Dreamtime.

di yeahitsmarts
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00 // La chiamata. ***
Capitolo 2: *** ​01 // Helga Zoë Van Der Meer. ***
Capitolo 3: *** ​02 // In ogni angolo del mondo. ***
Capitolo 4: *** 03 // Cuori spezzati. ***
Capitolo 5: *** 04 // Il filo rosso. ***
Capitolo 6: *** ​05 // Ricordi e confessioni. ***
Capitolo 7: *** ​06 // Van Gogh. ***



Capitolo 1
*** 00 // La chiamata. ***


 
 
00 // La chiamata.
"La mia pelle mi sta soffocando,
aiutami a trovare un modo per respirare."

Delphinia era seduta in cortile quando un rumore proveniente dalla casa attirò la sua attenzione. La madre e il fratello più piccolo quella mattina si erano svegliati presto e stavano ancora girovagando al mercato mentre suo padre, un uomo ricco e aristocratico conosciuto in tutta Sparta, era salito al tempio per venerare Zeus. Delphinia, che non era devota quanto i suoi agli dei dell'Olimpo, odiava particolarmente Cupido e venerava invece Artemide, puntando a diventare come lei. La caccia le interessava da sempre, ma la società in cui viveva le vietava tutte quelle cose indirizzate agli uomini, lasciando alla povera Delphinia la spesa, le pulizie assieme agli schiavi e a badare alla casa. Presto si sarebbe sposata con un certo Erastots un ricco uomo che non aveva mai visto ma che di certo non poteva essere di aspetto giovane e bello: di fatti era un caro amico del padre. E Delphinia odiava i suoi per questo: suo padre per averla condannata ad un amore che non voleva, sua madre per non aver preso le sue difese. 
Mentre era ancora tutta intenta a fissare lo stagno putrido e mal pulito, udì nuovamente quel tonfo. Chi mai poteva trovarsi nella sua dimora dal momento in cui tutti erano fuori? Con circospezione si guardò attorno, trattenne il fiato e lentamente scostò la porta di legno. 
Le candele erano tutte spente e il sole filtrava appena dalle piccole finestre in cima alle pareti. Delphinia silenziosamente si avvicinò al fruscio proveniente dalla camera da letto. La sua tanto amata Poplia, sua schiava considerata dalla ragazza quasi una sorella, sarebbe arrivata da lì a momenti così come suo fratello Niketas, acquistati dalla famiglia come lavoratori ma trattati proprio come dei figli. Delphinia si affacciò appena oltre la porta e vide una figura dai capelli biondo cenere intenta a frugare tra gli oggetti più preziosi del padre. Niketas, che dalle movenze sembrava furioso e irritato, finalmente osservò con cura l'arnese tenuto in mano.
La lama scintillò appena e la voce del ragazzo arrivò alle orecchie di Delphinia tagliente e più veloce che mai. Senza neanche girarsi quello parlò, con una nota di divertimento nel tono «Padrona» iniziò voltandosi. Delphinia fece appena in tempo a nascondersi dietro una colonna di marmo prima che quello potesse effettivamente vederla: come faceva a sapere che era lì? «O forse dovrei chiamarti sorella» proseguì «I tuoi genitori mi hanno insegnato cosa vuol dire amare una famiglia. Credevo davvero che mi avessero accettato come loro figlio, che mi trattassero alla pari e invece sai cosa c'è?» Delphinia mosse qualche passo indietro, la voce si faceva sempre più vicina, sempre più pericolosa «C'è che mentre io e Poplia pensiamo a pulire il vostro porcile, voi ci guardate, ridete di noi» ma non era vero, Delphinia aveva sempre cercato di sporcare il meno possibile e di aiutarli, voleva un gran bene a Poplia e verso Niketas, da quando aveva messo piede in casa per la prima volta all'età di otto anni, aveva provato un certo affetto che andava oltre il rapporto tra padrona e schiavo. 
Fu così che Delphinia parlò mettendo a rischio la propria vita. Si attrezzò di uno dei cocci d'argilla buttati ai piedi delle mensole e si fece coraggio «Niketas, tu per me non sei un fratello. O uno schiavo. Sei qualcosa di più» il ragazzo finalmente comparve davanti a lei. La faccia era terribilmente distorta in un'espressione di odio e brandiva il coltello come se fosse impazzito d'un tratto «Bugie! Delphinia, io ti ho sempre amata e tu, tu cosa hai fatto? Tu sposerai quell'uomo» Delphinia indietreggiò facendo cadere completamente gli oggetti posti sopra gli scaffali e frutta, brocche e acqua si unirono in un'unica poltiglia informe sul pavimento. «Non è colpa mia, lo sai Niketas» per un attimo il ragazzo sembrò tornare quello di una volta, quello con cui lei aveva condiviso pasti e segreti. «Dici... Dici davvero?» abbassò il coltello e la guardò con tenerezza «Certo Niketas, certo» Delphinia lasciò cadere il suo pezzo d'argilla e gli si avvicinò lentamente, con la mano tesa «Quello che vorrei è stare con te. Credo di non aver mai provato nulla di simile» Niketas sorrise «Agape» sussurrò appena. In realtà Delphinia non ci aveva mai pensato e quella parola la fece quasi sussultare: amore incondizionato, anche non corrisposto. 
«Tu sarai il mio Agape, per sempre» Niketas mosse dei passi verso di lei. Le spostò i biondi capelli dal viso e lentamente si avvicinò alle sue labbra «Questo deve rimanere il nostro segreto» pronunciò Delphinia quando sentì il respiro confondersi quasi con il suo. Niketas annuì «Anche questo».
Delphinia chiuse gli occhi, gettò la testa indietro. Aspettava quel momento da tantissimo tempo e ora ce l'aveva quasi fatta. Un bacio, niente di più, Niketas sarebbe stato per sempre il suo amore incondizionato, anche se si sarebbe sposata con quel vecchio di Erastots.
Himeros, Thelema, Agape. Tutti riuniti sotto un solo nome: Niketas.
La lama la colpì in piena schiena, non ebbe neppure il tempo di gridare che ci furono altre trentadue coltellate. La tunica bianca si tinse di rosso, il corpo cadde in una pozza scura sul pavimento. Delphinia respirava appena quando Niketas riprese coscienza. Si gettò su di lei singhiozzando, la lama ancora stretta tra le mani sporche. «Non volevo, ti prego non odiarmi. Mi aveva promesso che se gli avessi obbedito saremmo stati insieme per sempre. Io volevo amarti, Delphinia ti prego non lasciarmi» la ragazza non aveva la minima idea se in quel momento era peggio la consapevolezza che da lì a poco sarebbe morta oppure il fatto che non avrebbe mai più rivisto quegli occhi chiari che tanto le piacevano adesso pieni di lacrime. Il tempo sembrava sospeso nell'aria, il suo respiro si faceva sempre più faticoso. Con la poca forza che aveva cercò di sfiorargli a mano «Non preoccuparti, questo non cambierà nulla» aveva così tante domande da porgli, così tante cose da confessargli... E restava così poco tempo. Il suo sguardo era cambiato, non più quello di un animale selvaggio di qualche attimo prima, ma quello del vecchio ragazzo che conosceva da sempre. «Promettimi solo che non darai mai più retta a quel lui» gli sorrise e quello continuò a singhiozzare «Magari... Magari era solo desino. Niketas, è tempo di andare. Non dimenticarti di me» «No, no, no, ti prego Delphinia» «Non rendere le cose più difficili di così. Addio» un urlo straziante squarciò il silenzio della tranquilla strada su cui sorgeva la casa di Delphinia quando la ragazza emise il suo ultimo respiro. Niketas osservò con odio verso se stesso il disastro appena causato e senza pensarci due volte si tolse la vita. Il suo corpo cadde accanto a quello dell'amata con la speranza di riposare insieme. Per sempre.

«Hai passato la tua intera esistenza a risparmiare tempo, a metterlo da parte, a rincorrerlo. Ora che stai per morire, ora che ne vorresti altro, è finito. Ma io sono qui per dartene ancora e ancora. Adesso chiudi gli occhi, Delphinia, presto li aprirai altrove, pronta per affrontare questo viaggio. Buonanotte».


Angolo dell'autrice: la vostra cara marts finalmente
è tornata con una nuova storia più emozionante
e bella delle precedenti (almeno mi auguro).
Ci terrei a dedicare questa storia a Maela,
luce calda nei giorni freddi e scuri:
grazie anche per il banner, amica mia.
A Sara, che mi spinge a scrivere nuove storie
ma che lei è troppo stanca per cominciare una
tutta sua. E a Gabe, lì fuori, che non 
la leggerà mai. Involontariamente hai
ispirato tutto questo, grazie. 

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Capitolo 2
*** ​01 // Helga Zoë Van Der Meer. ***


 
 
01 // Helga Zoë Van Der Meer.
"Ho tentato davvero di non mettermi nei guai ma
ho una guerra nella mia mente."

Durante l'ora di matematica, come di consueto, Helga dormicchiava sul banco. La sua compagna, Aria, ormai aveva perfino rinunciato a svegliarla perchè sapeva perfettamente che si sarebbe beccata soltanto una bella strigliata. Helga riposava e pensava a quanto la sua vita non avesse nulla di buono. Ormai l'inverno era alle porte e Amsterdam iniziava a prepararsi al gran freddo. E lei non aveva niente a che vedere con quella città, con quella società, con quel clima. Vero, amava con tutta se stessa i canali e il quartiere a luci rosse, adorava girovagare per il mercato dei fiori quando la primavera timidamente faceva sciogliere i ghiacci. Eppure Helga sognava le bianche spiagge, l'oceano, i coralli colorati. Il Brasile.
A quella parola le venne d'istinto aprire gli occhi e spostare lo sguardo su Gabe. Era lì, proprio dove l'aveva lasciato a inizio ora: rigorosamente all'ultimo banco, con la faccia annoiata e i soliti risolini in compagnia di Jan. Si era trasferito in città quattro anni prima e lei non aveva mai avuto il coraggio di uscirci fuori dall'ambito scolastico o semplicemente di sedersi accanto a lui. Inoltre gli attacchi di panico di Helga erano peggiorati visibilmente da quanto si era accorta che Gabe la fissava quei cinque secondi in più rispetto al solito. E così fece anche in quell'istante, smise di ridere con Jan, alzò la testa dal banco e con la coda dell'occhio si mise a guardarla, serio.
Ad Helga venne un colpo al cuore: com'era stato possibile che si fosse accorto di essere osservato? Ma poi scosse la testa e cercò di calmarsi, magari non guardava proprio lei, ma oltre. 
Così si voltò e ottenne la risposta: che stupida, avrebbe dovuto pensarci prima. Proprio dietro di lei era seduta Elke, con i suoi capelli rossicci sempre perfetti e il trucco impeccabile. Gabe e Elke passavano un sacco di tempo insieme e Helga aveva il sospetto che i due si piacessero.
E mentre quello continuava a guardare lei, o meglio, la tanto invidiata Elke, Helga si rifiondò nel mondo dei sogni lasciando che il professore continuasse a spiegare sistemi e numeri insieme alle lettere.

 
 ***

«Comunque ti fissa spesso» al ritorno Aria ed Helga si erano avventurate a percorrere l'intero tragitto a piedi. Di prendere tram o altri mezzi pubblici proprio non ne avevano voglia, anche perchè la madre di Helga anche per quella mattina non si era presa la briga di lasciarle qualche spiccio per i biglietti. «Comunque ti fissa spesso» ripetè l'amica stizzita mentre l'altra faceva finta di non sentirla.
«Ascoltami... Fuma di meno, eh?» rispose Helga noncurante mentre affrettava il passo per raggiungere il portone di casa. «Sinceramente non sono io quella che si fa le canne al bagno... Comunque okay, magari mi sarò sbagliata» oh, ma lei avrebbe voluto davvero che fosse così! Helga avrebbe dato anche l'anima al demonio per far si che Gabe la degnasse anche di un solo timido 'Ciao'. Ma la realtà era che lui era già preso da un'altra. «Elke è cinquanta volte meglio di me» sbottò mentre si apprestava ad accendersi una sigaretta. Aria tossì per il fumo e cerco di scansarlo con un gesto della mano «Sarà, ma a me piaci più tu!» e sorridendo scoprì il suo apparecchio su entrambe le arcate dei denti.
«Aria, davvero, ti voglio bene anche io e so che questo è il tuo modo di dimostrarmi l'affetto» si fermò per fare un altro tiro e passò, sospirando, davanti ad un colorato Coffee Shop. «Il problema è che purtroppo ho uno specchio e so perfettamente che quella» e ci tenne moltissimo a enfatizzare con disgusto la parola 'quella' «Piace molto più di me, specie ai tipi come lui».
Nessuna delle due provò ad affrontare l'argomento per il resto del tragitto e quando infine entrambe arrivarono al loro rispettivo palazzo, Helga desiderò di essere rimasta un altro po' a bighellonare a scuola. Le due del pomeriggio e gli unici rumori provenienti dalla strada erano i timidi campanelli delle bici, sovrastati dai sospiri e dalle imprecazioni della madre con il suo tanto amato compagno. Aria cercò di non dare troppo nell'occhio ma fissò la finestra dove si potevano intravedere le due figure a letto e provò una certa pena per l'amica. «Se vuoi pranziamo insieme a casa mia» ma Helga scosse il capo disgustata e disse soltanto «No, tranquilla ci sono abituata» e infilando le chiavi nel portone, si fiondò di corsa verso la tromba di scale. 
Il piccolo appartamento si trovava al terzo piano di un palazzo tenuto abbastanza bene. L'affitto era caro per la dimensione del locale ma Helga non poteva lamentarsi di nulla poiché aveva tutto a portata di mano: un piccolo mercato, il suo Coffee Shop preferito, il negozio di fiori e una bellissima visuale su uno degli innumerevoli canali. 
Superò la porta della camera da letto canticchiando istericamente a bassa voce e si chiuse nella sua abbandonandosi al duro materasso. Le pareti erano bianche, spoglie, con appena qualche foto appesa qua e la. C'era Aria, e il viaggio fatto a Parigi, e poi Gabe preso di sfuggita mentre si passava la mano destra nei capelli. Sulla scrivania un mucchio di scartoffie aspettava di essere letto e il lettore dvd era rimasto acceso tutta la notte.
Helga si accinse a spegnerlo e mise su un po' di musica blues mentre l'aria della camera iniziava a diventare dolciastra. L'erba era il miglior modo che conosceva per spendere i suoi soldi: staccare la spina e dedicare qualche minuto a se stessa e al proprio benessere.
Il cervello si scollegò e il resto del mondo si fece soltanto un luogo piccolo e senza senso. E mentre il fumo iniziava a confonderle le idee, Helga cadde in un sonno felice ma profondo mentre i suoi compiti di inglese reclamavano di essere svolti. 

