Il Sole e la Luna

di esse198
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo (Prima parte) ***
Capitolo 2: *** Prologo (Seconda Parte) ***
Capitolo 3: *** Il Sole e la Luna ***
Capitolo 4: *** Il Sole e la Luna ***
Capitolo 5: *** Il Sole e la Luna ***
Capitolo 6: *** Il Sole e la Luna ***
Capitolo 7: *** Il Sole e la Luna ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo (Prima parte) ***


Prologo
 
“…la gente che passa ci guarda e prosegue veloce
ci osserva e prosegue veloce
magari saluta, ma sempre prosegue veloce…”
 
D. Silvestri – “L’autostrada”
 


Ecco come si sentiva. Tutto il mondo a guardarla, tutto il mondo a sorriderle, ma forse nemmeno quello, anzi, avrebbe bramato quei sorrisi, falsi sorrisi. Giusto per poter sentire addosso almeno un po’ di simpatia. E tutto il mondo la guardava far niente. Perché in fondo non faceva nulla di eccezionale nella sua vita. Era la persona più normale che potesse esistere al mondo, quelle poche passioni che aveva, le coltivava in modo molto discreto trattandosi di musica e della lettura di qualche romanzo e di qualche fumetto. Difficile suscitare l’irritazione della gente. Eppure si limitava a fare quelle cose quasi in segreto, convinta di essere l’unica ad interessarsi a quegli aspetti della realtà. Unica e sola. Sola interiormente, in quello che provava, in quello che viveva. Era in uno stadio evolutivo in cui si dovevano abbandonare i sogni, le passioni, costruirsi una vita e non pensare a nient’altro, a nessun tipo di distrazione. I sentimenti erano diventati dei divertimenti, qualcosa di superficiale, come ninnoli ad addobbare gli spazi vuoti della vita. E come tali, una volta finita la pausa, bisognava smettere quelle cianfrusaglie e lasciarsele alle spalle. Per paura. Incoscienti sì, ma coi sentimenti profondamente codardi ed eternamente bambini. Anche lei era rimasta bambina e più passava il tempo, più trovava un forte motivo di orgoglio in questo. Vedeva in questo suo essere rimasta infantile, la purezza, qualche sprazzo di ingenuità, anche, purtroppo…, ma non voleva assolutamente perdere il fascino di quei sentimenti, di quegli ideali quali la libertà, la fiducia e l’onestà. Era rimasta profondamente legata a quei ricordi liceali, quando dopo aver vissuto la sua prima scottatura amorosa, una di quelle serie, o almeno concrete, aveva ritrovato il preziosissimo appoggio delle sue amiche. Ed erano state tante le passeggiate sul molo, le scorrazzate per le vie della città, i pranzi, ad immaginare la futura vita universitaria tutte insieme. A condividere ancora molto assieme. E lei c’aveva creduto. Forse più di tutte le altre, e per questo aveva rinunciato a molte libertà, era scesa a parecchi compromessi, si era resa molto disponibile per il benessere delle sue amiche e per la pace comune, ma non era servito a niente. Mano a mano che il tempo passava i vecchi ricordi svanivano e lasciavano amaramente il posto a quelle nuove vicende che facevano calare giù a picco l’asticella di tutti quei bellissimi sentimenti che aveva coltivato per quelle persone a lei così importanti.
Quell’estate il sipario aveva lasciato lo spazio alla verità, alla realtà dei fatti. Aveva aperto gli occhi su parecchie cose, su certi comportamenti e a tutto quello che inconsapevolmente aveva subito. Non erano ingiustizie esagerate, ma di tutto quello che si aspettava non era tornato quasi nulla e così aveva deciso che ne aveva abbastanza di piccoli soprusi che lentamente lenivano il suo animo e tutta la sua fiducia.
Si chiedeva: per cosa?
Cosa ne era tornato, cosa ne aveva guadagnato? Sola era e sola rimaneva.
La solitudine era la cosa che più la impauriva. Il terrore di rimanere sola, di non poter contare più su nessuno, oltre la sua famiglia. Aveva conservato molte cose belle ed era difficile rinunciarvi.
Intendiamoci: aveva coltivato quelle amicizie, quei rapporti con tutta la sua passione, con tutta la sua fiducia, non aveva mai pensato o calcolato un tornaconto, però si sentiva calpestata, nei suoi stessi sentimenti. Sentiva di non meritare quell’indifferenza, quegli abbandoni.
Nel suono rimbombante di quella musica che sembrava far saltare il pavimento e sfondare le casse, seduta ad uno di quei pochi tavoli, occupati disordinatamente da mucchi svariati di ragazzi, buttava giù il suo drink, un cocktail improvvisato al banco dal barman, un po’ forte, ma sostenibile. Stava a guardare la gente attorno a sé, tutta quella confusione di persone, osservava il mondo attorno a sé. In verità cercava qualcuno con cui parlare, ma aveva perso ogni speranza, restò lì a guardarsi ancora intorno, a scuotere la testa e il piede destro al ritmo della musica. E pensava. Pensava a quei sentimenti che aveva maturato di recente, al suo atteggiamento ostile che aveva preso ad usare. Aveva smesso con i sorrisini idioti, aveva smesso con le smancerie, specie se le aveva girate di brutto.
In passato un solo ragazzo riusciva a farle uscire un po’ dei suoi pensieri: era il ragazzo della sua amica, quella con cui fino a poco tempo fa usciva di coppia, ma avevano smesso di uscire tutti assieme e le occasioni di vedersi, di scambiare quattro chiacchiere era svanito. Difficile spiegare cosa avesse, ma ti diceva tutto quello che pensava e ti chiedeva sempre il motivo dei tuoi atteggiamenti, che questi fossero manifestazioni di tristezza o altro. Aveva imparato a intuirla, e avevano anche condiviso certi sentimenti, certe emozioni, per persone diverse, ma noti a tutt’e due. Tra i due vi erano stati frasi, appelli, a volte richieste di aiuto non sempre del tutto raccolte o intuite. Ma erano momenti che Selene adorava. Era stato il suo primo amico e le mancava.
Quante persone le mancavano!
Forse era proprio questa la sua solitudine, l’impossibilità di far tornare le cose com’erano, nonostante ripetuti tentativi, non c’era stato verso di ripristinare i ricordi e farli rivivere nella realtà. Ma in fondo persino grandi filosofi e pensatori l’avevano detto che gli eventi non possono ritornare, nemmeno a far rincontrare i protagonisti di quel momento. Era un luogo perduto, quel luogo dettato dall’evento.
Le mancava quella sua stessa amica, le loro lunghe chiacchierate, i cazzeggiamenti vari, quando fingevano per le strade di Palermo di essere lesbiche camminando abbracciate strette, facendo aderire i corpi nel muoversi, nel camminare.
Le mancava il suo più grande amore. Un amore nemmeno iniziato, ma fortemente vissuto, tra gesti eroici, rifiuti, ripensamenti, ripensamenti e ancora ripensamenti rimasti tutti a vuoto. Ma un mucchio di emozioni. Bastava un “ciao”, un sorriso, e quegli incroci di sguardi erano, banalmente, “attimi eterni”.
- Ehi! Che ci fai qua sola? Perché non vai a ballare? – si era presentato quasi di sorpresa, o di soppiatto e subito a dirle cosa doveva fare. Come in passato.
- Non mi va…
- Mah…
- Ma tu dove ce l’hai la ragazza?
- Mah, qua intorno… la stavo cercando. Tu l’hai vista?
- No.
Si era seduto. Ma non stava cercando la sua ragazza? Quando le avevano passato la notizia era stata prima dubbiosa, non sapeva se crederci, poi molto contenta, ma aveva sperato che fosse una brava ragazza. Quando una sera si videro e lui gliela presentò pensò: “Allora è vero!” e non le piacque molto, forse per la freddezza con cui si era presentata, avrebbe detto ci fosse quasi una certa ostilità, ma perché poi? Lui non era il suo grande amore, com’è facile pensare. Era il quinto membro del gruppo. Una piccola fiamma, bastevole a far scattare la gelosia dell’altro, del Grande Amore, c’erano state battutine, allusioni, provocazioni, raccolte e fatte rimbalzare, ma mai prese sul serio. Un gioco, niente più. E le era piaciuto quel gioco, era stato un modo per distrarsi, per divertirsi, forse per sentirsi viva, per certi versi. Adesso non poteva più permettersi le solite battutine, stava con un’altra e l’altra sembrava un po’ gelosa….
- Allora, che mi racconti? Tutto a posto? – si era limitata a chiedere, solito approccio, per rompere il ghiaccio.
- Sì, tutto a posto. E tu?
Lei rispose come lui e chiusero lì la conversazione. Era passato troppo tempo, si era persa ogni naturalezza. E in quel momento sopraggiungeva l’altro, il Grande Amore. Anche lui chiese cosa facevano, soprattutto si rivolgeva al suo amico e sembrava quasi un rimprovero e doveva esserlo, visto che aggiunse che la sua ragazza lo stava cercando. Allora quello si alzò e svogliatamente andò dalla sua lei. L’altro restò, rimase in piedi a guardarla, a scrutarla.
- Che c’è? – chiese lei.
- Ma perché non vieni a ballare?
- Non mi va.
- Quanto sei minchia!
Era quella la solita espressione per chiudere una discussione, che ci stesse oppure no. Era l’esclamazione per commentare gli atteggiamenti più strani, le risposte più insolite e poteva equivalere a qualcosa tipo: quanto sei strano! Ma in quell’espressione colorita c’era qualcosa che rendeva il concetto molto più chiaro, specie all’interno del contesto in cui era detto, da quei ragazzi, in quelle situazioni. Un po’ come un marchio, o meglio, un tormentone, una parola d’ordine.
Comunque, una volta aver chiuso con quell’esclamazione si rigirò e tornò verso il vivo della festa.
Averli visti dopo tanto tempo le aveva permesso di osservarli attentamente e si accorse che l’Altro era davvero carino, più del suo Grande Amore. Com’era possibile che si fosse innamorata proprio di lui? Non aveva nulla di buono. Scorbutico, lunatico, permaloso e menefreghista. Forse affascinante. Sì, molto probabilmente il fattore fisico prevaleva più di tutto. Ma anche i ricordi, i momenti passati assieme, le frasi sussurrate avevano fatto di lui la persona più importante che avesse. Un pensiero costante, un amore provato quasi inconsapevolmente, come fosse scontato. C’era. Come il battito del cuore, come il respiro. Non se ne rendeva conto, ma se provava a farne a meno si sentiva mancare l’aria. Era un sentimento molto forte. Qualcosa che non aveva mai provato. E aveva bisogno di quel sentimento. Difficile capire se contasse più il sentimento della persona che lo ispirava, ma era certa che non era quello il momento per capirlo. Aspettava la prossima carrozza, quella con dentro l’amore successivo per capire finalmente quanto fosse stato importante il suo Grande Amore.
Le girava la testa.
Era forse tutto quel pensare. Oppure tutto l’alcool che aveva ingerito.
Provò ad alzarsi, ma lentamente ricadde sulla sedia. Lentamente, perché nessuno si accorgesse che forse non riusciva a reggersi in piedi. Possibile che fosse l’alcool? Non aveva bevuto così tanto….
Il ragazzo seduto al suo stesso tavolo fu l’unico a intuire che forse c’era qualcosa che non andava nella ragazza, di fatti esitante si accertò che stesse bene. Selene mentì dicendo che andava tutto bene, ma il ragazzo non le credette e le offrì il suo aiuto. Si alzò e invitò Selene ad alzarsi pure lei. Allora poggiò le mani sul tavolo e si fece forza con le braccia. Una volta in piedi il ragazzo si prodigò a sostenerla. Così tra le braccia di quel ragazzo sconosciuto si avviò fuori dal locale. Il suo Grande Amore e la sua Amica, sopra citata, si accorsero di Selene e di quel ragazzo, si insospettirono e li seguirono.
Trovarono Selene seduta al muretto circostante il locale e adiacente al cancello, con le gambe distese e la schiena stirata alla parte opposta, come stesse prendendo il sole. Tirava profondi respiri, mentre il suo Soccorritore, accanto a lei, le porgeva del caffè.
- Sele, che è successo? – aveva chiesto preoccupata l’Amica.
- Niente, niente, è tutto ok. – rispose e poi rivolgendosi al suo Soccorritore aggiunse: - No, il caffè no, per favore, non voglio vomitare.
- Ma sei ubriaca, ti senti male? – insisteva ancora l’Amica.
- No, niente, sto bene, gira solo un po’ la testa, ma sono lucida.
- Guarda che appena arrivi a casa e ti stendi dai di stomaco. – disse il Soccorritore.
- Che ore sono? – chiese Selene.
- Le 11 e mezzo.
- Allora ho ancora un’ora per smaltire l’alcool. Adesso vado a ballare così smaltisco un po’.
Fece per alzarsi, ma faceva fatica a sostenersi. Cavoli! Come diavolo era arrivata a quei livelli? Non lo sopportava, non le era mai capitato! E non era proprio in vena di fare la stupida, quella sera. E con chi poi? Con il soccorritore sconosciuto? Di certo non con il Grande Amore. No, non era cosa. Tornò a sedersi e con voce sommessa disse: - Grazie ragazzi, ma adesso lasciatemi sola. Per favore.
I tre si guardarono, ognuno per nulla intenzionato a mollarla lì sola. La più decisa a non mollarla era la sua Amica. Chiese agli altri due di allontanarsi, i quali obbedirono.


