Les labyrinthes de l'amour

di Eynieth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Immortalité ***
Capitolo 2: *** Famille ***
Capitolo 3: *** Inconnue ***
Capitolo 4: *** Défilé ***
Capitolo 5: *** Paris ***
Capitolo 6: *** Oui ***



Capitolo 1
*** Immortalité ***


La mia più grande paura, è essere dimenticata. Il mio nome, per un po’, correrà sulle vie del tempo, ma arriverà un momento, in cui non varrà più niente neanche per la mia famiglia. Sarò dimenticata, solo un nome sulle pagine infinite del tempo.

Io, purtroppo, non ho ancora la possibilità di scegliere, come Achille: “Se non andrai in guerra, avrai una vita lunga e felice, e verrai amato. Ma i figli dei tuoi figli, dimenticheranno il tuo nome. Se invece andrai in guerra, morirai, ma il tuo nome verrà ricordato negli annali del tempo, e non sarà mai dimenticato.”

Questa è la mia più grande paura. Non il buio, la solitudine, i ragni. L’essere dimenticata.

Per questo credo nei miei sogni. E faccio di tutto per realizzarli. Studio, mi impegno. Ed è per questo che sono arrivata in Francia. Essendo la migliore dell’Università, mi hanno dato questa possibilità.

Nove mesi in Francia, a lavoro dalla famiglia Ulliel. È un piccola opportunità che non va sprecata.

In questo momento sono sull’aereo, destinazione Boulogne-Billancourt.

Mi chiamo Matilde Laffranchi, e ho ventitre anni. E ho passato quasi tutta la mia vita sui libri, o china su un tavolo per cucire.

È tutto merito mio, se sono arrivata dove sono adesso, non ho avuto l’aiuto di nessuno.

Non penso di poter essere considerata una ragazza bella.

Ho lunghi capelli mossi, castano scuro, che ogni giorno vanno dove vogliono, formando una massa informe attorno al viso ovale e pallido. Le labbra sono carnose e rosee, sotto il piccolo naso coperto di lentiggini. Gli occhi, contornati da lunghe ciglia nere, sono grandi di un grigio-azzurro metallico, ma li copro con grandi occhiali. Io non amo truccarmi, niente mascara o fondotinta.

Il corpo è nella media, un metro e settanta, il seno appena accennato, un punto vita sottile. Con tutto quello che conosco, potrei valorizzare molte cose del mio corpo, ma preferisco non farlo, per adesso non mi interessa.

Amo le cose belle, ma non addosso a me. Io giro con pantaloni e felpe larghe, comode. Infatti tutti si stupiscono quando dico loro cosa studio. Perché io studio moda, anche se non sembra. E sono una delle ragazze più promettenti. Ma tutto questo, perché le cose belle, stanno meglio agli altri, ma di certo non a me. Quando esco dall’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, finite tutte le cose burocratiche come il ritiro delle valigie, mi si avvicina un uomo sulla trentina, con un completo blu e un cappello.

«Lei è la signorina Matilde Laffranchi?» chiede in un italiano un po’ stentato.

«Sì» rispondo io in francese. Non sono mai stata in Francia, ma mi sono sempre piaciute le lingue e me la cavo abbastanza bene.

L’uomo fa un sospiro di sollievo, anche se non capisco se lo fa, perché ha indovinato persona, o perché parlo francese.

«Sono Gabriel, l’autista della famiglia Ulliel, la prego, mi segua…»

Sono diffidente per natura. Come faccio a sapere che questo Gabriel è l’autista della famiglia che mi ospiterà? «Ha con sé qualcosa che lo dimostri?» chiedo, tanto per essere sicura.

L’uomo sorride, come se si fosse aspettato una domanda del genere. «Ecco a lei…» disse passandomi un foglio che conferma le sue parole e sotto posso leggere la firma della signora Ulliel.

Sorrido a Gabriel e mi avvicino alla macchina, portandomi dietro i due trolley.

L’uomo, mi segue e mi prende le valigie, caricandole nel bagagliaio dell’auto, e mi fa cenno di sedermi nei sedili dietro.

Mi siedo e stringo al petto la mia borsa. Dentro ho tutto quello che mi serve. Il mio computer e i miei disegni. Gran parte del mio futuro risiede in quella borsa.

Per mezz’ora guardo il paesaggio parigino sfrecciare sotto i miei occhi. Per nove mesi questa sarà la mia nuova casa… nove mesi non sono tanti. E uno di questi giorni devo assolutamente andare a Parigi, non si può andare in Francia e non visitarla.

Ci dirigiamo vero la periferia di Boulogne-Billancourt ed oltrepassiamo un cancello i ferro battuto. La macchina percorre un lungo viale d’ingresso alberato e si ferma davanti a una fontana. Dietro alla fontana posso vedere quella che sarà la mia casa. Una bella villa su tre piani, con grandi finestre decorate e un grande giardino tutto attorno. Per arrivare all’ingresso della villa, bisogna salire una grande scala in marmo decorato. Di certo, non pensavo di vivere in una villa, anche se solo per nove mesi.

Gabriel scende dall’auto e mi apre la portiera con un inchino formale.

Io, con i miei jeans un po’ larghi e bucati e la mia felpa colorata, mi sento del tutto fuori posto. Per la prima volta nella mia vita desidero essere vestita in modo decente, magari con un mio bel vestito addosso…

Aspetto Gabriel, che sta prendendo le mie valigie, e poi ci avviamo su per l’imponente scalone di marmo. L’autista suona al campanello, e poco dopo una donna dai capelli scuri viene ad aprire.

«Gabriel, porta pure le valigie in camera. Conosci la strada…» l’uomo se ne va, scompare su per un’altra scala di legno intarsiato. Così rimango solo io sulla porta. La donna comincia a guardarmi, con occhio critico da stilista.

«Sei Matilde Laffranchi? Ti immaginavo un po’ diversa… Io sono Annalise, e dovremo assolutamente fare qualcosa per i tuoi vestiti…» dice indicandoli.

Arrossisco abbassando lo sguardo. Sono così brutti? In effetti, in un ambiente così sono fuori posto, ma io di certo non giro tutti i giorni in ville eleganti.

«Sei capace di cucire?»

Annuisco convinta. Sono capace di cucire. I jeans che indosso, li ho cuciti io.

«Bene, allora direi che, per vedere come lavori, ti fai qualche bel vestito da mettere…»

Mi arresi a stravolgere il mio guardaroba. E pensare che non c’era riuscita neanche mia madre, e la mia migliore amica dopo di lei. Doveva arrivare una donna francese, per me sconosciuta, per obbligarmi a vestirmi in modo diverso. Bene, molto bene.

«Vieni, ti porto in camera.»

Annalise si avvia spedita su per le scale, senza guardare se la seguo o se sono rimasta indietro. Aumento il passo e sento le mie scarpe da ginnastica scricchiolare sul parquet. No, non era per niente il suo ambiente. Ma si sarebbe abituata, ne dipendeva il suo futuro.

«Stiamo ristrutturando parte della villa, quindi abbiamo poche stanze libere.» dice aprendo una porta in rovere intagliato. Entra e io la seguo, esitando.

Dentro, contro una parete c’è un grande letto a baldacchino blu, il materasso alto e niente drappeggi che scendono dalla struttura. Tutta una parete della stanza è occupata dalle finestre, e c’è anche un piccolo balconcino in pietra che dà su un bellissimo e curatissimo guardino verde.

Sull’altra parete si aprono due porte. Annalise le indica.

«Nella prima c’è un piccolo studio, ti ho messo una macchina da cucire, alcuni manichini e tutto quello che ti può servire. L’altra porta è quella della cabina armadio. Ci sono ancora alcuni vestiti di Gaspard, ma non ti preoccupare.»

Ci impiego un po’ per capire chi è Gaspard, non collego subito il nome alla persona. All’attore. Io lo conosco per “Hannibal Lecter”, che è uno dei miei libri preferiti, ma di certo non ho intenzione di fare scenate. Certo, è una persona famosa, è un uomo anche molto bello e attraente, ma è troppo lontano dal mio obiettivo. E di certo, una persona come me, non attirerà la sua attenzione.

In un angolo della camera, che è composta solo da un comò antico, un paio di poltrone, e una scrivania, ci sono le mie valigie.

Annalise esce dalla camera e mi indica un’altra porta. «Quello è il bagno, lo userai solo tu.» le sorride incoraggiante. «Se hai fame, chiedi a Gabriel o a Rose, la domestica, di indicarti la cucina, e poi sarà servita la cena…» detto questo, scende dalle scale e scompare alla mia vista.

Rientro in camera ed entro nello studio. Di certo non era nato per essere uno studio di cucito, ma Annalise l’aveva attrezzato bene. Poso la borsa sul tavolo da lavoro e prendo l’album dei disegni.

Lo sfoglio per un po’, indecisa su cosa creare.

I vestiti che creo e disegno, di certo non li immagino sul mio corpo, li immagino per le modelle dal fisico longilineo e perfetto.

Nello studio c’è anche uno specchio. Mi tolgo la felpa e i jeans e mi guardo allo specchio.

Alla fine opto per una gonna svasata e a vita alta, guardo tra le stoffe che Annalise mi ha dato. Ne scelgo una blu con dei ricami di una tonalità più scura. Mi metto subito al lavoro.

Per l’ora di cena sono riuscita a finire la gonna, non mi sono fermata neanche un attimo. A un certo punto, ero così stanca, che mi sono punta le dita con l’ago per rimanere sveglia.

Ma ci sono riuscita.

Sono le sei e mezza. Corro in bagno per farmi una doccia veloce e torno in camera.

Apro le valigie sul letto e inizio a disfarle.

Amelia, la mia amica, mi ha regalato una camicetta perfetta per la gonna a vita alta che aveva appena fatto.

La trovò in fondo alla valigia, fortunatamente, non si era stropicciata.

Indosso la gonna, che fortunatamente mi va bene, e la camicia bianca.

Non mi guardo neanche allo specchio, non mi piacerebbe quello che vedo, come al solito, quindi non perdo tempo.

Nella valigia cerco degli accessori da abbinare. Trovo una cintura che sicuramente ci sta bene. Poi inizio a sistemarmi i capelli, la parte più complessa.

Alla fine riesco a sistemarli in una massa di boccoli abbastanza decenti, che arrivano a metà schiena.

Indosso gli occhiali e mi guardo dall’alto in basso. Mi avvicino di nuovo alla valigia, più piccola, quella delle scarpe. Quando la apro, campeggiano sulla massa di scarpe da ginnastica e scarpe basse, un paio di parigine blu notte, con il tacco alto. Avrei infamato Amelia, lei e le sue fisse dei tacchi alti.

Mi sedetti sul letto e provai le scarpe.

Quando mi alzai in piedi, barcollai sulle scarpe troppo alte. Non ero abituata alle scarpe alte. Ai tacchi n generale.

Provo a camminare per la stanza, sostenendomi ai mobili quando rischio di cadere.

Faccio un sospiro profondo ed esco dalla porta della camera.

E scendo dalle scale. Giro per un po’ per i corridoi della villa, ma tutto mi sembra uguale. Dove diamine è la cucina? O la sala da pranzo? Mi basterebbe anche una persona!

Ad un certo punto, mi trovo la strada chiusa da del nastro. Probabilmente sono arrivata alla parte della villa che stanno sistemando.

Scoraggiata torno indietro. Sento già i piedi doloranti e le gambe pesanti. Vorrei almeno tornare in camera.

«Signorina Matilde!» sento urlare. Riconosco la voce di Gabriel, e mi affretto in quella direzione.

Quando vedo la figura familiare di Gabriel mi tranquillizzo e traggo un profondo sospiro di sollievo.

«Gabriel! Grazie al cielo! Mi ero persa!» esclamo fermandomi con il fiatone davanti all’autista.

L’autista mi sorride e mi accompagna in giro per la villa, per i corridoi immensi e labirintici.

Si ferma davanti a una porta intagliata.

Mi liscio la gonna e passo una mano tra i capelli. «Grazie Gabriel…» sussurro prima di entrare.

È una stanza molto luminosa quella che mi si presenta, al cui centro c’è un grande tavolo apparecchiato per tre. Annalise è seduta accanto a un uomo brizzolato con degli allegri occhi celesti e stanno parlando. L’unico posto libero è quello davanti ai due padroni di casa.

Mi fermo davanti alla sedia.

«Scusate se sono arrivata in ritardo ma… Mi sono persa…» dico arrossendo leggermente. L’uomo scoppia a ridere e mi indica la sedia.

Imbarazzata mi siedo, e mi perdo a lisciare le pieghe immaginarie della gonna.

Annalise mi guarda, posso vedere il suo sguardo su di me. «Così va molto meglio.»

Chiama Rose e iniziamo a mangiare.

Quando abbiamo finito, Annalise mi ferma. «Domani alle nove ti voglio pronta, con qualcosa di decente addosso. Vieni alla mia boutique, iniziamo subito a lavorare.» mi fa un sorriso e scompare nei labirinti della villa.

Salgo in camera di corsa, per quanto mi consentono i tacchi, mi cambio, indossando dei pantaloni comodi, e ricomincio a lavorare a dei pantaloni, scelgo una stoffa marrone chiaro e lavoro gran parte della notte.

La mattina dopo, indossando i pantaloni nuovi, le parigine e una cravatta color caffè, presa in prestito dalla cabina armadio di Gaspard, esco dalla camera venti minuti in anticipo, così, anche se mi perdo nei corridoi labirintici, sarò comunque giusta con i tempi.

Quando arrivo, dopo essermi persa un paio di volte, Annalise mi aspetta davanti alle scale.

«Buon giorno Matilde…» mi sussurra con un sorriso. Spero di aver fatto tutto giusto… voglio farle una buona impressione.

«Andiamo…» e mi indica la porta.

La seguo traballando sui tacchi. Qualcosa mi dice che dovrò imparare a camminare sui tacchi. E bene, anche.

Dopo un mese e mezzo che sono dalla famiglia Ulliel, mi sento più a mio agio con Annalise, Gabriel, Rose, George, il signor Ulliel, e Elizabeth Cammile, o semplicemente Lisa, la figlia dei signori Ulliel. Quest'ultima non la vedo molto spesso: abbiamo orari diversi e lei è quasi sempre fuori con il suo fidanzato, Frederic. Ho imparato a camminare sui tacchi e ho stravolto il mio guardaroba, disegnando e creando vestiti sempre nuovi. Non mi sento ancora a mio agio con tutti questi vestiti, preferirei le mie larghe felpe e comodi pantaloni, ma ho imparato a non contraddire Annalise in fatto di abbigliamento, e forse ha ragione, dovrei curare un po’ di più la mia immagine. Una stilista che veste male, non ispira molta fiducia. Però, quando stiamo in casa, non ascolto minimamente Annalise e indosso tutte le felpe larghe e pantaloni che voglio.

Siamo a cena quando Annalise mi dà la notizia.

Indosso un vestito che arriva a metà coscia, verde smeraldo, con le maniche in pizzo bianco, così come l’orlo. Lo scollo a barchetta e delle decolleté bianche come il pizzo. I capelli sono lisci e sciolti sulle spalle. Annalise tiene molto a vedermi vestita bene durante i pranzi e le cene. E io la accontento.

«Gaspard verrà a farci visita domani…»

Come la prima volta, devo pensarci un po’ per capire chi è Gaspard. Poi mi ricordo. L’attore, certo. Ci penso un attimo. Questo dovrebbe cambiare qualcosa per me? No, certo che no. Avrei finito i miei nove mesi e sarei tornata a Milano alla mia vita, al mio studio. Al mio obbiettivo.

Conoscere o no Gaspard Ulliel, non avrebbe cambiato i miei obiettivi.

Finii di mangiare e salii in camera per mettermi a lavorare al mio futuro.

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Capitolo 2
*** Famille ***


Otto anni da quando ho lasciato questa casa. Ogni tanto, per cerimonie, feste varie e anche solo per rivedere Lisa, torno, ma mi sono sempre fermato relativamente poco: due o tre giorni, una settimana al massimo per Natale. Non che io mi sia mai trovato male o che odi questa villa, al contrario, ma ho sempre voluto essere indipendente e imparare a badare a me stesso e vivere col mio lavoro; nulla di complicato per un attore e modello piuttosto influente e ricercato in Francia e probabilmente non solo nella mia nazione.

