A story ever told

di kiara_star
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'alba del Cacciatore ***
Capitolo 2: *** Il bacio del Vampiro ***
Capitolo 3: *** La fede del Cacciatore ***
Capitolo 4: *** Il morso del Vampiro ***
Capitolo 5: *** Il destino del Cacciatore ***



Capitolo 1
*** L'alba del Cacciatore ***


A story ever told Altro strambo crossover Hiddlesworth per festeggiare(?) questo Halloween.
Eric lo conoscete tutti, Adam... beh, è Hiddleston con una parrucca riciclata dal set di THOR u.u
A parte gli scherzi, Adam è un po' Lokieggiante in questa storia, ma siccome è ancora un personaggio privo di caratterizzazione canonica, diciamo che si può chiudere un occhio, vero? Chiamatelo “effetto-parrucca”.

Buona lettura e Happy Halloween.
Kiss kiss Chiara










A story ever told





Ci sono leggende che si tramandano per decenni, secoli, millenni.
Ci sono leggende che raccontano mille verità e poche bugie, molto più spesso, accade che sia solo una la verità narrata e miriadi le gocce di menzogna in cui essa si perde.
Ci sono leggende che cambiano di bocca in bocca, di lingua in lingua ma che vengono conosciute in ogni angolo del mondo.
E poi, poi ci sono storie piccole, storie di uomini senza nome e senza importanza che vengono dimenticate.
Storie di cui nessuno ricorda l'inizio né la fine, storie che sono solo polvere su un libro mai scritto.
Adam faceva parte delle grandi leggende, delle leggende immortali come immortale era la sua maledizione e quella dei suoi fratelli.
Adam il vampiro musicista. Adam il bello, Adam che il solo incontrarlo era morte certa.
E infine c'era Eric, un'ombra come tante altre, perse nelle memorie.
Perché tutti conosceranno il mito dell'immortale vampiro Adam, nessuno saprà mai la storia di Eric, il cacciatore che dedicò la sua vita a dargli la caccia, che mai riuscì a trafiggergli il cuore con un paletto, ma il solo a cui il vampiro Adam donò quel cuore immortale.
Questa è quella storia mai raccontata e io son la voce che accetta di prender sulle spalle il fardello di narrarla.
A voi, nobili lettori, solo la preghiera di non dimenticare.



***

I. L'alba del Cacciatore


Eric aveva sette anni quando sua padre lo portò a caccia la prima volta, lo ricordava bene.
Ricordava il manto di neve che copriva la landa, gli alberi alti e spogli che sembravano disegnati di nero sullo sfondo bianco. Ricordava la lana che pizzicava il suo collo, il segno rosso sotto il mento di suo padre, poggiato per ore sul legno del fucile.
«Ci vuole pazienza, Eric, pazienza e calma.» Lo educò con rigore ed Eric annuì.
Sentiva la neve bagnare la sua pancia, gli abiti che sua madre aveva cucito con le poche stoffe che era riuscita a racimolare.
I guanti avevano troppi buchi per impedire al freddo di gelare le dita ed Eric le avvicinò alla bocca e alitò più volte. Suo padre lo guardò severo e lui lasciò che il freddo di dicembre congelasse la pelle senza più scaldarla.
Da dietro al tronco umido gli occhi di suo padre tornarono a osservare ciò che a Eric sembrava solo un paesaggio sterile e vuoto.
Cosa avrebbero cacciato? Cosa c'era da cacciare in quel freddo?
Voleva tornare a casa, voleva dormire accanto al fuoco con il profumo dello stufato, ma non avrebbero avuto uno stufato se suo padre non avesse trovato della selvaggina.
Sentì il colpo e si portò le mani alle orecchie tremando.
«Andiamo, figliolo.» Non avvertì neanche la mano sulla sua piccola spalla.
Aprì gli occhi e vide il corpo senza vita di un alce. Grande, immenso, steso immobile contro il tappeto nevoso.
Eric non seppe da dove fosse uscito, come avesse fatto suo padre ad abbatterlo.
Quella sera accanto al fuoco Eric non mangiò lo stufato.


*


A undici anni Eric uccise il suo primo coniglio.