 
***

Nel bel mezzo del nulla, una singolare nebbiolina verde acqua iniziava a prendere forma. Helga si trovava al centro del niente, attorno a sé c'era soltanto una distesa infinita di nero. Faceva freddo e lei era completamente nuda. Si sentiva inerme, come se quel posto vuoto avrebbe potuto aggredirla da un momento all'altro. Tentò di coprirsi con le mani quando finalmente una figura comparve davanti ai suoi occhi. Della nebbia non c'era più traccia ma, al suo posto, una ragazza dalla pelle scura iniziò a fissarla. Nessuna delle due provò a parlare finchè una terza nebbia, questa volta giallastra, prese a turbinare nell'aria lasciando cadere delicatamente un altro corpo. Si guardarono tutte e tre ed Helga sentì la propria voce riecheggiare nell'aria «Da quanto siete qui? Che cosa volete?» ma anche quelle sembravano spaventate almeno quanto lei. Nessuna provò a risponderle, o quanto meno Helga vedeva le loro bocce aprirsi e tentare di gridare qualcosa, ma nessun rumore riusciva ad arrivare alle sue orecchie. Altre due nebbie, una argentata e l'altra blu. Un viso dolce, maschile, con un paio di occhiali da vista. E poi un altro, un ciuffo castano. Helga trattenne il respiro, avrebbe riconosciuto quelle ciocche anche in mezzo ad altre mille. Ma svanì tutto nel giro di un secondo, e quelle nebbie che avevano portato lì quei corpi nudi e sconosciuti, ricomparvero per trascinarli in mezzo al nero. 
Helga si ritrovò nuovamente sola, perfino nei suoi più intimi sogni.

 
***

Al risveglio non ricordava più nulla. Era così frastornata dalla canna precedente che non si preoccupò nemmeno di controllare che ore fossero. Fuori però il sole era già tramontato e la luce del crepuscolo creava una strana atmosfera in quel buco di stanza. La madre e il compagno finalmente si erano placati e sentiva la donna canticchiare allegramente una vecchia canzone di Sinatra mentre era alle prese con i fornelli. Helga si accese una sigaretta e si affacciò ad ammirare il meraviglioso spettacolo che il panorama le offriva: i negozi iniziavano a chiudere e un vento freddo soffiava da nord. 
Per poco non si schiantò contro il vetro quando notò Gabe uscire di soppiatto da un vecchio bar appena davanti al suo palazzo. Sembrava attento a non farsi vedere da qualcuno, muovendosi velocemente e trascinandosi accanto alle macchine. Helga lo seguì con lo sguardo, si sentì quasi una stalker, ma non poteva non restare incantata da quei movimenti fluidi. E quando lui alzò lo sguardo proprio nella sua direzione, dei brividi le percorsero tutta la schiena. Non era sicura che lui potesse vederla oltre il vetro ma, nel dubbio, si fiondò a terra facendo rovesciare la lampada del comodino a terra, frantumandola in piccoli pezzi. 
D'accordo, proprio non ci voleva e probabilmente avrebbe rovinato il buon umore della madre, ma se solo Gabe se ne fosse accorto, l'avrebbe sicuramente scambiata per una maniaca fissata con lui.
Non che la cosa non fosse vera, insomma, Helga ne era attratta ma non ossessionata fino a quel punto. Eppure... Tutti gli sguardi che si erano scambiati di nascosto, quando lei sentiva i suoi occhi puntati sulla nuca o i semplici sorrisi cordiali di cortesia... Erano davvero soltanto frutto dell'immaginazione di Helga?
Quando si alzò per controllare se Gabe fosse ancora lì, fortunatamente, per strada non c'era più nessuno. Proprio in quel momento la madre fece la sua entrata trionfale in camera, brandendo il mestolo di legno sporco di sugo come una spada. «Tu!» la chiamò. Helga non aveva vie di fuga: era spalmata contro la finestra e in più l'unica porta era sovrastata dall'imponente figura della madre fedelmente seguita dal suo compagno. Del sugo macchiò il tappeto verde della camera mentre gli occhi della madre fissavano ogni singolo pezzo della lampada. «Cosa diavolo hai fatto? Hai la minima idea di quanto costi un oggetto del genere?» Possibile? Tante storie per una stupidaggine del genere? Oh certo, sicuramente avrebbe preferito che Helga si fosse buttata di sotto per la vergogna piuttosto che far cadere per sbaglio un paralume tra l'altro di pessimo gusto. «Sì lo so quanto costa una schifezza simile» la ragazza si alzò lentamente e si pulì le ginocchia «Ma vorrei ricordarti che sta mattina ti sei casualmente scordata di lasciarmi i soldi ed io non ho potuto neanche comprarmi una bottiglietta d'acqua. Dato che stai risparmiando così tanto non ti sarà difficile comprarmene una nuova» la madre, che donna singolare. Inizialmente si presentava come una belva feroce, pronta a staccarti la testa a morsi, dopo di che, una volta colpita ed affondata, passava per vittima scoppiando a piangere e andandosi a rifugiare in camera da letto. Non si risparmiò la scena nemmeno quella volta, quando prese a frignare come una bimba e scappò via dalla camera. Anton si avvicinò tentando di assumere quell'aria da marito comprensivo e padre indignato che però gli riusciva male. «Ti pare il modo di trattare tua madre?» ma Helga, che non ne poteva più di sentirli scopare oltre la parete tutti i giorni, scoppiò come una bomba ad orologeria. «E tu chi sei per riprendermi? Mio papà? Non mi pare!» afferrò in fretta la giacca sul suo letto e si indirizzò verso la porta di casa «Non aspettatemi per cena, torno più tardi. Buona trombata!» e così dicendo, scese velocemente le scale. 

 
***

«Tu credi che la troveranno anche sta volta?» Vondelpark ormai si stava svuotando e Gabe era uno dei pochi rimasti lì a fissare l'acqua del laghetto. Al petto stringeva il suo diario di bordo che era stato quasi intoccato dalla prima volta che Maëlys glielo aveva consegnato. «Probabilmente» rispose la ragazza «Ma tu non permetterai che le facciano del male. E neanche io» Gabe si sedette e osservò con cura la figura davanti a lei e se soltanto fosse stata umana, probabilmente le avrebbe offerto una romantica cena a lume di candela. Maëlys gli lesse nel pensiero, scoppiò a ridere e sospirò «Gabe, tesoro... Il tuo cuore appartiene a qualcun altro, non è così?» il ragazzo annuì, infilò il diario nella borsa a tracolla e si avviò verso l'uscita, salutando la donna con un inchino «A presto, mio caro!» quello si allontanò per poi correre incontro ad Elke, che, impaziente, lo stava aspettando all'entrata.


Angolo dell'autrice:  la marts è qui 
per un nuovo capitolo!
Dal momento in cui ho introdotto i
primi personaggi, ci terrei moltissimo
a dedicarlo alla mia dolce Aria in carne
ed ossa. Spero sinceramente che vi piaccia
perchè io me ne sto davvero innamorando.
Gabe, è per te e non lo sai.
Le recensioni sono sempre apprezzate,
peace!

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Capitolo 3
*** ​02 // In ogni angolo del mondo. ***


 
 
02 // In ogni angolo del mondo.
"Voglio essere qualcun altro
o esploderò."

Il sole era appena sorto sulla città di Melbourne. Connor si girava e rigirava nel letto e proprio non riusciva ad addormentarsi. Di andare a scuola non se ne parlava, aveva passato l'intera notte a badare al padre che si lamentava e piangeva. Non gli dava tregua neanche in quelle prime ore del mattino: già reclamava un bicchiere di liquore con un po' di biscotti. Era uno strano modo di fare colazione ma Connor non osava contraddirlo, non voleva assolutamente un altro schiaffo che lo segnasse a vita. Dal padre, che un tempo era un giornalista acclamato e di fama, aveva ricevuto talmente tanti pugni e spinte negli ultimi tre mesi che quasi stava apposto per il resto della vita.
Da quando il nonno non c'era più era completamente uscito fuori di testa. Una moglie morta troppo giovane per il parto, un figlio da crescere da solo e un'unica spalla su cui piangere troppo anziana.
Lo sapevano tutti che da lì a poco il nonno sarebbe morto, era un malato terminale e Connor si impegnava ogni giorno per far si che vivesse la vita attimo per attimo, godendosi ogni sfaccettatura che essa offriva. Una volta scomparso però, la colpa era ricaduta unicamente su di lui: lui che aveva portato via la vita alla donna tanto amata, lui che aveva pensato a far passeggiare quell'uomo anziano piuttosto che accompagnarlo alle visite.
Connor, in pratica, non doveva nascere.
Così nel letto si chiedeva quale fosse davvero il suo scopo, se una volta morto qualcuno si sarebbe ricordato di lui, se da qualche parte sarebbe riuscito a lasciare il segno.
Si decise quindi di alzarsi per preparare la colazione al padre. Aggiunse nel liquore un po' di sonnifero pregando che facesse effetto anche su quel corpo malandato e pieno di alcol e poggiò il vassoio sopra il comodino della camera da letto. Raramente il padre era lucido, quelle poche volte in cui il suo cervello ragionava senza un tasso alcolico troppo elevato, gli raccontava di quanto belli fossero i capelli della mamma e di come il nonno gli narrasse le sue avventure durante la giovane età, quando la fattoria dove abitavano era un posto allegro e colorato. 
Di fatti, quando la moglie scomparve, il padre decise di vendere la proprietà di campagna per trasferirsi in un attico in pieno centro città e Connor odiava affacciarsi alla finestra e scrutare palazzi, strade, automobili, persone. Lui avrebbe preferito di gran lunga una vita più selvaggia e piena di avventure, proprio come quelle narrate nei libri conservati nella collezione privata del padre. 
«Non è un po' tardi? Niente scuola oggi?» la voce del padre era affannata e impastata ma almeno aveva smesso di piangere. Connor inforcò gli occhiali per metterlo meglio a fuoco, sotto gli occhi delle enormi borse viola rendevano il viso del giovane, stanco e vecchio. Scosse il capo e si sedette a bordo del letto, il più lontano possibile da lui. 
«No papà, oggi proprio non ce la faccio. Andrei a scuola soltanto per addormentarmi sul banco» non stava mentendo: solitamente le lezioni lo appassionavano ma in quel momento era così stanco che probabilmente, andando a scuola, avrebbe schiacciato un riposino nel magazzino del custode.
«Hai ragione, sei un bravo ragazzo, oggi riposati un po', te lo sei meritato» Connor pensò che suo padre era proprio un bravo attore, soltanto quattro ore prima, se avesse potuto, probabilmente avrebbe ucciso suo figlio con le sue stesse mani mentre ora lo stava elogiando. Ma il ragazzo piuttosto che fare polemica si mise a fare il suo stesso gioco, annuendo lentamente e regalandogli anche un bel sorriso. Prima di chiudere la porta però, il padre aggiunse con fatica: «Connor, sono malato anche io».

 
***

Mentre Helga si perdeva tra gli innumerevoli vicoletti della sua città, venne assalita dal senso di colpa. Certo, sua madre non era un granché come donna, né come mamma e neanche come amica. Però i suoi quarantasette anni se li portava bene, poteva permettersi un'attività sessuale sicuramente più efficiente della sua e inoltre aveva un compagno che l'amava e che la sosteneva anche quando era palesemente nella parte del torto.
Tutte cose che purtroppo Helga non aveva. Senza contare Aria, spesso presa dalla scuola e dal suo nuovo ragazzo, Helga era completamente sola. Non aveva neanche mai avuto un fidanzato o un amico di infanzia. Era cresciuta sola e sola era rimasta. Magari tutto quello che provava per la madre era soltanto... Invidia. Le doleva un po' ammetterlo, ma non c'erano altre spiegazioni.
Era in giro già da circa venti minuti quando si accorse di avere tre euro nella tasca interna del giacchetto che sarebbero bastati a malapena a comprarsi un panino. Tuttavia ancora non aveva fame e in cuor suo sapeva che sarebbe stato più corretto spendere quei soldi per la mamma portandole a casa almeno un fiore fresco. Orgogliosa com'era però, si sarebbe presentata alla porta da lì a un'ora, non un secondo prima, e così riprese la sua passeggiata serale in completa solitudine. Raggiunse il quartiere a luci rosse a piedi e si perse ad osservare in silenzio le varie prostitute in vetrina. 
Chissà che sensazione si provava a concedere il proprio corpo ad uno sconosciuto. Lei l'amore l'aveva sempre immaginato un po' diverso e vederlo lì, svenduto così al miglior offerente, le provò un maggiore senso di inadeguatezza e malinconia. 
Era forse lei la sbagliata in questa triste società?
Fissò l'orologio, magari poteva bastare. Riprese la strada di casa e imboccò al primo fioraio aperto. I suoi tre euro bastarono a malapena per comprare un tulipano blu. Una volta fuori però qualcosa dentro di lei le suggeriva di tornarsene a casa il prima possibile. Aveva come la sensazione che qualcosa di terribile stesse per accadere.
Ecco, pensò disperata, un altro attacco di panico. La cosa brutta era che non aveva compagnia, era completamente sola e anche nel caso più remoto, non si sarebbe mai abbassata ad un livello tale da chiedere aiuto ed aggrapparsi al primo sconosciuto. Inoltre il pericolo si faceva sempre più grande e spaventoso. Provò a muovere qualche passo in direzione di casa ma il paesaggio tutto intorno a lei ondeggiava. Stava forse per morire? Si fermò, respirò a fondo, si portò una mano al petto per controllare i battiti cardiaci che fortunatamente, un poco alla volta, iniziavano a tornare regolari.
Una coppietta che si teneva sottobraccio svoltò l'angolo accompagnata da risate cristalline. Helga si era appena ripresa quando i loro occhi si incrociarono. 
E per poco il mondo non crollò di nuovo.
Gabe passeggiava in perfetta tranquillità assieme ad Elke, più bella e radiosa che mai. Quando anche la ragazza si accorse della sua presenza, il sorriso sul suo volto si spense. Helga e Gabe si guardarono per un breve istante che però alla ragazza sembrò un'eternità mentre Elke lo strattonava per la manica cercando di riportare tutta l'attenzione su di lei. 
Helga si strinse il fiore al petto, nessun cenno di saluto, nessun sorrisetto cordiale, nessun 'ciao' biascicato velocemente. Tirò su il cappuccio del giacchetto e s'incamminò velocemente verso casa. Nessuno da dietro, nel frattempo, provava a fermarla chiamandola.
Già, pensò, ma perchè dovrebbe? In fin dei conti la ragazza già ce l'ha, sono soltanto io che mi sto facendo tremila teatrini amorosi in testa. Stupidi castelli per aria.

