Un terribile Tifone

di wingsam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La voce del flauto ***
Capitolo 2: *** La famiglia divina ***
Capitolo 3: *** Prodigio e incubo ***



Capitolo 1
*** La voce del flauto ***


cap 1 un terribile tifone

Un terribile Tifone





olimpo







La voce del flauto



-Dove sei, mia adorata?

Un essere ulula a gran voce nel folto della foresta, fermatosi per scrutarsi attorno. Riprende la sua andatura, incredibilmente svelta, fendendo a metà un grosso cespuglio di bacche.

-Perché scappi? Fermati, per favore!

Al suo passaggio la vita freme, pullula e lampeggia, tessendo ricami di fiori e guizzi d’ali.

Si arresta di nuovo, al centro di una radura, sollevando una pioggia di terra. Muove avanti e indietro la testa, dalla quale spunta una radiosa chioma castana. Gli occhi dorati studiano attenti la conformazione del territorio, grandi e lucenti, bramosi della preda.

-Perché fuggi?- urla fuori di sé, innalzando il suo lamento fino al cielo, laddove una mandria di nuvole accelera spaventata.

In un cenno d’ira percuote il terreno con gli zoccoli vigorosi, borbottando. Comincia ad essere stufo di quel gioco, dura da fin troppo tempo: sono quasi sette giorni che segue le sue tracce, senza mai raggiungerla davvero. All’inizio la sua fame era trainata dal motore dell’amore, del desiderio supremo, e il susseguirsi di sole e luna era solo una circostanza irrilevante, un particolare che gli era sgusciato intorno come brezza leggera. Ma mano a mano che i venti soffiavano tra gli steli d’erba, l’infatuazione era andata sbiadendo, lasciando il posto al seme della frustrazione; e questo aveva avuto tutto il tempo e lo spazio per crescere e dare frutti.

Oltremodo stizzito, l’essere si schiaffeggia le gambe coperte da una spessa pelliccia. -Ti supplico, mostrati a me ancora una volta!- domanda al vuoto, ciondolando la testa sul collo nervoso.

E’ allora che la figura esile e traslucida di una fanciulla appare, in fondo alla radura, seminascosta da alcune betulle.

-Non avvicinarti, o scomparirò di nuovo- mormora piano ella, le mani giunte sul petto nudo.

L’inseguitore sussulta a dir poco. Volge il mento barbuto in direzione della ragazza, mentre un sorriso gaio trova posto in mezzo alle gote imporporate. Alza le braccia in un richiamo muto, nella speranza immortale che possa essere esaudito.

-Finalmente- sussurra, umettandosi le labbra. Il suo vistoso pomo d’adamo mostra tutta l’eccitazione che può ritornare a scorrere calda nelle vene.

La fanciulla si acciglia, per nulla entusiasta di quella situazione. Mentre con una mano copre il seno, sposta l’altra per rendere invisibile la zona pubica. -Che cosa vuoi da me?

-Sei così bella- dice l’essere, ancora immobile al centro del pascolo. Sembra aver ignorato la domanda che gli è stata rivolta, immerso nei propri pensieri. Poi si riprende d’improvviso, e, capacitandosi forse solo adesso di cosa sta davvero accadendo, si esibisce in un profondo inchino. Dunque, trattenendo un’infantile risata, muove le zampe caprine.

-Fermati, Pan!- tuona la ninfa, sebbene la sua sia una voce estremamente delicata. Sta rivolgendo al dio uno sguardo giudicatore, distaccato. -Ti ho detto di non muoverti!

Al che l’altro pianta gli zoccoli in terra. -Perché ti sei mostrata a me, allora? Perché non posso toccarti? Perché non posso amarti? Perché?- ruggisce, con un progressivo aumento di volume della voce e della furia.

-Addio.

Questa sola, ultima parola odono le orecchie di Pan, appena prima che l’attraente figura di Siringa svanisca e divenga un tutt’uno con i chiari tronchi retrostanti.

Un’irrefrenabile senso di insoddisfazione e inadeguatezza torna ad ardere nel suo cuore, che ordina alle zampe di muoversi più veloci del suono. -Torna qui, torna qui!- esclama, per metà adirato e tormentato.

L’inseguimento, che pare coinvolgere un solo partecipante, termina sulle sponde di un acquitrino. Qui regnano soltanto piante basse e spoglie, sporadici fiori dalle tinte paonazze e un’infinità di canne. Pan sposta il suo grosso fisico, umano ma anche caprino, su e giù lungo la riva dello stagno, certo che Siringa non si sia allontanata da lì. Si fida del suo fiuto, è grazie ad esso se ha potuto inseguirla nonostante non la intravedesse.

Un alito di vento si solleva sopra allo specchio d’acqua, gelido e silenzioso, ne increspa la superficie e si infiltra nel canneto. E’ proprio quell’istante a suscitare nella mente di Pan un grido di vittoria: l’ululato invisibile, insinuandosi tra le canne, ha prodotto un suono basso e sibilante, ma non è riuscito a tradire l’udito infallibile del dio, poiché la voce di Siringa è giunta chiara sino a lui come squillo di tromba, come  strillo d’aquila.

In un baleno Pan si trova accovacciato innanzi al canneto, fregandosi le mani. -Mia adorata…ti ho trovata! Ma…ma dove sei? Qual è quella giusta?- Prende ad osservare le piante una ad una, aspettando di cogliere il minimo tremore, il più piccolo sussurro. Quello che il dio non sa è che Siringa non è la sola a dimorare in quello stagno: vi sono altre ninfe, moltissime altre, le quali hanno provveduto a fornire aiuto alla sorella inseguita tramutandola in canna, cosicché passasse inosservata.

Purtroppo, il loro piano è andato in fumo.

Con un gesto perentorio Pan ha estirpato una decina di canne, fra le quali è certo vi sia anche l’amata. Scarta quelle ridotte peggio, fino a che non gliene rimangono sette; allora viene colmato da un’idea geniale. Ne taglia le estremità con le unghie affilate, dando ad ognuna una lunghezza diversa, in modo tale che una sia più corta di quella precedente. Per finire le lega insieme con un laccio di rametti e strisce di corteccia.

Ansioso ed estasiato, inclina lo strumento appena ottenuto in modo che l’aria vi passi attraverso: la voce di Siringa spezza il silenzio, sospirando un lamento che non troverà pace.  

 

 

Le labbra di Pan si avvicinarono al flauto e vi soffiarono dentro, producendo una melodia breve, allegra e mielosa, con un non so che di voce umana.

Insieme per sempre” pensò compiaciuta la divinità, rigirandosi lo strumento tra le dita affilate e nodose. Il ricordo di quel giorno trovava consistenza nella sua mente ogni qual volta gli capitasse di sfiorare il flauto, ed allora vi si perdeva, vi si arrendeva completamente, il più delle volte accomodandosi su di un’amaca ottenuta intrecciando liane e foglie.

Un rumore sommesso di passi d’uomo scivolò sino ad essere percepito da Pan. Questi balzò giù dal giaciglio, intascò il flauto e mosse gli zoccoli ad una velocità incredibile, svanendo letteralmente nel nulla. Saettò attraverso il sottobosco, salutando con la mano scoiattoli e formiche, e scoppiando in una grassa risata ad ogni incontro avvenuto. Quando la presenza dell’uomo si fece palpabile, trovò nell’ombra di una quercia un ottimo nascondiglio e tese l’orecchio, sporgendosi appena.

Un ragazzino con un arco in spalla stringeva la mano di una bambina, probabilmente due fratelli a caccia. Parlottavano a testa china, e la piccola gesticolava per un capriccio inesaudito.

Il dio non esitò un istante e colse l’occasione: dischiuse le labbra e produsse mediante le corde vocali un verso che si allontanava parecchio dalla voce che normalmente usava.

La passeggiata dei due ragazzini venne spezzata da un’agghiacciante ululato. Il fratello scattò e si impose davanti alla sorella, allargando le spalle e aspettando che una belva feroce si presentasse a lui. Estrasse dalla faretra una freccia e la incoccò, poi trattenne il respiro e tese con non poca fatica la corda dell’arco. La piccolina dietro di lui dovette compiere uno sforzo immenso per non gridare.