Mi fa sempre un certo effetto tornare qui, rivedere le scale di marmo dalle quali sarò salito migliaia di volte, i giardini immensi in cui giocavo nelle giornate di sole e so, che una volta dentro, rimpiangerò di non essere rimasto lì, troppo cocciuto e testardo per ammettere di aver fatto uno sbaglio. Amo questo posto e non riuscirei mai a chiamare casa un qualsiasi altro appartamento o villa, i cui ho vissuto, mio malgrado, con le mie ex fidanzate. La mia reale vita di coppia fuori dalla casa paterna, è iniziata con Charlotte con la quale non sono stato insieme per molto, forse nemmeno un anno; poi, due anni dopo, con Jordane, modella, e, anche se i giornalisti insistevano sul fatto che ero troppo bello per lei, con lei la relazione è durata un paio di anni. Ora, dopo altri due anni di solitudine, mi ritrovo a rimpiangere questa vecchia villa dove tutto è pronto e non devo pensare a nulla. Ma sono troppo orgoglioso, perciò, andrò avanti così, con la testa alta e la speranza di trovare una relazione più stabile.

«Monsieur Gaspard!»

Mi riscuoto improvvisamente dai miei pensieri e non posso far altro che sorridere vedendo Gabriel raggiungermi per prendermi i bagagli. Ho sempre adorato quell'uomo, così gentile e affabile; nonostante abbia solo pochi anni in più di me, sembra molto più maturo e adulto.

«Gabriel!»

Esclamo raggiungendolo felice di rivederlo. Poco più dietro di lui vedo accorrere anche Rose, la domestica, e la saluto con un cenno della mano; ormai consideravo anche quei due parte della mia famiglia ed ero sempre contento di essere accolto così calorosamente anche da loro. Gabriel insiste per portarmi i bagagli nella mia stanza e alla fine cedo, sapendo che non riuscirei mai a convincerlo, mentre salgo lentamente le scale, come se avessi tutto il tempo del mondo, e in effetti è così, chiacchierando con Rose e chiedendole del lavoro dei miei e degli studi di mia sorella. E' proprio quest'ultima che vedo comparire per prima all'ingresso, con un vestito abbastanza corto e smanicato color perla e ai piedi dei tacchi neri piuttosto alti; le labbra d'un rosso vivido, gli occhi azzurri contornati da un leggero velo di trucco e i boccoli biondi che le ricadevano morbidamente sulle spalle. Non mi sarei mai abituato a vedere la mia sorellina così agghindata e ormai quasi una donna: me la ricordavo ancora piccola che mi chiedeva sempre di giocare con le bambole.

«Lisa!»

La saluto con un sorriso avvicinandomi a lei, mentre mi guarda poco convinta: indosso una camicia bianca un po' stropicciata e un normale paio di jeans. Odio viaggiare e quindi cerco di farlo restando il più comodo possibile.

«Non avrai intenzione di venire a cena conciato così, Gaspard?»

«Sempre simpatica tu, eh? Ovvio che mi cambio. Mi dareste il tempo di arrivare nella mia stanza, Mademoiselle?»

La supero sprezzante, mentre lei scuote la testa sconsolata. Ai piedi delle scale mio padre e mia madre che mi sorridono, anche loro in abiti eleganti e mi affretto a salutarli per salire quasi di corsa le scale verso la mia stanza. Non mi piacciono molto le smancerie e non sono più un bambino; un saluto è più che sufficiente. Inizio a percorrere quel corridoio con sicurezza: non avrei mai potuto dimenticarmi la strada verso la mia camera, nemmeno se non ci tornassi per molti anni. Spalanco la porta e mi precipito verso la cabina armadio senza nemmeno notare che non la stanza in sé non è in ordine come al solito. Una giacca blu, una camicia bianca più ordinata, un paio di pantaloni anch'essi blu e...non c'è la mia cravatta! Che mio padre l'avesse presa in prestito? Una smorfia mi si dipinge sul volto accentuando la fossetta, o meglio, la cicatrice che mi sono procurato cercando di cavalcare un dobermann come se fosse un cavallo quando avevo sei anni. Ne prendo una nera a caso e mi cambio velocemente. Ora manca il gel. Mi dirigo verso il mio bagno fischiettando appena sovrappensiero. Apro la porta e...vedo davanti a me una ragazza quasi del tutto nuda.

«Je suis désolé!»

Esclamo avvampando e afferro il gel, fortunatamente a portata di mano, e mi dileguo imbarazzato. Una mia caratteristica peculiare è la timidezza: ricordo ancora benissimo quando sono svenuto al festival di Cannes. Vedere una ragazza poco più giovane di me, nel mio bagno e per di più nuda...beh, non è mai stato nei miei programmi. Ma poi che diavolo ci fa lì? Sarà un'amica di Lisa? Un'assistente di mia madre? Gliel'avrei chiesto direttamente quella sera, dato che non credo sia il caso di farne menzione a tavola. Mi rifugio nel bagno di mia sorella sistemandomi i capelli per poi correre giù dalle scale dove la mia famiglia e Gabriel mi aspettano per prendere la limousine.

Arriviamo a Parigi dopo una mezz'oretta circa e ci incamminiamo, circondati, come sempre, da turisti e persone curiose e desiderose di una foto o un autografo. Dopo altri venti minuti riusciamo a raggiungere un ristorante elegante e abbastanza riservato. Il cameriere ci indica un tavolo apparecchiato per cinque...un attimo?

«Arriverà anche Frederic, il fidanzato di Lisa.»

Si affretta a spiegare mio padre vedendo, probabilmente, la mia espressione sconcertata. Fidanzato? Da quando la mia sorellina era insieme ad un ragazzo? Faccio una smorfia poco convinta, ma proprio in quel momento arriva il suddetto Frederic. Un tipo alto, biondo, con gli occhi versi e il fisico scolpito. Non mi convince molto. Lisa si merita qualcosa di meglio. Ci presentiamo con una stretta di mano e cerco di sorridere quanto più convincente. La cena prosegue abbastanza noiosa, con mia madre e mio padre che parlano del loro lavoro, mia sorella che scambia smancerie con il bel biondo e io che, solo e silenzioso, giocherello con il mio bicchiere di vino e ogni tanto mi accendo una sigaretta. Vedere Elizabeth così unita a quel tizio mi infonde un senso di angoscia, ma probabilmente è solo gelosia: lei è felice e ha trovato qualcuno che la ama, mentre io sono di nuovo single. E' vero, ci sarebbero un sacco di ragazze che si scannerebbero per mettersi con me, ma non voglio usarle. Non è nel mio stile e soprattutto voglio trovare qualcuno che si innamori di me e non della mia immagine di attore o modello.

Quasi automaticamente e inspiegabilmente la mia mente mi gioca un brutto scherzo: rivedo la scena di appena un'ora fa e la ragazza nel mio bagno. Arrossisco impercettibilmente e mi porto la mano con la sigaretta davanti al volto per non farlo notare. Mi avrebbe dovuto delle spiegazioni e non solo lei. Avrebbero potuto almeno avvisarmi: avrei bussato prima di entrare. Il problema sarebbe stato parlarle senza arrossire o dar troppo peso a quello che era successo. Sospiro tirando un'altra boccata per poi gettare il mozzicone lontano. Finalmente quello strazio era finito e il caro Frederic ci saluta ringraziandoci per la serata e, dopo aver baciato Lisa, si allontana. Lo saluto con un cenno della mano per poi fare una smorfia di disgusto quando nessuno mi guarda. Avrei dovuto parlare anche di quello in un futuro prossimo. Raggiungiamo di nuovo la limousine: Gabriel è tornato per riportarci a casa. Durante il tragitto parlo poco accennando solo al mio lavoro e al fatto che probabilmente sarei rimasto lì più a lungo del solito. Mi manca, mio malgrado, la vita di famiglia e due anni da solo mi hanno un po' provato: non sono un abile cuoco e tendo a trascurarmi quando sono abbandonato a me stesso. Una volta arrivati alla villa rimaniamo ancora un po' in piedi, nella sala da the a chiacchierare, ma nessuno dei presenti sembra accennare a quella misteriosa ragazza e io non ho decisamente voglia di tirare fuori l'argomento.

Verso le undici ci diamo la buona notte e finalmente riesco a ritirarmi esausto dopo il viaggio e quella cena insopportabile nella mia camera. Salgo svogliato le scale trascinando quasi i piedi finchè non arrivo alla mia stanza. Quando dicono che la storia non insegna, hanno ragione. Apro la porta e accendo la luce, mentre con la mano libera mi tolgo cravatta e giaccia per poi lanciarle sul letto con poca grazia. Mi sfilo la camicia e stavo per buttare anche quella, quando mi accorgo che il mio letto non è vuoto. Ancora lei, la ragazza castana con gli occhi azzurri. Sobbalzo tra lo spaventato e l'imbarazzato. Possibile che la vita debba sempre giocare a me brutti scherzi?

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Capitolo 3
*** Inconnue ***


Da quando sono con la famiglia Ulliel e vivo sotto lo stesso tetto con Lisa, la bellissima figlia di Annalise, ho preso l'abitudine di andare a correre. Vivere assieme a Lisa è estenuante, e moralmente impossibile. Uno si chiede perchè tanta fortuna deve andare a una sola persona.

Così, quando torno dalla mia corsetta quotidiana, mi fiondo sotto la doccia. L'acqua sulla pelle mi dá una sensazione meravigliosa. Posso sentire tutto lo stress scivolare giú per lo scarico della doccia e scomparire nelle tubature.

Quando sento fischiettare fuori dalla porta, mi sto avvolgendo un asciugamano attorno al corpo. Mi giro appena in tempo per vedere un ragazzo, che probabilmente ha qualche anno piú di me, che mi osserva dalla porta. Posso sentire i suoi occhi blu magnetici osservarmi. Chiudo l'asciugamano, imbarazzata e distolgo lo sguardo arrossendo.

Sento che sussurra un “Je suis dèsolè”, prende un tubetto sul mobile vicino alla porta, ed esce dal bagno.

Scivolo contro il muro e mi passo le mani tra i capelli bagnati.

Ed ecco che ho conosciuto il famoso Gaspard Ulliel.

In bagno. Mezza nuda.

Bene, molto bene.

Chiudo gli occhi. Faccio un respiro profondo e mi alzo.

Questo… Gaspard, avrà visto centinaia di ragazze seminude, molto più belle di me, è il suo lavoro, dopo tutto. Perché dovrei preoccuparmi? E poi lo vedrò solo… forse non lo vedrò neanche, questi nove mesi passeranno veloci, e lui sarà lontano per il suo lavoro. Inseguirà i suoi sogni. Come me. E le nostre strade ci porteranno lontani, l’uno dall’altro, e dall’episodio imbarazzante.

Mi guardo allo specchio. I riccioli appiccicati alla testa, le lentiggini troppo evidenti sulla carnagione chiara. Abituato com’è alla bellezza della sorella, e delle modelle, non posso neanche immaginare come mi abbia visto… Ma cosa importa?! Matilde, smettila!

Distolgo lo sguardo e inizio ad asciugarmi i capelli.

Quando ho finito, mi sporgo dalla porta, per controllare che non ci sia nessuno per il corridoio, non si sa mai. Accertato il via libera, corro stringendomi l’asciugamano addosso e chiudendomi la porta della camera alle spalle.

Indosso un pantalone largo e una maglietta sformata, approfittando del fatto che Annalise non c’è.

Quando li sento uscire, mi fiondo giù per le scale e percorro i corridoi labirintici che imparo a conoscere. Raggiungo la cucina dove ci sono Gabriel e Rose e mangio con loro. Loro non mi sgridano se indosso qualcosa di comodo, al posto dei vestiti eleganti. Mi sento più a mio agio con loro, ma non li conosco ancora così bene. Mangiamo in silenzio, senza parlare.

Quando abbiamo finito, aiuto Rose a sistemare la cucina e poi corro in camera, devo ancora finire un vestito. Da quando sono qui, non ho mai cucito così tanto. Mi sono rifatta quasi un guardaroba, e le dita mi fanno malissimo. Tutto mi fa malissimo. E sono stanca.

Decido che per oggi, mi merito qualche ora di sonno in più. In più si fa per dire, visto che comunque, quando mi sfilo i pantaloni della tuta e indosso la maglietta extra large che uso come pigiama, sono già le undici. Mi accoccolo sotto la coperta e l’unica cosa che riesco a pensare, è che devo assolutamente chiamare Amelia, la mia amica di università. Poi mi addormento. Mi risveglio di soprassalto, con tutte le luci accese e dei rumori di vestiti e stoffa. Mi metto a sedere sul letto e scopro di avere tutta la maglietta alzata e attorcigliata addosso. Con dei movimenti pigri la sistemo e mi stropiccio gli occhi, ancora mezza addormentata e abbagliata dalla luce improvvisa.

E lì, a petto nudo, con la camicia in mano, c’è Gaspard. Ancora.

Salto sul letto, all’improvviso sveglia, e stringo un cuscino tra le braccia, come uno scudo. Come se delle piume e un lenzuolo potessero proteggermi dall’imbarazzo.

Scendo dal letto tenendo il cuscino stretto al petto e cercando di non guardare Gaspard, cosa difficile, ma con un disumano sforzo di volontá... Ci riesco.

«Scusa... » sussurro allontanandomi il piú possibile. Te guarda cosa mi deve succedere! «Io... Ti lascio la camera... Scusa... » sussurro ancora una volta. E meno male che non dovevo vederlo più! Pima mezza nuda in bagno, poi entrambi mezzi nudi in camera.

Qualcuno si sta divertendo, da qualche parte.

Stringo il cuscino al petto e continuo a indietreggiare, fino ad arrivare alla porta dello studio. Stringo il cuscino e comincio a tremare. Indosso solo una maglietta leggera e passare dal caldo accogliente del letto, al freddo della stanza, mi ha svegliato per bene, ma mi fa scendere lunghi brividi per tutto il corpo. Prendo la maniglia della porta, cercando di pensare se c'è una poltrona che non sia sommersa da stoffe e vestiti, ma non ci riesco. Colpa di quei dannati occhi magnetici che mi stanno guardando in modo confuso. Avró parlato in italiano? Nella foga, e nell'imbarazzo del momento, ho dimenticato di parlare in francese? Chissá cosa pensa di me Gaspard... Ma cosa importa, Matilde? Perchè dovrebbe importarmi? Faccio un lungo respiro. Non riusciró mai ad addormentarmi. Tanto vale finire i vestiti.

 

 

 

Rimango per diversi istanti immobile con in mano la camicia, come se cercassi di realizzare quello che era appena successo. La ragazza misteriosa non ha parlato nemmeno in francese, anche se qualche parola assomiglia molto alla mia lingua. Che sia italiana? La vedo stringersi al petto iil cuscino, probabilmente imbarazzata quanto me. Si allontana, indietreggiando fino alla porta di quello che utilizzavo come ripostiglio e occasionalmente studio. Si chiude dentro e solo allora ritorno in me trovando il coraggio di aprire la bocca e lasciare la camicia cadere a terra.

«Mademoiselle, vi prego di uscire. Tornate pure a dormire sul letto, non c'è alcun problema per me.» Apro la porta dietro la quale si era nascosta e vedo davanti a me una macchina da cucire, diversi vestiti o pezzi di stoffa e una poltrona, dietro cui si era nascosta la castana. «Mademoiselle, avrete freddo. Tornate nel letto... »

 

 

 

Ci impiego un attimo per capire quello che sta dicendo, devo connettere tutti i neuroni. Non ha più in mano la camicia e come per compensare quella mancanza, stringo al petto il cuscino. Mi schiarisco la gola, assieme alle idee. «Non si... Preoccupi... Devo finire dei vestiti... Non fa niente. Piuttosto, sono davvero dispiaciuta per questi... Incidenti...» distolgo lo sguardo. Sará giusto dargli del lei? Avrò parlato bene? Dio. Che fastidio! Devo assolutamente calmarmi. Non è successo niente di cosí... Imbarazzante, dopo tutto. Vero? Come per confermare le mie parole, prendo un vestito a caso dal disordine e lo guardo. Fortunatamente ne ho preso uno incompleto. E difficile. Avrò di che divertirmi, stanotte.

Libero il tavolo e distendo il vestito. É in pizzo nero, uno dei materiali piú difficili e io lo odio. Ma dà un bellissimo effetto. Il vestito è composto da due parti. La prima è un tubino bianco, che comincio a cercare i giro, muovendo i cumuli di vestiti.

Cerco di ignorare Gaspard, ma la cosa non è facile. Soprattutto quando mi ricordo che indosso solo la mia maglietta larga, così inizio a tirarla giú, con scarsi risultati, visto che la grandezza è quella e so benissimo quanto del mio corpo copre. Arrossisco.