*

Quando suo padre morì lasciandolo solo con sua madre, di anni ne aveva diciassette.
Sapeva sarebbe giunto il momento di prendersi le responsabilità della sua famiglia, non pensava giungesse così presto. Non sperava così presto.
Ma la febbre era durata giorni e con tutte le pelli che aveva venduto, non era riuscito ad acquistare le medicine necessarie e così, un mattino di un grigio autunno, suo padre spirò fra le lacrime di sua madre.
Eric non pianse, prese il fucile e quella sera tornò con un grosso bottino. Scuoiò i conigli uno per uno e ne cucinò le carni.
Sua madre pianse anche la notte.
Il giorno seguente gli consegnò una scatola di legno.
Eric l'aprì e capì solo allora che le lacrime non erano per suo padre.
«Sei un Cacciatore» gli disse tirando su con il naso.
Eric guardò il libro dalle pagine ingiallite, guardò il paletto che brillava di un metallo che non aveva mai avuto modo di vedere da così vicino, e prese la lettera che portava la calligrafia di suo padre.
“Per Eric”.
«Sei un Cacciatore» ripeté sua madre ancora una volta.


*


La prima volta che si era trovato le mani piene di sangue aveva urlato. Aveva urlato bestemmie e dannazioni, aveva odiato suo padre.
Guardava quel viso farsi sempre più pallido senza rendersi conto che stava piangendo, senza rendersi conto che tremava come un moccioso.
Tirò via il paletto e lo lanciò lontano.
Il sangue bruciava sulla sua pelle, il tanfo era nauseante e neanche l'acqua sembrava lavarlo via.
Urlò ancora.


*


La seconda volta andò meglio.


*


La centesima volta lo incontrò.


*


Alla taverna di Briston non era difficile trovare qualche preda. Eric passava due sere a settimana lì, quando era una settimana particolarmente negativa, anche tre.
Le femmine erano più facili da attirare. Bastava fingere di ricambiare i loro sguardi, bastava sorridere a propria volta e arrossire quando dicevano che aveva un bel viso.
Poi veniva naturale uscire e andare dietro al vicolo, era semplice lasciare che lo spingessero contro il muro. Tirare fuori il paletto e affondarlo nel loro bel seno prosperoso era solo l'ultimo atto.
Quella sera era il turno di una moretta dagli occhi nerissimi, dalle labbra rosse e dalla voce suadente.
Quando la vide contorcersi al suolo e poi smettere di dimenarsi si avvicinò per riprendere la sua arma e fu allora che lo sentì: un battito di mani, secco, a intervalli regolari, un rumore sordo che ricordava in modo inquietante il dondolare di una campana.
«Lascia che mi congratuli con te, ragazzo. La tua tecnica è sublime.»
Alzò lo sguardo sul muro di mattoni grezzi alla sua destra e strinse forte le dita sull'argento.
Occhi spenti eppure accecanti, pelle pallidissima e una corona informe di capelli neri.
«Scendi da quel muro così ti faccio assaggiare la mia tecnica sulla pelle, bestia
Si sarebbe aspettato la solita risata stridula, di quelle che gli facevano rivoltare lo stomaco, perché quelli erano animali arroganti e stupidi, troppo pieni di sé per capire quanto pericolosa fosse la superbia.
Degni figli del loro padre.
«Sono diverse notti che ti guardo.» E invece quello scese sul serio.
Non sorrise, non rise.
Fece solo pochi passi ed Eric serrò la mascella e le falangi. «Sei troppo giovane per essere un Cacciatore, ragazzo.»
«Non troppo per piantarti questo nel petto.»
«Allora fallo, lascia che mi goda lo spettacolo dalla prima fila, Cacciatore
Ed Eric lo fece, si avventò con ferocia su di lui, lo afferrò al collo e lo spinse a terra. Ghignò vittorioso.
Il paletto brillò alla luce della luna, ma quando lo piantò nel suo petto, Eric colpì solo il suolo.
Vuoto. La sua mano non stringeva nulla.
«Ma che-»
Poi fu solo un dolore alla schiena e il sapore ferroso del sangue in bocca.
Fu solo una voce all'orecchio. «Sei troppo giovane, ragazzino.»
Riuscì a trascinarsi fino a casa. Fu sua madre, come sempre, a curargli la ferita alla schiena.
«Devi stare più attento, Eric. Poteva ucciderti quell'animale.»
Tutto ciò che riusciva a chiedersi era perché non l'avesse fatto.