Davanti ai fratelli non apparve nessun lupo, ma il corpo di una creatura che aveva dell’incredibile: dalla vita in su presentava le fattezze di un giovane uomo, dal viso affascinante e perfetto. Grandi e magnetici occhi dorati, un naso tagliato fine, labbra sottili e rosate, lineamenti mascolini addolciti dalla forma del mento e delle gote. I capelli e la barba erano tenuti lunghi, di un marrone acceso, imperlati di fiori variopinti e insetti sgargianti. Al di sotto dei pettorali e gli addominali scolpiti, l’inguine si nascondeva sotto un pelo riccioluto, tendente al nero, che s’infittiva via via che proseguiva verso i fianchi. Le poderose cosce terminavano con uno zoccolo ciascuna.

Prima ancora di presentarsi, Pan si produsse in un secondo ululato, confondendo ancor di più le menti dei fratelli. Poi, aprendo le braccia e assumendo un’espressione divertita, disse: -Che cosa fanno due teneri cuccioli umani nel mio regno?

Il più grande, mosso dal senso di responsabilità che portava sulle spalle nei confronti della sorella, fu lesto a rispondere, anche se la voce non tradì il suo sgomento. -Siamo…venuti…a…a caccia- balbettò.

Pan mutò la mimica facciale in un lampo, incupendosi. -Cosa hai detto?

Silenzio di timore.

-A caccia?- ripeté tetro Pan, gonfiandosi in petto e piegando le braccia per mostrare la sua virilità. E gridò a squarciagola: -Come osate togliere la vita agli animali? Io sono il custode delle foreste, il protettore dei boschi, colui che sussurra ai suoi abitanti- Per finire scandì lentamente, con voce bassa e irata: -E voi…venite…a caccia?

Mentre i due ragazzini se la davano a gambe con gli occhi pieni di lacrime e il cuore martellante, il dio pronunciò un tonante ruggito di leone, che fece tremare gli alberi e il cielo.

Così come poco prima aveva alterato facilmente il suo umore, Pan distese la fronte e sorrise, per poi piegarsi in due e ridere a crepapelle. Cadde sul letto di foglie secche a terra, scalciando.

-Pan!

Un rigido richiamo riportò la divinità ad ergersi in piedi; contro qualsiasi spiegazione logica, in lui era scomparsa ogni traccia d’ilarità. Alzò gli occhi, dove qualcuno stava oscurando la luce del sole.

Discese dal cielo un uomo alto più di due metri, che si posò quasi senza peso sull’erba. Possedeva un fisico scolpito e un viso pulito e asessuato. Vestiva una rozza tunica di stoffa, che trovava appiglio ad una sola spalla lasciando l’altra scoperta; ad altezza della testa e dei piedi, un paio di grandi ali vaporose sbucavano fuori da un elegante copricapo bianco e calzature di stoffa chiara.

Diresse le iridi argentate su Pan, e lo indicò per mezzo del bastone d’oro che impugnava, raffigurante due serpenti attorcigliati. -Figlio, è richiesto il nostro intervento!- esclamò fiero.

-E’ bello rivedervi, padre!- rispose prontamente Pan, scalpitando.

Hermes fece un cenno d’insofferenza con la mano libera. -Non c’è tempo, Pan. Devi venire subito con me, l’Olimpo necessita del nostro aiuto!

L’uomo caprino piegò il capo, confuso. -Com’è possibile? Non ho percepito alcun pericolo!

-Perché il tuo regno non è stato ancora toccato- fu la risposta grave dell’altro. -Tu non hai connessioni con la casa degli dei, non puoi, non…mi dispiace, non possiamo concederci un secondo di distrazione in più. Muoviamoci. Seguimi!

Senza dilungarsi oltre, Hermes si librò in volo per mezzo delle ali ancorate a testa e piedi, e con uno scatto scomparve  alla velocità del fulmine. Il satiro gli fu dietro in un battito di ciglia, galoppando rapido come il vento.

-Padre, cosa accade?- domandò Pan, mentre schivava tronchi e saltava corsi d’acqua. Trovava insolito il fatto che Hermes fosse così angustiato, l’essere burlone e sempre pronto a scherzare era un aspetto che lo caratterizzava in ogni momento. Questo lo incuriosiva e allarmava, perché non gli era mai successo di vedere suo padre così. Che fosse accaduto qualcosa di estremamente grave?

Hermes lo squadrò dall’alto, il volto inespressivo. -Zeus e Athena potrebbero essere in fin di vita, soltanto noi possiamo aiutarli. Tifone ha attaccato l’Olimpo.

Fine Prima Parte

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Capitolo 2
*** La famiglia divina ***


cap 2 un terribile tifone

Un terribile Tifone





olimpo

La famiglia divina






Una lama trafisse al cuore Pan, che si vide costretto a rallentare. Esterrefatto, strinse le dita al petto e abbassò lo sguardo, aspettando di vedere una ferita raccapricciante. Invece, nulla. La pelle era di un rosa pallido, illuminato dal consono bagliore lattescente proprio di una divinità.

Hermes non tardò ad atterrare al suo fianco, allarmato. -Non c’è tempo da perdere, figlio mio. Qualcosa non va?

Pan, gli occhi sgranati e il fiato mozzato, levò lentamente il volto. -Sta accadendo qualcosa di orribile- sussurrò con un filo di voce.

Suo padre gli posò una mano sulla spalla. -Lo so bene, è per questo motivo che dobbiamo raggiungere al più presto la casa degli dei. La furia…

-La foresta sta piangendo- lo interruppe bruscamente il satiro. Le iridi gli balenavano di scintille, velate da un fulgido strato di lacrime; era immerso in un suo mondo di visioni e messaggi ultraterreni. -Gli animali sono in preda al terrore, la foresta sta piangendo- ripeté rocamente. Tornò alla realtà grazie allo scossone che suo padre gli assestò sulle spalle.

-Accidenti, non è questo che mi aspetto da mio figlio!- sbottò Hermes, scurendosi in viso. -Reagisci!

-Si! Scusami, padre- borbottò lui, scuotendo con vigore il capo. -Hai ragione, non dobbiamo indugiare. Io non avevo mai…non…andiamo.

Ripresero così la loro corsa contro il tempo alla volta dell’Olimpo. Pan decise di evitare di condividere con il genitore ciò che la sua mente divina gli aveva permesso di scorgere, non ce n’era il bisogno. Terra bruciata, corpi straziati, oscurità feroce, uragani prepotenti, arbusti sradicati, intere montagne soverchiate; sebbene quella visione gli avesse stretto il cuore in una morsa dolorosa, continuava a porsela di continuo davanti agli occhi mentre sfrecciava in mezzo alla vegetazione, in modo che nulla lo deviasse dal mantenere un’andatura sostenuta.

Per quanto si sforzasse di ignorarla, una goccia di inquietudine picchiettava imperterrita nella caverna del suo animo, plasmando quello che sembrava un grumo di terrore, un masso che via via acquistava peso e spazio dentro di lui. Mai si era sentito così preda di emozioni sconfortanti.

Non ci volle molto affinché arrivassero ai piedi del possente monte Olimpo: grazie alla loro incredibile velocità potevano scivolare da una parte all’altra del Mondo senza il minimo sforzo. Quello che si presentò al loro cospetto, però, ebbe il potere di spegnere ogni fiamma d’audacia in un baleno, come una secchiata d’acqua che s’avventa su un acciarino acceso.

Il tempio, il sontuoso palazzo dimora degli dei, era rimasto miracolosamente intatto, lassù in cima al monte, e questo fu per Hermes e Pan motivo di sollievo, nonostante le fiaccole fossero spente e i fasci di luce che solitamente cadevano dal cielo per baciare le sue mura fossero state sostituite da vortici di nuvole temporalesche, nere come la notte. Lo stesso non si poteva dire del sentiero lastricato che dalla base del rilievo si inerpicava sino alla vetta; il fianco dell’Olimpo presentava spaventose voragini, nidi di fiamme voraci, buchi che a tratti avevano l’aspetto di sferzate di artigli dalle dimensioni spropositate.

