threads

di orocea
(/viewuser.php?uid=553730)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I will kill to be your clothes ***
Capitolo 2: *** (don't) believe in hallucinations ***
Capitolo 3: *** ask me why and I'll die ***
Capitolo 4: *** hey Jude, don't be afraid ***



Capitolo 1
*** I will kill to be your clothes ***


Nuova nel fandom: questa è la prima fanfic in assoluto che scrivo su Supernatural, e devo ammettere che  buttarmi su una long fic AU non è stata una mossa furba… Spero tuttavia di riuscire a portare avanti questo progetto. Non aggiornerò regolarmente, ma spero comunque che seguiate questa storia.
Vi ringrazio in anticipo.
 

I will kill to be your clothes

 
Castiel vede spesso suo padre.
In realtà non ci ha mai parlato e oggi che ha trent’anni, probabilmente, quell’uomo misterioso di cui ha sempre saputo immaginare solo l’ombra sarà già morto. Però lui lo vede: suo padre è in tutti gli angoli, si riflette in tutti gli specchi del reparto psichiatria. Lawrence Memorial Hospital, Kansas.
Anche se non l’ha mai conosciuto.

Un giorno qualunque sua madre, una donna piccola e potente dalla fronte alta, i capelli rossi di tintura appena fatta e la mascella quadrata, l’aveva portato lì. La mattina, quando si butta giù dal letto per caracollare in bagno a lavarsi la faccia, Castiel si chiede sempre quanto tempo sia passato da allora. Forse tre anni. Poi si dice: è stato il giorno dopo il mio …esimo compleanno – ma non sa mai dire che lettere ci siano prima di quell’ ‘esimo’. Colpa dell’orario. Colpa della schizofrenia. Mamma diceva ‘schizofrenia’ e lui sentiva di non aver afferrato appieno il senso di quella parola tanto spaventosa.
Gli attacchi di panico erano cominciati a vent’anni e lui si era vergognato molto di questo. Sedici anni è l’età giusta per gli attacchi di panico. Non venti. A vent’anni la crisi ormonale, la tempesta siderale, la confusione ancestrale dovrebbero dileguarsi o, perlomeno, trasfigurarsi in una bella ragazza, in un’università prestigiosa e in un lavoretto part-time che ti permetta di fare benzina con i tuoi soldi. Niente di questo era successo.
Castiel lo chiamava ‘casino sociale’ perché gli succedeva dovunque e lui non poteva – e non sapeva – fare altro che scusarsi. Smise di studiare. Per un po’ di tempo lavorò come barista, ma quando svenne per la quinta volta su un boccale di birra rischiando di cavarsi un occhio con le schegge di vetro pensò che forse non era una buona idea.
Figlio di una gravidanza difficile e isolata, non aveva né fratelli né, di fatto, amici, ma solo conoscenti, persone che salutava attraversando le strade di Lawrence mentre andava a fare la spesa per conto di sua madre al discount più vicino. Li vedeva tutti dirigersi a passo sicuro verso il loro scintillante futuro, chi trascinandosi dietro una ventiquattrore di pelle, chi circondato dai propri amici, chi carico di libri universitari, tutti mostruosamente padroni della loro vita perfetta. Castiel sapeva bene cosa provavano mentre gli rivolgevano un cenno frettoloso con la mano o con la testa e poi scattavano via, verso l’infinito e oltre (nessuno si fermava mai a parlargli): pietà, compassione, una forma superficiale d’affetto, ma neanche un briciolo di empatia.
Non credeva di essersela presa poi tanto – in fondo aveva sua madre e sembrava che questo gli bastasse. Ma, arrivato il suo …esimo compleanno, una forza magnetica l’aveva attratto al taglierino che usava quando faceva disegno tecnico alle superiori, l’aveva costretto ad afferrarlo e a tagliarsi le vene come se stesse muovendo l’archetto sulle corde di un violino. Aveva compiuto quell’operazione con lo sguardo attento, come se volesse catturare tutto il dolore col pigmento blu dei suoi occhi, poi aveva riposto la lama insanguinata sulla scrivania della sua stanza, era sceso al piano di sotto con una calma spettrale e aveva raggiunto la cucina dove, parandosi di fronte a una madre pallida e incredula e porgendole i polsi brucianti, aveva supplicato:
«Ti prego, aiutami».
 
Qualche giorno dopo, steso su un letto bianco a lenzuola verdi, con indosso un pigiama bianco che gli pizzicava l’interno coscia, in una stanza con le pareti bianche, aveva confessato a sua madre, seduta al suo capezzale – probabilmente era bianca anche lei – che da un paio di settimane a quella parte vedeva cose che non esistevano. Non riusciva a guardarla bene in faccia per la vergogna di aver tentato il suicidio e cercava di nascondere le braccia sotto le coperte, ma almeno glielo stava dicendo.
«Ho visto mio padre».
«Ma Castiel… Tu non hai mai conosciuto tuo padre».
«Lo so».
Poi le aveva detto che sentiva parlare gli angeli. Ogni tanto, disse, mi si aprono dei condotti nel cervello e mi sento la testa piena di spifferi, e poi un sussurro sommesso ma fitto. Quelli sono gli angeli. Poi ne ho visto uno nella sala d’aspetto, si chiamava Gabriele e mangiava un ombrellino di cioccolata. Forse era travestito da dottore ma non aveva coperto le ali. Forse-


A questo punto sua madre l’aveva zittito con un singhiozzo, e Castiel si era sentito un miserabile.
 