 

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Capitolo 2
*** Prologo (Seconda Parte) ***


“Io mi immagino che le persone abbiano come una sfera che racchiuda l’anima, o l’essere o come diavolo vogliamo chiamarla, e che questa sfera sia più o meno spessa; cioè la membrana di questa sfera più è sottile, più noi percepiamo le gioie, le ansie, le paure.”
Mio fratello
 
Ogni parola, ogni gesto, ogni frase detta le arrivava come una pugnalata, tutto veniva a formare sempre nuove ferite. Sempre più spesso, sempre più facilmente.
Non era così. Non prima. Era come se la membrana di quella sfera di cui si parla sopra si assottigliasse sempre più. E non riconosceva più le persone attorno a sé. Una volta le piacevano, ora non le piacevano più. Ma non capiva se erano sempre state così e lei non se ne era accorta oppure erano semplicemente cambiate.
 
“Ogni cambiamento, anche agognatissimo, ha la sua malinconia, perché quel che si lascia è una parte di noi: bisogna morire a una vita per entrare in un’altra.”
A.France
 
Ecco cosa le pesava di più. Ne era passato di tempo, ma ancora non riusciva a digerire tutti quei cambiamenti. Viveva troppo di ricordi, di momenti vissuti. Era come una malattia, una droga. Aveva provato a liberarsene, ad andare avanti, ma era sempre stato qualcosa come una montagna altissima da scalare. Così si arrampicava e saliva. Saliva, saliva, ma poi crollava giù, a precipizio, senza raggiungere mai la cima.
 
La sua Amica, non la riconosceva più. Non era più lei, non era quella con cui fare due chiacchiere o soltanto per scherzare. Era sempre troppo piena di impegni, troppo presa dal suo presente e non sentiva più alcun bisogno di lei. Selene non le serviva più. E non esisteva più.
Erano crollati i miti. Era crollata una buona parte dei pilastri su cui gravava la sua vita, la sua esistenza. Aveva investito in quell’amicizia tantissimo della sua fiducia, contava di poter costruire su di essa tutta la sua vita. Non credeva a un dio, credeva all’amicizia delle sue amiche, che poi l’amicizia stessa può essere astratta quanto un dio, solo forse con più manifestazioni della sua esistenza o meno. Quando una volta le chiesero come riuscisse a superare certe difficoltà, a chi si affidasse, lei aveva risposto, come fosse la cosa più naturale del mondo, che aveva l’affetto e l’appoggio della sua famiglia e delle sue amiche e non aveva bisogno di altro. Certo, il crollo di quel pilastro non l’aveva fatta tornare a credere a un dio. E un dio forse per lei c’era sempre stato, ma svestito delle preghiere, di quei rituali dettati dalla chiesa. Un essere superiore, un essere che aveva dato la spinta al mondo per muoversi e che lo teneva in moto, un essere filosofico, un essere cui affidare tutti i misteri di quest’esistenza, non come causa, ma come custode di essi, come l’unico che ne conoscesse la natura e che mai l’avrebbe svelato.
 
Rientrò nel locale. Doveva trovare il suo Soccorritore per ringraziarlo come si deve. Ma quando riuscì ad avvistarlo allo stesso tavolo di prima ecco che la timidezza, con tutta la sua potenza, come un gigante possente, enorme e minaccioso, tentò di impedirle di avvicinarlo. Ma l’alcool si era mostrato più volte un ottimo rivale della timidezza, così tirò avanti con i passi e lo raggiunse. Il Soccorritore vedendola avvicinarsi le andò incontro. Le chiese come stava. Lei propose di tornare fuori, non sopportava il peso della musica.
- Poco fa non ti ho nemmeno ringraziato per quello che hai fatto. È stato molto gentile da parte tua. Scusami. Anche per lo spettacolo poco piacevole a cui ti ho fatto assistere.
- Figurati. Ci sono ragazze che arrivano a livelli ancora peggiori. Devo confessarti che mi dispiace vedere delle ragazzine come te in questo stato, però non ti conosco e non so se per te è un’abitudine.
- Primo: non sono una ragazzina, ho vent’anni. – e lì il consueto sguardo di stupore di lui. Selene era una personcina piccolina, e dimostrava sempre meno, le davano sempre un massimo di sedici anni. – Secondo: – continuò – non mi era mai capitato di sentirmi così a terra.
Da lì nacque una lunga conversazione. Lui si presentò, disse che era un parente del festeggiato e non conosceva nessuno a quella festa, era un ragazzo di 23 anni e non credeva che lei ne avesse venti, lei parlò degli studi universitari, di essere un’amica del festeggiato, e tra una parola e l’altra, complice anche l’alcool che scioglieva la lingua dandole una certa parlantina, gli rivelò la sua passione per la scrittura. Le piaceva molto scrivere. Era un tipo che analizzava parecchio, quei pochi racconti in cui si era cimentata a scrivere erano sempre a sfondo psicologico e adolescenziale. Scriveva per diletto e le sue uniche lettrici erano state le sue amiche, di cui dubitava ogni capacità critica non perché le riteneva stupide, ma perché erano le sue amiche.
Durante quella chiacchierata era venuto il suo Grande Amore ad assicurarsi che stesse bene, e poi se ne tornò alla festa. Ma c’era indecisione nel suo comportamento, infatti, il Soccorritore a un certo punto chiese:
- Ma è il tuo ragazzo?
- Chi?
- Quello. Quello che entra ed esce e ogni tanto ci fissa.
- …no… non lo è. Però è davvero un cretino.
Lei fece una faccia un po’ irritata, un po’ triste. Allora lui decise di cambiare argomento e proseguì chiedendole:
- Senti, mi piacerebbe leggere qualcosa di tuo.
- Perché? – era una richiesta insolita quella del ragazzo, in fondo non la conosceva, non sapeva niente di lei.
- Faccio parte della redazione di un giornale locale. Lo stampiamo e lo redigiamo qui, ma è distribuito a livello regionale. Abbiamo un pubblico ristretto, ma molto fedele. Per ora sembra tirare avanti. Ecco, cerchiamo gente nuova, se magari leggo qualcosa di tuo e mi piace, io troverei una giornalista e tu potresti far parte del nostro staff.
- Ehm… l’idea è davvero carina, ma dubito di essere all’altezza. Non sono molto informata su quello che succede nel mondo…
- Non c’è alcun problema, ci occupiamo anche di casi di minore importanza, e comunque all’inizio potrei darti una mano. Ma prima vorrei leggere qualcosa di tuo.
- No, non posso. Sono cose personali, sarebbe troppo imbarazzante.
- Facciamo così: io ti lascio il mio numero, intanto ci pensi e se decidi bene mi fai un colpo di telefono.
Prese il suo biglietto da visita, lo guardò a lungo. Lo ripose nella borsetta.
 
Il risveglio fu un po’ difficile. La testa pesava troppo e i pensieri si affollavano ancora di più. Ripensava alla serata appena trascorsa. Aveva il rimpianto di non aver potuto scambiare qualche parola di più con l’Altro. Mentre si consolava e si rotolava, come fanno i cani quando sono felici, nella prospettiva di scrivere per una rivista. Le piaceva un sacco l’idea di far parte di uno staff giornalistico, poter scrivere, esprimere le proprie idee e fare in modo che anche molti altri possano leggerle e confrontarsi con il pubblico. Ritrovare i suoi articoli stampati sul giornale e, soprattutto, sarebbe stata una piacevole sorpresa per i suoi familiari. Erano pensieri però fini a se stessi, tutto le appariva come qualcosa che non poteva appartenerle, almeno non in quel momento della sua vita, forse mai. Si sentiva ridicola al solo pensiero di poterci credere.
Sognava soltanto. Le mancava il coraggio di buttarsi.
Pensava a tutto questo mentre svolgeva tutte quelle azioni rituali mattutine: il saluto alla mamma, il bagno, la colazione, la tivù. Poi il turno dello studio. Aprì il libro e di nuovo la cascata dei pensieri la inondò.


 

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Capitolo 3
*** Il Sole e la Luna ***


IL SOLE E LA LUNA
 


La tendenza al pessimismo, che credeva aspetto predominante del carattere del padre, era in verità molto radicata anche in lei. Proprio come suo padre era capace in un solo momento di far crollare tutto quanto e far apparire tutto totalmente nero. Nulla andava bene nella sua vita, gli eventi, le scelte, le persone: era tutto perso, era tutto inutile.
Il giorno dopo si svegliava e allora tutto appariva sotto un’altra luce, tutto più semplice, più chiaro, più facile, più probabile, e meno catastrofico. Possibilmente la razionalità o soltanto il buon umore regolava i pensieri e i sentimenti. Non era questione di clima e del tempo che se era bello e il cielo era sereno, allora girava bene o se pioveva ed era troppo brutto e invece andava tutto male. Era questione di spirito. Forse era l’impatto psicologico alle scoperte, nel provare quei sentimenti di rancore, di malessere generale. Poi forse cercava di farci l’abitudine, ma non era per sempre, perché finiva sempre per crollare in qualche momento, in qualche tipo di depressione, bastava anche solo un piccolo dilemma, uno di quelli ridicoli, insignificanti per far piombare il malumore e tutta quella serie di complessi a lei così geniali….
Ma passata la bufera, passata la tempesta, tutto tornava normale. Era la quotidianità a colmare i vuoti. Le cose da fare, i libri da studiare, le lezioni da seguire e tutta quella serie di azioni che compongono e riempiono una giornata.
 