Per non parlare dello stato devastato della vegetazione alle pendici del monte: non appena Pan se ne accorse, gemette di dolore, gonfiandosi di un odio cieco. Non c’era nessun tipo di forma di vita, né alberi o cespugli, laghi o torrenti, lepri o daini. Nulla, solo una distesa carbonizzata di terra rivoltata.

Hermes fece cenno al satiro di fermarsi mostrandogli una mano. Dal suo atteggiamento, Pan dedusse che doveva provare una profonda inquietudine; non biasimò affatto suo padre, poiché le stesse emozioni albergavano nel suo cuore.

-Regna un silenzio innaturale- borbottò il dio alato, fissando la coltre immobile di nubi oscure sospese dietro la casa degli dei. -Un silenzio di morte.

Pan deglutì per ignorare quella parte di lui che gridava, che reclamava equilibrio e pace. Strabuzzò gli occhi, nel tentativo di guardare oltre quella devastazione, di carpirne la causa, ma non ci riuscì appieno. Strinse i pugni fino a farli sbiancare.

-Com’è potuto accadere questo?- chiese imperioso, piegando il volto verso il padre.

L’altro ci mise un po’ per rispondere, anch’egli rapito dall’incredulità di fronte alla distruzione dell’Olimpo. Dopo aver inspirato a fondo, disse: -E’ opera di un mostro, di un demone. Opera del figlio della vendetta, suppongo- Rispose con il silenzio all’occhiata attonita di Pan, dopodiché riprese la parola, serrando più forte le dita sul bastone d’oro. -Il suo nome è Tifone. Non so dire quale sia il suo aspetto, né i motivi che l’hanno spinto a compiere tali azioni distruttive- Poi deglutì, ergendosi in tutta la sua statura imponente. -Quando ho percepito il disperato richiamo di Zeus, non ho potuto captare altro dalla mia visione se non stralci di un odio che ha preso corpo, di una collera, di una vendetta che ha trovato la via per incarnarsi e sfoderare il suo attacco mortale ad un obbiettivo prefissato.

Per un bel pezzo Pan restò a guardare il profilo di Hermes stagliarsi sul paesaggio incolore, la mente colmata dalla descrizione che questi aveva condiviso con lui. Assaporando quell’agghiacciante silenzio privo di vita, si lasciò sfuggire un sospiro. -Tifone- mormorò tra sé -Che si mostri a noi, allora. Dov’è?

-Non essere avventato, figlio- lo redarguì Hermes, facendo della voce un pungolo tagliente. -Prima di tutto dobbiamo soccorrere mio padre e Athena.

-D’accordo, allora. Dove sono?

-Laggiù- indicò Hermes. Il suo braccio puntava verso un avvallamento ad oriente, dove il terreno incenerito si incuneava mostrando all’osservatore nient’altro che una nuvola scura e aloni polverosi circondati dalle fiamme. -Zeus è imprigionato in una grotta- Non aggiunse  altro e spiccò il volo, avviandosi in quella direzione.

Pan, in un primo momento interdetto, squadrò ancora una volta il panorama, e si sentì squarciare il ventre. Il suo regno ridotto in quello stato era inguardabile, una vista intollerabile. Ma cosa poteva fare attualmente? Aiutare suo padre, nient’altro.

Quando affiancò Hermes e giunse all’imboccatura della caverna, vide che l’entrata era ostruita da un ammasso di pietre titaniche. Insieme si accordarono di scavare altrove un tunnel nel terreno; in questo modo avrebbero raggiunto con più facilità l’interno della grotta e al contempo risparmiato le forze per curare Zeus e Athena, e, chissà, per un eventuale scontro con il distruttore.

Ci volle molto poco perché irrompessero nella caverna. Più piccola di quanto si aspettavano, aveva un soffitto tanto basso che dovettero piegarsi sulle ginocchia. Quando gli zoccoli di Pan presero a schioccare sul pavimento millenario della grotta, una voce echeggiò.

-Sono qui! Qui!- chiamò.

Un individuo enorme e tarchiato si trovava disteso a terra. Il suo petto delineato da prorompenti muscoli si muoveva a rilento e irregolarmente, coperto da una maglia di sangue luminescente.

-Padre, no!- esordì Hermes disperato -Tu sanguini! Com’è possibile?

Zeus tossì, aumentando il ritmo del respiro. Alzò le braccia, ricoperte di lividi e bruciature, facendo un cenno di richiamo. -Vieni qui, Hermes, ho bisogno di te!

Pan si immobilizzò innanzi a quella scena, mentre suo padre accorreva al cospetto di Zeus. Era così diverso rispetto alla prima volta in cui l’aveva visto. Allora Pan non era altro che un pargoletto in fasce, portato da Hermes nella sala principale dell’Olimpo per far sì che gli dei fossero a conoscenza della sua nascita, e trovassero diletto nel suo aspetto curioso. Ricordava Zeus come un individuo troneggiante, maestoso, a tratti superbo e vanitoso, ma sempre pronto ad elargire un sorriso. Vederlo così, adesso, ridotto ad un cencio e dilaniato da profonde ferite, era una visione surreale. Il padre degli dei sconfitto! Com’era possibile?

Zeus venne aiutato dal figlio a mettersi seduto, la schiena contro una parete rocciosa. Voltò il capo barbuto e i suoi occhi brillarono di un vigore solare. -Hermes, ho bisogno che tu curi il mio corpo. Lui tornerà- esclamò, digrignando la mascella.

-Cosa è accaduto di preciso, padre?- domandò Hermes, imponendo le mani sul petto grondante di Zeus. Da queste iniziò ad emanarsi un bollente lucore arcobaleno.

-E’ successo all’improvviso. Il cielo si è oscurato, il sole è svanito e il fuoco dei bracieri è stato soffocato da un alito di morte, facendo piombare la mia casa nel buio- Zeus emise un lamento soffocato, mentre il sangue bianco che macchiava la sua pelle si rintanava dentro i tagli e le escoriazioni. -Ognuno di noi ha compreso di trovarsi ad avere a che fare con un’entità pari, se non al di sopra delle sue capacità. Tifone. Ha pronunciato il suo nome, e soltanto questo, prima di apparire e distruggere ogni cosa.

-Non dire così, tu sei il padre degli dei- lo incalzò Hermes, corrugando il volto. -Nessuno può eguagliare la tua forza, esclusi Poseidone e Ade!

-Poseidone!- irruppe Zeus, assumendo un’espressione contrariata. -E’ fuggito, come gli altri. Siamo fuggiti tutti, tutti quanti. Nessuno si è sentito in grado di opporre resistenza a Tifone…neppure io- Ridusse la voce ad un bisbiglio, e serrò le palpebre. -Abbiamo…ho abbandonato l’Olimpo, l’ho lasciato in balia del suo destino.

Hermes chinò il capo, continuando a perseguire il suo compito lenitivo. Fu allora che Pan prese parte al diverbio, mostrandosi a Zeus e spezzando il silenzio greve.

-Ma sei tornato, è questo che conta- disse rumoreggiando con gli zoccoli, e la sua voce squillò da una parete all’altra, roboante. Spaziò con lo sguardo quando l’altro gli diresse un’occhiata indagatrice, affilata come una lama. Non era abituato ad avere a che fare con lui.

-Si, è così, Pan. Figlio di Hermes- disse Zeus, tastandosi una ferita sul punto di cicatrizzarsi completamente. -Ma è solo grazie a mia figlia, Athena. E’ stata lei a rammentarmi quale sia il mio compito, quale peso grava sulle mie spalle. La salvaguardia del Mondo- Hermes si allontanò da lui, riprendendo fiato e massaggiandosi le mani. Finalmente Zeus poté respirare a pieni polmoni, si mise in piedi ed ispezionò il torso nudo con compiacimento, notando che ogni tipo di lesione era svanita. Si chinò per sistemare i calzoni color della luna, lasciando che la sua chioma fulva si confondesse con la lunga barba e andasse a coprire il volto. -Perciò io e lei abbiamo fatto dietrofront e abbiamo fronteggiato il mostro.

-Sai dire come ha preso vita? Chi l’ha generato?- chiese Hermes, accarezzando il fidato scettro dorato.

