.
“John non è colpa sua. Sappiamo entrambi di chi è la colpa. Immagino che stia tornando qui, no?” Chiese retoricamente, mentre passava una pezza sui tavolini per pulirli.
“Mi dispiace che Matthew abbia fatto del male a te e lo abbia fatto al bar, inconsapevolmente.” Sospirò l’uomo, alzandosi.
“Ripeto, non è colpa sua. Lo mandi a casa mia, non importa i nostri precedenti, lo mandi a casa mia.” Asserì slacciandosi la divisa di lavoro e dirigendosi nello stanzino per recuperare borsa e cappotto.
“Arrivederci Mr. Habbinton. Non si abbatta, supereremo anche questa.”




Erano le sei esatte del pomeriggio, era seduta nel suo solito posto, il davanzale ampio del balcone del salotto, e leggeva un buon libro.
Era arrivata al culmine del romanzo, le sarebbero bastate poche righe e avrebbe finalmente scoperto il colpevole dell’omicida delle tre rose. *
Il campanello suonò sul più bello.
Sospirò e chiuse il libro, guardandosi allo specchio e rendendosi il più presentabile possibile.
Era incredibile come, dopo anni, lui riuscisse a metterla ancora in quella situazione.
Aprì la porta trovandosi davanti non più il ragazzo di qualche anno prima, ma un uomo vero e proprio.
Aveva gli stessi capelli rossicci, gli stessi occhi azzurri e la stessa altezza mastodontica.
“Matt.” Rispose fredda, facendolo accomodare.
“Arwen. Sei… cambiata.” Rifletté ad alta voce l’uomo, sfilandosi il cappotto e appoggiandolo sull’appendiabiti.
Conosceva quella casa come le sue tasche e la colpa era solo sua che gli aveva permesso di farlo.
“Oh, se non te ne fossi accorto, Matt, non ho più 18 anni e non sono più la tua ‘amica del cuore’.” Replicò con astio, lasciandolo sedere.
“Davvero, Arwen, ancora ripensi a quando eravamo ragazzini? Sono passati tanti anni, quanti precisamente? Due…” Provò a parlare, ma venne interrotto dalla proprietaria della casa.
“Sette anni, Matthew, sette anni. Ecco tu, invece, non sei cambiato. Sempre il solito idiota montato.” Rispose con un sorriso ironico.
“Siamo venuti qui per discutere di altro, non di quanto tu sia stata stronza a lasciarmi di punto in bianco, no Cece?” Replicò l’uomo, pungendola nel vivo. 
“Dunque, i fatti stanno così. L’attività di mio padre sta fallendo, ha ridotto le spese al minimo, io non posso aiutarlo.” Annunciò l’uomo.
“Oh no, razza di cretino, tu puoi aiutarlo benissimo, ma non vuoi è questa la realtà. Qui non c’entrano i rapporti, che non hai, con tuo padre. C’è in ballo lo stipendio di quattro persone, che verrebbero sbattute in mezzo a una strada, compresa me. Ma non credo ti interessi molto della mia condizione.” Alzò la voce lei, guardandolo negli occhi.
“Mettiamo che sia così, che garanzie avrei ad aiutarlo? Ho bisogno di certezze, devo essere certo che tutti i soldi che gli presterò mi verranno restituiti. Mi garantisci tu per lui?” Sospirò l’uomo, intrecciando le mani.
“Se ci tieni, si, garantisco io per tuo padre. Domani voglio vedere quei soldi sul tavolo del caffè, chiaro?” Replicò puntandogli un dito contro.
“Sei sempre stata convincente nel dimostrare le tue opinioni, no? Anche quando l’unica cosa che avresti dovuto fare era dirmi di si.” Si alzò sistemandosi la giacca.
“Pensi che sia stato così facile lasciarti andare? Credevi davvero che fossi l’unico a non avere il cuore spezzato? Avevo una famiglia, ero appena maggiorenne non potevo lasciarli così.” Lo accusò alzandosi.
“La vuoi mettere sul personale? Allora guardami adesso, Arwen, dimmi cosa vedi! Non sono nulla, non ho una donna, non ho più mio padre, non ho più te. L’unica cosa che mi rimane è il lavoro, almeno quello cerco di tenermelo stretto!” Le urlò contro, facendola sobbalzare.
Aveva solo riaperto antiche ferite, mai sanate.
“Cosa credi, che io non stia male? Hai solo contribuito a rendermi più fragile di quanto non sia già. Devi smetterla di dare sempre tutta la colpa a me! La colpa era la tua, avevi cinque anni in più a me, potevi fare tutto quello che volevi!” Lo accusò nuovamente, alzando la voce.
Odiava urlare, ma ormai l’unica forma di comunicazione tra lei e quello sconosciuto, perché era uno sconosciuto, era la voce alta.
“Avevo bisogno di te, cazzo! Come puoi credere che mi fossi sentito? Ventitré anni e non una straccio di vita ne di persone care! Mi hai tradito come il peggiore dei tuoi nemici. Sai qual è la cosa che fa più male? L’averti trovata di nuovo impegnata, quando sono tornato.” Sibilò rimanendo a un palmo da lei. 
Deglutì a fatica, il cuore batteva all’impazzata, il respiro era corto.
Aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì nel suo intento perché in un secondo si ritrovò le labbra dell’uomo sulle sue.
L’attirò a se continuando a baciarlo, sentiva l’adrenalina scorrerle nelle vene, aveva bisogno di sentirlo più vicino.
Anche se non l’avrebbe ammesso mai e poi mai, le era mancato, tutto il tempo che avevano passato insieme era un ricordo indelebile nella sua mente.
Poi, però, ricordò tutto quello che era successo dopo, il suo addio, il dolore che aveva provato, le sue accuse.
Si separò dall’uomo con il fiato corto, mentre una lacrima scese solitaria lungo la guancia.
“Va via, ti prego.”
Lo spinse delicatamente e Matt non se lo fece ripetere due volte, prese il cappotto e uscì dalla casa, lasciandola sola nelle sue lacrime.




