Alfa&Omega

di adria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Interludio ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
14 Marzo 2010
Londra, Inghilterra
Cimitero di Highgate
 
Era mezzogiorno.
Cielo limpido.
Il sole brillava alto.
Non soffiava un filo di vento e nell’aria c’era odore di ghiaccio.
Faceva freddo.
Il cimitero era affollato quel giorno.
Si stavano svolgendo tre funerali in simultanea.
Tre bare color ciliegio avevano sfilato per il sentiero in selciato fino al luogo del loro eterno riposo. Tre famiglie piangevano la morte prematura di quelle tre creature e attorno a loro si erano riuniti amici e conoscenti in un macabro abbraccio nero. Al centro il prete, unica presenza bianca, unica luce solitaria, unica guida.
Questo era lo spettacolo che si osservava dalla collinetta che lo sovrasta.
Questo era lo spettacolo a cui assisteva in silenzio Derek Cabrera al riparo di una splendida quercia secolare. Una delle tante che erano state piantate nei dintorni.
Di sotto nessuno si era accorto della presenza di quel ragazzo alto, dal corpo atletico fasciato in un pesante cappotto nero, dalle spalle larghe, dai corti capelli cioccolato fondente, dalla mascella scolpita e dai cupi occhi ambrati che osservava silenzioso nell’ombra come un guerriero ninja.
- La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto,
sento i tuoi passi esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio. - recitò in un sussurro solenne al cielo il ragazzo rompendo il silenzio di quel luogo sacro. Il tono era piatto.
- Fernando Pessoa. – rispose una voce maschile alle spalle di Derek.
Come Derek anche l’uomo era stretto in un cappotto doppio petto nero, avevano la stessa corporatura, ma l’uomo aveva lunghi capelli biondi stretti in un codino e occhi neri.
- Esatto Edward. – si complimentò il ragazzo voltandosi a fronteggiare il nuovo arrivato. L’ombra di un sorriso tirato gli balenò sul viso.
- È stata una morte orribile. – disse Edward guardando il cimitero alle spalle del suo interlocutore
- Già. -
– Mi dispiace per la loro morte. Erano così giovani, avevano ancora tutta la vita davanti. –
- Già. –
Il silenziò calò di nuovo mentre i due osservavano il cimitero svuotarsi lentamente.
Le bare erano state inghiottite dalla terra, sparite per sempre.
- Andiamo. – disse Derek ad un tratto avviandosi svelto giù per il sentiero tre le lapidi che avevano percorso per salire.
L’altro lo seguiva in silenzio come un’ombra.
Raggiunta la berlina grigia, parcheggiata ai piedi della collina, salirono.
Edward al fianco dell’autista, Derek dietro dove aspettava composto un ragazzo che era la sua copia sputata.
- Possiamo andare? – chiese il giovane al gemello appena chiuse la portiera.
- Certo Alan. – rispose Derek voltandosi a guardare il gemello con gli occhiali da sole che teneva lo sguardo fisso davanti a sé come sempre.
- Non mi sono mai piaciuti i funerali. –
- Lo so. –
Entrambi sorrisero.
Un sorriso tirato, stanco, triste.
A vederli così, l’uno di fianco all’altro, l’unica vistosa differenza era che Alan portava i capelli abbastanza lunghi da far si che qualche ciocca ribelle ricadesse disinvolta sulla fronte e gli coprissero un po’ i lobi delle orecchie, ma se il giovane si fosse tolto gli occhiali da sole Armani con lenti a specchio avrebbe rivelato l’altra grande differenza, due occhi bianchi, completamente ciechi.
- Dove andiamo signore? – chiese dal sedile anteriore l’autista guardandolo attraverso lo specchietto retrovisore. Aveva una voce cavernosa.
- A caccia. – rispose lui non curante.
L’autista accettò passivo la risposta e mise in moto.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


1
 
 
 