Possibile che devono capitare tutte a me? Destino crudele!

Alla fine lo trovo, mancano giusto un paio di punti qua e là.

Lo porto sul tavolo e inizio ad appuntare gli spilli.

Lascio la parte in pizzo, che andrá a ricoprire del tutto il vestito, e che non è ancora finita, in un angolo, e focalizzo tutta la mia attenzione sul tubino.

 

 

 

«Non crederete davvero che vi lascerò qui a lavorare mentre io dormo, Mademoiselle?» Chiedo retorico avvicinandomi al tavolo e togliendole da sotto gli occhi il vestito. Non so dove avessi trovato il coraggio di fare una cosa del genere, ma non mi andava a genio che una ragazza restasse sveglia tutta la notte per lavorare su dei vestiti.

Anche mia madre lo faceva, ogni tanto, quando ero piccolo e sentivo sempre mio padre lamentarsi.

«Mademoiselle, per questa sera, finchè non riceverò una spiegazione e troveremo un altro modo, dormite nel mio letto. Je suis désolé per avervi svegliata, ma non si sono preoccupati di avvertirmi...» provo a convincerla alludendo ai domestici e ai miei stessi genitori. Che diamine, potevano almeno menzionarlo! Trovo la forza di prenderla per un braccio e farla alzare, poi la trascino delicatamente nella camera chiudendo la porta dello studio e le indico il letto con un'espressione molto imbarazzata, ma che non ammetteva repliche.

 

 

 

Guardo Gaspard incredula. Il mio vestito! Il mio braccio! Quindi lui non sapeva niente di me. Dio, chissà chi pensava che fossi. Lo guardo imbarazzata.

Se io dormo nel letto, lui dove andrà? Dovrebbe dormire lui su una poltrona? Assolutamente no. É lui il padrone di casa. «Senta, davvero, non si preoccupi. La poltrona nello studio sará comodissima...» ignoro del tutto il tono che non ammette repliche, non l'ho mai ascoltato nemmeno nei miei genitori, perchè dovrei ascoltarlo su uno sconosciuto? Solo io posso comandare me stessa. E non voglio dormire in quel dannato letto. Poi mi ricordo che non sa ancora come mi chiamo e, anche se non riesco a capire perchè in questo momento è così importante, allungo la mano libera verso Gaspard.

«Comunque... Sono Matilde Laffranchi, piacere...» lo guardo dritto negli occhi, accantonando tutto l'imbarazzo. Adesso basta. É ora di smetterla di fare la bambina.

 

 

 

Si rifiuta ancora di ascoltarmi dicendo di voler dormire sulla poltrona. E' fuori discussione! Ma non riesco a ribattere perchè la ragazza misteriosa allunga una mano per presentarsi. La prendo delicatamente e la sfioro con le labbra.

«Gaspard Ulliel.» mi presento nonostante credo fermamente che mi conosca già. «Mademoiselle Laffranchi, non sono incline a ottemperare alla vostra richiesta. Non lascerò che dormiate sulla poltrona.»

Tento di nuovo sbarrandole la strada verso lo studio in modo che non possa passare.

Dovessi stare qui tutta notte a litigare, non cederò: non si lascia dormire una signorina sulla poltrona. Anche se si è appropriata della mia maglietta dei "The Stones" che avevo comprato giusto qualche anno fa.

 

 

 

Ecco. E il buon proposito di essere adulti e poco inclini all'imbarazzo si dissolve come... Neve sciolta al sole? Forse banale, ma di certo rispecchia il rossore che mi si è formato sulle guancie. Perché proprio il baciamano? Una stretta di mano non bastava? Distolgo lo sguardo e Gaspard, che si é presentato, si mette davanti alla porta dello studio, sbarrandomi la strada.

Cerco di guardarlo negli occhi e mi stringo le braccia al petto quando vedo che sta guardando la maglietta.

Probabilmente é sua anche quella.

Essere chiamata 'Mademoiselle Laffranchi' non mi piace per niente, mi sa tanto di strano.

«Mi chiami pure Matilde...» distolgo lo sguardo. Non lo conosco per niente, e non so se voglio conoscerlo. Forse la cosa piú furba è fare finta che non sia mai successo niente. Comunque... Non lo conosco molto bene, ma sembra fermo nella sua decisione di farmi dormire nel letto. E io non voglio.

«Neanche io sono incline alla vostra richiesta. Non dormiró nel letto. La camera è la vostra.»

Dico stringendo di piú le braccia. A costo di rimanere alzata tutta la notte, e sono brava in questo, non gliela daró vinta.

 

 

 

Testarda e cocciuta. Tipico degli italiani. Sospiro passandomi una mano tra i capelli pensando a una soluzione: non la farò mai dormire per terra.

«Allora chiamami pure Gaspard, Matilde.» rispondo meno formale guardandola negli occhi azzurri. È così diversa da Lisa, ma ha qualcosa di affascinante e quella maglia troppo larga e lunga per lei la fa apparire piccola e indifesa ai miei occhi.

«Credo che allora dovremo trovare una soluzione provvisoria. Non ho intenzione di lasciarti dormire su una poltrona.» in realtà l'unica soluzione che accontenterebbe entrambi è assurda, soprattutto per la mia timidezza, ma supererò anche quella se servirà a convincerla. Sono pur sempre un gentiluomo o comunque mi è stato insegnato a comportarmi da tale.

 

 

 

Iniziai a mordicchiarmi il labbro, cosa che faccio ogni volta che sono in ansia o agitata, cioè molto spesso. Mi giro per guardare il letto. È piú grande di un letto matrimoniale normale. Ok. É una cosa del tutto assurda.

Abbasso lo sguardo sulla maglietta e inizio a giocare con il bordo. Poi ricordo che é di Gaspard e smetto subito. Alzo gli occhi, ma non lo guardo. Mi schiarisco la gola. «Siccome non ho intenzione di farti dormire su una poltrona, e lo stesso vale per te, da quanto ho capito, penso che l'unica soluzione sia...» arrossisco. Ma sí! Mi ha giá visto mezza nuda, questo non puó essere tanto peggiore... E poi è solo per oggi... Solo per poche ore. Posso farcela... Penso. Il difficile è dirlo... «Penso che dovremo dividere il letto... Dopo tutto è grande...» dico chiudendo gli occhi e diventando rossa come un pomodoro.

 

 

 

È imbarazzata quanto me, ma non riesce a nasconderlo: si morde il labbro e tortura il bordo della mia maglietta.

Deve aver pensato alla mia stessa soluzione poichè diventa completamente rossa. Dividere il letto. Con una quasi sconosciuta che ho intravisto quasi del tutto nuda nel mio bagno. Fortunatamente ha chiuso gli occhi perchè arrossisco anche io imbarazzato.

«È la decisione migliore.» Affermo dopo diversi istanti di silenzio.

La supero approfittando del fatto che è di spalle con gli occhi chiusi per sfilarmi anche i pantaloni e infilarmi subito sotto le coperte sul bordo del letto più lontano da Matilde. Le do le spalle, ma alla fine giro la testa per assicurarmi che non vada nello studio a dormire sulla poltrona.

 

 

 

Per un attimo penso alla prospettiva di scappare nello studio e chiudermi dentro a chiave. Ho così tanto da finire... No, non è vero. Semplicemente non voglio stare nel letto con uno sconosciuto. Che sia Gaspard Ulliel o Johnny Depp, non importa. Sarebbero due sconosciuti.

Convinta della mia idea, faccio un passo avanti verso la porta, ma sento Gaspard muoversi sotto le coperte e posso sentire i suoi occhi su di me. Non avrei molte possibilitá di arrivarci in tempo. Sospiro e mi avvicino all'altro lato del letto, cioé quello piú distante dal ragazzo. Mi tiro le coperte fin sotto il mento e gli do le spalle. Allungo una mano per spegnere la luce, così nascondo anche il mio rossore. Spero solo di non muovermi troppo, Amelia si lamenta sempre quando dividiamo il letto, ma sarebbe una cosa alquanto imbarazzante, questa volta. Mi impongo mentalmente di non muovermi e chiudo gli occhi.

 

 

 

La vedo tentare di avvicinarsi allo studio e sto per alzarmi e costringerla a venire nel letto, ma capisce da sola che è meglio non opporsi. Si stende sul bordo opposto al mio in evidente imbarazzo. «Bonne nuit.» sussurro appena. Una volta che Matilde ha spento la luce, mi rannicchio cercando di pensare di essere solo. Molto difficile, ma alla fine la stanchezza del viaggio prende il sopravvento e mi addormento.

Qualcosa mi urta e mi sveglio spaventato: non devono essere passate molte ore, perchè è ancora tutto buio. Socchiudo gli occhi e...li ritrovo fissi in quelli di Matilde a pochi centimetri da me.

 

 

 

Non ricordo cosa stavo sognando, cosa che succede molto spesso.

Probabilmente stavo correndo o scappando, comunque era un sogno abbastanza agitato.

Penso di aver tirato un calcio a qualcosa... Poi mi ricordo di Gaspard. Apro gli occhi di scatto e me lo trovo a pochi centimetri dal viso. Ci guardiamo, occhi negli occhi. Ma perchè, mi domando. Perché tutte le brutte figure devono capitare solo a me! Balzo a sedere e mi tiro le coperte addosso, togliendole cosí da Gaspard. Cosí le lascio andare e mi allontano.

«Scusa...» ringrazio che ci siano le luci spente, perchè mi sento la faccia in fiamme. Mai piú una cosa del genere.

Mai piú, maledetto corpo!

 

 

 

Si alza di scatto tirando le coperte verso di sè e lasciando me completamente privo di esse.

Arrossisco mentre sento il freddo farmi rabbrividire e ricordarmi che ho addosso solo i boxer. Mi passo una mano fra i capelli e quando lei lascia le coperte le tiro appena per ricoprirmi, mentre mi sdraio dandole le spalle.

«Pas de problème.»

Sussurro, ma la mia voce trema tradendo le parole: possibile che in una giornata fossero capitate tutte a me? Poi, fossi stato un altro tipo di persona, potrei anche esserne stato contento, ma dato il mio carattere non lo ero affatto: chissà come si sentiva la povera Matilde, praticamente privata della sua privacy. Mi passo una mano sul volto sospirando appena: ora sarà ancora più difficile prendere sonno.

 

 

 

Girandomi nel buio, comincio a mordermi il labbro, fino a quando non sento del sangue sulla lingua. Ok. Non riusciró piú ad addormentarmi. È totalmente fuori programma. Un'altra figuraccia non la voglio fare.

Aspetto un po' e quando penso che Gaspard stia dormendo, prendo il cellulare sul comodino e cerco di sgusciare fuori dalle coperte facendo meno rumore possibile. Non voglio né svegliarlo, nè farmi sgridare perchè ho lasciato il letto. Aspetta un attimo. Da quanto è che mi preoccupo di essere sgridata? Questa poi. Cosa mi sta succedendo?

 

 

 

Come immaginavo, la sento sgusciare abilmente dalle coperte. Eh no, non mi lascio fregare così facilmente. Aspetto diversi istanti prima di voltarmi lentamente e la vedo in piedi in mezzo alla stanza: cosa starà mai facendo? Mi avvicino al bordo del letto opposto a quello dove mi trovavo prima e silenziosamente scosto le coperte e mi alzo; con passo felpato e quasi senza respirare mi avvicino alle sue spalle. Ha in mano il cellulare: chi potrà mai chiamare nel bel mezzo della notte?

«Qualche problema, Mademoiselle? Il fuso orario in Italia è come il nostro, chiunque state per chiamare sicuramente dormirà...a differenza nostra.»
Ecco, sono tornato formale. E questo capita in poche situazioni: quando sono a disagio, quando è richiesto per i motivi più svariati o quando sono irritato. E lei ha tentato di fregarmi, perciò ora l'imbarazzo si è fatto da parte.

«Dato che dite che io sono il proprietario della camera, vi consiglio vivamente di tornare nel letto, se tenete al cellulare e ai vestiti.»

Ok, sono stato eccessivo, ma odio quando tentano di fregarmi. Mi aspetto una reazione rabbiosa da parte di Matilde e ne avrebbe tutte le ragioni del mondo, perchè in fondo me lo meriterei: ho esagerato.

 

 

 

Sobbalzo quando sento Gaspard parlarmi da dietro le spalle. Non lo avevo minimamente sentito muoversi, peró lui ha sentito me, a quanto pare. E ha ricominciato a comportarsi in modo formale. Mi giro lentamente, non mi piace avere persone alle spalle, non mi lascia il controllo di cui la mia vita é composta. Almeno fino a ieri. Gaspard svetta su di me con dieci centimetri buoni.

«Stavo guardando l'ora...» dico stringendo gli occhi. Nessuno tocca i miei vestiti. «Se lo vuoi, posso benissimo darti il telefono.» dico allungando la mano.

«Ma essere il padrone della camera, non vuol dire che sei anche il mio padrone.»

Adesso sono io quella arrabbiata. Probabilmente anche io ho sbagliato, ma non sopporto quando mi impongono qualcosa. E stavo "scappando" dal letto solo per evitare altre situazioni imbarazzanti. E, a proposito di situazioni imbarazzanti, con la luce azzurrognola del cellulare, posso vedere Gaspard illuminato di celeste, e scoprire che indossa solo i boxer. Alzo lo sguardo. Almeno adesso siamo pari…

 

 

 

Si volta e come immaginavo è arrabbiata. Le sue parole mi colpiscono, perchè in fondo ha ragione e mi fa sentire un vero egoista. Mi passo di nuovo una mano fra i capelli per tirarli indietro mentre lei mi allunga il cellulare che rifiuto con un gesto della mano. Volevo soltanto che dormisse comoda, non certo obbligarla a farsi schiavizzare. Sospiro per poi rabbrividire e spalanco gli occhi arrossendo visibilmente: con la luce del cellulare mi aveva visto a sua volta praticamente nudo. Indietreggio a disagio fino al bordo del letto e mi lascio cadere seduto mentre penso a cosa potrei dire che non fosse semplicemente "scusa".

«Come vuoi.» sussurro alla fine, privo di fantasia, mentre gattono fino al mio bordo del letto e mi rinfilo sotto le coperte tirandole fino all'altezza delle spalle. Chiudo gli occhi cercando di prendere sonno, ma risulta ancora più complicato. Sento i suoi occhi di ghiaccio posati su di me e non è una bella sensazione. Mi sembra di essere intrappolato.

 

 

 

Bene. Ci siamo conosciuti in bagno, dove mi ha visto mezza nuda. Dopo ci siamo trovati in camera da letto. E infine litighiamo. E tutto questo in meno di ventiquattro ore. Dire che abbiamo cominciato con il piede sbagliato, è un eufemismo. Davvero.

Bene, molto bene. Continuiamo cosí Matilde...

Mi mordo il labbro. E adesso cosa faccio? Torno nel letto o vado nello studio? E se vado nello studio cosa faccio? Penso proprio di non riuscire a lavorare. Se è per questo, neanche a dormire. Sbuffo e mi avvicino al letto. Maledetto Gaspard e la sua galanteria.

«Se ti lamenti dei calci, peggio per te...» sussurro tra i denti. Non so come riesco a dirlo, probabilmente è la stanchezza che mi gioca brutti scherzi. E comunque poco dopo mi addormento.

 

 

 

Un debole sorriso trionfante mi si dipinge sul volto delineando anche la mia fossetta. Doveva essere stanca se aveva ceduto senza ulteriori minacce.

«Io non mi sono mai lamentato, Matilde.»

Chiarisco senza voltarmi nè guardarla. Dopo parecchi minuti, che sembrano un'eternità, finalmente, mi addormento, incurante della presenza della ragazza.

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Capitolo 4
*** Défilé ***


Mi sveglio con la sveglia del cellulare. Con gli occhi ancora chiusi e il caldo delle coperte, penso che sia tutto normale, come lo è stato per piú di un mese.

Peccato che quando apro gli occhi, trovo il viso di Gaspard, illuminato dalla poca luce che entra dalle finestre, proprio davanti a me. Inizio a mordermi il labbro. Ho giá scoperto che a muovermi silenziosamente, sono una frana, però adesso è addormentato, magari ho piú fortuna... Inizio ad allontanarmi il piú lentamente possibile, ma dopo che mi sono mossa solo di pochi centimetri, sento Gaspard muoversi e il suo braccio si posa sulla mia pancia e vengo tirata verso di lui. Cerco di aggrapparmi al bordo del letto, ma anche nel sonno, Gaspard é piú forte di me. Mi stringe in un buffo abbraccio, un po' contorto, un po' assonnato, e mi stringe. Nel buio spalanco gli occhi.

