Fearless

di Epo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***



Capitolo 1
*** I. ***


cap 1 fearles

Titolo: Fearless
Autrice: Epo
Rating: R/Nc17
Genere: Romantico, Drammatico, Introspettivo
Avvertimenti: Slash, Lemon, AU, What if?, scritta da me
Pairing: Blaine/Kurt
Sommario: La maledizione della bestia poté essere rotta con la forza più grande, il vero amore. Ciò che raccontano è questo, lo narrano da secoli, perché le fiabe sono coinvolgenti e colme di speranza.
Ma Blaine ha cessato da tempo di credere alle favole e alle storie dei buoni sentimenti. Mentre Kurt non può fare a meno di aggrapparcisi con tutte le proprie forze.

Note: questa fanfiction nasce su un quaderno, un paio di mesi fa, e in qualche notte insonne. Nasce nella spensieratezza delle vacanze e nella voglia di fantasticare e di un po' di romanticismo. Nasce da un vecchio desiderio, quello di riscrivere la fiaba de La bella e la bestia, di provarci e per una buona volta riuscirci.
È una riscrittura contemporanea, ambientata ai giorni nostri, e la fiaba è punto di ispirazione, ma in questa fanfiction non troverete elementi magici né mostri pelosi. La storia è interamente umana, anche se non ho presunzione di essere stata realistica nella narrazione. Della fiaba ho mantenuto alcuni tratti guida: se guardate bene, forse potete riconoscerli.
Fearless è una storia spudoratamente romantica, con tratti drammatici e angst, che non si fa vergogna di addentrarsi in cliché. È conclusa, e secondo una mia primaria divisione sarà di cinque capitoli di buona lunghezza. Verrà aggiornata regolarmente.
Non è betata e io sono miope e astigmatica, oltre che estremamente annoiata dalle riletture: se trovate errori o avete critiche, non fatevi problemi a comunicarle.

In ogni caso, vi auguro buona lettura!



Fearless



*


I.


C’erano degli indizi, dettagli che facevano intuire l’esistenza di un’altra alternativa brutta all’essere vivi

(da Il tempo è un bastardo, di Jennifer Egan)



*-*-*



Quell'autunno era particolarmente piovoso. Il cielo gonfio prometteva temporali fin dalle prime luci del mattino. Lo scalpiccio sui marciapiedi era attutito da grovigli di foglie annegate e marcite.

Kurt pensava che fosse bellissimo.

« Il maglione d'angora pare in tinta con le nuvole » canticchiò quel giorno, seguendo un ritornello giocoso ripescato da chissà quale memoria. Il tessuto era morbido sotto le sue dita e contro la pelle, ancora solleticante del fresco dell'armadio.

« Ti vedo in forma » commentò suo padre quando lo vide entrare in cucina qualche minuto dopo per sorseggiare velocemente del succo di frutta e infilarsi in bocca un paio di biscotti, al volo.

Kurt annuì, dietro la rima del bicchiere e l'accenno di un sorriso. « Nuovo lavoro, forse! » disse, senza aggiungere altro, perché quelle due parole erano sufficienti.

Nuovo lavoro! Dopo giorni d'attesa che qualcosa accedesse. Che piovesse dal cielo, insieme all'autunno. E infine era arrivato, insieme ai temporali, all'umidità della stagione.

Se osservava il cielo, gli pareva carico di promesse.


*-*-*-


Casa Anderson era quanto di più maestoso Kurt potesse aspettarsi. Era stato in ville di facoltosi, e qualche volta era uscito con alcuni ragazzi economicamente molto benestanti, ma mai aveva varcato cancelli tanto imponenti, od osservato mura che si estendevano verso l'alto e l'orizzonte superando l'ampiezza del suo sguardo. Scrutando le file di finestre serrate, le fronde di boschi rigogliosi e scuri, si domandò però se potesse realmente piacergli una ricchezza tanto opulenta e minacciosa. Aveva sempre associato il denaro alla moda dei colori chiari, dei campi da tennis e golf, agli abiti sempre in ordine, gli appartamenti luminosi e sereni, immensi e minimalisti (così diversi dalla sua piccola camera stipata di oggetti).

I corridoi di quell'edificio erano invece oscurati da pesanti tendaggi. Un pianoforte da concerto dall'aria tristemente abbandonata e polverosa occupava una delle sale che superò, seguendo la silenziosa cameriera che gli aveva aperto l'ingresso e le barocche cornici dorate che si stagliavano sgraziate e vistose sulle pareti, intorno a specchi dall'aspetto antiquato.

Occhieggiando rapidamente una galleria di ritratti e un salotto di divanetti e poltroncine in velluto borgogna, si chiese per un attimo che ci facesse lì.

O meglio, che ci faceva lì lo sapeva bene: aveva risposto all'annuncio, telefonando al numero indicato.

« Vogliamo vederti, prima, conoscerti di persona, ma al momento non vediamo motivi perché il lavoro non sia suo, signor Hummel ».

Così aveva detto la voce che gli aveva risposto al telefono. Femminile, gentile, un po' roca. Avrebbe potuto facilmente immaginare una giovane donna, seduta, che attorcigliava il filo del telefono intorno a un dito e stringeva una sigaretta tra indice e medio, nell'altra mano, mentre gli parlava.

Ecco cosa ci faceva lui, lì. Cercava un lavoro. Uno che gli permettesse di aiutare suo padre a mantenere a entrambi un tetto sulla testa. Uno che non fosse troppo impegnativo da distoglierlo totalmente dal canto, né troppo umiliante, come altre volte gli era capitato di dover sopportare.

Assistenza personale”, richiedeva l'annuncio. Lui aveva domandato telefonicamente di che assistenza si trattasse. Aveva spiegato di non essere un infermiere e di non avere alcuna esperienza nel campo sanitario – se era questo tipo di assistenza che in realtà si ricercava – e gli avevano assicurato che non vi erano problemi. Si erano limitati a qualche rapida quesito – età, studi, passioni, hobby, piani per il futuro – e Kurt aveva risposto tra la sorpresa e lo sconcerto, chiedendosi cosa diamine potesse interessare al suo datore di lavoro se nel tempo libero guardava musical o cantava con gli amici.

Si domandò per l'ennesima volta, non senza preoccupazione, che tipo di mansioni si sarebbero attesi. Guidato sempre dalla speranza che, di qualsiasi cosa si trattasse, si sarebbe comunque ritrovato a fine settimana con una busta paga in mano. Il solo pensiero di uno stipendio, dopo tre settimane totalmente al verde, era stato sufficiente a fargli decidere di percorrere l'ora di viaggio fino a casa Anderson, quel mattino, carico d'aspettativa. Oltre i cancelli della villa v'era l'oggetto della sua “Assistenza personale” e probabilmente una lista di compiti da eseguire.

Si trattava di un anziano paralitico, forse? Di una donna in malattia? Di una banda di bambini indemoniati? Di un ragazzino difficile, da aiutare nei compiti?

Era immerso nei propri pensieri quando la cameriera lo guidò all'interno di uno studiolo in penombra, con le spesse tende scure tirare a carpire ogni spiraglio di luce che potesse attraversare le finestre. Un fuoco vivace era l'unica fonte di calore e illuminazione dell'ambiente. (Un camino? L'ultima volta che aveva visto un camino acceso era stato probabilmente in qualche film.)

Si accorse solo dopo qualche istante che vi era qualcuno sulla poltrona all'altro lato della stanza. Non riusciva a vedergli il viso, nascosto dal buio.

« È arrivato il ragazzo per il lavoro, signor Blaine ».

Kurt girò lo sguardo sulla cameriera, la quale, dopo avergli rivolto un rapido cenno – d'incoraggiamento, forse? -, lasciò la stanza e si allontanò lungo l'interminabile corridoio che li aveva condotti fino a lì. Kurt rimase in piedi, da solo, a chiedersi dove diamine fosse capitato. Trascorse qualche istante di silenzio, in cui gli fu incomprensibile capire che stesse accadendo all'altro lato della stanza (questo signor Blaine stava dormendo, forse? Lo stava guardando?) e in cui si limitò a respirare la depressiva atmosfera della stanza; infine trattenne uno sbuffo e si schiarì la gola, nel tentativo di attirare l'attenzione.

La persona sulla poltrona non diede comunque segni di vita e Kurt iniziò a chiedersi se fosse uno scherzo (e in quel caso Puck e Finn avevano decisamente superato loro stessi), se dovesse chiamare un'ambulanza o che razza di problemi avesse questo signor Blaine. Sicuramente ne aveva meno di lui, col suo castello principesco, la servitù e lo sfarzo barocco che adornava quel luogo. Di certo non sapeva cosa fosse dover pagare un misero affitto che era sempre e comunque troppo alto e cosa significasse doversi occupare di un padre ammalato.