 
26 Novembre 2013
Cagliari, Sardegna
Piazza Matteotti
 
L’otto, l’autobus cittadino, si fermò frenando di colpo di fianco all’isola pedonale in piazza Matteotti. Al suo solito posto.
Adriana Atzori scese tranquilla e s’incamminò sull’isola pedonale, giù, verso la stazione degli autobus, lontano dalle strisce pedonali. Scese dall’isola, si voltò a destra e attese che due macchine le passassero davanti, poi attraversò velocemente insieme ad un gruppo di persone con valige e borsoni dirette alla stazione ferroviaria.
Come sempre una folata di vento avvolse la ragazza subito dopo aver messo piede nella stazione. I capelli neri lunghi e mossi mulinarono sotto l’effetto del vento e le ciocche che componevano il ciuffo laterale le finirono negli occhi, li tolse con non curanza e sorrise. Le era sempre piaciuta la sensazione del vento tra i capelli, specie se lunghi.
Adriana alzò lo sguardo verso l’orologio appeso.
L’una e venti.
Era in perfetto orario.
Attraversò l’arco rilassata e senza rallentare il passo guardò il grande schermo con tutti gli orari e i binari dei treni in partenza. Il suo occhio allenato trovò facilmente il treno che le interessava e proseguì.
La voce registrata gracchiò dagli altoparlanti che un treno diretto chissà dove era in partenza da chissà quale binario, ad Adriana non importava, ma ad un gruppo di ragazzi con gli zaini in spalla che la superarono di corsa si.
Era bello arrivare in anticipo, camminare tranquilla verso il proprio binario mentre la gente ti supera correndo rischiando l’osso del collo. Sorrise a questo piacere malsano dettato dal fatto che una volta tanto non era lei a rischiare l’osso del collo per prendere un treno.
Al binario 5 il treno attendeva immobile i passeggeri.
La ragazza salì alla prima porta, entrò nello scompartimento di destra, superò i primi tre posti di fianco alla porta e prese posto nei quattro posti successivi. A parte due uomini seduti l’uno di fronte all’altro qualche posto più avanti lo scompartimento era vuoto.
Mise borsa, busta e giubbotto nel sedile che dava sul corridoio e prese posto in quello vicino al finestrino abbandonandosi contro lo schienale.
Dopo aver osservato fuori dal finestrino per qualche minuto, si voltò a tirar fuori il quaderno degli appunti della penultima lezione che le aveva passato Ilaria dato che l’aveva saltata per un appuntamento improrogabile dal medico.
Lo sfogliò distrattamente.
Non aveva alcuna voglia di sistemare quegli appunti, peccato che non aveva nient’altro da fare visto che si era dimenticata il suo appassionante thriller a casa e poi, in ogni caso, avrebbe comunque dovuto metter mano agli appunti, prima o poi, e dato che doveva occupare il tempo era meglio prima.
Con un sospiro frugò nella borsa recuperando il suo quaderno, gli appunti e la penna. Adorava il suo quaderno a spirale perché poteva piegarlo e scrivere comodamente come se fosse aperto per esteso. Ne lisciò la copertina e si accomodò meglio sul sedile registrando a malapena la figura elegante che prese posto nel sedile diagonalmente opposto al suo.
Mentre era immersa nella lettura il treno iniziò a muoversi, ma lei non vi badò come non prestava attenzione a ciò che le accadeva intorno.
Non si accorse che quello scompartimento era occupato da sole quattro persone: lei, l’uomo che aveva davanti e i due uomini che aveva visto appena entrata. Non si accorse che quegli stessi uomini silenziosi avevano preso posto ai due lati del corridoio e presidiavano le porte dirottando chiunque volesse entrare (controllore compreso che rimase confinato nel suo ufficio nella coda del treno). Non si accorse neanche che l’uomo che le stava di fronte la stava studiando attentamente al di sopra del giornale che avrebbe, in realtà, dovuto leggere.
Lui la osservava con interesse mentre leggendo si arricciava una ciocca con la penna, come stressava il labbro inferiore mentre scriveva e non poteva fare a meno di ammirare le gambe toniche accavallate avvolte nell’attillato jeans nero sul quale poggiavano i quaderni, per non parlare degli occhi di un stupefacente color acquamarina che ogni tanto alzava senza rendersene conto. Era la spontaneità fatta persona.
Non aveva nulla di particolare, occhi a parte, non possedeva la bellezza delle super modelle e di certo non così appariscente, non aveva neanche delle gambe chilometriche, ma nessuno avrebbe mai potuto negare quella bellezza semplice, discreta e genuina di un fiore di loto. Non ne aveva viste molte di bellezze del genere ultimamente e quelle che aveva visto in tutta la sua vita si potevano contare sulle dita di una mano. Quando gli avevano affidato quell’incarico gli avevano detto che non era un tipo molto comune, ma non aveva pensato alla possibilità di trovarla tanto interessante.