 
Dean Winchester è un ragazzo ben piazzato, con un bel paio di occhi verdi, una discreta fortuna con le ragazze e assolutamente nessuna voglia di operarsi di peritonite. Lawrence Memorial Hospital, Kansas.
Trent’anni e lo incastrano sotto la ridicola copertina di un letto d’ospedale per una peritonite. Dean agita i piedi in fondo al letto, preso da una smania capricciosa.
La sua amata Impala del Sessantotto è lontana, sotto le grinfie di suo fratello – che è un bravo fratello, davvero, e prima che andasse in ospedale si è anche fatto insegnare come mettere a posto il motore in caso di bisogno, ma Dean non sa darsi un minimo di contegno quando è geloso. Non si tratta neanche di una cosa sua (è la macchina d’epoca di suo padre, morto d’infarto tre anni fa), ma la tratta come se fosse la sua sorella minore: se hai intenzione di frequentarla devi chiedere al fratellone.
E il fratellone non te la lascerà mai prendere.
Dean passa così il tempo, sognando la sua macchina dal cofano lucido e ignorando bellamente il libro che suo zio gli ha portato e che lui ha buttato sul tavolino accanto alla brandina. Non gli piace leggere: perde presto la concentrazione. E’ abituato alle riviste pornografiche… Ecco che Dean afferra al volo il flusso dei suoi pensieri come un cagnolino entusiasta farebbe con un freesbee e lancia un’occhiata strategica fuori dalla sua stanza nella speranza di vedere passare qualche bella infermiera dal culetto sodo. Gli basta poco per trascorrere il tempo e per nascondere la paura matta che ha dell’operazione: non potrebbe confessarlo neanche a se stesso, eppure l’idea che gli venga aperta la pancia lo manda nel panico totale. Si dice che il suo lavoro – fa il meccanico nell’officina paterna – è molto più pericoloso e avventuroso di un’operazione chirurgica. Potrebbe caderti addosso il motore. La macchina potrebbe accendersi all’improvviso e calpestarti, inclemente e paranormale, i piedi stesi in fondo alla pancia dell’automobile. Succede… cioè, no: non è mai successo a nessun meccanico. Ma potrebbe sempre succedere. E’ decisamente più pericoloso della peritonite e dell’intervento, già. Più pericoloso.
Dean si perde in queste fantasie fino a sera, come farebbe un bambino il giorno prima di Natale. Poi gli portano la cena, che trangugia di malavoglia per via del suo aspetto poco invitante e si addormenta cercando di non pensare a domani.
 
Alle quattro di notte Castiel scende dal suo letto, con gli occhi spalancati. Ha nello sguardo un’illuminazione, come se avesse colto il senso delle cose, tutte. Di fronte a lui, suo padre gli sorride in maniera confidenziale: forse si conoscono da sempre. Rimane a guardarlo, Castiel, e sa che non è vero, che è una proiezione mentale, la disfunzione di una retina impazzita. Ma quando suo padre si volta e apre la porta della sua stanza sul corridoio, lui non può fare altro che seguirlo, mantenendosi vicino a una parete e toccandola con le dita per evitare di perdere il contatto con la realtà.
Suo padre percorre l’ospedale dai colori spenti e scrostati come se conoscesse la struttura intera da molto tempo. I suoi mocassini alla moda non fanno rumore quando battono sul pavimento. L’andatura spedita non è quella di un uomo della sua età. Castiel non riesce a distinguere nient’altro di suo padre se non le scarpe e le gambe. Pochi istanti prima ha visto la sua faccia, ma non saprebbe descriverla. E’ la faccia di suo padre. Non riesce a districare il nodo ‘padre’ e analizzarne tutti i fili. E’ solo padre.
A un tratto, Padre entra in una stanza, apparentemente scelta a caso. Castiel è preso dal panico, ma non si ferma.
«Non entrare!» urla. «Papà!».
Incespica in avanti, confuso, finché non sbatte il naso sul petto del paziente importunato, che sta in piedi sull’uscio della sua stanza.
«Scusa» gli dice Castiel, ansimando. «Mio padre ti ha disturbato…» e qui si interrompe con orrore perché ha lasciato che le sue allucinazioni diventassero reali. Suo padre non è mai esistito. Suo padre non è mai…
L’altro lo scrolla per le spalle, giusto prima che lui impazzisca. «Qui non c’è nessuno», dice. «Ti devi essere sbagliato».
«Ho sbagliato» dice. Cerca di ricomporsi. Sua madre gli ha sempre detto che è timido, ingenuo e saggio insieme. Cerca di ristabilire le tue componenti principali, Castiel.
«Scusa. Sono Castiel e sono ricoverato al reparto psichiatria». Lo dice come se questo potesse spiegare tutto. All’improvviso si vergogna tremendamente.
«Io sono Dean… E questo è il reparto chirurgia gastrica. Come accidenti hai fatto a finire qui?».
«Non so davvero, mi dispiace molto».
Dean tossisce e Castiel capisce di dover fare mezzo passo indietro per ristabilire tra loro una distanza accettabile.
Ora che lo guarda meglio, nota che l’altro è decisamente ben piazzato, muscoli in vista sotto il pigiama scadente da ricoverato, occhi verdi e labbra sottili ma carnose come certe foglie che ha visto in un parco botanico, tanto tempo fa, quando era bambino.
Dean vede lo smarrimento del ragazzo dalla mascella quadra e dagli occhi penetranti – così penetranti che sembra abbia fatto uso di stupefacenti – e non sa che dire.
Fruga nella sua testa alla ricerca di qualche frase d’occasione ignorando lo stomaco che brucia (non dovrebbe stare alzato) e alla fine gli chiede se sa come tornare al suo reparto.
Castiel gli dice di sì ed è chiaro che sia una bugia, ma sembra che a entrambi vada bene così.
Nel corridoio si sente il tonfo di una porta chiusa e un passo mesto di pantofole strascicate sulle mattonelle.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** (don't) believe in hallucinations ***