Una volta arrivata davanti la porta di casa tentò di superare il cattivo umore, indossò il miglior sorriso più finto di sempre e suonò il campanello. Ad aprire la porta fu proprio la madre che osservò con apatia il fiore «E questo per chi è?» Helga si ripeté più e più volte di non scoppiare in uno scatto d'ira. Si schiarì la voce, passò oltre la madre e finalmente entrò in casa «E' per te!» la madre lo prese in mano, lo studiò e lo infilò nel primo buco vuoto che trovò in giro «Ah si? E da quale vaso l'hai rubato, piccola ladruncola? Fortunatamente non avevi soldi per...» «Sai una cosa?» tic, tac, tic, tac «Quel capitolo della mia storia è chiuso, chiuso! Ero una ladruncola, andavo in giro a rubare ma non l'ho più fatto e sai per chi? Per te, che non ci dormivi la notte. E adesso basta!» boom «Ho trovato quei soldi infondo alla tasca del giacchetto, avrei potuto comprarci un panino e cenarci e invece ho preferito spenderli per te» di nuovo quelle lacrime di coccodrillo «Che diavolo! Una cerca di essere carina e di chiedere scusa in modo diverso e tu che fai? Tu che fai, eh? Mi dai della ladra e non apprezzi un cazzo. Adesso smettila di piangere e vai in camera a scopare che scommetto che il tuo caro Anton ti aspetta già nudo nel letto» e, una volta in camera, aggiunse «Invidia un cazzo!»

 
***

Yurim fumava una delle sue amate sigarette lunghe, le Vogue, mentre pensava a quanto perfetta e invidiata da tutti fosse la sua vita. Aveva un padre amorevole che si prendeva sempre cura della sua unica principessa e una madre a lei devota. Con un semplice schiocco di dita ogni suo desiderio sarebbe stato esaudito. Eppure, da qualche parte in profondità di sé stessa, sapeva perfettamente che qualcosa le mancava. Di certo non poteva essere l'amore, con un ragazzo così bello e palestrato come il suo, o le amiche, da sempre circondata dal gruppo più popolare di scuola, o un animale domestico poiché Yurim si prendeva cura di pappagallini e canarini in grande quantità.
Ma qualcosa le mancava, la faceva sentire incompleta e proprio non sapeva spiegarsi cosa fosse. A volte faceva dei lunghi sogni dove lei era un'antica principessa guerriera mentre era alla ricerca disperata di qualcosa che non riusciva mai a trovare e si svegliava con una sensazione di incompletezza assoluta, quasi come se fosse stata davvero quel pittoresco personaggio... Magari in un'altra vita. 
«Signorina Yurim Sunwoo, la cena è servita. I suoi genitori l'aspettano nella sala dei ricevimenti assieme ai due ospiti olandesi» Corinne era una ragazza di soli ventiquattro anni che lavorava come cameriera a casa Sunwoo. Yurim non glielo diceva mai, ma le voleva un gran bene, quasi come una sorella. Eppure i suoi genitori le aveva espressamente vietato più e più volte di frequentarla al di fuori dell'ambito lavorativo in casa. La ragazza, che era di origine australiana ma che già a diciotto anni si era trasferita in Corea del Sud, abitava in una piccola stanza a lei riservata nell'enorme attico della famiglia, era l'addetta alla pulizia e all'ordine nonché cameriera personale di Yurim.
«Corinne!» la riproverò gettando il suo mozzicone di sigaretta di sotto «Quante volte ti ho detto che non devi darmi del lei, tanto meno parlarmi in quel modo da... Schiava» la cameriera chinò il capo in segno di scusa e fece una piccola riverenza «Mi perdoni, ma i suoi genitori mi hanno chiesto di non rivolgermi a lei come se fosse una mia amica. Io vorrei tanto e lei lo sa perfettamente...» sospirò e si diede una sistemata al grembiule «Le ricordo anche che gettare il mozzicone di sigaretta» «Sì, sì, sì» la interruppe Yurim facendole il verso «Non è buona educazione, esistono i posacenere e bla, bla, bla. Ma comunque i miei genitori in questo momento non ci sono» le diede una pacca sulla spalla e le sorrise «Quindi puoi rivolgerti a me come più ti fa comodo, poi quello che fai davanti a loro è un altro discorso. Adesso ti lascio alle pulizie, scendo a mangiare e se riesco ti tengo qualcosa per dopo. Ciao Corinne!» la ragazza australiana la salutò con un cenno della mano e iniziò a sistemarle il letto, facendo prendere aria alle lenzuola e mettendo in ordine un mucchio di appunti di scuola.
Yurim scese in fretta le scale e raggiunse la sala dei ricevimenti. Poco prima di spalancare l'enorme porta però, rallentò il passo e si diede una veloce sistemata all'abito che le arrivava poco più giù delle ginocchia. Suo padre le aveva parlato bene di questa eccentrica coppia gay, vecchi amici di famiglia che si erano sposati a Las Vegas per poi andare a vivere ad Amsterdam. Yurim, per quanto viziata e coccolata, non aveva mai visto il mondo, si era sempre limitata a restare nel suo super attico a Busan, una gabbia dorata da cui spiava l'intero mondo. Aveva così tante domande da fare a quei due.
Una volta entrata in sala prese immediatamente il suo posto accanto il padre, salutando Leonard e Robert Jr. con un impacciato inchino. I due iniziarono immediatamente a raccontare dei loro mille viaggi e del Nevada, il Canada e il viaggio di nozze ai Caraibi. Yurim mangiava ed ascoltava attentamente tutto ciò che i due narravano, cogliendo ogni dettaglio e facendolo suo. Poi fu il momento di parlare di lavoro: contratti, concordi e soldi, tanti soldi. L'attenzione della povera ragazza calò, a lei non importava nulla di cifre e conti, ora il suo unico pensiero era la cena da portare ai suoi tanto amati uccellini. Ma il padre disse qualcosa che lei non riuscì a capire, finchè lui non la richiamò all'attenzione e le ripeté lentamente: «Allora, vuoi andarci?» per poco non si strozzò con il dolce «Andare dove?» dall'altra parte del tavolo la madre sospirò scusandosi con i due ospiti ma il padre, molto pazientemente, le sfiorò la mani e ricominciò tutto daccapo «Abbiamo appena concluso un affare con Leonard e Robert Jr. e i due ci vogliono ringraziare... Beh, insomma, hanno chiesto se vuoi farti qualche giorno ad Amsterdam e inoltre puoi portare chiunque tu voglia, che so, il tuo ragazzo, una delle tue amiche...» «Corinne» rispose decisa Yurim «Porterò Corinne con me, non so fare neanche una faccenda di casa e magari le piacerà. È tanto che lavora per noi e credo che se lo sia meritato. Ma posso davvero? Voglio dire, potrò davvero partire... Da sola?» i genitori avevano un'espressione sconvolta ma la figlia non se ne curò troppo. Sorvolò i loro inutili discorsi sul fatto che Corinne non era esattamente una di famiglia e si rivolse direttamente ai due uomini «Io starò con voi? Cioè nel senso, nella vostra casa?» a parlare fu Leonard, quello più giovane con i capelli brizzolati e la cravatta bordeaux «Abbiamo una gran bella casa ad Amsterdam e anche un appartamento che si affaccia a Piazza Dam. Tuo padre ha il nostro numero, quando vuoi, chiamaci e ti lasceremo le chiavi. Ovviamente, chi rompe paga» rise brevemente e scosse la testa «Sto scherzando, ma spero che durante la tua villeggiatura non danneggerai la struttura, insomma, ci stiamo fidando di te» Yurim stava impazzendo dalla gioia al punto che, se ne avesse avuto la possibilità, sarebbe partita il giorno seguente. Quasi d'istinto, si alzò e abbracciò i due uomini che erano ancora seduti ringraziandoli in coreano e in un inglese leggermente primitivo. 
«Corinne, Corinne verrà con me» concluse decisa quando ormai i due ospiti se n'erano già andati.

 
***

Quasi dall'altra parte del mondo, Gabe ed Elke se ne stavano comodamente seduti dentro un Cafè a sorseggiare i loro the caldi. La cameriera li aveva serviti con un po' troppo zucchero e la ragazza stava chiedendo un opinione all'amico, seduto di fronte, che però sembrava non ascoltarla con attenzione. «Allora Gabe, a te piace così dolce?» lui smise di guardare fuori dalla finestra, si strinse nelle spalle e appoggiò la testa sulla mano sinistra «L'importante è che mi scaldi» quella non poteva di certo definirsi la conversazione più intelligente di sempre, ma Elke era di aspetto gradevole, con due bellissimi occhi verdi e delle labbra piene e tutte da baciare. A quel pensiero il ragazzo sorrise e sentì nuovamente lei parlare, questa volta però più accigliata e seria. Prese a giocherellare con i fazzoletti di carta e rise isterica «Senti, io non riesco proprio più a tenerlo per me... Insomma...» sospirò e lo guardò dritto negli occhi «Tu mi piaci molto Gabe e io sono stanca di fingere che non sia così e di portare avanti questo rapporto di amicizia. È snervante, capisci?» il ragazzo annuì «Vorrei che facessimo coppia, o che almeno ci provassimo, sempre che a te vada bene» di tutta risposta quello si allungò sul tavolo e le scoccò un bacio sulle labbra. «Lo prendo come un sì» sussurrò Elke a pochi centimetri dal suo viso.


Angolo dell'autrice:  ed ecco a voi il secondo capitolo!
Voglio ringraziare coloro che mi hanno inserita
nelle 'seguite', chi ha recensito e chi lo farà!
Sono davvero curiosa di leggere le vostre opinioni,
di sapere cosa ne pensate, a quali personaggi
iniziate ad affezionarvi, quali ad odiare.
Prometto che tornerò presto anche con il terzo
capitolo (che tra l'altro è quasi pronto!).
A Vivian, grazie cara, questo è anche per te.

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Capitolo 4
*** 03 // Cuori spezzati. ***


 
 
03 // Cuori spezzati.
"sono stanco di tutta questa falsità
perciò svelerò tutti i miei segreti."

«Hai un aspetto terribile» Helga, con i capelli scompigliati e due profonde occhiaie, se ne stava comodamente seduta sulle scale del cortile attendendo che la campanella suonasse mentre Aria si accingeva a far commenti sul suo aspetto poco curato «E quella sui jeans cos'è, una macchia?» abbassando lo sguardo, proprio sulla coscia, una chiazza color senape si estendeva per tre centimetri. Helga la coprì con la mano, si strinse nelle spalle e rispose con un 'mh' strascicato. Non aveva per niente voglia di parlare con nessuno, tanto meno di vedere Gabe o sentire soltanto la voce di Elke.
La notte precedente era rimasta sveglia tutto il tempo, a fissare il bianco soffitto della camera mentre un mucchio di pensieri si impadronivano della propria mente. 
«Ma che hai?» le domandò l'amica picchiettandole con l'indice sulla testa. Helga, di tutta risposta, afferrò il suo zaino e si catapultò in classe per prendere il banco più lontano e al riparo da tutti.
Una volta in aula, il suo sguardo prima incollato sui gradini e poi sulla porta blu, roteò convulsamente sulla figura seduta in fondo.
Gabe.
Helga strinse i pugni e finse di ignorarlo, non lo salutò neanche con un cenno della testa, esattamente come lui aveva fatto il giorno precedente. Eppure una voce dentro di lei le suggeriva che il suo 'ciao' o la sua indifferenza non gli avrebbero affatto cambiato nulla. La ragazza si sistemò al banco parallelo a quello del ragazzo e finse di guardare fuori dalla finestra: le foglie cadevano dolcemente a terra mentre un gruppo di ragazzi era ancora tutto intento a terminare la propria canna mattutina. Helga si diede della stupida per non essere rimasta ancora un po' fuori con Aria, a sparlare delle ragazzine più piccole convinte che le loro misere taglie di seno avrebbero potuto conquistare chiunque.
«Tutto bene, Hel?» Hel? Ah, pensava davvero che lei si sarebbe sciolta perchè la stava chiamando in quel modo? Hel, ma che razza di nomignolo stupido, dolce e... Helga si voltò dalla parte della voce, scrutò bene la figura e tentò di abbozzare un sorriso che però si spense immediatamente «Hel sembra un nome da cane».
Brava! Si disse, mantieni l'aria di quella incazzata con il mondo e vedrai che se ne andrà nell'arco di cinque secondi.
«Hai ragione» sospirò Gabe passandosi una mano nei capelli «Non ho la minima idea di come mi sia venuto in mente» ridacchiò e lei sentì le ginocchia tremare «Helga, dunque» ricominciò da capo fissandole le unghie con lo smalto nero tutto scrostato «Sei sicura di stare bene? Non hai un'ottima cera» non sapeva proprio che rispondergli. Decise quindi di mentire e sorvolò la notte insonne e la litigata con la madre (e il suo cuore rotto nel vederlo con Elke) e rispose semplicemente: «Sì, non vedo perchè vi dobbiate tutti...» di nuovo quell'orribile sensazione.
La stanza si fece più chiusa, il respiro più affannoso. Il cuore le batteva all'impazzata, sentiva Gabe scuoterla e domandarle che cosa le stesse succedendo. Ma non riusciva a rispondere, le parole le restavano impigliate tra le labbra mentre tutto intorno iniziava a vorticare pericolosamente. Helga chiuse gli occhi, respirò affannosamente ma quella sensazione proprio non voleva saperne di lasciarla in pace. 
«Me ne devo andare» riuscì a esordire qualche secondo dopo con grande fatica «Questo... Questo non è il mio corpo» balbettò. Si fissò a lungo le mani tremolanti mentre Gabe continuava a tranquillizzarla ma la sua voce risultava distante anni luce. «Gabe, io, io non capisco» involontariamente, pianse. Non riuscì a fermarsi neppure quando una seconda figura, i contorni erano troppo poco nitidi per far si che Helga la riconoscesse, comparve al fianco del ragazzo. 
«Non capisco niente» continuò a piagnucolare «E' come se non ci fossi, come se non stessi qui. Voi mi capite?» probabilmente quelli annuirono «Io no, io non ci sto con la testa, sto forse impazzendo?» e poi una nebbiolina viola le annebbiò la vista, una delle molteplici allucinazioni di cui Helga soffriva in momenti come quelli.
Tutto intorno a lei si fece grigio, la classe sparì e lei si trovò nel bel mezzo di un freddo glaciale. Era forse una strada quella davanti a sé? Abbassò lo sguardo sui suoi piedi e notò con molto dispiacere che erano nudi. Nevicava, forse era Dicembre ma non sembrava la città di Amsterdam. Dio quanto le mancava casa. Ma casa dov'era? Una luce iniziò ad avvicinarsi a lei velocemente. Helga provò ad allungare una mano davanti a sé per fermarla, ma quella continuava a diventare sempre più grande, sempre più prossima.
Finchè non la investì, completamente.

