tutta questa benedetta...passione

di elev
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un disastro su tutta la linea. ***
Capitolo 2: *** All I’ve got is a guitar, three chords and the truth ***
Capitolo 3: *** Notting Hill, pizza & Tarantino ***
Capitolo 4: *** La giornata delle eccezioni ***
Capitolo 5: *** black... sheeps & revelations ***
Capitolo 6: *** Colpi di testa, lampadine e vendette ***
Capitolo 7: *** faccia... libro ***
Capitolo 8: *** Crazy - Bridget - Elly - Jones ***
Capitolo 9: *** Buon compleanno Elly.... ***
Capitolo 10: *** You know, there was no need to be so supportive! ***
Capitolo 11: *** I Threw A Brick Through A Window ***
Capitolo 12: *** june evening ***
Capitolo 13: *** Raise the hands and surrender…. ***



Capitolo 1
*** Un disastro su tutta la linea. ***


Un disastro su tutta la linea

- Hai richiamato quella persona che ti cercava? - - Macché… adesso aspetta, mica sono qui soltanto per lei -
- Ah… pensavo fossi il suo segretario….-  Dissi ridendo rivolgendomi al collega, che, con il foglio in mano e quell’insopportabile maglia color “regina Elisabetta”, si affacciava alla porta del mio ufficio.
Ci sono tre persone che parlano tutte insieme ed io ho ancora una marea di scartoffie da evadere  - ci vorrebbe un caffè, accidenti!- Pensai mentre tornavo a  fissare lo schermo e a torturare quella povera tastiera. Ecco!
Il caffè.
Il mio salvavita.
Eccomi qui, sono Elly e senza caffè non connetto.
Ci pensavo quel pomeriggio, mentre annaspavo tra le scartoffie.
Un muro di scartoffie contro cui “lottare”…
Quel giorno di marzo della scrivania non si vedeva nemmeno il colore tanto era carica di carta e fu all’improvviso che, accompagnata da varie altre persone, mi si presentò davanti una figura esile e scura.
 - E mo’ chi è sto qua? - pensai alzando lo sguardo e col taglierino in mano, distrattamente,  gli porgevo la mano aggiungendo un veloce - molto piacere!-.
Odio le presentazioni formali.
Le odio perché ogni volta ti viene ripetuta la stessa cosa:
 - ecco, perché non ti presenti tu?-
Come nei film nelle scene dei “gruppi terapeutici”.
E ti tocca dilungarti l’ennesima volta in una precisa descrizione del tuo lavoro, di chi sei e di cosa fai in una gabbia di matti come quella per otto ore al giorno, ad un povero malcapitato che magari, anzi sicuramente, se ne frega altamente di sapere chi sei e cosa fai, quando proprio quel giorno ti tocca occuparti di tutt’altro tranne che del  tuo “povero” lavoro che rimane inevaso.
Bisogna forse spiegare che a volte ti ricicli come porta-incarti, galoppina, postina o “presta favori” il tutto perché hai il brutto vizio di non saper dire di no a nessuno?
Beh, buona fortuna!
- Ciao, sono Dave.-
Subito non mi fece nessun “effetto particolare” mentre già tutte le donne del piano erano rimaste a bocca aperta o peggio erano già in fase “sbavo”.
- Oddio ma che morte di fame - ribadivo.
Ho scoperto che starà con noi per un po’ di mesi.  - Beh, almeno speriamo che si renda utile - pensai in cuor mio considerando che predecessori che effettivamente mi avevano aiutata in alcune occasioni.
 
Me ne resi conto qualche settimana dopo quando la voce di una collega al telefono, per la definizione di un lavoro, mi suggerì con leggerezza  - ma fatti dare una mano dal “toy boy” dagli occhi verdi no?-
- Sì certo - pensai. Io che mi facevo aiutare? Ma quando mai? E poi rivolgendomi con una risata alla collega che avevo in linea –ma sì… cos’avrà di così speciale, state tutte a sbavargli dietro? -
Fu un fulmine a ciel sereno.
Ecco cos’aveva!
Aveva degli occhi DA PAURA!
I suoi occhi azzurri facevano contrasto con i capelli corvini che ricadevano da un lato, la barba incolta dello stesso colore gli incorniciava il viso mettendo in evidenza il profilo.
Guardandolo, Dave dimostrava quasi più dei suoi vent’anni appena superati.
- Fatti aiutare Elly- asserì una vocina quel giorno.
Il mio “grillo parlante” interiore.
La voce della saggezza per una volta aveva deciso di risparmiarmi l’ennesima fatica.
Il primo aiuto che gli chiesi fu per un compito veramente elementare.
L’esito fu tutt’altro.
Un disastro su tutta la linea.
La consapevolezza che mi aveva fatto perdere solo un mucchio di tempo si fece prepotente in me.
Ne presi atto, mettendomi le mani nei capelli, era appena cominciato il pomeriggio e già mi ritrovavo con una “zazzera” di capelli spettinati in testa.
Il lavoro era da rifare, è vero, ma fu forse per orgoglio e forse anche per il “timore” di avere di nuovo a che fare con lui che non dissi nulla.  Non ebbi la forza di replicare. Ero frustrata e delusa. Mi sentivo seriamente presa in giro.
Lo “odiavo” con tutte le mie forze.
Fu con questi sentimenti che impiegai tutta l’energia prodotta dalla mia arrabbiatura per rifare da me tutto il lavoro.
Giurai che non gli avrei chiesto più nulla.
Stupida coscienza.
Stupido grillo parlante.
Ci “incrociammo” diverse volte nel corridoio o sul terrazzo mentre prendevo  l’ennesimo caffè. Mi impegnavo comunque a mantenere il controllo e a rimanere in modalità “simpatica e scherzosa”.
Il motivo non l’ho mai capito.
Mi trovai comunque sorpresa di me stessa.
Questa “versione di Elly” non la conoscevo.
Ogni occasione comunque era buona per andare a rompergli un po’ le scatole, almeno mi divertivo. Lo ammetto.
E la cosa più bella era che non m’importava di nulla.
A costo di sembrare una sciocca ragazza che si mette a scherzare con il “belloccio” della situazione.
- ciao, cosa senti? - mi disse una mattina mentre con il viso imbronciato me ne stavo a rimuginare la “serata no” che avevo avuto il giorno prima sul terrazzo dell’ufficio. - pearl jam - risposi semplicemente sentendolo avvicinare.
- Che c’hai? -  
- Nulla – risposi secca e feci una smorfia per sottolineare che “non era il caso”. Fu così che Dave mi staccò la cuffietta dell’i-pod aggiungendo semplicemente - senti questa… -  prima di infilarmi la cuffietta del suo i-phone nell’orecchio.
Un gesto semplice ed insignificante in realtà.
Mi ritrovai seduta sul parapetto del terrazzo con “Once” dei pearl jam in un orecchio, una musica rilassante nell’altro.
Non avevo capito se questo gesto aveva un “secondo fine” ma bastò a farmi tornare il sorriso.
Dolce.
Almeno, io decisi che doveva esserlo.
Dovevo esprimergli un minimo di riconoscenza. Mi dissi.
Con un sorriso sghembo, e a dire il vero trattenni la lacrimuccia di commozione, mi staccai dal parapetto chiedendo semplicemente - posso?-
- Oddio Elly ma che stai facendo? - era la voce del mio grillo parlante. Il solito grillo parlante.
Questa volta non gli diedi retta.
Mi resi conto che in realtà non avevo ottenuto risposta, e men che meno avevo osato alzare lo sguardo per vedere la sua espressione…
Ripetei: - posso? -
Dave mi rispose con un sorrisetto sghembo fece un cenno della serie - ah vuoi un abbraccio? -
Gli posai la mano destra sulla spalla e l’abbracciai leggermente.
 
 
 
 
Note:
ciao ragazze, eccomi con un nuovo progetto… manco finito uno ne comincio già un altro. Prometto che mi impegnerò a finire anche il prossimo capitolo della ff su Anna ed Emiliano….
Ho dovuto “cedere” all’ispirazione ed ecco qua… che ne dite? Continuo?
 

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Capitolo 2
*** All I’ve got is a guitar, three chords and the truth ***


All I’ve got is a guitar, three chords and the truth

Ormai era diventata una mia tappa quotidiana.
Al mattino, entrando in ufficio, mi fermavo in portineria a salutare la ricezionista. Ed ogni mattina incrociavo lo sguardo assonnato di Dave che sedeva di fronte a lei.

Quella mattina portava un grosso pullover di lana verde scura. I due bottoni messi di spieco sul lato chiudevano una parte dello scollo che finiva in un grosso colletto “alla marinaio” piegato fino a metà torace.
Non faceva nulla. Questo ormai era risaputo.

Avevo preso il giro di chiedergli - come stai? - Tutte le sante mattine. Lui mi rispondeva con un “grugnito” assonnato della serie - hai una domanda di riserva?- oppure - sto ancora dormendo…-.
Il discorso iniziava sempre da quella domanda e finiva che in ricezione ci rimanevo minimo dieci minuti.
Qualche volta rispondeva al telefono.
E qualche altra, se passava di lì qualche vecchietta, questa lo guardava con ammirazione e rivolgendosi alla ricezionista diceva - ohh ma che bel giovane che ha qui!-
Io ogni volta ridevo di gusto e gli chiedevo - ma cosa ci fai alle donne tu?! Adesso pure con le signore?- per poi salire stancamente le scale ed andarmene al lavoro. Quello vero.

La mattina quel giorno era volata, tra un commento ed una risata, mi ritrovavo come ogni giorno sul terrazzo a bere il solito caffè.
Questa volta c’era una novità.
Dave.

Lo trovai seduto su una sedia da campeggio intento a suonare una chitarra che aveva recuperato non so dove.
- Ammazza oh, ma suoni pure? Quando hai un attimo di tempo potresti pure metterti a lavorare che ne dici? - Gli chiesi sorridendo del fatto che i miei “dubbi sulla sua resa sul posto di lavoro” benché temporaneo, erano veramente fondati.
Mi rispose cantando la canzone che stava suonando.
Rimasi lì a guardarlo con la tazzina in mano.

C’era una verità dentro di me che mi rifiutavo di ammettere.
Finii velocemente il mio caffè e gli feci una mini “standing-ovation” per il concertino prima di raggiungere le mie “adorate cartacce” con un sorriso sghembo sulle labbra.
Stavo facendo la figura della sciocca che ride e scherza come un’adolescente.
È vero.
Ma infondo in quel momento non m’importava.
 