Capitolo di transizione, spero che sia all’altezza delle vostre aspettative.
Ringrazio tantissimo i ciccini che hanno messo la storia tra le seguite e le ricordate, e soprattutto i due recensori che mi hanno resa felice e orgogliosa di quello che sto facendo. Grazie mille per il vostro sostegno!
 
 
(Don’t) believe in hallucinations
 
 
Sono le tre del pomeriggio quando Castiel chiede alla prima infermiera che vede passare in corridoio se è possibile avere una penna e un elenco telefonico, per favore.
Mentre aspetta siede pensieroso sulla brandina, in attesa della prima allucinazione della giornata che oggi tarda a presentarsi, volendo escludere quella della notte appena trascorsa. A pensarci, suo padre gli ha tirato un bello scherzo, già, proprio un bello scherzo, papà, tu e i tuoi mocassini alla moda che non fanno rumore sul pavimento e il naso che mi fa ancora male perché il petto di quel Dean era di pietra, già, avresti potuto mandarmi un segnale, illuminare con i tuoi poteri da allucinazione un’insegna delle uscite da sicurezza, lasciarmi cadere il guscio di una tartaruga in testa, scrivere coi gessetti sul pavimento come fanno i fantasmi dei bambini nei film dell’orrore di terz’ordine.
«Ecco a te, Castiel», dice un’infermiera. La sua voce lo fa sobbalzare e lo risveglia dal torpore contemplativo. Come sa il mio nome, ah, già, c’è scritto sulla porta, così quando devono portarmi le pillole sanno che devono darle a me, proprio a me, a me che sono in questa stanza, solo che oggi il menù è cambiato, penna ed elenco telefonico al posto delle pastiglie.
Castiel soffoca un grazie in un sorriso apparentemente distratto, ma studiato. E’ un po’ faticoso. Sua madre gli ha sempre detto che non ha la risata facile, perché è ingenuo, ci mette un po’ a realizzare. Pensa sia un modo gentile per dirgli che è tardo. Quanto sei tardo, Castiel. Tardo, Castiel. Taaaaaaardo Castiel.
Scuote la testa e apre l’elenco, realizzando improvvisamente quanto pesa.
 
Quella mattina Castiel era sceso al pianterreno e si era parato con aria smarrita davanti al banco informazioni.
«Come posso aiutarla?» aveva chiesto una signorina distratta, senza guardarlo in faccia.
«Qui è ricoverato un certo Dean».
La signorina aveva alzato la testa, richiamata all’attenzione dal tono incerto e dall’atteggiamento vagamente infantile del suo interlocutore. «Be’, sì, qui sono ricoverati vari ‘Dean’».
Castiel aveva capito di dover specificare. «Si trova al reparto chirurgia gastrica».
«Ah, ecco». Aveva digitato due parole al computer mentre chiedeva «lei è un paziente?».
«Sì», aveva risposto, toccandosi la maglietta bianca con lo scollo a v tipica dell’ambiente ospedaliero. Sono del reparto psichiatria, aveva aggiunto a mente. Sono del reparto psichiatria ma non sono pazzo, lo giuro, vedo solo delle cose, ma so che non sono reali. Lo so quasi sempre.
«Ecco, Dean Winchester».
«Grazie mille», aveva detto avviandosi in fretta verso le scale.
La signorina l’aveva fermato. «Non vuole sapere il numero della stanza?».
«No».
 
L’elenco telefonico dice che ci sono tre Dean Winchester a Lawrence. Castiel si scrive un numero di telefono sulla mano, gli altri due sul braccio – ha dimenticato di chiedere un pezzetto di carta.
Posando il tomo sul tavolo di compensato della sua stanza pensa che finalmente potrebbe farsi un amico, con una determinazione e un’ostinazione che lo sorprendono e lo imbarazzano. Insomma, sei davvero così disperato da aggrapparti al primo sconosciuto, Castiel, non dovresti, è maleducazione.
Castiel si ripete mentalmente di non fare l’impiccione e di non andare a cercare la stanza di Dean Winchester mentre si precipita verso la porta, esce in corridoio e raggiunge il telefono appeso alla parete.
 