E adesso cosa diamine faccio? Cominciamo col respirare. Posso sentire il corpo caldo di Gaspard, attaccato al mio. Arrossisco senza un motivo e giro la testa. Devo pensare... Non voglio assolutamente svegliarli, ci sono stati fin troppi momenti imbarazzanti, vorrei evitarne altri, in futuro. Posso quasi sentire i minuti scorrere, segnati dai battiti dei nostri cuori. Cavoli! Annalise mi sta aspettando, e non sopporta i ritardi. Si arrabbierà tantissimo! Mi mordo il labbro prendendo il braccio di Gaspard e cerco di sollevarlo il piú delicatamente possibile, e appena sono libera, scappo dal letto. Mi chiudo nello studio e comincio a vestirmi. Trovo un paio di pantaloni neri a vita bassa e stretti e ci abbino una cintura argentata ad anelli. Cerco una camicia bianca aderente e prendo il gilet nero che ho appena finito. Allaccio con cura i bottoni argentati. Prendo delle scarpe a caso dal mucchio nell'angolo, e guardandole, vedo che ho pescato le scarpe giuste. Sono chiuse e nere, ma il tacco è argentato, come i bottoni e la cintura.

Mi pettino i capelli senza badare agli innumerevoli nodi, e faccio una treccia che lascio cadere sulla schiena. Indosso gli occhiali, che avevo lasciato sul tavolo la sera prima, prendo la borsa, con dentro vari quaderni e il mio computer, ed esco dallo studio, chiudendomi la porta alle spalle. Cerco di fare il meno rumore possibile, anche se con i tacchi è difficile. Prima di uscire dalla camera, vedo la cravatta nera di Gaspard per terra, che probabilmente ha lasciato lì la sera precedente. La prendo al voli ed esco. Intanto che scendo le scale, faccio il nodo alla cravatta. Arrivo in ingresso in perfetto orario. Mi guardo attorno, ma di Annalise nessuna traccia. Sistemo gli occhiali che mi sono scivolati sul naso, e mi avvicino alla sala da pranzo. Sono tutti lì a fare colazione. «Matilde, eccoti. Oggi viene anche Gaspard, adesso vado a svegliarlo. Peró dobbiamo aspettarlo...» dice Annalise alzandosi. Faccio per fermarla, ma lei mi ferma per prima con un gesto della mano e scompare dalla sala. E io cosa faccio, adesso? Devo dirglielo. E oggi verrá anche Gaspard. Bene, molto bene. Mi avvicino al tavolo e mi siedo al mio posto, rinunciando a guardare Lisa, mi verrebbe un complesso di inferioritá orribile. Prendo un croissant e inizio a mordicchiarlo, giusto per non martoriare il mio labbro mal ridotto. Almeno questa volta saremo vestiti entrambi... Penso con un sorriso.

 

 

 

Toc. Toc.

Faccio una smorfia nascondendo la testa sotto il cuscino: chi è che rompe a quell'ora della mattina?

Toc. Toc.

Prima o poi se ne andrà se resto qui fermo e faccio finta di dormire.

«Gaspard.»

Salto in piedi: è mia madre. Non deve sapere che ho dormito nel letto con quella ragazza. Mi infilo velocemente i primi jeans che mi capitano a tiro e mi avvicino con noncuranza alla porta, per poi aprirla.

«Era ora. Questa mattina hai la sfilata, spero che tu te lo ricordassi.» annuisco appena alzando gli occhi al cielo, mentre lei mi squadra poco contenta delle mie condizioni. «Verrà anche Matilde con noi. Oh, è vero. Mi sono scordata di dirtelo, ma credo che ormai vi siate già conosciuti.»

«Eh già. Ho dormito su una poltrona, sta notte. Potevate almeno avvisarmi.»

Agita una mano in segno di scuse e mi intima di vestirmi e scendere al più presto a fare colazione perchè non ha tempo da perdere. Richiudo la porta sbuffando sonoramente. Almeno sono riuscito a mentirle e a quanto pare la ragazza misteriosa non ha aperto bocca in proposito. Meglio così.

Apro l'armadio tirando fuori una camicia azzurra, una giacca grigia e un paio di jeans del medesimo colore. Mi cambio velocemente cercando per terra, dove avevo lasciato la sera prima, la cravatta. Scomparsa. Sospiro: rimarrò senza. Infilo un paio di scarpe a caso e mi precipito in bagno, per poi bloccarmi davanti alla porta. Busso. Non si sa mai. Non ricevendo alcuna risposta apro e richiudo la porta dietro di me. Mi sciacquo il viso per svegliarmi e passo un po' di gel tra i capelli per tirarli indietro.

Arrivo in sala da pranzo dove sono tutti seduti a fare colazione, Matilde compresa. Saluto tutti con un “Bonjour” e mi siedo accanto a mia sorella, anche quella mattina vestita e agghindata impeccabilmente: uscirà con quel tipo? Faccio una smorfia prendendo una croissant alla crema e versandomi un po' di latte nel caffè davanti a me. Mangio in fretta, irritato dallo sguardo di mia madre che sembrava intimarmi di sbrigarmi.

Sono ormai le nove quando usciamo dalla villa con Gabriel che ci aspetta fuori dal cancello con la nostra limousine. Sto per scaraventarmi nel posto anteriore, ma mia madre, impicciona, mi precede: come diavolo fa camminare così velocemente con dei tacchi tanto alti? Donne!

Mi ritrovo nei sedili posteriori. Con la ragazza castana seduta di fianco a me. Cade tra noi un silenzio imbarazzante, rotto dalle raccomandazioni di mia madre a cui do decisamente poco ascolto. Sto ancora ripensando alla notte e alla giornata precedente. Il bagno. Il letto.

Mi porto istintivamente una mano davanti al volto per non far notare che sono arrossito. Fortunatamente, per me almeno, il luogo dove si terrà la sfilata non è molto lontano; si trova nella periferia di Parigi, anche se è molto rinomato. Si tratta di un teatro con un'enorme palco che si estende nella fila centrale, tra le sedie, fino a metà sala. Non è la prima volta che sfilo lì, quindi so trovare la strada per conto mio e riuscirò a fuggire prima che mia madre possa dirmi di muovermi.

Dopo una ventina di minuti in cui riesco soltanto ad aprire la bocca per chiedere a Matilde come mai fosse in Francia, raggiungiamo la nostra destinazione. Scendo al volo, ma non faccio in tempo a scappare perchè mia madre mi fulmina con lo sguardo; alzo gli occhi al cielo e mi appresto ad aprire la portiera della ragazza italiana porgendole la mano per aiutarla ad uscire.

«Mademoiselle...» sussurro tirandola appena verso di me senza molta fatica. E' leggera. Piego le labbra in un mezzo sorriso mostrando la fossetta, per poi lasciarle la mano e dileguarmi dentro il teatro verso i camerini.

Non ci metto molto a trovare il mio e mi chiudo dentro rifiutando di far entrare qualsiasi persona che non fosse lì per aiutarmi a vestirmi e prepararmi. Fisso la mia immagine riflessa nello specchio: perchè ho un'aria così agitata? Passo una mano fra i capelli per poi voltarmi e osservare i capi da indossare. Nulla di così complicato, fortunatamente. Qualche abito autunnale, camicie a maniche lunghe, giacche di vari tipi. Mi danno la lista dell'ordine in cui ci saremmo presentati: fortunatamente tra un abito e l'altro ho almeno una decina di altri ragazzi, così non dovrò fare tutto di fretta. Mi spoglio rimanendo in boxer per poi infilarmi un paio di jeans abbastanza aderenti, una camicia a quadri bianchi e neri e un trench grigi molto elegante. Mi lascio pettinare e poi esco pronto a presentarmi. Passo sicuro sul palco cercando di non incrociare lo sguardo di Matilde e mia madre che sono giusto giusto in prima fila: sento i loro sguardi su di me, ma continuo a testa alta, senza la minima esitazione, per poi tirare un sospiro di sollievo una volta rientrato in camerino. Mi svesto nuovamente, per provare i vestiti successivi.

Strap.

Non è possibile...

 

 

 

Cerco di non guardare Gaspard, durante la sua colazione frettolosa,e mi perdo ad osservare le briciole che ho lasciato nel piatto, come se potessero rivelarmi i grandi misteri della vita. Quando Annalise si alza, decretando la fine della colazione, cerco di camminare in disparte, ancora un po’ traballante sui tacchi alti. E, quando Annalise mi lascia con Gaspard sulla limousine, vorrei strozzarla. Mi perdo a guardare il paesaggio che scorre fuori dal finestrino dell’auto, faccio di tutto per non guardarlo.

Quando mi chiede del motivo della mia visita in Francia, gli dico semplicemente che l’università mi ha offerto questa opportunità per i buoni voti che ho. Non aggiungo nient’altro, limitando le parole al minimo e tornando a guardare fuori dal finestrino.

Possibile che questo viaggio mi sembri lunghissimo? Anche se so che il teatro dove si svolgerà la sfilata è a soli venti minuti dalla villa, mi sembra che non passi mai il tempo, con Gaspard che mi guarda. Così ricomincio a mordermi il labbro. Prima della fine della giornata gronderà sangue, se continuo così.

Quando, finalmente, arriviamo, Gaspard mi aiuta ad uscire dalla limousine, non che ne abbia bisogno, anzi, forse era meglio se non mi aiutava affatto, visto che mi tira leggermente verso di sé, e io rischio di cadere, su quei tacchi che sembrano trampoli. Non mi abituerò mai.

Poi, fortunatamente, Gaspard si dilegua. Annalise comincia a parlare con gli organizzatori della sfilata e io prendo appunti frettolosamente, seguendola come un cagnolino.

Quando ci sediamo, nei posti riservati, non sento più i piedi e sono ben felice di non dover più camminare.

Osservo Gaspard sfilare con il primo completo, che gli cade a pennello, ovviamente. Velocemente ne faccio uno schizzo approssimato, abbozzando il modello e i vestiti, segando sul margine le cose che per me sono più importanti.

Faccio degli altri schizzi per tutti i modelli successivo. Ad un certo punto, un’assistente si avvicina ad Annalise e le sussurra qualcosa a un orecchio. Annalise alza gli occhi al cielo e dice qualcosa che non riesco a sentire. Poi si gira verso di me.

«Matilde, per favore, vai in camerino da Gaspard, ha rotto dei pantaloni, potresti sistemarglieli?» mi chiede tornando subito a guardare la sfilata.

Rimango un attimo a bocca aperta. «Io…?» chiedo titubante. «Sì, Matilde, tu. Ho visto i tuoi vestiti, sei brava a cucire. E Gaspard ne ha bisogno. Per favore.» dice senza neanche guardarmi.

Guardo l’assistente che mi sta guardando esasperata. Sbuffo, mi alzo, ma la seguo. Ho forse scelta? Assolutamente no.

La ragazza mi indica un camerino e se ne va.

Mi fermo davanti alla porta e faccio un respiro profondo, poi prendo tutto il coraggio che ho, e busso. Aspetto fino a quando penso di sentire un “avanti”, poi entro.

Trovo Gaspard che si guarda allo specchio, cercando di capire cosa si è strappato.

Quando si gira per vedere chi è entrato, alzo una mano sconsolata, per salutarlo. Forse l’ho già detto, ma penso che qualcuno si stia divertendo da qualche parte.

Mi avvicino a lui, girandogli attorno, per capire anche io cosa si è rotto. Alla fine vedo uno strappo sulla cucitura della gamba interna. Per abitudine, faccio per abbassarmi, per osservare meglio lo strappo, ma mi fermo a metà del movimento. Cosa mi ero ripromessa? Niente più figure imbarazzanti? Penso proprio che non riuscirò a mantenere la promessa.

Indico lo strappo a Gaspard, che va dall’inguine e prosegue giù per la gamba.

Sto per chiedergli se può darmi i pantaloni, così li sistemo, ma lui mi precede, dicendo che non ha tempo, che tra poco è il suo turno e non riuscirebbe a vestirsi di nuovo.

Mi giro imbarazzata, osservando il camerino. Su un tavolino vedo degli spilli e del filo. Prendo tutto il necessario e mi avvicino a Gaspard, inginocchiandomi. Potrebbe esistere una situazione più imbarazzante? Sento gli occhiali che scivolano sul naso e li tiro su. Prendo degli spilli e comincio a chiudere approssimativamente lo strappo. A un certo punto, vedo Gaspard saltare e non oso alzare lo sguardo. Per sbaglio devo averlo punto. Dio, penserà che non sono neanche capace di cucire!

Prendo l’ago e facendo il più attenzione possibile, e cercando di toccare le gambe di Gaspard il meno possibile, inizio a cucire. Non è per niente facile, ma alla fine ci riesco. Certamente non è il mio lavoro più bello, ma sono molto felice di potermi alzare e allontanare in fretta. Sento le gambe tremare un po’ e faccio fatica a rimanere su quei dannati tacchi.

 

 

 

Mi giro e rigiro davanti allo specchio: dove diamine mi sono strappato? Sto iniziando a stancarmi, finchè non sento bussare e borbotto un “avanti”. La mia salvezza era arr...

Matilde?!

Mi saluta con un cenno della mano, imbarazzata: dannazione, avevo chiesto di chiamare qualcuno che mi aiutasse... Ok, si cuciva i vestiti da sola, ma proprio lei? Mi si avvicina per cercare di capire dove vi fosse il maledetto strappo e sembra averlo trovato perchè si china... Ma poi si blocca e si limita ad indicarmelo: lo squarcio partiva dall'inguine e finiva quasi al ginocchio. Sono un disastro!

Mi chiede di toglierli, ma mi rifiuto: manca poco al mio turno e non avrei mai fatto in tempo a rivestirmi! Lei sembra arrossire e si guarda attorno alla ricerca di qualcosa, per poi allontanarsi e tornare da me con in mano spilli, filo e ago. Si china davanti a me.

Dio, qualcuno deve avermi giocato un brutto scherzo! Non era bastata la giornata precedente, no! Adesso deve pure ricucirgli i pantaloni. Ringrazio il cielo che non puoi vedermi in faccia, troppo occupata a cucire, perchè sono decisamente avvampato. Devo anche essermi mosso perchè sento lo spillo pungere sulla gamba e sobbalzo per via del dolore. Dannati pantaloni aderenti, dannate sfilate e dannata mia madre che mi ha mandato lei!

Inizio a torturarmi nervosamente una ciocca di capelli in attesa che finisca il lavoro. Fortunatamente aspetto pochi minuti e la vedo rialzarsi, un po' barcollante su quei tacchi decisamente troppo alti.

«Rimani pure qui seduta, se vuoi riposarti un po'. Troverò qualche scusa con mia madre.» dico apparentemente indifferente prima di uscire per la sfilata. Di nuovo quel palco: spero vivamente di non aver fatto un danno così evidente nonostante il soccorso all'ultimo secondo della ragazza. Cammino respirando profondamente e ripetendomi nella mente di non abbassare lo sguardo per controllare che fine ha fatto lo squarcio. Non sento mia madre borbottare nulla di negativo: allora non si nota. Tiro un sospiro di sollievo e torno velocemente nel camerino ignorando tutti gli assistenti che mi accerchiano sbattendogli la porta in faccia.

«Merci, mi hai salvato la vita. Ti devo un favore.»

Matilde è ancora lì, seduta e cerco di non farci troppo caso mentre mi spoglio, per l'ennesima volta. Non è la prima volta che una ragazza mi vede seminudo, giusto? E lei mi ha comunque visto in quello stato ieri sera. Rabbrividisco appena per il freddo, ma soprattutto perchè sento i suoi occhi puntati su di me, nonostante io sia di spalle. Afferro una bottiglietta d'acqua posta su un tavolino e ne bevo praticamente metà, assetato e agitato. Poi mi avvicinò agli ultimi capi, grazie a Dio. Una camicia nera, un altro paio di jeans e una giacca in pelle anch'essa nera. Infilo i pantaloni senza troppi problemi: sono più larghi; poi cerco di mettermi velocemente anche la camicia, ma qualcosa deve essere andato storto perchè la testa non passa.