« Uhm uhm » bofonchiò.

E, finalmente, qualcosa si mosse.

« Vieni più avanti ».

Kurt si sorprese. La voce era... giovane, morbida, piacevole. Non il tono rasposo di vecchiaia che si attendeva. Meno piacevole era la nota di comando che conteneva.

Avanzò di un paio di passo.

« Così va bene? » chiese, sentendosi un po' stupido. Avvertì lo sguardo dell'altro su di sé. Percepì che lo stava studiando, che mentre lui non riusciva a osservargli il volto, al contrario questo Blaine riusciva a scrutare i suoi lineamenti.

Si era presentato a innumerevoli colloqui di lavoro, negli anni, sperimentando le più assurde o spiacevoli o curiose esperienze. Ma questa sembrava più un'audizione per partecipare a un concorso per Reginette di Bellezza della città. E dato che lui era stato davvero eletto reginetta, una volta, davvero no, no grazie, non aveva alcun desiderio di tornare a quei tremendi momenti e agli stupidi scherzi che avevano colorato la sua adolescenza al liceo.

« Kurt, giusto? »

« Kurt Hummel. Sono io, presente! » Azzardò un sorriso. In genere il suo aspetto gentile aveva sufficiente presa sui datori di lavoro, ma non era del tutto sicuro se il Signor Blaine-Rannicchiato-Sulla-Poltrona potesse realmente vederlo col buio della stanza. O potesse apprezzarlo.

« Sembri giovane. » Ok, sì. Decisamente poteva vederlo. « Quanti anni hai? »

« Ventisei ».

« Mmm. Esperienze? »

Scrollò le spalle. « Un po' di tutto. Da cameriere a custode notturno. Il mio ultimo impiego è stato come commesso in un negozio di sport ».

« E non lavori più lì, perché...? »

« Non sono abbastanza sportivo » spiegò con tono neutrale. Non disse invece che la clientela maschile non lo trovava sufficientemente sportivo e che si rifiutava di scegliere i pantaloncini attillati col suo aiuto. A un certo punto la situazione era divenuta insostenibile. Stupidi idioti omofobi.

Per fortuna il signor Blaine non chiese di più e se intuì la ragione dietro il suo licenziamento non commentò. Si limitò a dire: « Non che sia davvero importante, che lavoro hai fatto finora. Questo difficilmente richiede qualche capacità particolare. Se si escludono efficienza, discrezione, silenzio ». Sospirò stancamente. « Va bene, puoi andare. Sei assunto. La paga è settimanale e ben più che adeguata, se ne occuperà Jane, la governante. Vieni domani, alle otto ». Agitò una mano nella penombra.

Kurt inarcò un sopracciglio. « Ehm, non ho ben chiaro di che lavoro si tratti, in realtà » specificò con sottile imbarazzo. “Assistenza personale”. Doveva assistere... lui? O qualcun altro? Al telefono avevano precisato che non si trattava di un lavoro sanitario e Blaine aveva parlato non particolari requisiti necessari, ma...

« Semplice. Devi fare quello che ti ordino io. Il tuo primo compito? »

Kurt, sorpreso, lo vide alzarsi a fatica e compiere un paio di lenti e incerti passi verso il profilo del camino. Studiò la sua figura snella, asciutta. I capelli folti. Osservandolo di schiena si disse che non poteva avere più di trenta, trentacinque anni. Il suo tono arrogante e di secco comando, invece, sarebbero stati perfetti su un acido ottantenne.

« Il tuo primo compito è non fare domande. E ora vai, vai ».

Kurt lo fissò, scioccato. Quasi serrò la lingua tra i denti per non rispondergli piccato.

Solo il pensiero dell'affitto da pagare, delle medicine per suo padre, lo trattennero dal mandarlo al diavolo ancor prima di cominciare a lavorare. Si girò e si allontanò. Pregando mentalmente di non perdersi tra quei corridoi infiniti.


*-*-*-


Gli Anderson erano una delle famiglie più benestanti del Paese, a quanto pareva. Ricchi sfondati. Almeno così gli disse suo padre, sorpreso che l'avessero assunto.

« Per fare cosa? Non sapevo nemmeno che vivesse ancora qualcuno in quella villa. Intendi quella fuori città, giusto? Un'ora di strada sulla statale, dopo il lago e il bosco. Antica villa, quella. La credevo abbandonata, però... gli Anderson si sono trasferiti nella capitale da anni, ormai ».

Kurt aveva mugugnato qualcosa su un certo Blaine – il figlio, si era ricordato suo padre – e spiegato molto genericamente che doveva occuparsi di “mansioni organizzative”.

Descrivergli l'atteggiamento di tale Blaine e il compito di “assistenza personale” avrebbero solo condotto a farlo preoccupare inutilmente e portato a pensare male di quali queste assistenze personali potessero essere. Non che Kurt non ci avesse pensato. Negli anni, aveva risposto ad abbastanza annunci di lavoro da sapere che troppe volte una semplice parola o numero di telefono potevano nascondere aspettative sessuali; e questo impiego era sufficientemente nebuloso da lasciar intuire solo richieste di questo genere... eppure Kurt non riusciva a convincersene. Il suo intuito non aveva avvertito segni di pericolo. Solo un personaggio difficile e un atteggiamento sgradevole con cui trattare. Ma c'erano cose peggiori nella vita: come non avere un lavoro. O perdere i biglietti per la prima di un musical a Broadway (non aveva ancora perdonato Rachel per esserci andata comunque, senza di lui).

E dopotutto, se Blaine avesse voluto un... accompagnatore sessuale, di certo era sufficientemente bendisposto economicamente da trovare ciò che desiderava senza inserire falsi annunci di lavoro.

Digitò sulla tastiera del computer “Blaine Anderson” e cercò su Google i risultati.

Si aprirono infinite pagine.

Famiglia Anderson. Impero finanziario Anderson. Le ultime fusioni Anderson. Cambiamenti nel consiglio amministrativo.

Kurt scorse rapidamente con lo sguardo i titoli, aprendo a casaccio qualche link.

« Blaine, Blaine, Blaine... dove sei, tu? Sarai mica ancora su quell'orribile poltrona invece che nei risultati su internet ».

Trascorse ancora un po' di tempo a studiare articoli e materiale, ma ogni parola pareva riservata alle attività economiche della famiglia. Una rapida occhiata all'orologio gli ricordò che era davvero tardi e la mattina successiva lo attendeva un'ora di strada per poter arrivare alla villa. Che diamine stava facendo? Era davvero tanto annoiato da cercare di indagare sul suo nuovo – e arrogante e decisamente strano – datore di lavoro?

Non che ci fosse poi molto da indagare. L'unico figlio citato era un tale Cooper, già ai vertici dirigenziali dell'azienda.

Solo in un paio di articoli si accennava all'esistenza di Blaine. Li trovò quando iniziava a pensare di essersi sognato tutto, quel giorno, o forse di essere realmente caduto preda di qualche scherzo ben orchestrato. In uno, particolarmente datato, si faceva riferimento a un certo Blaine Anderson della famiglia Anderson, che a soli sedici anni aveva inciso un singolo di musica pop, che aveva avuto un locale ma discreto successo.

Kurt non poteva credere ai propri occhi.

Nell'altro articolo, il signor Edward Anderson affermava in un'intervista che sì, aveva anche un figlio di dieci anni minore rispetto a Cooper (il che riferì a Kurt, dopo un breve conto mentale, che Blaine aveva trentadue anni), ma che non partecipava all'attività lavorativa di famiglia. “Mio figlio Blaine conduce una vita tranquilla e ritirata”, era scritto in risposta a una domanda della giornalista.

Leggendo quelle parole, Kurt inarcò un sopracciglio e sbuffò leggermente, scettico.

Vita tranquilla e ritirata”. Con tutti i soldi che avevano, uno si sarebbe immaginato giornate oziose sdraiato a bordo piscina, a bere cocktail colorati e mangiar canapè al cetriolo. Non certo il lugubre mausoleo dai passati fasti e le tende tirate. Quello stesso lugubre mausoleo in cui anche lui, dal giorno successivo, si sarebbe dovuto relegare.

Certo, sempre se si fosse alzato in tempo. Si decise a spegnere il computer e si infilò sotto le coperte.

Questo signor Blaine pareva davvero essere un tipo piuttosto strano.

Per fortuna pagava decisamente bene.