Sarà che il suo “secondo ufficio” dopo la ricezione fosse vicino al cucinino che si affacciava sul famoso terrazzo ma tutte le sante volte che ci finivo anche per fare compagnia a qualche altra persona ci dovevo scambiare qualche parola per forza.
Quel mattino Dave lo trovai nel cucinino prima di me.

Prima che io potessi farmi una dose della mia “linfa vitale” : il caffè!
Ero ancora “disconessa” e nel mondo dei sogni.

Lo guardai assonnata e lo salutai velocemente, senza dare troppo peso alla sua presenza.
Cosa che solitamente non capitava.
Ma il mondo lo sapeva: Elly senza caffè non connette.

Fissavo il rigagnolo di quel liquido schiumoso che scendeva dalla macchinetta del caffè direttamente nella mia tazzina e sbuffai. Lui mi guardò con un espressione compassionevole se vogliamo, della serie - sì è mattina e ti capisco -.
Non gli diedi retta.

Fu a questo punto che, con quel viso d’angelo che si ritrovava, mi disse: - hai notato la mia simmetria? -
Lo guardai con un misto di sorpresa e noia… - si, guarda…- precisò indicandosi i capelli.
Sorrisi leggermente e gli chiesi cosa mai avesse fatto di così speciale ai capelli. Dal momento che fissavo quel ciuffo ribelle con un bel punto di domanda sopra la testa.

Non capii subito cosa intendesse, finché lo vidi prendersi il ciuffo più lungo tra le dita , spostarlo da un lato di modo da lasciarsi scoperta la parte sotto.
Rimasi a bocca aperta quando capii cosa intendesse per “simmetria”.
Aveva provato a rasarsi i capelli sotto!

Fissavo la sua testa come se fosse il mondo perduto o qualcosa del genere, me ne resi conto, quando sentii la voce della coscienza dentro la mia testa che rimbombava come la famosa particella di sodio nell’acqua minerale dicendo - dddio svegliati Elly, sei proprio fulminata forte…!-

- Mi si è fermata la macchinetta a metà del lavoro! - Aggiunse. Cercai di trattenere una clamorosa risata mordendomi la lingua e sfiorandogli il ciuffo laterale gli dissi che aveva proprio la testa come un nido di acquile!

Dave era dannatamente bello!
Questa era la verità.
E non potevo farci nulla.

 

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Capitolo 3
*** Notting Hill, pizza & Tarantino ***


Notting Hill, pizza & Tarantino

Se durante un meeting mensile ti tocca fare da verbalista, sei fritta in padella.
Sei fritta per innumerevoli motivi:
Ti tocca pure ascoltare attentamente tutto ciò che vien detto.
Anche le divagazioni.
I dilungamenti.
Le rotture e le rogne di tutti.
E prendere nota.

Il peggio è che questi meeting cominciano “al mattino presto” e come ben sapevo senza caffè….
Con mappa, borsa e bloc-notes mi recai alla riunione, sembravo proprio una di “quelle vere” .

Tre ore dopo, con i fogli scarabocchiati di appunti a penna sottobraccio e il cervello fumante, decisi di tornare in ufficio a piedi.Attraversai il centro città con i profumi della “pausa pranzo” che facevano compagnia ai miei pensieri.
Ci feci caso quel giorno: era proprio vero che ogni volta che camminavo in centro città  mi veniva in mente quella scena del film “Notting Hill”. Quella in cui troviamo un fantastico Hugh Grant che attraversa il quartiere a piedi mentre cambiano le stagioni.
Ecco.
In quel momento mi sentivo così.

Di certo non mi sarei aspettata niente di simile.
Non ci avrei scommesso nemmeno se mi avessero pagato.
Posai esausta le mie scartoffie sulla mia scrivania e, decisa ad andarmi a preparare qualcosa nel cucinino di servizio, uscii in corridoio.
Di solito i corridoi delle aziende sul mezzogiorno sono deserti ed una non è che si aspetta di incontrare necessariamente qualcuno.

Dave!
Lo trovai appoggiato ad una parete, al buio, nel corridoio.
Il cartone in una mano e nell’altra un fettone fumante di pizza.
Mi vide passare e con la bocca piena del  primo morso mi fece un con un cenno con la testa.
Gli augurai buon appetito, chiedendogli se preferiva mangiare come i cavalli (in piedi) o se per caso volesse sedersi; quindi presa dai morsi della fame mi diressi verso la cucina.

A metà corridoio qualcuno con un forte spintone mi fece avanzare di botto di almeno mezzo metro, e una voce sghignazzava: -ma sei un fruscello!!-
Dave!

In un primo momento rimasi “impietrita” cercando di capire come avrei potuto reagire.
Quindi ridendo, decisi di rispondergli per le rime dandogli un bello spintone e facendolo finire quasi addosso alla parete.

Mi seguì in cucina con la pizza in mano.
Me ne offrì anche un pezzo ma qui, mio malgrado, dovetti rifiutare maledicendo la mia storica intolleranza al lattosio….
 
Ero, di fatto, “arrivata alla frutta”.
Dicono che una mela al giorno levi il medico di torno e, sulla base di questa “saggezza” popolare, da più o meno un annetto a  questa parte, era mia consuetudine di portarmi una mela sul lavoro.

Dave lo trovai seduto su quella sedia pieghevole che ormai era diventata di sua proprietà, sul terrazzo, come uno scolaretto, leggeva concentrato un testo.
Vedendomi si alzò dalla sedia e guardandomi dritto negli occhi mi disse:  - È successo durante la siccità che aveva fatto sparire tutta la marijuana da Los Angeles nell'86… te lo ricordi no?-
È impazzito! Pensai.

Poi guardai il foglio e capii.
Stava recitando.

Dave continuava imperterrito, senza esitazioni e senza fare caso alla mia espressione ora perplessa ora sorpresa, poi sorridente…
- non si trovava erba, ma io che avevo più c**o che anima mi ero conservato lo stesso buon contatto. Comunque, conoscevo una tipa hippie su a Santa Cruz e tutti i miei amici lo sapevano, e mi telefonavano continuamente... ehi, Freddy! Porca t***a, no... mi dicevano: "Ehi, bambolo... va a prenderne un po'...un po' anche per me – cioè siccome sapevo dove trovarla mi chiedevano di comprarne anche per loro, quando ne prendevo per me – ... oooh! E compramela... compramela!" Ogni volta che ne compravo per me dovevo prenderne per quattro-cinque altre persone. Alla fine ho detto: "Ma va*******o  tutti!" Sto facendo ricca questa s*****a e lei non doveva fare un c***o... non doveva nemmeno incontrarli quelli, tutto il lavoro lo facevo io! E a un certo punto mi sono rotto i c******i, c'era certa gente che mi telefonava a tutte le ore, non potevo neanche guardarmi una cassetta senza che arrivassero sei o sette telefonate a spaccarmi le p***e! -
 
- non ci siamo ancora….devo farla più “molleggiata”, più “easy”… - Precisò.
Ero rigida come un gatto di marmo dalla sorpresa.

E mentre la solita vocina dentro di me urlava - ELLY!!! Svegliati!!! - Non trovai di meglio da fare che dare un morso alla mela che avevo in mano e, con la bocca piena, feci un cenno al foglio - cosa stai studiando?-
Mi guardò con un sorriso soddisfatto e sghembo - è di Tarantino- disse.

Sapevo che aveva questa cosa della recitazione ma che intendesse studiarla per davvero, non l’avrei mai detto… o forse sì, pensai fissandogli il collo della camicia.
- Beh, ricordati di invitarmi alla consegna degli oscar quando diventerai famoso…- - Elly…. Miooddio - pensai - ma questa come ti è venuta? -
Sorrisi tra me e me e pensai che non mi era mai successo di incontrare “un futuro attore”.

Tornai alla realtà quando vidi che l'orologio segnava un'ora che superava di gran lunga la fine della mia pausa pranzo. Mi resi conto improvvisamente che l’avevo già allungata di troppo. Pensai anche che se avessi avuto per le mani una bottiglia del mio "amico Jack" sarebbe stato molto probabile che mi ci sarei attaccata per dimenticare tutto.
Non ero affatto sicura di voler dimenticare questi momenti anche se la mia razionalità mi suggeriva esattamente il di farlo! Stavo andando alla deriva. Con un assorto - Ehm, magari torno dopo - me ne tornai al mio tavolo.

 

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Capitolo 4
*** La giornata delle eccezioni ***


La giornata delle eccezioni

“La gente è terribile.
Ma i colleghi lo sono di più!"
Questo divenne un dato di fatto da quel giorno in cui decisi di andare al lavoro con una camicia bianca.
Infondo si vestivano tutte “bene” ed io, affezionata ai miei vecchi jeans scoloriti, al mio vestiario rigorosamente nero o grigio che ormai aveva fatto gli straordinari, quel giorno decisi che potevo fare uno strappo alla regola.

Era quasi mezzogiorno e visto che quel giorno avevo deciso per la mia, il fatto che a pranzo si fermassero altri due colleghi coronò “la giornata delle eccezioni”.
Quei due, lui e lei, era un po’ che si inzigavano a vicenda e se uno diceva all’altra “sicura che con quel suv esagerato che ti ritrovi non controllano per strada?” l’altra replicava “ma tornatene su per i tuoi monti a fare ciao alle caprette…”

Dal canto mio a volte mi “intrufolavo” nel discorso di quei due, che più che colleghi a volte sembravano due vecchi coniugi. Ma se di base me ne stavo zitta zitta nel mio angolino a “reggere il moccolo” sogghignando tra me e me, c’era un’altra presenza che  mi distraeva. Dave che se la rideva di gusto in piedi accanto alla finestra.

La mia vocina interiore ormai aveva deciso che per il prossimo natale mi avrebbe regalato un cornetto acustico.
“ELLY!!!” mi diceva, “ELLY, maledizione! Concentrati, smetti di fissarlo con quel sorriso, smetti di fissarlo mentre ride, smettila di incantarti sul suo ciuffo ribelle! E soprattutto smetti di farti mille film in testa!!!”

Più lei URLAVA più io non la consideravo di striscio.