«Merde, tutte a me!» sbuffo sonoramente cercando di venire a capo del motivo per il quale mi fossi incastrato in quel pezzo di stoffa. Inizio a girare su me stesso, ad agitarmi e divincolarmi, per poi ricordarmi che non dovevo fare altri danni e sarebbe stato meglio calmarsi. Respiro profondamente, ma qualcosa mi irrita: la ragazza sta ridendo. Se la sta ridacchiando perchè mi vede goffo e in difficoltà. Arrossisco, ma non so se per via della rabbia o, tanto per cambiare, dell'imbarazzo. Poi sento il rumore dei tacchi avvicinarsi e delle mani posarsi sulla mia testa. Improvvisamente quel pezzo di stoffa sembra allargarsi e far passare il mio volto...non l'avevo slacciata. Ok, sono un perfetto idiota. Borbotto qualcosa che assomiglia molto ad un “grazie” mentre mi sistemo meglio la camicia.

Mi sento osservato... Alzo il volto e lei è lì a pochi millimetri da me, poco più alta grazie ai tacchi. Con quegli occhiali e i capelli raccolti non sembra più la ragazzina indifesa con addosso la mia maglia larga della sera precedente. Anche se effettivamente si diverte a rubarmi i capi, dato che indossa la dannata cravatta che cercavo furiosamente questa mattina. Arrossisco, in silenzio. Non so cosa dire o come comportarmi. Penserà sicuramente che sono un idiota: perchè mi faccio tanti problemi?

Improvvisamente vedo gli occhiali di Matilde scivolarle pericolosamente verso la punta del naso e li blocco con un dito per poi sistemarglieli. E' vicinissima. I nostri volti quasi si sfiorano e posso sentire il suo profumo leggero e delicato, come lei.

«Gaspard.»

Mi sento chiamare, probabilmente da un assistente fuori dalla porta, e torno alla realtà. Mi allontano da lei ringraziandola per l'ennesima volta mentre afferro la giacca di pelle che mi infilo mentre esco di nuovo dal camerino per l'ultima sfilata.

 

 

 

Intanto che Gaspard esce dal camerino, mi siedo e comincio a fare uno schizzo del vestito che ho appena visto. Trovo dei fogli e delle matite e comincio a disegnare. Sto ancora finendo lo schizzo, quando Gaspard torna. Alzo appena lo sguardo e guardandolo sistemo alcuni dettagli sul foglio. Arrossisco quando mi guarda e mi ringrazia. «Figurati, è quello per cui sto studiando...» sussurro sfumando un'ombra. sento il fruscio della stoffa e alzo lo sguardo. Gaspard si sta spogliando tranquillamente davanti a me. Distolgo lo sguardo. Come non detto. Possibile che per un giorno non possiamo rimanere in una stanza senza situazioni imbarazzanti? Chiedo forse troppo? Continuo a disegnare, fino a quando non sento Gaspard borbottare qualcosa sottovoce. Alzo gli occhi e lo vedo incastrato nella camicia che non ha sbottonato.

Rido vedendolo agitarsi. Mi alzo e mi avvicino a lui, cominciano a slacciargli i bottoni, sorridendo. Quando si è liberato dalla "tirannia" della camicia, ci troviamo a pochi centimetri l'uno dall'altro. Il mio sorriso scompare. Gaspard mi guarda e allunga una mano verso di me, prende gli occhiali e me li sistema sul naso. Fortunatamente, qualcuno bussa alla porta, chiamandolo, liberandomi dall'impiccio di dire qualcosa. Non saprei cosa inventarmi.

Così rimango come una stupida al centro del camerino. Cosa mi sta succedendo? Perchè mi comporto così? Non riesco più a riconoscermi. Mi stropiccio gli occhi. Dove sono finiti i miei obiettivi? E perchè mi comporto in maniera così infantile?

Arrossisco per niente e balbetto. Non è da me. Sono io quella forte e sicura. Sicura delle mie idee, del mio futuro. Io devo portare avanti la mia vita, io voglio essere ricordata. Non voglio diventare come mia madre, sola e dimenticata da tutti, dimenticata perfino da sè stessa. Creatura invisibile, coperta dalla malattia. Dalla malattia peggiore, per me. L'Alzheimer.

Neanche mia madre si ricorda di me, e questa cosa deve cambiare. Asciugo la lacrima solitaria che segna il mio viso, prendo i disegni ed esco. Quando torno al mio posto Gaspard ha già finito di sfilare, fortunatamente. Perseverare nel mio obiettivo. Solo questo. Mi obbligo disegnare i modelli successivi. Questo è il mio lavoro, la chiave per i miei sogni. Seguo Annalise, prendo appunti. Aspettiamo Gaspard e ci avviamo alla limousine. Quando Gabriel parte, prendo il cellulare e chiamo Amelia. E' da tanto che non la sento. E' da tanto che non parlo in italiano, quanto mi mana la mia lingua! Ma soprattutto, ho bisogno di parlare con qualcuno che mi capisce, che mi conosce. Amelia mi risponde al quinto squillo.

«Bonjour Matilde!» esclama felice. Sorrido anche io. Questo mi fa capire come una semplice voce può tranquillizzarmi, farmi sentire a casa, anche a chilometri da Milano. «Hola Amelia!» dico sorridendo. Il nostro stupido gioco, quanto mi mancava! Salutarci ogni volta in una lingua diversa. Parlando comincio a giocare con la punta della treccia. «Ho combinato un casino...» guardo da sotto gli occhiali Gaspard. Spero che non capisca l'italiano. «Sai la famiglia in cui sto... Sai che hanno un figlio... Sì, lui... Ecco, ho fatto giusto un paio di brutte figure. In bagno, nel letto.... No, così suona male... Stavo uscendo dalla doccia... esatto. Poi te lo racconto meglio, adesso... esatto. No, non sono fortunata, sono disperata... non matta. Non so come comportarmi e... di certo non ascolterò il tuo consiglio!» rido guardando fuori dal finestrino. Quando arriviamo alla villa mi sento molto meglio, sono riuscita ad ignorare Gaspard, cosa per niente facile. Prometto ad Amelia di scriverle una mail con dentro tutto quello che non le ho detto.

Appena scendo dalla limousine, mi fiondo nello studio. Per prima cosa, mi tolgo quei dannatissimi tacchi e li butto a in qualche maniera in un angolo. Poi inizio a spogliarmi, senza curarmi della porta aperta. Tolgo i pantaloni e la camicia e li butto su una sedia, poi rendo la mia adorata magli larga e i pantaloni della tuta, e mi sento finalmente a posto con me stessa. Prendo gli appunti e i disegni e li guardo. La moda maschile non è il mio forte, ma voglio diventare brava anche in questo. Peccato che dopo poco ci rinuncio, visto che mi viene in mente solo Gaspard. Dannazione. Mi alzo e mi metto al lavoro, devo ancora finire il vestito che ieri sera mi ha tolto Gaspard.

 

 

 

Quando torno alla limousine, mia madre e Matilde sono già lì che mi aspettano. Come all'andata, mi ritrovo nei sedili posteriori in compagnia della ragazza che però, questa volta, pensa bene di ignorarmi mettendosi a parlare al telefono, nella sua lingua per giunta. Riesco a capire solo qualche minima parola della conversazione, ma capisco che si tratta di una sua cara amica.

Tornati a casa, chiude la chiamata e si precipita nella mia camera, mentre io mi fermo in giardino accedendo una sigaretta.

«Gabriel...» chiamo quando questo scende dalla macchina e mi si avvicina chiedendomi se avessi bisogno di lui. «Mi dovresti aiutare a portare un letto in più in camera mia. Così Matilde non si dovrà per forza spostare.»

Annuisce e, finita la sigaretta, saliamo le scale e ci dirigiamo verso la parte di villa che è in ristrutturazione. Dopo aver cercato in diverse stanze troviamo un letto non a baldacchino e iniziamo a trascinarlo per i corridoi con non poca fatica. Dannazione se pesa! Spero solo che l'italiana non si lamenti ancora e voglia andarsene in un'altra stanza perchè lo riporta lei indietro questo.

Dopo venti minuti buoni riusciamo a raggiungere la mia stanza. Lei è nello studio e probabilmente sta cucendo, i vestiti lasciati sul letto. Sistemiamo il letto vicino alla finestra e ringrazio Gabriel prima che esca dalla camera.

Mi svesto velocemente rimanendo solo in pantaloni e decido che è meglio farmi una doccia: laverò via tutto lo stress di quell'odiosa mattinata. Vado in bagno chiudendo la porta a chiave e, dopo essermi tolto gli ultimi indumenti, mi infilo sotto la doccia lasciando che l'acqua calda mi scivoli addosso; mi passo una mano fra i capelli bagnati chiudendo gli occhi e cercando di pensare il meno possibile a quegli ultimi due giorni.

Dopo un buon quarto d'ora esco asciugandomi per bene per poi legarmi un asciugamano alla vita. Lascio i capelli un po' bagnati e torno in camera. Matilde è ancora nello studio. Mi lascio cadere sul mio letto ignorando che fosse ricoperto dai vestiti della ragazza: manca ancora un'ora prima di pranzo e non so che fare. Alla fine, stanco, mi addormento rannicchiato su un fianco.

 

 

 

Continuo a lavorare per un po', voglio finire questo abito! Ma ha delle parti che sono un incubo! non ci riuscirò mai! Guardo l'ora sul cellulare. Oddio1 E' tardissimo! Lascio da parte il vestito e inizio a frugare tra vestiti, un giorno o l'altro, devo decidermi a sistemare tutto questo casino. Prendo un vestito verde acqua semplice e mi allaccio una cintura colorata per dare un tocco creativo. Prendo una giacca nera e la indosso. Evito completamente le scarpe assassine di questa mattina e ne prendo un paio più basse, ma sempre nere.

Prendo un paio di forcine e mi sistemo la treccia al volo, non ho la minima voglia di prepararmi, se fosse per me, scenderei anche in tuta. Ma non posso. Esco dallo studio e nella fretta vado quasi a sbattere contro il letto. Il letto? Guardo bene la stanza. C'è un letto in più. Come è possibile? E su un letto è sdraiato qualcuno. Ed è sdraiato sui miei vestiti! Mi avvicino lentamente. E' Gaspard, ovviamente. E, siccome non siamo destinati a vivere situazioni normali e non imbarazzanti, indossa solo un asciugamano. Per un attimo, penso di lasciarlo lì dov'è, fatti suoi se Annalise lo sgriderà per il ritardo. Vado avanti di qualche passo e poi torno indietro. Non sono così cattiva. E lui è stato gentile on me.

Mi avvicino lentamente l letto e mi siedo sul bordo. Mi mordo il labbro. Ecco la parte difficile. Gli poso una mano sulla spalla e lo scuoto leggermente, chiamandolo per nome. La treccia scivola in avanti, gli arriva giusta giusta sul petto. «Gaspard... Farai tardi per il pranzo...»

Peccato che il ragazzo mi ignora totalmente e si gira dall’altra parte. Alzo gli occhi al cielo. Perché? Perché!

Mi alzo dal letto e vado dall’altra parte del letto. Mi metto di nuovo davanti al viso di Gaspard e ricomincio a chiamarlo. Lo scuoto un po’ più forte, cercando di svegliarlo. Se non si sveglia in fretta, ci faremo sgridare entrambi.

«Gaspard!» lui apre gli occhi all’improvviso e me lo trovo davanti. Balzo indietro e cado per terra. Benissimo. Mi alzo dolorante, aiutandomi con il letto. «Dobbiamo scendere per il pranzo, tua madre si arrabbierà se non fai in fretta a… vestirti…» dico indicando l’asciugamano stretto in vita.

Mi avvicino alla porta e scendo le scale. Avremo mai un incontro non imbarazzante? 

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Capitolo 5
*** Paris ***


Finito quel dannato pranzo a cui ero arrivato in orario solo perchè Matilde ha avuto l'accortezza di svegliarmi, torniamo nella mia stanza. Non avrà ancora intenzione di mettersi a lavorare sui vestiti, spero! Non sopporterei di passare il resto della giornata a guardare il soffitto mentre lei cuce.

Eppure entra in quel dannatissimo studio e alzo gli occhi al cielo chiedendomi cosa avessi fatto di male. Poi mi viene un'idea e mi cambio velocemente indossando una maglia nera con il nome di uno dei mie gruppi preferiti e un paio di jeans larghi e strappati. Poi mi metto davanti alla porta dello studio e la guardo.

«Siccome non ho intenzione di stare qui dentro in attesa di un miracolo, vuoi venire a fare un giro a Parigi?» vedo i suoi occhi illuminarsi, probabilmente non vi è mai stata, e poi cercare tra i vestiti il più adatto. «Guarda che con me puoi indossare benissimo una maglia e un paio di pantaloni comodi. So che ti senti meglio che con tutti quelli che hai prodotto negli ultimi mesi, anche se sono davvero belli... Come vedi anche io non ho intenzione di indossare nulla di elegante e non mi faccio problemi come mia madre. Sentiti libera.»

Mentre cerco tra le mille cose, il mio cellulare e le chiavi, la vedo affiancarmi vestita con una maglia e dei pantaloni larghi. Sorrido appena e le faccio cenno di seguirmi, mentre afferro anche una giacca di pelle ed esco dalla stanza. Scendiamo dalle scale proprio nel momento in cui sta passando mia madre che ci squadra poco contenta dell'abbigliamento. Mi limito a farle un gesto sbrigativo e poco interessato con la mano e la sorpasso senza molti problemi. Non sono più un bambino e posso decidere da solo come vestirmi. Vedendo l'espressione stupita e quasi scandalizzata di Matilde rido.

«Cos'è quella faccia? Non dovresti spaccarti in due giorno e notte per non farti sgridare da mia madre.» rispondo semplicemente arrivando in giardino e mi avvio verso il garage, dove c'è la mia Harley Davidson. Altro che limousine, io amo quella moto. Passo un casco alla ragazza mentre mi infilo il mio e la invito a sedersi dietro di me. «Se hai paura aggrappati.» Infilo la giacca in pelle e metto in moto. La sento stringere le dita sulla mia schiena e ridacchio appena mentre parto e in pochi secondi sorpasso il cancello della villa. Adoro le moto in generale perchè è molto più semplice e veloce spostarsi con esse: le code le sorpasso a zig zag e posso sgusciare facilmente tra una macchina e l'altra.

In meno di venti minuti raggiungiamo Parigi e accosto dove trovo i parcheggi per le moto. Non faccio in tempo a togliere il casco che una marea di fotografi, fan e turisti vari ci accerchia muniti di macchine fotografiche e strillanti come cornacchie. Guardo Matilde e la vedo visibilmente a disagio, mentre cerca di nascondersi dagli obbiettivi enormi dei paparazzi. La prendo per mano e inizio a correre trascinandomela dietro con poca grazia. Corro sicuro e veloce, mentre sento una marea di persone inseguirmi. Improvvisamente sbocco in un vicolo e stringo a me la ragazza tappandole la bocca. I curiosi ci superano e iniziano a guardarsi intorno delusi di averci perso di vista. Quando ormai se ne sono andati, lascio l'italiana e mi infilo gli occhiali da sole, mentre lei inizia a sgridarmi. Mi ero dimenticato che dopo la mattinata con quei tacchi, probabilmente correre non era stata la migliore delle idee.

«Je suis désolé, ma non mi piaceva vederti a disagio. E poi sono dei seccatori sempre pronti a sparlare senza sapere nulla.» le rivolgo un sorriso a mo di scuse, mostrando la fossetta, e mi appoggio ad un muro. «Bene. Ora che li abbiamo seminati, dove vorresti andare? Sei mai stata a Parigi?»

Mi fa cenno di no col capo e annuisco appena. La meta migliore è una e una sola: la Torre Eiffel. Le sussurro di seguirmi, ma quando mi chiede dove avessi intenzione di andare, rimango vago. Cammino sicuro e deciso per le strade che ormai conosco meglio della mia cabina armadio e quando so che stiamo per arrivare le intimo di chiudere gli occhi. Alza un sopracciglio guardandomi diffidente.

«Fidati. Voglio farti una sorpresa. Non faccio scherzi. Je jure.» metto una mano sul cuore sollevando l'altra e lei ride appena per poi annuire e chiudere gli occhi. Sorrido e la afferro per un braccio sussurrandole di fidarsi e farsi guidare. Dopo pochi minuti mi fermo.

«Puoi aprire gli occhi, Matilde...» dico in un soffio mentre accendo una sigaretta e aspetto la sua espressione di meraviglia e sorpresa.