Con una frenata leggera che produsse un discreto contraccolpo il treno si fermò per la terza volta.
Adriana si riscosse e guardò fuori dal finestrino.
Decimomannu gridava il cartello a lettere maiuscole.
L’uomo vide dipingersi un’espressione di leggera incredulità su quel volto delicato, dal canto suo, lei non si capacitava del fatto che fossero ancora a Decimo, le sembrava fosse passata un’eternità da quando si era messa a sistemare quei dannatissimi appunti che avrebbero dovuto essere il suo passatempo fino alla fine del viaggio.
Adriana sospirò e lentamente rimise tutto al proprio posto, poi si voltò a guardare la stazione al di là del vetro.
Il suono acuto delle porte che si chiudevano e il treno riprese a muoversi.
La stazione rimase alle loro spalle dove, la ragazza lo sapeva bene ormai, l’avrebbe ritrovata il mattino seguente a darle il buon giorno.
Per la prima volta da quando aveva sepolto il naso negli appunti Adriana si guardò intorno e vide l’uomo che le stava davanti leggere il giornale che teneva tra le grandi mani.
Ad occhio e croce doveva avere un trentina d’anni al massimo e i capelli biondi stretti in un codino e l’eleganza del completo blu elettrico denotavano un notevole buon gusto. Sorrise inconsciamente a quel pensiero.
Subito dopo si accorse che lo scompartimento era molto tranquillo.
Troppo tranquillo trillò una fastidiosa voce emersa da chissà quale recesso della sua mente.
Smettila di fare la paranoica, guardi troppi telefilm la rimproverò tornando a rivolgere la sua attenzione al paesaggio che scorreva fuori. L’unico passatempo che le era rimasto.
Guardò l’orologio. Miracolosamente il treno era in orario e se avesse continuato così avrebbe fatto in tempo a prendere il pulmino per rientrare in paese senza rompere le scatole a casa.
Il treno si fermò e riprese la sua corsa varie volte.
- Miss … scusi? – il tono incerto dell’uomo attirò l’attenzione di Adriana riscuotendola dalle sue considerazioni.
Si voltò e occhi acquamarina incontrarono occhi neri.
- Ha sentito parlare degli omicidi? – chiese più sicuro adesso che aveva l’attenzione della ragazza.
Adriana registrò che la voce calma dell’uomo aveva l’accento inglese.
- Quali omicidi? – chiese lei presa alla sprovvista: non era una domanda che si sarebbe mai aspettata da uno sconosciuto che voleva attaccare bottone e dato che era da un po’ che viaggiava e per attaccare bottone ne aveva sentito di tutti i colori …
Per tutta risposta l’uomo voltò il giornale mettendo in mostra la prima pagina dove c’era l’immagine di una pineta che pullulava di carabinieri e poliziotti sovrastata dal titolo a lettere cubitali “Colpisce ancora. Ventunenne uccisa nel campidanese. Le autorità brancolano nel buio”.
Oh … quegli omicidi …
- Si. Gran brutta storia. – rispose lei non sapendo che altro si aspettasse di sentire l’uomo. D’altro canto lei non si era fatta un’opinione sulla faccenda, erano notizie che le sue orecchie captavano la mattina mentre usciva di corsa da casa e nulla più.
L’uomo inclinò un po’ la testa con un’espressione indecifrabile sul volto.
Certo che era un tipo strano!
- Cosa ne pensa? –
Adriana aveva la spiacevole sensazione di essere sotto esame, invece di essere una semplice conversazione pareva un velato interrogatorio. Nonostante ciò rispose educatamente – Spero finisca in fretta. Mi pare sia la quarta o quinta vittima in poco tempo. –
- La sesta in effetti. –
Silenzio.
Il treno si stava allontanando da Sanluri Stato e automaticamente Adriana iniziò a prepararsi a scendere. Era lieta di avere qualcosa da fare per distrarsi dallo sguardo dell’uomo che percepiva addosso e per ignorare uno strano senso d’inquietudine che sentiva salirgli dallo stomaco. Fortunatamente stava per scendere.
Si mise il giubbotto e mentalmente contò i ponti che la separavano da San Gavino e quando il treno rallentò nuovamente prese borsa e busta e si alzò rivolgendo un sorriso di circostanza allo strano tipo che ricambiò.
Passando davanti ai tre sedili vicini alla porta trasse un respiro profondo, stava per scendere e dimenticare quello strano incontro. Crogiolandosi in questo pensiero si accorse a mala pena che uno di quei posti era occupato da qualcuno che lesto, balzò in piedi, le mise una mano sulla bocca tirandola a sé. La busta le scivolò di mano per la sorpresa e prima di realizzare a pieno l’accaduto sentì una puntura alla base del collo e un istante dopo una strana debolezza impadronirsi del suo corpo.
Io l’avevo detto! sentenziò la famosa vocina. Ti avevo avvisato, ma tu non mi hai dato retta!
Le gambe iniziarono a cederle prima che lei potesse anche solo rendersene conto. Si sentì sostenere dalle braccia forti dell’aggressore. La vista si stava annebbiando, una figura scura e sfocata avanzava verso di loro e poi più nulla. Tutto nero.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