Fu una voce, quella del collega inzigone a “risvegliarmi” dal mio torpore. Si rivolse a me dicendo “Ah, ora ho capito… è per Dave che ti sei messa la camicia eh?!”

Benché questa idea non mi fosse barlumata nemmeno per scherzo per l’anticamera del cervello, probabilmente in quel momento il mio viso si colorò di un bel rosso vino. Ci mancava solo questa. Di sicuro non selezionavo il mio vestiario in base alle probabilità di “attirare l’attenzione” di Dave!
Me ne uscii con un “voi non mi volete bene! La prossima volta mi metterò il burka!”

Mi alzai dalla sedia col golfino in mano e cominciai ad usarlo sul mio collega a mò di frustino dicendogliene di ogni colore. Il tutto sotto gli occhi divertiti di Dave e della collega che finora aveva “subìto gli scherzi”.

Una gabbia di matti. Ecco cos’era. Me ne stavo convincendo sempre di più.

Con le lacrime agli occhi per le tante risate, cercai di concentrarmi fissando il monitor del mio pc. Ma fu uno sforzo vano, poiché in quel preciso istante il mio sguardo ebbe una deviazione e si posò ora sui colleghi che  erano bonariamente tornati a bisticciare tra di loro ora su Dave.

Dave!

Dave che si stava levando la grossa felpa di lana che portava quel giorno.

Maledissi le deviazioni e anche gli sguardi.
Maledissi la felpa, i capelli ora spettinati di Dave, il bordo dei Jeans in bella mostra mentre si toglieva quell’affare, la t-shirt a maniche corte che portava sotto che si era alzata quel poco da farmi incantare da qualche parte su un centimetro quadro della sua pelle.

Ero di nuovo un pomodorino e i miei ormoni erano andati a farsi benedire.
“Andiamo Elly!” mi dissi, “smettila di fare l’adolescente”.

Cercai in tutti i modi di darmi un filo di contegno e alzandomi dalla sedia, mi diressi in corridoio.
“Almeno in cucina riuscirò a diventare di un altro colore, spero!” pensai tra me e me.
Ma quella era la giornata delle eccezioni ed io, sprovveduta, ingenua Elly l’avevo dimenticato!

“vieni un po’…” mi disse velocemente passandomi accanto in corridoio.
Dave!
“ma cos…”

Non capivo cos’avesse in testa quella mina vagante…
Lo capii tre secondi dopo, quando lo trovai sorridente come un bambino che ne aveva combinata una delle sue, con le mani sotto al rubinetto aperto e guardandomi mi disse “dai, insieme…”
Ubbidii senza fiatare e con le mani bagnate, ridendo come due cretini, ci fiondammo di corsa verso l’ufficio (dove erano rimasti gli altri due) e schizzammo il collega “inzigone” in pieno viso.

Quello, con la faccia sorpresa, fece una specie di sorriso della serie “la pagherete” e se ne andò al suo posto.
Raggiunsi Dave e il collega affacciandomi alla porta del suo ufficio più tardi, quando quello aveva pensato bene di metterlo a lavorare nella speranza di renderlo innocuo. “Così ti pentirai di non essere andato a fare il servizio militare” gli diceva.

Mi affacciai alla porta.
Dave mi guardò di soppiatto e alla mia domanda “che lavoro ti sta sbolognando quello là?” mi rispose “ah guarda, mi viene da piangere!”
Me l’ero giocate tutte le carte della razionalità. Quel giorno davvero avevo dato il massimo.

Lo capii quando mi avvicinai a Dave e, sotto gli occhi sorpresi di quell’altro, con la mano destra e il sorriso stampato, gli scompigliai i capelli, scesi sulla guancia in una specie di carezza e gli dissi “ma no, non piangere su!”

Rimasi ancora qualche minuto sulla porta, come se non avessi mai fatto nulla, a parlare con il collega che stava seduto al suo posto di fronte.
Come se nulla fosse mai accaduto.

Quando quello mi disse ammiccando “ma che feeling avete voi due?” mi accorsi che Dave si era avvicinato pericolosamente al mio ginocchio con la sedia girevole.
Sorrisi al collega come per dire “massì ma che dici?”.

Dave mi cinse un ginocchio con le mani.
Addio razionalità.

Lo guardai e gli dissi “Ehi Dave che ne dici? Prima o poi dovremmo pur dirglielo… insomma ammettiamolo no?!”
Avevo toccato il fondo.

Di Elly non c’era che un puntino rosso fuoco da qualche parte.
Dave sogghignava.
E io me ne andai ad annegare nell’ennesimo caffè di quella giornata.

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Capitolo 5
*** black... sheeps & revelations ***


Black sheeps and revelations

“Dei discorsi “seri”.
Quelli che fai senza ridere.
Ecco cosa non sono mai riuscita a fare con Dave!

Ogni volta, ed era più forte di me, non potevo non fargli una battuta. Forse era un modo per mascherare il fatto che mi piaceva la sua compagnia e probabilmente, io Elly, nell’inconscio non vedevo l’ora di vederlo tutti i giorni per farmi quattro risate.
Quel giorno, come di consueto, mi affacciai alla porta dell’ufficio del collega “inzigone” del giorno prima.
Dave era lì. Immerso nella carta.

L’”inzigone” mi guardò e con un ghigno soddisfatto mi disse “eccerto che tu vieni qui solo quando c’è lui…” accennando a Dave.
Non si era mai visto che io, Elly, l’ingenua, che si trovava comunque sempre in difficoltà a dover rispondere  per le rime ad uno sfottò, trovassi la risposta da dare in così poco tempo. Quando solitamente le risposte da dare mi venivano in mente dopo due ore.  
“si! Come no”. Iniziai… “almeno lui non mi manda via come fai tu ogni volta che vengo a salutarti che sei solo!... Eppoi secondo me sei geloso!” su quest’ultima parola spostai lo sguardo su Dave che sogghignava di nascosto.

“È geloso di te e anche di me…” aggiunse Dave, tenendomi la parte.
“Hai proprio ragione, visto che ormai tu ed io siamo amanti segreti lui non potrà che consolarsi con quella…” aggiunsi io ridendo e feci un cenno verso l’immagine che aveva appeso sulla parete dietro di lui: un piatto con bistecca e patatine fritte.
“Dave, ma tu l’hai mai visto uno che appende quelle immagini lì? Ma dico io… almeno la foto di sua moglie, dei figli o un bel quadro….invece…”
“Se continuate a parlottare non posso lavorare…” protestava quell’altro.

Oramai ci avevo preso gusto, e le battute, con mia grandissima sorpresa mi uscivano una dopo l’altra come se fossero una collana di perle.
Non ancora soddisfatta aggiunsi un bel gioco di parole utilizzando il nome del paese di provenienza di questo nostro collega e il suo atteggiamento “da marpione” di qualche giorno fa con la mia collega.
Quindi uscì una cosa tipo “don… giovanni” .

“A… Dongiovanni!” esclamai guardandolo mentre aggrottava le sopracciglia.

Dave fece 2+2 in pochi secondi, lo guardai nel momento in cui capì la mia battuta
“Oh, Bella questa” mi disse, e quel sorriso sghembo  si trasformò in una risata spontanea.
E fu così che, guardandolo ridere di gusto proprio perché non ne poteva fare a meno, l’ unico neurone sano che ancora bazzicava nella mia testa fece fagotto e andò in pellegrinaggio con tutti gli altri.

“Dongiovanni” prima di mandarmi definitivamente “a quel paese” mi dedicò un’occhiataccia ed io, prima di andarmene con la vittoria in tasca, aggiunsi anche che tra poco era il mio compleanno e che avrebbe dovuto cominciare a pensare cosa regalarmi… invece che mandarmi a fare un giro tutti i giorni!

Dave, che se ne stava, appoggiato ad una parete, mi guardò e mi chiese quanti anni avessi in realtà… gli risposi guardandolo dritto in quegli occhi azzurri azzurri, ero sull’orlo del precipizio, pronta a caderci dentro, quando mi spuntò un sorriso spontaneo e gli risposi “ma non lo sai che non si chiede l’età ad una donna?”

“Dddio ma levami quello sguardo di dosso… ti prego!” mi dissi, quindi gli rivelai la mia età sottovoce…
“Ma  vaaaa non è vero!” aggiunse sorridente Dave.

“Dave è vero! Porcamiseria… “sono vecchia”….”Erano i miei pensieri che echeggiavano nella mia testa.

C’erano giorni in cui invece lo battute erano scarse.
Incrociavo il suo sguardo barricata dietro i monitor dei miei computer,  giusto perché alzava gli occhi passando davanti alla porta del mio ufficio che stava poco prima delle scale che scendevano al pian terreno.

A volte prima di andarsene la sera passava di lì e alzava una mano come cenno di saluto senza dire una parola.  Io, fissandomi quell’espressione nella testa, mi buttavo a capofitto nel lavoro.
Altri in cui mi trasferivo “sapientemente” dalla cucina al terrazzo con l’ennesimo caffè in mano ed entravo nel “suo” ufficio.
Mi appoggiavo all’armadio che stava accanto alla sedia dove solitamente lo trovavo seduto intento a fare tutt’altro che quello che c’era da fare, studiare qualche copione, canticchiare una canzone o scrivere delle mail, oppure si lamentava del suo “salario” e facendomi vedere l’ultima busta paga, mi diceva che sarebbe diventato come gli artisti… “povero fino alla morte”. Io sbuffavo e cercavo di convincerlo che non era per quello. “Non hai ancora un diploma… eppoi io sono qui da parecchio tempo e a te non ti tocca fare certe cose che devo fare io…. Sei uno sfaticato” dicevo ridendo.

Che poi non mentivo affatto quando sostenevo che “il mio lavoro non me lo faceva nessuno”.
“Se sono “indispensabile me ne farò una ragione” dicevo dandomi importanza…

Dave alzava un sopracciglio e fu in uno di quei giorni in cui ci lamentavamo tutte due che ebbe la gloriosa idea di prendere la pecorella nera di peluche che qualcuno aveva lasciato sul tavolo, metterla bene in vista e dirmi “questa sei tu!”.
“ma brutto maleducato..” gli risposi schiaffeggiandogli piano la spalla.

Non mi dispiaceva affatto, in verità, “essere” quella pecorella nera. E questo perché avevo due possibilità: “ero una voce fuori dal coro…quindi potevo essere considerata particolare” oppure “potevo starmene lì, zitta zitta a guardargli addosso dal mio angolino” proprio come il peluche ;)
Ok, chiamate la neuro… pensai.