*


Nonostante lo conoscesse ormai a memoria, capitava che durante il giorno, quando si riposava sotto l'ombra di una quercia, Eric leggesse il diario di suo padre, il diario di un Cacciatore.
Anche lui avrebbe dovuto iniziare a scriverne uno perché, come aveva letto, era dovere di ogni Cacciatore far conoscere al suo successore ciò che aveva imparato nella sua vita, ciò che lo aveva aiutato nella sua missione, ciò che aveva sbagliato così che potesse essere di monito a chi lo avesse letto in futuro.
Suo padre scriveva che ogni cacciatore deve avere un successore.
Ogni Cacciatore che abbia un figlio maschio deve fare di quel figlio maschio un Cacciatore. Colui che non avrà la benedizione di una prole, dovrà saper scegliere un giovane coraggioso a cui tramandare il suo compito. Così è stato comandato da San Michele e così dovrà sempre essere.”
Eric si disse che non avrebbe mai avuto figli, che non avrebbe mai scritto un diario perché non l'avrebbe dovuto lasciare a nessuno.
Diciotto anni. Era questa la data, al compimento del diciottesimo compleanno, suo padre gli avrebbe consegnato quella scatola e gli avrebbe insegnato davvero cosa voleva dire cacciare.
Ma suo padre era morto prima di quel momento e tutto ciò che Eric sapeva di quel suo nuovo mondo erano frasi scritte in un diario e in una lettera.
Eric, figlio mio, se leggerai queste parole vorrà dire che non ho avuto modo di parlarti di persona.” Così iniziava.
So che saprai rendermi orgoglioso di te.” E così terminava.
Ma la frase che Eric leggeva e su cui ogni volta ingoiava un rospo di rabbia era: “Sii onorato della tua missione.
Eric non cacciava perché glielo aveva detto un padre morto in una lettera, o perché sua madre in lacrime gli aveva consegnato una cassetta contenente uno spaventoso segreto.
Cacciava perché era l'unica cosa che sapesse fare, era l'unica cosa che gli era stata insegnata.
Che fossero conigli, o alci, o bestie venute dall'inferno, non importava.
Eric era solo un cacciatore, nulla di più.
Avrebbe passato la vita ad esserlo, e forse un giorno sarebbe diventato una preda.
Un giorno lontano, pensò sotto l'ombra di una quercia.


*


Quel giorno arrivò prima del previsto.