«Sembra che si sia finalmente ripresa» aveva sentito quella voce soltanto una volta circa due anni prima, quando era finita in infermeria  a causa di un terribile mal di pancia. A parlare quindi, doveva essere la signorina Braun, un'apatica trentenne dalle forme rotondette che cercava di prendersi cura degli alunni con i suoi primitivi strumenti da lavoro. 
«Helga riesci a sentirmi?» Aria, il suo tono era inconfondibile. Helga se la immaginò china su di lei con una faccia preoccupatissima ma contenta di aver saltato le prime ore di... Helga non aveva la minima idea di quanto tempo fosse passato e, soprattutto, del perchè si trovasse lì. Si alzò di scatto e si mise seduta sul lettino, quel posto le faceva sempre uno strano effetto e le ricordava un ospedale per le pareti bianche e asettiche. Giusto accanto alla porta, miss Braun teneva appeso un calendario di due anni prima che raffigurava un fiore per ogni mese. La ragazza spostò lo sguardo sull'amica che continuava a fissarla accigliata 
«Da quanto tempo mi trovo qui? E perchè?» la testa continuava a farle male però si sentiva leggermente meglio e più riposata. Aria sospirò e le si sedette accanto «Questa mattina hai avuto un attacco di panico orribile e sei svenuta» si guardò l'orologio da polso, era bianco con una figura rossa, più di una volta aveva ripetuto di averlo comprato al mercato e di averlo pagato davvero poco «Siamo qui da un'ora, forse un'ora e mezza» Helga socchiuse gli occhi ed espirò nervosa «Perfetto, e io non ricordo niente. Solo che una volta entrata Gabe ha iniziato a parlarmi, ma probabilmente diceva cose stupide. Torniamo in classe» non ci fu modo di ascoltare la signorina Braun che le sconsigliava di riprendere parte alle lezioni perchè Helga raccolse le sue cose e con gran fatica raggiunse l'aula con Aria al suo seguito.
Entrò in classe come se niente le fosse successo ed ignorò le occhiate sospettose che i suoi compagni le stavano lanciando, sedendosi al banco in prima fila e tirando fuori i suoi libri. Con la coda dell'occhio notò che anche Elke era presente, bella e ovviamente seduta vicino a Gabe che però nel frattempo stava fissando lei. 
Helga si irrigidì e per un attimo smise di respirare quando le mani di quei due iniziarono a sfiorarsi più e più volte. Non era un comportamento normale o, quanto meno, non avevano mai avuto così tanta confidenza davanti agli altri. Sperò che fosse soltanto la sua immaginazione e provò ad ascoltare la lezione di letteratura. 

 
***

«Sei proprio sicuro che abbia detto così?» Connor aveva aspettato almeno tre ore prima che il padre si addormentasse profondamente, poi aveva deciso di uscire di casa a fare quattro passi perchè quella situazione lo stava divorando da dentro. Il suo migliore amico, uno squattrinato ventisettenne di nome Alex, lo stava aspettando al solito bar degli appuntamenti già da quindici minuti quando il ragazzo fece il suo ingresso. «Al cento per cento?» domandò di nuovo mentre zuccherava il caffè. Connor annuì amareggiato mentre un groppo in gola iniziava a sciogliersi. 
Da sempre era il classico bambino che non si vergognava di mostrare le proprie emozioni e già al funerale del nonno aveva versato lacrime amare. Perfino quando lei se n'era andata via, piccolo com'era, non era riuscito a trattenersi. E poi il solo pensiero di dover dire addio anche a lui, presto o tardi, lo uccideva. «Sì, mi ha detto che è malato anche lui, non ho nient'altro da dirti». 
Alex, che non era particolarmente entusiasta di quelle sue risposte brevi e stizzite, provò comunque a capirlo e a stargli vicino come avrebbe fatto qualsiasi fratello maggiore acquisito «Magari lo ha detto soltanto per vedere come reagivi tu, anche se ammetto che non è esattamente il massimo degli scherzi» tentò di tirarlo su di morale facendogli sperare il meglio «Oppure sta scrivendo un articolo di giornale sulla situazione che gli adolescenti vivono in questi casi».
Connor finalmente lo guardò in faccia e prese a scuotere la testa «No Alex, purtroppo credo che sia tutto reale. Non ho neanche la minima idea di quanto vivrà ancora e da chi andrò a vivere, non mi è rimasto più nessuno» Alex non poteva fare altro, in fin dei conti Connor aveva diciassette anni, non due, provare a mascherare la verità non avrebbe portato nessun risultato. 
Si accomodò meglio sulla sedia e provò a riflettere e allungandogli una foto esordì: «Beh, c'è sempre lei, da qualche parte nel mondo, o sbaglio?».
Non sbagliava. Connor però non aveva più sue notizie da quando se n'era andata e non aveva la minima idea di dove fosse andata a sbattere «Sperando che abbia messo la testa a posto. E che sia viva, soprattutto» riuscì quasi a ridere di quel suo macabro sarcasmo. Alex gli lanciò un occhiataccia ed esclamò: «Non essere scemo, si che lo è!».
Possibile che fosse tutto vero? Alex sapeva perfettamente dove sarebbe andato a finire Connor dopo la morte del padre ma preferì tenere tutto per sé, per non allarmare l'amico, per non farlo preoccupare troppo.
Altrimenti che amico sarebbe stato?

 
***

All'uscita di scuola Helga era riuscita finalmente a convincere Aria a farsi dare un passaggio con la macchina. Una volta salita sull'auto la mamma dell'amica la salutò con un amichevole sorriso chiedendole quando sarebbe andata a pranzo da loro. La ragazza si strinse solamente nelle spalle e non potè fare a meno di osservare Elke e Gabe tenersi per mano davanti alla vettura del ragazzo. 
Dopo il suo svenimento, Helga aveva passato tutto il tempo ad osservare Gabe che l'aveva fastidiosamente ignorata senza un motivo per il resto della giornata. Non si era minimamente preoccupato di chiederle come stesse quando poco prima invece la stava soccorrendo. Quei suoi sbalzi d'umore iniziavano a non avere senso ed Helga si sentiva profondamente irritata da tutto ciò. Poco dopo, come se non bastasse, le era arrivata la fantastica notizie che Elke e Gabe fossero ufficialmente una coppia. 
Ed Helga in quel momento li stava spiando da oltre il finestrino invidiando con tutta se stessa la ragazza. Non c'era da rimanere sorpresi, in fin dei conti sapeva perfettamente in cuor suo che sarebbe accaduta una cosa simile prima o poi, eppure continuava a sperare di riuscire a conquistare Gabe.
A casa la madre ed Anton non c'erano e nel salone sembrava che fosse appena scoppiata una bomba. Non un solo biglietto, non una chiamata. Quella giornata era davvero troppo strana e la ragazza sperò che si concludesse il prima possibile. Si scaldò la minestra lasciatale dalla donna e si posizionò in salone a guardare la tv finalmente libera. 
Non aveva voglia di fare gli esercizi di matematica e nemmeno di studiare storia: voleva soltanto dormire e aspettare l'indomani. Nel frattempo fuori iniziò a piovere ed Amsterdam sembrava il paesaggio di un bellissimo quadro. Quel tempo però la metteva sempre di cattivo umore e cos'altro poteva andare storto in una giornata come quella?

 
***

Elke dormiva beatamente nel letto disfatto di Gabe. Si accese una sigaretta sporgendosi con il busto fuori dalla finestra. Il sole iniziava lentamente a calare mentre una pioggiarellina si abbatteva sulla città e, a petto nudo, cominciava ad accusare il freddo.
Gabe pensò che Elke sarebbe stata un'ottima moglie, perennemente con il sorriso stampato sulla faccia e forse un'amorevole mamma. Eppure quella ragazza dall'aria gentile e disponibile nascondeva qualcosa di lugubre e malvagio o almeno quella era l'impressione che Gabe aveva. Troppa felicità, troppo affetto rendeva quella persona inverosimile.  
Quasi come richiamata da quei pensieri, Elke si svegliò e indossò soltanto il lenzuolo azzurro. Si avvicinò a lui silenziosamente e, allo stesso modo, gli scoccò un bacio sulla spalla nuda. 
«Dormito bene?» Elke annuì soltanto stropicciando gli occhi e Gabe osservandola notò che somigliava ad una bambina piccola e innocente. 
«Tanti bei sogni» rispose lievemente lei avvicinandosi ancora un po' alle sue labbra. E mentre lui la baciava con passione facendole scoprire la pelle nuda, sapeva perfettamente che a pochi kilometri di distanza qualcuno da lì a poco, invece, non sarebbe riuscito a prendere sonno.


Angolo dell'autrice:  capisco che questi capitoli non
siano il massimo e che siano anche un po' noiosi
ma contengono tutti dettagli importantissimi!
Presto arriveremo proprio nel centro della storia
dove tutti i personaggi faranno la loro comparsa
e allora potrete dire di esservi affezionati a
qualcuno!
Sempre a te, Gabe.

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Capitolo 5
*** 04 // Il filo rosso. ***


 
 
04 // Il filo rosso.
"lei è inarrestabile, imprevedibile,
io sono così annoiato, misurato, sbagliato."

Con enorme riluttanza, Helga afferrò la fune che la sua insegnante di educazione fisica le stava tendendo. Quando prese tra le mani quella cordicella, sentì un brivido percorrerle l'intera schiena: erano almeno due anni che non si azzardava a dedicarsi all'attività fisica ed ora era in palestra, con tutti i suoi compagni sparpagliati sul campo, convinta che avrebbe fatto la figura della scema.
Si posizionò il più lontano possibile dalla visuale di Gabe che, con molta eleganza, aveva preso a saltellare alternando la gamba sinistra con la destra. 
Elke era seduta su una panchina con le gambe incrociate e il volto incorniciato da un mucchio di boccoli color rosso fragola. Era bellissima e con lo sguardo fisso sul suo dolce ragazzo. 
Aria le tirò una potente gomitata tra le costole, esortandola ad iniziare l'esercizio che la professoressa aveva spiegato mentre Helga era sommersa dai suoi pensieri depressi. Che stronzata imbambolarsi su una cosa tanto effimera.
Cercando di respirare regolarmente, Helga iniziò a muovere la corda cercando di non incespicare e cadere. Con molta sorpresa riuscì a completare tre serie da venti salti senza sbattere la testa sul pavimento o far ridacchiare i suoi amici. Il fiato però, alla quinta serie, iniziò a mancarle e, rallentando, si fermò di botto chiedendo alla professoressa il permesso di andare al bagno.
Perse almeno una quindicina di minuti nello spogliatoio, dove, aprendo la finestra, si mise a fumare una sigaretta. Spruzzò il deodorante per l'ambiente di Aria e finalmente decise di avviarsi verso il bagno. Sgattaiolò furtiva per non farsi rimproverare dalla professoressa e, una volta oltre la porta, si accinse a bere un po' d'acqua fresca. 
«Ancora non si è accorta della tua assenza, ma credo che tu abbia tre minuti per rientrare. Fra pochi iniziamo con gli addominali» la voce alle sue spalle la fece sobbalzare e per poco non si strozzò bevendo. 
Tossicchiò mentre Gabe le tirava forti pacche sulla schiena e ridacchiava allegro. 
«Perdonami» aggiunse in seguito, quando Helga era finalmente riuscita a tornare in posizione eretta «Non era mia intenzione spaventarti o almeno... Non fino a questo punto».
La ragazza non poté fare a meno di sorridergli ma la sua espressione tornò accigliata e seria immediatamente «Potevi uccidermi» Gabe scosse il capo mentre le si passava la manica della felpa sulle labbra.
«Ti ringrazio dell'informazione, comunque» gli soffiò sul viso mentre alcune goccioline le colavano dal mento per andarlo a bagnare sulle spalle. L'intenzione di Helga era di apparire distaccata e sensuale ma , certamente, aveva fallito miserabilmente. 
Una volta tornata in palestra, passando davanti Elke, quella la fulminò con lo sguardo. Helga riuscì a reprimere l'impulso di risponderle male con molta fatica e passò oltre, sdraiandosi accanto ad Aria che sembrava davvero presa da quell'esercizio.
«Come riesci ad eseguire il tutto senza fatica?» bofonchiò Helga più per sé che per l'amica. Quella la fissò con sguardo truce e continuò per un altro minuto prima di risponderle: «Innanzitutto non mi metto a parlare a vanvera. Se stessi zitta risparmierest....» ma la ragazza la interruppe bruscamente, quasi offesa da quella sua uscita: «Ho capito, ho capito! Quanta cattiveria» e, per il resto della lezione,  se ne stette da sola in disparte senza spiaccicare più parola con nessuno.