Il primo numero digitato da Castiel, quello scritto sulla sua mano sinistra, non ha neanche il messaggio di segreteria registrato. Squilla a vuoto per un buon minuto, finché la voce femminile dell’archiviazione messaggi automatica chiede di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Il secondo numero comporta un’attesa decisamente minore: una voce giovane e piena di uomo risponde in italiano. Castiel attacca, imbarazzato. Non è neanche detto che Dean del reparto chirurgia gastrica viva a Lawrence. Quanti Dean Winchester ci sono in Kansas? Dieci? Quindici?
Castiel compone amareggiato l’ultimo numero, quello scritto sul bordo inferiore del suo avambraccio.
Forse non è destino che io mi faccia degli amici, dice ad alta voce Castiel. Uno stuolo di infermiere sta passando in quel momento: nessuno lo ha sentito. Lui sente a malapena se stesso.
Ci sono quattro squilli vuoti e tra l’uno e l’altro prova a riaversi dalla delusione. La segreteria scatta non appena stacca il ricevitore dall’orecchio. «Questa è la segreteria di Dean Winchester…»
Castiel, come fulminato, riavvicina la cornetta. «… Se volete notizie della vostra macchina allora chiamate l’officina al numero 665 21 23 498, altrimenti sapete cosa fare. Beep».
 
665 21 23 498
665 21 23 498
665 21 23 498
665 21 23 498
 
Castiel lo conosce ormai a memoria quando arraffa la penna dal tavolo di compensato della sua stanza e si macchia il bicipite di inchiostro blu con la sua scrittura sghemba.
Gli dispiace solo non avere una macchina.
Rimane fermo, seduto sul suo letto, a contemplare per qualche minuto il numero di telefono, come appena uscito da una trance ispiratrice. Sta giusto chiedendosi che fare, probabilmente fa il meccanico in un’officina, cosa c’entro io in tutto questo, gli occhi sottili e il capo piegato a destra in un atteggiamento perso e pensieroso, quando Dean compare sulla porta.
Non è il vero Dean, e di questo è sicuro quasi subito. Ha qualcosa di spettrale nella carnagione, o forse è un alone prodotto dalla sua testa difettosa. Come al solito, quando si tratta delle sue allucinazioni non riesce mai ad avere il controllo dei dettagli. Si alza in piedi senza parlare.
Dean fa un passo avanti. «Ieri mi hai detto che eri del reparto psichiatria».
E’ un’allucinazione, non rispondere.
«Cos’è quella roba che hai scritta sul braccio?».
Castiel guarda i numeri di telefono scribacchiati sulla pelle rispondendo a un riflesso involontario. «Numeri di telefono».
«Due di quelli sono miei. Anzi, quello più su è dell’officina».
«Già».
«Tu non hai la macchina».
«No».
«Io ho un’Impala del Sessantotto», dice il finto Dean, arrischiandosi a fare un altro passo. Si appoggia al tavolo di compensato senza degnare di uno sguardo l’elenco telefonico, unico oggetto sul piano vuoto. «Puoi chiedermi di farti fare un giro. Ma guido io».
Castiel si risiede e costringe se stesso a guardarsi le pantofole scolorite da paziente affezionato.
«Mio padre è morto tre anni fa e mi ha lasciato l’officina», continua Dean. Se solo Castiel sapesse come fermare un’allucinazione senza prendere un barbiturico fulminante, lo farebbe subito. «Mio fratello Sam è laureato in giurisprudenza e fa tirocinio per diventare avvocato. Io contemplo il motore, la pancia e il culo di qualsiasi tipo di macchina e credimi, è molto meglio della giurisprudenza».
Forse servirebbe un po’ di barbiturico.
Dean schiocca le dita per fargli alzare la testa. «Domani vieni da me».
Castiel, dopo un attimo di trance apparente, si alza e si avventa sul cassetto dei sonniferi.
«Ti direi di venire subito da me, in realtà, ma sono così fatto di morfina post-operatoria che sono in condizioni pietose».
Dov’è la scatola dei barbiturici.
«Stanza 505, eh».
Castiel scova dal fondo di un contenitore un quarto di pillola e lo inghiottisce senza neanche bere un goccio d’acqua.
Poi si stende sul letto e conta quattro secondi.
Uno
due
tre (Dean è sparito ora)
quattro.
Chiude gli occhi e dorme di sasso, senza sognare, fino all’ora di cena.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** ask me why and I'll die ***


Questo capitolo mi è venuto giù tutto in un botto, dunque preparatevi psicologicamente a leggere un cucciolo di obbrobrio appena partorito e grondante sangue. L’immagine non è delle migliori, ma è quella che rende meglio l’idea. Non so dove andrà a parare questa fanfiction, che cresce in maniera direttamente proporzionale al mio amore da fangirl per la destiel, però sono contenta lo stesso perché mi permette di scrivere e per una volta mi sento abbastanza soddisfatta di quello che sto facendo. Quindi: pace, amore e biscottini. Grazie infinite a tutti gli utenti che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate e che l’hanno recensita. Spero che nonostante tutto gradiate questo capitolo e che il prossimo aggiornamento arrivi presto.
Buona lettura!