*


Erano in due, due uomini.
Uno era il garzone di un barbiere, l'altro aveva l'aspetto di un signorotto, ben vestito e tutto profumato.
Riuscì a scansare il gancio di uno colpendolo con un calcio dritto allo stomaco. Si voltò per ritrovarsi le mani del garzone che lo stringevano al collo.
I denti aguzzi scintillavano a pochi centimetri dalla sua faccia. Il disgusto era così forte che avrebbe potuto vomitare.
I muscoli si tesero mentre gli tirava una testata.
L'altro alle sue spalle si era alzato e lo aveva spinto con il viso contro il muro.
«Devi avere un buon sapore, Cacciatore... Non ne ho mai assaggiato uno.»
Il paletto scivolò dall'avambraccio. Si voltò e colpì la bestia dritto al cuore. I suoi occhi si sgranarono e un urlo lasciò la sua gola.
«Sebastian! Lurido mortale!» Quando vide il garzone scagliarsi contro di lui spinse via il corpo dell'altro animale e lanciò il paletto contro il suo.
Un tonfo, un altro urlo.
Ora erano due i corpi a terra.
Poggiò le mani sulle ginocchia prendendo fiato. Era stato uno sciocco a lasciarsi seguire da entrambi.
Non si era accorto del garzone, credendo fosse solo il signore ben vestito la preda della serata.
Si accasciò al muro continuando a respirare, deciso a recuperare la sua arma se nonché vide con la coda dell'occhio una nuova ombra alla sua sinistra.
Scrutò il marciapiede spoglio illuminato dai fiochi lampioni.
Non un suono, non un rumore.
Cercò qualcuno, qualcosa, ma non trovò nessuno.
Quando tornò con gli occhi sui due corpi il suo cuore prese a galoppare forte: il suo paletto d'argento non era più dove lo aveva lasciato.
«È un'arma affascinante.» Riconobbe all'istante quella voce e la figura nascosta dietro a una carrozza. Era passato un pugno di anni dalla prima e unica volta in cui l'aveva incontrato. «La maggior parte dei cacciatori usa legno di frassino. Solo i membri di una Congrega hanno dei paletti d'argento, e questo è alquanto particolare...»
Cercò di regolare il battito mentre guardava i suoi occhi scorrere sul freddo metallo stretto fra le pallide dita.
Non aveva altro con sé a parte la sua arma, se quell'animale lo avesse attaccato in quel momento sarebbe stata la fine.
«Ne conviene che tu sei uno di loro, dico bene, ragazzino?» Lo guardò ed Eric si chiese se avesse notato il fremito di paura che gli aveva attraversato la schiena.
Aveva capito quella prima sera che non era come gli altri, che forse era più pericoloso. Pericoloso perché non riusciva a capiva cosa gli passasse per la testa.
Quelle bestie erano facili da decifrare: bramavano sangue e commettevano imprudenze e ingenuità quando si presentava loro la possibilità di averne.
«Un giovane membro della congrega. Di quale? Sei uno delle Tre Punte? O dei Fratelli della Fede?...» Le sue labbra sottili si piegarono all'insù ed Eric deglutì. «Hai perso la lingua o non sai minimamente di cosa sto parlando?»
«No, è che non spreco parole con un animale come te.»
Il coraggio del verbo quando manca quello delle azioni, così scriveva suo padre. Cercò di ricordare altri insegnamenti lasciati sui fogli gialli, ma tutto ciò che riusciva a fare era cercare di non respirare più forte.
«Mi credi un animale... È per questo che mi cacci, giusto?» L'essere fece qualche passo verso di lui facendo saltare nel palmo della mano il paletto. «Ma se fossi io a cacciare te... Allora saresti tu l'animale, non è così?»
Ormai gli era pericolosamente vicino. Non aveva armi, non aveva idee. Era solo un ragazzino spaventato che malediva il giorno in cui sua madre gli aveva mostrato quella cassa.
«Vuoi cacciarmi, quindi?» chiese e sentì la sua stessa voce tremare. Anche l'altro se ne accorse e ghignò appena.
Le spalle di Eric incontrarono il muro quando gli fu definitivamente di fronte.
«Saresti una splendida preda, non lo metto in dubbio.» Il freddo del paletto percorse la sua guancia, poi il suo collo finché non lo sentì pungere contro il petto. «Fa male, lo sai? Sentirlo entrare nella carne e aprirti in due... Non è una fine piacevole... La vuoi provare, Cacciatore?»
«Non ho paura di morire.»
Le sue labbra furono così vicine che avrebbe voluto urlare. «Sì che ce l'hai.» Sentì il suo fiato caldo contro la bocca e ingoiò un senso di disgusto. «Riesco a sentirla, la tua paura.» Di nuovo l'argento conto la guancia. «È inebriante.»
Non riusciva a spostare lo sguardo dal suo, gelido eppure profondo come l'oceano. Sapeva che quelli della sua razza potevano avere capacità particolari, capacità per manipolare e soggiogare gli umani. Si chiese se fosse per questo che non aveva ancora cercato di spingerlo via. Forse non era paura, non era il terrore a bloccargli gambe e braccia, era solo un trucco.
Lo era?
«Qual è il tuo nome, giovane Cacciatore?»
«Perché dovrei dirtelo?» Provò a fingere un sorriso beffardo, non seppe se ci riuscì, sentì solo il caldo di una mano contrastare con il freddo del paletto. Sentì le sue dita sfiorargli il viso e poi le labbra.
Il terrore crebbe.
«Perché stai per morire e voglio sapere su quale lapide dovrò portare un fiore quando ricorrerà l'anniversario di questa notte.»
In quell'istante pensò a sua madre, vide i suoi occhi in lacrime e la solitudine della loro casa.
«I-io...»
Stava tremando? In realtà non lo voleva sapere.
«Dimmi il tuo nome e ti lascio andare.»
Non gli credette. Quei mostri non avevano umanità e quindi neanche nobiltà. Non avrebbe mai mantenuto la parola. Lo avrebbe solo deriso e poi lo avrebbe ucciso con il suo stesso paletto, con il paletto di suo padre.
Cercò nel fondo delle viscere l'ultimo brandello di coraggio. Si sporse in avanti fin quasi a sfiorargli le labbra e sorrise: «Vai all'inferno, mostro.»
Ciò che successe dopo sembrò ancora più irreale.
Il paletto non gli perforò il petto, ma gli riempì il palmo.
L'essere si allontanò di qualche passo con un ghigno indecifrabile.
Eric si guardò palesemente confuso la mano di nuovo armata.
«Adam.» Quando parlò di nuovo tornò con lo sguardo su di lui. «Nel caso volessi sapere il nome di chi ti ha graziato, giovane Cacciatore.»
Avrebbe voluto rispondere qualcosa, ringhiargli che erano tutti uguali, che non avevano nomi, erano solo bestie infernali da rispedire al mittente.
Ma non disse nulla, lo guardò attonito finché non lo vide sparire nelle pieghe della notte.