La lezione di storia dell'arte fu una vera noia mortale per l'intera classe. Il professore continuava a parlare della somiglianza tra alcuni disegni dell'età della pietra con civiltà maya e via dicendo, insistendo sull'esistenza degli alieni e di basi extraterrestri sparse in tutto il mondo.
«Per la prossima settimana vi assegno quindi un tema proprio su questo argomento, cercate di approfondire questa tesi con disegni e illustrazioni, anche prese da internet». 
Helga avrebbe voluto avere una pistola per minacciarlo a morte: ma che razza di compito stupido e senza senso gli aveva dato? Alieni, uomini primitivi, civilità maya!
La ragazza si fece coraggio e, con molta spavalderia, alzò la mano mentre i suoi compagni di classe continuavano a prendere appunti sul diario. 
Il professore Herrmann, un simpatico olandese di Leida sulla cinquantina e con un sorriso prorompente, fissò quella mano per aria con abbastanza disgusto. Sapeva già perfettamente quale polverone avrebbe alzato con una polemica la cara alunna Van Der Meer. 
Non potendo fare a meno di ignorarla, poiché tutti avevano già sospettato il suo intervento, decise, con un enorme sbuffo, di darle parola. 
«Mi scusi eh» iniziò più scocciata e arrogante che mai. Parlare davanti ad un mucchio di gente non era esattamente ciò che amava fare, ma in quel caso era di vitale importanza. 
«Vorrei soltanto farle notare che tutta questa storia è un mucchio di... Di...» si sforzò di cercare una parola che non fosse 'stronzate' «Balle».
La classe scoppiò in una risata generale mentre qualcuno, dagli ultimi banchi, acclamava quel generoso intervento. Helga li ignorò e fece di tutto per non offendere il professore «Nel senso, non che lei sia un incompetente, ma trovo tutti questi suoi alieni, uomini primitivi e disegni sui muri...» 
Il professor Herrmann non le diede neanche il tempo di completare il pensiero. Inforcò gli occhiali e con due enormi falcate le si posizionò davanti. Sentì Aria sospirare appena, probabilmente aveva anche alzato gli occhi. L'uomo però continuava a fissarla intensamente, con una strano sorrisetto sul volto. 
«Helga, che gli alieni esistano o no, che i maya abbiano disegnato o meno le stesse figure rappresentate dagli uomini primitivi» fece una pausa teatrale e con un ampio gesto del braccio indicò la classe «Non puoi negare che siamo tutti legati da un impercettibile filo rosso. Se soltanto qualcuno di voi avesse ascoltato la mia lezione più attentamente, avrebbe capito che l'intero ragionamento sarebbe finito qui» andò a sedersi sulla cattedra mentre le idee della ragazza non facevano altro che confondersi.
Erano addirittura arrivati a fare psicologia? Assurdo.
«Il nostro destino è legato a quello degli uomini di centinaia di anni fa. I nostri gesti, pensieri, sorrisi, amori, amicizie. Tutto!» tuonò così forte che persino Gabe quasi si spaventò. 
Helga scuoteva la testa, ogni singola parola che quell'uomo stava pronunciando era praticamente illogica e stupida. Destino? Gli uomini programmavano il proprio futuro a piacimento, senza essere vincolati da una forza più potente.
Quella sbuffò «Caso, destino, stiamo scherzando? Il futuro è nostro, siamo noi che lo costruiamo con le nostre mani, altrimenti saremmo soltanto delle marionette in mano a qualcosa» 
«O qualcuno» aggiunse il professore correggendola
«Sì, o qualcuno che decide che cosa faremo o diventeremo. È impossibile. Sono io che al momento decido cosa fare, come reagire. Nessuno può comandarmi» e ne era pienamente convinta. Nonostante fosse una cosa assolutamente sbagliata, teneva testa perfino a sua madre, figuriamoci se un animo ribelle come lei poteva essere domato da un'essenza che neanche esisteva.
La conversazione in classe era degenerata, tanto valeva continuarla. Era diventato più un dialogo intimo tra il professore ed Helga perchè gli altri ne approfittarono per farsi i propri affari, a parte Gabe, parve alla ragazza, più attento rispetto alla classe. 
«D'accordo Helga, pensa a due ragazzi che ogni giorno prendono lo stesso autobus. Sono due anime gemelle che, se solo si incontrassero, sarebbero destinati a stare insieme per il resto della loro vita. Ma c'è un piccolo problema: la ragazza sale sempre una fermata dopo che il ragazzo è sceso. Ora dimmi, è destino, o caso? O nessuno dei due?»
Helga evitò di ridere di cuore e rispose secca e senza giri di parole: «Questa è sfiga, niente di più». Avrebbe voluto aggiungere dell'altro, dire che quel ragionamento era praticamente contorto e impossibile, ma preferì chiudere la questione lì: quel dibattito le aveva già tolto troppo tempo.
Probabilmente il professore pensò la stessa identica cosa. Diede un colpetto alla cattedra, si alzò in piedi e ricordò la classe l'appuntamento per il museo di Van Gogh. 
«Non dimenticatevi, dopodomani ore otto e quarantacinque davanti all'entrata. Vi ricordo che è vietato scattare foto, toccare i quadri e girare filmati. Vi prego di non comportarvi come bestie e attenetevi alle regole dato che ritengo che siate abbastanza grandi e maturi».
Ah, la gita. 
Helga c'era andata soltanto una volta, da più piccola, in quel museo che le pareva un labirinto enorme. A diciassette anni, almeno, avrebbe appreso ancora di più i segreti celati dietro quelle meravigliose tele. Non stava più nella pelle di girovagare in completa solitudine tra le sale, di leggere le lettere del pittore scritte al fratello Theo, di consultare la biblioteca, i computer messi a disposizione dei turisti.
Ma qualcosa, dentro di lei, le suggeriva che sarebbe stato meglio starsene a casa, era sicura che vecchi ricordi l'avrebbero aggredita alla sprovvista, facendola sprofondare in un buco nero dalla quale non sarebbe più uscita.
***

Shani si coprì gli occhi dalla debole luce che filtrava dalla finestra della camera. Si era svegliata dieci minuti prima del previsto e si sentiva eccitata e riposata. 
Vagò con lo sguardo in giro per la sua stanza finchè non vide, appoggiata alla porta di legno tinta di verde, la sua valigia finalmente pronta. Si alzò lentamente e raggiunse la madre che allegra le stava preparando la colazione.
«Tesoro!» esclamò vedendola lì, già bella pimpante e sorridente «Già in piedi?»
Shani si passò una mano nei  vaporosi capelli ricci e si strinse semplicemente nelle spalle «Non sto più nella pelle anche se ho un po' di paura, tutto quel tempo lontana da casa».
La madre le passò una tazza stracolma di latte con caffè e una confezione di cereale, poi si posizionò davanti alla figlia, con i gomiti sul tavolo. 
«Stai semplicemente partendo per una vacanza studio di un mese, mica vai in esilio» ridacchiarono all'unisono e la donna più anziana sorseggiò il suo caffè.
«Tra l'altro» proseguì cercando comunque di sopraffare l'emozione «Sarai ospite di tuo zio, non è uno sconosciuto. È mio fratello, anche se un po' svitato ma comunque l'hai conosciuto!» concluse con un sorriso.
Shani continuava a masticare i suoi cereali al cioccolato, guardando assiduamente l'orologio «Certo, è venuto qui quest'estate, ma comunque... Mamma, è lontano» la donna si alzò per abbracciarla e le diede un buffetto sulla guancia «Lo so, e non è neanche uno dei posti più caldi del mondo, ma ti adatterai, vedrai» poi, controllando il display del cellulare, si tirò una sonora manata in fronte «Accidenti come corre il tempo! Mangia e preparati in fretta, dobbiamo scappare in aeroporto!».
A quel pensiero la ragazza sorrise. Un mese lontana da Città del Capo, dalla sua casa, da sua madre e dalle sue amiche. Trentuno giorni di completa solitudine con l'esclusiva compagnia di quello svitato di suo zio Ghali in una città completamente sconosciuta.
«Shani, tesoro! Mi raccomando di non dare retta a mio fratello nel caso in cui ti inviti a fumare con lui. Non drogarti!» si assicurò la mamma dalla sua camera da letto, mentre la testa era infilata nell'armadio in cerca dell'ennesimo giacchetto pesante da infilare in valigia.
Shani ridacchiò a bassa voce, diede l'ultimo sorso alla sua tazza di latte e corse in bagno.
Amsterdam la stava aspettando.
***

Le chiavi di casa non riuscivano ad infilarsi nella toppa. Probabilmente sua madre era tornata e le aveva dimenticate nella porta, lasciando così la ragazza sul pianerottolo. Citofonò cinque volte, giusto per assicurarsi che non ci fosse nessuno, e poi si sedette sconsolata sulle scale. 
Dieci minuti più tardi, la madre accorse ad aprirle con indosso solamente un accappatoio di spugna rosa. Helga le lanciò un'occhiata eloquente ma decise comunque di non rimproverarla, né di litigarci: avrebbe sprecato soltanto preziose energie. Lasciò la cartella in corridoio, scavalcò una scatola di scarpe gettate in mezzo e si chiuse in camera. 
Una leggera pioggia iniziava a cadere sulla città. La ragazza sospirò ed accese il suo portatile nella noia più totale. Aprì il cassetto dove nascondeva la sua riserva privata di erba e...
Un'imprecazione rimbalzò per tutta casa Stoffer/Van Der Meer. 
Helga si alzò di scatto dalla sedia e si fiondò in salone, dove sua madre e Anton stavano intenti a guardare la tv. Lei si parò davanti a loro, con l'odio nello sguardo e le mani sui fianchi.
«Okay, non voglio dare la colpa a nessuno ma dove cazzo sta la mia erba?».
La donna e il compagno si scambiarono occhiate interrogatorie, a parlare fu l'uomo: «Non puoi incolpare noi da l momento in cui ieri siamo stati tutti il giorno fuori e siamo ritornati soltanto poco fa».
Helga lo osservò a lungo, in silenzio. 
Trattieniti e non scoppiare, si ripeté mentalmente, trattieniti e non saltargli addosso.
«Ah, a proposito, dove siete stati ieri? E perchè non una sola chiamata, né un bigletto?»
Questa volta fu la madre a parlare. Struccata e con i capelli legati appariva più anziana di quanto non fosse. «Anton ha pensato di regalarmi un giornata alle terme vista la situazione in casa. Ma comunque non siamo stati noi, sai che a me quella roba fa schifo e sono pienamente contraria anche al fatto che tu ne faccia uso». Ma certo, Helga lo sapeva perfettamente e fumava a casa anche per infastidirla.
Nonostante la calma apparente, stava iniziando a perdere la pazienza.
«Senti, ne posso ricompare a centinaia, davvero, ma se non salta fuori abbi almeno la pietà di ridarmi i trenta euro, sai com'è, anche se cresce per terra la compro, mica la rubo» si stava chiaramente riferendo ad Anton, lo guardava negli occhi minacciosa. Quello scoppiò in una fastidiosa risata, scacciandola con la mano.
«Ti ripeto che siamo tornati poco fa, non ho fumato io la tua White Window»
Bingo.
Helga per poco non prese a schiaffeggiarlo «Non ho mai parlato di White Window. Come diavolo facevi a sapere che era quel tipo e non un altro? E non venirmi a dire che te l'ho detto io perchè il mio comunicare con te è davvero limitato. Adesso dammi i trenta euro».
Anton sembrava completamente spiazzato dalle accuse della ragazza. Non c'erano dubbi che le stesse dicendo il vero e che i soldi le spettassero, ma la madre decise comunque di intervenire.
E non per difendere la figlia.
«Scusati immediatamente con Anton e dimentica questa storia dei soldi».
Contro ogni aspettativa, Helga non si mise a piangere, non sentiva neanche il groppo in gola. Non scappò, né si chiuse in camera a gridare isterica. Fissò le due figure beffarda mentre accennava un impercettibile inchino «Oh, oh miei sovrani, vi ho forse mancato di rispetto?» cantilenò. 
«Adesso, se me ne date il permesso, mi chiudo nelle mie stanze a riflettere sul mio terribile comportamento. Certamente, e scusatemi se non ci ho pensato prima, il folletto dell'erba si è intrufolato nel mio cassetto, ha fumato tutte le mie riserve e poi, con molta grazia, è salito sulla spalla del caro Anton, suggerendogli il tipo di marijuana. O forse è semplicemente un indovino?».
Quelli rimasero a bocca asciutta, Helga concluse il teatrino e diede un violento pugno sul tavolo di legno «Dov'è il vostro rispetto per me? Quei soldi li avevo messi da parte, erano i risparmi di ogni volta che ti ricordavi di darmi qualcosa e io spendevo poco per la merenda. E poi ti chiedi come mai ero finita con il diventare una ladra».
Non aggiunse altro, accennando un'altra riverenza, indietreggiò fino in camera sua, dove, finalmente, si accese una sigaretta mentre fuori il diluvio era appena cominciato.


Angolo dell'autrice:  un capitolo di passaggio ma di vitale importanza, 
dal prossimo verranno a galla tantissime cose!
Assolutamente niente è lasciato al caso
(eheh), fate quindi attenzione a tutti i piccoli particolari.
Tornerò presto, davvero prestissimo, promesso.
Grazie ai lettori silenziosi, a chi ha lasciato una traccia
del proprio passaggio, a chi mi consiglia.
Grazie di cuore.

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Capitolo 6
*** ​05 // Ricordi e confessioni. ***


 
 
05 // Ricordi e confessioni.
"oh ricordi, dove siete andati?
Eravate l'unica cosa che conoscevo."