-E’ opera di Gea, non ho dubbi. L’ho compreso durante lo scontro…era come se lei fosse lì, vicino a me, sussurrandomi parole cariche d’astio. E’ adirata per la sconfitta dei suoi figli per mano mia, i titani e i giganti, quindi ha stretto un accordo con mia moglie…- Accennò un sorriso storto, facendo cenno di no con il capo. -Era…lei è sempre pronta a…a divertirsi alle mie spalle. Che si diverta pure, non m’importa. Ma stavolta l’ha fatta grossa.

Sia Pan che Hermes erano al corrente del motivo per il quale Era solesse tirare brutti scherzi al marito, ma ritennero cosa saggia non farne parola.

-Era ha acconsentito, e ha richiesto a sua volta l’aiuto di Crono- proseguì Zeus ergendo fiero il mento barbuto, davanti ai visi sconcertati dei suoi figli nell’udire quel nome. -Non poteva rivolgersi ad alleato migliore. Crono ha generato un embrione e l’ha affidato a mia moglie, dicendole di sotterrarlo, e che quando i tempi sarebbero stati maturi l’intento di Gea si sarebbe materializzato, scagliandosi su di me in quanto vendetta incarnata.

Hermes annuì, poiché aveva pronunciato lui stesso parole simili poco prima, quindi quello che aveva percepito corrispondeva a verità. Pan si limitò invece a costruire mentalmente un albero genealogico abbozzato, raffigurante la sequenza di azioni e pensieri che avevano portato Tifone alla luce. Quando anche lui ebbe compreso, tirò un profondo respiro. -Dov’è Athena, ora?- domandò umilmente.

In quel medesimo istante la terra ebbe un forte tremore. La caverna diede segni di cedimento, e dal soffitto si staccarono diverse placche di roccia arenaria, che indussero agli dei l’idea di dover abbandonare quel buco sotterraneo. Quando la scossa terminò, la cavità parve essere ancora in piedi.

-Padre!

Una voce irruppe nella sala, e fece voltare tutti i presenti. Dal cunicolo che avevano provveduto a scavare Pan ed Hermes, fuoriuscì una donna vestita di una lucente armatura bronzea. Doveva essere alta quanto Hermes, più di due metri. Il corpo allenato e proporzionato, di un biancore quasi innaturale, metteva in evidenza numerosi graffi e rivoli di sangue rappreso. Aveva una chioma rosso fuoco che le ricadeva sulle spalle nude, coperta in parte dall’elmo scintillante che indossava. Piegò la lunga lancia in modo che potesse farla entrare nell’angusto spazio; poi gli occhi verdi le brillarono di astuzia nell’indirizzarli a Zeus. -Padre, tra poco sarà qui!

-Eccellente, Athena- le fece eco Zeus, piantando un pugno contro il palmo aperto dell’altra mano.

Hermes squadrò padre e sorella ripetutamente, cercando di cogliere il senso di quello scambio di battute.

-Avete attirato qui Tifone di proposito?- esclamò infine, disorientato e sconcertato. -Zeus, fra i tuoi figli sarò pur uno di quelli con il più spiccato senso dell’umorismo, ma questo va oltre lo scherzo.

-E’ l’unico modo per batterlo- fece Athena, perentoria. -Non perderlo di vista, non abbassare mai la guardia e attirarlo in un punto strategico. Siamo stati costretti a nasconderci qui dentro, o avrebbe disintegrato i nostri corpi. E’ stato allora che hai ricevuto la richiesta di aiuto da parte di nostro padre, Hermes, e sono felice che tu l’abbia raccolta e di vederti qui. Io nel frattempo ho provveduto ad istigarlo e trattenerlo nei paraggi…come vedete, non ne sono uscita del tutto indenne.

-Posso curare le tue ferite, Athena, se lo vuoi!

-No, Hermes, non c’è il tempo. Tifone sarà qui a momenti, dobbiamo farci trovare preparati e impedire la sua avanzata altrove, o espanderà morte. Non possiamo lasciarglielo fare.

Zeus annuì gravemente, impettendosi.

-E se io e mio padre fossimo arrivati troppo tardi?- si intromise Pan, con voce chiaramente alterata. -Ti avrebbe ucciso, Zeus! Vi avrebbe uccisi entrambi!

-Questo non è avvenuto, mio caro protettore dei boschi- gli rispose il padre degli dei. -Avevo fiducia in voi, sapevo che avreste risposto al mio appello senza indugi. Adesso che siamo in quattro, fronteggiarlo sarà più semplice.

Hermes arretrò di qualche passo, svolazzando. -Io e Pan non possediamo abilità combattive, non so quanto potremo fornirvi aiuto. Siamo accorsi con volontà e determinazione, ma non credevamo di doverci scontrare con un mostro che supera persino te in potenza, padre. E’ assurdo che noi possiamo essere d’aiuto…

-E quello che hai fatto sinora che cosa è stato?- disse Zeus -Sei già stato d’aiuto, hai rigenerato il mio corpo. Non dire queste sciocchezze. Nessuno di voi è inutile, non c’è figlio che io abbia generato a non calzare un compito insostituibile e prezioso, e sono sicuro che ognuno di voi troverà la sua parte in questo scontro. Sono stato chiaro?

Suo figlio e Pan annuirono con riverenza. Anche Athena, sebbene non fosse del tutto coinvolta, ammiccò.

-Scusami- fece Hermes, impugnando con foga la verga d’oro raffigurante i due serpenti intrecciati -E’ quest’assillante pensiero di Tifone, esercita una grande pressione su di me. Non mi sono mai scontrato…non ho mai…

-Neppure io, figliolo- Zeus sfiorò un braccio al figlio alato, mostrando per la prima volta un lato dolce, paterno, amorevole di sé. -Neppure io. Non così forte.  

Pan guardò in terra, affranto. Quale tipo di aiuto aveva apportato alla famiglia divina, finora? Per quale motivo suo padre l’aveva coinvolto in quella faccenda? Si sentiva inutile, un pesce fuor d’acqua, in un contesto del genere. Eppure, se porgeva l’orecchio al suo cuore, una voce gli sussurrava di attendere, di pazientare il momento proficuo. Cosa che, attualmente, non gli sarebbe stata affatto d’aiuto ma avrebbe provveduto soltanto ad aumentare la sua angoscia. Quanto avrebbe voluto tornare alle sue foreste, le sue radure, la sua amaca! Quanto desiderava poter scomparire da lì e ricominciare a tirare assurdi scherzi ad ignari viandanti. O inseguire una delle tante ninfe che gli vivevano intorno, il suo passatempo preferito!

La terra tremò senza preavviso una seconda volta, e sulle pareti della caverna si disegnarono grandi crepe. Ogni cosa iniziò a sgretolarsi, e l’aria mugghiò di dolore.

-Fuori di qui! Non è mia abitudine nascondermi!- tuonò Zeus, caricando un pugno. Lo indirizzò verso il soffitto liberando una forza spropositata, e quest’ultimo  esplose tramutandosi in una pioggia di detriti.

Hermes strinse Pan tra le braccia e si librò in aria, allontanandosi da quello che ormai non era altro che un buco nero su di una distesa bruciata. Zeus e Athena vi balzarono fuori, atterrando poco lontano da lì, facendo bene attenzione a non cadere preda del terremoto che stava avendo luogo.

La tempesta che prima dimorava sul tetto dell’Olimpo ora si era espansa, tanto da coprire ogni lembo di cielo. La notte era calata prima del normale, sulla dimora degli dei, accompagnando una pioggia continua di fulmini che rivelavano il vero colore violaceo delle nubi, gonfie di rabbia e acqua.

La scossa si affievolì, e il Mondo tacque ancora. 

Poi iniziò a piovere, a raffiche incostanti e graffianti. Hermes e Pan planarono su una collina di cenere, unendosi al resto del gruppo: si strinsero a Zeus e Athena, che già sapevano a cosa sarebbero andati incontro di lì a poco.