 
 
Ask me why and I'll die
 
Dean si sveglia alle sei e quarantacinque del mattino, dopo aver fatto nove ore di un sonno surreale che gli sono sembrate un viaggio febbrile sulle montagne russe. Apre piano gli occhi, abbacinato dalla luce sottile e prepotente dell’alba e dalla morfina antidolorifica, senza davvero mettere a fuoco qualcosa. Avverte un sentore d’umido sulla sua bocca e si accorge di aver sbavato nel sonno. E’ tutto intorpidito, ma costretto a rimanere supino per via dell’operazione recente, e si rende conto di non comprendere per niente quei pazzi che si sottomettono alla chirurgia plastica e hanno il coraggio di subire i devastanti effetti post operatori.
«Dean» sussurra qualcuno al suo fianco.
«Cosa c’è», chiede Dean, con la voce impastata. Non sembra neanche una domanda.
Poi sussulta, capendo all’improvviso di non essere solo, e volta la testa di scatto, aprendo occhi e bocca in una smorfia allarmata.
«Parla piano, non dovrei essere qui a quest’ora».
«Ma tu sei quello dell’altra notte!», urla Dean. «Castle!».
«SSH!». Castiel lo trapana letteralmente con lo sguardo. Il pigmento dei suoi occhi – blu di Prussia?, si chiede Dean – crea un riverbero sulle sue guance grazie alla strana luce mattutina, come se il colore colasse giù lungo gli zigomi. Lanciandosi in avanti gli tappa la bocca con la mano destra, ma la saliva sulle labbra dell’altro lo coglie impreparato e lo costringe a ritrarsi con una smorfia che è un interessante misto di schifo e sorpresa. «Sono Castiel», precisa, sventolando la mano contaminata e cercando con lo sguardo nella stanza un distributore di disinfettante.
«Come hai fatto a venire qui?».
«Quando le infermiere del turno di notte smontano c’è sempre un po’ di confusione». Castiel sorride soddisfatto, alzando il mento.
Dean chiude gli occhi e li riapre, per accertarsi che non è più tanto fatto di morfina. L’altro è ancora nella stanza e si sta spalmando il gel disinfettante sulle mani con un impegno quasi eccessivo.
«Perché sei venuto?».
Castiel si volta, improvvisamente serio, e lascia cadere le braccia lungo i fianchi. Ci sono almeno due metri di distanza tra loro e Dean non riesce a decifrare il suo sguardo, lontano e improvvisamente cupo.
Comincia a dondolare sul posto. «Non volevo davvero che mi facessi questa domanda».
«Be’, dovevi comunque aspettartela» protesta Dean.
Castiel smette di dondolarsi e incolla gli occhi al pavimento.
«Allora?».
Non vorrebbe davvero parlarne. Pronunciare la parola ‘allucinazioni’ e simili di fronte a un tipo come Dean sarebbe come sottoscrivere il proprio contratto di svitato a vita nella sua testa. E’ nervoso, molto, ma riconosce che al momento l’unica cosa che potrebbe fargli ottenere l’amicizia di Dean è la sincerità.
Come la nostra vicina di casa Marge, quella che ci portava le crostate di domenica e poi quando ha saputo che mi sono tagliato le vene ha smesso con le crostate e ha cominciato con i rosari e l’acquasantiera e, soprattutto, con quegli insopportabili sguardi di pietà e i sussurri di compassione come se fosse al cospetto di un morto.
Rettifica: al momento una sincerità velata è più che sufficiente.
«Ho sognato».
Dean si solleva un po’ e appoggia le spalle sul guanciale come meglio può. «Hai sognato me?».
«Già». Gli occhi di Castiel fanno avanti e indietro dal letto al pavimento. «Mi dicevi di venire da te oggi».
«Ehm… Interessante».
L’imbarazzo di Dean è palese. Castiel non voleva questo. C’è davvero bisogno di un motivo per voler incontrare di nuovo qualcuno, specialmente se può essere l’amico che non hai mai avuto?
Prosegue. Vorrebbe essere normale, dunque prosegue come se niente fosse. «Mi dicevi il numero della stanza, 505. Io non lo ricordavo. Poi mi dicevi che avevi un’officina meccanica. E’ vero, no? Ho trovato anche il recapito telefonico».