Quella mosca proprio non voleva saperne di lasciarla stare. Helga provò prima a scacciarla con un gesto della mano, poi con un colpo secco del diario che fece sussultare Aria e infine, a bassa voce, prese ad insultarla in tutte le lingue che conosceva. 
La professoressa di francese continuava a fare su e giù per la classe, ribadendo quanta poca attenzione ci fosse durante le sue lezioni: i compiti in classe andavano sempre uno schifo per tutti e in più nessuno faceva niente per migliorare.
L'insetto se ne stava sempre lì, a ronzare nelle orecchie di Helga che imperterrita sbuffava. Riuscì a mantenere la calma una quindicina di minuti, tentando di ignorare quel fastidioso rumore. Dopo un po' però cedette, e il suo astuccio andò a scagliarsi sul banco, rimbalzando e rovesciando tutto il contenuto a terra.
«Ma vai al diavolo!» fu l'imprecazione che ne seguì mentre tutta la scena si svolgeva sotto gli occhi increduli di Miss Lorey, professoressa madrelingua. 
«Helga Van Der Meer!» la sgridò quella mentre metà della classe ridacchiava sotto i baffi «Ti pare il modo di interrompere una lezione? Se avevi bisogno di un po' di attenzione sarebbe bastato altro!».
La ragazza abbozzò stringendosi nelle spalle e chinandosi a raccogliere le matite sparpagliate sul pavimento freddo. Una volta tornata su, però, si accorse che tutti erano ancora intenti a fissarla, aspettandosi qualcosa. Helga li scrutò un po' alla volta, domandandosi che razza di problemi avessero. Avrebbe voluto dirne quattro a tutta la classe, che non bisognava prendersela tanto per un po' di baccano e che sarebbe potuto capitare a chiunque.
«Beh?» chiese irritata. 
La professoressa sembrò sorpresa dalla sua uscita, si parò davanti a lei e gridò esasperata: «Beh cosa, Helga? Ci hai appena detto che avevi un avviso importante da fare ad un componente della classe! Stiamo tutti aspettando te e il diretto interessato».
Si costrinse a non fissare Gabe, non sarebbe stato altro che un gesto involontario, un riflesso. Perchè lei non aveva detto assolutamente nulla, era impossibile che una frase simile le fosse scappata dalle labbra altrimenti l'avrebbe ricordata.
Si guardò le mani, poi spostò lo sguardo su Aria, di nuovo sulle mani. 
La sua compagnia di banco lo riconobbe all'istante. Si catapultò sulla finestra più vicina e, nonostante il freddo e le proteste, la spalancò, facendosi spazio tra la calca che nel frattempo si era formata attorno ad Helga.
Erano tutti improvvisamente gentili e cordiali con lei, al punto da far innervosire l'amica che li spintonò all'indietro chiedendo di farla respirare.
Helga era presente, ma non del tutto. Il suo corpo era lì, in mezzo a quei visi preoccupati e a quelle domande sommesse, ma la sua testa era altrove. Helga viaggiava a rilento, il mondo attorno a lei si muoveva così velocemente che faceva fatica a stargli dietro. Intorno c'erano solo suoni confusi, facce sfuocate e un imminente pericolo. Non seppe mai spiegarsi il perchè di quella sensazione, eppure qualcosa dentro di lei, le suggeriva che la sua vita non era più al sicuro.
«A-Aria?» balbettò debolmente mentre provava ad allungare una mano da dove credeva provenisse la voce dell'amica «Sei ancora qui vicino a me?»
Quella l'abbracciò a lungo e le diede un bacio sui capelli «Si, sono sempre vicino a te» sussurrò ma Helga non riuscì a cogliere l'intera frase. Sospirò e si abbandonò alla sedia, con la vista sempre più appannata e gli altri sensi addormentati.
«Ho paura di non riprendermi mai più. Ho paura di restare così, matta per sempre» cantilenò isterica mentre soffocava l'impulso di scoppiare a piangere senza un buon motivo apparente.
«Oh no, no» tentò di rassicurarla mentre le stringeva la mano «Sono quei soliti fastidiosi cinque minuti, ma poi passa, Helga, passa tutto. Me l'hai insegnato tu». Ascoltare quelle parole la fece sentire decisamente meglio. I muscoli intorpiditi si rilassarono, il battito ritornò ad essere un poco alla volta regolare ed Helga finalmente riuscì a superare l'ennesimo attacco di panico.
La classe la osservava con curiosità e chissà cosa stava passando per le loro teste. Perfino Miss Lorey sembrò visibilmente preoccupata. Helga le fece cenno con il capo di non farsi troppi problemi e poi aggiunse: «Non devo dire niente a nessuno. Mi sarò sbagliata». Si strinse nelle spalle ma, in cuor suo, temeva di aver fatto un'uscita del genere di non saperne neanche il motivo.

 
***

Connor osservò le sottili dita del padre stringersi attorno alle sue per l'ultima volta. Nonostante i medici avessero sconsigliato al ragazzo di passare altro tempo con l'uomo, in quella casa di cura piccola e asettica, Connor non riusciva proprio ad immaginarsi con quale coraggio lo avrebbe  potuto lasciare da solo. E ora era lì, ad emettere il suo ultimo respiro prima di chiudere gli occhi per sempre.
Da piccolo la chiamava 'la brutta bestia', perchè mangiava gli uomini e lasciava loro poca possibilità di sopravvivere. Ne aveva così paura da stare perfino attento a non respirare il fumo passivo della sorella o quello del sigaro del nonno.
E in quella triste giornata di novembre, si era portato via anche il suo papà.
Non pianse neanche quando i medici lo invitarono ad allontanarsi in più fretta possibile dalla camera da letto. Osservava, da oltre il vetro, il corpo esamine di quello che ormai era suo padre.
Non aveva più una famiglia, né un posto dove stare. Forse lo avrebbero sbattuto dentro qualche casa famiglia, in attesa della maggiore età. O magari sarebbe riuscito a scappare o a farsi affidare ad Alex. Erano però tutte pessime idee. 
In quel preciso momento perfino la sua casa in piena città gli parve incredibilmente meravigliosa.
In quel preciso momento la vita gli sembrò un dono immenso da non sprecare.
In quel preciso momento,  Connor, che aveva perso tutto, decise di lasciare il segno. Da qualche parte nel mondo.

 
***

Aria era scappata dalla parte opposta della sua. Doveva sbrigarsi se voleva arrivare in tempo al pranzo organizzato con i famigliari del suo ragazzo e quindi Helga si ritrovava a passeggiare da sola, stretta nella sua giacca a vento, in compagnia del suo amato mp3.
A parte quel piccolo inconveniente durante l'ora di francese, a Gabe non aveva pensato per tutto il tempo. Forse le stava passando e magari presto sarebbe riuscita a concentrarsi su qualche altro ragazzo, più disponibile, socievole e, soprattutto, con meno sbalzi d'umore.
Era quasi fuori dal parcheggio della scuola quando, il rumore di una rapita sterzata, superò il volume della musica. Helga osservò quel veicolo malconcio e vecchio mancarla per un pelo ed andare a sbattare contro il palo lì vicino. La nube di fumo che si alzò non le impedì di leggere la targa che riconobbe all'istante.
Non era possibile.
Prima che qualsiasi altra persona potesse raggiungerlo, prima che Elke potesse correre in suo soccorso, Helga gettò tutto a terra e si precipitò verso l'auto, pregando che almeno uno dei due finestrini fosse aperto per aiutarlo.
Tossendo si gettò letteralmente sulla portiera che non riuscì a forzare, prese a sbattere i pugni contro il vetro chiamando a gran voce il suo nome. Il ragazzo sembrò sentirla, si voltò verso di lei e le accennò un sorriso.
Fu così che Helga vide.

«Padre, crede davvero che la Nuova Inghilterra sarà la salvezza di tutti noi?» per un momento l'uomo sembrò finalmente accorgersi della presenza della figlia. Posò a terra il martello con i chiodi e la fissò meravigliato, allungandole perfino una carezza.
«La mamma apprezzerebbe davvero molto tutto questo» sospirò specchiandosi negli occhi verde chiaro della ragazza. «Mia cara, la Nuova Inghilterra sarà un posto magnifico per ogni singolo componente della nostra comunità e non. Hai già conosciuto i membri della tribù dei Wampanoag?».
La giovane Mary scosse il capo ed incrociò le dita dietro la schiena.
Oh, eccome se aveva avuto l'onore di scambiare quattro chiacchiere con quei nativi americani. E di certo mai e poi mai avrebbe dimenticato il volto di Keme, promettente cacciatore e ragazzo dall'animo gentile.

Helga continuò a chiamare, con tutte le sue forze Gabe ma lui era lì, intrappolato in quel catorcio e non sembrava affatto sentirla. Nel frattempo un mucchio di curiosi si era riunito attorno alla scena ma nessuno di loro si azzardò ad aiutare Helga.
Quella continuava a prendere a pugni il finestrino, a gridare, a provare ad aprire la portiera. L'osservò chiudere lentamente gli occhi mentre un rivolo di sangue iniziò a colargli giù per la fronte. La ragazza si fermò temendo il peggio.
«Ti prego Gabe, ti prego» sussurrò «Non lasciarmi».
Non sapeva neanche cosa stesse dicendo o perchè, tanto lui sembrava non ascoltarla. Eppure Helga continuava a supplicarlo, e ancora e ancora.
Gabe aprì gli occhi e trasse un enorme respiro, come se fosse stato a lungo in apnea. Riprese coscienza e la prima cosa che fece fu far scattare le portiere e uscire fuori di lì.
Helga gli corse incontro, non lo abbracciò, lo guardò con sdegnò ed esclamò irritata: «Pensavo che stessi per morire. Ti odio Gabe e ti avrei avuto per sempre sulla coscienza».
Il ragazzo ridacchiò e la strinse tra la morsa delle sue braccia: «Morire? Helga!» sentiva il suo respiro caldo sul collo, era una sensazione meravigliosa che quasi... non ricordava più.
«C'è soltanto un po' di sangue» proseguì allontanandosi da lei e passandosi un indice sulla ferita ancora fresca «E ho mal di testa. Ma la macchina è rotta e al momento non ho i soldi per comprarmene una nuova. O farla riparare». 
Nonostante l'auto con il muso sfasciato e il fumo che continuava ad uscire, Helga si sentì molto meglio. Ma se fosse andata in modo diverso? Se Gabe fosse morto davvero come avrebbe passato il resto dei suoi giorni? 
«Ti odio lo stesso. Adesso me lo dai un passaggio?» rise senza troppa convinzione, corse a riprendere le sue cose e lo salutò di tutta fretta mentre Gabe continuava a chiamarla ad alta voce.
Helga aveva una ricerca importantissima da fare e al diavolo quella di arte sugli uomini primitivi, al diavolo anche gli esercizi di matematica e le frasi da tradurre in francese. 
Quando entrò in casa evitò perfino di salutare la madre, seduta comodamente sul divano e in vestaglia, e si catapultò in camera. Si accese una sigaretta mentre sulla tastiera digitava veloci parole.
Keme era soltanto un nome maschile, un po' strano che non aveva mai sentito prima di allora. Ma cosa aveva visto di preciso qualche minuto prima? E com'era stato possibile?
Un flashback, ne era quasi sicura. Ma era durato qualche minuto quando nella realtà erano passati solo pochi istanti. 
Cosa le stava accadendo? E soprattutto: qual era il nome della tribù che aveva sentito nominare?
Pawanog? Mapawonag? Nawampoag? Wampanoag!
Helga lesse velocemente le prime righe e dedusse che avevano a che fare con i Padri Pellegrini. La ragazza non aveva visto nessun film al riguardo che avrebbe potuto segnarla in qualche modo, tanto meno letto libri o affrontato l'argomento con storia.
Guardando la sigaretta bruciare si rese conto che erano soltanto un mucchio di pensieri stupidi, che lo stress per la scuola la stava divorando e che quello era soltanto il frutto di troppe canne durante l'orario scolastico. Magari, per guarire, avrebbe dovuto smettere di fumare, o almeno provarci.
Ma era una pessima, pessima idea.
Fortunatamente l'indomani si sarebbe riposata grazie alla gita al museo, sicura che Gabe avrebbe ripreso ad ignorarla con la scusa che Helga portasse sfiga.

 
***

«Corinne... Tuo padre è morto stamattina».
Alex non riusciva proprio a mandare giù l'idea di dover fare il portavoce di certe notizie. Se ne stava appoggiato alla cabina di un telefono pubblico, leggermente lontano dalla cornetta, in attesa di una qualsiasi reazione dall'altra parte.
Udì un sospiro ma la voce, quando parlò, non era affatto rotta: «Alex, da dove diavolo mi stai chiamando? E come hai fatto a rintracciare anche questo numero?»
Il ragazzo ridacchiò immaginando la sua faccia irritata con tanto di rossore sulle guance «Oh, cara, lo sai perfettamente che il primo amore non si dimentica mai! Come sai anche perfettamente che tuo fratello non ha più nessuno, a parte te».
Probabilmente trattenne il respiro e strinse forte il telefono «Non puoi venire qui da me, io sto lavorando e...» ma prima che potesse aggiungere altro, Alex la interruppe: «Sei stata via per troppo tempo ed è ora che voi due riallacciate i rapporti. Davvero pensi che per Connor sia meglio andare a sbattere in un orfanotrofio? Dopo tutti i traumi, credi davvero che gliene serva un altro? Presto o tardi, per mano tua o mia, se preferisci, saprà che sei viva, che stai bene e dove ti trovi e verrà da te. Quella ragazza a cui pulisci la camera, lì...»
«Yurim» lo corresse Corinne
«Sì, quella tipa lì potrebbe mettere a lavorare anche tuo fratello» secondo Alex era un piano perfetto. Dirgli addio gli avrebbe distrutto il cuore ma, in compenso, ogni volta che sarebbe andato a trovarlo avrebbe rivisto anche la sua prima ed ultima ragazza.
Corinne si arrese, sospirò di nuovo ed Alex ricordò con nostalgia quelle volte in cui lo faceva in sua presenza, con gli occhi tristi e lo sguardo sempre perso verso il cielo.
«Potrebbe funzionare» sentenziò non troppo soddisfatta «Ma c'è un piccolo problema: tra meno di tre giorni partiamo in vacanza, Yurim mi porta con lei in Europa...»
«Fantastico!» sbottò «E' l'occasione perfetta per far passare un po' di giornate tranquille anche a tuo fratello»
«Non credo... Non credo... Oh accidenti, non credo che mi dirà di no. La storia è anche abbastanza commovente» Corinne parlava in modo apatico, dalla sua voce non trapelava nessun tipo di emozione.
«Altrochè se lo è. E adesso dammi indirizzo e recapito telefonico, ho dei giri da fare, una valigia da preparare, un biglietto aereo da comprare e un ragazzo da mandarti» con carta e penna in mano, e la cornetta incollata all'orecchio, prese appunti. Infilando il foglio in tasca, fece per attaccare ma, prima di chiudere la telefonata, bisbigliò in fretta: «Io non ti ho mai dimenticata» e, così dicendo, agganciò.