*


La Congrega dei Figli della Neve.
Sull'ultima pagina del diario, Eric trovò un simbolo. Non gli aveva dato importanza fino a quella notte, finché gli occhi di Adam non lo avevano inchiodato al muro e nuove verità non gli avevano violato le orecchie.
Non c'era scritto nulla sulla Congrega né sulle altre, ma il simbolo di un fiocco di neve ne richiamava il nome.
Scoprì il resto grazie a Padre Jonathan, che lo aveva cercato un mattino di primavera.
Aveva bussato alla sua porta, coperto da un mantello marrone, con il viso tondo e gentile e una bibbia stretta nella mano.
Sua madre aveva avuto le lacrime sospese sulle ciglia mentre lo faceva entrare in casa.
Eric era accanto al fuoco a scuoiare l'ennesima lepre.
«Sei il ritratto di tuo padre.» Fu la prima frase che gli rivolse.
«Perché adesso?» In fondo erano ormai sei anni che era un cacciatore, eppure quell'uomo di chiesa con mille segreti da svelargli aveva bussato con più di un lustro di ritardo.
«Perché adesso è necessario che tu sappia tutto, Eric.»
«So abbastanza, e ora puoi anche andartene, prete.» Il coltello si era conficcato nel legno del tavolo con ferocia eppure Padre Jonathan non aveva mostrato turbamento.
«Identico a lui non solo nell'aspetto...» Aveva sorriso, aveva fatto un cenno con il capo. «La Congrega dei Figli della Neve. È il nobile ordine a cui apparteneva tuo padre.»
«Di che stai parlando?» La voce di Adam risuonò nella sua testa, e si sentì nudo e spaventato a pensare che quella bestia immonda conoscesse la sua vita meglio di quanto non la conoscesse lui stesso.
«Dieci Congreghe Sacre, dieci ordini a cui giurano fedeltà tutti i cacciatori sparsi per questo mondo. Dieci Congreghe, perché dieci erano gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele al termine della biblica lotta.»
Assorbì ogni parola come fosse pece che gli scendeva sulla pelle, ardeva e non andava via.
«Perché non c'è scritto nel diario? Perché mio padre-»
«Lui lasciò la Congrega prima che nascesti.»
Sentì il pianto sommesso di sua madre, ma non riuscì a spostare lo sguardo dal viso del prete, da quel viso che sembrava sereno in maniera inquietante.
«Perché?» La domanda era debole e incerta, eppure abbandonò le sue labbra comunque.
«Perché essere un confratello della Congrega è un onore non privo di obblighi.»
«Quali obblighi?»
Padre Jonathan si alzò dalla sedia e prese la sua bibbia. «Tuo padre era un grande Cacciatore, uno dei più abili e dei più coraggiosi e-»
«Quali obblighi? Perché sei qui? Cosa devo sapere sul serio?» ringhiò sbattendo le mani sul tavolo. Il pianto di sua madre si fermò, ma forse lo aveva solo soffocato con una mano.
Il religioso prese un respiro e annuì. «Dieci sono gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele come dieci sono quelli che asciugarono le lacrime di Lucifero. Dieci Congreghe per dieci Casate. Un Mastro per un Sire.»
Non capiva, era un fiume informe di notizie che non riusciva ad assimilare. Non fu necessario porre domande, le risposte arrivarono tutte.
«Tuo padre era un Mastro, il Mastro dei Figli della Neve. Abbandonò il suo compito per crescerti, per proteggerti dalla verità finché non saresti stato pronto ad affrontarla. Purtroppo il destino ha voluto che non fosse lui a educarti a questa missione, ma è giunto il momento che tu sappia che coloro che hai affrontato finora sono niente rispetto ai demoni che li guidano. E in cima a tutti ci sono i Sire delle Casate di Lucifero.»
«Un Mastro per un Sire...» sospirò fissando il tavolo. «Che vuol dire?»
Quando tornò a guardare Padre Jonathan vi trovò un sorriso.
«Significa che la tua intera vita sarà devota alla ricerca e all'uccisione di quel Sire e solo a quel punto l'intera Casata sarà sconfitta. Tuo padre non riuscì a tenere sulle spalle il suo fardello e non gliene faccio una colpa, ma tu, Eric, hai il dovere di adempiere a quel compito eluso non per paura ma per troppo amore. Hai il dovere di trovare quel Sire prima che sia lui a trovare te. Ecco perché sono qui, figliolo.»
Il suo cuore iniziò a battere a un ritmo stranamente regolare, avvertì i respiri scendere profondi fin dentro alle ossa e poi abbandonare la sua gola carichi di certezze.
Una, la più forte di tutte lasciò le sue labbra con ironica sicurezza. «Sei in ritardo, prete.»