*-*-*


La faccenda del lavoro si rivelò piuttosto inaspettata. Per le prime due settimane, non vide proprio Blaine. L'unica sua cosa che scorse fu... la calligrafia. Ogni mattina, infatti, trovava ad attenderlo sul tavolino all'ingresso una breve lista.

Libri da acquistare, commissioni da eseguire, strani oggetti da reperire, e soprattutto dischi e album da trovare. Numerosi, nuovi, datati. Alcuni davvero introvabili. Per fortuna conosceva “i luoghi giusti” e il negozio musicale di Puck era sempre una meta fidata, nonostante si dovesse attraversare il peggior quartiere della città per arrivarci. Un paio di volte si spinse fino a un mercatino a un paio d'ore di macchina, eppure un giorno non riuscì comunque a trovare l'album richiesto, nonostante le estenuanti ricerche. Al ritorno a villa Anderson, quel pomeriggio, ripose la lista sul solito tavolino e scrisse, accanto al titolo che Blaine aveva richiesto, “Irreperibile. Mi dispiace :(”. Sperando che Blaine conoscesse il significato di una faccina. Sul biglietto del giorno successivo, il nome dell'album era nuovamente riportato. Con sua sorpresa, Blaine aveva specificato, accanto: “Ritento, magari sarò più fortunato ;)”.

Ma a parte questo piccolo episodio, la sua vita lavorativa procedeva monotona. Ogni mattina, Jane, cuoca e governante, gli comunicava la lista della spesa e le commissioni necessarie per la gestione della casa (ritirare la posta, passare in lavanderia...). Kurt si sentiva un autista e facchino, più che un “assitente personale”. Trascorreva la maggior parte del proprio tempo in auto, tra il lavoro e le due o tre ore di viaggio per arrivare alla villa e poi tornare a casa, ore che lo vedevano imbottigliato nel traffico di punta del mattino e del tardo pomeriggio.

Vedeva troppo poco suo padre e « Tutto benissimo! » rispondeva ogni volta che gli poneva domande.

Perché andava tutto benissimo, giusto?

In auto ascoltava musica, non aveva screzi o clienti inopportuni e la paga era decisamente alta. Le mansioni erano semplici, a volte particolarmente noiose, a volte sufficientemente interessanti.

Andava e veniva da casa Anderson alla stregua di un facchino. Mangiava in qualche bar lungo la strada o, un paio di volte, nella cucina di Jane, dove in silenzio e solitudine si godeva una porzione dei manicaretti destinati a Blaine.

Su quest'ultimo, però, non era riuscito a scoprire altro.

Inizialmente aveva immaginato che trascorresse le proprie giornate fuori casa.. Ma qualcosa ben presto gli aveva lasciato intuire che forse, in realtà, non lasciava affatto la villa. E Kurt non aveva dimenticato di quando l'aveva visto alzarsi dalla poltrona: faticosamente, come se fosse ferito o provato da una malattia. Magari era stato un caso, un fatto episodico (come quella volta che lui si era addormentato rannicchiato sulla sedia della propria scrivania e aveva trascorso il giorno successivo piegato come il gobbo di Notre Dame), o forse, al contrario, si trattava di qualcosa di più serio.

V'era la probabilità che l'avessero assunto per quello, rifletté, per questo periodo in cui Blaine non poteva guidare e gestire le proprie commissioni. Magari Blaine aveva avuto un incidente giocando a tennis.

Chissà... un incidente orchestrato dalla mogliettina - una modella bionda e magra - e dal suo commercialista e migliore amico, amante di lei? Col cuore spezzato e seriamente ferito, Blaine Anderson si era quindi ritirato a vita solitaria per rimettersi in forma e orchestrare vendetta
Non pareva uno scenario così improbabile. Anche se, si ripromise, doveva assolutamente smettere di vedere quelle dannate soap opera che piacevano tanto a Finn.


*-*-*


Finché, circa due settimane dalla sua assunzione, quel piovoso autunno esplose in un temporale che scosse furiosamente i boschi di villa Anderson.

Kurt entrò nella villa bagnato fradicio, nonostante l'ombrello. Non era sicuro di come fosse riuscito ad arrivare, i vetri completamente oscurati dall'acqua che cadeva a secchiate.

« Emily! Vai a prendere degli asciugamani, subito! » ordinò Jane alla cameriera, prima di rivolgersi a lui. « Non ero sicura saresti riuscito a venire. Ho chiamato a casa tua, questa mattina, ma tuo padre mi ha detto che eri già partito. E non eri rintracciabile al cellulare ».

« Non c'era rete » soffiò Kurt, ancora affannato dalla corsa lungo l'ultimo tratto del viale d'ingresso, ridotto a un pantano inaccessibile in auto.

« Beh, in ogni caso sei qui. Grazie al cielo. Stanotte sono caduti degli alberi sul lato nord del parco. Stiamo aspettando che schiarisca perché vengano a sgomberarli e a controllare la situazione. Fino a quel momento, non è sicuro allontanarsi e inoltre... » Sospirò. « C'è bisogno di qualcuno che aiuti, qui ».

« Qui? » chiese sorpreso.

« Sì, qui, Kurt. Non posso fare tutto io. Arriveranno per gli alberi e sicuramente il telefono squillerà ogni due secondi. Inoltre la casa è un disastro e io sono indietro come non mai! »

Kurt si guardò intorno. La casa gli sembrava esattamente come sempre. Lugubre, buia, orribilmente sfarzosa. Non che l'avrebbe mai detto ad alta voce, certo.

« Che problema c'è? » si limitò a chiedere.

« Problema? » Jane si portò le mani ai capelli. « È arrivata la signora, la madre di Blaine. Ieri sera, inaspettatamente, senza nemmeno chiamare. Per fortuna si alza sempre tardi al mattino e in genere i temporali le danno emicrania, quindi rimarrà nella propria camera ancora per un po' e, per l'amore del cielo, forse riusciremo a dare un aspetto decente a questo posto ». Si voltò verso il corridoio. « Emily?! Emily?! » chiamò. « Diamine, ma quanto ci mette a prendere un paio di asciugamani, quell'inetta? Cadrebbe a pezzi, senza di me, questa casa. A pezzi. E con tutto ciò che ho da fare, oggi! Oh, cielo! Oh, cielo! ».


*-*-*


Kurt non avrebbe saputo dire come, ma la villa realmente si trasformò. Certo, l'arredamento era ancora irrimediabilmente baroccheggiante e pacchiano, e l'atmosfera lugubre pareva risiedere intoccabile dietro ogni angolo e ombra, ma nonostante ciò si espanse un'inattesa luminosità dalle ampie finestre ora scoperte, pure con le nubi scure di pioggia e il cielo opaco. I camini accesi diffondevano un calore confortevole e famigliare.

L'aria polverosa pareva essersi rarefatta e la musica accesa – qualche brano classico pianistico – rendeva meno rigidi i silenzi e meno secchi i passi rimbombanti sui pavimenti lucidi.

Poco prima di pranzo, Kurt si ritrovò libero dal lavoro, in cucina. Aveva rapidamente telefonato a suo padre per rassicurarlo che sì, stava bene, era arrivato e no,non sapeva quando sarebbe tornato a casa. Jane, intorno a lui, era indaffarata in modo insolito.

« Sono proprio necessarie cinque portate? » le chiese scettico. La stanza era colma di calore e profumi invitanti. « Non che di solito tu non dia il meglio di te, per quello che ho potuto assaggiare la tua cucina è fantastica, ma... insomma, è semplicemente un pranzo a casa in famiglia, no? Voglio dire, due volte su tre io e mio padre ordiniamo del cibo da asporto, e spesso è impossibile chiedergli di non guardare la partita a tavola e di non urlare imprecazioni contro la televisione mentre stiamo mangiando! » Si strinse nelle spalle alla sua occhiata di disapprovazione. C'era stato un periodo, durante la sua adolescenza, in cui si era appassionato di cucina, ma i risultati disastrosi erano serviti solo a far sì che suo padre mangiasse inimmaginabili schifezze di nascosto. Infine aveva ceduto: almeno così l'aveva sott'occhio, invece che coglierlo in fragrante mentre riceveva alle tre di notte un'ordinazione di pizza peperoni e salsiccia e una porzione doppia di pollo fritto con salse. Anche se ancora gli capitava di pensare che, avendo più tempo, non sarebbe stato male potersi dedicare a preparare qualcosa di casalingo, di tanto in tanto, non solo per il pranzo della domenica. Forse poteva fare dare la ricetta del roast beef da Jane. A suo padre sarebbe piaciuto. Certo, avrebbe potuto prepararlo se fosse mai arrivato a casa in tempi umani, una qualche volta.