Prima di andarmene, con un sorriso, dissi: “Ah, Dave…. Mi vendicherò per questo paragone… sappilo”  e fu così che i “temibili” ingranaggi cerebrali di Elly cominciarono a girare lentamente.
 

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Capitolo 6
*** Colpi di testa, lampadine e vendette ***


Colpi di testa, lampadine e vendette

“i lavori non vanno fatti di fretta… altrimenti vengono male!”: una delle tante perle di saggezza che il mio grillo parlante interno mi ripeteva in continuazione.
Ma con me, Elly, gli avvertimenti non funzionavano mai.
Dovevo per forza sbatterci la testa.

Era risaputo che io di cose ne cominciavo anche tre o quattro contemporaneamente  a costo di cacciarmi in un qualche pasticcio e di sentirmi dire “te l’avevo detto”.
Solitamente quello che iniziavo lo finivo anche, e solitamente mi andava anche bene perché non succedeva nulla.
Ma le eccezioni esistono.
E il fato pure.

Me ne resi conto una sera quando prima di uscire in fretta e furia di casa decisi che quei tre bicchieri usati poco prima, non potevano rimanere lì, allegramente appoggiati sul tavolo, sporchi, fino alla mattina dopo.
Quindi decisi di lavarli, contemporaneamente mi infilavo la giacca e le scarpe.

Lavando l’ultimo questo pensò bene di rompermisi in mano e di conseguenza di “sfregiarmi” un dito.
“Te l’avevo detto”!

Cinque minuti dopo, come volevasi dimostrare corsi al pronto soccorso con mezzo rotolo di scottex avvolto attorno alla ferita.
Il risultato furono dei punti di sutura e una bella fasciatura ingombrante che mi impediva di fare anche la cosa più banale del mondo.
“Elly… te l’avevo detto” mi ripeteva in tono di rimprovero il mio grillo parlante, e più cercavo di zittirlo, più quello si faceva insistente.
Infine dovetti ammettere di essere come minimo un’ inguaribile pasticciona se non peggio.
Tutto per far contenta quella stramaledetta voce della coscienza.

Il giorno dopo, mentre percorrevo il solito corridoio per andare al lavoro, la dinamica del mio “incidente” la spiegai minimo venti volte e a venti persone diverse. Ognuna di esse mi diceva la sua.
Risultato: ero già stressata alla mattina presto e conclusi che per superare tutto ci voleva un bel caffè.
Anzi una tanica era meglio.

Se le persone erano venti. Ci mancava anche la ventunesima.
Dave!

Gli spiegai l’accaduto e conclusi che lavare i bicchieri senza la lavastoviglie di supporto era una cosa da evitare assolutamente.
Della serie “don’t try this at home”

Dave.
Il “terribile Dave”.

Mi sorrise come uno che già ne aveva in mente una delle sue. 

Quindi per quel giorno decise che ogni volta che passava davanti alla mia porta doveva ricordarmi la mia “iella” tenendosi  dimostrativamente l’anulare della mano destra fingendo un dolore lancinante.

Ebbi almeno la possibilità di “vendicarmi” ingaggiandolo in qualunque stupido lavoro che c’era da fare e che io, Elly in versione andiccapata, non riuscivo a fare.

Sfaticato e pigro com’era ben presto decise di sedersi su una sedia lì vicino al tavolo di una collega dicendo che l’avevamo “esaurito”.
“Ehi, guarda che lo sciopero non è considerato”… gli dicevo ridendo e fu in quel momento, quando vedendolo appoggiare la fronte su di una bucatrice abbandonata lì per caso, facendo finta di dormire che mi si illuminò la classica lampadina.

Sogghignando tra me e me gli dissi “seee Buona notte ehh!” e gli chiesi se per caso volesse anche la copertina e la ninna nanna… Mi rispose che no, la bucatrice era già abbastanza comoda.

lo vidi ridere sotto quel ciuffo ribelle di capelli neri che gli coprivano il viso.

Avevo capito come avrei potuto “vendicarmi” per avermi confrontata ad una pecora nera...
Per quel giorno, iella a parte, potevo ritenermi soddisfatta.

 

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Capitolo 7
*** faccia... libro ***


Faccia...libro

“Offf facebook… facebook è una droga!” mi disse Dave entrando nel mio ufficio all’ora di pranzo.
Quando scattava l’ “ora x”… era come quando suonavano le sirene delle fabbriche: tutti correvano. Ci si connetteva sempre e comunque….
Anche se in realtà non si avevano particolari necessità.
Anche solo per giocare.

Allora, quel gioco, non mi aveva ancora “preso”… anche se a dire della mia collega Candy crush era la fine del mondo.
Dave la guardava con un misto tra il perplesso e il divertito e la “sfotteva” dicendo che quelli erano giochi per “bambini” e che bisognava giocare ad altro… quindi mostrava con soddisfazione le app sul suo i-phone.

Dal canto mio me ne stavo nel mio “angolo” a sfogliare le pagine dedicate ad una fiction e che ultimamente, per uno dei suoi personaggi, aveva fatto strage di cuori (ora indovinate chi è….). La “febbre” del “tatuatore borgataro” mi portò tempo prima, a scrivere un’intera “point-of-view” e giusto in quel momento cercavo “ispirazione”.

L’avrei preso a calci, Dave, quando - probabilmente mi stava guardando ed io non me n’ero accorta- disse ad alta voce “ma che fai? Guardi le foto romantiche?”.
Diventai viola all’istante e di getto chiusi la pagina.
Non stavo facendo nulla di “male” ma mi venne così.

Non potevo certo stare lì a spiegare che dovevo cercare un’ispirazione per scrivere l’ennesimo capitolo.
Brutto impiccione.

Mi venne in soccorso la mia collega poco dopo, quando si rivolse a Dave sparandogli addosso una raffica di domande… “ma tu ce l’hai un profilo? Mi aggiungi? Posso chiederti l’amicizia? Eddove sei che non ti trovo?”

Sorrisi tra me e me e la ringraziai dal profondo del cuore – pur non rivolgendole nessun ringraziamento diretto- ma almeno mi aveva tirato “fuori dagli impicci” distraendo “il nemico”.
Dave, con un sorrisetto beffardo di chi non vorrebbe dire, ma pur di darsi importanza lo farebbe senza pensarci due volte, uscì dall’ufficio biascicando un veloce “ma si, ma si, ci sono con nome e cognome….”

Lì per lì non ci feci nemmeno caso; il barlume andarlo a cercare e la curiosità di vedere cosa cavolo pubblicava sul suo profilo mi venne più tardi.
Quella sera avevo altro da fare: riacquistare finalmente la facoltà di utilizzare la mano destra!

Prima di uscire, nel tardo pomeriggio, non potei fare a meno di affacciarmi all’ufficio dove Dave si trovava in quel momento e con tono trionfale gli comunicai che avrei finalmente riacquistato l’uso delle dita.. così che magari poteva smettere di prendermi in giro come aveva fatto nei giorni precendenti.
Mi guardò con un sorrisetto sghembo e mi augurò, probabilmente, buona fortuna…

Quella sera, non potei resistere oltre, la curiosità di vedere se mi avrebbe aggiunta alla lista dei suoi innumerevoli, amici su facebook mi stava letteralmente perseguitando. L’idea mi faceva sorridere da una parte e dall’altra la mia voce interiore continuava a ripetermi la stessa cosa: “Elly! Ma che stai facendo? Smetti di fare l’adolescente…per favore!!”
“Al diavolo!” Pensai dando del “disco rotto” alla voce della mia coscienza mentre cliccavo su “aggiungi ai tuoi amici”. L’avevo trovato!

Passarono un paio d’ore quando trovai una notifica.
Aveva accettato la mia richiesta.

Di getto e senza pensare gli scrissi un messaggio sulla bacheca… chiedendogli se “per oggi aveva finito di dormire” o una cosa del genere….
Ormai io, Elly, ero immersa nelle sabbie mobili e stavo lentamente sprofondando.

Mi rispose che “si, per oggi aveva dormito abbastanza ma che domani avrebbe ripreso…”
“Molto divertente Elly” pensai… “ed ora? Vorresti andare avanti a messaggini?”

Mi staccai dal monitor e dalla tastiera con un sorriso sghembo e soddisfatto.

Per oggi avevo fatto abbastanza.
 

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Capitolo 8
*** Crazy - Bridget - Elly - Jones ***



Crazy - Bridget - Elly - Jones

Lavorare ad un ritmo così frenetico faceva male…. Molto male!
Era ciò che pensai tra me e me quel mattino in cui, mentre nel solito vagone delle 7 del mattino, cercavo un posto a sedere con il lanternino.
Un branco di pecore. Ecco cosa sembravamo.
“All’improvviso realizzai che se non cambiava qualcosa in fretta avrei vissuto una vita in cui il rapporto più importante sarebbe stato quello con una bottiglia di vino, e alla fine sarei morta grassa e sola, e mi avrebbero ritrovata dopo tre settimane divorata dai cani alsaziani…*”

Ma ben presto il mio “buon proposito” di quella mattina fui costretta ad accantonarlo in un angolo come uno straccio da pavimento quando arrivai in ufficio.
Si scatenò l’inferno: c’era chi spediva le richieste via mail, chi le diceva a voce e chi ti cercava al telefono. Ognuno per una cosa diversa.
E per mezza giornata non ebbi nemmeno il tempo di respirare.
Dave quella mattina non si era ancora visto, e probabilmente ciondolava da qualche parte come suo solito, furbamente, senza farsi notare da chiunque avesse intenzione di propinargli un lavoro.

Era già passata la pausa pranzo quando finalmente ebbi il diritto di cedere “al richiamo della macchinetta del caffè”.
Raggiunsi la cucina con fare sconvolto, come se fossi realmente in crisi di astinenza, aprii la confezione della capsula e la infilai nella fessura.
Il rumorino della macchinetta del caffè aveva un effetto “calmante” su di me.
Con questa “immagine” nella testa mi spuntò un sorriso sghembo misto ad una risata più isterica che altro.
Come di consueto, quando bevevo l’ennesimo caffè, uscii dalla porta finestra del cucinino che dava sul terrazzo.