*


Eric iniziò a spuntare paletti di frassino, iniziò a nasconderli negli stivali, nella cintura, sotto al cuscino, nella testa dell'ascia con cui spaccava la legna.
Iniziò ad ascoltare i passi silenziosi che lo seguivano quando andava a caccia.
Inizio a sentire il profumo della Morte ogni volta che gli aleggiava intorno.
Iniziò sempre più a bramare il tramonto.
Sapeva che i passi si sarebbero presto arrestati, che la Morte lo avrebbe fronteggiato spoglia di una qualunque maschera d'ombra.
Sapeva che presto, una di quelle notti, si sarebbe ritrovato di fronte di nuovo quegli occhi.


*


E la notte giunse.
Giunse precisamente un anno dopo la sua grazia.


*


Stava tornando verso casa. Mancava poco all'alba e il cielo di un tenue viola era maestosamente limpido sulla sua testa.
Una schiera di alberi spogli costeggiava il sentiero che percorreva ormai da anni, il sentiero che divideva la sua dimora dal villaggio, la sua pace dal suo inferno.
Sua madre lo stava aspettando con le pezze immerse nell'acqua calda, con le radici di malva e il fondo di un vecchio whisky.
La spalla bruciava, bruciava terribilmente e forse quel whisky sarebbe stato costretto a buttarlo giù tutto.
Si scostò la maglia e guardò stizzito lo squarcio che tagliava di netto la sua pelle, il sangue si era arrestato ma ciò non voleva dire che il peggio fosse passato. Un'infezione era possibile e curarla avrebbe portato via denaro e tempo e lui non voleva restare una sola notte nel suo letto.
Una notte senza caccia era una notte non vissuta.
Si era spesso chiesto anche da bambino perché non bramasse il sonno come gli altri, perché dormire sembrava così superfluo, perché gli bastava chiudere poche ore gli occhi anche su una scomoda panca di legno per sentirsi rigenerato.
Perché era un Cacciatore.
La risposta era giunta anni più tardi fra le pagine di un vecchio diario.
Ricoprì la ferita e distese i muscoli del collo. Quei cinque animali lo avevano letteralmente sfinito.
Aveva trovato sempre più utile l'utilizzo dei paletti di frassino: erano leggeri, maneggevoli e soprattutto non lo obbligavano a recuperare l'arma ogni volta.
Fece un passo, poi un altro e quando udì lo spezzarsi di un ramo alle sue spalle si fermò.
Prese un profondo respiro e decise di non badare alla serata piuttosto sfavorevole, qualcosa nella sua testa gli suggeriva che era per questo che si era fatto vivo solo allora.
«Sei ferito.» All'udire la sua voce ebbe un breve brivido. Era davvero lì.
«Sono i rischi del mestiere» sibilò voltandosi lentamente. «Ci si può far male.»
Sembrava non fosse passato un giorno dall'ultima volta. Indossava la stessa camicia candida, la stessa giacca di un rosso troppo acceso, gli stessi pantaloni nerissimi e la stessa immutata luce negli occhi.
Per quanto pochi fossero gli anni scivolati via da quando si erano incontrati la prima volta, Eric sentiva di avere poco di quel ragazzino arrogante che aveva creduto di ucciderlo al primo colpo, ancora meno di quello che un anno prima si era lasciato mettere con le spalle al muro.
Aveva una leggera barba adesso, i capelli più lunghi e qualche ferita di più a ricordargli cosa fosse.
«Ho notato che hai abbandonato l'argento... È un vero peccato.» Seguì guardingo i suoi passi che lo portavano ad avvicinarsi a lui.
«Legno o argento non ha importanza, entrambi ti entrano nella carne e ti aprono in due... Non è così che hai detto?»
Sorrise. Un sorriso debole e appena accennato. Un sorriso che sapeva essere terrificante nella sua leggerezza.
«A dire il vero non so cosa si provi.»
«Non ancora.»
Stavolta il sorriso si allargò ed Eric avvertì il sangue pompare nei muscoli forte e deciso.
Era pronto.
«Credi davvero di potermi uccidere, Cacciatore?»
Ormai erano solo pochi metri che li dividevano. «Perché non dovrei? Forse perché sei un Sire?»
Non scorse l'ombra di alcuna sorpresa sul suo viso.
«Oh, bene... facciamo progressi. È stato il tuo Mastro a informarti?»
La sua gola lasciò andare una risata che risuonò beffarda alle sue stesse orecchie.
«Mi segui come un'ombra da mesi e ancora non l'hai capito.»
Un solo unico passo. L'ennesimo sorriso. «Tu sei un Mastro, lo so. Il figlio di Victor.»
Eric, letteralmente smise di respirare. Tutta la sicurezza defluì dal suo corpo come il colorito dalla pelle, era più che certo che in quel momento lui e Adam avessero praticamente lo stesso viso pallido.