« Non conosci la signora Anderson » gli spiegò Jane, interrompendo i suoi pensieri e mettendogli davanti una tazza colma di tè caldo che lui accettò con un sorriso grato. « È una brava donna, solo che... » Esitò.

« Che? »

« Non dovrei spettegolare, ma... ha alti standard. È di famiglia ricca, sai? Fin dalla nascita. Ha nobili origini o qualcosa del genere, a differenza del marito ».

Il marito è solo ricco sfondato, certo, pensò Kurt.

« Diciamo che tende a notare ciò che è fuori posto e ciò che non rispetta le sue aspettative, e mi dispiacerebbe lasciarle credere che non sto eseguendo per bene il mio lavoro. Quando è il solo il signor Blaine.... la casa è come la vuole lui, semplicemente ».

Lugubre, buia, antiquata?

« E... che ne pensa di suo figlio, la signora Anderson? » osò domandare. In quelle due settimane avrebbe potuto chiedere a Jane tante cose su quella casa. Dettagli che non riusciva a spiegarsi. Ma non l'aveva fatto: la propria curiosità lo imbarazzava e lui stesso era insofferente ai pettegolezzi. Inoltre, sospettava che Jane non avrebbe apprezzato domande indiscrete, né vi avrebbe dato risposta.

Non aveva intuito scorrettamente: alla sua domanda la vide esitare. Lo fissò qualche istante, come studiandolo, cercando di inquadrarlo. Sapevano così poco l'uno dell'altra, si rese conto Kurt. Lui andava e veniva, Jane si occupava della casa letteralmente a tempo pieno. Sapeva che aveva una camera personale, vicino alle cucine. Così come l'aveva la silenziosa Emily.

Quali fossero i suoi rapporti con Blaine non avrebbe saputo dirlo – non li aveva mai visti insieme e lei raramente lo nominava. A un certo punto aveva pensato potessero essere amanti, nonostante la posizione subalterna di lei, il suo naso schiacciato, le sue maniere sbrigative e rumorose, perché dovevano essere coetanei, all'incirca, e non aveva mai visto alcuna donna andare e venire dalla villa. Ma non aveva mai visto proprio nessuno in generale, a pensarci bene.

Infine Jane parve decidere che in qualche modo meritasse risposta e, le labbra tese in una leggera smorfia, disse: « Blaine è l'eccezione, per quanto riguarda le aspettative. Non ne ha rispettata alcuna, ma... diciamo che nessuno ha alti standard nei suoi confronti, vogliono solo che viva la sua vita e che stia... bene. Non si fanno vedere molto da queste parti, i signori Anderson, ma Blaine è un po' il loro punto debole. Farebbero qualsiasi cosa per lui ». Sospirò a fondo, tornando alle proprie pentole e preparazioni, segnalandogli che la discussione era chiusa e, qualsiasi cosa avrebbe voluto sapere, non avrebbe dovuto chiederla a lei.

Kurt rimase seduto, accigliato. Chiedendosi che vi fosse di tanto speciale in questo Blaine.

*-*-*


Incrociò la signora Anderson per caso, imbattendosi in lei mentre si dirigeva verso il telefono per chiamare il giardiniere per domandargli di passare il giorno successivo. Il temporale era ormai placato e non parevano esserci stati particolari danni.

La signora Anderson stava attraversando l'ingresso a passo veloce, frugando nella propria borsa. Kurt non si chiese nemmeno per un istante chi fosse la donna di fronte a lui. Doveva avere più di una sessantina d'anni, come minimo, ma ne dimostrava una decina di meno. Elegante, impeccabile, e piuttosto affascinante. Kurt ripensò alla figura smilza e zoppicante vicino al camino, al buio, e si chiese se vi fosse qualche somiglianza tra lei e Blaine. La signora Anderson sollevò il capo e lo fissò per qualche istante, confusa, come se cercasse di capire chi si trovava davanti. Poi si i suoi lineamenti si distesero in comprensione.

« Il nuovo arrivato, giusto ». Lo studiò da capo a piedi. Kurt si sentì subito a disagio nel semplice maglione chiaro e nei jeans che indossava. « L'assistente personale » disse, con un accenno di ironia ben udibile.

« Kurt » specificò lui.

« Kurt, sì. Mio figlio ha menzionato ».

Si domandò che cosa potesse aver menzionato Blaine, dal momento che non si erano praticamente mai visti.

« Capisco. Beh, signora, è stato un piacere, ora devo- »

« Mi è stato riferito che ti occupi di commissioni con l'auto ».

Annuì. « Esatto ».

« Stavo per chiamare un taxi, ma credo sia meglio che mi accompagni tu in stazione. Se hai già dei compiti assegnati, puoi occupartene domani ».

Leggermente interdetto dal suo tono di comando e dall'idea di trascorrere del tempo solo con lei, annuì di nuovo. « Va bene, sì, io... Vado a prendere la giacca e ad avvertire. Sarò qui tra qualche minuto ».


*-*-*


Per il primo quarto d'ora, non si erano rivolti parola.

Il cielo era limpido, ora, e la strada piuttosto libera. Kurt guidava tenendo lo sguardo fisso sulla strada, mentre la signora Anderson, seduta sui sedili posteriori come fosse realmente su un taxi, parlava al telefono. Doveva trattarsi di affari e faccende mondane. Kurt perse interesse dopo i primi istanti, vagamente infastidito dal suo costante e animato chiacchiericcio.

Si riscosse solo quando si sentì chiamare.

« Volevo trascorrere qualche minuto da soli, Kurt. Per parlare un po' in confidenza ».

Kurt le lanciò un'occhiata sorpresa dallo specchietto: vide che stava ancora digitando sul telefono, ma dopo qualche istante, forse sentendo il suo sguardo su di sé, lo ripose nella borsetta.

« Di cosa voleva parlare? »

« Oh, niente di grave, Kurt, non ti preoccupare. Solo... conoscerti meglio. Capire e definire le tue mansioni ».

« Blaine ha specificato che si tratta di fare ciò che lui mi domanda » gli sfuggì detto in tono piatto. Non era sicuro se la sua risposta fosse stata indiscreta: non capiva la propria posizione tra madre e figlio.

La sentì sospirare. « Sì, certo. Ovviamente, ma... sei consapevole del tipo di aiuto che mio figlio richiede e... delle domande che non ti porrà? »

Lui rimase in silenzio, confuso.

« Ieri sera, al mio arrivo, ho trovato Blaine a terra ».

Cosa? Kurt quasi si voltò verso di lei per la sorpresa.

« Certo, non dico che questo accada abitualmente, so che non è così, il suo equilibrio e la sua motilità sono migliorate abbastanza negli anni, anche se non quanto avrebbero potuto. Ma sono dell'idea che necessiti di un aiuto professionale, se mi capisci ».

Non capiva, no. Ma intuiva che, di qualsiasi cosa si trattasse, era un tipo di impiego per cui lui non era idoneo.

« Io svolgo solo le commissioni » mormorò.

« Certo ».

« Compro... i dischi ». Era consapevole di essere arrossito, imbarazzato.

« Sei conscio del tipo di assistenza di cui mio figlio avrebbe bisogno, Kurt? Nonostante lui la rifiuti e mi assicuri di aver trovato un adatto, ah!, assistente personale... »

« Io... no. Cioè, in parte. Io e Blaine non ci incrociamo spesso » ammise. Non spesso era davvero un eufemismo.

La signora Anderson dovette intuirlo. « Mai, cioè » replicò in tono fermo. Lui non rispose. Che avrebbe dovuto dirle? Che fino a quel momento non aveva nemmeno compreso che Blaine avesse problemi fisici non temporanei? Che non era un infermiere né altro del genere, ma in quelle due settimane si era impegnato al meglio in quel lavoro e non voleva essere licenziato?

« Kurt, posso farti una domanda? »

« Certo, signora ».

« Come hai ottenuto questo lavoro? »

Il quesito lo sorprese. « Ho telefonato al numero indicato sull'annuncio. Ha risposto Jane, credo. Mi ha chiesto cosa mi piace, i miei interessi, cose così ». Le spiegò, abbandonando la statale per dirigersi verso la stazione. Non mancava molto, per fortuna.

« Ah. Quindi Blaine non ti ha visto prima di assumerti, giusto? Visto in faccia, intendo ».

« Blaine? » Che razza di domanda era? E che aveva la sua faccia che non andava? « Sì, lui... mi ha fatto un colloquio, per così dire. Sono andato alla villa e mi ha detto che il lavoro era mio ».

Le lanciò una rapida occhiata dallo specchietto e colse la sua espressione sorpresa e vagamente preoccupata.

« Davvero? Pensavo che... niente, lascia stare. Lascia stare. Volevo solo dirti che Blaine, beh, non so quanto tu sappia in merito, ma mio figlio ha subito un... un incidente. Molti anni fa ».