Evidentemente la giornata non era finita, perché un’oretta dopo qualcun altro picchiò alla porta.
Si alzò dalla sedia della cucina dove era seduta, mentre beveva un tè per calmarsi, e raggiunse il portone.
I suoi nuovi vicini apparvero sulla soglia della porta.
Per meglio dire Irina era lì, l’espressione del fratello diceva tutt’altro.
“Irina, Nathan. Ciao.” Non voleva sembrare scortese, ma quello era il giorno peggiore che potessero trovare per una visita.
“Stai bene Arwen? Ti vedo stanca. Hai pianto?” Replicò preoccupata Irina.
Oh, bene, adesso ci mancava anche la vicina psicologa, aveva già i suoi di problemi da risolvere.
“No, davvero non preoccuparti, sto bene. Comunque, come mai qui?” Cercò di chiederle in modo più educato possibile.
“Oh si, certo, avrei bisogno di chiederti una cosa. Domani devo tornare in Texas dai miei, problemi di tipo burocratico, volevo chiederti se gentilmente potresti accompagnare Nate a decidere il colore delle tende da appendere in soggiorno. Non mi fido del suo parere, sai come sono gli uomini, e visto che casa tua è così carina pensavo di chiedere aiuto a te.” Sorrise finendo il discorso tutto di un fiato.
Bene, solo questa le mancava.
“Si, certo, Irina. Non mi dispiace, tanto domani pomeriggio non lavoro. Quando è disponibile Nathan possiamo andare.” Indicò con un cenno l’uomo che a tutto pensava tranne che a loro due, vista l’espressione spaesata.
“Grazie mille, Arwen, te ne sarò grata per sempre.” Trillò la bionda, salutandola e allontanandosi dalla casa, insieme al fratello che a malapena salutò.
Che famiglia di pazzi.
Borbottò tra i denti.
Chiuse la porta e fissò il pacchetto di Marlboro abbandonato da mesi sulla mensola del soggiorno.

Forse era ora di ricominciare a fumare qualche sigaretta.  
 








ANGOLO AUTRICE
Semplicemente vi chiedo di non linciarmi, per il ritardo enorme.
Ho davvero tantissimi compiti, la scuola mi uccide, il tempo per scrivere si riduce sempre di più.
Mettiamoci anche che per scrivere un capitolo non ci vuole poco, quindi...
Mi dispiace :c
Tornando al capitolo, abbiamo l'incontro con un altro uomo del passato di Arwen, Matthew.
Dal loro dialogo, un poco contorto, immagino, si può capire che hanno avuto un passato burrascoso.
Il filo logico, per voi lettori che non sapete, è proprio quello di non farvi capire il motivo essenziale del litigio.
Comunque alla fine lui la bacia e lei si ritrae cacciandolo fuori.
A complicare la situazione ci si mettono anche i vicini, dove Nathan sembra di stare tra le nuvole o è volontariamente così?
Avrete risposte, lo prometto, non so quando ma le avrete.
Ringrazio coloro che continuano a seguirmi nonostante i miei ritardi.
Un bacio a tutti.
Vi lascio con una foto dell'attore che interpreta Matt (Thomas William Hiddleston *^*) Ammiratelo anche voi ^^



 

 

 

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