2
 
 
 
Due ore dopo
Morimenta, Frazione di Mogoro
Casa di Gennario Casu e Argentina Frau
 
Si voltò sul fianco destro sprofondando in una miriade di morbidi cuscini e una luce giallo brillante iniziò a filtrarle attraverso le palpebre mentre se ne stava rannicchiata sull’enorme letto matrimoniale. Adriana si mise una mano davanti al viso nel vano tentativo di schermarlo, ma purtroppo il danno era stato fatto, si stava svegliando.
Si mise a pancia in su sbuffando e aprendo pigramente gli occhi si ritrovò a fissare qualcosa di bianco e appena mise a fuoco si rese conto essere un soffitto con due lampadari a quattro braccia in ferro battuto.
Era ancora intontita dal sonno.
La coperta che aveva si era tutta aggrovigliata alle gambe.
Sospirò e si mise a sedere appoggiando la schiena contro numerosi cuscini.
La testa prese a pulsarle fastidiosa.
Si guardò intorno con una strana sensazione.
Ora era sveglia.
Era in una stanza rettangolare molto luminosa con le pareti azzurro pastello e arredata con raffinatezza ed eleganza. Alla sua destra c’era una grande finestra con tende ecru in tessuto velato che sporgeva verso l’esterno formando una specie di nicchia sotto il quale era sistemato un divanetto azzurro pallido pieno di cuscini dall’aria comoda, davanti a lei una porta finestra a doppio battente che dava sul giardino.
Lentamente si liberò dalla coperta e scese dal letto.
Constatò che qualcuno le aveva tolto gli stivali quando mise i piedi sul morbido tappeto.
Senza riflettere si gettò sulla maniglia di quella porta premendola varie volte per aprirla, provò a spingere e tirare e premere più a fondo cercando di fare meno rumore possibile, ma quella non si mosse di un millimetro.
Era chiusa a chiave.
Un campanello d’allarme le risuonò nella testa mentre un’agghiacciante pensiero si fece strada, prepotente, nella sua mente sempre più scossa: come diavolo era finita lì, in quel letto grande e morbido e che, soprattutto, non aveva mai visto in vita sua?
Il mal di testa si fece più pressante per via dell’agitazione che l’animava e rischiava di travolgerla. Provò a calmarsi tirando una grossa boccata d’aria e lentamente si sedette nel divano prima che le gambe le cedessero vergognosamente.
E poi un ricordo le esplose nitido nella mente lasciandola senza fiato.
Il treno.
L’uomo con il giornale.
L’interrogatorio.
La puntura.
Le ritornò tutto alla mente e l’inevitabile conclusione che trasse fu come un pugno alla bocca dello stomaco.
Era stata rapita.
Da chi? 
Perché?
Nella sua mente si affollavano furiose un sacco di domande che pretendevano risposte e che la stavano facendo sprofondare nello sconforto più nero perché non era sicura di volerle conoscere quelle risposte.
Si prese la testa tra le mani e affondò le dita tra i capelli corvini nel tentativo di fermare le domande e alleviare il mal di testa che peggiorava.
- Ti sei svegliata finalmente. – disse cordiale una voce maschile dalla porta a due battenti in legno scuro.
Lei alzò la testa di scatto notando per la prima volta quella porta e registrando anche il fatto che non l’aveva sentita aprirsi, ma la cosa che aveva più importanza in quel momento era quel giovanotto in camicia bianca e pantaloni neri che la osservava con interesse.
Sotto quello sguardo indagatore sgranò gli occhi senza riuscire a muovere un muscolo o a spiccicare parola.
- Rilassati. Non sei in pericolo. – disse sedendosi nella poltrona di fianco al grande camino. Altro particolare che lei, presa dalla disperazione, non aveva notato prima.
Il ragazzo accavallò le gambe con eleganza.
-  Vediamo: Adriana Atzori, ventidue anni, nata a Oristano, nell’omonima provincia, il tre gennaio del novantuno da Beatrice Laconi, casalinga, e Saverio Atzori, impiegato delle poste in pensione. Hai due sorelle, Sabrina di quindici anni e Vittoria di sei ed un gatto, Zucca. Come vado? –
- M-mi h-hai rapita … – balbettò Adriana ritrovando la voce, anche se era poco più di un soffio, aveva la gola secca per la paura.
Quell’individuo, chiunque fosse, la conosceva e conosceva la sua famiglia.
Non era un buon segno.
Per niente.
- No. – rispose semplicemente sorridendole, sembrava quasi rassicurante. – Non sei stata rapita. Ho solo ritenuto opportuno portarti in un luogo in cui poter parlare senza futili interruzioni. Tutto qui. –
Tutto qui.
Quelle parole riecheggiarono nella mente della ragazza facendo incrinare qualcosa.
Crick
E la paura e la disperazione iniziarono ad abbandonarla come risucchiati dallo scarico di un lavandino per essere sostituiti da rabbia, frustrazione e irritazione.
- Tutto qui? – chiese alzandosi e incatenando i suoi occhi a quelli ambrati del suo carceriere.
La voce era più sicura, con una sfumatura isterica.
Rise.
Una risata amara.
Lui taceva e la fissava curioso.
- SICURO! È NORMALE PEDINARE E RAPIRE UNA PERSONA PER FARE DUE CHIACCHIERE DA QUALCHE PARTE IN CULO AL MONDO! – stillava e gesticolava come una forsennata avanzando lenta verso la poltrona – CHI NON LO HA MAI FATTO ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA? –
- Comprendo il tuo disappunto, ma era una cosa necessaria. – il tono era tranquillo, lui era tranquillo, tanto tranquillo che pareva stesse parlando del più e del meno con una vecchia amica che non vedeva da anni.
Adriana rimase interdetta da quel comportamento e dal tono più che dalle parole in se, non sapeva cosa dire o fare, era completamente stordita e così si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Aveva un’espressione da idiota stampata in faccia ed era in quel modo che si sentiva.
Ricadde sul divano senza un suono.
Il ragazzo, approfittando di quel momento e credendo che il peggio fosse ormai stato scongiurato, buttò, senza tanti preamboli e nessun ritegno, la bomba. – Sei qui perché ho un lavoro da proporti. -
Con gli occhi fuori dalle orbite balbettò - C-c … tu … e … n-n … - cercava di esprimere con i gesti frenetici delle mani ciò che la bocca non riusciva a sputare fuori o che non poteva tirar fuori vista la violenza con cui i pensieri si susseguivano viaggiando a velocità mai conosciute prima.
Certo che era proprio un bel personaggio.
L’aveva fatta pedinare, rapire, drogare e trasportare chissà dove al solo ed unico scopo di proporle un lavoro.
Una cosa da nulla, perfettamente normale.
All’ultima moda, no?
E dire che c’era gente che continuava ad ostinarsi a servirsi di semplici annunci seguiti da futili colloqui su appuntamento. Che inutile spreco di tempo.
Che cavolo aveva in testa? Segatura?
E aveva anche il coraggio di restarsene tranquillo seduto su quella stramaledetta sedia a guardarla come se fosse lei la pazza!
Vedendo che era in difficoltà e che il suo volto stava passando velocemente da un colore all’altro dell’arcobaleno disse – Il lavoro che intendo offrirti è un lavoro speciale che richiede un reclutamento speciale. –
Aveva usato il tono che usano solitamente gli adulti per spiegare ai bambini il perché del divieto di mangiare biscotti pochi secondi prima di cenare e questo la irritò ancora di più.
Crack
Ciò che prima era stato incrinato, adesso aveva ceduto.
Pura rabbia le salì dallo stomaco bruciando come bile.
Adesso era una furia.
Neanche un toro a cui era stato sventolato un drappo rosso davanti agli occhi poteva eguagliare tale furia.
- E allora perché non lo hai detto prima? Questo sì che spiega tutto. - il tono di voce era basso, molto basso, un sussurro agghiacciante che ricordava delle unghie su una lavagna – Tu sei completamente pazzo. Io adesso me ne vado e tu vai dritto in prigione. Basta, il tuo perverso giochino è finito. –
