Via delle Rose, settantuno

di SignorinAnarchia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** -Prologo- ***
Capitolo 2: *** - Treni - ***



Capitolo 1
*** -Prologo- ***


Vivevano in un appartamentino in uno di quei quartieri periferici ma non troppo, a Roma. Mi ricordavano una versione sgangherata delle Piccole Donne della Alcott. Ma non erano sorelle, né amiche, tra loro zero legami. Per questo mi piaceva osservarle, perché diverse, tre universi totalmente incongruenti e distanti anni luce che condividevano lo stesso tetto, mangiavano allo stesso tavolo – solo in rare occasioni, però - , usavano lo stesso gabinetto e si scambiavano assorbenti come le figurine dei calciatori.
Scoppiavano litigi furiosi e risate che erano terremoti, là dentro. Scoppiavano con un niente. Volavano bicchieri e telecomandi, volavano baci abbracci e sorrisi. C’erano i pranzi silenziosi, i pranzi con nessuna seduta a tavola, i pranzi in cui c’era una totale smania di raccontarsi tutto, di aprirsi e di confrontarsi.
Mi piaceva creare, quando ancora non le conoscevo, una loro ipotetica personalità basandomi solo sul modo in cui camminavano, sul modo con cui mi chiedevano se per caso fosse passato Tizio o Caio a cercarle, sul modo con cui spulciavano tra la posta cercando qualcosa di interessante che non fossero bollette. Una lettera da qualcuno lontano.
Eppure, per quanto decisamente poco semplici erano nella mia immaginazione, nella realtà si son rivelate ancora più complesse e piene di sfumature. E io ero solo uno stupido portinaio sulla soglia dei trent’anni che faceva settimane enigmistiche e veniva sfruttato dalle vecchiette.
Più di tutte presi in simpatia la punk, perché nonostante l’impatto esteriore parlava bene ed aveva modi gentili e occhi folli e intelligentissimi. Però esteticamente lasciava un po’ a desiderare, si grattava continuamente la testa, credevo avesse i pidocchi ma scoprii che era solo un bizzarro tic nervoso. È che non sono un grande fan dei maschiacci.
Avrei voluto farmi quella biondona pazzesca che faceva la commessa in uno di quei negozi con luci accecanti e musiche assordanti, quella sì che era femmina. Usciva coi tacchi alti e un rossetto rosato, mai un capello fuori posto, col fisico morbido ma assolutamente in forma. Aveva i fianchi larghi come una che è nata per diventare madre. Era la nipote della vecchia padrona dell’appartamento, e forse cercava coinquiline non per questioni economiche ma per questioni di noia.
Poi invece finii a letto con quella che vendeva il fumo nel parchetto poco distante, e fu così che le conobbi meglio.
 
Si chiamava Francesca e aveva i capelli di un rosso castano bellissimi, sembravano quei fili di rame che i rom rubano dai cavi delle ferrovie. Sempre sciolti o legati male con elastici slargati che non li contenevano più.
“Hai un elastico? Te lo ridò. Senti ma all’appartamento mio c’è qualcuno?”, fu la prima cosa che mi disse. Ho sempre portato i capelli lunghi fino alle spalle, talvolta li legavo, soprattutto quel giorno, che era pieno luglio romano ed erano le tre del pomeriggio. Sacrificai la mia nuca già sudata ricoprendola di miei capelli, quando li sciolsi e le porsi il mio elastico. Lei ne avrebbe avuto più bisogno.
“Tranquilla non ho i pidocchi. E se mi dici qual è l’appartamento tuo, magari ti do una mano.”
A quel punto aveva cominciato a cercare nelle tasche di Mary Poppins qualcosa, poi nello zaino, poi nella tasca più esterna del gigantesco trolley. “Ecco, un attimo” le si formarono delle strane rughette mentre aguzzava gli occhi cercando di leggere una scritta in geroglifico su un foglietto pescato da chissàddove. “Anita. Cerco Anita Non-riesco-a-leggere-il-cognome. Non so, una bionda tutta curve, hai presente?”
Come no! “Ah sì… quella che vive con la punk…” avevo detto con un mezzo sorriso. Sembrò accigliarsi. Avrebbe dovuto, presumibilmente, vivere in un condominio che aveva un portinaio capelluto probabilmente di estrema sinistra e con gli occhi azzurro-psicopatico. Sotto lo stesso tetto con una biondona superfiga e, udite udite, una punk del nuovo millennio. Deve costare poco vivere in quell’appartamento, pensai, visti questi due soggetti che andranno ad abitarci. Grazie, mi risposi da solo nella mia mente, paga tutto la bionda. “No, non c’è nessuno, credo. Ho attaccato a lavorare poco fa. Non so.”
“Piano?”
“Eh? Sì, sali piano, la gente riposa.”
“No,dico, che piano è?”
“Ah. Terzo. Non c’è l’ascensore.”
“Galante, il ragazzo. Aiutami con la valigia almeno. Eccheccazzo.”
 