Ma in quel giorno così “frenetico” lo scalino della porta decise di rendersi invisibile ai miei occhi, e fu così che ci inciampai sopra.
Il mio caffè, rovesciato per tre quarti sul vetro della porta, gocciolava a terra e l’altra metà mi aveva inzuppato i jeans.
In tre secondi mi ero trasformata di nuovo nel ritratto di quella disgraziata di Bridget Jones.
La mia voce interiore non fece in tempo a rivolgersi a me con fare severo e di rimprovero “Elly! Per l’amor del cie…” perché per una volta la mia imprecazione fu più forte.
“Ma tu e Cosmo vi siete messi d'accordo? sembra che facciate di tutto per farmi sentire un idiota....e credimi non ce n'è alcun bisogno!!! Io mi sento già una perfetta idiota in ogni caso...” esclamai a voce alta, rivolgendomi a quella stupida voce. Mi pentii qualche secondo dopo quando mi venne il sospetto che qualcuno mi avrebbe potuto sentire. O peggio aveva assistito a tutta la scena.
Pulii freneticamente il pavimento e la finestra alla bell’e meglio e me ne tornai al mio tavolo.
Passarono due orette, lisce come l’olio, la “pace prima della tempesta”, pensai.

Forse fu un pensiero premonitore perché poco dopo, appoggiato allo stipite della mia porta, trovai quel cataclisma umano di Dave.
Lo guardai di soppiatto come per dire “dove cavolo ti eri cacciato…?”
Entrò e si presentò davanti alla porta dell’ufficio del capo e trovandola chiusa, intuì che forse non era il caso di interromperlo; quindi, non avendo nessun altro a cui rivolgersi decise di fermarsi direttamente davanti a me e al mio tavolo.

Gli feci un cenno per chiedergli “che cosa avesse bisogno…”
Dave mi rispose con una domanda. Mi chiese a chi potesse dire che doveva uscire per andare a dare una mano in una sede vicina…
“Al capo.” Gli dissi freddamente. Forse un po’ troppo freddamente. “Ma è occupato” dissi e mi soffermai guardandolo negli occhi. “Se vuoi glielo dirò io, poi dopo quando si libera” aggiunsi. Questa volta gentilmente e con un mezzo sorriso.

Dave mi guardò, mi ringraziò e sorrise. Fece per uscire dall’ufficio, e con un sorrisetto sghembo stampato in volto, si voltò, si portò la mano alle labbra spedendomi un bacio volante.
Imbambolata, impietrita, arrossita, col cuore che sbatteva contro il torace come se suonasse in un complesso metal, la solita stupida voce nella testa che mi pregava in ginocchio di smettere di fantasticare, sorrisi tra me e me stringendomi il viso tra le mani. Mentre salvavo questo momento nei “file da non cancellare” dentro la mia testa aggiunsi “Elly, tu sei pazza!”.
 

* ho preso in prestito una citazione dal film "Bridget Jones"

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Capitolo 9
*** Buon compleanno Elly.... ***


Buon compleanno Elly...

“Potevo fare un elenco esaustivo delle cose che trovavo assolutamente sexy in un uomo.
Tra quelle ce n’erano tre che non avrei saputo riordinare “in ordine di importanza”:
il piercing al sopracciglio.
Il  motociclista che viaggia con una mano appoggiata sulla gamba.
Le giacche in pelle.

Ero ancora incantata a pensare a queste tre cose, anche messe insieme... rasentavano sicuramente la perfezione. Forse era un modo per “elaborare il lutto” del giorno prima. Già. Il giorno prima era il giorno del mio compleanno. Ora che avevo “cambiato la decina” (e lo dicevo ogni volta come se fosse una giustificazione del fatto che però nella testa ero ancora stra-convinta di essere ferma a dieci anni prima…) probabilmente – come diceva la mia voce interiore- era ora di crescere un po’.

Niente di più difficile/falso!
Anzi. Da quel giorno avevo l’impressione di avere il mondo in pugno pronta a combinare l’ennesima delle mie cavolate “post-adolescenziali”.

In quel giorno così “traumatico” presi ferie e non mi feci vedere da nessuno. Soprattutto dai colleghi d’ufficio che mi giravano attorno come se fossero avvoltoi: “Sono tutte scuse per non pagarci da bere..:” dicevano.
Dopo l’ennesimo commento dovetti cedere “alla violenza” promettendo che avrei portato la torta il lunedì successivo.

Pregai di non dover litigare di nuovo con il forno, avevo ancora ben presente l’ultima esperienza, sì, quella in cui, il mio impasto decisamente perfetto, decise di uscire dalla teglia per farsi un giro sul fondo del forno; o quell’altra in cui il mio povero dolce implose lasciandomi contemplare un bordo alto 5 cm con un bel cratere nel mezzo.
Giuro. Non c’è niente di più desolante che un dolce uscito male.
Quindi, quella domenica sera, optai per “elemosinare” il forno altrui almeno per mantenere la mia promessa.

Uscii di casa la mattina del lunedì armata di borsone e dolce al seguito. Tanto per non saper né leggere né scrivere aggiunsi anche due bottiglie di spumante, ricordandomi in seguito, che tanto, io quella torta manco l’avrei potuta assaggiare.

Come per magia mi ritrovai nel garage sotto il palazzo in cui mi aspettavano i colleghi-golosoni e scendendo notai che lì in un angolo sulla sinistra c’era una motocicletta rossa.
Mi incantai ad osservarla per poi spostare lo sguardo sulla giacca del proprietario: una bella giacca da moto piena di inserti colorati e qualche marchio qua e là: insomma un’altra delle cose che io, Elly-pazza-furiosa trovavo tremendamente sexy.
Avevo appena premuto il tasto “play” del mio solito film mentale.
Andava tutto a meraviglia quando notai che quei capelli neri ora arruffati che uscivano da sotto il casco mi erano paurosamente famigliari.
Dave.

Ossignore! Pensai. Strinsi di più la maniglia della borsa che reggevo e affrontai la rampa che portava all’esterno. Mi fermai a salutarlo, mascherando quel solito sorriso laterale che mi veniva quando facevo partire le mie fantasticherie personali….
All’entrata del palazzo trovai altri colleghi – e dire che solitamente non incontravo mai nessuno quando entravo al lavoro- che non poterono fare altro di notare il mio carico straordinario per poi commentare il contenuto. Dovetti anche sentire gli auguri che ognuno di loro mi aveva dedicato, con relativa pacca sulle spalle. In quei pochi minuti davanti al portone ricevetti 3 pacche sulle spalle che dovetti ricambiare con un totale di 9 bacini di rito sulle guance.

Non ero ancora entrata al lavoro e nel giro di 5 minuti ero già invecchiata del doppio degli anni che avevo compiuto e il desiderio di avere come minimo una macchina del tempo si fece ardente.
Quel desiderio si fece ancora più forte quando da dietro le spalle di un collega spuntò Dave che aveva assistito a tutta la scena.

Avrei voluto decisamente sprofondare quando, trovandomelo di fronte, cominciai a fissargli la barba incolta. Mi “interruppe” ben presto dicendomi “oh… auguri eh…” stampandomi i soliti tre bacini di rito sulle guance. Dovetti per forza ricambiarli. Probabilmente se avesse avuto indosso un'altra giacca avrebbe sentito che stavo pesantemente aggrappata ad una sua spalla. Mi salvò il fatto che quella era imbottita per benino e quindi non si notò nulla.
Ero a pezzi. E non avevo nemmeno cominciato la giornata.

Il momento della torta arrivò. Dopo pranzo quella bomba al cioccolato sparì nel giro di poco tempo.
Mi attaccai alla bottiglia di spumante offrendone un bicchierino a tutti.
Poco dopo ebbi l’occasione di appurare quanto fosse “pericoloso” bere in ufficio e soprattutto quanto faceva male alla mia indole “seria e diligente”.

Trovai Dave che scendeva le scale (dopo che si era pappato un fettone di torta al cioccolato) e, quando mi disse sorridendo “grazie davvero per la torta”. Sembrava detto così di cuore che gli sorrisi guardandolo dritto negli occhi attaccandomi al corrimano.

Poco prima si pavoneggiava con un cappellino da baseball che poi aveva indossato al contrario (con la visiera verso la nuca) quindi avevamo iniziato a parlare del fatto che prima o poi avrebbe finito il suo periodo da noi e che probabilmente sarebbe tornato il suo predecessore. Sotto l’effetto di quelle maledette bollicine, diedi un colpetto a quella visiera che sembrava aspettasse soltanto che arrivassi io, facendo saltare il cappellino. Non contenta sorrisi e gli dissi “si ma il tuo predecessore… era una palla al piede, con te si ride molto di più!”
Se ne andò con un sorrisetto sghembo e io, resami conto delle cavolate che stavo facendo, mi rifugiai nel mio lavoro.

“Coffee time” pensai. Ecco di cosa avevo bisogno. Ormai le bollicine che avevano fatto effetto alla mia povera testa se n’erano andate, tanto valeva ricominciare col caffè!

“abbiamo bisogno di te” disse la mia collega notando Dave che ciondolava nel corridoio.
“Mettimi le etichette su queste buste e timbrale con questo timbro.” Gli ordinò lei.
Dave se ne andò al suo posto con un plico di buste in mano.
Sembrava un condannato e a me veniva da ridere.

Mi ritrovai, parecchie ore dopo, nell’ufficio dove quel disgraziato stava svolgendo il lavoro richiesto. “guarda come sono creativo” mi diceva staccando l’ennesima etichetta dal foglio con la delicatezza di un elefante in una cristalleria. Io scuotevo la testa perplessa, appoggiandomi all’armadio dietro di me.
Non contento cominciò a farle volare, al ché, ancora più perplessa, feci per andarmene quando l’occhio mi cascò sul timbro.
Quel bel timbro verde. Fu come se mi si fosse accesa una lampadina. Lo afferrai di soppiatto e aggiunsi “guarda che se non ti concentri meglio sul lavoro ti prendo a timbrate con questo!” fissando quel timbrino di legno che stringevo in una mano.
“non lo farai mai!” rispose lui ignaro.
“le ultime parole famose!” e feci finta di timbrargli un braccio.
Replicò con un “nooo” disperato e mentre cercava di sfuggirmi riuscii a lasciargli un bel timbro di posta prioritaria sulla fronte.
Avevo le lacrime agli occhi da tanto ridere e forse furono proprio loro che mi annebbiavano la vista, a dare l’occasione a Dave di fregarmi il timbro e consumare tutto l’inchiostro sul mio braccio.