- Ci sono degli uomini pronti ad impediti di andartene senza il mio consenso ed è meglio che ti calmi o il mal di testa continuerà a peggiorare. – si alzò tranquillo, niente sembrava scuoterlo.
Peccato che la diga era crollata, tutto l’autocontrollo che Adriana aveva mostrato nei suoi ventidue anni di vita era finito alle ortiche e adesso rimaneva solo una furia ceca, sorda e muta.
L’animale era stato liberato.
Si gettò sul suo carceriere senza preavviso pronta a colpirlo con tutti i mezzi che aveva a disposizione. D’altro canto il ragazzo se lo aspettava ed era pronto a difendersi da calci e pugni. Non desistette neanche quando lei, non si sa come, lo morse a sangue nell’avambraccio.
La lotta era accanita e piena di colpi bassi e nonostante Adriana era resa più forte dalla furia non riusciva a prevalere sull’avversario. Consapevole di ciò era decisa a fargli quanto più male poteva. Avrebbe venduto cara la pelle.
Alla fine lui riuscì a bloccarla sotto il suo corpo nel tiepido pavimento in legno.
Entrambi avevano il fiatone e la camera era un completo disastro.
Lui aveva un taglio sulla fronte provocato dal vaso di cristallo che lei gli aveva spaccato in testa senza tante cerimonie e lei aveva il labbro inferiore tagliato e lividi che si formavano un po’ dappertutto.
- Sei più calma adesso? – chiese stizzito fissandola intensamente. Entrambi erano consapevoli della posizione vagamente erotica in cui erano bloccati.
- Credi sul serio che dopo tutto questo io accetti il lavoro? – chiese di rimando sostenendo lo sguardo orgogliosa, voleva sfidarlo, non aveva ancora finito di dar battaglia.
- In realtà, ne sono sicuro. – sorrise arrogante e compiacendosi del lampo di sorpresa che l’altra non riuscì a nascondere, ma che passò in fretta come era venuto. – Ti conosco bene. –
In quel momento le venne in mente una cosa a cui non aveva pensato prima: i suoi genitori.
- I miei. Che ore sono? Saranno preoccupati! – il panico impregnava la sua voce e tentò inutilmente di divincolarsi.
- Rilassati. Ho mandato un sms dal tuo telefono dicendo che avevi avuto un imprevisto, che il professore aveva deciso di fare lezione doppia, che avresti fatto tardi e che comunque gli avresti avvisati di qualsiasi cosa. Non si preoccuperanno. –
Aveva pensato a tutto, l’imbecille.
Suo malgrado Adriana si ritrovò a sorridere per i nervi saldi che mostrava e per la strana situazione in cui si trovava e che sembrava tratta da uno dei suoi telefilm preferiti.
- Mi piace la tua grinta. Sei una combattente nata. – disse guardandola ancora un attimo prima di alzarsi e tenderle la mano – Derek Cabrera. –
Lei prese la mano e subito sentì il pavimento staccarsi dalla sua schiena.
Era confusa e stanca, non sapeva come interpretare quelle parole. Sembravano un complimento, ma per quello che ne sapeva poteva anche essere una presa in giro, così non volendosi sbilanciare si limitò ad annuire.
Che lui lo interpretasse come gli pareva.
- Ora possiamo parlare da persone civili? – chiese Derek divertito, lei gli concesse un sorriso.
- Perché io? – chiese, un senso d’urgenza nella voce, aveva bisogno di sapere perché, tra milioni di persone, quel cretino aveva rapito lei, una ragazza comune senza alcun talento particolare.
Per tutta risposta lui si avvicinò alla scrivania in legno scuro, aprì un cassetto ed estrasse un iPad, il nuovo della Apple con il display retina; trafficò un po’ e lo porse alla ragazza.
Lo prese.
Le stava mostrando una galleria di foto.
Con l’indice tremante sfiorò una foto che s’ingrandì fino ad occupare l’intero schermo.
La guardò attentamente, di primo acchito non riuscì a distinguere nulla di sensato, ma più metteva a fuoco l’immagine e più quella assumeva significato. Distinse chiaramente un corpo femminile, senza vita, scomposto su un letto sfatto, era praticamente nudo se non si contavano i brandelli della camicetta dal dubbio colore e le mutandine, macchie scure parevano decorare il corpo dal pallore innaturale. Puntò lo sguardo dove avrebbe dovuto esserci la testa e allargò l’immagine con pollice e indice. La testa non c’era e pareva essere stata strappata invece che tagliata.
Interessante.
- Non ha la testa. - disse con il tono pratico di chi espone un dato di fatto – Sembra che le sia stata strappata. Il taglio è molto irregolare. Chiunque sia l’autore di certo non fa il macellaio di professione. –
Derek la guardava compiaciuto mentre camminava, incurante del fatto che era scalza e che sul pavimento c’erano pezzi di vetro, avanti e indietro immersa nei suoi pensieri. E sorrideva. Era completamente immersa in ciò che stava facendo, rimpicciolì la foto e passo alle altre, lentamente, non voleva perdersi alcun dettaglio.  Esaminò attentamente ogni centimetro del corpo annotando ogni escoriazione, ogni livido, ogni taglio e ogni goccia di quello che le sembrava sangue rappreso, per non parlare delle macchie scure, altro sangue dedusse, che imbrattavano le lenzuola già luride, i cuscini sparsi sul pavimento e il tappeto macchiato di qualcosa che non era sicura di voler sapere. La cosa la interessava parecchio.
Mentre guardava le foto una dopo l’altra, ancora e ancora, espose i suoi pensieri a mezza voce, senza neanche rendersene conto - Pare che sia stata torturata. In ogni caso è stata legata per lungo tempo e non è stata uccisa li, forse era solo il luogo dove la teneva prigioniera, altrimenti di sarebbe stato più sangue. Anche se potrebbe averle tagliato la testa da morta e averla tenuta come souvenir. -
- Ecco perché tu. – rispose lui semplicemente.
Lei alzò la testa con un’espressione stranita sul volto, si era completamente dimenticata di Derek; per un attimo tutto era scomparso.
- Hai grandi capacità deduttive. – si avvicinò alla ragazza e le prese l’iPad - La vittima si chiamava Valerie Miller, ventitré anni, modella. È stata torturata per due settimane prima di essere ritrovata in un motel a San Francisco, California. Il killer era il suo vicino di casa, uno stolker, che prima di lei aveva ucciso altre tre donne in tre diversi stati, tutte nello stesso modo perché si rifiutavano di ammettere che lo amavano. Teneva la testa delle vittime nel congelatore come trofeo. –
Adriana rimase a bocca aperta, ma ormai era diventata relativamente brava a riprendersi da situazioni potenzialmente disarmanti e ribatte con più naturalezza possibile – Quello che hai visto deriva da una notevole cultura cinematografica. Hai presente CSI? –
- Può darsi, ma non hai battuto ciglio davanti alle foto, anzi, hai fatto ciò che fa un investigatore. – le agitò l’iPad sotto al naso
- Sono solo immagini. Come pensi avrei reagito se fosse stato vero? –
- Allo stesso modo. Ti ho vista quando hai compreso che cosa stavi guardando, la tua espressione da medico chirurgo mentre opera. L’occhio clinico con cui hai esaminato minuziosamente le immagini. Hai talento e ti voglio nella mia squadra. –
Lei sbuffò sonoramente – Sul serio? –
- Si. – la inchiodò con i profondi occhi ambrati – Ti ho osservata. Sei passionale, una forza della natura ingabbiata pronta a liberarsi e me lo hai dimostrato poco fa lottando. – pausa ad effetto. Voleva darle il tempo di assimilare le sue parole, poi diede il colpo di grazia - Ti sto offrendo le chiavi per liberarti dalla gabbia che ti sei creata. –