Mi aveva offerto un caffè e uno spinello. Non avevo rifiutato e nel frattempo mi guardavo intorno. Però non sapeva dove fossero le cose per fare il caffè e quindi lo feci io, anche se in effetti anche per me era la prima volta lì dentro. Faceva schifo. Ma tanto non lo bevemmo. 
La casa era un casino, e Francesca si guardava intorno curiosa come una bambina. Scoprii che aveva le lentiggini e gli occhi neri. Io guardavo una foto di una band con altissime creste e chiodi di pelle, attaccata al frigo. C’era una scarpa nera scamosciata con tacco altissimo abbandonata sotto il tavolo, un grosso reggiseno sul divano. Immaginai Anita toglierselo senza sfilarsi la maglia –ah, le magie delle donne! - , stanca, sul divano, la sera, ritornata meravigliosamente scalza dopo una giornata sui trampoli. C’era una sciarpa in fantasia tartan sulla maniglia di una porta. Mozziconi di sigarette ovunque. Bottiglie di Tennent’s o Ceres vuote. Il vino dell’eurospin.
“Bel porcile, eh.” Dissi.
Lei annuì fumando, l’odore d’erba bruciata che ci si attaccava addosso come colla. C’era un biglietto “x Francesca” sul tavolo ma non lo lesse, non lo vide, oppure lo evitò. Comunque nulla di che, c’era scritto solo che poteva fare il cazzo che gli pareva e che s’era beccata la camera piccola in fondo al corridoio e qualche smile con la linguaccia che le augurava una buona permanenza. “Anita – e dalla ‘A’ di Anita, cerchiata, a mo’ di A anarchica, si capiva perfettamente chi fosse l’artefice del biglietto – torna alle diciassette, io non lo so.”
Era improvvisamente diventata silenziosa e cercavo di rompere il ghiaccio in tutti i modi. Cosa farai? Studi ancora? Lavori? Hai il ragazzo?
Si  era sciolta i capelli e rispondeva a monosillabi, il minimo indispensabile. Mi aveva chiesto di portarla a cena fuori che voleva vedere un po’ meglio la città.
 
Fu così che entrai nelle loro vite, da semplice spettatore. Questo succedeva un anno fa, sono cresciute, nel frattempo. E io sono diventato ancora più un ragazzino, un Peter Pan con tre Wendy. O forse loro erano delle eterne Peter Pan, io Wendy, nella loro meravigliosa e caotica Isola-che-non-c’è mentale.

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Capitolo 2
*** - Treni - ***


1.