Quando una terza squassante scossa fece vibrare la terra, compresero che l’epicentro del terremoto non si trovava in profondità, sotto i loro piedi, ma in superficie. Erano passi. Era la mole titanica di un corpo raccapricciante che si schiantava, si sorreggeva sulla crosta del Mondo e la faceva rabbrividire e scricchiolare.

A Pan cedettero le zampe. La paura esplose inaspettata e sgradita nel suo petto, tanto che strinse d’istinto la mano a suo padre. Per mezzo di quel tocco sentì che anche Hermes provava paura, un panico smisurato e, soprattutto, nuovo al suo animo.

Quale entità tanto terribile si sarebbe mostrata infine a loro? Gli dei non potevano provare paura…eppure, adesso questa ardeva nelle loro vene, inacidiva il loro sangue.

-Perché mi hai portato con te, padre?- balbettò Pan, incapace di cogliere il senso della sua presenza lì. Lui era nato per paesaggi bucolici, per la campagna, per l’amore della natura e della bellezza selvaggia, per la pace. Per l’equilibrio e la prosperità.

-Perché siamo l’ultima speranza per il Mondo, siamo gli ultimi dei rimasti- fece Hermes, trattenendo a stento un singulto. -Non vergognarti di provare timore, figlio; dovresti vergognarti se non ne provassi. Significa che questo Mondo per te vale qualcosa, che non è tuo desiderio scompaia.

Pan annuì appena, e acuì la presa sulle dita del padre, che concluse: -E allora difendiamolo!

Dall’oscurità alle spalle dell’Olimpo apparve una figura dalle dimensioni indescrivibili. Tifone lentamente emerse dalle ombre,  innalzando il suo tetro canto al cielo cupo.  

Fine Seconda Parte

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Capitolo 3
*** Prodigio e incubo ***


cap 3 un terribile tifone

Un terribile Tifone





olimpo


Prodigio e incubo





L’estrema vetta del monte Olimpo raggiungeva appena la metà dell’altezza della Sua sagoma. Quando espose le Sue fattezze alla vista dei quattro dei, il Mondo parve zittirsi e farsi piccolo, e inchinarsi perché non poteva fare altro; anche le gocce che cadevano dal cielo sferzando la terra rallentarono la loro corsa. Le nubi si prostrarono e l’azzurro che vi pulsava dietro brillò, quando la Sua testa squarciò il tetto del Mondo; ma l’oscurità provvide subito a cicatrizzarsi, come un tessuto cosciente, come un’entità viva che teme la purezza della luce dei cieli e che questa raggiunga i mortali.

Il mostro era un ammasso informe di corpi e detriti, non c’era altro modo di descriverne le fattezze. I due arti che provocavano boati e terremoti sconquassanti erano composti da una moltitudine di rocce sinuose, lisce e viscide, incastrate a caso fra di loro in modo da comporre  due gambe sbozzate, sprovviste di piedi. Le braccia, anch’esse senza dita alle estremità, erano della medesima composizione, smisuratamente lunghe e dotate di un’incredibile snodabilità. Il torso, invece, consisteva in un insieme iridescente di serpi, che si contorceva e si dimenava continuamente producendo uno sfarfallio di riflessi sfuggenti. In prossimità di quelle che potevano essere chiamate spalle spuntavano due immense ali di pipistrello, all’apparenza prive di vita dal momento che non presentavano peli o cute, solo un’ossatura dello stesso colore della notte regnante. La testa era un grumo informe di ossa, pietre, arbusti, terra e magma appiccicati insieme, circondato da un alone di pennacchi grigiastri; vi pendeva una lunghissima barba di serpenti sibilanti, che oscillava minacciosa ad ogni passo come una tenda. Due pozzi rossi come braci sputarono lingue di fuoco intravedendo il quartetto di divinità.

Di fronte a quello spettacolo, Pan ed Hermes furono in grado solo di restare a bocca aperta, assaliti da un freddo senso di inferiorità. Definirlo prodigio, o incubo? Una simile creatura poteva essere solo figlia di un dio, o meglio, del capriccio di un dio. Perciò, forse, era entrambi: sia prodigio che incubo. Gea si era senz’altro ingegnata, e il suo intento si era materializzato: la sua furia cieca poteva abbattersi su Zeus e sull’Olimpo senza mezzi termini.

Tifone si arrestò, e parve aver cambiato idea riguardo qualcosa. Inclinò l’assurdo corpo all’indietro e, per mezzo di una bocca che non possedeva, emise un ululato agghiacciante che si propagò dovunque e fece tremare ogni cosa. Era come se tutti gli animali del Mondo parlassero insieme, in un coro di rabbia e frustrazione, accompagnati dal suono di un mastodontico corno.

Pan si sentì dilaniare e si tappò le orecchie, incapace di impedire alle corde vocali di vibrare, e qualcosa lo forzò ad accasciarsi. Non ci fece caso, ma anche Hermes ebbe una reazione simile. Zeus invece non aveva perso tempo, perché era già scomparso dal loro fianco: si era spostato con incredibile velocità compiendo un balzo, e adesso aleggiava a mezz’aria, ogni muscolo carico di tensione come una molla contratta al massimo della sua capacità.

-Fate qualcosa! Distraetelo!- urlò Athena, spintonando i due compagni che aveva vicino. -Io devo recuperare la Folgore!

Hermes ebbe un sussulto, e i suoi occhi si fecero improvvisamente piccoli e sperduti, come se si fossero accorti solo ora di quello che realmente stavano vedendo. -La Folgore? Cosa? Come…- farfugliò.

Athena lo ignorò. Proiettò un braccio in avanti con un agile gesto, e la sua lancia penetrò l’aria ribollente per miglia e miglia, emettendo un boom sonico, fino a tintinnare senza successo sul ginocchio amorfo di Tifone. Allora Athena serrò la mascella, e il dio alato avrebbe giurato che stesse ringhiando.

-L’ha sottratta a Zeus, inglobandola nel suo corpo- disse lei, senza voltarsi. -Fratello, non deludere nostro padre. So che non vuoi, e non lo farai. Trova il tuo scopo in questo scontro!- Poi si volse, finalmente, e guardò accigliata Pan, che era ancora impietrito dallo scempio che l’aspetto di Tifone emanava. -Ehi, tu! dio della natura!

Il satiro, fuori di sé com’era, emise un belato strozzato e il suo collo si gonfiò di ansia.

Prima di riferire a Pan ciò che pensava, Athena cercò di comprendere dove l’arma che aveva scagliato si fosse nascosta, lasciando che le pupille lampeggiassero frenetiche laggiù dove l’inferno trovava posto. -Credi che io non abbia paura?- disse, abbassando il tono della voce, e rivelando un’inaspettata dolcezza. Hermes la squadrò da testa a piedi, scosso da incredulità. -Chiunque dimorava nella casa dell’Olimpo è fuggito in preda al terrore più puro e sconfortante, davanti a Tifone. Se tu e tuo padre foste arrivati qui qualche ora fa, non avreste trovato nessuno! Ma è giusto e buono rispondere alla paura in qualche modo, altrimenti sarà lei a fare da padrona su di te- Posò una mano ricoperta di lividi sulla spalla nuda di Pan, e la strinse con forza, e Pan ne sentì il calore diffuso. -Se ti trovi qui, con me, e tuo padre, e il padre di tutti noi, un motivo c’è. Zeus non fa mai niente senza uno scopo preciso, senza prima studiare un piano. La sua mente oltrepassa la capacità delle nostre. Dobbiamo fidarci di lui, come lui ha fatto e fa con noi!- Poi portò le dita all’elmo, riflettente i baluginii del cielo gonfio, e se lo tolse con un gesto secco. Nel mentre Tifone veniva colpito al viso da un essere che al suo confronto era delle dimensioni di una zanzara, Zeus, costringendolo a mostrare l’altra guancia e lamentarsi sottilmente. -Abbiamo l’occasione di far vedere al Mondo che possiamo proteggerlo dal male e dalla follia della vendetta. Non sprechiamola!- disse la dea della giustizia.

Athena diede le spalle ad Hermes e figlio, abbandonò in terra l’elmo rilucente e mostrò loro la sua lunghissima chioma rosseggiare nell’atmosfera pesante, una fiamma inestinguibile di speranza e austerità. Li abbandonò intraprendendo un’agile corsa, con la quale svanì e riapparve direttamente ai piedi del demone-mostro, in cerca della sua lancia.