- Ciao Selene!
- Ciao Elena!
Il suo sorriso era qualcosa di spettacolare. Ti scaldava come poteva fare una coperta o un camino acceso. Elena, come annunciava il suo nome, era una persona solare. Era una ragazza molto bella, infatti erano molti i ragazzi che le facevano il filo e lei era bravissima a gestirli. Si adeguava a seconda del ragazzo: se si trattava di un donnaiolo magari ci giocava un po’ per farlo poi rimanere a bocca asciutta, se invece erano ragazzi per bene chiariva da subito le cose. Tutto questo perché lei l’aveva già un ragazzo, era lontano, ma sapeva che lui la stava aspettando. E così il suo più grande desiderio, che era anche il suo scopo, era quello di racimolare una sommetta discreta per poterlo raggiungere e costruire con lui un futuro. Come molti altri ragazzi siciliani anche lui era stato costretto ad emigrare nel nord dell’Italia in cerca di un lavoro decente, di sicuro pagato meglio e un po’ più sicuro rispetto che nel paese natale. Elena invece faceva la commessa in una grande libreria, non ne capiva nulla di letteratura e simile, da ragazzina aveva letto qualche classico, tipici di quell’età, ma per il resto le sue letture erano le riviste televisive, e si soffermava su quelle che anticipavano novità sui telefilm più in voga, ma anche no. Quando si trattava di telefilm divorava ogni genere di serie, da quelli sentimentali e adolescenziali a quelli investigativi, dalle sitcom americane, come “Friends”, alle serie italiane. Detestava i reality, e quando le capitava di vederne qualcuno o si faceva grasse risate o dava di stomaco, a seconda del suo umore.
Selene ed Elena erano colleghe di lavoro. Selene aveva iniziato a lavorare quell’estate in quella libreria e aveva deciso di restarvi anche per l’inverno, ma solo part-time, per avere anche il tempo di studiare per l’università. Con la sua collega aveva instaurato un bellissimo rapporto, avevano preso quasi da subito a raccontarsi le cose, a farsi piccole confidenze, a passarsi le novità, un po’ come fossero vecchie compagne del liceo. Anche per questo le piaceva molto quel posto. Era una libreria grandissima, piena di libri, di tutti i generi. All’inizio si era sentita molto spaesata, tra tutti quei testi, tra tutti quei titoli, poi però aveva velocemente preso confidenza e familiarità con ogni reparto. A lei piaceva molto leggere, il problema era che non sempre poteva permettersi le spese di tutti i libri che avrebbe voluto leggere. Però lavorare lì le permetteva di scoprire, anche se superficialmente, nuovi autori, nuovi generi. E poi c’era l’odore della carta, dell’inchiostro di cui si lasciava inebriare piacevolmente.
E poi quell’inverno fu assunto un nuovo commesso. Era un ragazzo, giovane e molto carino. A Selene piacque subito, aveva un’aria da bravo ragazzo, dai modi raffinati che richiamavano molto la semplicità, un sorriso favoloso, quanto anche tutto il resto, come i suoi occhi dal verde molto intenso e cristallino. I capelli scuri e corti modellati con una buona dose di gel. Ed era alto, magro e dalla maglietta attillata si poteva immaginare un torace leggermente scolpito. Sembrava davvero simpatico.
 
“Nasce così senza avvisare
ma è così difficile
lasciarsi andare
non so chi sei
non so cos’è
ma negli occhi tuoi
mi perderei”
Dirotta su cuba – “I silenzi che parlano”
 
Aveva negli occhi qualcosa di indeterminato. Era difficile descrivere, dare un nome a quello sguardo, dargli una definizione. Forse era un lampo, un flash, una luce particolare, o al contrario, poteva essere un’ombra. Sì, era più portata a credere che si trattasse di un’ombra, un riflesso che la spingeva a sentimenti, a reazioni che in altri casi non avrebbe avuto.
Non era cattivo, anzi. Era sempre stato sincero e chiaro nelle sue intenzioni (a suo modo), nelle sue paure, nelle sue incertezze. Ma lei forse non era stata così forte da dominarle, da instaurare una sorta di regime, di ordine tra loro, nel loro rapporto, facendosi trascinare da quell’abisso di timori che avvolgeva lui, permettendogli di farle del male. Ma la cosa assurda era che non si trattava di un male, nel vero senso del termine. Perché lei viveva bene con lui, nei suoi abbracci, nei suoi baci, nelle sue attenzioni. Ma sentiva che non le bastava. Eppure non aveva il coraggio di imporsi.
Quando Elena l’aveva conosciuta pensò a lei come a una gattina, per i suoi movimenti, per il suo modo di ondeggiare quando camminava, per il suo corpo che aveva lineamenti sinuosi e morbidi, per quei suoi atteggiamenti di chi graffia e fa le fusa, apparentemente opportunista, ma imparò a capirla davvero solo in seguito a questa storia, scoprì in lei quell’essenza femminile, quell’amore di donna che si poteva provare per un uomo, quella fragilità e quel coraggio (o incoscienza) di buttarsi e vivere. Col tempo, anche per costruire una certa familiarità con lei, cominciò a chiamarla Gattina e le rimase questo nomignolo.
Tutto era cominciato una sera. Da un po’ di tempo Selene, Elena e la Gattina uscivano insieme e con loro c’erano anche altri ragazzi, tra cui lui, Darkman, chiamato così per il suo look un po’ aggressivo, per il suo interesse a ciondoli, anelli e maglie, o qualsiasi oggetto, che rappresentassero teschi, croci, e simboli oscuri e di tendenza horror, anche se lui sembrava impressionarsi se gli si parlava di racconti, film o fumetti dell’orrore. Era un tipo molto strano, per certi versi buffo, ma anche molto misterioso. In quei suoi modi sempre molto vaghi era impenetrabile. Indossava la maschera di quello che ci prova con tutte, che tira le battutine, che provoca, ma in pratica non si muove. Sembrava seguire tutto un percorso suo, un percorso ignoto, forse bizzarro, eppure lui sembrava consapevole e deciso in quello che cercava, in quello che stava costruendo. Era difficile capire cosa vivesse, cosa stesse costruendo: parlava molto poco di sé, di quello che faceva quotidianamente, a cosa si dedicasse, quando stava in compagnia si limitava a fare lo sbruffone e soprattutto bisognava muoversi e non stare fermi sempre allo stesso posto, come cercasse qualcuno, ma poi non lo vedevi mai con qualcuno.
Un grande mistero.
Prima di quella sera non c’era mai stato nulla di più di un saluto, di qualche parola scambiata nel gioco corale del gruppo.
Quella sera la Gattina e Darkman (sembrano i protagonisti di un fumetto americano) avevano cominciato a scherzare, a raccontarsi fatti loro, storie vere e inventate, esperienze un po’ drammatizzate per l’occasione o totalmente canzonate. Insomma si prendevano per il culo nei loro discorsi e nessuno dei due era sicuro di quanta verità ci fosse nei discorsi dell’altro.
Cominciarono così a farsi simpatia.
Ma la cosa sembrò finire lì, perché, nonostante si fossero scambiati i numeri del cellulare, nessuno dei due si fece sentire dall’altro e la cosa a tratti sfumava, a tratti si accendeva.
Poi una sera scattò qualcosa.
Nella confusione generale i due scivolarono via dal gruppo, e andarono ad appartarsi in uno di quei vicoli di cui è pieno il centro storico. Vi erano vecchi portoni di case abbandonate, preceduti da due o tre gradini. Se ne stavano seduti su uno di quei gradini, davanti a uno di quei vecchi portoni: lui su un gradino più alto, dietro di lei, quest’ultima sul gradino sottostante. Sedeva tra le sue ginocchia e solo di tanto in tanto, nell’intenzione di appoggiarsi, quasi si sdraiava su di lui. Lui le carezzava la guancia con le dita, ma solo ogni tanto, per gioco, per curiosità. Lei se ne stava immobile, senza l’intenzione di allontanarsi, senza il coraggio di girarsi ad incrociare il suo sguardo.
Allontanarsi significava rinunciare a quello stato di benessere, girarsi significava rischiare di baciarsi, il che comunque non le sarebbe dispiaciuto. Così passavano i minuti tra stupidi giochetti, provocazioni e risate, fino a che lei senza volerlo, senza accorgersene, si voltò a guardarlo e rimase immobile con gli occhi di lui dentro i propri. Lentamente lui si avvicinò, mentre la sua mano faceva una leggerissima pressione sui propri capelli, e la baciò. Sulle labbra, poi le sue labbra si aprirono e iniziarono un dolcissimo e sensuale gioco con quelle di lei. La ragazza si lasciò trasportare e invadere da tutta quella dolcezza, da tutta quella passione. Non aveva mai provato qualcosa di così intenso, di così coinvolgente, di così devastante.
Sul momento non ci fu nessun commento, nessuna decisione. Ma alla Gattina quel bacio suscitò parecchi turbamenti. Non le era passato per nulla indifferente, anzi, era stato molto importante, e sconvolgente. Non ci dormì per diverse notti, fino a che, un giorno prese il coraggio a due mani e si recò presso quell’istituto dove Darkman stava frequentando un corso, che genere di corso fosse non lo sapeva, ma sapeva che passava i pomeriggi lì. Andò a trovarlo lì, sapeva che facevano diverse pause e aspettò. Quando lo vide uscire dal portone principale gli andò timidamente incontro. Lui la salutò sorpreso, ma non troppo. Andarono a sedersi ad una panchina lì vicino.
- Senti, dobbiamo parlare di quella sera. – esordì lei.
Lui non disse nulla, così fu lei a proseguire:
- Tu non hai niente da dire in proposito?
- Beh, mi è piaciuto molto baciarti…. Sono stato bene. – sembrava serio nel pronunciare quest’ultima frase.
- Io… cioè, per me quel bacio è stato molto importante. Che dobbiamo fare?
- Non lo so. Così come siamo non ti va bene?
- Beh, veramente… non ci sentiamo mai, mai una telefonata, nemmeno un messaggio. Ora come ora, non mi va più bene.
- Beh, allora dimentichiamo quella sera e torniamo a come eravamo.
Rimase di sasso. Non si aspettava di essere liquidata tanto facilmente. Per cui non le rimase che rialzarsi, salutarlo e andarsene.
Lui però rimase a guardarla mentre si allontanava e nello sguardo aveva qualcosa che non era quello di chi aveva appena risolto la faccenda. C’era forse del rammarico?
Forse sì, perché qualche giorno dopo, durante una scampagnata tra amici, tentò più volte di avvicinarla, per tornare a scherzare come ai vecchi tempi, fino a che riuscì a ristabilire quel vecchio clima di complicità e fu allora che cominciò a tirare delle battutine su loro due. La Gattina allora non poté evitare di rinfacciargli la decisione presa da lui.
- Vuoi ancora stare con me? Te lo chiedo perché a me piacerebbe e non poco. – come risposta ricevette lo sguardo di lei, ancora dubbiosa.
- Però c’è una condizione. – continuò lui e lei crucciò lo sguardo.
- Aspetta, fammi indovinare: non dev’essere una cosa seria.
- No, - rispose lui – se stiamo insieme dobbiamo rispettarci, però tra tre mesi dovremo troncare questa storia.
- Cosa?
- Oggi è il 21 febbraio. Dunque… marzo, aprile, maggio. – e intanto scandiva i mesi aiutandosi con le dita – Il 21 maggio dovremo lasciarci.
- Scusa, questa cosa non ha senso.
- E niente spiegazioni. – ancora altro stupore negli occhi di lei. Allora pensò che fosse una specie di trappola. Pensò che lui le stava dicendo una cosa simile certo che lei avesse rifiutato, voleva liberarsi di lei in quel modo assurdo, allora pensò di cogliere quella provocazione e decise.
- Ci sto.