Angolo dell'autrice:  e via con il quinto!
Non potete proprio immaginare quanto io sia
fiera e orgogliosa di questa storia che mi piace sempre di più!
Inoltre volevo ringraziare i cuore Pandora Stark, 
Shomer e _BonjourTristesse.

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Capitolo 7
*** ​06 // Van Gogh. ***


 
 
06 // Van Gogh.
"non preoccuparti della distanza,
sono proprio qui se ti senti sola."

«Non hai nessun graffio, mi auguro!» la voce di Aria, nonostante i cinque minuti passati al telefono, ancora risuonava lontana anni luce. Prima di rispondere Helga aveva sbuffato e aveva infilato la testa sotto il cuscino, cercando di ignorare la fastidiosa suoneria che stava tentando di svegliarla. Aria aveva insistito continuando a chiamarla per altre cinque volte, così, in preda all'esasperazione, la bionda si era fiondata sul cellulare rispondendo con voce impastata ancora di sonno.
Aria aveva attaccato a blaterare su quanto fosse andato bene il pranzo con i famigliari del ragazzo e di come la serata, poi, si era svolta nel migliore dei modi.
Helga stropicciò gli occhi e si affacciò alla finestra, accingendosi ad accendere la sua solita sigaretta mattutina post dormita.
«Quindi mi stai dicendo che non sei più vergine e che ti ha perforato per benino. Ottimo, sono contenta per te!» esclamò senza troppa convinzione mentre la città, come lei, aveva appena iniziato a svegliarsi.
«Oh, smettila, mi metti in imbarazzo!» bofonchiò Aria percettibilmente irritata «E ti ho detto che appena ci saremmo viste te l'avrei raccontato in modo più dettagliato».
Helga rise soltanto dopo aver soffocato la bile che iniziava a risalirle su per lo stomaco, un po' per la sigaretta, un po' per l'affermazione dell'amica «Ehy, frena i tuoi spiriti bollenti, so perfettamente come funziona la riproduzione sessuale» e preferì tralasciare la sottile differenza tra 'il sapere come si fa' ed il 'non averlo mai praticato'. 
Helga, in teoria, era l'unica nella sua classe a non aver ancora sperimentato i piaceri del sesso, rispondendo a qualsiasi battutina scema con quello che aveva letto sulle riviste a riguardo. A parole la credevano tutti brava, quasi un'esperta, ma Aria, la sua migliore amica, sapeva perfettamente che quelle erano solo chiacchiere poiché Helga, di amore, sapeva ben poco.
«Oh, volevo soltanto renderti gioiosa insieme a me di questo grande evento» piagnucolò Aria.
Helga si sentì terribilmente in colpa, se la immaginò tutta incupita mentre il suo entusiasmo veniva smantellato dalle sue affermazioni. «Scusa, sono contenta per te, davvero». 
Aria riconobbe all'istante la nota di sincerità nella sua voce e sembrò riprendersi. Tossicchiò imbarazzata, Helga non era una che facilmente chiedeva scusa ma tutt'altro, e cambiò immediatamente argomento, giusto per assicurarsi che non degenerassero in altre smancerie che non erano per niente il loro punto forte.
«Comunque, ti ho chiesto se stai tutto bene, se Gabe ti ha per caso preso con la macchina, se hai male alla gamba o...» prima che potesse continuare il suo elenco, Helga tentò invano di interromperla poiché Aria continuava la lista senza ascoltarla.
L'amica aspettò pazientemente che finisse, poi, ridacchiando, iniziò con il suo racconto: «No, Aria, non sto per niente male. Gabe ha battuto la testa, gli usciva un po' di sangue ma dalla sua reazione non sembrava niente di strano. Piuttosto tu come hai fatto a saperlo? Lo hanno detto al telegiornale?»
Aria pensò che la sua amica doveva essere davvero strana ma preferì tenere quest'osservazione per sé: «Ma quale tg! Ah, Helga, sai benissimo anche tu che qui, le notizie, vanno quasi più veloci della luce. C'è perfino chi giura che sia stata Elke a costringere il povero Gabe ad investirti con la macchina, sai, teme per il suo posto da fidanzata».
«Ti prego, smettila con queste cretinate. Elke e Gabe stanno bene insieme, punto» dirlo costò una certa fatica alla ragazza. Certamente avrebbe preferito prendere lei il posto della fortunata rossa, ma pensare addirittura ad un attentato nei suoi confronti perchè Elke era davvero gelosa di Helga era supposizione più che stupida.
«Dici così soltanto perchè te ne sei convinta. Secondo me è vero, cioè non del tutto, ma lei è sicuramente gelosa di te. Adesso vado a fare colazione, mi accompagna papà con la macchina, che fai, vieni con noi?»
Helga guardò l'0rogologio consapevole che nel suo frigo non ci fosse niente da mangiare e così decise di rimettersi al letto per un'altra decina di minuti «No, vado con i mezzi, ma grazie lo stesso per il pensiero. Ci vediamo dopo!» e con un'inspiegabile tristezza in corpo, attaccò all'amica senza aspettare una sua risposta.
Non si fiondò sotto le coperte ma passò il tempo restante a fissarsi allo specchio cercando di darsi una sistemata. Si soffermò sulle sopracciglia castane e dalla forma così particolare: sua mamma aveva insisto un sacco di volte sul fatto che Helga sarebbe dovuta andare dall'estetista per farsi dare una sistemata ma a lei piacevano così, conferivano all'ovale viso un'aria diversa, fresca e inoltre era molto più espressiva di tante altre ragazze con le sopracciglia talmente fine da essere quasi invisibili. 
Dopo una piacevole doccia calda, fu il momento di acconciarsi e vestirsi. 
Gabe non riusciva a vederla più di una conoscente? Poco importava, lei si sarebbe concentrata su qualche altro ragazzo.
Helga si concesse un po' di matita sugli occhi e abbondò con il mascara. Evitò cipria, fondotinta e cose strane che le avrebbero soltanto irritato la pelle e colorò le sue labbra con un rossetto di un rosso scuro. Appiattì i capelli sotto uno zuccotto nero, indossò una felpa larga senza cerniera, dei jeans, le sue scarpe da ginnastica preferita e uscì di casa. 
Se soltanto sua madre l'avesse vista vestita così, le avrebbe dato della poco di buono insinuando inoltre che il suo orientamento sessuale fosse dubbio e che somigliasse ad un ragazzo. Gliel'aveva ripetuto molte volte, pronunciava sempre le stesse parole e tirava in ballo la defunta nonna affermando che se soltanto avesse avuto la possibilità di vedere sua nipote, ne sarebbe rimasta profondamente delusa.
«Che fine ha fatto la tua femminilità?» le borbottò la donna poco prima che Helga si richiudesse la porta di casa alle spalle. 
Non osò neanche voltarsi per risponderle: «Dov'è finita la tua dignità? Prendo la tua bicicletta, torno più tardi, ciao».
Scese le scale due a due e finalmente poté togliere le catene alla vecchia bici della mamma che stava ferma sotto casa da almeno quattro mesi. La vernice rosa era ormai scrostata e  alcune parti di pelle del sellino erano strappate. Helga montò su e si addentrò per le vie di Amsterdam con un notevole anticipo.
Scelse la via più lunga, si concesse una piccola pausa a Piazza Dam e proseguì passando oltre canali e piccole viuzze. Una volta davanti al museo, parcheggiò la bicicletta lontana dalla visuale dei suoi compagni di classe e si avviò verso l'entrata. 
Aria non era ancora arrivata e Helga si concesse l'ennesima sigaretta. 

«Ce l'hai il biglietto per entrare?» la voce di Gabe risuonava minacciosamente vicina. Helga si tastò addosso e scosse la testa: «Credo che si siano dimenticati di me» rispose sconsolata mentre si avviava nella direzione del professore.
Gabe la fermò mostrandole due piccoli cartoncini colorati: «Uno è il tuo, prendilo» d'istinto la ragazza afferrò quello più scuro raffigurante 'I mangiatori di patate' e, biascicando un veloce grazie, raggiunse Aria che nel frattempo era entrata nel museo e per tutto il tempo non aveva fatto altro che fissarla sospettosa da oltre il vetro. 
«E' talmente gentile che quasi mette i brividi» Helga le lanciò un'occhiata divertita mentre la restante parte della classe iniziava ad entrare nel museo.
«Hai ragione» sentenziò la ragazza una volta dentro «E' da ieri che sprizza dolcezza da tutti i pori». 
Aria si fermò poco prima di andare a sbattere contro un visitatore probabilmente giapponese e proseguirono a slalom tra gli altri turisti.
«Si sentirà in colpa nei tuoi confronti» probabilmente aveva ragione ma in cuor suo sperava soltanto che qualcosa, nel profondo dell'animo del ragazzo, si fosse mosso.
«Già e se non smetterà di fare il galantuomo Elke mi taglierà la testa» di tutta risposta, Aria mimò con il pollice un coltello passante sul collo e si mise a ridere: «In effetti ti fulmina con lo sguardo ogni volta che vi sorprende a scambiare due chiacchiere».
Elke non aveva affatto tutti i torti: Helga non sapeva che tipo di fidanzata lei stessa sarebbe stata, se di quelle gelose o menefreghiste, ma era sicura al massimo che Elke appartenesse alla prima categoria e, oltretutto, aveva come ragazzo niente meno che Gabe.
Lui, prima di Elke, sembrava come se completamente disinteressato ad avere una vita sentimentale (quanto meno stabile e duratura) eppure appariva così felice in sua compagnia.
Helga dovette ammettere con rammarico che l'amore era imprevedibile e che quel tipo di fortuna non le sarebbe mai capitato in vita sua.
Il professore chiamò all'attenzione l'intera classe che nel frattempo si era sparpagliata e divisa in gruppetti. La voce  di Hermann tuonò minacciosa e all'istante cessarono risate e schiamazzi.
«Temo che, dandovi troppa libertà, qualcuno di voi distruggerà l'intera struttura» lo disse senza troppa convinzione nella voce e con una nota di divertimento. I ragazzi colsero al volo quel suo tono e scossero la testa all'unisono.
«D'accordo, vi invito gentilmente a non fare foto e a non disturbare gli altri visitatori. Potete muovervi liberamente nel museo come volete, troverete me e gli altri due colleghi in giro. Per qualsiasi domanda o curiosità venite pure a cercarci. Ah, mi raccomando di non sottovalutare quest'uscita, ognuno di voi sceglierà un'opera a piacere e ci scriverà un tema sopra con tanto di ricerca» battendo le mani diede il permesso a tutti di dileguarsi. 
Aria si aggregò ai maschi della classe che parlavano della recente partita dell'Ajax così Helga decise di dirigersi verso la parte opposta, in completa solitudine, a soffermarsi per diversi minuti sui quadri.
«La casa gialla» Gabe era a pochi passi da Helga e lei non se ne era minimamente accorta.
«Gabe!» esclamò spaventata quella mentre un gruppo di francesi insieme alla guida la guardò male.  Il ragazzo le tappò la bocca con la mano e ridacchiò scuotendo la testa «Devi sempre farti riconoscere» poi la fissò negli occhi per tre interminabili secondi.
«Accidenti, il rossetto!» gridò nuovamente indignata, ma divertita, mentre il ragazzo si fissava la mano colorata di rosso. Scoppiò in una fragorosa risata quando vide le sue labbra completamente sporche del lipstick che le era colato fino al mento.
Gabe allungò una mano nella sua direzione e provò, molto grossolanamente, a darle una ripulita. 
Helga se ne stava immobile, sentiva le gambe molli mentre Gabe le passava il pollice sotto il labbro inferiore. Avrebbe voluto allungare una mano e toccarlo a sua volta, infilare le dita in quel ciuffo inconfondibile ma preferì stare ferma, in attesa che quella specie di tortura cessasse.
«Ecco fatto» le disse avvicinandosi un poco mentre invece allontanava la mano. Helga temeva di specchiarsi e di vedere che orrendo pasticcio Gabe avesse appena fatto con al sua faccia. 
«Spero soltanto di non somigliare ad un pagliaccio» borbottò a bassa voce facendo tornare il suo sguardo verso il quadro.
«Affatto» confermò Gabe «La casa gialla comunque piace tanto anche a me» aggiunse poi indicando il dipinto appeso al muro.
Helga gli rivolse un'occhiata sospettosa e si strinse nelle spalle, l'afferrò per il braccio e lo trascinò altrove.
«Io preferisco questo» davanti a loro c'era una tela settantadue per novanta centimetri raffigurante una camera da letto dai toni non troppo allegri. Era la seconda volta che ne rimaneva incantata, che soffocava l'impulso di provare ad entrare lì dentro, di stendersi su quel letto con la coperta rossa chiedendosi chissà quale panorama si celava dietro la finestra leggermente aperta.
«Lo sapevo...»
«Hai detto qualcosa?» Helga era talmente concentrata sui dettagli del quadro che proprio non era riuscita ad ascoltare il leggero borbottio di Gabe. Quello scosse il capo e le indicò il sotto della sedia «Mancano le ombre, ci hai mai fatto caso?».
Helga sorrise appena, si avvicinò attenta a non far scattare l'allarme e vagò con lo sguardo da una parte all'altra della camera «Già. E tutto sembra sul punto di crollare, quasi come me».
Gabe non finse di non sentirla, gli si strinse il cuore  quando Helga pronunciò quella frase. 
«Helga» la chiamò staccando la sua attenzione da quel quadro «Usciamo a fumare e a fare due chiacchiere».
Ma la ragazza scosse il capo e si allontanò da lui «Ascolta Gabe, tu mi stai simpatico, lo devo ammettere, ma questo teatrino può finire, sul serio, è diventato insopportabile. Stai con Elke, accidenti! Lei è così bella e siete fatti l'uno per l'altro, l'ho sempre sospettato. Se stai cercando di farla ingelosire, se stai tentando di far ricadere qualche attenzione speciale su di te... Questo è il modo sbagliato» eppure, notando l'espressione ferita del ragazzo, estrasse dalla tasca le sue Marlboro Light e gliene allungò una «Dai, andiamo» e Gabe, senza spiaccicare parola, la seguì in silenzio.