«Tu sai-?» La domanda gli morì in gola non appena le dita di quella bestia si avvolsero attorno al suo collo. Sentì il battito aumentare repentino e la testa far male.
«Sei lo stesso ragazzino di un anno fa, Eric, lo stesso ragazzino spaventato e debole.» L'aria mancava sempre di più e si ritrovò ad accasciarsi sulle sue stesse ginocchia. Le mani strette attorno a quel polso e gli occhi a implorare. Pietà, morte.
Non sapeva cosa vi giacesse realmente sul fondo.
«Sei lo stesso ragazzino per cui Victor abbandonò la sua battaglia venti anni fa.» Poi l'aria tornò a riempirgli i polmoni quando si sentì gettare senza troppi complimenti a terra. Tossì tastandosi la gola dolente e seguì con lo sguardo ormai annebbiato i suoi passi.
«Come avrei potuto non riconoscere il figlio di Victor? Sei la sua copia, Eric.»
A sentirgli pronunciare il suo nome quel breve respiro appena ritrovato si smorzò.
«Come...»
Come fai a conoscere il mio nome? Come sai chi sono?
Padre Jonathan gli aveva detto che suo padre aveva abbandonato l'ordine e la sua stessa patria per poterlo crescere al sicuro da quel mondo di tenebre. Nessuno, neanche i suoi confratelli, sapeva dove fosse e che vita stesse vivendo ora. Nessuno sapeva avesse un figlio di nome Eric.
Ma Adam sapeva. Sapeva chi era, l'aveva sempre saputo anche quella prima notte.
Perché mi hai lasciato vivere?
Ogni domanda restò muta ad aleggiare nel suo sguardo.
Adam le lesse tutte, Eric lo capì dal sorriso sulle sue labbra.
«Avevi solo un paio di anni. Eri piccolo e gracile e giocavi sulle sponde di un lago vicino casa tua...»
Il cuore gli pulsava forte nelle tempie, doloroso e incontrollato mentre stringeva nel pugno della mano la terra umida su cui si ritrovava in ginocchio. Adam gli si avvicinò e si chinò. «Victor mi pregò, mi supplicò di non farti del male. Non lo avevo mai visto supplicare nessuno, non Victor, non il Mastro della Congrega dei Figli della Neve, eppure ti teneva stretto fra le braccia con le lacrime a bagnargli il volto... Patetico.»
«Non è vero» sospirò cercando nelle sua memoria quegli occhi, quel viso, quel momento. Cercando senza trovarlo, il pianto di suo padre.
Suo padre non aveva mai pianto, Eric non lo aveva mai visto piangere perché piangere non era da uomini, era da deboli. Ricordava la forza di suo padre, il coraggio, la severità ma anche la pazienza con cui gli aveva insegnato a caricare e pulire un fucile, a saper scegliere un buon punto per la vedetta e il momento perfetto per scagliare il colpo.
No, quell'essere mentiva, stava impiantando semi malati nella sua testa.
Non era vero, non poteva essere vero.
Adam scosse la testa e si alzò dandogli le spalle.
«Sei degno di Victor, in te scorre lo stesso sangue da codardo, Eric.»
«Non osare neanche pronunciare il suo nome!» ringhiò cercando la forza di mettersi in piedi. Ci riuscì traballando sulle sue stesse gambe. «Se mio padre non è riuscito a ucciderti, lurida bestia, stai pur certo che suo figlio completerà l'opera.»
Ancora gli dava la schiena, con i capelli a sfiorargli le spalle che si muovevano appena. L'ombra della notte andava sparendo e ormai l'alba era prossima.
Eric sapeva cosa accadeva quando sorgeva il sole, era conscio che i raggi del giorno avevano lo stesso effetto di un paletto, e allora perché...
«Pensava fossi lì per te...» Poi si voltò e un primo raggio gli illuminò il volto. «Non era così, ma ora sì, ora sono qui per te, Eric.»
Eric corrucciò la fronte quasi non prestando più attenzione alle sue parole. Guardò l'arancio scaldargli la pelle e far diventare i suoi occhi pericolose gemme chiare.
Perché non bruciava? Perché non si riduceva in polvere urlando come la bestia che era?
Chi sei?
Diede uno sguardo confuso al sole dietro le colline e poi tornò di nuovo al suo volto.
Non lo trovò.


*


Era tornato all'alba tremando, con le mani e gli abiti sporchi di terra, con la vita che quasi aveva abbandonato la sua carne.
Si era seduto al tavolo e aveva bisbigliato un nome: Adam.
Sua madre lo aveva guardato e aveva abbassato il capo.
«È tornato.»
Eric non sapeva da dove nacque quel sorriso. «Non è mai andato via.»
Aveva continuato a tremare finché le braccia magre non gli strinsero le spalle.
Poggiò la testa contro il suo petto e lasciò che gli accarezzasse i capelli come faceva quando era un bambino.
Un bambino piccolo e gracile.
Avrebbe voluto piangere; sua madre lo fece per lui.