 

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Capitolo 4
*** Il Sole e la Luna ***


- E tu hai accettato?
- Beh, sì, è un’occasione che non potevo proprio rifiutare! Pensa: poter giocare con ragazzi del loro livello. Sarà una scuola preziosissima per me!
- E l’allenamento della squadra dei ragazzini?
- Andrò una volta a settimana.
- E con il lavoro come farai?
- Ti dico che è tutto sotto controllo.
Selene era poco convinta delle promesse del fratello. Sapeva quanto lui adorasse giocare a calcio, ma temeva che si sarebbe stancato troppo. Il fratello, più grande di lei di qualche anno, era venuto a trovarla in libreria. Il ragazzo oltre ad essere un appassionato di calcio, sia vissuto che quello in tivù, aveva una grande passione per i gialli, aveva già letto quelli su Sherlock Holmes, teneva il passo con quelli di Camilleri e stava raccogliendo i gialli di Agatha Christie. Selene, che raccoglieva e assaggiava tutto quello che trovava in giro per la casa, aveva provato anche lei a leggere qualche giallo appassionandosi a quelli di Conan Doyle e di Camilleri, trovando questi ultimi ormai un po’ ripetitivi. Il ragazzo era venuto, quindi, a dare un’occhiata allo scaffale dedicato ai gialli. E raccontava le ultime novità alla sorella. Era entusiasta dell’occasione. Non sperava certo di diventare un grande calciatore, anche se per lui era sempre stato un piccolo rimpianto, ma far parte di una squadra ufficiale come quella locale era per lui una specie di trionfo e motivo di orgoglio. Era un ragazzo vivace. Un giocherellone. Selene adorava parlare con lui perché usavano spesso delle metafore, soprattutto se di mezzo c’erano delle confidenze più intime, usavano sempre un tono giocoso. Parlare seriamente sarebbe stato troppo imbarazzante, forse lo era più per lei.
Fu allora che entrò in negozio la Gattina. Era pimpante ed allegra, molto allegra. Si diresse al banco delle informazioni dove c’era Elena alle prese con il computer e la informò sulle novità. Quando Selene, dopo aver salutato il fratello, si avvicinò alle due ragazze, ancora con un po’ di discrezione, visto che con l’amica di Elena non aveva molta confidenza, Elena la stava chiamando, invitandola ad avvicinarsi per chiedere un suo parere sulla storia della Gattina.
Tutta quella faccenda aveva davvero sorpreso parecchio. Non avevano mai sentito una cosa del genere ed era difficile farsi un’idea, soprattutto un’idea positiva. Non era scorretto, ma piuttosto era una situazione misteriosa, visto che lui non aveva voluto dare spiegazioni riguardo a quella condizione. Lei pur sapendo che la cosa non era molto promettente decise di lasciarsi trasportare dagli eventi, nella speranza di farlo innamorare e cambiare le carte in tavola.
- Certo, è un bel rischio… - aveva commentato Elena.
- Lo so, ragazze, sto facendo una cazzata, ma mi piace troppo ed io ho deciso di buttarmi. Comunque vada, non potrò dire di non averci provato.
Le ragazze le fecero un sorriso che esprimeva tutto il loro sostegno, tutta la loro solidarietà.
 
Pioveva. Veniva giù che sembrava stesse precipitando il cielo. Quest’ultimo era così scuro, quasi nero. Per fortuna i tuoni e i lampi non erano frequenti.
In quei giorni Elena si era buscata una brutta influenza, così si assentò dal lavoro un paio di giorni. Quel giorno piovve tutto il tempo. Anche quando arrivò l’orario di chiusura e Selene doveva tornarsene a casa. Senza ombrello. Si sentì meno stupida ad aver lasciato l’ombrello a casa, quando scoprì che anche Luca, il suo bel collega, il nuovo assunto, aveva dimenticato l’ombrello. Restarono lì sotto la tettoia sulla porta del negozio ad aspettare invano che spiovesse.
- Che facciamo? – chiese lui.
- Non ne ho idea. Qui non smette di piovere.
- Se ci avviassimo? Ho il giubbotto di pelle. Tu sei piccolina forse riusciamo a ripararci tutt’e due.
Ed eccolo lì l’imbarazzo, compagno audace della timidezza, che faceva capolino nell’animo di Selene. Però non le dispiaceva affatto la situazione. Disse di sì e si incamminarono. Purtroppo la corsa sotto la pioggia non le permise di conoscere meglio il suo collega. Però scoprì in lui un ragazzo molto gentile e pieno di riguardi. Pensò che era merito del suo essere così piccina. Più volte aveva suscitato la tenerezza e il riguardo delle persone per la sua apparenza.
Si divisero a quell’incrocio molto vicino la casa di Selene, che avrebbe proseguito per altri pochi metri, lui avrebbe deviato a sinistra e avrebbe corso ancora un bel po’.
Quando arrivò a casa, Selene fece un bagno caldo e rilassante, cenò con la sua famiglia e solo dopo aver aiutato la madre a fare i piatti si ricordò del cellulare che aveva lasciato sulla scrivania della sua cameretta. Vi trovò uno squillo e un messaggio. Erano di Luca. Nel messaggio le chiedeva se era arrivata viva. Ne fu piacevolmente colpita. E l’attrazione per lui cresceva sempre più. Passò la serata a parlare con lui via sms, una lunga chiacchierata che sarebbe durata molto meno se si fossero telefonati, ma era la prima volta che si sentivano fuori dal lavoro. Luca aveva soltanto due anni in più di Selene. Era un ragazzo comune, viveva con la sua famiglia, come la maggior parte dei ragazzi in quella piccola città siciliana dove viveva Selene. Aveva una sorella più piccola che ovviamente stuzzicava e che doveva tenere d’occhio visto che era una ragazzina di 16 anni. Dopo essersi diplomato all’istituto tecnico commerciale aveva fatto qualche corso di computer, accumulato qualche punteggio, fatto diverse domandine a vari concorsi e nell’attesa che la fortuna chiamasse anche lui, si era accontentato di quel lavoro da commesso. Aveva una grande passione per l’informatica: smontava e rimontava instancabilmente ogni tipo di computer, faceva esperimenti, aggiungeva, toglieva, formattava, fondeva programmi. Combinava proprio di tutto. E anche lui, come molti ragazzi, non aveva scansato l’ipotesi di cercare lavoro fuori dalla Sicilia, considerando le città da Roma in su.
Da allora il clima divenne molto più disteso durante le ore di lavoro. S’instaurò una bellissima familiarità tra il ragazzo, Selene ed Elena e furono diverse le serate organizzate per trascorrere del tempo insieme, anche al di fuori dell’ambiente lavorativo. Come quella sera in cui decisero di andare a mangiare una pizza. Luca portò i suoi due amici, quelli che frequentava assiduamente e da cui non riusciva a dividersi, le ragazze portarono la Gattina, quest’ultima senza il suo Darkman, impegnato in qualcosa che riguardava la sua famiglia.
Così il sestetto decise di andare “Da Lello”, proprio dove lavorava il Grande Amore di Selene, vi faceva il cuoco. Non ebbe il coraggio di suggerire di cambiare posto, ma perché poi? Ormai quella era una storia che non le apparteneva più. Era il passato.
La serata scivolò leggera e piacevole molto più di quanto aveva previsto Selene. Gli amici di Luca erano due buontemponi, molto simpatici e talvolta sembravano una coppia di comici: certe loro scenette erano davvero spassose. Uno dei due comici si chiamava Cesare detto “il Ce”.
- Come il grande Che Guevara, ma senza l’acca da Ce-sare. – spiegò Luca.
Il motivo del soprannome stava nel suo look, nel suo fazzoletto rosso legato al polso sinistro, nei suoi principi tipicamente comunisti, nella sua avversione per Berlusconi. Lui era davvero alto, troppo alto, e con la sua faccia faceva mille smorfie diverse e buffissime, sembrava un orsacchiotto e suscitava sprazzi di tenerezza. L’altro invece, il Casanova, si professava un romanticone e ci provava spudoratamente con tutte. Del resto se lo poteva permettere: era proprio un bel ragazzo, la bellezza di un attore, con un portamento da fighetto e curato nei minimi particolari. E, infine, importante: il suo profumo era afrodisiaco (Selene dava molta importanza ai profumi maschili, avevano un forte impatto sensuale).
Passato l’imbarazzo dell’incontro con il suo Grande Amore per Selene fu una bella serata. A Luca però non sfuggì il patos che aveva circondato il momento in cui era venuto quel ragazzo a salutare Selene, per questo all’uscita del locale, facendola da parte le chiese qualche spiegazione.
- Non vedo perché debba spiegarti le mie amicizie.
- No, infatti, non devi. Era semplice curiosità. – si dimise immediatamente dalle precedenti intenzioni. Si era reso conto di aver peccato di indelicatezza.
- Comunque, è una storia complicata. È stata una persona importante, adesso quando ci vediamo ci salutiamo. Tutto qua. – lo ripagò di questa piccola spiegazione, solo perché ingenuamente, le aveva fatto piacere il suo interessamento, e anche perché lui aveva intuito qualcosa sul suo Grande Amore.
- Si vede che tra maschi si capiscono. – aveva in seguito commentato Elena.
 
“Dintra alle pagine di un romanzo a un certo punto si perdeva come tra gli arboli di un bosco, la testa gli partiva per un altro verso, se la sentiva a un tempo leggera come un palloncino e pesante come una petra, allura nel mezzo di una liggiuta doveva fermarsi pirchì i righi diventavano tutti torti e ‘ntricciati e l’occhi s’annigavano a taliari ‘u nenti.”
A.Camilleri – “La pensione Eva”
 
Nessuno prima di lui aveva saputo esprimere meglio quello che Selene provava quando leggeva. Era un piacere, ma allo stesso tempo una fatica. Selene leggeva e scriveva. Seguendo un movimento semi-circolare, come quel movimento idrico delle fontane: l’acqua scorre nella fontana, questa per evitare che trabocchi deve far scorrere l’acqua via per un altro condotto, andando a riempire un’altra vasca. Ecco: Selene leggeva, e quando leggeva sentiva la testa pesante e strapiena di idee, pensieri e riflessioni. Sentiva la necessità di liberarsene e l’unico modo per farlo era scrivere. E scrivere era per lei una catarsi, un modo per mettere ordine nei pensieri, e un piacere intenso. Quando finiva di scrivere anche una sola pagina si sentiva tutta soddisfatta anche se poi trovava un mucchio di difetti qua e là. Non scriveva mai con l’intenzione di far leggere a qualcuno le sue creature, scriveva per se stessa. E sentiva che non poteva farne a meno. Non avrebbe potuto mai più farne a meno.
Così le capitava nelle piccole pause dal lavoro di appartarsi nello stanzino, che poteva somigliare a qualcosa come un antico retrobottega, ad annotare qualcosa sul suo diario. Una volta la sorprese Luca e curioso, come aveva dimostrato di essere, aveva cominciato a farle una serie di domande e finirono per parlare dell’università.
- Come mai non frequenti e ti limiti a studiare qui e dare gli esami?
- Perché lavoro qui. – aveva risposto lei con tono scontato.
- Vabbè, ma non mi sembra che tu lo faccia per necessità… - lei sospirò e poi spiegò:
- Ho passato un anno burrascoso con le mie coinquiline e ho deciso di staccare un po’. Magari l’anno prossimo torno a cercare casa e magari mi trasferisco.
L’università che frequentava Selene era a due ore di pullman dalla sua città, così era preferibile trasferirsi nella capitale per frequentare meglio le lezioni.
Sì, Luca era un tipo molto curioso, faceva un mucchio di domande, ma era molto simpatico e quello che gli raccontavi non lo diceva in giro. Anche lui chiacchierava molto e le sue cose non se le teneva sempre per sé. Ma aveva un modo di porsi, di fare che non ti riusciva di pensare a un fastidioso impiccione, ma a qualcuno che aveva un mucchio di esperienze alle spalle e voleva condividerle con chi aveva intorno, e, per certi versi, con l’intento di insegnare qualcosa, se possibile. Selene lo trovava molto affascinante e le piaceva sempre più. Quello che più la colpiva era la sua capacità di metterti totalmente a tuo agio. E lei aveva un gran bisogno di gente come lui.
Ma aveva trascurato una cosa molto importante: era un rappresentante dell’altro sesso: un maschio.
Un giorno lo sorprese con Elena nello stanzino del negozio: ci stava provando con lei. E fin qui niente di strano. Certo, c’era rimasta male vedere che lui era interessato ad un’altra. Ma fu quello che disse in seguito che fece perdere ogni stima di Selene per lui.
- Ehm… stai prendendo un abbaglio, Luca… lo sai che sono già impegnata sentimentalmente.
- E allora?
- Come “E allora?” ?
- Vabbè, ci si diverte una volta e finisce lì.
- Scusa, ti sembro quel tipo di ragazza? – lui non rispose.
- Non ti facevo così stronzo, sai?
È vero, c’era nel tono del ragazzo una voglia di scherzare, ma difficile credere che stesse solo scherzando.
Nonostante le piccole delusioni, Selene non aveva smesso di credere alle persone. Aveva il brutto vizio di idealizzarle, di farne delle persone quasi perfette, con piccoli difetti che li potevano rendere soltanto più interessanti. E stentava a credere a quello che aveva visto, a ciò che aveva sentito.
Rimase scossa per tutta la giornata. Elena notò che la sua collega era un po’ strana, quel giorno. Quando chiusero il negozio si offrì di accompagnarla a casa.
- Che hai? È tutto il giorno che hai il muso… - disse Elena.
- Ho visto quello che è successo tra te e Luca, nello stanzino.
- Cioè… hai visto che non è successo niente. – Selene la guardò strana. Poi disse:
- Il suo comportamento è niente per te?
- Ah, ti riferisci a quello. Pensavo ti riferissi a me.
- Che c’entri tu?
- Non so, sembravi ce l’avessi con me.
- A volte non ti capisco proprio, pure tu!
- Comunque mi dispiace.
- Mi stai chiedendo scusa?
- No, mi dispiace che anche lui si sia rivelato un cretino. – Elena sapeva della cotta della sua collega.
- Pazienza. Prima o poi ci farò l’abitudine.
 