 

 

 

Appena finiamo di mangiare, mi chiudo di nuovo in studio, decisa a finire il vestito. Almeno fino a quando Gaspard non entra nello studio, tutto vestito di nero. Alzo solo per un attimo lo sguardo, poi torno a lavorare al vestito. Almeno fino a quando non pronuncia quel magico nome. Parigi.

Alzo gli occhi di scatto. Parigi. In un mese che sono qui, non ci sono mai andata. Mi si illuminano gli occhi. Mi alzo e comincio a cercare qualche vestito, pensando a quale può essere il più adatto.

Quando Gaspard mi dice che posso vestirmi come voglio, mi si illuminano ancora di più gli occhi.

Mi avvicino alla mia valigia che è rimasta chiusa da quando sono arrivata qui. Prendo dei jeans scoloriti e strappati e una maglia nera, abbastanza larga, a maniche lunghe, a cui ho fatto dei buchi verso il fondo, sulla spalla e su tutta la schiena. Mi avvicino al mucchio delle scarpe, e scostando tutte quelle con i tacchi, trovo i miei adorati anfibi neri. Quanto mi mancavano!

Mi cambio velocemente, disfo la treccia e lascio i capelli sciolti sulle spalle. Mi sistemo gli occhiali e mi avvicino a Gaspard, sorridendogli felice.

Lo seguo, e quando Annalise ci guarda male, distolgo lo sguardo, un po’ in imbarazzo. Ma quando Gaspard la congeda con un gesto, lo guardo sbalordita. Io non mi permetterei mai di comportarmi così con mia madre.

«Tutto quello che faccio qui, lo faccio per migliorare, non per non farmi sgridare da tua madre…»

Lo seguo verso il garage, dove mi trovo davanti una moto. Non chiedetemi quale, per me sono tutte uguali. Però è una moto! Mi passa il casco e con qualche difficoltà riesco a infilarlo, e mi siedo dietro a Gaspard. Arrossendo gli passo le braccia in vita e lo stringo. Non sono mai stata in moto, nessuno mi ci ha mai portata, e io non l’ho mai chiesto a nessuno.

Sento il vento che mi scompiglia i capelli, che mi entra nei buchi della maglia, mi sfiora con i tentacoli freddi la pelle scoperta delle gambe. Chiudo gli occhi e appoggio il viso sulla schiena di Gaspard.. forse non riuscirò a ringraziarlo abbastanza per il giro di Parigi che mi sta offrendo.

Arriviamo in poco tempo, veloci sulla strada, e Gaspard parcheggia in un posto riservato alle moto. Appena lui si toglie il casco, viene accerchiato da paparazzi, fan e turisti, veniamo accerchiati da flash abbaglianti e da frasi sconnesse e sovrapposte l’una all’altra. Mi riparo il viso con un braccio, non sono assolutamente abituata a tutta questa luce. Poi sento qualcosa, o qualcuno, che mi prende per un braccio senza alcuna delicatezza, e mi trascina da qualche parte. I piedi doloranti mi urlano pietà, ma Gaspard continua a correre, trascinandomi per mezza Parigi, fino a quando non mi stringe a sé e mi tappa la bocca con una mano. Vedo di sfuggita i nostri “inseguitori” guardarsi in giro smarriti e poi disperdersi per le vie di Parigi.

Quando mi lascia, mi piego in due per riprendere fiato. «Sei matto! Mi hai trascinato per mezza Parigi… non era di certo questo che immaginavo quando mi ha proposto il giro… Mi fanno un male cane i piedi!» però mi zittisco quando mi dice che non gli piaceva vedermi a disagio. E poi di cosa dovrebbero sparlare i paparazzi? Non stiamo facendo niente… ma forse loro non lo sanno.

Quando alzo lo sguardo, lo vedo sorridere. È la prima volta che lo vedo sorridere, ed è la prima volta che gli vedo la fossetta. Mi viene voglia di allungare una mano e sfiorarla, ma mi trattengo. Che idee strane che mi vengono in mente.

Scuoto la testa, quando mi chiede se sono mai stata a Parigi. Ho davvero tantissima voglia di visitarla, non sto più nella pelle.

Seguo Gaspard che cammina sicuro tra le vie di Parigi. Provo a chiedergli dove mi sta portando, ma non accenna a dirmi niente di specifico. Inizio a mordermi il labbro, curiosa.

Ad un certo punto mi chiede di chiudere gli occhi. Alzo le sopracciglia. Certo.. correre per Parigi, fatto. Figuracce in bagno, in camerino e in camere, fatte. Poi, cosa devo fare ancora? Però quando Gaspard “promette”, non posso fare altro, se non ridere e chiudere gli occhi, lui mi prende per un braccio e mi fa camminare un po’. La tentazione è grande, ma non sbircio.

Quando mi dice che posso aprire gli occhi, mi vedo davanti la torre Eiffel, siamo quasi sotto la grande torre simbolo di Parigi. Mi viene voglia di saltellare lì, attorno, è bellissima. Mi giro verso Gaspard, felicissima.

«Grazie! È… bellissima!» mi avvicino a lui. E gli tolgo la sigaretta dalle mani, gettandola lontano. «Adesso cosa mi fai vedere?» chiedo emozionata.

Gaspard guarda la sua sigaretta e poi me. Io alzo le spalle. Il fumo fa male. «Allora?»

Il ragazzo mi prende per mano e mi porta in una pasticceria lì vicino. La commessa lo saluta, il che può dire due cose: o si conoscono di vista, o lo conosce per fama. Non che mi interessi. Ci sediamo a un tavolino molto vintage in ferro battuto e Gaspard ordina alcuni dolci tipici, due per ogni tipo. Tutta felice guardo il piatto con i dolci e mi brillano gli occhi. Al diavolo la dieta, e al diavolo Lisa, tanto non sarà mai come lei, e mi piace mangiare.

Soprattutto i dolci.

Prendo un pasticcino e lo mangio. È buonissimo! Guardo Gaspard. E ne prendo un altro. E un altro. Sono tutti troppo buoni!

Poi Gaspard paga e mi sento un po' in colpa. Sono uo quella che ha mangiato di piú, provo a convincerlo a farmi pagare la mia parte, ma lui declina l'offerta con un gesto della mano.

Seguo Gaspard per Parigi, non so dove mi vuole portare, ma dopo che mi ha fatto vedere la torre Eiffel, mi fido di lui e delle sue scelte, quindi lo seguo. Peccato che dopo poco il silenzio che cade tra noi diventa davvero tanto imbarazzante. Cosí Gaspard mi chiede cosa studio, ma non è forse evidente?, e qual'è il mio sogno. «Studio moda a Milano, sono una delle piú brave del mio corso...» dico distogliendo lo sguardo. Per l'altra domanda... Non so cosa si aspetta Gaspard. Forse una ragazza della mia etá penserebbe all'amore, alla famiglia... Cosa ne so? So che i miei sogni non riguardano tutto questo. So che i miei sogni sono strani. Forse stupidi.

Forse non dovrei dirglielo, chissà cosa penserà di me... che sono una stupida... illusa.. ho dei sogni così assurdi, che forse più che sogni sono paure,. Ma dopo tutto, rimarrà qui per poco, poi tornerà alla sua vita, alla sua fama, e io tornerò ai miei sogni-paure. Quindi, perchè non dirglielo? A me non cambia niente... «E... probabilmente è stupido, ma... il mio sogno è... non essere dimenticata. Diventare qualcuno, non perdere la memoria del mio nome...» non lo guardo, non voglio leggergli in faccia quello che pensa di me. Guardo la strada, ma mi sento in dovere di dargli una spiegazione. «Mia madre soffre di alzimer, ormai non sa neanche il suo nome. Nè il mio. Per lei non sono nessuno, quasi una sconosciuta. Io... non voglio essere dimenticata, come mia madre...» non so quanto tempo ho parlato, so che ho fatto fatica a non piangere. Non voglio piangere davanti a Gaspard, non voglio sembrare stupida e debole, penso che una sia più che sufficiente.

Ci fermiamo davanti alla moto, non ricordo neanche come ci siamo arrivati. Ma non voglio parlare con Gaspard, dopo che gli ho raccontato tutte queste cose mi sento fragile, nuda... senza nessuna protezione contro il mondo. Prendo il casco e lo indosso e salgo in moto. Gaspard non ha ancora detto niente, non so se per lasciarmi del tempo, perchè ha cambiato opinione su di me, se aveva un'opinione, perchè mi crede stupida o ingenua. Non posso dire di preferire il suo silenzio, perchè sono combattuta. Una parte di me vorrebbe sapere cosa ne pensa, un'altra pensa che sia meglio così.

Corriamo veloci sulle strade di Parigi, attraversiamo un ponte e siamo sull'Ile de France, Gaspard parcheggia la moto, e fortunatamente, questa volta, non ci sono curiosi e paparazzi ad aspettarci. Quando tolgo il casco, posso vedere davanti ai miei occhi Notre-Dame. L'ho sempre vista in fotografia, vederla dal vivo è... immensa. Posso vedere i Gargoyle ghignarmi dalle guglie alte. E' un inno all'immensità e alla solennità. E' antica, e mi infonde profondo rispetto.

Chissà come ha fatto a pensare una struttura del genere, l'architetto che l'ha progettata. Quanta fantasia e creatività doveva contenere la mente di quell'uomo. Chissà se io riuscirò mai ad avere anche solo un decimo della sua fantasia...

Penso di essermi persa a guardare la cattedrale, senza prestare la minima attenzione a Gaspard. Mi risveglio solo quando mi chiede a cosa sto pensando.

E... no, questo non glielo dico. «A niente... entriamo, dai!» lo prendo per un braccio e lo tiro verso l'entrata di Notre-Dame. All'interno della cattedrale mi sento una piccola formichina. La navata è enorme e altissima. Le vetrate in alto, fanno entrare la calda luce del pomeriggio autunnale, illuminando e giocando con i colori sui muri e sul pavimento della cattedrale. Mi inginocchio e faccio il segno della croce, e cammino lungo la navata.

Pensare a mia madre, parlarne con Gaspard, mi ha fatto ricordare le sue storie e le sue foto. Quante volte ho visto l'album delle foto, con lei che percorreva una navata simile a questa, il vestito bianco, ampio, come se fosse una principessa d'inverno, con i cristalli cuciti sulla gonna e sul corpetto, lo scialle in soffice pelo candido, i capelli acconciati e cosparsi da perle e cristalli. Felice. E poi mio padre. Anche lui raggiante nel suo completo candido. I protagonisti del loro amore.

Chissà se mio padre si aspettava quello che gli è successo. Chissà se si aspettava di morire, sei anni dopo, per mano di un delinquente, mentre faceva il suo lavoro e difendeva la gente...

Non so che fine ha fatto Gaspard, ma io entro in un banco e mi inginocchio. E' da tanto che non prego, ma qualcosa mi spinge a farlo. A provarci. Dopo tutto, cosa mi è rimasto? Anche la speranza sta per esaurirsi. Forse non prego neanche, chiedo solo a un Dio, se esiste, di aiutarla. Di aiutare mia madre.

Sento una mano sulla spalla. E' Gaspard. Sento gli occhi lucidi, ma penso di non star piangendo. Non ancora, almeno. Mi passo le mani sugli occhi e li stropiccio, alzandomi in piedi.

 

 

 

Mi getta la sigaretta dalle mani curiosa di conoscere la prossima meta. Sorrido prendendola per mano e la porto in una delle mie pasticcerie preferite, dove fanno dolci fantastici. Saluto amichevolmente la commessa e ordino tutti i dolci disponibili e due per tipo in modo da poterli mangiare entrambi. Ci sediamo in un tavolino e lei inizia subito a gustarseli. Sorrido compiaciuto vedendo che le piacciono e soprattutto che non fa troppi complimenti a mangiare: ho notato che a pranzo stava attenta a tutto ciò che metteva in bocca e guardava con la coda dell'occhio mia sorella. Detesto le ragazze che si trattengono e fanno tutte quelle stupide diete anche se hanno un fisico già perfetto e Matilde di sicuro ce l'ha...Ma che mi metto a pensare!

Pago rifiutando la sua proposta di fare a metà: sono sempre e comunque un gentiluomo e non si fa mai pare una signorina. Usciamo e ho già in mente la prossima meta così ci avviamo verso la moto, dato che è piuttosto lontana dalla zona di Parigi in cui siamo.

«Cosa studi, Matilde? E qual'è il tuo sogno?» le chiedo per rompere quel silenzio imbarazzante che si è creato da quando abbiamo lasciato la pasticceria. Mi dice che studia, ovviamente, moda a Milano ed è una delle migliori del corso; si spiega il premio di soggiornare in Francia per nove mesi. Sulla seconda domanda rimane per diverso tempo in silenzio e mi mordo un labbro: probabilmente l'ho messa a disagio. Sto per porle una domanda di riserva, ma in quel momento mi spiega il suo sogno, ma allo stesso tempo la sua più grande paura. Mi racconta di sua madre, malata e del fatto che non si ricordi nemmeno come si chiami sua figlia. Mi si stringe il cuore e schiudo le labbra per cercare di consolarla, ma mi accorgo che non saprei cosa dirle: non ho la presunzione di pensare di poterla comprendere, in fondo non ho mai avuto a che fare con una malattia degenerativa di quel genere. Posso solo immaginare la sua sofferenza.

Raggiungiamo la moto e le passo il casco mentre tolgo le catene che la tenevano legata; monto con lei dietro e riparto cercando di pensare a qualcosa da dirle: non mi sembra giusto che Matilde si sia appena confidata con me e io non so nemmeno come fare per rincuorarla. Dopo una decina di minuti raggiungiamo la meta a cui avevo pensato precedentemente e parcheggio di nuovo, proprio davanti a una delle cattedrali più belle e famose d'Europa: Notre Dame. Sorrido vedendola incantata e mi ritrovo a pensare a quanto desidererei sposarmi proprio lì, in uno dei simboli della Francia.

«A che pensi, Matilde?» domando spostando lo sguardo dall'edificio al suo volto; non risponde, ma mi prende per mano e mi trascina all'interno. Entro con un segno di croce e una genuflessione e in quei due secondi perdo Matilde, o meglio, non bada più a me. Cammina nella navata centrale fino a raggiungere una panca e vi si inginocchia su. Abbozzo un sorriso e mi avvicino a delle candele: lascio cadere qualche moneta all'interno della cassa dove raccoglievano le offerte e accendo una candela pensando a Matilde e a sua madre. Hanno già sofferto abbastanza, fa che il suo sogno possa realizzarsi...

Mi avvicino a lei silenziosamente e la vedo con lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi lucidi. Mi siedo e le poso delicatamente una mano sulla spalla, per cercare di esserle vicino, come non ero riuscito qualche minuto prima. «Forse non ricorda il tuo nome, ma non potrà mai dimenticarsi che sei sua figlia. Un genitore non può non riconoscere la persona a cui ha dato la vita: sono legati inesorabilmente. Lei vorrebbe vederti felice, forte e desiderosa di raggiungere i tuoi obbiettivi. Pensa a lei come era prima, non com'è ora. Pensa a quanto ti ama. Sii forte, per lei e per te stessa, Matilde.»

Chiudo gli occhi respirando profondamente mentre ripenso al desiderio espresso poco prima. Poi li riapro e le sorrido, anche se flebilmente, la prendo per mano ed esco dalla cattedrale. Guardo l'orologio del campanile e realizzo che ormai si è fatto tardi. «Purtroppo è ora di tornare...» sospiro dirigendomi verso la moto. Mi infilo il casco e sto per passarle il suo, ma mi accorgo che si sfrega le braccia e trema appena. La temperatura si sta abbassando; senza pensarci due volte le metto sulle spalle la mia giacca di pelle: sia mai che mia madre si arrabbi perchè si ritrova l'assistente ammalata. Sorrido vedendo che è gigante per lei: anche se si impossesserà del mio guardaroba, adoro vederla con vestiti enormi.

Sento l'aria gelata scorrere sotto la maglia e farmi rabbrividire, mentre torniamo verso la villa a tutta velocità. Una volta arrivati porto la moto in garage e prendo Matilde per mano: passiamo per un'entrata alternativa in modo da evitare mia madre e le sue inutili lamentele. Saliamo in camera e io mi butto esausto e infreddolito sul mio letto ignorando che sia ancora ricoperto dai vestiti della ragazza. Matilde, ovviamente, si dirige nel suo studio: che ci troverà di tanto interessante in un ammasso di vestiti? Sospiro e dopo qualche minuto decido di seguirla: sta sistemando ancora gli abiti per sé e si è cambiata. Indossa una mia maglia e un paio di pantaloni larghi e comodi. Sorrido spostando la poltrona, ignorando che sia ricoperta di stoffa e vestiti, e mi siedo vicino a lei per osservarla al lavoro.