Dean sorride, muovendo le spalle, rilassato. Pensa di stare ascoltando un mezzo svitato, in effetti. «Sì, be’, ho davvero un’officina meccanica».
«Te l’ha lasciata tuo padre tre anni fa quando è morto. Mi dispiace tanto per la tua perdita».
Dean alza lo sguardo all’improvviso, diventando serio. «Come lo sai?», chiede. «Eri un cliente?».
«Non ho mai avuto una macchina».
Dean sembra davvero il tipo che non digerisce le cose che non stanno sotto il suo controllo. E la mente di Castiel sembra essere una di queste.
«Non scherzare».
«Non scherzo».
«Dimmi chi sei o chiamo l’infermiera».
Castiel si getta in avanti, allarmato. Dimentica tutti i paletti che si era imposto per essere considerato dal suo nuovo potenziale amico come una persona nei limiti della norma e dice: «Sono Castiel Novak, ricoverato al reparto psichiatria, piano terzo, stanza 393, e ho le allucinazioni e ieri ho avuto un’allucinazione - in realtà le ho tutti i giorni - ma ieri ho visto che hai un fratello che fa tirocinio per diventare avvocato, e hai anche una macchina d’epoca, un’Impala del Sessantotto e-».
Dean solleva il braccio libero dagli aghi e gli pianta la mano sulla spalla, scuotendolo vigorosamente. «Calmati. Tu devi tornare nella tua stanza».
«Ti prego, dammi ascolto, non sono pazzo, ho le allucinazioni ma so che non sono reali».
Dean lo guarda sovrappensiero, soppesando tutte le possibilità. C’è una scintilla di lucidità negli occhi di quel ragazzo strano, dal nome insolito e dai lineamenti così quadri e regolari, e contemporaneamente un po’ di disperazione in cui vede inevitabilmente se stesso. Ha improvvisamente le vertigini.
«Devi ascoltarmi», chiede di nuovo, come se ne dipendesse la vita.
Dean sospira. «Come faccio a sapere che non sei un pazzo cospiratore?».
«L’unica cosa che so consultare sono gli elenchi telefonici e i vocabolari», dice Castiel, convinto. «Da dove avrei potuto prendere informazioni?».
«Internet».
«Non so usare il computer e non ne vedo uno da un pezzo. La mia allucinazione è stata solo una coincidenza». Non ci crede, ma che altro potrebbe dire?
Dopo un istante interminabile, Dean lascia andare la spalla dell’altro, rilassando il braccio e tutto il corpo sul guanciale. Quella conversazione lo ha sfinito anche e soprattutto in senso fisico. Il palmo della sua mano è un po’ sudato e improvvisamente sale dalle coperte leggere un calore fastidioso. Chiude gli occhi per qualche secondo prima di riaprirli, fissare per un momento il vuoto come a recuperare le energie e poi puntarli sull’altro, che si rimette dritto e fa un mezzo passo indietro.
Ci sono due minuti di silenzio, durante i quali Dean cerca di rendersi conto, stavolta con sforzi mentali più seri, se è ancora fatto di morfina o no.
Castiel lo fissa: ha l’aria di uno che sta cercando di prendere una decisione importante e spera davvero di non aver reso inutile il proprio disperato tentativo.
«Perché sei qui?», chiede all’improvviso Dean.
«Sinceramente?». Un sospiro. «Non lo so bene neanch’io».
«Okay…». Dean scuote la testa a destra e a sinistra, lentamente, come per sgranchirsi il collo. «Sono le sette e tredici», dice, guardando verso l’orologio appeso alla parete opposta al letto. «Tra sette minuti esatti passa il controllo mattutino».
E’ un invito cortese a sloggiare. Castiel si avvicina alla porta e poggia una mano sul pomello. «Volevo solo dirti che tornerò».
«Perché?».
«Per conoscerti meglio e per convincerti che non sono pazzo. Ma più per la seconda, a dire la verità».
Dean si lascia sfuggire una risata. Castiel vorrebbe voltarsi e guardarlo ridere, ma si trattiene. «Buona fortuna, 007».
«A presto, Dean».
La porta si schiude senza nessun rumore. Castiel guarda prima a sinistra, poi si sporge a destra e scivola fuori, richiudendola. Il silenzio è così assoluto che Dean dubita di essere davvero sveglio.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** hey Jude, don't be afraid ***