« Mi dispiace » mormorò. In un istante, le implicazioni dei segni intravisti in quelle due settimane gli fu più chiara.

« Certe ferite non sono guarite, in tanti sensi ».

Rimasero in silenzio, mentre si avvicinavo alla stazione. La signora Anderson pareva essere tornata al suo elegante distacco. Si sporse appena e fece scivolare un biglietto da visita nel portaoggetti, prima di scendere dall'auto. « Chiamami, per qualsiasi cosa. E, te ne prego, cerca di aiutare mio figlio. Mi sembri una persona discreta e lui... ha bisogno di tante cose, anche se è troppo orgoglioso e solitario per ammetterlo ».

Kurt le rivolse un flebile sorriso e la osservò allontanarsi sotto la pioggerellina della sera. Non disse che l'avrebbe chiamata, e non pensava che l'avrebbe fatto. Aveva già problemi a sufficienza di cui occuparsi, senza doversi occupare della clausura di un ricco ereditiere invalido. Anche se, nonostante tutto, si ritrovava a pensarci più spesso di quanto fosse necessario.

*-*-*


Come appariva lugubre quel luogo di ricchezza e malattia; il contrasto col pensiero della giovinezza di chi vi viveva era quasi insopportabile.

Nonostante avesse salutato la signora Anderson ripromettendosi mentalmente di non lasciarsi immischiare nei loro problemi, il mattino successivo Kurt si era ritrovato a percorrere i corridoi di quella villa sentendo nuove presenze, prima ignorate, percependo la vita di chi vi abitava anche nelle tende tirate, nei pianoforti abbandonati.

Tornò dalle proprie commissioni poco dopo pranzo. Non venne nessuno ad accoglierlo all'ingresso e forse fu questo – trovarsi da solo nell'atrio deserto – che lo spinse a prendere una decisione improvvisa.

Cercò di ritrovare nel ritmo degli specchi e dei propri passi il percorso di un paio di settimane prima – di quel colloquio – e presto si ritrovò di fronte a una porta chiusa e una targhetta dorata sul legno scuro.

Blaine.

Esitò, un attimo, forse di più. Il pugno sollevato, pronto a bussare. Che stava facendo? Che ci faceva, lì? Si sarebbe arrabbiato tanto da licenziarlo, forse?

Non poteva rischiare questo.

« Che diamine m'è saltato in mente? » borbottò.

Poi però il suo sguardo cadde sull'adesivo. Non l'aveva notato subito, nonostante fosse all'altezza della targhetta, vicino allo stipite. Era vecchio, rovinato dal tempo, tanto liso da essere integro solo in un lato, che il tempo aveva ancorato alla porta in un grumo di carta, colla, polvere. Kurt intuì un “Do not disturb” tra le lettere sopravvissute e quelle cancellate. Uno di quegli adesivi da adolescenti – anche lui ne aveva avuti, messaggi e simboli intorno all'armadio, sulle pareti – poi il momento era passato, e anzi, Kurt s'era ritrovato a trascorrere un intero pomeriggio grattandone furiosamente i residui. Ma questo adesivo, sulla porta di Blaine, aveva resistito ad alcol e raschietto. Non li aveva mai incontrati. Era rimasto incollato, ancorato al legno e al passato, del tutto inatteso lungo il corridoio di marmo lucido, sotto i lampadari pendenti che diffondevano una luce opaca.

Forse fu l'adesivo, forse la sera prima al pub non avrebbe dovuto bere nemmeno quell'unico bicchiere di vino, sfidando la propria intolleranza all'alcol, quasi leggendaria; quale che fosse la spinta che gli diede coraggio, infine Kurt si decise: sollevò la mano stretta a pugno e batté le nocche contro la porta con decisione.


*-*-*


« E non ti ha aperto? »

Scosse la testa. « No, proprio no ».

« Oh ».

Rachel fissò accigliata la propria coppa gelato, il cucchiaio sospeso a mezz'aria, come indecisa su da che lato aggredire quei tredici centimetri di panna, crema, cioccolato.

« Magari non era in camera, o non ha sentito » aggiunse, speranzosa.

Come se Kurt non ci avesse già pensato – sperato – fin dal primo momento.

« Quando sono sceso, Jane mi ha detto che era appena stata da lui per portargli il pranzo. E ha uno spioncino alla porta, quindi è a me che non ha aperto... E dubito che non abbia sentito, dopo che ho bussato come un idiota per cinque minuti di fila! »

La verità era che mentre era lì, davanti all'ingresso della camera, gli erano tornate in mente le parole della signora Anderson su come avesse trovato il figlio a terra, caduto, un paio di giorni prima. Era stato sufficiente perché scenari drammatici si materializzassero tra i suoi pensieri. Aveva bussato ansiosamente, di nuovo. Proprio come un idiota.

« Non lo sopporto » digrignò tra i denti.

Rachel sbuffò una risata. « Ma se non l'hai mai nemmeno visto in faccia! Ti rendi conto che stai qui a lamentarti di qualcuno che non conosci nemmeno? » Kurt arrossì. « Ci sono capi ben peggiori, Kurt, e lo sai pure tu... pensa a quel tipo che ti dava le pacche sul sedere ogni volta che gli passavi davanti! »

Quello era stato davvero umiliante. Quasi quanto spiegare a suo padre, dopo, perché aveva dovuto licenziarsi.

« Oppure il cuoco che non si lavava mai le mani, nemmeno dopo essere andato in bagno o essersele infilate nel naso...»

« Oddio, Rachel! Ti prego! Adesso che me l'hai ricordato tornerò ad avere gli incubi e a non mangiare, ne ero appena uscito... »

Lei si strinse nelle spalle. « Era solo per dire che... c'è di peggio ».

« Sì, lo so » sbuffò. « Hai ragione. Non so perché mi sono intestardito con queste assurdità. Cosa mi interessa a me se sua Maestà Blaine Anderson vive come un vecchio recluso... »

Rachel rise e allungò una mano per accarezzargli l'avambraccio. « Io lo so, che ti interessa. Prima di tutto sei curioso come un gatto ». Gli fece l'occhiolino. « E secondariamente... beh, non riesco a immaginare cosa sia successo a questo Blaine, ma di certo pare roba brutta. E lui mi pare un tipo strano. Tanto che con tutti i suoi soldi non mi fa nemmeno un po' invidia, non mi pare abbia una vita molto felice. E tu, Kurt... anche quando cerchi di non darlo a vedere sei un cuore d'oro. E cerchi sempre speranza in ogni cosa ».

« Ti sbagli, ho perso la speranza di far mangiare frutta e verdura cinque volte al giorno a mio padre ».

« Digli che se vuol essere una stella splendente come Rachel Barry, deve farlo ».

« Oddio, di certo lo convincerò così! » Rise brevemente, poi fissò i cerchi chiari lasciati dal caffè nella tazza. Sospirò.

« Kurt? »

Sollevò il capo. « Uh? »

« Kurt, ti voglio bene per come sei, lo sai. Ma non infilarti in problemi che non puoi risolvere. Hai già tante cose a cui pensare, per quanto cerchi di non darlo a vedere ».

Sbuffò, poi annuì. Rachel aveva ragione. Doveva smettere di interessarsi alla vita del proprio datore di lavoro. Assolutamente.

« Hai ragione, Rachel... Da questo momento, al diavolo Blaine Anderson! Chissene importa, di Blaine Anderson! Non esiste nemmeno, per me, Blaine Anderson ».




... fine del primo capitolo

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Capitolo 2
*** II. ***


fearless2

Note:

Per prima cosa, è successa una cosa chiamata real life e subito dopo che ho mangiato le mie serate libere guardando Teen Wolf e innamorandomi di un altro pairing. Senza vergogna.
Per seconda cosa: trovate questa fanfiction anche su AO3. Per esperienza conosco e apprezzo la comodità di un sito con buona grafica per la lettura e soprattutto la possibilità di scaricare direttamente nel formato preferito, per cui ho caricato Fearless anche lì.
Infine: sono una “new entry” nel mondo delle fanfiction? No. Ho pubblicato per molto tempo fanfiction, con un altro account, in diversi fandom, tra cui questo. Quell'account ora non esiste più, quelle fanfiction nemmeno; magari non ci siamo mai “incontrati”, magari sì, magari avete già letto o seguito qualcosa di mio... chissà. In ogni caso, vi saluto, auguro una buona lettura e ringrazio per consigli, critiche, o anche un invisibile passaggio.

Epo.



*

II.