-E sia- bisbigliò Hermes, ignorando la scossa famelica che una zampa di Tifone causava sfregando contro un colle. Pan deglutì più volte e gli si avvicinò, e percepì la sua forza d’animo; in questo modo riuscì a rallentare i battiti del cuore, delucidare la mente, e rilassare il respiro.

-Padre- disse, -Cosa facciamo?

-Giochiamo- disse Hermes, mostrando, inaspettatamente, un sorriso.

-Cosa significa?

-Tu dovresti essere il primo a capirmi, figlio.

Pan fissò il padre senza essere capace di dire alcunché, scaldato in qualche modo dalla sua espressione facciale.

-Facciamo quello che siamo abituati a fare, Pan: perché è la sola cosa che sappiamo fare alla perfezione, la cosa per la quale siamo nati. Zeus non deformerebbe mai la nostra immagine chiedendoci di compiere gesta per noi impossibili…- Il suo sguardo divenne sereno, nonostante l’immensa ombra minacciosa del figlio di Gea e Crono rumoreggiasse alle sue spalle. -…Gioca la tua parte, Pan!

A quale vita spensierata e colma d’amore leggero s’era abbandonato, il dio-satiro, fino a quel giorno! Rincorrere questa e quella ninfa, raccontare barzellette alle cortecce di pino, collezionare gusci di chiocciole, gracchiare alle spalle dei cacciatori, giocare al tiro al bersaglio con i falchi, dondolarsi dalle fronde dei sempreverdi…e, sempre, provvedere all’integrità della natura, il suo regno, ciò che la sua vita stessa era chiamata a proteggere, oltre che farne la propria allegra dimora.

In quella circostanza, invece, dinanzi alla minaccia di Tifone, come poteva comportarsi? Come mi sarei comportato, se fossi stato da solo? si disse, riempito di fiducia dalle parole di Hermes. Qualcosa farò, sono pur sempre un dio.

 

Il colosso levò entrambe le braccia in alto e, mugghiando, le scaraventò in basso per contrastare una forza. Quella forza erano le braccia di Zeus, scagliatesi incontro al volto di Tifone. Quando la coppia di arti si scontrarono, l’una centinaia volte più grandi dell’altra, diedero vita ad un’esplosione, e una bomba d’aria creò una bolla di vuoto, che si espanse a dismisura e respinse l’acqua che il cielo lasciava cadere.

Una donna dai capelli rossi era intenta a spezzare le difese rocciose di una gamba del mostro, accusando colpi precisi con la lancia dorata. Dove l’arma cercava di conficcarsi, la roccia si lamentava e nascondeva ulteriormente un oggetto accecante, lampeggiante di turchese e arancione e giallo vivido: l’arma più potente che il più grande fabbro del Mondo avesse mai forgiato, la Folgore. Fino ad allora mai nessuno era stato tentato dal desiderio di impossessarsene, l’oggetto che Efesto stesso aveva plasmato con le sue mani prodigiose. Facendo attenzione a non rimanere sepolta sotto la mole titanica di Tifone, Athena allungava il braccio e lo ritraeva, imprecava e tuonava con la voce severa, nel tentativo di liberare la micidiale arma di suo padre da grinfie egoiste.

Pan ed Hermes avevano preso a compiere ampi cerchi attorno al nemico, così da attirare e frammentare la sua attenzione. Se non altro, in questo modo avrebbero di certo favorito Zeus, il quale ora giaceva a terra, sotto decine di metri di detriti, scagliato lì dal contraccolpo che lo scontro con Tifone aveva causato. Questi si alzò e riprese il volo, fece della voce un canto di guerra e caricò all’indietro un destro formidabile: non si accorse però che Tifone stava facendo altrettanto, e con una rapidità sconcertante.

Entrò in azione Pan, che stava seguendo attentamente la scena, e spaventando il temporale strillò: -Alle tue spalle, Zeus!

Quella voce fragorosa venne udita proprio in tempo dal padre degli dei, che si voltò e parò con successo il colpo di Tifone a ginocchia unite; lo respinse e utilizzò il braccio del mostro come fosse una rampa di lancio, correndoci sopra. Tifone tentò di allontanarlo come si fa con un insetto, con l’altro braccio, ma quando questo fu sul punto si avventarsi su Zeus egli lo schivò con un salto e continuò a correre, sempre più vicino al volto inumano del demone. Compì a sorpresa un secondo salto, unì le braccia sopra il capo e roteò su se stesso, dando al proprio corpo l’aspetto di una micidiale trivella: spalleggiato dal flash di un torrente di fulmini, trapassò ruggendo la fronte di Tifone, da parte a parte, il quale non ebbe prontezza di riflessi per contrattaccare.

Per alcuni istanti Pan ed Hermes credettero che fosse fatta, che Tifone fosse stato debellato: si riunirono e si permisero un sorriso, cercando con lo sguardo Zeus. Anche Athena abbassò la picca d’oro, distendendo l’espressione sofferente che le si era andata ad imporre in volto.

Ma fu un attimo, un breve attimo di sollievo. Tifone smise di ondeggiare incertamente, si riassestò, e, mollando schiaffi al vento, lanciò un grido spaventoso e odioso che fece piangere il Mondo e tremare la terra, e aprire e poi richiudere un cerchio celeste nel cielo.

Si udì nuovamente la voce di Zeus, irrequieta e furiosa, attirare a sé uno sciame di folgori. Fu in quel modo che i tre dei che lo supportavano poterono vedere dov’era: stava alle spalle di Tifone, ricoperto di liquami nauseabondi e ogni genere di sporcizia.

-La mia Folgore! Athena, la Folgore!- disse, mal celando disperazione.

Sua figlia, purtroppo, ancora non aveva cantato vittoria. Dai piedi di Tifone, urlò: -Pan, Hermes, dovete fare in modo che si sposti! Io lo colpirò a questa gamba, la Folgore è qui!

Del demone-mostro i quattro dei avevano capito ogni cosa, o per lo meno tutto quello che il suo aspetto e il suo comportamento davano ad intendere; ma c’era una sola cosa che non avrebbero mai potuto afferrare, e cioè che era in grado di percepire il significato delle frasi che loro si scambiavano. Il fatto che non possedesse una bocca non valeva a dire che era incapace di prendere, a suo modo, parte ad una conversazione. Per questo motivo, quando Athena parlò a Pan ed Hermes, questi piantò un pugno pauroso al suolo, quasi l’avesse spostato alla velocità del suono, in prossimità della posizione della dea della giustizia.

Di lei non si udì più la voce, né si vide la presenza, in mezzo al nuvolone di polvere e fuoco che s’era sollevato.

-Nooo!- si udì forte; era Zeus. Si avventò sul mostro, incanalando ogni goccia di forza che il suo corpo sovrumano era capace di produrre nei pugni serrati, e li infilzò sul dorso di Tifone.

Dapprima ogni suono fuggì, si rintanò nella dimensione del silenzio e il Mondo tacque per una frazione di secondo, imbalsamandosi. Il tempo si dilatò e ad Hermes e a suo figlio sembrò che tutto andasse a rilento, che si allontanasse e si riavvicinasse da loro nel compiere un profondissimo respiro. Poi il padre degli dei diede dimostrazione di cosa le sue capacità, se spinte oltre al limite, potevano fare: per un breve istante l’aria si tinse di un bianco insostenibile, e i suoni parlarono di nuovo, scoppiando in un temibile cigolio, un lamento che intimorì l’Olimpo stesso. Tifone gridò di dolore, la schiena di serpi sventrata; era ormai stato inesorabilmente sbilanciato, e stava precipitando in avanti.

La casa degli dei verrà sepolta!, pensò Hermes, una maschera indefinibile a modificargli la faccia. Zeus per fortuna doveva aver pensato la stessa cosa, perché era scomparso da dove si trovava. Pan lo vide spostarsi in prossimità del petto di Tifone e alzare le grosse mani con l’intento di sostenerne il peso: sotto di lui, il tetto dell’Olimpo chiedeva pietà.