Un giorno, quel pomeriggio, Darkman prese la macchina e andò a prendere la sua ragazza, la Gattina. Questa fu colta di sorpresa, non era stato programmato.
- Dai, metti un jeans, una maglietta e un paio di scarpe da ginnastica. – aveva detto lui.
- Così va bene? – chiese lei, dopo un po’, salendo in macchina.
- Sì. Riesci ad essere sexy anche così…
- Uhm… è strano…
- Cosa?
- È sempre strano ricevere un complimento da te.
- Perché? Stiamo insieme. Dovrebbe essere normale.
- Infatti, eppure mi suona sempre strano, sarà perché fra un po’ mi mollerai.
- Ma c’è un solo momento in cui riesci a non pensarci?
- Sì, quando sto con te.
La Gattina era ormai cotta. Stare con lui per lei era sempre una sorpresa, erano momenti bellissimi. E per davvero riusciva a dimenticare il loro contratto a termine. Riusciva ad immaginare che sarebbe stato per sempre e ogni sforzo perché lui non diventasse troppo importante era andato a farsi benedire. Ogni tanto pensava che avrebbe dovuto prepararsi al trauma della separazione. Per di più nel patto c’era anche la promessa di non chiedere spiegazioni. Era una situazione pazzesca: lui si era mostrato un ragazzo gentilissimo, brillante, simpatico, con certi piccoli difetti da sopportare, ma che lo rendevano solo più adorabile. Il suo maggior difetto era la sua cocciutaggine e questo non lo rendeva adorabile, tutt’altro. Si doveva fare quello che diceva lui, doveva avere ragione sempre lui, per questo certe liti erano davvero pesanti.
- Senti, ma se ci lasciassimo prima dei tre mesi previsti e poi ci rimettessimo insieme, sarebbe per altri tre mesi?
- Ehm… no.
- Scusa, ma non ha senso. Il contratto non è sempre per tre mesi?
- Ma non è una cosa usuale per me.
- A no? E allora perché lo stai facendo proprio con me? Davvero non riesco a spiegarmela ‘sta cosa.
- Eravamo d’accordo: niente spiegazioni.
Non si stancava mai di riprendere quel discorso. Almeno una volta al giorno trovava il modo per provocarlo e cercare di capire. Invano. Era impenetrabile come una roccia.
- Sai, a volte ci penso. Come diavolo faccio a fidarmi di te?
- Ti fidi di me?
- Certo, altrimenti non sarei su questa macchina a seguirti mentre mi porti fuori città! Dove mi stai portando?! – lui sorrise divertito (uno di quei sorrisi splendidi). Poi rispose:
- Questo non è un segreto: ti porto in campagna. Dov’è nata e cresciuta la mia famiglia.
Per Darkman le origini della sua famiglia avevano un fascino particolare, un’atmosfera mitica, nel vero senso del termine. Il mito delle origini della sua famiglia risiedeva negli anni della seconda guerra mondiale fino agli anni ’80. Da lì in poi appariva tutto più credibile, più palpabile. I ricordi, i racconti dei suoi nonni, degli zii, del padre erano dei documenti preziosissimi per il ragazzo. Ripercorrere i luoghi dove quei personaggi avevano vissuto e avevano fatto parte di un pezzo di storia italiana era sempre stato per lui un’emozione fortissima. E quel pezzo di storia, cui la famiglia di Darkman aveva preso parte, era una storia diversa e lontana dalle lotte sindacali e dalle manifestazioni di protesta delle grandi città del nord. Quegli anni avevano visto ancora la vita dei campi, la povertà, l’arretratezza, ma lo spirito con cui tutto questo era stato accolto era quello di chi non si rendeva conto, quasi l’espressione del fatalismo siciliano: forse è così che doveva andare. Perciò c’erano le feste, i balli organizzati nelle buie campagne, a percorrere stradine infangate e insidiose per raggiungere la casa di turno che ospitava una festa. Ed era lì che nascevano gli aneddoti e gli episodi mitici che Darkman adorava tanto.
Così Darkman mostrò alla sua ragazza la vecchia casa, adesso proprietà di uno dei sei zii, dove suo padre era cresciuto con i suoi fratelli. Poi le mostrò i campi che una volta erano stati del nonno e che adesso erano stati divisi tra i fratelli. Suo padre coltivava un pezzo di terreno dove si dice ci sia stato un accampamento militare ai tempi della grande guerra, forse addirittura vi atterravano gli aerei militari. Il ragazzo raccontava quel che sapeva con passione. Ed era questa un’altra caratteristica affascinante di Darkman.

 

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Capitolo 5
*** Il Sole e la Luna ***


“E ancora ieri consideravo che
Se tu non c'eri io…
Però è un pensiero inutile
Ma si, ma si, lo so qual'era
Il modo esatto per riavere tutto
E’ solo che
Mi persi”
                          D. Silvestri – “Mi persi”
 
Le piaceva immaginare che quel già più volte citato Grande Amore potesse essersi sentito così, almeno una volta in passato nei suoi confronti. Voleva poter credere che lui avesse avuto troppa paura di impegnarsi, di costruire qualcosa con lei, magari perché troppo importante, per paura di ferirla. E costruiva così tutta una serie di cornici romantiche.
Un’altra festa, altre malinconie. Altri rancori. Quella di Luca era stata l’ennesima delusione. L’ultima di una lunga serie: prima il Grande Amore, poi le sue amiche e adesso pure lui. Tornavano nitide le discussioni, le incomprensioni irrisolte. Cosa, dove aveva sbagliato?
 
       “Where did I go wrong, I lost a friend...”
 
“La voce del cantante sembrava biascicare parole straniere guidato da un ritmo che tornava ad incidere.
Il tutto scatenava un desiderio di scrollarsi di dosso tutta la rabbia, forse era il titolo della canzone “How to save a life” o il ricordo del video che ritraeva diverse persone con visi tristi e con occhi pieni di lacrime a scatenare quella sua voglia di ballare. Scuoteva instancabilmente i suoi riccioli scuri e ribelli, teneva gli occhi chiusi, ma i piedi ben saldi per non perdere l’equilibrio. Muoveva le braccia e maldestramente il bacino e le ginocchia.
Di tanto in tanto potevi vederla muovere le labbra per pronunciare lamenti ad imitare i versi della canzone.
C’era tristezza, c’era rabbia, c’era voglia di libertà.
Ignorava la folla attorno a sé. Ignorava la sua amica che voleva coinvolgerla in qualche sua “coreografia”. Andava per conto suo, con gli occhi serrati, in un mondo suo, in quel buio profondo, la sola cosa che potesse vedere. Ma vedeva se stessa muoversi, sentiva la musica scivolarle addosso, entrarle dentro, nel corpo, tra pelle e ossa, sentiva il calore, le pulsioni del suo cuore, del suo sangue al ritmo della musica.
Poteva sentire, poteva percepire gli sguardi altrui su di sé e provare la soddisfazione di potersene fregare. Vaffanculo tutti, a quel paese il mondo intero, tutti i pregiudizi. Sentiva la rabbia attraversarla e scappare, scaraventarsi tacitamente su tutti attorno. S’immaginava tra calde braccia, pronti ad accogliere il suo cuore, ad accogliere il suo dolore.
Ma s’immaginava pronta a respingere tutti gli stronzi o quelle persone mediocri di cui è pieno il mondo. Lei voleva guardare avanti. Camminare a testa alta, senza rimorsi, senza rimpianti. Aveva capito che nella vita si è soli e da soli bisogna cavarsela, costruire il proprio futuro con le unghie e con i denti. Bisognava scacciare tutti i pensieri, tutte le paure, guardare in faccia il futuro e affrontarlo.
E credere.
Credere nella nostra forza.
Crederci.”
 