Ora mi guardava soddisfatto e pensai che se la  mia vocina interiore, tanto severa, mi avesse vista ora o peggio fosse stata una “severa governante” in carne ed ossa mi avrebbe guardata con una delle sue solite smorfie disapprovazione e rimprovero facendo “no” con la testa.

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Capitolo 10
*** You know, there was no need to be so supportive! ***


You know, there was no need to be so supportive!

“Dicono che le coincidenze non esistono, dicono che quello che troviamo sulla nostra strada sia tutto un caso. Se prima ero fermamente convinta che tutto ciò non fosse vero, cioè che tutto avveniva per un motivo, che noi, avessimo davanti tutti i giorni il nostro tapis-rouge personalizzato da “srotolare” davanti ai piedi, che se la motivazione di ciò che ci accadeva non si vedeva subito probabilmente era da scoprire.
Se, di fatto, le cose succedevano proprio a noi, un motivo c’era. E se la cosa che succedeva è una di quelle che faceva paura, ancora meglio, ci accadeva perché dovevamo imparare ad affrontarla prima di passare oltre. Quindi, nel bene e nel male, ci toccava affrontare la situazione e trarne i dovuti insegnamenti.

Quella giornata bastò affinché la mia convinzione a riguardo aumentasse ancora di più diventando praticamente una certezza.
C’era un’altra cosa: ad ogni azione fatta corrispondeva una reazione uguale e contraria.

Quindi se qualche settimana fa Dave avesse evitato di prendere in giro la mia fasciatura al dito probabilmente non sarei scoppiata in una fragorosa risata, mista a stupore, per ciò che vidi quella mattina.

L’avevo sorpreso mentre si cambiava un’ingombrante fasciatura appoggiando la mano sul tavolo e spalmandosi una pomata.
 “Oddio ma che hai fatto?!” dissi trattenendo l’ennesima risata affacciandomi all’ufficio di Dave.
“hogiocatoabeachvolley” fece lui sottovoce e tutto d’un fiato. Già. Come se non volesse essere colto in flagrante.
“E quindi?” insistetti…
“il pallone mi è rimbalzato sul dito e l’ho slogato..” rispose serio.
Poverino! Pensai. Essì, la mia solidarietà rimase sola soletta a bazzicare nella mia testa. Unicamente un pensiero!
“Vedi cosa succede a prendermi in giro?” dissi ridendo e aggiunsi “carino, non c’era bisogno di essere così solidale eh…”

Era una di quelle giornate che si affacciano prepotentemente da un terrazzo pronte ad afferrare l’estate. Già. La mia stagione preferita. Aspettavo il caldo del sole da un anno praticamente. E Dave, il suo dito, la mia “soddisfazione” (bonaria), l’arietta che c’era sul terrazzo quando prendevo l’ennesimo caffè, mi mettevano di buon umore.
Tanto che mi misi pure a pensare alla “vendetta” che avevo gentilmente promesso a quel cataclisma di Dave.

Dopo varie ricerche ed indecisione sul soggetto più adatto ecco che finii almeno il disegno che mi serviva, lo stampai di soppiatto senza farmi beccare e lo cacciai in borsa assieme a tutto il “resto della casa” che mi portavo dietro.

Erano le 19 passate e finalmente aprivo la porta di casa.
Entrai e buttai la borsa a terra abbandonandola a sé stessa.

Mi ritornò in mente il contenuto di quel “piccolo grande regno” più tardi, quando a sera inoltrata, decisi di mettere in atto il mio progetto.

Mi diedi da fare e con grande pazienza, preparai il tessuto, stirai il disegno, aspettai che asciugasse e, a mezzanotte passata, avevo tra le mani la mia tremenda, tremendissima vendetta: il disegno della “famosa” bucatrice con sotto un buon augurio per la notte in verde acido faceva la sua bella figura sul fronte di una t-shirt bianca.

Con un sorriso “diabolico” la cacciai in una busta come per "nascondere" quel che avevo combinato...chissà come avrebbe reagito ad una roba del genere, pensai.
Tanto valeva che premessi, per l'ennesima volta, il tasto play al mio cinema mentale.
Con un sorrisetto sghembo, stanca ma soddisfatta, me ne andai a dormire.

 

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Capitolo 11
*** I Threw A Brick Through A Window ***


I Threw a Brick Through a Window

“Devo aver avuto la mente offuscata da un non so che quando l’avevo pensata, messa in atto, del tutto convinta che fosse una cosa azzeccatissima.
Folle, sì. Ma da morire dal ridere.
Ecco. Era così di sicuro.

Elly in versione “ritorno alla razionalità” non poteva farlo veramente, pensavo mentre fissavo il contenuto del cassetto… quella “stupida” t-shirt. Guardarla perplessa sul da farsi era diventato quasi un tic nervoso.

“oddio, ma è troppo scema”, “non posso regalargliela veramente… eppoi chissà cosa dirà…” pensavo mentre guardavo quella scritta che diceva “buona notte!!” in un bel verde acido sotto il disegno della bucatrice.
Il fatto che mi avrebbe preso per una pazza era diventata una certezza assoluta.

Avevo scagliato la pietra, rotto un vetro immaginario, ed ora nascondevo la mano.

“Almeno ho ancora un po’ di tempo per pensarci” ripetevo tra me e me l’ennesima volta.
Accantonai questo pensiero buttandomi come al solito nel lavoro.

L’ora di pranzo era in clou della giornata. E quel giorno veramente lo diventò senza ombra di dubbio.
Il locale fu invaso da innumerevoli colleghi che si fermavano a mangiare, chi con la scodella sulle ginocchia, chi si pappava gli “spaghi” che eravamo soliti preparare. Tant’è che alla fine eravamo in sei.

Tra queste sei persone non poteva mancare una persona.
Dave!

Finimmo di mangiare e tra un discorso e l’altro qualcuno cominciò a parlare della manifestazione per cui c’era da fare quel lavoro che Dave mi aveva sapientemente rovinato mesi prima, costringendomi a tacergli la cosa per imbarazzo.

Sentendone parlare il mio cuore si fermò per un millesimo di secondo lasciandomi di pietra, pregando che il discorso non andasse oltre, proprio in presenza sua.

Ma quant’è vero che abbiamo due orecchie e una sola bocca, è anche vero che è proprio perché dobbiamo ascoltare di più e parlare di meno. E la gente è pettegola, ha orecchie aperte, ma poca discrezione per le tue confidenze, e una parola detta prende il volo senza rimedio.

“Ma tu non lo sai, Dave, Elly ce l’ha con te! Sì, è arrabbiata perché le hai rovinato quel lavoro!” furono le parole che uscirono dalla bocca di una collega.

Non ci credevo.

Il mondo si era come bloccato, o forse ero io che ero rimasta di sale, mentre tutto intorno a me proseguiva il corso che aveva preso ignaro della mia situazione.

Le parole di quella pettegola mi rimbombavano in testa e probabilmente diventai di un colore indefinito che sicuramente si avvicinava al rosso/viola.
Sprofondare.
Ecco cosa volevo!

Aprii la bocca per replicare ma la voce di Dave mi precedette. Rideva.
“ma voi non capite la mia arte…” aggiunse sorridendo.

Era tutto storto Dave…. Non so se te ne sei reso conto!  Ecco cos’avrei voluto dire ma non mi uscì nulla. Fissavo il fondo del piatto e maledissi in silenzio tutti i presenti, me compresa.

Non riuscivo a guardarlo in faccia, ammettere che ero stata furibonda e non gli avevo detto nulla era troppo.
Presi coraggio nel pomeriggio quando con una scusa mi trovai al suo fianco appoggiata al solito armadio, fissando il fondo del mio ennesimo caffè.

“Quindi ce l’avevi con me?” fu Dave a parlare per primo.

Non potei fare altro che buttarla sul ridere, anche se da ridere non c’era nulla. C’era solo da scappare via alla velocità della luce.
“Sì, furibonda….ti ho “odiato tantissimo! 350 cartelli da ritagliare a mano voglio vedere…” risi.

Mi guardò sorpreso e disse “dio, ma quanto tempo hai “buttato via?”
“troppo, e pensa, tutto per colpa tua” replicai ridendo fragorosamente (anche se in quel momento avrei voluto scoppiare a piangere per l’imbarazzo).
"Ma no, ma dovevi dirmelo!" aggiunse lui e pareva dispiaciuto.

Me ne andai fuori sul terrazzo, ormai, credevo di aver ripreso il colore giusto e soprattutto pensavo di essere tornata la razionale Elly di sempre, come suggeritomi dalla voce della coscienza.

Ultimamente l’avevo zittita, e lei, approfittando della situazione che si era creata, non perse l’occasione per ripetermi l’ennesima volta che ero stata una stupida.
La versione razionale di Elly durò qualche secondo e, decisamente no, non c’eravamo ancora. Non era tempo di ritornare sui propri passi. Perché l’occhio mi cascò su una vaschetta di pomodorini cherry abbandonata in cucina da qualcuno.

Ora, sono consapevole che non si usa il cibo per giocare, ma non potei resistere; ne presi due o tre e mi fiondai nell’ufficio di Dave e cominciai a fare il tiro a segno.
Ridevo come una pazza mentre lui cercava di proteggersi dai miei “proiettili” con le mani .
“Mi alleno per assistere al tuo prossimo spettacolo teatrale!” Gli dissi.

Dave mi dedicò un sorrisetto sghembo che era tutto un cinema  e io me ne tornai al mio tavolo soddisfatta di aver ormai “abbandonato” la parte razionale di Elly per  lasciare il posto a questa follia.

ps. il titolo di questo capitolo è il titolo di una canzone omonima degli U2 degli albori... awwww

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Capitolo 12
*** june evening ***


June evening

L’inizio del mese di giugno arrivò volando. E giugno corrispondeva più o meno come ogni anno alla riunione generale dell’azienda seguita dalla consueta cena aziendale: l’ennesima “rottura”.
In quell’occasione le donne della ditta facevano a gara a chi portava il vestito più bello, le scarpe più nuove o la pettinatura più originale. Io come sempre rappresentavo il classico “caso a parte” visto che:

1) la prima volta in cui mi toccò parteciparvi mi resi conto durante la pausa pranzo di non avere nemmeno delle scarpe adatte e mi dovetti precipitare in un grande magazzino a caso per comprarne un paio. Così, almeno per non fare l’ennesima figura. Visto che già mi toccava presentarmi in jeans. Chi ce l’aveva avuto il tempo per cambiarsi?