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


3
 
 
15 Luglio 2013
 JFK airport, Long Island
New York
 
 
Vala Miller portava un liscio e biondo caschetto sfilato perennemente scompigliato che in quel momento le andava a coprire mezzo viso.
Si era addormentata durante il tragitto verso l’aeroporto.
Vala era in una discoteca, si stava scatenando sul cubo con un affascinante ragazzo, un ballerino, la folla esaltata ai suoi piedi la idolatrava.
Ad un tratto la stanza si riempie di fumo.
Una densa coltre di fumo che li avvolge.
La musica techno che prima spaccava i timpani si attenua.
Il ballerino davanti a lei non c’è più, la stanza diventa fredda, i suoi piedi scalzi sono accarezzati dall’erba bagnata e i suoi polmoni avverto l’acqua nell’aria.
Non è fumo, è nebbia.
Non aveva mai visto nebbia tanto fitta in vita sua. Non riesce a distinguere bene le sue mani neanche se le mette davanti al naso.
Inizia ad agitarsi.
Non sa che fare, procede a tentoni seguendo un istinto primordiale.
Arriva, non sa come, ad una sepoltura gotica, dei ringhi bassi scuotono la nebbia e Vala inizia a correre.
Corre senza una meta.
Corre e basta.
Improvvisamente sente l’assenza del terreno sotto i suoi piedi.
Sta precipitando.
Vala si svegliò di colpo sull’auto.
Il cuore batteva furioso nel petto e aveva il fiatone.
Era stato un sogno, solo uno stupidissimo sogno.
Al suo fianco, suo padre, un uomo robusto con occhi castani e capelli brizzolati dal taglio marziale, era intento a fare manovra per riuscire a parcheggiare nell’unico posto miracolosamente libero davanti al JFK.
- Incubo? – chiese senza voltarsi
- Devo smetterla di guardare horror giapponesi. – rispose la ragazza raddrizzandosi – Anzi, meglio evitare di guardare gli horror e basta! –
Il padre rise spegnendo il motore della Volvo e scese.
Vala usò lo specchietto della tendina parasole per sistemarsi i capelli che le erano finiti sugli occhi durante il riposino. Un paio di vispi occhi viola la fissarono dalla superficie riflettente. Occhi fuori dal comune che attiravano sempre l’attenzione di chi le stava intorno e che aveva ereditato dalla madre morta mettendola al mondo. Sistemate le ciocche ribelli scese dall’auto dove il padre che l’attendeva con trolley e borsone.
Il caldo soffocante l’avvolse come una pesante coperta umida.
Appena le lunghe gambe inguainate nei jeans attillati fecero la loro comparsa varie teste iniziarono a girarsi con grande disappunto di suo padre. Succedeva sempre, il suo corpo snello da ballerina con tutte le curve al posto giusto attiravano gli sguardi come le api vengono attirate dal miele.
- Possiamo andare. – sentenziò allegramente la ragazza saltellando verso le porte scorrevoli che si aprirono al suo passaggio. L’incubo era dimenticato, sciolto come neve al sole.
Il padre sospirò e s’incamminò dietro la luce dei suoi occhi.
Le ricordava la madre Alice a cui somigliava fisicamente e dalla quale aveva ereditato, oltre agli occhi, la camminata ancheggiante che faceva voltare ogni uomo etero nel raggio di decine di metri e la tendenza all’esibizionismo.
Una volta dentro, al fresco dell’aria condizionata, Vala guardò l’orologio.
Erano in anticipo di un’ora e mezza sull’imbarco e ciò significava che avevano il tempo per concedersi una capatina al bar e una al bagno prima di andare a sistemare il biglietto e salire sull’aereo.
Si voltò raggiante verso il genitore che vedendo quello sguardo si diresse immediatamente verso il bar senza fiatare.
Conosceva sua figlia e sapeva bene che era inutile discutere con lei quando si metteva in testa qualcosa. Vala Clarice Miller era un vulcano in eruzione capace di travolgere tutto ciò che incontrava sul suo cammino.
Arrivati al bar, sobrio e accogliente, presero posto in un tavolo al centro del locale e subito un cameriere con l’acne, un ragazzino, venne a prendere l’ordinazione.
- Ditemi. – disse allegro fissando Vala e la sua scollatura come se fosse l’incarnazione della Vergine Maria in abiti succinti.
- Un caffè nero. – rispose acido l’uomo guardando torvo l’adolescente che non smetteva di fissare la figlia.
- Per me un thè freddo alla pesca, grazie. – rispose Vala compiaciuta dall’attenzione che le rivolgeva il ragazzino e ignorando lo sguardo dell’altro – E posso sapere dov’è il bagno? –
- Lì, in fondo a destra. – rispose sognante
- Asciugati il filo di bava e cresci. – lo rimproverò il signor Miller facendo ridere la figlia che scosse la testa e alzandosi sorrise dolcemente al ragazzo che per poco non andò a sbattere contro un tavolino lungo il percorso verso il bancone.
Mentre si avviava verso il bagno molte teste si girarono ad ammirarla.
Immaginavano di toglierle gli attillati blue jeans a sigaretta e la canotta smanicata bianca con scollatura rotonda ampia abbastanza da mettere in mostra un bel pezzo di pelle dorata senza scadere nell’osceno e desideravano affondare le mani in quei lisci capelli biondi.
Era al centro dell’attenzione con grande disappunto di tutte le donne presenti che la guardavano con invidia e una punta di disprezzo.
Vala adorava quel genere di situazione, amava suscitare l’interesse degli uomini e l’invidia delle donne. Sua madre l’aveva fatta bella e lei non trovava giusto nascondere il suo corpo e negare l’evidenza, perciò lo metteva volentieri in mostra, ma con classe. Era una ragazza per bene dopotutto.
S’infilò nel bagno.
Era vuoto.
Entrò nel primo cubicolo libero senza indugi da cui ne uscì pochi istanti dopo tirando lo sciacquone. Si riassettò la canotta e rialzando la testa rimase bloccata a metà passo.
Vicino ai lavandini c’era un uomo alto, capelli castani, occhiali da sole e un fisico da palestrato in maglietta e jeans scuri.
Si riscosse dalla sorpresa e, come se nulla fosse, si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani.
- Hai sbagliato. È il bagno delle donne. – disse senza guardarlo
Uno strano pizzicore alla nuca e un guizzo di colore riflesso nello specchio le segnalò che l’uomo si era spostato alle sue spalle.
- Credo proprio di no. – rispose seducente con un sorriso sghembo mostrandogli qualcosa.
La ragazza alzò gli occhi dalle mani scuotendole lievemente per asciugarle un po’, fissò le lenti scure degli occhiali nel riflesso e con lentezza inaudita si voltò e disse - Allora dovresti andare da un bravo oculista perché il cartello sulla porta parla chiaro e il disegno è a prova di idiota. –
L’individuo si avvicinava a passi lenti e calcolati, lei non si mosse di un millimetro.
- Chi ti dice che non l’abbia semplicemente ignorato? – adesso era a pochi centimetri dalla ragazza che poteva sentirne il profumo dell’acqua di colonia – E sai un’altra cosa? Ciò che vedo mi piace moltissimo. –
- Ti saresti trovato nei guai altrimenti. -
L’uomo non le permise di aggiungere altro, non che lei lo volesse comunque, e la baciò facendo aderire i loro corpi.
Un bacio lungo e carico di passione.