 
***

Connor fissò spaesato le diverse valigie sparpagliate sul pavimento del salone. Alex era in camera, a gettare alla rinfusa alcuni vestiti del ragazzo sul letto.
«Cor!» lo chiamò mentre la testa era infilata del tutto in un anta contenente un mucchio di magliette a mezza manica «I documenti dove li tieni? E i soldi?»
Connor l'afferrò per la mano e lo tirò indietro «Perchè non me l'hai detto prima?» il suo sguardo era carico d'odio, di delusione. 
Alex decise di fermarsi e sospirò «Oh, Cor, non dirmi che ce l'hai ancora con me!» il ragazzo però annuì sull'orlo di una crisi di pianto e l'amico si sentì terribilmente in colpa. Si abbandonò sul materasso e invitò l'altro a fare altrettanto «Ascolta, ho mantenuto questo segreto soltanto per il tuo bene. Tu credevi che tua sorella Corinne fosse... Morta a causa della droga. Ha passato un orribile periodo di depressione che è sfociato in quel modo che sappiamo entrambi, ma, una volta in Corea, si è curata ed è diventata un'ottima domestica. È più che contenta di rivederti dopo tutto questo tempo e andrai anche in vacanze, in Europa!» dopo quest'esclamazione, Connor si asciugò le lacrime che silenziose stavano scorrendo sul suo viso «Europa? Dove?»
Alex ridacchiò e gli allungò una manata in pieno petto «Non lo so neanche io! È una sorpresa!»
Avventura.
Quella parola apparve luminosa nella mente del ragazzo. Scattò in piedi e aiutò Alex a sistemare la valigia. Poco prima di chiudere l'ultima però, entrò con molto timore nella libreria privata del padre e prelevò quattro tomi rilegati in pelle. «Sai» iniziò una volta tornato in camera e sistemando quei libri sotto i pantaloni «Sta notte ho sognato una voce che mi diceva di leggerli, secondo me nascondono un segreto» Alex gli sorrise affettuoso «Sempre il solito sognatore!».
Connor annuì deciso: «Io scoprirò quel segreto».
Nonostante Alex credeva pienamente che quelli fossero soltanto pensieri infantili, decise di dargli spago: «Ne sono sicuro! E, giusto per curiosità, come si chiamano quei libri?»
Connor lanciò un'occhiata al bagaglio rosso ormai chiuso.
«Diario di mille vite. Copertina di pelle, titolo dorato a lettere maiuscole, Primo, terzo, quarto e quinto volume, il secondo probabilmente l'ha perso mio padre. Senza autore, senza trama. Te l'ho detto che è un gran bel segreto».

***


«Gabe, tu credi che io porti sfortuna?» dopo essersi umilmente scusata e aver provato a cambiar discorso più volte, quella domanda le era uscita con una naturalezza tale che lei stessa ne restò sorpresa. Helga non credeva davvero di portare sfiga, eppure le circostanze dell'incidente del giorno precedente erano incredibilmente strane, inoltre ancora doveva trovare una spiegazione logica al flashback, oltre che dare la colpa alla marijuana e alla stanchezza.
«Ma certo che no! Helga» Gabe fece l'ennesimo tirò di sigaretta e sputò fuori il fumo «Perchè me lo chiedi?»
Già, bella domanda: perchè quel pensiero la stava assalendo da quando aveva messo piede in casa? Helga si strinse semplicemente nelle spalle gettando il mozzicone lontano da loro «Ieri, per un momento, ho pensato che fosse stata colpa mia. Sarebbe potuta andare peggio».
Gabe la imitò e le aprì la porta per rientrare nuovamente alla mostra «Non essere sciocca e non pensarci più, stiamo entrambi bene ed è questo che conta».
La ragazza gli rivolse un veloce sorriso e poco dopo si trovò a dover controbattere con alcuni lavoratori del museo che non volevano più farli rientrare.
Passati venti minuti all'entrata, senza che nessun professore o compagno di classe intervenisse in loro aiuto, Gabe ed Helga decisero di tornarsene a casa, fregandosene del contrappello, ognuno per la propria strada.
Lei si dileguò accennando un rapido saluto con la mano, girando i tacchi e scappando nella direzione opposta: per quel giorno, di Gabe, ne aveva avuto più che abbastanza. 
«Stavo pensando che...» per poco non gli tirò la biciletta dietro. Helga si voltò nella direzione della voce con il cuore in gola che le batteva all'impazzata.
«Porca miseria, Gabe!» riuscì a gridare il suo nome con tutta la paura che aveva in corpo, cosa che nel museo non aveva potuto fare «Se stai cercando di farmi venire in infarto sei sulla strada giusta!»
Il ragazzo non potè fare a meno di ridere di quella sua espressione terrorizzata e di osservare la bicicletta con la vernice scrostata. Helga si sentì terribilmente in imbarazzo e si parò tra il ragazzo e il mezzo di trasporto.
«A cosa stavi pensando, quindi?» domandò spazientita mentre quello non riusciva a staccare gli occhi di dosso dalla bici.
«Oh» Gabe ridacchiò in quel suo modo che irritava tanto Helga, una risata finta, senza convinzione, priva di vero divertimento «Sarebbe bello andare a vedere una mostra sulla Seconda Guerra Mondiale, non trovi? Ci sono così tanti ricordi lì...» .
La ragazza inclinò il capo e gli lanciò un'occhiata sospettosa «Non capisco dove vuoi arrivare» era quasi ora di pranzo e, infastidita, si infilò il casco senza più curarsi della sua sgangherata bicicletta, ormai Gabe l'aveva notata «Nel quartiere dove abito io c'è la casa di Anna Frank, se la storia ti interessa così tanto». Ma cos'era quello, un appuntamento? Certo, Helga sperava in qualcosa di più romantico, una cena a lume di candela, una passeggiata presso uno degli innumerevoli parchi di Amsterdam, ma una semplice visita ad un museo... 
Gabe sembrò quasi ricevere una pugnalata al cuore, la sua espressione sofferente sorprese Helga «Niente, credevo solo che...» la guardò negli occhi, c'era qualcosa di strano in quel suo comportamento, ma non sapeva spiegarsi esattamente cosa.
«Niente, davvero, adesso vado. Elke mi sta aspettando, sai, ha la febbre»
«Molto interessante, ero quasi in pena per lei. Ah, non sai quanto mi dispiaccia» lo disse così inacidita che Gabe notò immediatamente quella nota di sarcasmo nella sua voce «Davvero» proseguì lei mentre saliva in sella alla sua bici «Falle gli auguri di pronta guarigione da parte mia, non vedo l'ora di rivederla tra i banchi di scuola» e così dicendo, scuotendo la testa, si liquidò verso casa.

 
***

L'aereo di Shani atterrò ad Amsterdam con un ritardo di quasi mezz'ora. Per tutto il tempo non aveva fatto altro che dormire e leggere, con un vicino che russava un po' troppo forte per i suoi gusti. 
Attendendo pazientemente che arrivasse anche il suo bagaglio finalmente riuscì a pensare a sua mamma e a quanto le sarebbe mancata. Lo zio Ghali, da quel che ricordava, era un tipetto stravagante che a soli diciotto anni aveva iniziato a girare il mondo. Aveva vissuto per sei anni in Giamaica per poi spostarsi in Brasile, partire per il Messico e, infine, si trovava ad Amsterdam da circa cinque anni. Dai suoi racconti l'Olanda era tutto ciò che aveva sempre cercato in uno stato, specie per la marijuana che girava tra la popolazione come caramelle. Nei suoi racconti inoltre non mancavano mai le capatine nel quartiere a luci rossi di cui ricordava a memoria il listino prezzi.
Shani sorrise al pensiero di passare un mese intero con uno svampito del genere e, con il suo trolley al seguito, si incamminò verso l'uscita, dove un tipo sui trentotto anni si stava sbracciando proprio nella sua direzione. Indosso aveva un cappello con righe nere, gialle e verdi, che ricordavano in tutto e per tutto la bandiera giamaicana. Dal copricapo spuntavano molteplici dred non troppo lunghi che a Shani ricordarono... 
La ragazza scacciò immediatamente quel pensiero e corse a grandi falcate verso di lui «Zio, come stai?» quello saltò qualsiasi genere di convenevoli e l'abbracciò «Benvenuta ad Amsterdam dove droga e sesso sono legali! Ah, qui farai la bella vita».
Accidenti, pensò esasperata, è più fuori di testa di quanto la mamma le avesse detto.
Shani non sapeva proprio che fare quindi decise di sorridergli senza aggiungere altro e lo seguì in silenzio fino alla macchina. Nel frattempo aveva appena cominciato a piovere e alcune goccioline scesero anche sul suo viso: voleva tornare a casa.

 
***

«Tu saresti?» la signora Sunwoo se ne stava con le braccia incrociate davanti a quel ragazzo dall'aspetto bizzarro. Aveva le fattezze di un americano, con i suoi capelli castani ben pettinati e gli occhi chiari coperti da un paio di occhiali da vista dalla montatura di legno. 
Lui lasciò stare le valige, decise di guardarla in viso e rispose, con un filo di voce: «Connor, Connor Harris» poi fece un impacciato inchino, l'aveva visto fare in tv e credeva che fosse necessario per quel tipo di cultura orientale. 
Connor si rese conto di trovarsi a Busan, in un paese completamente diverso dal suo, soltanto quando si era trovato faccia a faccia con quella seria signora sulla quarantina. Prima che la donna potesse risponderle, un uomo si affacciò dalla porta «Se è un altro venditore porta a porta caccialo via» tuonò prima che Connor riuscisse a cogliere alcuni particolari del suo viso.
«Sta con me, sta con me!» una terza figura comparve sulla soglia, era una ragazza dal corpo esile, un po' bassa e dai capelli lunghi e scuri: la figlia di quella intollerante coppia di signori coreani.
I due si scambiarono occhiate eloquenti, sembravano dialogare in silenzio tra di loro.
«E' il fratello di Corinne, sta con me e parte con noi per Amsterdam. Hai tutto, ragazzo?»
Prima che Connor potesse rispondere, ci fu un battibecco in coreano che non riuscì a capire. I genitori strillavano, la ragazza rispondeva lentamente e in modo pacato e sembrò avere la meglio. I due li lasciarono finalmente soli sulla soglia, così lei potè presentarsi. 
«Sono Yurim Sunwoo, tua sorella lavora per me. Hai tutto, quindi?»
Annuì frastornato, cosa si erano detti?
«Bene, aspettaci pure qui. Io e tua sorella arriviamo tra poco, il taxi è già sotto casa». 
Connor non riusciva a spiaccicare parola, la fissava e basta, chiedendosi cosa avesse spinto una sconosciuta a partire con la sua domestica e suo fratello. Doveva essere sicuramente fuori di testa.
Mentre aspettava le due ragazze si decise a darsi una mossa e caricò il suo bagaglio nella vettura, dove un taxista poco cordiale stava fumando un sigaro seduto comodamente sul posto del conducente. 
Corinne scese poco dopo Yurim, mentre tentava di trascinare due enormi bagagli verdi giù per le scale. 
«E' bello rivederti, fratellino. Ci divertiremo moltissimo ad Amsterdam» gli confessò non appena lo vide. Connor, di tutta risposta, l'abbracciò forte, facendole sentire tutto il calore e l'affetto che non aveva potuto darle in tutti quegli anni di assenza.

 
***

«Svegliati Helga, il tempo si è ormai quasi concluso» la ragazza si trovava in una casa diroccata e dall'aspetto mal ridotto. Dentro c'era odore di muffa e di pesce andato a male e fuori, oltre la finestra, un corvo gracchiava appollaiato su un ramo spoglio. La voce proveniva dal piano di sopra dove uno spiraglio di luce illuminava le strette scale. 
Helga salì un gradino per volta mentre il marcio legno sotto di lei scricchiolava ad ogni passo.
«Non venire qui, non salire su. Vattene via Helga, mettiti in salvo, il tempo scade!» eppure lei continuava il suo percorso, incurante degli avvisi che la voce le stava sibilando. Quelle parole non avevano senso, quegli avvertimenti erano infondati e ormai aveva curiosità di capire a chi appartenesse quella voce.
«Helga!» tuonò la voce più forte non appena si trovò sul pianerottolo del primo piano «Devi andartene di qui, non ascoltarla, non varcare la soglia, sei in bilico». Ma chi non doveva ascoltare? Quante erano le persone dentro quella casa oltre a lei?
«Oh» ridacchiò una seconda voce, più lieve «Non starlo a sentire, burbero com'è. Vieni pure cara, vieni verso di me». 
Una seconda luce proveniente da una porta che si aprì da sola sotto ai suoi occhi, illuminò un tratto di corridoio, avvolgendola in un barlume bianco immacolato.
«Non andare verso di lei, ascoltami. Sii libera di scegliere, sii padrona di te stessa, combatti...» ma prima che potesse completare la frase, la voce si affievolì e la porta, con un soffio di vento, si chiuse, lasciando Helga sola con le risate provenienti dal bagliore bianco.
Quando stava per varcare la soglia, l'edificio prese fuoco ed Helga si trovò intrappolata in un muro di fiamme ardenti che le scottavano il corpo. La ragazza provò a gridare e a ripararsi, ma l'incendio divampava sempre più velocemente.

Madida di sudore e con il fiato corto, Helga si alzò di scatto dal letto. Dell'incubo ricordava ben poco: due porte, delle voci, una casa diroccata, un rogo improvviso. Pensò che prima di allora non aveva mai fatto un sogno così reale e, ne trovò la conferma, notando delle piccole bruciature sulle nocche della mano sinistra.


Angolo dell'autrice:  sono tornata
dopo tanto tempo, dopo tante indecisioni, dopo mille dubbi.
Sono tornata con il sesto capitolo e non ho ancora
idea di quanti altri ne scriverò. Però il mio obiettivo
ce l'ho bene in mente: una storia per me, una per lui.
Troverò presto il coraggio e sappiate che se Gabe è strano,
è imprevedibile, con l'aria da figo ma il carattere timido, 
è solo perchè per me è il migliore. Ma mai quanto
quello reale.

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