2) Ogni volta che mi toccava andare ad una riunione aziendale con successiva cena, dovevo andarci dopo 8 ore di lavoro senza neppure poter “passare per l’anticamera di un bagno” per rendermi minimamente presentabile.

3) Vedevo gli altri arrivare belli freschi, puliti, stirati di tutto punto quando io ero già uno schifo da un po’…

Questa volta avevo deciso che, malgrado fosse il caso del punto 2, non mi sarei fatta cogliere impreparata almeno per quello che potevo “tenere sotto controllo”.
“tanto i vestiti ti si sgualciranno e il trucco sarà già colato tutto alle 10 di mattina!” mi disse con una smorfia di disapprovazione la mia cara voce interiore.
“Oddio I VESTITI!!” esclamai.
A cosa avrei avuto intenzione di indossare non ci avevo minimamente pensato.

Era sera tardi ed ero in pigiama davanti all’armadio aperto a contemplare il mio intero guardaroba alla ricerca di quello che avrei potuto indossare il giorno dopo: per questa volta avrei dovuto anche abbandonare i miei adorati Jeans sgualciti e optare per qualcosa di più carino. Rivoltai ogni ripiano e alla fine persi la speranza.
Non potevo certo presentarmi con qualche cosa che mi facesse sentire “scomoda”. Oltretutto avrei dovuto lavorare prima 8 ore con quei vestiti.

Fu così che, spazientita, optai per il “solito nero”: pantaloni stile cargo aderenti con le tasche laterali abbinati ad un top senza spalline dello stesso colore, taglio obliquo con dei piccoli fiori luccicanti.
Cacciai il top in una borsa, riempii la trousse per rifarmi il trucco e me ne andai a dormire. Così quel mattino mi recai in ufficio carica come se dovessi partecipare ad un corso di sopravvivenza.

Mi venne un mezzo infarto quando mi resi conto che a quella serata avrebbe partecipato anche Dave!
“Almeno ho avuto il buon senso di scegliere degli abiti “comodi”, altrimenti avrei sicuramente rischiato di fare la figura di quella che appena si veste più elegante del solito somiglia più ad un gatto di marmo che ad una persona.”
Pensai sbuffando tra me e me.

Durante la mattinata il “discorso cena” si fece più frequente anche con la collega che aveva la scrivania nel mio stesso ufficio: “Mi raccomando scegliamo bene chi si siederà al nostro tavolo!” diceva.
“Dave… oddio Dave, Dave no ti prego fa che non si sieda con noi…dddio Elly non fare la timida mica morde…. sarebbe grandioso: con lui rideremo di certo… oddio e se mi vedesse brilla…?!” furono tutte le cose che pensai nel giro di 5 secondi, prima di girarmi verso la collega e dedicarle un sorriso incerto.

L’ora di “partire in missione” era scoccata e, alle quattro di pomeriggio, scendevo le scale col tacco del dieci barcollando sotto il peso degli scatoloni che dovevo caricare nel bagagliaio dell’auto della mia collega per andare a preparare, con lei, la riunione.
“Dai Dave, sii carino… renditi utile una buona volta!” lo spronai dopo che gli avevo chiesto di venire ad aprirci il portone d’entrata del garage.
Si alzò dalla sedia sbuffando, e ci aprì il portone. “Ci vediamo stasera!” gli dissi sorridendo.

Non ero manco partita e già avevo fatto partire uno dei miei soliti film mentali. Mi “proiettai” direttamente sulla serata, vedendomi vistosamente allegra; mi sarei sfogata sull’aperitivo come al solito – in barba al fatto che poi avrei dovuto tornare a casa in auto.

Gli aperitivi aziendali sono sempre imbarazzanti. Per mascherare l’imbarazzo di essere lì, in piedi in una sala, attorno ad un tavolo imbandito dove nessuno “osava” essere il primo a prendere qualche cosa e non sapere con chi parlare, di cosa parlare e, soprattutto, avere a che fare di nuovo con Dave - avrei escogitato qualche follia – sempre grazie al fatto che sicuramente avrei bevuto (in vino veritas… dicono)- che si sarebbe sicuramente trasformata in una delle mie figure di m… di cui non sapere se ridere o piangere. Eppoi, pensavo, chissà come si sarebbe presentato!

Arrivammo sul posto della riunione e i miei poveri piedi dopo pochi metri di cammino erano già fumanti e doloranti. A questo punto non ero più sicura se avrei retto per tutta la serata in piedi su quei trampoli.

La riunione passò anche abbastanza velocemente, da spettatrice passiva, la cosa era anche abbastanza sorprendente.
Erano quasi le sette di sera e non mi ero ancora cambiata! Dopo mille discorsi e visite guidate alla sede della riunione, ebbi finalmente l’opportunità di chiudermi nel bagno per sistemare quello che si poteva sistemare in fretta e furia. Anche perché comunque malgrado lo strato abbondante di cerone, il trucco, il top che in un certo senso poteva anche essere considerato sexy e il tatuaggino della svarowsky che mi incollai tra la base del collo e una spalla, una non ero certo una top model. Dieci minuti dopo ero praticamente pronta per affrontare la serata.

Il nostro “gruppo” arrivò pure in ritardo, gli altri erano già tutti presenti.
Erano tutti tirati a lucido. Salutai i colleghi che conoscevo ma non ero tranquilla. Mi guardavo in giro nervosa alla ricerca di ciò che di lì a poco avrebbe soddisfatto la mia curiosità.

Dave! Non ebbi nemmeno il tempo di pensarci che lo scorsi in mezzo alla gente intento a parlare.
Non aveva nulla di elegante: pantaloni leggeri e sgualciti, scarpe da ginnastica e una sciarpetta a righe bianche e blu: sembrava stesse andando ad una festa in spiaggia.
E con questo pensiero, in bilico sui miei tacchi a spillo, raggiunsi il gruppetto con cui stava parlando. “Ohiii!!” gli dissi, cercavo di mascherare il saluto riferendomi a tutti i presenti e a nessuno in particolare con un sorriso, ma, detto ciò, mi avvicinai sfiorandogli, da dietro, una spalla con una mano.
Si voltò e contemporaneamente si cacciò in bocca lo stuzzichino che aveva appena preso e con la bocca piena mi rivolse un cenno, sorridente, di saluto. “Non sapevo che bisognava vestirsi bene… siete tutti così eleganti” mi disse poco dopo.
Eravamo in piedi vicino ad una parete a fissare la gente che si buttava sul buffet. Replicai che non era poi una cosa così fondamentale… e che comunque bastava guardarmi per capire che non ero “una di quelle eleganti”.
Detto fatto.
Mi squadrò dalla testa ai piedi e si avvicinò con lo stuzzicadenti di plastica colorata in mano puntandomelo all’altezza della spalla.
Lo guardai sorpresa e d’istinto feci per scostarmi “oddio ma che fa?” pensai, al ché alla sua esclamazione “ohh bello!” capii che si riferiva al mio finto tatuaggio di cristalli. “Mi aveva fissato la spalla! Mi stava fissando la spalla!” era l’allarme che rimbombava dentro la mia testa.

Le ginocchia mi stavano per cedere e avrei voluto scappare a gambe levate come cenerentola a mezzanotte, a costo di perdere la scarpa.
Con la differenza a che a me, quella scarpa, non me l’avrebbe riportata nessuno.

Mi appoggiai al tavolino facendo finta di nulla fissando l’orologio.

Era ora di cena. Potevo stare tranquilla. Dave non si sedette al nostro tavolo!

Forse era stata una fortuna, anche perché, dopo il secondo piatto, prima del dolce, lo vidi che salutava due persone lì vicino a lui e se ne andava via! Era come nei film quando “la favola finisce” e si torna alla realtà: la “sviolinata” di sottofondo finì lasciando il posto all’intero repertorio dei “ricchi e poveri”, che non me ne vogliano, e a tutto il resto di quella stupida musica che suonano alle cene.
E fu così che mi alzai dal tavolo, malgrado i considerevoli bicchieri di vino che avevo trangugiato, chiusi gli occhi e, mischiandomi nella folla, danzai per le successive due ore quelle stupide canzoni finché i miei piedi implorarono pietà dall’alto dei miei tacchi del 10.

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Capitolo 13
*** Raise the hands and surrender…. ***


Raise the hands and surrender

“A Natale, certo, ma in realtà vale in ogni momento dell'anno: quando si fa un pensiero, un presente, un regalo più o meno importante non bisogna dimenticare il bigliettino.
E già, perché se può “bastare un pensiero”, per non fare figuracce e passare per persone poco attente e interessate… bisogna che questo “pensiero” davvero ci sia: come da tradizione, con un biglietto scritto. Lo conferma il sondaggio effettuato da XY e a cui hanno partecipato 1240 persone (53% donne, 47% uomini).
Gli uomini non hanno scampo: solo il 2% delle donne, infatti, non gradisce e ritiene “superfluo” il biglietto di accompagnamento. Individuarle, quindi, è veramente difficile.
Può andare un po’ meglio alle donne: l’8% degli uomini si disinteressa a buste e bigliettini.
E se c’è un 3% (di uomini e donne) che ritiene importante il bigliettino ma.. quasi giusto per sapere che uno ci ha pensato, e quindi con “un contenuto essenziale, senza smancerie”… la maggioranza non ha dubbi: scrivere qualche parola dedicata è fondamentale. Senza, un regalo non sarebbe veramente un regalo. Il piacere della lettura precede o segue quello dell’apertura del pacco: ma è ugualmente importante.
Ma cosa scrivere?
Ecco le preferenze, da mettere davvero nero su bianco.
Gli uomini single apprezzano, al primo posto (32%) “un testo (anche una citazione) appassionato, sensuale... magari un po' audace”; opzione che non dispiace al 21% del mondo in rosa.
Le donne – romanticone - apprezzano, in primo luogo (37%) “una dichiarazione o riconferma d’amore”; parole che non vengono buttate via neanche dal 26% degli uomini.
E poi ci sono gli altri, a mezza via: quelli che sarebbero contenti di trovare, aperta la busta o il bigliettino, “una frase spiritosa, divertente... che motivi il dono” (il 31% degli uomini e il 36% delle donne).”
 