«Non so cucire...» sussurro quasi impercettibilmente e quando vedo la sua espressione confusa mi passo una mano tra i capelli imbarazzato. «Pensavo: i miei genitori sono stilisti e io non so nemmeno come si tiene in mano un ago...». La sento ridere e mi avvicina due pezzi di stoffa a caso e mi mette in mano ago e filo. Prima mi mostra come fare e poi mi invita a provare. Inizio lentamente ad imitarla concentrato e rigido mettendoci tutto il mio impegno. Dopo circa cinque minuti finisco e faccio una smorfia vedendo i due pezzi di stoffa cuciti fra loro: sono un po' storti e in alcuni punti rovinati dal filo. «Sono un disastro!» poi guardo le dita ricoperte di buchetti nei punti in cui mi sono punto e tutti sanguinanti. «Ecco perchè cucite sempre voi donne: avete le mani più piccole e più fini per queste cose.»

Piagnucolo cercando di difendermi, imbarazzato. Ride ancora e disfa il casotto che ho fatto, per poi rispiegarmi lentamente come fare, ma questa volta, per il bene delle mie mani, mi rifiuto categoricamente di riprovare.

 

 

 

Sorrido tristemente alle parole di Gaspard. È bello pensarci, ma… non è vero, o forse non ne ho la certezza. E la mia vita si basa su certezze. Ma per oggi ho pensato abbastanza a cose tristi. Stringo la mano del ragazzo come se fosse una cosa normale, e lo seguo fuori da Notre-Dame. Lancio un ultimo sguardo alla grandezza della cattedrale. «Ci rivedremo… un giorno o l’altro…» le sussurro.

Un ultimo saluto.

E poi inizio a tremare dal freddo. Forse indossare solo una maglia bucata, non è stato il massimo. Dannazione!

Gaspard probabilmente mi vede tremare, perché mi passa la sua giacca. È calda, e sa di lui. Un profumo forte e mascolino. Mi stringo le braccia attorno alla vita, la giacca mi è enorme, ma non sento più freddo. Faccio un timido sorriso a Gaspard e sussurro un: «Grazie».

Salgo dietro di lui sulla moto, e lo stringo. Sento che trema un po’ e mi sento in colpa. Probabilmente avrà freddissimo. Che egoista che sono!

Quando arriviamo alla villa, mi catapulto nello studio, mi sono concessa un pomeriggio di svago, ma adesso devo assolutamente finire il vestito. Mi cambio velocemente così da essere più comoda.

Dopo poco entra Gaspard e si siede su tutte le mie stoffe e vestiti. Faccio una smorfia. Già odio stirare, e cerco di farlo il meno possibile, facendo così non mi aiuta di certo.

Poi sussurra quelle tre parole. “Non so cucire.” Come fa a non saper cucire? Sua madre è una stilista famosa in tutta Francia, e lui non ha mai preso in mano un ago! Questa poi! Devo rimediare. Ridacchio prendendo due pezzi a caso tra le stoffe e faccio un paio di punti, per fargli vedere come si fa. Poi gli passò l’ago e gli metto sotto gli occhi le stoffe.

Guardarlo mentre cuce, mi fa sbellicare dalle risate. È una frana! Non fa un punto dritto o giusto. Dopo poco ci rinuncia, io prendo quello che ha fatto e lo disfo, provando a fargli rivedere come si fa. Lui scuote la testa rassegnato e mi fa vedere i polpastrelli bucherellati. Io sorrido e gli faccio vedere le mie dita.

«Io lo faccio apposta, per tenermi sveglia…» dico mordendomi il labbro. Gaspard mi guarda male. Cosa ci posso fare? Quando devo finire un vestito e sono stanca, devo trovare qualcosa per svegliarmi!

Guardo distrattamente il cellulare. È tardissimo!

«Gaspard! È tardi! Tra poco dobbiamo andare a cena!»

Lo spingo via dalla poltrona, guardando tutti i vestiti stropicciati.

Dannazione!

Ne cerco altri in giro per lo studio, ma riesco a trovare solo dei pantaloni grigio perla a sigaretta a vita alta e una maglietta a sbuffo bianca.

Mi sistemo i capelli in una crocchia veloce e mi sistemo gli occhiali. Cerco tra le scarpe qualcosa di adatto. E basso. Stavo cosí bene con i miei anfibi! Alla fine prendo delle parigine con poco tacco, nere. Gaspard è scomparso, probabilmente è andato anche lui a cambiarsi. Infatti lo trovo in camera. Ha indossato dei pantaloni grigi e una camicia bianca. Gli sorrido e scendo dalle scale. Quando arriviamo in salone, Annalise non ci saluta. Sará ancora arrabbiata per questo pomeriggio? Spero di no! Io mi sono divertita così tanto. Mangiamo in silenzio, nessuno parla. Cosí, quando finalmente abbiamo finito, sono felice di tornare in camera. E non ho piú voglia di cucire. Ho tempo per finire quel dannato abito. Mi tolgo tutto e indosso la maglia-pigiama. Sto per entrare nel letto che ha portato Gaspard, quando mi ferma e mi indica il letto a baldacchino. Intanto si è cambiato anche lui. Indossa solo dei pantaloni larghi e mi guarda con il suo sguardo che non ammette repliche. Non che mi interessi molto. Alzo gli occhi al cielo. «Il letto è il tuo.» lui scuote la testa. Cosa posso fare? Mi alzo e gli metto una mano sul petto, lo spingo indietro, indietro, indietro, fino a quando non trova il bordo del letto e cade su di esso. Prendo le coperte e lo copro. «Tu stai lì. A me va benissimo l'altro letto.» Non so come ho fatto a fare una cosa del genere. Non è assolutamente da me. Forse è perché gli ho raccontato quelle cose sua mia mamma. O perchè lui mi ha consolato. O perchè è sempre gentile nei miei confronti. Non lo so. Spengo la luce e mi infilo nel letto. Mi addormento subito dopo senza pensare a niente.

 

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Capitolo 6
*** Oui ***


Matilde si sveglia presto, troppo presto. Adesso, non so se sono io che ho il sonno troppo leggero, oppure è lei che che soffre di insonnia. Forse è più probabile la seconda, ho sempre dormito senza problemi, anche quando Liz era piccola e sbraitava come se la stessero uccidendo, il che non è un eufemismo. Da piccolo mi chiedevo come una piccola creatura, potesse fare così tanto rumore. Ma comunque, ogni notte riuscivo ad addormentarmi. Il rumore non mi ha mai causato troppo fastidio, anche perchè ci ho fatto l'abitudine. Le città sono chiassose, i film sono chiassosi, con voci che si sovrappongono l'una all'altra, le interviste, i fan, i paparazzi. Tutto nel mondo è chiassoso, quindi, o ci convivi o ci convivi. E io ho imparato a convincerci. Ma con Matilde è diverso. Mi rigiro nel letto un paio di volte, ma non ci riesco. Mi viene voglia di andare nello studio, prenderla a forza e riportarla nel letto. Insomma, non è mica un robot! Avrà bisogno anche lei di dormire e riposarsi. Così mi alzo silenziosamente e mi avvicino alla porta socchiusa, da cui esce appena una lama di luce, e sbircio dentro lo studio. Matilde è intenta a sistemare tutto. Stoffe, vestiti, scarpe, stira e sistema e piega. Mi chiedo come faccia. Io sono un disordinato cronico, l'ordine nella mia camera dura al massimo due ore, poi torna tutto come prima. Ricordo che quando ero piccolo e veniva la Maddalena, la donna delle pulizie, mi sgridava dolcemente ogni volta, diceva che la camera che la occupava maggiormente era la mia. E anche mia mamma mi sgridava ogni giorno, ma non le ho mai dato troppo ascolto. Certo, le persone mi considerano timido, forse, ma non lo sono. O meglio, forse lo sono a primo impatto, ma andate a dirlo a mia mamma, mio papà o mia sorella, che sono timido, vediamo cosa vi rispondono. Per me riderebbero in faccia ai giornalisti. Sono fin troppo chiacchierone con chi mi conosce, come dice mia mamma, sono logorroico.

Guardo ancora un attimo dentro allo studio, ma poi capisco che non ho nessuna possibilità di far uscire Matilde dal suo mondo, anche se si vede che è stanca, le brillano gli occhi ogni volta che appende un abito a una gruccia. Ci rivedo molto mia madre, o almeno, il ricordo che ho di lei. Ogni volta che si rinchiudeva nel suo studio e io la andavo a trovare, la trovavo con gli occhi che luccicavano dalla felicità. È stato allora che ho deciso che anche io volevo fare qualcosa che mi rendesse felice come lo era lei. Perchè il lavoro si fa per guadagnare e riuscire a vivere bene, ma un lavoro che si fa di malavoglia, non ti fa vivere, bisogna trovare la propria ragione di vita, che si nasconda nella famiglia, nella persona che si ama o nel lavoro, non fa differenza. Chi è fortunato, riesce a trovarle in tutte e tre, chi non ci riesce, come me, si accontenta solo di una. E io mi sono accontentato. Di certo non posso vedere cosa c'è nei miei occhi quando recito, ma sono sicuro che brillino. Almeno un po'.

Quindi, opto per lasciarla fare, la guardo per l'ultima volta e chiudo la porta. Mi dispiace per Matilde, ma io ho bisogno di dormire. Mi rimetto nel letto e mi addormento poco dopo.

 

Mi sveglio con il rumore assordante di qualcuno che bussa alla porta insistentemente. Mi alzo svogliatamente. E vado ad aprire. È mia mamma. -Vieni giù. Subito.- dice rossa fino alla radice dei capelli, si gira e se ne va. Sento solo il ticchettio dei tacchi sulle scale. Non mi preoccupa più di tanto. Insomma, ormai ho quasi trent'anni, non è che seguo ancora mia mamma come se ne avessi dieci. Qualsiasi cosa ho combinato, se ho combinato qualcosa, me ne prenderò le responsabilità. L'ho sempre fatto, non penso di cambiare così drasticamente in così poco tempo. Prendo dei pantaloni di una tuta e una maglietta a caso, niente ciabatte, amo camminare scalzo sul pavimento. Mi passo una mano tra i capelli e scendo svogliatamente in soggiorno.

Matilde è seduta rigidamente su uno dei divanetti, ha un tubino con le maniche lunghe e verde menta, molto semplice, senza fronzoli, e i capelli sciolti. E davanti a lei, sul tavolino, sono sistemati in ordine quasi maniacale, cinque o sei riviste a ventaglio. Entro in soggiorno salutando con un cenno e mi butto su una poltrona. Mia mamma mi guarda malcelatamente male, squadrandomi da capo a coda, prima di tutto per l'abbigliamento, e poi indica le riviste. Io mi sporgo appena per prenderne una. È il “Closer” una classica rivista scandalistica. In prima pagina ci siamo io e Matilde sulla mia moto, lei che si tiene stretta a me. Non guardo neanche il titolo, insignificante, vado solo alla pagina indicata. E lì trovo solo altre foto di noi, anche se un “noi” vero e proprio non esiste. In una c'è Matilde che mi prende per mano e mi trascina a vedere Notre-Dame, una dove mi toglie la sigaretta dalle mani e infine una dove le do la mia giacca e saliamo di nuovo sulla moto. Guardo mia mamma senza capire. -Scommetto che sulle altre ci sono le stesse foto, più o meno.-

-Sì.-

-E quindi? Ho portato Matilde a fare un giro a Parigi. Da quanto tempo è qui? Tre mesi? Quattro? E nessuno le ha mai fatto fare un giro a Parigi! Eddai! Io non ci vedo niente di male.-

-Tutte le riviste della Francia parlano della nuova fidanzata di Ulliel! Ma ti rendi conto? Avevano appena smesso di parlare della tua rottura!-

Vedo che Matilde tenta di dire qualcosa, ma non riesce. -E poi, cosa credi? Che adesso la permanenza di Matilde sarà bella? Non potrà più neanche affacciarsi alla finestra che le scatteranno trenta foto! Indagheranno sul suo passato e scopriranno tutto di lei! Questo ti fa piacere?-

Mi mordo il labbro. Non ci avevo pensato. -Non ci avevi pensato, vero? Certo! Tu non pensi mai a niente! Fai solo quello che vuoi e dopo ti domandi se era giusto! E non mi ascolti mai! Cosa ti avevo detto io? E non parlo solo di questo! Se solo mi avessi ascoltato.. sai quanti scandali in meno ci sarebbero stati?-

-Smettila! Il passato è passato, mi sembra di non averti mai chiesto niente e non sono mai venuto a piangere da te! Quindi basta, non voglio sentire altro. Per quello che potrebbe succedere a Matilde, mi dispiace, è vero, non ci avevo pensato, volevo solo farle fare un giro a Parigi, non mi sembrava nulla di grave. Faremo un'intervista stampa e dirò che è solo un'amica.-

-Assolutamente no! Tu non dirai proprio niente. Silenzio. Non una parola in più dovrà uscire dalla tua bocca. E oggi abbiamo un'intervista a proposito, ma per favore, ascoltami, per una volta.- detto ciò, mia mamma prende e se ne va.

Ha detto delle cose vere. Ragiono poco su quello che faccio, se l'avessi ascoltata, avrei evitato molte grane, ma questo è logico, quanti ascoltano le proprie madri? Non tanti. E quando non lo fanno, quanti finiscono nei casini? Molti. Quindi questo è completamente normale. O almeno, mi giustifico pensando che lo sia. Mi giro verso Matilde mordendomi un labbro. -Mi dispiace averti trascinato in questo casino.- ma lei mi sorprende. Mi sorride. -Non ti preoccupare, non ho nessuno scheletro nell'armadio, non penso che troverebbero molto. E poi sono felice di essere andata a Parigi. Scusa, ma adesso vado, devo finire delle cose.- dice alzandosi. Sto per dirle qualcosa, tipo che anche a me ha fatto davvero piacere portarla in giro, ma sento che mia madre mi urla di vestirmi. Sospiro e seguo Matilde in camera, ma ormai il momento è finito, l'attimo è volato, e dirle qualcosa adesso sarebbe fuori luogo. Prendo dei vestiti a caso e vado in bagno a cambiarmi.

Quando scendo, mia mamma mi aspetta in macchina. A quanto pare, non le è ancora passata, anche se non capisco perchè. Insomma, la vita è mia, ho fatto uno sbaglio, mi dispiace di aver coinvolto Matilde, ma basta. Dovrebbe finire qui. Basta musi. Passerà. La ascolterò, farò il silenzio stampa sulla questione e finita lì. Prima o poi i paparazzi si stancheranno di cercare e non trovare nulla. Almeno, io mi stancherei.

Il viaggio in macchina è noioso e lento, non c'è neanche Matilde che parla in italiano. L'Italia... non mi dispiacerebbe visitarla. Certo, ci sono ancora stato, per motivi di lavoro, ma non ho mai avuto tempo di visitarla veramente. E penso che sia stato un grandissimo peccato. Insomma, è un po' la culla della cultura, la culla dell'arte e della storia. Da francese convinto, mi dispiace ammetterlo ma... beh, ci sono tante belle cose. Molte belle cose. Non faccio in tempo a pensare ad altro perchè la macchina si ferma. Prima scende mia mamma e poi io. E appena esco dalla sicurezza dei finestrini oscurati della macchina, vengo accecato di flash e assordato da mille domande. Mi porto una mano davanti agli occhi e abbasso gli occhiali da sole. Dannati paparazzi. Mi avvicino a mia mamma e assieme riusciamo a entrare nella sala. Appena siamo al sicuro da occhi e orecchie indiscrete, mi lancia una delle sue occhiatacce. Abbiamo sentito tutti e due molte delle domande che mi venivano rivolte. “È vero che ha una nuova storia?” “Chi è la misteriosa ragazza di Notre-Dame?” e così via dicendo.

L'intervista comincia normalmente, solite domande di routine. Qualche progetto per il futuro, qualche nuovo servizio fotografico o film in programma. Fino a quando si passa alla parte della vita privata. La prima domanda è la più ovvia. Una giornalista carina, bionda con dei grandi occhi nocciola, si alza e mi pone la domanda che freme sulla lingua di tutti da quando è cominciata questa messa in scena. -E sul fronte della vita amorosa? Cosa ci racconta?-

-Essere single è bello!- dico ridendo.