Ma era la forza di un solo momento, il tempo di quella canzone. Poi tutto si spegneva. Tutto perdeva di significato. Da un po’ tutto aveva perso senso. Il solo motivo per cui esistere era la sua famiglia. Nient’altro per cui valesse la pena. Un sogno non l’aveva, un percorso da seguire tanto meno. E se fino ad allora aveva cercato qualcosa, la strada da seguire, uno scopo nella vita, adesso non si sforzava di fare nemmeno quello. Inerme, la vita le scivolava addosso senza scalfirla più, viveva per inerzia, col terrore di perdere ogni emozione.
Quando andò a sedersi, dopo essersi concessa quell’unico ballo, le immagini delle liti, il suono delle parole senza più affetto, ma pieni di interessi personali rimbombavano nella mente e facevano male, ancora come allora.
Lo sguardo fisso verso il pavimento che aveva perso anche lui ogni lucentezza: troppa gente l’aveva calpestato. Si chiedeva come si era convinta a prendere parte a quella festa, lei che di natura non sopportava la confusione, si sentiva sempre a disagio in mezzo alla confusione. Ma Elena era stata gentile ad invitarla, non poteva dirle di no, non all’ultimo minuto.
- Hai visto come sono carini? – Elena si riferiva alla Gattina e al suo ragazzo “a termine”. I due erano presi dal quel lento che il dj aveva messo opportunamente per le coppiette presenti.
- Sì. Secondo me andrà a finire bene. – rispose Selene
- Non lo avrei mai detto. Sembrano quasi innamorati. Sai cosa penso? Penso che forse lui abbia voluto assicurarsi un margine di libertà.
- Cosa vuoi dire?
- Voglio dire che forse aver dato una scadenza a questa loro relazione gli permette di non fare progetti a lungo termine.
- Vuoi dire che ha solo paura di impegnarsi?
- Sì.
- A me sembra stupido lo stesso. – concluse risentita Selene, quasi fosse una cosa personale.
- Siamo al top stasera! – commentò ironica Elena e Selene sorrise leggermente. 
- Toh, guarda chi arriva! – annunciò Elena.
Erano i due amici comici di Luca, che con quest’ultimo erano presenti anche loro alla festa. Simpatici, festaioli e casinisti come se li ricordava. Selene poté notare negli atteggiamenti del Casanova una vaga somiglianza con Luca Bizzarri, il compare di Paolo Kessisoglu, con cui conduceva Le Iene, il programma televisivo. Come semplice fan, Selene provava una certa ammirazione per questo personaggio televisivo, per il suo aspetto fisico e per la sua bravura. La somiglianza con quel Casanova stava forse in quel suo modo di fare il filo alle ragazze, nel suo stesso portamento, nella sua sfacciataggine nell’abbracciarle, nel fare i complimenti, talvolta usando anche una leggera ironia.
Andò a sedersi proprio accanto a Selene. La scrutava, praticamente le fece i raggi x. Selene indossava una minigonna marrone, svasata sui fianchi, calze scure e stivali alti da camperos. Ad essa aveva abbinato un maglioncino corto beige con una scollatura che tagliava di sbieco.
- Potresti fare colpo stasera… - le disse il Casanova. Lei si limitò a guardarlo come con sorpresa, ma facendogli capire che non era proprio in vena.
- E dai! Ritira quel musone! – esclamò e con uno slancio l’abbracciò e quasi la soffocò.
Sorpresa, ma anche un po’ commossa e punta nel vivo. Era come un cagnolino abbandonato, uno di quelli che aveva preso un sacco di botte ed era pieno di piccoli tagli e ferite, bisognoso di attenzioni, di cure ed affetto. Sorrise e fece per liberarsi dalla presa di lui. Allora spinse tutto in fondo, tutti i brutti pensieri, i cattivi ricordi, gli inutili rancori, li cacciò indietro, nell’angolo più nascosto della sua mente e cercò di godere della compagnia di quei ragazzi.
La serata da allora trascorse con maggiore serenità e qualche sorpresa. Le luci basse, la confusione di persone che si muovevano, che passavano, il chiacchiericcio, la musica assordante, rendeva il dialogo di due persone piuttosto intimo. Quando Selene se ne stava appoggiata al muro a guardare la gente che ballava, la gente che viveva, il Casanova la raggiunse. Dopo quell’abbraccio i due avevano cominciato a scherzare, a parlare, lui cominciò a ronzarle attorno. Selene gli dava corda perché lui non era invadente o volgare, era simpatico, ironico, magari un po’ pieno di sé, quello sì, ma usava una certa dolcezza che dava ragione al suo presentarsi come un gran romantico.
Fu così che tra un sorriso e una frase gentile, una carezza e un abbraccio scattò un bacio. Fu un bacio molto passionale, Selene si lasciò trascinare dall’emozione del momento e lo abbracciò forte e ricambiò il suo bacio, sopraffatta dal bisogno di sentirsi viva.
Si baciarono a lungo, poi lui la portò in un angolo più appartato e continuò a baciarla. A quel punto però le carezze e gli abbracci si fecero più intimi e fu allora che Selene si svegliò. Si allontanò bruscamente da lui, lo guardò, chiese scusa, si divincolò dalla sua presa e scappò via.
Tutto quello che era successo non le apparteneva, non era nel suo modo di fare. È vero, non era successo nulla di irrimediabile, ma per lei quello era molto grave, soprattutto per il senso del pudore, talvolta esagerato, che nutriva.
Il suo turbamento era a livelli altissimi. Certo, aveva voluto divertirsi, ma solitamente le bastavano quattro chiacchiere, un paio di battute, stare bene con le persone attorno a lei per divertirsi, quello non era previsto. Non c’era sentimento in quel che aveva fatto, non poteva perdonarselo. In cuor suo sperava che quel ragazzo si facesse sentire, si facesse vedere per trovare una giustificazione all’accaduto: se almeno lui avesse provato qualcosa per lei tutto appariva sotto un’altra luce e poteva essere accettato più facilmente.
Ma così non fu. Si videro dopo qualche giorno nell’occasione di un nuovo incontro in gruppo, lui la salutò e l’affrontò come se niente fosse, come se tra loro non era successo nulla. Così Selene, nel momento in cui restarono soli, gli disse:
- Quello che è successo l’altra sera non deve ripetersi mai più.
- Ok, non preoccuparti, non è successo niente. – rispose lui, come se lei gli stesse chiedendo scusa per averlo urtato inavvertitamente.
In quel caso si sarebbe trattato di galanteria, invece Selene aveva appena scoperto che lui non aveva fatto altro che approfittare della sua debolezza e lei c’era cascata in pieno. Il giorno dopo, parlandone in libreria con Elena, questa le rispose:
- Beh, magari ci ripenserà e potrebbe esserci un’evoluzione. Chi può saperlo? Sono così imprevedibili, gli uomini.
- Sì, ci pensa mentre sta con altre quattro o cinque ragazze!
- Sei gelosa?
- No, ma sono stata una vera stupida. E il suo è stato un comportamento da vero cafone!
- Ma ti piace?
- Ma che ne so! Ultimamente me ne piace uno, poi un altro…
- Guarda che non c’è niente di male. L’attrazione per diversi ragazzi è normale. L’amore è un sentimento che si può provare per una sola persona, almeno in linea di massima, poi c’è chi dice di essere innamorato di diverse persone, ma a me sembra un po’ impossibile, almeno io non riesco a concepirlo.
- Sì, lo so. Ma lo sai come sono fatta.
- Sì, lo so. Non ti perdoni certi piccoli errori.
- Piccoli?
- Dai, non stai passando un bel momento, può capitare, poi tu ti sei accorta di aver sbagliato quindi non ripeterai lo stesso errore. Quindi non essere troppo severa con te stessa. Non farti altre paranoie. Cerca di vivere più serenamente!
- Va bene, nonna!
Elena aveva un solo anno in più di Selene, ma sembrava molto più grande. E doveva essere quel suo modo di parlare, di pensare, di rapportarsi con lei. Più volte le aveva fatto da consigliera, offrendo i suoi preziosi consigli da saggia.

 

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Capitolo 6
*** Il Sole e la Luna ***




E intanto il tempo passava. Tutto scivolava normalmente, i momenti erano scanditi dalle abitudini, da tutte quelle azioni che ripetiamo ogni giorno, senza rendercene conto e che in fin dei conti costituiscono proprio la nostra vita.
La Gattina, inizialmente ossessionata dall’idea di quel rapporto a termine, quando stava con lui trovava sempre un modo per parlarne, trattare gli accordi, i tempi. Perseguitò quest’idea solo per il primo mese, poi allentò la presa e al terzo mese il rapporto era diventato così naturale che la ragazza smise quasi di pensarci. Era una storia vera, con emozioni vere, sentimenti veri. La ragazza lo aveva notato nelle premure del suo ragazzo, nell’interessamento reciproco a certi problemi. E poi c’era la sintonia, quella tipica e unica di ciascuna coppia, la sintonia nel giocare, nel pizzicarsi, nel fare le cose, nel pensarle, persino nel litigare. E tutto scorreva come se quel 21 maggio non dovesse mai arrivare.
E invece arrivò. Soprattutto si sentì il peso del giorno prima. La Gattina si chiedeva se in quel 21 maggio lui l’avrebbe lasciata prima ancora di trascorrere insieme quella giornata oppure no, se invece era il 20 maggio l’ultimo giorno della loro storia. Non ne avevano più parlato, il che faceva ben sperare a un bel finale. Quel 20 maggio trascorsero il pomeriggio insieme. Scesero giù al mare, sulla spiaggia. Il venticello fresco mitigava la temperatura già abbastanza calda di quella primavera molto simile all’estate. Sdraiati sulla sabbia erano presi da una delle loro lunghe discussioni, uno di quei momenti in cui si mettevano a parlare di un mucchio di cose e fantasticavano sulla vita, sul loro futuro. Fu allora che alla ragazza venne in mente:
- Senti, ma domani…
Lui non la lasciò finire. La baciò con dolcezza e lei rinunciò.
Il giorno dopo arrivò con il suo caldo primaverile, con il suo cielo azzurro e le sue nuvole di cotone.
- Le brutte notizie arrivano sempre nelle belle giornate. – sospirò la Gattina.
Era una statistica sua personale. Aveva notato che nei suoi pochi anni di vita le belle notizie l’avevano sopraggiunta nelle giornate di pioggia, mentre le più brutte nelle giornate di sole. Quel mattino si sentirono e si misero d’accordo per vedersi il pomeriggio. Il cuore della ragazza non ebbe pace tutto il giorno e la paura, il terrore di perderlo facevano sì che la mente della ragazza prendesse ad elaborare tutta una serie di idee, strategie perché lui non la lasciasse. Il turbinio di tutte quelle paure, di tutti quei pensieri la fece stare da schifo tutto il giorno e quando lui venne a prenderla non aveva un aspetto bellissimo. Lui se ne accorse, ma distolse l’imbarazzo. Andarono in giro per negozi, passarono del tempo insieme come loro consuetudine e quando la riaccompagnò a casa lei lo guardò come un cagnolino che non vuole essere abbandonato. E poi chiese:
- Allora? Che facciamo? Come rimaniamo? – lui la baciò, con passione, poi rispose.
- Ci vediamo domani. – le sorrise e le accarezzò il viso.
Lei sorrise e lo abbracciò stretto, quasi a soffocarlo.
Quella notte non dormì. E non dormì per molte altre notti appresso. Stupidamente non aveva nemmeno chiesto se ci sarebbero state altre scadenze, se invece si trattava di qualcosa a lungo termine. Ma non voleva pensarci. Era troppo felice.
 
“Lascia stare tutto quello che non vedi
È inutile fissarsi
Andare con lo sguardo tra i marciapiedi
Solcati dai passanti
Se vuoi ragione hai ragione
A proseguire col tuo istinto
Ma non cambiare direzione, vai
Avanti sempre dritto”
S. Bersani – “Lascia stare”
 
La sera in cui tutto era cominciato e finito risuonava questa canzone. A Selene quelle parole sono sempre suonate come una profezia, un avvertimento. Sapeva che tra lei e il suo Grande Amore non sarebbe mai nato nulla, ma aveva voluto andare in fondo. Aveva seguito il suo istinto. E aveva avuto torto. Ma non era pentita di ciò che aveva fatto, non in quel caso. Ricordava tutto con grande malinconia, ma anche con profondo affetto, era stato per lei un periodo della sua vita molto intenso, profondamente vissuto, con i suoi errori, con i suoi momenti belli, da incorniciare e conservare nella bacheca dei ricordi. Aveva pochissimi rimorsi e per lo più riguardavano piccolezze, ma anche i piccoli errori trovavano un senso, un motivo di essere ricordati, con un po’ di imbarazzo, ma con affetto. Perché ogni momento, ogni attimo era stato vissuto con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta se stessa. E avrebbe rivissuto volentieri tutto quanto, perché si era sentita viva, aveva assaporato la sensazione della libertà, una sensazione preziosissima per lei e che aveva provato raramente, con lui e i suoi amici aveva avuto l’occasione di essere se stessa, nelle sue manie, nelle sue cavolate, nei suoi errori, nella sua maturità, ma anche nella sua infantilità e ingenuità.
E quella sera risuonava ancora quella melodia e quelle stesse parole riecheggiavano ancora come una sorta di minaccia, all’interno di quel locale con le luci soffuse, le pareti scure a creare familiarità, intimità. Guardava i suoi nuovi amici, guardava la Gattina felice insieme al suo ragazzo che non era più a termine. E aveva paura. Forse aveva paura per loro, forse era quella canzone che le faceva venire brutti pensieri. E c’era anche il Casanova, tranquillo e a suo agio come sempre, e stranamente quella sera era meno farfallone del solito. Selene invece si sentiva ancora a disagio dopo quello che era successo, ma il tempo avrebbe sanato ogni piccola ferita e rimarginato i rapporti. Fu quella sera stessa che si fece strada la guarigione. Il Casanova scherzava con tutti allo stesso modo e anche con lei, solo un momento si fece serio e parlò con lei.
- Scusami per l’altra sera. Dovevo immaginare che non sei quel tipo di ragazza. Spero di non averti fatto troppo male con la mia superficialità – forse non era così superficiale…
- Beh, mi hai usata, hai approfittato della mia debolezza. Ma in fondo anch’io avrei dovuto essere meno stupida, più lucida. Forse, molto in fondo, anch’io ti ho usato.
- Siamo alla pari allora.
Certo, non era il chiarimento che aveva desiderato, ma quelle poche parole avevano aperto un varco verso una nuova serenità all’interno del gruppo, e questo col tempo per Selene divenne importante.
 