Questo capitolo è un po’ più ampio rispetto al solito. Mi spiace di aver solo questo da dire, ma quando termino un capitolo mi sento sempre un po’ svuotata, ah ah! Spero che vi piaccia, e ringrazio dal profondo del mio cuoricino tonto tutti voi che seguite e recensite la mia storia. Grazie di cuore.
 
Hey Jude, don’t be afraid
 
 
L’ultima volta che Castiel era davvero uscito di testa era stato un paio di mesi prima.
Ora che vive di nuovo quel momento di crisi vorrebbe davvero cercare di prendere il controllo di se stesso, ma è come se il paziente Novak – scosso da convulsioni, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca paralizzata in una linea piatta – e la sua mente – che assiste a tutta la scena da un angolo della stanza, come una telecamera di sicurezza – fossero due entità differenti, totalmente scollegate.
Castiel-mente guarda una nebbiolina rossa uscire dai condotti dell’aria e strisciare tra i corpi del dottore e delle infermiere, due o tre, che si agitano e si compattano nel tentativo di impedire che il paziente Novak salti giù dal letto come una molla, spinto all’aria dai suoi stessi sussulti.
Oh, merda.
Ricorda che due mesi prima tutto sembrava abbastanza tranquillo prima che gli capitasse di crollare nel bel mezzo del corridoio. Come oggi.
Esattamente come oggi, la mente e il paziente che costituiscono la persona di Castiel Novak passeggiavano congiunti pacificamente nello stesso corpo lungo il corridoio del reparto, rallentando in prossimità delle porte aperte per sbirciare all’interno delle stanze. Era di buonumore. Pensava a una canzone che aveva sentito tanto tempo fa alla radio con sua madre, in uno di quei lunghi pomeriggi invernali della sua infanzia in cui la cosa migliore da fare era accucciarsi sul divano a leggere fumetti e ad ascoltare musica. Sua madre accendeva la radio e si faceva la pedicure, beveva caffè, sfogliava quotidiani e quando era davvero di buonumore preparava dei dolci per la merenda. Era piccolo e ascoltava la musica solo perché piaceva a lei, ma la cosa lo rendeva comunque immensamente felice. E quella canzone, proprio quella canzone, suonava quando sua madre tornò a casa con un cuccioletto di cane tra le braccia il pomeriggio del giorno del suo compleanno. Castiel aveva acceso la radio e preparato il tè migliore, quello nascosto nella credenza dietro un paio di vassoi vecchi che era riuscito a conquistare solo salendo su una sedia. Quel giorno compiva otto anni e sentiva di dover fare qualcosa per mostrare alla sua mamma che stava crescendo buono, forte e capace addirittura di cambiare le stazioni della radio e di preparare il tè. Era stato tanto tempo fa e il cagnolino era scappato la primavera successiva, ma la canzone ancora risuonava nella sua testa come la colonna sonora dei suoi momenti più sereni, e diceva di prendere una canzone triste e di renderla migliore.
In un impeto di allegria che quel ricordo scaturiva, Castiel aveva agguantato le spalle di un’infermiera che passava lì in quel momento e si era accorto che si trattava proprio della sua preferita. Era bionda, minuta e morbida, con i capelli corti, il seno prosperoso disciplinato dal camice, le guance spruzzate di lentiggini arancioni e gli occhi castani piccoli e inquadrati in una grossa montatura nera con due lenti dello spessore di fondi di bottiglia. Doveva essere molto miope e non era certo un tipo di bellezza convenzionale, ma emanava un fascino gentile e una sensualità pudica e nascosta che le arrochiva la voce quando rideva e le metteva in evidenza il biancore del collo quando alzava la testa all’indietro o la girava di scatto.
Era rimasto molto tempo a osservarla da lontano.
Così, quando l’ebbe presa per le spalle, la guardò dritto negli occhi come se la conoscesse da sempre. Lei sorrise – un misto di imbarazzo, stupore e sincero divertimento – quando lui le disse, sgranando gli occhi vivi di bambino: «Ricordati di cambiare le canzoni tristi in canzoni migliori».
«Ah!» esclamò lei. E poi rise con la sua voce roca. A Castiel sembrò di sentire qualcosa muoversi nei pantaloni e provò la gioia incredula di poter finalmente provare una bella sensazione. «Ti piacciono i Beatles, vero?».
«Chi sono i Beatles?».
«La band che canta quella canzone… Hey Jude, no?».
Arrossirono entrambi perché all’improvviso lo spazio tra di loro era diventato molto poco e le altre infermiere avevano cominciato a pizzicarli con occhiate preoccupate. Castiel, investito da un’ondata di vergogna, le lasciò andare le spalle e abbassò la testa, ma non smise di sorridere. «Be’, suppongo di sì».
«Già». La ragazza si schiarì la gola, alla ricerca di qualcosa da dire. Poi alzò la testa, nonostante fosse ancora un po’ rossa in viso, e disse: «Allora tu sei Castiel, giusto? Passo spesso davanti alla tua…».
Ma Castiel già non la stava più ascoltando. In realtà, non sorrideva neanche più, ma aveva la bocca immobile e stretta in una linea pallida e gli occhi spalancati.
Cadde in avanti, sul petto dell’infermiera carina di cui non conosceva neppure il nome, che lo sorresse gentilmente mentre alzava il capo e urlava che qualcuno l’aiutasse, per favore, il paziente Novak ha una crisi.
Tremava.
Come oggi.
 
Castiel-mente sa bene che questi sussurri non sono veri. Li sente all’orecchio destro e sembrano il vocio di una tv accesa in un’altra stanza. All’orecchio sinistro, invece, sente bene i dottori. Va tutto bene, Novak, devi calmarti. Novak, stai calmo, dicono. E lui vorrebbe dire loro: non ditelo a mia madre, si preoccuperebbe. Adesso mi calmo, ma non ditelo a mia madre.
Il paziente Novak, però, non dà ascolto ai suoi comandi e non increspa neanche un po’ le labbra piatte né socchiude gli occhi.
C’è fumo nella stanza, anche se l’aria non è rarefatta.
E probabilmente i vetri della finestra sono fatti di gelatina.
Dio, non ditelo a mia madre.
Chissà come si chiamava quella ragazza con le lentiggini, si è trasferita tre settimane fa e non mi ha neanche salutato.
Chissà se anche a lei piacevano i Beetals. O come si chiamano.
A Dean piacciono? Dovrei chiederglielo.
Gli avevo detto che sarei andato a trovarlo e non ci sono ancora andato.
Qualcosa vola sulla sua testa. Sarà un’aquila. Vorrebbe allungarsi e sfiorarne l’ombra, ma sa che forse si sta lasciando troppo andare, che chissà per quale motivo il suo cervello è un ricettacolo di falsità a cui non deve dare ascolto. Tutti complottano contro di me. Qualcuno mi ha odiato molto per decidere di farmi questo. Già. E lo so che dovrei ringraziare il cielo di riuscire ancora a elaborare frasi di senso compiuto. Non c’è bisogno che nessuno me lo dica. Gesù. Sono proprio fortunato.
Poi Castiel-mente e il paziente Novak si ricongiungono nel momento esatto in cui una mano guantata di lattice preme una siringa sul loro braccio. «Ah», riesce a dire Castiel.
E dopo più niente.