-E la ragazza con cui è uscito a Parigi?- continua ostinata la giornalista.

-Mi dispiace, ma di questo non vorrei parlare. Avete altre domande che non riguardano la mia gita a Parigi?- chiedo sporgendomi appena. Vedo che i giornalisti si guardano l'uno con l'altro. È ovvio che era quella la notizia succulenta su cui volevano approfondire. Guardo mia mamma che mi fa un cenno del capo. -Molto bene... allora... arrivederci e alla prossima.- dico alzandomi e sorridendo. Appena mi alzo c'è un gran trambusto, qualche giornalista intrepido cerca di farmi comunque delle domande, come se avessi risposto adesso che era finita l'intervista. Ci facciamo spazio fino alla macchina e saliamo.

Quando arriviamo a casa, Matilde non c'è. Immagino che sia chiusa nello studio a cucire o sistemare, e decido di non disturbarla. Vado in camera e mi cambio, indosso una tuta comoda, prendo il telefono e le cuffiette ed esco a correre. Mi rilassa sempre andare a correre, è una cosa meccanica che non ha bisogno di nessuno sforzo e richiede di avere la mente completamente libera da qualsiasi pensiero, così non riesco a pensare a niente.

Torno a casa dopo un'oretta e mezza e vado subito in bagno e mi spoglio. Poi ci ripenso e chiudo la porta a chiave. Non si sa mai.

Corro in camera tenendomi l'asciugamano stretto in vita e mi chiudo nella cabina armadio, mi cambio e poi mi butto sul letto. Chissà cosa pensa Matilde. Chissà cosa ha fatto oggi.

 

 

Mi sveglio presto, tanto presto, senza il bisogno della sveglia. Come al solito, non ricordo il sogno che ho fatto, il motivo per cui mi giro e rigiro nel letto senza addormentarmi, ma forse è meglio così. Cerco di non fare rumori scendendo dal letto, cosa difficile, visto che io sono un disastro, a quanto pare. Ogni volta che voglio fare qualcosa in modo silenzioso, faccio casino. Però intravedo Gaspard che dorme, immobile, e mi chiudo la porta dello studio alle spalle, felice di non averlo svegliato. Guardo il casino che ho lasciato, devo assolutamente sistemare tutto. Fortunatamente Annalise mi ha dato molti stand e molti omini in cui poter sistemare tutti gli abiti. Accendo anche il ferro da stiro, e do una stirata ai vestiti messi peggio, cioè tutti. Dopo un paio di ore, sono riuscita a sistemare tutto e gran parte delle stoffe è arrotolata in un angolo. Mi fa male la schiena, ma sono soddisfatta del mio lavoro. Almeno adesso è tutto in ordine e non devo sedermi su stoffe e vestiti. Alle otto sono pronta e vestita, e Gaspard dorme ancora, quindi cerco di fare il meno rumore possibile e, quando mi chiudo la porta alle spalle e vedo che dorme ancora, mi sento molto orgogliosa. Sono riuscita a non svegliarlo ne questa mattina-notte, ne adesso. Scendo le scale sorridendo. Mi sento proprio felice. Ho sistemato tutto per bene, tra poco finirò il mio vestito e finalmente ho visitato Parigi. E rimango felice fino a quando non entro nella sala da pranzo. Annalise è seduta rigidamente e non accenna al minimo sorriso. Mi chiedo se è successo qualcosa di grave, ma per adesso ho troppa fame e non me ne curo. Lei rimane ferma ad aspettare che io abbia finito la mia colazione all'italiana e poi mi chiede di seguirla nel soggiorno. Io la seguo senza capire. Ho combinato qualcosa? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Non mi sembra. Provo a ripassare mentalmente tutto quello che ho fatto, ma non riesco a trovare un errore. Mi fa entrare nel soggiorno e mi dice di sedermi e se ne va. Mi siedo rigidamente su un divanetto. Ogni volta che entro in questa stanza, mi sembra di rovinare o sgualcire qualcosa di perfetto, sembra che potrebbe venire da un momento all'altro un fotografo a fare un set fotografico. È tutto perfettamente pulito e in ordine. Mi sento alquanto fuori posto. Ma poi qualcosa raccoglie la mia attenzione. Qualcosa che stona alquanto con l'ambiente. Delle riviste colorate e patinate. E sulla copertina ci siamo io e Gaspard. O dei del cielo! Le lascio ricadere sul tavolino e cerco di non guardarle. E appena le metto giù, entra Annalise e poco dopo arriva anche Gaspard. In tuta. E si vede lontano un miglio che sua mamma non è per niente contenta. Mi dispiace per lui. O lo invidio? Forse lo invidio. Io non riuscirei a vestirmi così sapendo come mi guarderebbe Annalise. È anche vero che lei è sua madre, però non ci riuscirei comunque.

Madre e figlio cominciano a bisticciare sulle foto e su qualche altra cosa. Su qualche scandalo appena assopito. Dicono che indagheranno sul mio passato, non che abbia molto da nascondere, praticamente nulla, ma appena provo a dire qualcosa, vengo zittita, quindi ci rinuncio. Alla fine, quando Annalise lascia la stanza, Gaspard dice che gli dispiace. Beh, a me no. Mi sono divertita. Quindi degli scandali non mi interessa più di tanto. Certo, non mi fa molto piacere, ma posso riuscire a passarci sopra. Saliamo assieme in camera, ma io mi chiudo subito nello studio e finalmente sono a casa da sola. Gaspard, con sua mamma, è a una conferenza, Lisa è con il suo ragazzo. E io ho di nuovo la camera per me. E' davvero strano condividerla con Gaspard. Alcune volte è imbarazzante. Io che sono figlia unica e non condivido la stanza neanche con Amelia, se non in rarissime occasioni, mi sono ritrovata in camera con un ragazzo. Praticamente sconosciuto. Famoso. Lui sì che sarà ricordato da tutti e, anche se il mondo del cinema non mi interessa, lo invidio. E mi dà fastidio, perchè lui probabilmente non lo desiderava. E io che ne ho un disperato bisogno... rimango bloccata a metà strada. E' tutto così difficile... E venire qui mi ha cambiato molto. Ma è difficile mantenere il mio modo di comportarmi e di vestirmi. La mia valigia, praticamente, è intatta, ma non riuscirei mai a girare con Annalise, tutta in tiro, vestita come mi vesto di solito. Devo stringere i denti solo per un po', quando sarò a Milano, potrò vestirmi come voglio, senza nessuno che mi sgrida o rimprovera per le mie maglie larghe e i pantaloni scoloriti. Parlando proprio dei miei vestiti, me li tolgo e, proprio come due mesi fa, mi guardo allo specchio. Il mio corpo è cambiato, anche grazie alle mie corsette quotidiane. Le gambe si sono assottigliate, anche se non troppo, però forse così sembro più proporzionata con la vita sottile... Il viso, al contrario, è sempre lo stesso. Ovale, le guance cosparse di lentiggini, come il naso. La bocca carnosa e troppo rossa sul viso pallido. Gli occhi grandi e grigio-azzurri. Quanto li odio! Mi rimetto gli occhiali e passo le mani tra i capelli disordinati, mossi e castani. Sono troppo simile a lei, a mia mamma, sono la sua copia, e non lo sopporto. Il destino può ripresentarsi uguale una generazione dopo? Potrebbe succedermi quello che è successo a mia mamma? Lasciando stare l'amore perso, potrei avere anche io la sua stessa malattia? Magari, assieme agli occhi, alle lentiggini, al naso e alla bocca, mi ha passato anche l'Alzheimer. E io cosa posso fare? Devo lavorare. Lavorare e fare in modo di non perdermi lungo la strada. Non devo dimenticare la strada. L'obbiettivo. Mi porto le ginocchia al petto e chiudo gli occhi. Lavorare. Lavorare. Lavorare. Mi alzo e con un pezzo di stoffa copro lo specchio. Non voglio più vedermi. Mai più. Come alcuni attori non vogliono rivedere i film in cui hanno recitato, o come alcuni scrittori non vogliono più rileggere i loro libri, io non voglio più rivedermi. Non voglio farlo per vedere il viso di mia mamma. Posso vedermi alla sua età, le rughe di espressione, qualche filo grigio tra la chioma ribelle, gli occhi tristi di chi ha vissuto, le mani rovinate di chi ha lavorato. Proprio come lei. Ma io non voglio vedermi, non voglio vedere il mio futuro già scritto sul mio viso. Mi avvicino a due manichini che si trovano in un angolo della stanza, e osservo il mio ultimo lavoro. Il vestito, color rosa antico, si lega dietro al collo, lasciando così tutta la schiena scoperta, è stretto in vita da un cinturino nero. Sull'altro manichino c'è un vestito completamente in pizzo nero. Lo scollo a barchetta, stretto in vita e lungo fino ai piedi. Non sono ancora finiti, devo finire di sistemare le cuciture, togliere gli spilli, fare alcune modifiche e provarli. I due vestiti si indossano sovrapposti. Quello nero si allaccia da dietro con dei bottoncini fatti con delle perle nere. Ma manca ancora così tanto... forse oggi che non c'è nessuno riuscirò a finire tutto quanto. Delicatamente tolgo il vestito rosa antico dal manichino e lo appoggio sul tavolo sgombro. Faccio un respiro e comincio a sistemarlo. Lavorare mi rilassa davvero molto, cucire è una cosa meccanica e meticolosa e non mi lascia il tempo di pensare. La casa è silenziosa, e sembra che il rumore della macchina da cucire, rimbalzi nella grande villa. Dopo qualche ora, sono riuscita a finire tutto. Faccio indossare il vestito a un solo manichino. Avendo preso le mie misure, per cucire i vestiti, stanno un po’ grandi al manichino, ma l’effetto è comunque bellissimo. Il mio miglior lavoro, penso. Sorrido felice. Per oggi ho finito. Sistemo velocemente le cose che ho usato e prendo il computer, devo assolutamente rispondere ad Amelia, gliel’ho promesso. Le racconto tutto, o quasi. Scrivere quello che mi passa per la testa, tenendo sempre un piccoli filtro, mi aiuta a rilassarmi e a sistemare il disordine che ho in testa. Peccato che non possa sistemarlo come avevo sistemato lo studio questa mattina. Accatastare i brutti pensieri in un angolo, stirare le brutte pieghe dei miei pensieri… sarebbe stato tutto così semplice. E invece potevo solo confidarmi con un’amica. E non riuscivo neanche a raccontarle tutto. C’erano cose, cioè le mie paure, che non voglio, non me la sento, di condividere con gli altri. È meglio tenerle con me, vicino al cuore, così da dover portare quel fardello da sola, anche se so che dividerlo sarebbe più facile, non mi piacciono le cose facili. Voglio le cose meritate e sudate. Voglio le cose mie. Ho appena inviato la mail, quando sento la porta chiudersi. Cerco di pensare a come sono. Tra i capelli scompigliati, ho una matita che cerca di tenerli assieme come può, indosso una maglia larga e dei pantaloni di una tuta sformata. E sono un disastro. Ma manca ancora un po' alla cena e Annalise di certo non verrà in camera. Non so se dirle che ho finito il vestito... e se dopo a lei non piace? Sospiro. Che complicato... Sento la porta della camera aprirsi e chiudersi, probabilmente è Gaspard, ma non viene a salutarmi. Un po' ci rimango male, ma forse è meglio così... chissà come è andata la conferenza e poi, con quelle stupide foto, sarà venuto fuori un pandemonio. Già. E' proprio meglio così. Prendo in mano il cellulare, per poi appoggiarlo sul tavolo. Lo riprendo e lo riposo. Dannazione! A pensare a mia mamma, mi è venuta voglia di chiamarla. Ma cosa la chiamo a fare? Non riconosce neppure la mia voce... Ma ho voglia di sentirla. Prendo il telefono e compongo il numero del centro che la ospita. «Centro Sant'Anna. Salve, chi le passo?» chiede la voce gentile dell'infermiera. Le parole non mi escono dalla gola. Le mie dannate corde vocali non riescono a dire quel nome. Il nome di mia mamma. «Pronto?» Non ci riesco. Chiudo la telefonata e lancio il telefono sul tavolo. Non ci riesco. Mi stropiccio gli occhi, umidi di lacrime. Non so quanto rimango così, a piangere silenziosamente. Riprendo in mano il telefono e guardo l'ora. Manca poco alla cena. Svogliatamente mi alzo dalla poltrona e prendo dei pantaloni a sigaretta neri, un top azzurro e una giacca a taglio maschile, sempre nera. E, dalla fila ordinata di scarpe, dei mocassini neri, con il tacco. I capelli li sistemo in una treccia che fisso attorno alla testa. Sono ancora in anticipo. Perchè oggi faccio tutto così in fretta? In camera non si sentono rumori, che fine ha fatto Gaspard? Forse si è addormentato. Dovrei svegliarlo? Forse sì. Sua mamma è sempre precisa, non accetta ritardi. Ma è davvero questo? Certo. Non è perchè non lo vedo da questa mattina. Ovvio che no. No... Io... Non voglio che venga sgridato, tutto qui. Apro la porta e sbircio in camera. Gaspard è disteso sul letto, immobile, ma non sta dormendo, sta guardando il soffitto. Cosa ci sarà di così bello, nel soffitto? Visto che è sveglio, non mi avvicino al letto, lo saluto con un semplice "Ciao", ed esco dalla stanza. Perchè il tutto mi sembra così difficile? Alla fine non è nessuno. Almeno per me. Mi prendo la testa tra le mani, e comincio a scendere le scale. Non posso tornare indietro di una settimana? A quando tutto era perfetto, ero sola, senza distrazioni, senza foto di me in prima pagina, senza Gaspard. Solo io e i miei obiettivi. Solo noi, inseparabili compagni. Arrivo in sala con qualche minuto di anticipo. Annalise è già seduta. Perfetta come al solito. Come fa a non avere neanche un capello corvino fuori posto? O una sbavatura di matita all'angolo dell'occhio, dopo una giornata di lavoro. O una piega nel vestito perfetto. Ditemelo, vi prego! Perchè io sono un disastro, mentre quelli che mi circondano sono perfetti? Mi siedo al mio posto e inizio a guardarmi le mani, all'improvviso hanno assunto un che di importante, hai miei occhi. Non sapevo di avere i polpastrelli così rovinati. Ci passo sopra le dita, ci gioco. Sono piena di calli e le mani sono secche. Sono pessima. Magari dopo mi metto un po’ di crema.. Le guardo anche quando entra Gaspard, e quando entra Lisa. Mangiamo in silenzio, senza proferire parola. L'unico rumore udibile è quello delle posate che sbattono sui piatti. Il tempo si dilata, lunghissimo nel silenzio, e sembra che la cena non debba finire più. Ma finalmente finisce. Quasi scappo da quella sala e da quel silenzio. Il silenzio non mi piace. Preferisco mille volte le parole e il rumore. Mi chiudo nello studio e butto i vestiti sulla sedia. Poi ci ripenso e li sistemo al loro posto, meglio non accumulare troppa roba, meglio essere ordinati. Pensieri ordinati. No, i pensieri no, ma almeno i vestiti… per quello posso fare uno sforzo. Indosso la maglia larga e mi infilo nel letto, senza guardare o aspettare. La luce non so se spegnerla, visto che Gaspard non c'è. Meglio lasciarla accesa... Poco dopo sento la porta aprirsi, mi giro appena e lo vedo entrare, i capelli ancora umidi. Probabilmente si è fatto una doccia. Mi giro dall'altra parte, lasciandogli il suo spazio, per qualcosa che non so neanche io. Spegne la luce. E io ho sonno, vorrei dormire, riposarmi, dimenticare. Chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare dal nulla. Ma non ci riesco. Dio, perchè oggi è tutto così difficile? Mi sto quasi per assopire quando sento parlare Gaspard. «Matilde... Vuoi venire con me a una festa, domani?» No Matilde, non vuoi. Non sono ambienti per te, non ancora. Non sai cosa dire, non sai cosa mettere. Non vuoi seguire Gaspard a una maledetta festa. Non vuoi seguirlo. Non vuoi le foto. Non vuoi le tue foto su una maledetta rivista dalle pagine satinate. No, non vuoi. Tutto dice che non voglio, la mia mente, la mia coscienza, dice che non è giusto. «Sì...» Eppure riesco a dire solo quella dannata sillaba. "Sì". Maledetta voce. Maledetto tutto. Eppure, dopo, mi addormento tranquilla. E felice.

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