Una crepa ci attraversa, nella sua imperfezione ci unisce e allo stesso tempo ci separa

(da Mondo di seconda mano, di Katherine Min)



*-*-*


Se si fosse soffermato per qualche istante a rifletterci, si sarebbe reso conto di essersi addentrato in un'inopportuna strada di testardaggine e insistenza. Anni adolescenziali di cotte impossibile verso compagni di scuola irrimediabilmente eterosessuali gli avevano se non altro insegnato il dignitoso limite delle attenzioni indesiderate e che a volte fosse meglio – meno doloroso – rinunciare a priori, piuttosto che fissarsi su un'irrealizzabile fantasia.

Se si fosse soffermato a pensarci, si sarebbe reso conto di come la porta sempre chiusa, i biglietti stringati, gli incontrati evitati fossero messaggi e segnali ben chiari dell'opinione di Blaine circa la costanza quotidiana con cui lui si presentava davanti alla sua porta dopo le commissioni della giornata.

Ma Kurt ignorava queste sensazioni, fingeva di non vedere l'espressione che Jane gli rivolgeva, tra la disapprovazione e la sorpresa, quando lui tornava in cucina dopo aver bussato e atteso qualche minuto davanti all'ingresso della camera di Blaine. La verità è che si sentiva... elettrizzato. Il percorrere i corridoi infiniti e deserti gli dava l'impressione di essere solo in quella villa antica, di poter correre, urlare, cantare... e nessuno gli avrebbe detto niente, nessuno avrebbe dato eco alle sue grida, così come nessuno rispondeva a quella porta, tanto che a volte arrivava a chiedersi se davvero qualcuno si celasse dietro di essa.

V'era un piccolo mistero, nascosto tra le mura della villa, e nella ripetitività dei viaggi in macchina, delle sue giornate tra il lavoro e la vita tranquilla che conduceva, quello era sufficiente per attirare la sua attenzione.

Da adolescente si sarebbe imbarazzato all'idea che a ventisei anni si sarebbe ritrovato in una tale situazione: incuriosito dalla vita di qualcuno che nemmeno conosceva, ancorato a una cittadina di provincia, senza un lavoro fisso, ben lontano dalla realizzazione dei propri sogni. E single, oltretutto, perché se a un certo punto aveva rinunciato a coronare la propria fantasia su un principe azzurro affascinante (e ricco e vestito alla moda) che attraversava con un cavallo bianco un campo di fiori colorati per venirgli incontro, era anche vero che il gradino precedente – trovare qualcuno di decente e interessante con cui uscire a bere qualcosa, che non fosse interessato solo a del sesso casuale al primo appuntamento o, eventualmente, anche senza la parte dell'appuntamento – si era rivelato piuttosto arduo.

Aveva bei ricordi, sì, ma alla fine ogni rapporto, per quanto inizialmente promettente, si era esaurito con rapidità: di solito era lui, era colpa sua, colui che si stancava e si allontanava, che sentiva che non era quello giusto, qualsiasi cosa questo volesse dire, che non era ciò che realmente desiderava. Non aveva mai nemmeno il coraggio di ammetterlo, e semplicemente finiva per assumere un atteggiamento distaccato e allontanare chi cercava di avvicinarlo.

« Conquistarti è come scalare l'Everest » gli aveva detto una volta Tina.

E lui aveva riso, imbarazzato e forse un po' offeso. Rispondendole che le cose speciali sono faticose da ottenere, ma, in cuor suo, pensando a come si fosse soli in cima all'Everest. Col cielo così vicino, le nuvole sopra le spalle, pesanti e fredde. Quanto aveva desiderato qualcuno, durante i peggiori momenti della sua vita. Duranti i ricoveri di suo padre, gli interventi, la chemioterapia. Qualcuno che gli tenesse la mano e ascoltasse i suoi sfoghi su qualsiasi cosa, per quanto stupidi o capricciosi potessero essere.

Ma non era stato così. Ed era rimasto in piedi ugualmente, anche senza qualcuno che lo accompagnasse e sostenesse. Era rimasto in piedi e a testa alta, lo sguardo fisso su suo padre, sulla propria casa, su ciò che amava.

I suoi sogni si erano spostati al di là della sua vista, oltre ciò che i suoi occhi riuscivano a intravedere: desideri lontani e fuori dalla sua portata. New York era parsa la fantasia di un ragazzino, il canto un progetto impossibile e poco concreto; quando nasci in una cittadina qualsiasi e frequenti un liceo come tanti, prendere il volo sembra l'unica strada per distinguerti, ciò che ti sostiene per anni di indifferenza e incomprensione e disprezzo, ma alla fine tutto si era rivelato diverso: Kurt aveva compiuto le scelte giuste – era rimasto con suo padre, aveva cercato un lavoro, la serenità di una vita tranquilla, e aveva mantenuto le proprie passioni nel limite della propria casa – e non le aveva mai rimpiante. Che c'era di male allora, si diceva, se si concedeva una piccola fantasia?

I passi sospesi su un pavimento lucido, il sogno di pianoforti che animavano stanze deserte aperte solo per lui, una presenza misteriosa oltre una porta, silente, sfocata, sfuggente.... eccolo, era il suo piccolo intrigo, lì, a portata di mano.



*-*-*



Il rumore della pioggia contro i vetri lo stava facendo impazzire. Era un ticchettare costante. Un martellare pungente contro le sue tempie doloranti. Gemette e affondò la testa nel cuscino, sollevando le coperte fino a rimanerne seppellito.

« Spero proprio che tu non abbia intenzione di uscire da lì! » sentì esclamare.

« Uh? » mugugnò confuso Riemerse da sotto il piumone e osservò suo padre avvicinarsi a lui con un vassoio tra le mani.

« La colazione a letto! » Esclamò stupito. « Un'esperienza più unica che rara...» aggiunse con un sorriso.

Quest'ultimo dettaglio non era tecnicamente vero: aveva avuto un amante che gli aveva portato la colazione a letto ogni mattina che avevano trascorso insieme. Forse una piccola attenzione, forse un modo per far perdonare il fatto che dovessero nascondersi in casa e che non aveva la minima intenzione di dichiarare al mondo di essere gay e di uscire con Kurt Hummel. In ogni caso, suo padre non aveva bisogno di sapere tutto ciò.

« C'è del tè? » chiese. Nonostante il mal di testa che lo tormentava, l'idea di bere qualcosa di caldo senza uscire dalla propria alcova di coperte lo allettava.

Suo padre gli rivolse uno sguardo preoccupato. « Tè, sì, ma non credere che ti permetterò di non mangiare qualcosa. Devi rimetterti in forze, sei ridotto uno straccio, lasciatelo dire ».

« Grazie, è piacevole sentirsi apprezzati ».

« Non dire sciocchezze, Kurt, intendo dire che sembri stanco, ti devi essere buscato qualcosa con questo tempaccio, sono almeno tre giorni che stai covando qualcosa e non stai bene. »

Kurt si morse un labbro. Era vero. « Uhm, io... »

« Quindi non pensare nemmeno per un momento di uscire di casa, oggi, te ne starai qui, al caldo, e lascerai che mi prenda cura di te ».

Sbuffò. Suo padre in modalità chioccia poteva essere asfissiante. Sembrava dimenticare di avere un figlio di ventisei anni. « Ma... al lavoro...»

« Faranno a meno di te, per oggi. O sei così indispensabile che quella casa crollerà, senza di te? »

« Io- » abbassò lo sguardo, colpito da quelle parole. « No, certo che no. Posso chiamare tranquillamente ».

Indispensabile?

No, di certo no. E non ci aveva pensato, fino a quel momento. Avrebbe potuto facilmente stare casa, dubitava sarebbe cambiato qualcosa con la sua assenza.

Era abbandonata da tempo la voglia di sentirsi indispensabili, essenziali, irrinunciabili. Sollevò lo sguardo su suo padre, impegnato a imburrargli una fetta di pane.

Solo lì, in quella casa, nella loro piccola e stretta famiglia, era indispensabile.

« Grazie, papà ».

E avere questo doveva essere sufficiente.




*-*-*




Quando tornò al lavoro – scoprendo che niente era crollato in sua assenza – il piccolo mistero era ancora un'attrattiva, pur se impallidita. Blaine Anderson aveva cessato di essere un nome ed era divenuto un mistero: da cercare, ignorare, interrogare, disprezzare.

Ma, infine, lo vide.

Sarebbe dovuto accadere, prima o poi, era solo questione di tempo, di questo ne era sempre stato consapevole. Ma quando infine si ritrovarono faccia a faccia, fu del tutto inaspettato. Quasi un fantasma o l'abitante di una sua fantasia si fosse improvvisamente materializzato di fronte a lui, corporeo invece che una fugace immagine della propria mente.