Con un gemito di dolore Zeus ricevette sui palmi delle mani la mole di Tifone. Era allucinante, incredibile, impossibile! Ma doveva resistere, non poteva cedere. Ogni atomo del suo corpo lo implorava di abbandonare la presa, di lasciare che l’Olimpo affrontasse il suo destino; ma Zeus rispondeva loro con coraggio e fierezza, scuoteva il capo e cercava di ignorare il dolore, lo sfrigolio delle ossa, la capacità di levitazione messa a durissima prova, nella mente e nel cuore l’immagine di Athena messa in ombra dal pugno assetato di morte di quella belva assassina.

-Dobbiamo fare qualcosa anche noi!- belò Pan, pervaso da una smania incontrollabile, forse dovuta alla visione del padre degli dei costretto a dover sorreggere da solo il peso dell’astio di Gea…esattamente ciò che Ella desiderava. Allora zoccolò sino ai piedi di Tifone e vi assestò un colpo netto e schioccante, che la pietra non poteva respingere; ecco, la Folgore era lì, scoperta, libera della sua prigione, splendente e grandiosa! La acciuffò, prima che le carni inumane del nemico si richiudessero. Non appena l’arma fu nel palmo della sua mano, Pan ne percepì il potere: una vibrazione gli attraversò il braccio, il torso e anche le zampe. Compieva molta fatica ad impugnarla, era come se gli stesse prosciugando la linfa vitale; ma allo stesso tempo provava brama di possessione verso di lei, desiderava utilizzarla e distruggere e creare, comandare e sottomettere.

-Pan, cedila subito a Zeus! Soltanto lui può detenerne il controllo!

Fu grazie al comando imperativo di Hermes, che il satiro riacquistò lucidità e capì quali davvero erano le sue condizioni attuali: stava morendo. Il suo corpo si stava incenerendo, deperiva e si anneriva a gran velocità, tra le scintille ronzanti che la Folgore emetteva nel ripudiare il suo controllore. Scrutando suo padre vide che gli stava porgendo una mano: quindi non esitò neppure un attimo e scagliò l’arma lontano. Il suo corpo tornò lesto ad uno stato ottimale. La Folgore finì dritta fra le dita di Hermes che, conscio di cosa questa era in grado di fare a chi non era degno di possederla, indirizzò subito tutto il potere curativo di cui poteva fare uso su se stesso, in particolar modo sulla mano che stringeva il fulmine. Poi chiamò il padre degli dei, cercando di non risparmiare il fiato: -Zeus, eccola! La Folgore!

A quello bastò capire cosa stava accadendo. Volse il capo barbuto, imperlato di fatica, e la vide. Mutò d’espressione come se fosse stato un bocciolo di margherita accarezzato dal sole per la prima volta. Accadde tanto rapidamente che non fu possibile distinguere uno spostamento dall’altro: Zeus abbandonò la presa dal corpo semidistrutto di Tifone, agguantò la Folgore che Hermes aveva provveduto a porgergli , e il Mondo sospirò di luce. Un fulmine che s’avrebbe detto fosse di diamante trapassò al cuore il figlio di Gea e Crono, ancora nell’atto di cedere al suolo, facendogli compiere un’improbabile e colossale capriola all’indietro; sbalzato di centinaia di miglia, si piantò sul crinale di una catena montuosa ad occidente, dividendosi a metà. Non proferì alcun lamento, ma l’aria parve solidificarsi tanto fu il chiasso e l’arroganza della scossa di terremoto scaturita.

Ora che l’Olimpo era stato messo in salvo, Zeus scese di quota, e quando posò piede sul terreno incenerito, accanto a Pan ed Hermes, fu chiaro quanto era sfinito e quanto agognasse il riposo. La Folgore, nel suo pugno, si era ingigantita di dimensioni e luminosità, e canticchiava toni elettrici alternando note basse ad altre molto alte.

-Avete agito bene, figli miei- ebbe la forza di dire, gli occhi stanchi volti ai piedi, conficcati al suolo come poderosi tronchi di quercia. Poi venne trapassato da un’idea. -Athena. Athena!- implorò. Cercò il punto dove ricordava d’averla vista l’ultima volta, posò la Folgore e cominciò a scavare, a respingere massi, ad ansimare più di quanto non stava facendo. Anche gli altri due si unirono a lui, in silenzio rispettoso.

E Tifone, era morto? O per meglio dire, rientrava nelle sue possibilità la morte?

In base a quanto seguì di lì a poco, no.

Zeus dovette interrompere la disperata ricerca, perché incomprensibili parole di pietra, insulti di lava, versi raccapriccianti si stavano indirizzando a lui. Si voltò, e inorridì: Tifone aveva in qualche modo ricomposto l’integrità del proprio corpo, probabilmente utilizzando pezzi del Mondo stesso. Il dorso, così come diverse altre sezioni, ora erano composte di terra, scintillante di pietruzze e minerali vari, pezze e rammendi incastonati in un grumo di serpi lamentose e intrichi di rocce umide.

Ancora Tifone si ergeva minaccioso sull’Olimpo, sugli dei, sulla vita.

Cosa mai altro avrebbero potuto fare, le divinità rimaste, se non ingaggiare un ulteriore duello?

Zeus, ritornato in possesso della fidata Folgore, si levò in cielo come un proiettile e scagliò saette, una di seguito all’altra, senza fare economia di colpi. Hermes volava attorno al capo del demone per confonderlo, torreggiando sul paesaggio, imitando una falena ipnotizzata dalla lanterna. Pan invece correva attorno alle ciclopiche zampe, fuggendo quando queste si issavano e schiacciavano, e riavvicinandosi e provocando quando se ne stavano inerti.

La nuova resistenza con la quale Tifone si opponeva all’inesorabilità della Folgore era da non credere. Sebbene i lampi e i fulmini volassero violenti, e crepitanti, e maestosi e fantastici, tutti quanto il primo, il demone era in grado di non esserne schiacciato. Se ne rimaneva colpito direttamente, mostrava segni di cedimento, ma si limitava ad arretrare o perdere l’equilibrio; se invece trovava il corretto tempismo per deviarli con le braccia snodate, quelli rimbalzavano, deviavano la loro corsa e si perdevano nella tempesta, allontanandosi e svanendo in un eco secco e soffocato.

Quando non ci fu più altra scelta, Zeus decise di passare al corpo a corpo, ancora una volta. Avrebbe richiesto un ulteriore immane dispendio di energie, ma era disposto a farlo: l’idea, sconcertante e intollerabile, che sua figlia Athena avesse perso la vita a causa di quell’aborto oscuro iniziava ad offuscargli la mente.

Calci e pugni, schivate, sollevamenti, grida e fulmini. La pioggia tagliente, il mattino invisibile, l’incertezza crescente.

Quando Zeus ebbe una portentosa intuizione. Un’idea, un sussurro al cuore, un sorriso. Si allontanò più che poté da Tifone, il corpo tumefatto, e disse ai suoi figli di avvicinarsi, tanto quanto bastava da prendere del tempo affinché l’antagonista non li raggiungesse prima di un certo lasso di tempo, vista la sua goffa lentezza sulle lunghe distanze.

-Dobbiamo attendere che sprofondi nel suolo, vi rimanga impantanato- disse Zeus, dopo aver preso faticosamente fiato. La Folgore proiettava sul suo volto una luce cristallina e netta che ne metteva in risalto lo sfinimento.

-Padre, vuoi che ti curi?- gli domandò Hermes, anch’egli stremato. Più volte si era visto intrappolato tra le grinfie di Tifone e ne era rimasto schiacciato, salvandosi per pura fortuna.

L’altro rispose negativamente con un cenno, piegandosi in due così da alleviare il peso di dolori indescrivibili.

Con rispetto e ammirazione, Pan chiese: -Cos’hai in mente di fare?- Era sfinito, giunto al limite delle forze fisiche e mentali, ma la sua voce era ancora fresca e grintosa.