“Viene verso di me, tranquillo, implacabile, come tutte le altre volte. Ma oggi non ho paura. Forse è il dolore a impedirmelo. Il dolore insopportabile che mi artiglia le viscere. So che lui farà cessare quell’agonia, come ha sempre fatto. Non per cattiveria né per bontà. Semplicemente perché deve. Perché Fallen è la morte. Uno strano tipo di morte. Fallen è la morte dell’amore.”
P. Ruju – “Dylan Dog – L’eterna illusione”
 
Se davvero esisteva una figura simile la Gattina avrebbe gradito molto la sua visita o forse era già venuto e non se n’era accorta. Fallen era venuto a uccidere l’amore tra lei e Darkman.
Dopo solo dieci giorni troncò la loro storia. Così. Senza una spiegazione, senza un motivo plausibile, senza una discussione. Disse che il contratto era scaduto da un pezzo, disse che per lui erano stati i tre mesi più splendidi di tutta la sua vita, disse che non l’avrebbe dimenticata, ma lei avrebbe dovuto farlo. Ma lei ovviamente non si arrese, contestò la sua decisione, poi lo cercò per molti giorni al telefono, che risultava sempre spento, fino a quando quel numero risultò inesistente. Lo cercò fino a casa e scoprì che non c’era più nessuno, si erano trasferiti. Nessuno sapeva niente e questo non fece che alimentare la sua angoscia. Provò terrore al pensiero di averlo perso per sempre, di aver perso ogni occasione di rivederlo, anche senza rivolgergli parola. A quel punto l’unico suo desiderio era poterlo sapere vivo, desiderava con tutto il suo cuore che stesse bene.
Darkman era stato un profondo mistero da sempre. Aver trascorso quei tre mesi con lui le aveva permesso di capire la sua personalità, il suo modo di pensare, di affrontare le situazioni. Nonostante quelle condizioni assurde si era rivelato un ragazzo affidabile, a suo modo sincero e amabile. Ma cos’era successo?
Il mistero rimase irrisolto e la povera Gattina passò interminabili giorni d’angoscia e di immensa tristezza. Fu per questo motivo che Selene ed Elena si prodigarono in un programma di soccorso. Il programma prevedeva andare a prelevare la ragazza dalla sua stretta stanza e portarla in giro per la città nel tentativo di farla svagare, e soprattutto di ascoltarla con tutta la pazienza possibile. Perché una ragazza innamorata può essere noiosa e pesante più di una lezione scolastica.
Ci misero un po’ a convincerla ad uscire. Aveva due occhi rossi e gonfi che sembrava l’avessero presa a pugni per giorni interi. Sfoderarono tutto il loro buon umore e riuscirono a tirarla fuori da quelle quattro mura. L’evasione era stata portata a termine.
- Senti, dove vuoi andare? Noi avevamo pensato di scendere sulla spiaggia. Ti va?
- Ok.
Decisero per quel pezzo di spiaggia che non era molto lontano dalla città, ma che era anche meno frequentato, soprattutto dalle coppiette. E diedero libero sfogo ai loro pensieri.
- Ragazze, ho paura. – fece una lunga pausa.
Sedute sulla sabbia ancora non molto calda e morbida, erano sedute in fila, con la Gattina in mezzo, di fronte al mare e lo sguardo verso l’orizzonte.
- Ho paura di non rivederlo mai più. Ho paura per lui. Ho paura che gli sia accaduto qualcosa di brutto. - riprese
- Certo, è una situazione davvero assurda… però io nutro ancora qualche speranza. – rispose Elena.
- Che vuoi dire?
- Non so… penso che si rifarà vivo. Non lo conosco bene, ma mi ispira fiducia. Ti ha rispettato fino ad adesso, quindi voglio credere che una spiegazione te la darà.
- Mi basterà sapere che sta bene.
Tornò il silenzio. C’era una certa calma. Certo, un po’ di malinconia, ma una sorta di tranquillità dominava l’atmosfera e gli animi delle ragazze. E il fruscio del mare calmo che accarezzava il bagnasciuga contribuiva a tutto questo.
Poi suonò un cellulare. Era quello di Elena. Il suo trillo fece balzare tutte dallo spavento, tanto erano assorte.
- Puccioso! – rispose la ragazza con entusiasmo.
Puccioso era il suo ragazzo. Aveva preso l’abitudine di chiamarlo così, anche quando ne parlava con gli altri, che ormai quel povero ragazzo non aveva più un nome normale, ma era conosciuto con quel nome assurdo di Puccioso. La ragazza chiuse subito la conversazione, spiegando velocemente al suo ragazzo la missione che stava portando a termine.
- Scusate… - disse quasi umilmente.
- Quando lo rivedrai? – chiese la Gattina.
- Tra un mese. Proprio oggi ho detto al proprietario del negozio di volermi licenziare.
- Cosa?! – fu la sorpresa di Selene.
- Sì, ormai ho deciso. Ne ho parlato con il mio ragazzo, lui è d’accordo. Questa settimana finisco di lavorare in libreria.
E di nuovo crollò il mondo sulle spalle di Selene. Adesso anche andare in negozio non avrebbe avuto lo stesso significato.
- Non sarà più lo stesso senza di te in negozio.
Elena ne fu molto sorpresa, e un po’ commossa. Ma la buttò sull’ironico.
- Questo è sicuro! Non ci sarà una più rompipalle di me!
Risero.
- Senti, se lui tornasse e ti chiedesse di tornare insieme, tu cosa faresti? – chiese poi Selene alla Gattina.
- Beh… forse, gli direi di sì… - rispose con un po’ di imbarazzo.
- Però se lui si comporta di nuovo da stronzo io mi permetterò di sequestrarti dalle sue spire. – avvertì Elena.
- Ok.
- Eh, va bene la prima volta comportarsi da stronzo, ma pure la seconda no!
- Ma tu non ci sarai! – la rimbeccò Selene.
- Non vado via per sempre, carina. Tornerò. Nel frattempo ti assillerò per telefono. – Selene chinò il capo, intenta come da quando era arrivata, a tracciare linee e nomi sulla sabbia asciutta con un rametto trovato lì per terra.
- Pensavi di esserti liberata di me! – fu la minaccia conclusiva di Elena.
 
“Perché l’amore è inscindibile dal dolore
e sa essere così penoso
che a volte assomiglia a un soffocamento”
 
               Ai Yazawa – “Nana collection vol. 3” 



 

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Capitolo 7
*** Il Sole e la Luna ***


Così, in vista della partenza di Elena, i ragazzi (Selene, la Gattina, Luca e i suoi due amici) decisero di dedicare una delle ultime serate per onorare la partenza della ragazza. Una volta individuata la serata giusta, decisero di riunirsi durante il pomeriggio per accordarsi e spartire i diversi compiti per l’organizzazione e la riuscita di quel party privato. Il Casanova doveva occuparsi delle cose da mangiare e allora chiese a Selene di accompagnarlo. Questa accettò, anche se con qualche dubbio.
Così andarono al supermercato e fecero un po’ di spesa. I due avevano instaurato un bel rapporto sereno, fatto di piccoli dispetti, battute e piccole confessioni. Una sana sintonia che a Selene faceva un gran bene.
- Ma cos’hai lì? – chiese ad un certo punto lei, riferendosi a una custodia che pendeva al collo del ragazzo.
- È la mia arma segreta! – Selene lo guardò interrogativa e scettica.
- È una macchina fotografica. – spiegò lui e rise.
- Non ti facevo fotografo.
- Infatti non lo sono, mi piace fare le fotografie, ma è solo un hobby.
Nel decidere cosa prendere si azzuffarono un bel po’, visto che lui si era fissato su un menu fisso, mentre lei suggeriva di variare, dal momento che da tante persone derivavano tante preferenze. Insomma, discussero a lungo, fino a che la ragazza riuscì a spuntarla. Una volta usciti dal supermercato la ragazza, un po’ malinconica, disse:
- Ma era proprio necessaria una festa d’addio?
- Beh, è un bel modo per stare tutti insieme, visto che sarà una delle ultime volte.
- Sì, ma sarà troppo triste. Io mi metterò a piangere.
- Di questo non devi preoccuparti, io ti starò vicino e ti darò il mio conforto… - ci provava sempre. Non era semplice gentilezza la sua, era un modo per provarci. E il loro rapporto si basava su questi gesti sempre poco chiari, nei loro significati.
Selene si era accorta di tutto questo e non se ne preoccupava. Voleva che tutto andasse per inerzia, non rifiutava certe sue avance, ma nemmeno lo incoraggiava. A Selene piaceva così. E ripensò a Elena. Le dispiaceva doversi separare da lei. Senza rendersene conto era diventata importante per lei, un’amica preziosa. Per la prima volta non era stata lei ad imporre un’amicizia tra le ragazze, ma era stata l’amicizia stessa ad imporsi tra le due. Era nato così un rapporto spontaneo e naturale e un affetto molto profondo. Selene avrebbe faticato di nuovo a separarsi da quell’amicizia.
Selene e il Casanova camminavano per le strade della città con le borse della spesa in mano. La ragazza era talmente assorta nei suoi pensieri che non si accorse di stare per attraversare l’incrocio con il rosso. Così quando una macchina che arrivava a tutta velocità, stava per travolgerla, il ragazzo ebbe allora lo slancio di afferrarla e tirarla a sé.
La teneva stretta. Selene poteva sentire il proprio corpo aderire con quello del ragazzo, il suo profumo l’aveva inebriata, e sentiva anche suo il cuore che batteva fortissimo. La ragazza non si era neppure accorta del pericolo che aveva corso, per cui se in quel momento stava tremando non era per la paura, ma per l’emozione. L’emozione di trovarsi tra le sue braccia.
- Ma che… volevi morire? – le sussurrò lui, con un filo di voce. Selene allora capì che il batticuore del ragazzo invece era l’effetto dello spavento che si era preso. Ma non la lasciava ancora.
- Puoi lasciarmi adesso. – disse allora lei.
- Sì, scusa.
Rimasero in silenzio. In teoria non doveva esserci un motivo per quel silenzio che sembrava quasi nato da una sorta di imbarazzo, ma per cosa poi?
- Grazie, comunque. – disse alla fine Selene.
- Figurati, m’hai fatto prendere uno spavento!
Arrivarono a casa del Ce, dove doveva aver luogo la festa, sistemarono la spesa e aspettando che arrivassero tutti gli altri, si affacciarono alla veranda, ancora un po’ assolata e da cui era possibile assistere al panorama della città vista dall’alto. Si misero così a puntare tutta una serie di edifici per cercare di identificarli e, collocandoli nella loro zona, capire fino a dove poteva estendersi il raggio visivo da lassù. Anche lì si alternarono piccoli battibecchi a momenti di totale ilarità, soprattutto quando scoprivano che uno dei due aveva sparato una cavolata. Fu allora che lui tornò ad abbracciarla, con naturalezza. Ma Selene non lasciò correre e chiese il motivo di quell’abbraccio.
- Perché emani dolcezza, tenerezza. – rispose lui e la ragazza rimase senza parole.
- Devi smettere di pensare. In questi anni bisogna vivere. E invece a forza di pensare hai pure rischiato di farti investire. – aveva poi aggiunto.
- Sì, hai ragione.
Era lui. Era lui che aspettava. Aveva atteso a lungo un ragazzo che sapesse farla ridere, che sapesse scuoterla, che sapesse proteggerla. E lui sembrava proprio quel ragazzo. Quando stava con lui, si sentiva da dio. E non cercava altro. Questo le bastava.
Quella serata trascorse tranquilla, con qualche istante di malinconia, ma con la più totale serenità e allegria. Elena notò l’affiatamento e l’intimità che c’era tra la sua amica e il Casanova, perciò in un momento di intimità con Selene gliene parlò.
- Ma state insieme? – chiese Elena.
- No. – rispose come fosse scontato.
- A guardarvi non sembra. – Selene non rispose. Ed Elena continuò ad indagare:
- Ti piace?
- Sì. Ma questo non cambia niente.
- Ma come non cambia niente? Non hai intenzione di dirglielo?
- No. Sto bene così. Quello che c’è adesso tra noi è una sintonia, un capirci ed intenderci troppo prezioso. Non voglio perderlo. Da fidanzati poi si litiga troppo.
- Non puoi saperlo.
- Lascerò che le cose seguano il loro corso. Magari il destino mi manda un segnale.
- Non hai mai creduto al destino, tu. – la ragazza non era molto convinta della scelta della sua amica. Però vederla finalmente più serena le faceva piacere. Sembrava stesse guarendo dalle ultime ferite.
- Mi mancherai. – disse Selene. – Mi mancheranno i tuoi consigli, le tue saggezze…
- A me mancheranno le tue paranoie, i tuoi complessi. – Selene rise.
Era così che andava la vita. Le persone passavano, i sentimenti sbiadivano. Le persone attorno a Selene andavano avanti. Era lei a restare ferma in quel limbo di indecisione. Stava ferma all’interno di un cerchio senza alcuna diramazione. Oppure proseguiva a tentoni e molto lentamente, come se alle spalle trascinasse con sé due macigni: la paura e la rassegnazione. Selene aveva capito che bisognava farsi forza, non poteva restare ferma per paura di sbagliare. Gli errori l’avrebbero fatta crescere, col tempo li avrebbe anche perdonati. Bisognava alleggerire i pesi dei due macigni. Andare avanti. Con i sentimenti saldi in una cassaforte e la forza nel suo corpo. Pensava alla sua timidezza, alla quale aveva sempre attribuito la colpa dei suoi tentennamenti. E più ci pensava più credeva di aver fatto di quel gigante un alibi. Poteva la timidezza fermare la forza dei desideri? Quando voleva il suo Grande Amore la timidezza era andata a farsi benedire e il coraggio aveva preso posto per ottenere quello che poi non era riuscito ad avere, ma almeno aveva provato e non aveva mai potuto accusare la timidezza di averla ostacolata. Basta con questa disperata ricerca di un colpevole! Bisognava invece trovare un compagno audace, cui dare man forte e provare ad andare avanti.
Il giorno della partenza di Elena, andarono a salutarla tutti sotto casa sua, visto che da lì suo padre in macchina l’avrebbe poi accompagnata all’aeroporto, a due ore di strada. Fu allora che videro arrivare la Gattina di corsa, sventolava una cartolina, aveva l’espressione felicissima. Quando raggiunse i ragazzi esclamò ansimante, ma felice:
- E’ una cartolina di Darkman! Sta bene!
 