 
Anita
 
Questa casa è fredda. Dico mentre lui si riveste. Fredda.
Lui si gira, mi guarda, abbottonandosi i jeans Calvin Klein. Alza un sopracciglio, sorride malizioso. Com’è che si chiamava?
“Non l’ho scaldata abbastanza?” mi fa. Adesso s’infila la maglietta e copre gli addominali scolpiti, forse la sua unica parte bella. Sorrido svogliata, ma lui tanto sa già che deve andarsene via subito, immediatamente. E che le battutine sono inutili.
Mi alzo seminuda, apro le persiane e mi lascio accecare dalla luce di questo pomeriggio estivo. Trovo una sigaretta che ho rubato a Giada e la fumo con gusto, a lui mancano solo le scarpe.
“Hey tesò” dice in coattese. “’TTTaapposto, se?”
“Prego?” lo guardo un po’ male. Lui sorride e mi da un buffetto leggero sulla guancia.
“Che figa che sei. Lunedì vado a Ostia co’ ‘npo’ de amici, te và de venì? Famo  er bagno.”
Sbuffo via fumo e noia. “Ci faccio una pensata” lo liquido. “Mo’ vai però, eh? Devo andare a lavoro.”
Lui indugia, perde tempo, forse ho alzato un po’ la voce ma sono nervosa e il sesso e la sigaretta non mi stanno aiutando. Si offende, mi lancia contro qualche insulto sibilato, mi guarda come un cane randagio che sa che pure se lo accarezzi comunque non te lo porti a casa. E se ne va, finalmente, mentre butto via ‘sto mozzicone. Come fa quella a fumarsi queste maledette sigarette spacca polmoni, io non lo so.
Apro la porta e sbircio in corridoio, cauta come una gatta, dopo che lui ha sbattuto la porta. Come cazzo si chiamava? Decido di non pensarci e metto un piedino coraggioso oltre la linea di confine. Risatine proveniente dalla zona divano. Mi fiondo in bagno come una scheggia e metto un po’ di musica dal cellulare. Rihanna canta Diamonds, io mi infilo sotto la doccia e lavo via l’odore di quel tizio dal mio corpo. Mi sento ancora eccitata, nonostante tutto, e la cosa mi fa innervosire ancora di più. Mi do un paio di schiaffi da sola, sospiro, insapono ogni minuscola parte del mio corpo.
 
Mi rivesto bene, con cura, di rosso, asciugo i capelli quanto basta. Tanto è caldo, si asciugano da soli. Un velo di crema. Un po’ di trucco qua e là. ed eccomi, saluto Skiz che parla al telefono con non si sa chi, parla sempre al telefono con qualcuno. E ride, ride sempre, mai uno che la faccia piangere. Però con noi tiene sempre il muso.
Non è felice questa ragazza. Nasconde occhi bui sotto risate cafone. Non siamo felici, noi tre. Sarà ‘sta casa maledetta.
Lei ricambia con un sorriso un po’ storto, una sbuffata di fumo, un pollice alzato con occhiolino.
 
Sto a passo svelto, le cuffie nelle orecchie, quando il portinaio mi ferma. Lo guardo dall’alto delle mie Louboutin farlocche, con un sopracciglio perplesso.
“Una lettera, signorì.”
Improvvisamente sento un calore allo stomaco. Odio le sorprese. Non so mai come reagire. Forzo un sorrisetto. Gli sfilo la busta dalla zampa e me la ficco in borsa, neanche dico grazie e son già via, con la mia falcata troppo elegante per questo quartiere, lascio nuvolette rosa di profumo dietro di me, i capelli che ondeggiano e i ragazzi ai biliardini che fischiano. I vecchi smettono per un attimo di giocare a briscola fuori dai bar e mi guardano dalla testa ai piedi.
Prendo il tram.
Scendo in metropolitana, è agosto, è praticamente deserta. Una famiglia giapponese controlla le indicazioni e cerca di capire quale sia la prossima fermata. Io mi siedo, mi scompongo, sento che nella borsetta c’è un peso gigante.
Papà.
Prendo la busta. L’indirizzo è quello della casa a Milano. La apro con violenza, straccio la busta e la getto a terra, inizio a singhiozzare. I giapponesi mi guardano sospettosi, mentre mi prendo i capelli tra le mani.
Bastardo bastardo bastardo bastardo
E io non sono nient’altro che la figlia di un bastardo figlio di puttana.
Con mano tremante mi asciugo le lacrime e prendo la lettera. Leggo parole di scuse, parole melense, parole, parole, parole, parole. E indovinate un po’? ancora parole.
La rabbia sostituisce il pianto, ora. è una routine. Lui sa che non risponderò, si consolerà tra le braccia di qualche troietta della mia stessa età, o al bancone di qualche bar chic, non voglio saperlo, non voglio saperne.
Sistemo il mascara, butto quei fogli di promesse stupide sui binari. E che un treno ad alta velocità se li porti via. Ai fogli, a lui, ai baristi in papillon e alle sue puttane.