Tifone stava muovendo soverchianti passi nella loro direzione, lasciando intorno a sé una pioggia di lapilli e rocce incandescenti. Dopo averlo studiato attentamente, Zeus si rivolse ai due dei spiegando loro in che modo avrebbero dovuto comportarsi in seguito, senza tralasciare nulla riguardo l’intuizione che aveva avuto poco prima. Loro compresero, annuirono con fermezza ed ebbero risposta, e conferma, del perché fosse proprio Zeus a fare da padrone nella vasta famiglia divina dell’Olimpo.

 

Chissà se il piano che Zeus aveva architettato comprendeva un’imprevedibile reazione di Tifone. Si, perché questi, anziché proseguire sul cammino, stava adesso sradicando un’intera montagna che si trovava nelle vicinanze e, facendo uso di una potenza fisica che a dei e uomini non era permesso neanche di sognare,  voleva sollevarla. Le sue braccia rocciose erano divenute parte integrante della montagna, che staccandosi dal suo letto antico migliaia di millenni si produsse in un ruggito tetro e violentissimo, graffiante, simile al suono che si può udire quando un meteorite si schianta su di un pianeta delle sue stesse dimensioni, disintegrandolo.

Tifone innalzò la montagna sopra la testa; divenne alto più del cielo, oltrepassò di migliaia di miglia le nubi e, in un modo assolutamente scioccante, la tempesta che non aveva accennato ad attenuarsi fino ad allora scomparve senza lasciare traccia. La luce del sole inondò il Mondo, rivelando agli occhi stanchi delle divinità quanti danni quest’ultimo avesse accusato. Non esisteva più niente. Fiumi, mari, colline o pianure: nulla. Una grande sconfinata zona ridotta a piattume incolore, segnata solo dalle orme del combattimento.

Il ruggito della montagna volante non cessò neanche quando Tifone la abbassò, con l’intenzione di scagliare infiniti miliardi di tonnellate di peso addosso alla famiglia divina. Questa non avrebbe potuto, ovviamente, scampare in nessun modo all’impatto. Non avrebbe mai fatto in tempo a spostarsi prima che la pietra la raggiungesse, seppellendola e lasciando di lei solo un ricordo.

Il sole venne una seconda volta oscurato, ma non a causa di perturbazioni atmosferiche. La montagna cadeva. Tifone si unì al frastuono gridando vittoria, mentre le orbite focose dei suoi occhi vomitavano lava.

 

Eppure, chissà per quale motivo, un ampio sorriso era stampato in mezzo alla folta barba iridescente di Zeus.

La terra tremò spaventosamente, e Tifone barcollò. Il peso della montagna sopra di lui lo stava sopraffacendo, rendendo le sue movenze impacciate e smisuratamente più lente di prima.

Hermes, vicino a suo padre, stava dirigendo un fascio luminoso che dalle sue mani e dal bastone d’oro si immetteva nel corpo affaticato di Zeus, affinché ne sanasse le fatiche e rigenerasse le ferite. Doveva disporre di tutte le energie possibili, per compiere un ultimo gesto.

E Pan, dov’era? Pan si trovava a molte miglia di distanza, in un punto molto, forse troppo ravvicinato rispetto a Tifone: un punto dove esso non avrebbe mai sospettato si nascondesse il nemico. Il dio satiro si stava gonfiando in petto, stringendo a più non posso i pugni. Si stava preparando per esibirsi nella più incredibile burla che il Mondo avrebbe mai visto: aprì la bocca, e un verso che non aveva niente di animale, o di umano, o di mostruoso si propagò nell’aere come lo squillo unanime di una moltitudine di trombe.

Persino Hermes e Zeus dovettero coprirsi le orecchie, tanto fu grande il fastidio e lo spavento.

Tifone cosa fece? Si spaventò. Credette di trovarsi in presenza di una creatura più colossale e spietata di lui, e provò a girare il capo informe: ma non ci riuscì, perché il peso della montagna l’aveva sbilanciato troppo. La riportò allora con immensa fatica sopra di lui, così da ritrovare l’equilibrio: ed ecco cosa lo fece cadere in trappola. Non poteva immaginare che, sotto di lui, nel sottosuolo, qualcuno aveva scavato una miriade di tunnel in modo da indebolire le fondamenta del Mondo.

La terra venne scossa da un ennesimo terremoto, mentre Tifone sprofondava fino alla vita nel Mondo. Fu in quell’istante che Zeus, riprese gran parte delle forze, impugnò fieramente la Folgore, si sollevò in cielo e tuonò l’ultimo canto, quello della vittoria: un lampo abbacinante, e la montagna che Tifone impugnava venne trapassata dalla punta alle radici. Un enorme fulmine dalla radiosità intollerabile era calato dal cielo, creatosi dalla Folgore, bucando da cima a fondo la montagna, forandole le interiora, e poi colpendo lo stesso Tifone. A questi si smontarono le braccia, che divennero un ammasso di pietre rotolanti. Tutto quello che sorreggevano ricadde al basso, debellando e cancellando una minaccia che solo mediante cooperazione, e un po’ di fortuna, era stato possibile contrastare.  

L’ultimo boato, l’ultimo sospiro di una vendetta cercata e non esaudita.

Mentre Zeus si riuniva ai suoi figli in terra, rinvigorito da un’estasi trasparente, sbucò dal suolo una testa scarmigliata di ciuffi rossi: Athena. Dopo essersi scrollata di dosso un mare di terriccio, si abbandonò nell’abbracciò che le donò il padre degli dei non appena la vide, e poi nelle grida di festa che le rivolsero Hermes e Pan.

-Grande idea, quella di seppellirlo!- si complimentò Zeus -Ho ricevuto chiaramente il tuo messaggio!- Athena ammiccò soddisfatta; era pur sempre la dea dell’astuzia e della giustizia, gesta simili potevano essere compiute da nessun’altro che lei.

-E che dire del prodigioso Pan?- continuò Zeus, aprendo la grande mano in direzione del satiro, che mostrò uno dei suoi migliori sorrisi birbi. -Niente da togliere anche a te, figlio mio, Hermes!- Prese sottobraccio il dio alato, strattonandolo scherzosamente e senza tenere a bada la forza dei muscoli.

Athena si guardò attorno, estraniandosi dai festeggiamenti per capacitarsi di quanto il Mondo fosse rimasto coinvolto nella devastazione. La tomba che simboleggiava l’ultimo atto del combattimento con Tifone aveva preso a sputare refoli di fumo nero, a vomitare fiamme, cenere e lava. Un vulcano stava prendendo vita, il cui cuore era lo spirito stesso del figlio della vendetta di Gea.

La dea sospirò a lungo, più volte, quasi rammaricata. Pan, udendola, gli si avvicinò.

-Hai motivo di essere triste, Athena. Io più di tutti posso sentire…la sofferenza della natura.

L’altra si volse, e le iridi smeraldine le si tinsero di un calore comprensivo e audace. -Ricostruiremo tutto…siamo gli dei dell’Olimpo. Come distruggiamo, edifichiamo- Poi, con fare ironico, indicò il dio satiro con un indice. -Dovresti presenziare più spesso alla casa degli dei…ti sei dimostrato coraggioso e degno di valore. Potremmo trovare uno scranno anche per te!

Mentre ponderava sul fatto di dimorare sull’Olimpo, Pan venne distratto dagli schiamazzi che Hermes si lasciava scappare sotto il peso dei bicipiti di Zeus, e inconsciamente portò una mano sulla sacca dalla quale non si separava mai: i polpastrelli entrarono in contatto con il suo mitico flauto. L’indole spensierata e amante della libertà, della gioia e delle passioni che lo caratterizzava lo portò ad accostare il flauto alle labbra ed incominciare a suonare. Athena si mise a ridere, e improvvisò un balletto sul posto, mentre Zeus e suo figlio continuavano a respingersi a vicenda con fare affettuosamente virile.

No, non avrebbe mai potuto abbandonare la sua vita. La sua eterna caccia alle ninfe, i dirupi selvaggi e scoscesi. Sarebbe accorso se la sua presenza fosse stata richiesta, ma il dio Pan avrebbe continuato a dimorare nelle campagne e nei boschi, per i monti inabitati e le foreste, pronto a burlarsi del viandante e confidare i propri segreti al ronzio dell’alveare.




Fine

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