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Capitolo 5
*** Interludio ***


Ho conosciuto bene e male,
peccato e virtù, giustizia e ingiustizia;
ho giudicato e sono stato giudicato;
sono passato attraverso la nascita e la morte,
attraverso la gioia e il dolore, il cielo e l'inferno
e alla fine ho capito
che io sono nel tutto
e il tutto è in me.
 
Hazrat Inayat khan

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Capitolo 6
*** Capitolo 4 ***


4
 
 
15 Luglio 2014
 Pistis, Comune di Arbus
Villa Mare
 
Adriana, mentre saliva i gradini che la separavano dal portone a doppio battente, faceva dei respiri profondi nel tentativo di calmare il fiatone che la corsa le aveva provocato.
Non era mai stata un’atleta, non aveva mai desiderato esserlo, ma tutto cambia.
Tutto cambia sempre.
Fece girare la chiave nella toppa, il respiro più regolare, s’infilò dentro e si affrettò a disinserire l’allarme.
Si tolse le scarpe da ginnastica per riporle al loro posto nell’armadio sostituendole con le infradito che usava in casa e lasciò cadere le chiavi nel contenitore di vetro alla destra della prima rampa di scale e salì. Alla biforcazione prese quella a destra che portava verso la camera padronale, mentre quella sinistra portava verso le altre due stanze e l’open space.
Adriana si tolse la giacca leggera e la gettò nel cesto della biancheria sporca entrando nel bagno on-suite, aprì il rubinetto della doccia, si tolse velocemente il resto degli abiti e senza aspettare che l’acqua raggiungesse la giusta temperatura, entrò.
Il getto di acqua fresca l’avvolse facendole venire la pelle d’oca.
Sorrise.
Era una di quelle cosa che prima non avrebbe mai fatto, lei aveva sempre sofferto il freddo e detestava tutto ciò che era freddo e non era gelato al lampone, ma adesso era diverso, il freddo la faceva sentire viva, i brividi lungo la schiena la facevano sentire vigile, pronta a tutto.
Iniziò ad insaponarsi i capelli nel momento esatto in cui l’acqua diventava tiepida. Sentì i muscoli distendersi sotto il getto caldo, adorava quella sensazione di rilassamento totale esattamente come adorava sentire i muscoli indolenziti dallo sforzo, i polmoni in fiamme che reclamavano più aria di quanta ne potessero inglobare e il vento sul viso mentre sfrecciava senza una meta precisa.
Aveva scoperto il potere terapeutico della corsa qualche settimana dopo il “famigerato incontro” con Derek. Quando ancora non dormiva, aveva timore ad andare in giro da sola e non si fermava con nessuno, neanche per dare indicazioni stradali a dei poveri disgraziati, per non parlare del fatto che non riusciva a concentrarsi, a studiare e non poteva fare a meno di guardarsi intorno con sospetto, viveva nel costante terrore. Di cosa esattamente non lo aveva mai capito, l’unica cosa che voleva era scappare. Lontano e ovunque. E un pomeriggio, quando la tensione era diventata insopportabile, l’aveva fatto. Era stata la sua salvezza. Certo, non era andata molto lontano, giusto il tanto che la sua preparazione fisica consentiva al tempo, ma quelle poche decine di metri le aveva ridato la lucidità necessaria per risollevarsi dal baratro in cui si era gettata con le sue stesse mani. Non era stato facile trovare un nuovo equilibrio, ma non aveva mollato, aveva fatto una scelta, forse, in qualche modo si era sentita obbligata, ma nessuno le aveva puntato una pistola alla testa. E adesso aveva un lavoro part – time, viveva da sola, si sentiva più sicura di sé, le mancavano pochi esami alla laurea ed era in procinto di passare le vacanze estive con le sorelle.
Si avvolse nel telo bagno e iniziò a frizionarsi i capelli.
Sorrise al suo riflesso posando l’asciugamano per i capelli sul bordo della vasca in modo che si asciugasse per bene, poi tornò a guardare la sua figura riflessa, aveva sviluppato dei muscoli, alcuni dei quali non sapeva neanche che esistessero, aveva un corpo più tonico e atletico ed era una cosa di cui andava fiera. Le piaceva la sensazione di forza che il suo nuovo corpo emanava.
Si appoggiò al mobile del lavabo per godersi la tranquillità senza pensare a nulla.
Tranquillità, uno dei tanti motivi per cui tutte le mattine alle sei, puntuale come un orologio svizzero, usciva a corre indipendentemente dal tempo che faceva. Correva sotto pioggia, neve e grandine, non rinunciava a quel momento per nulla al mondo, quasi né dipendesse la sua stessa vita e, forse, era così.
Improvvisamente la bolla di sapone che si era costruita attorno venne rotta dalla musica di una suoneria, di quelle standard impostate quando acquisti il telefono, si appuntò mentalmente che doveva ricordarsi di cambiare quell’oscenità.
Rientrò nella camera e si diresse alla scrivania dove aveva lasciato il cellulare prima di uscire. Lo schermo era nero.
Non era il suo.
Il cuore prese a batterle all’impazzata, sentì la scarica d’adrenalina incendiarle le vene come non accadeva da tempo, come quella notte.
Anche quella notte il cuore pareva volerle uscire dal petto mentre correva per la campagna buia sotto la pioggia. Era stanca, bagnata, aveva il fiatone, non sentiva più le gambe e la potente scarica di adrenalina era l’unica cosa che la teneva in piedi, vigile e pronta a dar battaglia.
Se doveva morire, avrebbe venduto cara la pelle si era detta.
Ad un tratto inciampò su qualcosa e finì per l’ennesima volta nel fango. Si rialzò il più velocemente possibile e riprese a correre senza guardare cosa aveva provocato la caduta. Non avrebbe dato nessun vantaggio a quel bastardo!
Scrash!
Quel suono la riscosse dai ricordi che minacciavano di sopraffarla facendola sobbalzare.