Ok, mi dissi chiudendo la pagina che stavo leggendo. Ora pure per i biglietti accompagnatori bisogna fare un sondaggio?
In quale categoria avrebbe mai potuto rientrare Dave? La categoria di “quelli che vorrebbero che il biglietto glielo leggessi direttamente tu così non devono fare fatica ad aprire la busta” se non c’era era assolutamente da aggiungere.
A quanto pare il sondaggio mi dava in minoranza. Anche se fondamentalmente non avevo nulla contro i bigliettini… anzi li trovavo pure divertenti. Comunque in caso di “difficoltà” o “blocco creativo” mi riservavo il diritto di by-passare la questione. In questo caso però avevo pensato che sarebbe stato utile per evitare mille discorsi e figuracce soprattutto. Quindi, in conclusione, ero stata tacitamente condannata da uno stramaledetto bigliettino.
Morsicai di nuovo la penna, stracciai l’ennesimo foglio di carta e decisi di scrivere direttamente al PC così almeno non sarei stata colpevole di deforestazione abusiva del pianeta.
Ero partita con l’idea che tanto non sarebbe stata una missione impossibile: infondo non doveva essere niente di che. Optare per una frase tra il cinico e il divertente senza essere banali o addirittura “strappamutande” mi avrebbe levato da tutto. 
*strappamutande = termine che Elly utilizza per classificare le cose (che siano film, canzoni, testi, persone, modi di fare…) che sono troppo mielose, talmente zuccherose da rasentare l’iperglicemia. Insomma che fanno cascare le braccia pure ad un romanticone incallito.

Detto questo il risultato fu che ci misi una giornata intera solo a pensarlo.
Il giorno dopo lo riscrissi altre tre volte e il tempo che avevo a disposizione per finire prima che Dave finisse il suo periodo di “lavoro” presso di noi si volatilizzava ogni giorno più velocemente.
Questa storia aveva il potere pure di “togliere il sonno ad un morto”.
Se di notte, perseguitata da un chiodo fisso “cosa avresti intenzione di dirgli per consegnare il malloppo Elly?”, il sonno notturno mi passò completamente mentre di giorno cominciai a “spaventare” quel povero disgraziato ignaro di ciò che l’aspettava con delle frasi tipo “vedrai…” oppure “la vendetta si avvicina…” lui, a metà tra il divertito e il “ma veramente è così tremenda? Cosa hai intenzione di fare?” sogghignava di nascosto e mi rispondeva che tanto non l’avrei mai impressionato.
Passarono alcuni giorni nei quali avrei voluto buttare tutto nella spazzatura e non fare nulla. Nessun regalo. Nessuna vendetta.
Ma poi tornavo a ripetermi che sarebbe stata una chance per non darla vinta alla mia voce interiore tanto coscienziosa e severa. Quella che non perdeva occasione per ripetermi “Elly sei la solita vigliacca…. Cento ne pensi e zero ne fai!. Sei inconcludente!” e questo malgrado lei non fosse assolutamente d’accordo con me dall’inizio.
Ormai il “regalo” era incartato e non potevo certo disfarmene.
Il testo del biglietto mi venne fuori in un batter di ciglia un mattino di buon’ora.
Per farla breve me la cavai con un
 
“Ciao “zio”
oggi finalmente ci liberiamo di te che sei tanto dedito al lavoro da lasciarci sempre disoccupati. EVVAIII !!!
Scherzi a parte: visto che di solito mi vendico dei torti subiti, ho trovato anch’io ciò che più ti rappresenta! (se ti fa schifo puoi sempre farci un fuocherello tossico).
Se dal punto di vista “resa sul posto di lavoro” avrei qualche serio dubbio e cosa non marginale TI ODIO perché mi molli qui con “mister bistecca e patatine”** ti salva il fatto che è stato un piacere conoscerti
e qualche sana risata me la sono pure fatta (probabilmente mi mancheranno anche) perciò ti ringrazio J
PS.
se non ti fai sentire ti uccido a timbrate (non scherzo) … in bocca al lupo per il tuo futuro di attore”
** ovvero il collega inzigone

Se odiavo le presentazioni formali, gli “addii”, se era possibile, li odiavo ancora di più!
Lucida, distaccata ma divertente (almeno credo). La soluzione di tutto.
Sicuramente appena voltato l’angolo avrebbe riso fragorosamente della mia figuraccia ma se ero arrivata fin qui dovevo finirla del tutto.
Toccare il fondo.
E stop.

Il giorno 28 arrivò.

Pur non essendo una cosa così terribile mi rifugiai in archivio per gran parte della mattina.
E fu nel tardo pomeriggio che lo vidi comparire: girava per il corridoio dubbioso, forse un pochettino gli saremmo mancati.
La buttai sul divertente e quando si affacciò sulla porta del mio ufficio la prima volta gli dissi “allora oggi finalmente te ne vai eh!”

Di pronta risposta con un sorrisetto ambiguo se la rideva aggiungendo “non vedo l’ora!”
Mi ripeterò: odio i “finali” mi dissi mentre riportavo l’ennesimo dato nel pc cercando di non lasciar trapelare una mia certa commozione. Lo sapevo. Tanto che mi conoscevo: se non mi fossi costretta ad essere minimamente seria mi sarei commossa in ogni caso.

Dave!
Afferrai il sacchettino con la vendetta e glielo misi in mano.
Così. Senza mille discorsi.

Rimase appoggiato alla parente vicino alla mia postazione e se ne uscì con un “Senti… qualunque cosa sia… grazie….” Riferendosi alla busta che teneva in mano.
“Ma figurati…” gli risposi tutto d’un fiato. In quel momento mi resi conto quanto fosse alto perché mi costrinse ad alzarmi sulle punte dei piedi (a me che non ero certo un “tappo”) per lasciargli tre amichevoli bacini sulle guance.
Rosso fuoco.
Ecco com’ero. Sicuramente.
Prima che se ne andasse aggiunsi: “ah… guardalo fuori di qui e gli insulti mandameli pure via facebook!” e abbassai lo sguardo.

Avete presente quando si mangia un boccone senza respirare? Non si sente nemmeno il sapore… o forse lo si sente ma non si è perfettamente coscienti di, effettivamente, averlo ingoiato. Era esattamente la mia situazione.
Più tardi Dave passò di nuovo per salutare altra gente e me lo trovai di nuovo davanti.
Con un cenno della mano gli dissi “ma alloraaaa hai finito??”
Sorridendo fece per battermi “un cinque” ma entrambi sbagliammo la mira.
“oddio che figura di merdachefiguradimerdachefiguradimerda..” mi ripetevo velocemente fissando la bucatrice sul tavolo della mia collega, che grazie al cielo, non c’era.

Passarono pochi secondi, che a me sembrarono un’eternità. Speravo che Dave se ne fosse andato nel frattempo ma con l’angolo dell’occhio notai che era ancora lì.
La mia lista di imprecazioni mentali fu interrotta dalla sua voce che diceva (riferito al cinque di prima) “ma questo è brutto…”

Aggiunsi, soridendo, e nascondendo malamente il mio imbarazzo “che sì era vero… come saluto faceva veramete pietà”…
Lo vidi muovere un braccio verso di me… della serie “vieni qui”.
Ecco il famoso boccone ingurgitato così, senza respirare. Fissando la parete dietro le sue spalle senza osare guardarlo in faccia mi avvicinai.

Senza nemmeno accorgermene le mie braccia stringevano forte le sue spalle, fissavo la parete e quasi persi l’equilibrio. Giurai per qualche secondo che qualcuno mi aveva tirato  a sé. Non ho mai scoperto se fosse vero perché quando si mangia senza respirare non ti accorgi di ciò che stai facendo e il sapore non lo senti.
La parete bianca.
Davvero interessante.
Stavo per smettere di respirare quando realizzai che ero ancora lì. Eravamo ancora lì. Senza dire una parola. Un abbraccio stretto.
Addio razionalità.

Un’eternità racchiusa in poco più di una trentina di secondi.
Un minuto al massimo.

Ballonzolando da una parte e dall’altra mollai la presa.
Mollò la presa.

Prima che potessi rendermi conto di qualunque cosa fosse successa, e con lo sguardo ancora fisso alla parete, mi sussurrò leggermente “Ciao Bella…”
“Oh… in bocca al lupo eh….” Risposi imbarazzata.
Ci allontanammo. Lo seguii con lo sguardo mentre se ne andava per altri saluti.
Mi chiusi in bagno appoggiata alla parete maledicendomi per non averlo almeno guardato in faccia, ancora incredula, mi lasciai andare in una risata isterica, respingendo una  lacrima di commozione.
Prima di andarsene si affacciò alla porta, sorridendo e mi disse “ciao ehh…”
Fissavo il monitor del mio PC e mi ero costretta a farlo altrimenti mi sarei trasformata in una versione veramente penosa di me stessa mi uscì un ciao flebile.
Avevo toccato il fondo.

La “riga di insulti” riguardo la mia vendetta mi arrivò puntuale qualche giorno dopo con un messaggio su fb: “troppo bella la t-shirt. Ho riso un sacco” .
Sorrisi soddisfatta di me stessa almeno per averne iniziata e finita una della mie.
Per una volta.

Fu in quel momento che per riordinare i miei pensieri presi in prestito alcuni versi di una canzone che avevo sentito per radio qualche ora prima.
E se fosse un´illusione
Tutta questa benedetta passione
Che per un istante mi ha portato via
E se fosse per nostalgia
Tutta questa malinconia che mi prende
Tutte le sere
E se fosse la gelosia
Che mi fa vedere cose
Che esistono soltanto nella mia mente
E se fossero emozioni
Tutte quelle sensazioni di fastidio e di paura che ho
Quando vedo i tuoi pensieri e
Capisco che da ieri
Tu te ne eri già andato via
E se fosse una canzone
fatta solo per ricordare
E se fosse per nostalgia
Tutta questa malinconia che mi prende
Tutte le sere ….. è esattamente così. Pensai. ****

Non sapevo se Dave ed io ci saremmo mai ri-incrociati da qualche parte… ma tant'è avrei ricordato questa "sbandata" ?! con immensa tenerezza. Ecco. Sarebbe stato così.
Questo è certo.


**** “benedetta passione” di L. Pausini.

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