Erano giorni che aveva cessato di bussare alla porta di Blaine e che si limitava ad andare e venire dalla villa, restandovi il meno possibile, infastidito da quelle mura. Si avvicinava la visita di controllo semestrale di suo padre e questo aveva distolto Kurt da qualsiasi frivolezza.

La sera, si mordeva la lingua per trattenersi dal chiedere sollecito a suo padre come stesse, osservando il suo volto teso, gli occhi che andavano rapidi al calendario appeso in cucina, su una grossa X in pennarello verde che segnava la data sempre più vicina.

Nel flusso delle preoccupazioni che riempivano i suoi pensieri, recarsi al lavoro era a un certo punto divenuto più difficile. Le spese per i medicinali, le visite specialistiche, l'assicurazione sanitaria più dignitosa che fosse riuscito a trovare, l'affitto... tutto pesava sul loro conto in banca già sofferente: ritrovarsi nel lusso abbandonato ed esibizionista di villa Anderson gli spremeva l'amaro in bocca.

Dopo i pochi giorni che aveva trascorso a casa, ammalato, ero tornato al lavoro e si era reso conto che nulla era cambiato senza di lui, che la sua assenza non aveva avuto nessuna importanza. E si era reso conto che erano tre le persone che si occupavano a tempo pieno di Blaine Anderson. Tre! Eppure questi non aveva nemmeno il coraggio di uscire di casa a comprarsi le proprie mutande: si limitava a segnarne l'ordinazione su un foglietto, perché lui obbedisse.

Fu forse per questi pensieri che, la mattina in cui Kurt finalmente trovò l'album che Blaine da tempo cercava, fu la stessa in cui cessò di tentare un contatto con lui.

Quella mattina, percorse il lungo e silenzioso corridoio con il disco tra le mani, il sorriso in volto.

« Ce l'ho fatta! » pensava, esultante. Già immaginando l'espressione sorpresa di Blaine, la sua reazione, dopo quasi due mesi di ricerche, chissà che avrebbe detto, chissà che... – Kurt si fermò, rimase immobile.

Non avrebbe visto la sua reazione. Non avrebbe ricevuto un grazie. Un riconoscimento per il suo lavoro, per l'impegno, per averci provato ed esserci riuscito.

Semplicemente, il giorno successivo il titolo sarebbe sparito dalla lista.

Blaine non gli avrebbe sorriso, non si sarebbe mostrato a lui – contento, sorpreso – non avrebbe ascoltato il racconto di come si fosse fatto letteralmente in quattro per trovarlo, contattando negozianti, collezionisti, venditori su internet.

Non avrebbe fatto niente di tutto questo. Perché la verità era che Kurt non aveva importanza: era solo un autista, un mezzo per acquistare oggetti senza uscire di casa, qualcuno cui non era degnata nemmeno parola o sguardo... solo fogliettini scritti con noncuranza, ordini da eseguire. Si sentì stringere lo stomaco.

Aveva un lavoro, sì, ma avrebbe potuto svolgerlo chiunque. Avrebbe potuto essere senza volto, senza personalità, senza carattere. Sarebbe stata la stessa cosa. I suoi sogni adolescenziali non erano semplicemente stati posti in secondo piano al confronto con la realtà, si erano dissipati come un'ombra di fumo, come il suo posto nel mondo. Cercava fama, successo, un palcoscenico che gli desse attenzione; e ora era anonimo, totalmente invisibile persino al suo datore di lavoro. Un nessuno.

Respirò a fondo e si rese conto di avere il respiro accelerato. Le guance accaldate. Gli occhi brucianti.

« Oddio » soffiò. « Che sto facendo? »

La consapevolezza fu improvvisa, un velo che copriva il suo sguardo si sollevò e fu come osservarsi da lontano, distaccati e allibiti. Aveva cercato ossessivamente l'attenzione di Blaine Anderson, un uomo che nemmeno conosceva e che lo riteneva indegno di attenzione. Aveva pensato di avere importanza, che i suoi passi in quei corridoi non fossero solo quelli di un intruso.

Doveva essere parso un molestatore seriale, come minimo. Un folle. Un disperato.

Strinse tra le mani l'album, forte, fin quasi a spezzarlo. Ancorandosi al cartone dell'involucro per placare la sensazione pungente del proprio respiro. E poi si girò, incerto sulle gambe, e tornò sui suoi passi. Le scarpe leggere e il più silenziose possibile sui pavimenti di marmo.




*-*-*



Rabbrividì di un ultimo tremore di freddo, avvicinandosi alla stufa. Strinse e riaprì le mani arrossate e irrigidite, sbuffando nel calore della cucina.

« Meglio? »

Si girò e vide Jane che gli porgeva una tazza di porcellana colma di cioccolata. Le sorrise. « Sì, decisamente. Qualche istante e starò benissimo... » Soffiò sulla bevanda bollente. « Credo che avrei freddo persino ai Tropici, sai? Per cui in queste giornate vorrei solo rifugiarmi sotto le coperte e affogare nel caldo ».

Jane ridacchiò. « Dovresti venire ad aiutarmi in cucina ogni mattina, qui è impossibile sentire freddo ».

« Mmm, se non hai timore che ti faccia esplodere il forno o l'intera cucina vengo volentieri... Anche se potrei essere di ben poco aiuto. Mentre la fetta di torta che mi hai dato ieri? Divina. »

« L'hai mangiata? T'è piaciuta? »

« Se m'è piaciuta? » Roteò gli occhi, emettendo un sospiro di piacere. « L'ho divorata dopo cena e credo che mio padre abbia quasi pianto al pensiero che ve ne era solo una fetta a testa. Jane, sei uno fenomeno ».

Lei schioccò la lingua, rivolgendogli un sorrisetto. « Ti ringrazierei, se l'avessi preparata io, ma non essendo così eviterò solo di non offendermi per il fatto che non mi hai rivolto complimenti tanto sentiti ».

Kurt la fissò, sbattendo le palpebre, confuso. « Ma avevi detto che era una torta casalinga di casa Anderson ».

« Appunto. Di casa Anderson, non della cuoca o della cameriera ».

« E allora, chi diamine...»

Oh.

Rimase a bocca aperta.

Non poteva davvero dire che l'aveva preparata-

« E' esattamente come pensi, non fare quella faccia incredula. Un certo burbero padrone di casa infesta la cucina di notte, per colpirci tutti a colpi di cioccolato e crema ».

No. Non poteva essere. Kurt la fissava allibito. Si chiese se ricordarle che Blaine Anderson non si comprava le mutande da solo, figuriamoci se metteva le mani in cucina!

« Ma intendi sul serio che -»

Jane lo interruppe immediatamente, levandogli la tazza di mano ed esclamando con voce acuta: « Oddio! A proposito del signorino Anderson, è tardissimo, vestiti, vestiti! »

Gli piazzò la giacca tra le braccia e lo spinse verso l'ingresso.

Kurt era ormai convinto che dovesse aver bevuto qualcosa. « Jane, ma che diamine stai facendo, stai bene? Piantala di spingermi ».

Lei prese invece a trascinarlo per mano.

« Il signorino Blaine, bisogna accompagnarlo alla visita di controllo » disse semplicemente.

Kurt spalancò gli occhi. « Cosa? Intendi dire che devo accompagnarlo io? »

Lei si fermò, all'improvviso, costringendolo a inciampare per evitare di caderle addosso. Kurt sbatté una mano su un mobiletto di legno scuro addossato alla parete vicina. Un vaso di fragile porcellana cinese traballò pericolosamente, fermandosi un attimo prima di cadere, proprio nell'attimo in cui il respiro di Kurt si bloccava e una voce seccata diceva: « Quando avrai finito di far cadere oggetti che valgono più di dieci anni di tuoi stipendi, potresti degnarti di smetterla anche di farmi aspettare ».

E fu inaspettato, inatteso.

Blaine Anderson era esattamente davanti a lui.




*-*-*



Guardarlo era doloroso.

Così come mascherare il proprio disagio, il nodo alla gola, la voce tremante con cui aveva balbettato un saluto incerto. Non sapeva dove posare lo sguardo, come osservarlo in volto senza ricalcare i suoi tratti rovinati, senza che fosse altrettanto evidente che lo stesse studiando o al contrario che stesse facendo di tutto per non mostrarsi attento ai suoi lineamenti.

Fissò un punto del pavimento frugandosi le tasche per recuperare le chiavi dell'auto. Premette i polpastrelli contro il metallo e si diresse verse il portone di uscita. Finché gli dava le spalle era più facile rimanere impassibili.