 
Francesca
 
Samu butta a terra la bomboletta, si sfila la mascherina dal muso imbronciato. E anche questo vagone porta in giro per l’Italia il suo segno colorato. Il sole è alto, altissimo, ci brucia la pelle e le sigarette diventano più pesanti, più soffocanti.
Si siede, gambe incrociate, vicino a me. Gli passo lo spinello. Rimaniamo così, fermi, in questa stazione di provincia deserta, fermi come questo treno, fermi come l’aria e tutto il resto. Il silenzio diventa assordante.
Perché Samu non parla, e ti trascina nel suo silenzio. Samuel non parla con le parole, parla con gli occhi, con le mani. Non parla da un po’, quando l’ho conosciuto aveva una bella voce calda, anche un po’ da sbruffone. Da quando ha deciso di non parlare più, cerco di riformulare nella mia mente tutte le sue frasi, a volte leggo un libro, o una frase per strada, e il mio cervello legge con la sua voce. È come un allenamento. Per non dimenticare.
Adesso guarda il suo disegno a spray. È una ragazza e mi somiglia, poi ha scritto in grande il suo nome da writer. È soddisfatto. Poi mi guarda e cerca un parere.
“E’ molto bello.” Sorrido. “Sembro io.”
Sorride e annuisce. Ha le mani rovinate, piene di calli, non mi accarezza perché ha paura di farmi male. Ha delle piccole rughe intorno agli occhi. Da quando non parla sorride di più. Ha la faccia da cucciolo abbandonato. Ce l’aveva anche prima, ma adesso, con tutte quelle parole negli occhi…
Decide che è ora di andare via e andiamo, prendiamo tutto, zainoni da scalatori di montagna, ci stiracchiamo. Torniamo a cercare un po’ di vita e un po’ di casino.
Le stazioni morte sono casa nostra, ritorneremo a dipingere vagoni, ma adesso abbiamo altro da fare. Ho del fumo da vendere e me lo tengo al sicuro nel reggiseno, e un po’ nel calzino sinistro.
Lui mi prende per mano, e lo sento pensare, pensa a quello che penso io. Pensiamo a questo silenzio, che ci sta facendo impazzire.
Che non siamo più gli stessi, ce lo si può leggere in faccia. Ma c’è dell’altro. c’è stato qualcosa che lo ha reso così, qualcosa che mi ha incatenata di conseguenza a lui. Nessuno lo sa, nessuno, noi eravamo Francesca e Samuele, belli e distrutti, lui coi suoi dreadlocks biondi e io col mio faccino da ragazzina per bene, e sorridevamo un sacco con mille denti e avevamo le guance rosee e piene di vita. C’erano le canne e le birre e tantissime risate e gli amici e fare l’amore nei cessi dei bar e scavalcavamo transenne e lui mi accarezzava i capelli e lui amava i miei capelli.
Quando siamo venuti dalla provincia a Roma, le nostre vite si sono capovolte. E adesso non siamo più belli, siamo distrutti e basta. Io l’ho tradito, ma anche lui. Io con una scopata, lui con una siringa. Il mio amante è quello di una sera. La sua amante ha un nome, una popolarità da prostituta, è facile, troppo, facile da possedere. Ma poi è lei che ha posseduto lui. Me lo ha portato via,ma non ha ancora vinto. La guerra è iniziata da un mese. E ho come l’impressione che durerà ancora a lungo. E ogni notte, ho paura di addormentarmi, perché sogno il mio uomo morire, e ogni sogno è sempre più reale.
E ogni notte passata con lui, la passo con la mia mano sul suo torace, per sentire il suo respiro, perché ho paura che smetta di fare anche quello.
Come lui fa sciopero di parole, io faccio sciopero di sogni.
Perché quella puttana gli sta avvelenando le vene, e mi sta avvelenando i sogni, tutti i miei sogni di una vita migliore.
 

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