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Epilogo
 
Una volta partita Elena, Selene decise, con un po’ di rammarico, di lasciare il lavoro in negozio. Aveva ripreso a dedicarsi con maggiore impegno all’università. Aveva ripreso gli studi con più costanza. Aveva cercato casa ed era tornata a trasferirsi presso la facoltà. Sarebbe tornata a frequentare le lezioni. Fu in una di quelle giornate piene di ore di spiegazioni che incontrò una vecchia conoscenza. L’aveva colta di sorpresa alle spalle, esordendo con una battuta ironica:
- Se vai in giro con quelle codine, dovrai faticare per farti passare per ventenne…
La ragazza, dopo un balzo di sorpresa, assorta com’era a scrivere sul suo fedele block notes, seduta su una panchina, si voltò verso quella voce e si ritrovò di fronte un ragazzo, alto, elegante e soprattutto dal volto familiare. Ma non riusciva ad identificarlo.
- Non mi riconosci? Certo, è passato un po’ di tempo…
Ma sì! Era lui! Era il Soccorritore. Quella specie di redattore, o semplicemente giornalista che le aveva dato una mano la sera della festa di compleanno del suo amico. Dopo averlo finalmente riconosciuto lo salutò ancora molto sorpresa, ma con piacere. Si instaurò un’atmosfera così familiare, come se si conoscessero da una vita, che la decisione di andare a pranzare insieme sembrò la cosa più naturale di questo mondo.
Il ragazzo spiegò la sua presenza all’università, visto che l’anno prima, quando si erano conosciuti, lui non aveva accennato nulla riguardo l’università. Disse che anche lui frequentava l’università e che gli mancavano pochi esami.
- Sono qui per noiose faccende burocratiche…
- Non frequenti le lezioni?
- No, sono fuori corso, e comunque non mi serve più.
Parlarono del più e del meno durante quel pranzo veloce. Poi uscendo dalla mensa lui osservò:
- Quando ti ho sorpreso ho notato che stavi scrivendo. Continui a farlo?
La ragazza annuì. Poi guardò il suo blocco e, come un flash, le venne in mente l’antica proposta del ragazzo di provare a scrivere per il suo giornale.
- Senti, ti va di dargli un’occhiata? È una riflessione. – lo invitò timidamente.
- Ok.
Si sedettero su una panchina all’ombra di un alto e maestoso albero.
 
“Non si muore più per un ideale.
Oggi si muore per errore.
Muori perché ti trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato, quasi come fosse una sorta di punizione divina.
E se penso alla morte di Carlo Giuliani penso che davvero sono le istituzioni che ti ammazzano. Le istituzioni che devono imporre un ordine suscitano anarchia. Ammazzano i valori, gli ideali e i giovani fanno un sacco di cose assurde perché devono ribellarsi, ma a cosa? Sentono che qualcosa davvero non va, ma è diventato difficile individuare il nemico, il bersaglio. Contro cosa bisogna mirare? Cosa si deve contrastare? È questo sistema sbagliato, questo sistema dove ognuno pensa per sé e se qualcuno ha la capacità e il colpo di genio a trovare la strada per aiutare gli altri viene ad imporlo anche a te. Ti da i numerini magici e pronuncia la parolina maledetta: “SOLDI”.
E i soldi diventano doni, ma sono strumenti, o forse sarebbe meglio dire delle trappole.
Ho provato a immaginare un mondo senza denaro. Non ci sono riuscita. Bisognerebbe pensare che tutto ti appartiene, tutto ti è dovuto, ma nulla è per te per sempre. Dovrebbe essere un circolare continuo di beni. E come fai? Le cose che mangi sono tue, non puoi restituirle.
Bisognerebbe tornare agli inizi, all’era primitiva. Ma anche allora si lottava per avere qualcosa.
La lotta ci sarà sempre e comunque.
Ma per cosa lottare? È questo che non si capisce. C’è una tale confusione nel mondo, nelle persone. E si muore. Si muore dentro. E a volte anche fuori. In questi ultimi anni arrivano sempre più spesso notizie di suicidi avvenuti in questa piccola città. Una volta li biasimavo perché erano la manifestazione della vigliaccheria degli uomini, l’incapacità a reagire e provare a cambiare le cose. Adesso mi rendo conto che è veramente difficile vivere.
Dev’esserci un profondo, maledetto malessere in queste persone che desiderano ammazzarsi. Davvero qualcosa non va qui.
Oggi si muore per aver desiderato di esistere. Si muore perché questo mondo esige da te di emergere, te lo impone e se tu non ci riesci, se non fai qualcosa che fa parlare di te sei nessuno e se sei nessuno non vali niente e in quanto tale sei un fallimento e allora puoi morire.
I barboni, ad esempio, sono abbandonati per questo motivo: sono dei fallimenti, possono morire.
Ma la verità è che per quanto ci si sforzi il mondo giusto, il mondo perfetto non esisterà mai. In fondo lo sappiamo tutti molto bene che se c’è il bianco, dev’esserci il nero, se c’è il brutto dev’esserci il bello, per esserci la felicità deve esistere il dolore e per esistere il bene deve necessariamente esistere il male. Altrimenti non sapresti cosa combattere, da che parte schierarti.
Forse è da qui che bisogna partire. Bisogna decidere da che parte stare e combattere. LEALMENTE.
Ecco, sì, la lealtà.
Forse sta lì il segreto di un mondo migliore. Bisognerebbe essere leali, anche nella disonestà, nella criminalità, come un codice d’onore. Si pensi alla mafia, quella di tanto tempo fa, quando non minacciava ancora le famiglie, i bambini. Allora la mafia era una signora perché se la prendeva con il nemico vero, quello che le pestava i piedi. Adesso non esiste più il rispetto per le donne, per i bambini.
I BAMBINI. Si dice che sono il nostro futuro e noi lo ammazziamo il nostro futuro. Li abbandoniamo, li uccidiamo, abusiamo di loro.
Non esiste più il bene e il male. Esiste il caos.”
 
Quando finì di leggerlo la guardò e le chiese:
- Perché?
- “Perché” cosa?
- Perché hai scritto questo? Perché pensi questo?
- In questi giorni hanno parlato molto del generale Dalla Chiesa. Ho pensato alla sua morte, a quella di Falcone, di Borsellino, a tutte quelle persone che sono morte per ideali veri, per un desiderio di libertà, di giustizia. Ho pensato alla morte di tutte quelle persone coinvolte nell’attentato dell’11 settembre. Noti la differenza? Sono morti diverse. Adesso si muore senza senso. Ho pensato alle manifestazioni del ’68 quando i giovani lottavano per avere la possibilità di studiare, per un lavoro più sicuro. Io non saprei per cosa lottare. Se guardo avanti non lo vedo un futuro. Non ho un obiettivo, uno scopo. Nulla per cui muovere le mie gambe.
- Ne sei sicura? A volte sappiamo cosa vogliamo, ma ci sembra assurdo e diciamo di non saperlo.
Lo guardò. Lo scrutava. E lui reggeva il suo sguardo con fierezza. Allora abbassò gli occhi. Sorrise e fece un mezzo sospiro.
- Sai una cosa? In verità nel mio futuro la vedo una cosa: vedo una famiglia. Mi piacerebbe sposarmi, avere una famiglia, magari tre figli con cui costruire un rapporto discreto, equilibrato. – a quella parola lui sorrise, anche con i sogni Selene ci andava con i piedi di piombo. - una casa da accudire, un marito a cui preparare pranzetti, cenette. Anche un lavoro part-time, perché no? Giusto per fare qualcosa e contribuire alle spese familiari. Trovare il tempo per un cinema, un libro, un po’ di musica. Poi andare a trovare la mia famiglia, i miei fratelli, le mie cognate, spettegolare con loro dei nostri mariti. È un quadro così retrò che me ne vergogno al solo pensarlo. Ma mi piacerebbe.
- Te ne vergogni perché al giorno d’oggi professare il femminismo è diventata una moda per certi versi. Ma non penso che tu voglia diventare la schiava del tuo bel maritino.
- No. – rise. – e poi ad alcuni può sembrare una via più facile questa qui…
- Ma che dici? Costruire una famiglia oggi è un’impresa!- fece una pausa e continuò: - Scusa, ma allora perché stai frequentando l’università?
- Bella domanda. Non so. Volevo cambiare ambiente di vita, conoscere nuova gente, vivere in modo diverso, fare nuove esperienze. Ampliare i miei orizzonti. Cercare nuovi stimoli. Forse è stato un errore.
- No, non lo è stato. È un’esperienza grazie alla quale stai crescendo. È questo quello che conta. Senti, nel tuo tempo libero ti piacerebbe anche scrivere qualche articolo per una rivista?
- Pensi che possa farlo?
-Mi piace molto come scrivi. Quello che scrivi è interessante, anche se ho qualcosa su cui ribattere, ma ne parleremo. Avresti dovuto farti sentire prima. Fifona! – le scompigliò i capelli, come si fa con i marmocchi. Allora si alzarono e presero a camminare. Lei rise, poi chiese:
- Cos’è che non approvi?
- Allora, innanzitutto a volte generalizzi troppo, e poi sei troppo pessimista!
- Ma è la verità!
- Sì, lo so che sei veramente pessimista! Un po’ di allegria!

Camminavano, parlavano e ridevano. Selene aveva un sorriso… uno di quelli che parlavano di felicità, di benessere.

 

 

 

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