Quando la fisioterapista si affaccia alla stanza 505, il paziente Winchester sta tentando faticosamente e inutilmente di scendere dal letto con le proprie forze. I globuli bianchi sono già in ribasso, la temperatura regolare e la forza di volontà non manca. «Facciamo progressi rapidi, Dean», annuncia leggendo dalla cartella clinica mentre attraversa l’uscio. Dean, chiamato in causa, solleva la faccia improvvisamente allarmata e cerca di rimettere le gambe in una posizione che non lasci intuire l’appena compiuto tentativo di fuga. Ma la fisioterapista, che sembra a una prima occhiata di poco più piccola di lui in età e statura, è totalmente assorbita dalla lettura di un trafiletto microscopico scribacchiato sull’orlo di un foglio e non sente neanche il suo «Meno male!» biascicato in risposta.
«Oggi è il terzo giorno dopo la tua operazione», dice, sempre leggendo. Fa un paio di passi verso il letto per arrivare alla portata di Dean e poi finalmente solleva la testa e gli tende la mano, sorridendo. «Sono la tua fisioterapista, Anna Milton». Ha la faccia piccola e i capelli rossi. Se Dean non fosse in queste condizioni pietose, ci proverebbe… ma essendo un povero malato può solo sfoggiare il suo sorriso più brillante e sperare di fare colpo comunque. «E’ un piacere», dice, stringendole la mano. «Mi aiuterà a scendere da questo letto, vero?».
«Sono qui per questo. Ma sei giovane, non avrai bisogno di me a lungo», spiega, guardandolo dritto negli occhi. Dean nota la sua vita sottile.
E’ sul punto di dire: il bianco ti dona, dottoressa Milton. Ma poi si trattiene perché la dottoressa gli ha messo una mano dietro la schiena. «Coraggio. Tra mezz’ora devi essere di ritorno per la tua cura di antibiotici», dice, e lo solleva a sedere senza troppi complimenti. Poi gli sposta le gambe finché Dean non si trova in bilico sulla sponda della sua brandina e infine lo tira su in posizione eretta.
La prima cosa che sente Dean è che i lembi della ferita semicicatrizzata tirano l’uno seguendo la forza opposta all’altro, come a voler ricostituire lo squarcio sull’addome aperto durante l’operazione. Ma non ha il tempo di pensarci troppo perché, stretto alla minuta ma forzuta dottoressa Milton, avverte profumo di lavanda salire dai suoi vestiti e comincia a camminare.
Gli fa male la schiena perché fino a questo momento è rimasto sempre disteso supino e quello che sente è una sensazione di calore e scomodità che gli fa storcere la bocca. La fisioterapista se ne accorge e si ferma. «Ti fa male qualcosa?».
Sono a un passo dall’uscita della stanza. «E’ solo fastidio», dice Dean. Vuole andarsene al più presto e dunque ha bisogno di una riabilitazione fulminea. «Vorrei camminare parecchio».
«Per il momento puoi solo percorrere il corridoio».
«Ma…».
«Hai da poco subito un intervento chirurgico e questa è la prima volta che ti muovi, non puoi sforzarti troppo», risponde perentoria. Dean fissa il suo sguardo su di lei nel tentativo di farle cambiare idea. Non voglio stare qui per sempre. Sono stanco di questo pigiamino bianco.
«Oggi pomeriggio, se vuoi, potrai andare più lontano». Continua, trascinando in corridoio Dean. La luce al neon mista a quella del sole macchia le pareti di un bluastro chimico.
Oh. Castiel. Lo 007 psicotico. Non è più venuto a trovarmi.
«Prima però dovremo metterti seduto per farti riabituare alla posizione. Sarà faticoso e sarai stanco a fine giornata, quindi se oggi pomeriggio vuoi andare a passeggiare fatti accompagnare da qualcuno. Non mi piacerebbe sapere un mio paziente stramazzato a terra dalla fatica mentre io non sono di turno».
Forse mi sono aspettato troppa coerenza. In fondo stiamo parlando di uno che ha le visioni.
Dean si rende conto di dover rispondere.
«Be’, io sono una persona obbediente», ammicca distratto.
La dottoressa lo guarda con un sopracciglio fulvo alzato che ha la stessa valenza di un segno rosso su un compito in classe.
 
Dopo pranzo, Dean si alza da solo dalla brandina – non senza fatica – e pianifica due scuse: la prima è da rifilare a se stesso e alla dottoressa Milton nell’eventualità di venire scoperto, ed è che il paziente Winchester non sta disobbedendo, sta solo rielaborando gli ordini ricevuti a modo proprio. La seconda è destinata a dottori e dottoresse, infermieri e infermiere che noteranno i suoi spostamenti insoliti: il paziente Winchester sta cercando un telefono funzionante per chiamare suo fratello.
Quando Dean finisce di attraversare il corridoio, ostentando un’aria svagata e mentendo anche a se stesso sul fatto che non stia assolutamente arrancando verso la sua meta, è già stanco. Ma ha pianificato anche quello. Sa che sulla destra, un paio di sale prima dell’ascensore, c’è un ripostiglio, e ci si infila eludendo un infermiere solitario che sta passando in quel momento. Appoggiato contro la parete, Dean non ha neanche bisogno di accendere la luce perché nella penombra scorge il suo bottino accatastato contro un angolo dello sgabuzzino e avvolto da una busta di plastica. Bingo.
Quello che esce dalla stanza qualche minuto dopo e va a infilare l’ascensore con nonchalance è un bel ragazzo robusto, dai capelli castani e gli occhi verdi, sulla trentina e seduto amabilmente su una sedia a rotelle.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2221617