Guardò il pavimento e vide che il portapenne di vetro era finito in mille pezzi.
Non si era neanche accorda di averlo toccato.
La musica terminò.
Le mani le tremavano e si appoggiò alla scrivania in cerca di sostegno.
Trasse un respiro profondo nel vano tentativo di riprendere il controllo e, in uno slancio di inaspettato coraggio si chinò recuperare il taglierino dai vetri per poi lasciare la stanza.
Percorse lentamente il corridoio fino al salotto open space.
I sensi all’erta e il taglierino davanti a sé.
La musica riprese.
Veniva dalla cucina e senza esitazione si diresse li, pronta a colpire.
Infondo al bancone di lavoro dell’isola c’era una scatola color ciliegia con una grande coccarda verde smeraldo al centro.
Non c’era quando era uscita.
Qualcuno era entrato in casa senza far scattare l’allarme.
Chi?
Si diede subito della stupida per esserselo chiesto, c’era una sola persona di sua conoscenza che avrebbe potuto fare una cosa del genere.
Conosceva lo stile.
Senza mettere via l’arma si avvicinò al pacco e con la mano libera sollevò il coperchio svelando il contenuto, uno smartphone con l’immagine di lei che correva nello sfondo.
Fece un respiro profondo, prese il telefono e accettò la chiamata.
Decisamente conosceva quello stile.
- No. – disse secca mentre il nervoso iniziava a chiuderle lo stomaco prendendo il posto della paura.
- Non sai neanche che cosa volevo dirti! – esclamò allegra la voce di Derek Cabrera dall’altro capo della linea.
- Sono fuori dai giochi. Avevamo un accordo! – lo aggredì lei senza lasciarsi spiazzare.
- Comunque, buongiorno. – riprese l’altro senza cambiare tono, poteva percepire il suo sorriso smagliante attraverso il ricevitore e la cosa la irritò ancora di più.
Nelle settimane che avevano passato insieme aveva imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo, era bravo nel suo lavoro, ma in quel momento l’avrebbe volentieri strangolato con le sue stesse mani. Detestava l’arroganza che l’altro esibiva convinto che il mondo girasse intorno a lui seguendo le sue direttive.
Fortunatamente non era lui che prendeva le decisioni.
Fortunatamente era il gemello.
Alan era tutto l’opposto di Derek.
Alle volte Adriana faticava a credere che avessero davvero lo stesso DNA tanto erano diversi.
Alan non avrebbe mai messo su un simile teatrino, non le avrebbe fatto prendere uno spavento simile, non si sarebbe mai permesso di fare cose simili, non era nel suo stile.
No.
Quello era lo stile di quel sequestratore free-lance.
Non sapeva che cavolo avesse in mente, ma se il Signor Cabrera si era messo in testa di rovinarle la vita aveva fatto male i conti.
Dei fruscii dall’altro lato la lasciarono interdetta per qualche minuto.
- Scusalo, sai com’è fatto. – la voce di Alan le ferì l’orecchio come una lama – Siamo alla piscina, raggiungici. Dobbiamo parlare. –
La telefonata si interruppe.
Adriana rimase congelata, il telefono ancora attaccato all’orecchio.
Non se lo sarebbe mai aspettato, neanche tra cent’anni, non da Alan.
Chi si credevano di essere?
Sentì la rabbia montare, lasciò scivolare il cellulare nella scatola e uscì in balcone come una furia facendo i gradini a tre a tre incurante del fatto che rischiava l’osso del collo, del fatto che era scalza e che indossava solamente il telo bagno.
Li avrebbe rimessi in riga lei.
Non vedeva l’ora di mettergli le mani addosso.
- CHI VI CREDETE DI ESSERE? – iniziò a stillare appena messo piede sul pavimento, vedeva rosso e non le importava che i vicini potessero sentirla.
- Ehi splendore! – disse Derek, a bordo piscina, sorrideva beato ed era solo.
- Se ti metto le mani addosso giuro … - le sibilò arrabbiata avvicinandosi a passo di marcia con il taglierino stretto in mano, non le importava che Alan non fosse li, anche se le aveva parlato pochi secondi prima, qualcuno doveva pagare per quella faccenda e non le importava chi.
- Per quanto mi esalti l’idea di un nuovo incontro corpo a corpo con te, temo di non averne il tempo. E neanche tu, credimi. –
Fece finta di non aver sentito la lieve provocazione e continuò – Credevo di essere stata abbastanza chiara. Era la prima e l’ultima volta! – il respiro era affannoso, il cuore a mille. Prese fiato e strillò – AVEVAMO UN PATTO! –
- Vero. – disse pacatamente Alan arrivandole alle spalle silenziosamente.
Si voltò pronta a dar battaglia, aveva faticato per trovare un nuovo equilibrio e non avrebbe permesso neanche a Satana in persona di mandare tutto a monte.
Si ritrovò a pochi centimetri dalla faccia di colui che era stato il suo capo per tre settimane, fissava le lenti scure dietro i quali, sapeva bene, c’erano gli occhi più stupefacenti che avesse mai visto, ma che non avrebbero potuto mai vederla.
- Prima che rincominci ad urlare ti giro che non avevamo intenzione di sabotare le tue vacanze o la tua vita. Siamo stati costretti. –
- Da cosa? Uno psicopatico che minaccia di scatenare l’apocalisse attirando un asteroide con una calamita gigante? Perché solo in quel caso posso pensare di giustificare quest’invasione! –
- Peggio. –
Che poteva mai essere peggio dell’apocalisse?
Istintivamente si voltò verso Derek.
Era serio.
Lui non era mai serio.
Sembrava che qualsiasi cosa gli accadesse intorno fosse una grossa barzelletta creata al solo scopo d’intrattenerlo!
Se lui era serio significava solo una cosa, la situazione era molto più grave di quanto potesse immaginare.
Il ragazzo la guardò scuro in volto, gli occhi improvvisamente scuri e disse lapidario – Qualcuno vuole ucciderti. –

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