« Pensavo di aver chiesto un taxi » sentì Blaine mormorare, rivolto a Jane.

Non udì la risposta, coperta dal crepitio della ghiaia sotto i suoi passi. Dopo pochi istanti, seguì il rumore di una camminata incerta. Non si voltò e continuò a dirigersi verso la macchina, fino a trovarsi davanti alla portiera a osservare il riflesso nel vetro del finestrino avvicinarsi fino a essere alle sue spalle.

Il suo volto.

Le sue mani.

La gamba che trascinava.

« Aprimi la portiera ».

Si riscosse.

Respirò, a fondo, di nuovo. Accogliendo aria per calmare il suo cuore, si girò finalmente verso di lui e obbedì al suo ordine.

Incontrò i suoi occhi, più vicini a lui di quanto si aspettasse. Si fissarono qualche istante, sufficiente per percepire il suo sguardo: di sfida, quasi, e luminoso, tanto luminoso e inatteso che fu facile per un attimo dimenticare il resto del suo volto.

I lineamenti distorti, la carne rovinata, morta. Appariva doloroso, ancora, una ferita a tratti aperta, eppure...

eppure dovevano essere trascorsi anni.

Poi Blaine si abbassò e si infilò nell'auto. Kurt lo vide guardare risoluto davanti a sé, in attesa, e sistemare un'ampia sciarpa a coprire parte del suo volto.

Si rese conto in quell'istante che si era mostrato a lui, tanto quanto fino a quel momento si era nascosto, e che sicuramente aveva osservato la sua reazione, leggendola, studiandola, attendendola.

Si era accorto di quanto fosse doloroso guardarlo?



*-*-*



Gli aveva comunicato l'indirizzo in tono piatto, poi si era voltato a osservare il profilo dei campi e degli alberi che scorrevano lungo la strada. Kurt guidava fissando davanti a sé in modo quasi ostinato, un silenzio di lana grezza lo pizzicava in gola e sulla pelle.

« Hai freddo? » chiese piano, maledicendo la propria voce incerta.

« Se avessi avuto freddo ti avrei detto di accendere il riscaldamento ».

Kurt si morsicò un labbro, costringendosi a non rispondere, odiando una volta in più il suo atteggiamento.

Che ti è successo?, avrebbe voluto chiedergli. Ma non avrebbe mai potuto farlo, in realtà. Solo osservare il suo braccio fermo e nascosto sotto la giacca, l'unica mano visibile coperta da un guanto bianco, il suo viso in parte rovinato da cicatrice nodose e bianche e sfregi infiammati

Non era difficile mappare il passaggio del fuoco sul suo corpo.

Era più arduo individuare la giovinezza, la bellezza sopravvissuta.

Eppure...

Kurt spiò il suo riflesso.

Ricordò il suo sguardo. La sua figura smilza.

Eppure... eppure vi era: meno evidente, nascosta, ma era questo che rendeva per Kurt difficile posare lo sguardo su di lui, che fissava come implacabile il contrasto, la cicatrice della realtà sulla pelle di un giovane.

Fissare gli occhi sulla sua guancia era un richiamo al dolore, all'odore della carne morta, bruciata. Era la sofferenza fisica che spaventava Kurt più di ogni altra cosa, che lo terrorizzava di una paura paralizzante: quella che aveva consumato sua madre lentamente, in un'agonia pari a una tortura, quella che suo padre tentava di nascondere mostrandosi forte o fiducioso, quella che si insinuava in incubi capaci di tenerlo sveglio intere notti, quella che era impressa indelebile sulla pelle di un giovane uomo.

Come era sentirsi sciogliere dalle fiamme?

Strillare, strillare, soffrire.

E poi risvegliarsi e scoprire il dolore di nuovo, sul proprio corpo, per sempre?

Kurt si sentì bruciare i polmoni, mentre prendeva lentamente fiato. V'era cenere nella sua gola?

« Non hai mai visto delle cicatrici? »

Fu così sorpreso dal sentire di nuovo la sua voce, dopo minuti di silenzio e pensieri, che quasi si voltò verso di lui.

« Scusa? » farfugliò.

« Intendo dire » lo udì sospirare « che il tuo... timore? Orrore? Nei confronti di queste cicatrici sarebbe comico, se non fosse oltremodo spropositato. Non sono contagiose, sai? Stare in auto con me non ti trasformerà in un mostro ». Il suo tono era acre, vibrante di rabbia.

Kurt accolse le sue parole sbarrando gli occhi e fissandolo dallo specchietto. Non lo stava guardando: pareva ancora concentrato sul paesaggio che li circondava.

« No no » balbettò. « Io... »

Oddio. Non sapeva che dire.

« Sei solo un ragazzino » si sentì sbeffeggiare dopo pochi secondi.

« Non sono un ragazzino » ribatté infantilmente, pentendosene subito.

Lo vide agitare la mano guantata in un gesto di noncuranza.

Come se non fosse importante ciò che Kurt diceva o pensava. Quest'ultimo, irritato, si sforzò di spiegarsi: « Non è come pensi tu » sillabò lentamente, cercando calma nella propria voce. « Non è come pensi tu per niente, io sono solo... sorpreso, forse. E non riesco a smettere di pensare a- a-» Gli mancò il fiato per il disagio.

Ma doveva aver attirato la sua attenzione perché si accorse che ora lo stava fissando, voltato nella sua direzione, in attesa. « A? A cosa? A come sarei senza queste.... cose? A ciò che ho perso? »

Strinse il volante tra le dita. « No, no. A... a come deve essere stato » Espirò lentamente. « Al dolore, deve essere stato insopportabile, a come non sia possibile dimenticarlo, il dolore ».

Un dolore che ricorderai ogni volta che ti guarderai allo specchio, pensò. Ma non lo disse.

E Blaine non rispose alle sue parole.

Nel riflesso dello specchietto, Kurt vide che era tornato a fissare gli alberi e il cielo oltre di essi.

La guancia che gli rivolgeva era pelle sana e morbida e rosea.



*-*-*



I pianoforti maestosi, scuri, eleganti. Impolverati e abbandonati da anni: nessuno in quella casa era più in grado di suonarli, comprese Kurt.

Le sale non accoglievano danze e feste. I pavimenti non venivano calpestati da ospiti e i muri non accoglievano risate e parole. Da anni era così, da quando Blaine si era ritirato a una clausura sofferente e lontana da tutto e tutti. Da quell'incidente, come lo chiamavano.

Era stato facile immaginarlo come un mistero, o invidiare il suo denaro e maledire la sua arroganza. Odiare la sua indifferenza. Sviluppare fantasiose storie che dipingevano una vita agiata e riposante, priva di problemi.

Era stato facile e si era rivelato sbagliato, almeno in parte: era invece piuttosto certo di aver indovinato riguardo alla sua arroganza.

E ora era difficile e comunque altrettanto sbagliato ripercorrere i propri passi e tornare su quel corridoio, davanti a quella porta. O almeno così continuava a ripetersi.

« Che diamine sto facendo? » sbuffò.

Erano trascorse quasi due settimane dall'ultima volta che si era trovato lì, da quando era fuggito di fronte alla consapevolezza di quanto fosse inopportuna e sgradita la propria insistenza. E ancora si ostinava a chiedersi il perché, senza sapersi dare risposta.

Sollevò una mano e accarezzò l'adesivo sulla porta, lo stesso che già una volta l'aveva convinto a bussare.

La verità è che aveva percepito la propria stessa solitudine in Blaine Anderson. E non riusciva a smettere di pensarci, dal giorno primo, dal tempo che avevano trascorso insieme, tra frasi smozzicate e silenzi tesi. La sensazione di essere invisibile al mondo che Kurt odiava era invece in lui un evidente e assurdo desiderio. Le porte e l'arroganza a chiuderlo in quella villa, in quella camera.

E nessuno a bussare per chiedere il permesso di entrare.

Facile nascondersi e dimenticarsi, quando nessuno viene a cercarti

Kurt chiuse una mano a pugno, si strinse l'album al petto e, con decisione, batté le nocche contro il legno.





fine secondo capitolo



Note conclusive:

nodi della trama devono venire al pettine (tipo: perché Blaine recita il martire emo?!) altri sicuramente mi sono invece dimenticata di sbrogliarli.

Una piccola nota riguardo a Kurt: l'insofferenza nel sentirsi ignorati credo possa essere una sensazione piuttosto forte, anche se se spero di non aver premuto troppo sull'acceleratore. In molti il lavorare senza gratificazione è un'esperienza di disagio, credo che per un personaggio che aspirava a esibirsi possa essere ancora maggiore.

(Non che abbia pretese di realismo, comunque... <.<)

Alla prossima!

Epo

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