*


Sotto la pioggia di un venerdì di gennaio, Eric poggiò un fiore rosso sulla croce di legno.
Non versò una lacrima.
Guardò l'altra croce di faggio accanto, più vecchia, più malconcia e deglutì mentre l'acqua gli bagnava i capelli e i vestiti.
«Lo prenderò, padre.»
Non aveva più nulla da proteggere, adesso. Aveva solo qualcuno da distruggere.
Aveva solo una missione.
«Lo prenderò.»


*


Due occhi guardarono il giovane posare il fiore sulla croce.
Ascoltò le sue parole.
Le labbra sorrisero.









***


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Capitolo 2
*** Il bacio del Vampiro ***


Cap2
A story ever told





II. Il bacio del Vampiro





Padre Jonathan tornò a trovarlo, mesi dopo la morte di sua madre.
Tornò con la sua bibbia e il suo mantello e altre verità. Eric non le voleva udire.
«Torna dai tuoi cardinali, Jonathan.» Lo liquidò senza lasciargli il tempo neanche di un saluto. Fra le mani spaccate dal freddo un'ascia e un ceppo a metà.
«Ho saputo di Ester. Volevo porgerti le mie condoglianze e -»
«Non ho bisogno di nulla, risparmiati la pantomima del misericordioso.» Lo superò e gettò malamente la legna sul resto del gruppo.
Il prete si allontanò di qualche passo per poi sedersi silente su un tronco tagliato, guardandolo mentre terminava il suo lavoro.
Padre Jonathan aveva una dote: la perseveranza.
Eric poteva vantare lo stesso.
Poggiò l'ascia sulla spalla e rientrò in casa.
Non uno sguardo, non una parola.
I cardini cigolarono quando sbatté la porta senza riguardi.
«Resto in città qualche settimana, sono alla parrocchia di St. Thomas.»
Eric lanciò una rapida occhiata al legno dietro cui udì la debole frase. Scosse la testa e prese a sbucciare una mela: la sua cena.
Non aveva tempo, presto il sole sarebbe calato.



*



Sputò un grumo di sangue e si pulì le labbra con il dorso della mano.
«Te lo farò sputare tutto, cacciatore.» Un ghigno perverso piegava il volto di quello che all'apparenza era poco più di un bambino.
Dodici, forse tredici anni.
Eric non ne aveva mai incontrato uno così giovane.
Capelli biondi e due occhi azzurri che potevano essere i suoi.
Fece un balzo indietro quando il ragazzino si avventò contro di lui brandendo un piccolo pugnale, un pugnale che non poteva appartenere a quello che avrebbe dovuto essere uno sguattero.
Riuscì ad afferrargli un polso e lo gettò a terra poco distante.
Prese un respiro profondo e spense ogni pensiero.
Quando il piccolo demone si sollevò in piedi non ebbe neanche il tempo di accorgersi del paletto che volava via dalla balestra.
Un'ombra più umana sfumò il suo viso mentre ricadeva a terra, stavolta senza più rialzarsi.
Eric abbassò l'arma e sentì sulla lingua il suo stesso sangue; stavolta non lo sputò.
«Un bambino... che abominio.»
Le parole erano viaggiate nella sua mente eppure fu un'altra la voce che le pronunziò, la sua.
Alzò lo sguardo trovandoselo a pochi metri di distanza. Non riuscì neanche a sollevare il braccio che la balestra sfuggì magicamente dalle sue mani.
«Brutto bastardo!» ringhiò estraendo un paletto dalla cintola di cuoio che teneva legata alla vita.
Lo gettò rapido verso di lui. Gli bastò un semplice spostamento laterale per evitarlo.
Il secondo paletto non riuscì neanche a sentirlo sotto le dita quando si ritrovò con le spalle a terra.
Un piede schiacciava la sua mano destra e l'altro spingeva forte contro il suo stomaco.
«Lento e rozzo. Sei peggiorato.» Adam troneggiava su di lui con un'espressione quasi assente.
Eric digrignò i denti e cercò di calciarlo via. La mano gli afferrò la caviglia ma non riuscì a muoverlo di un solo centimetro. Il fiato mancava, poteva percepire la cassa toracica comprimersi attorno ai suoi polmoni.
Risentì il sangue risalirgli dalla gola finché non lo tossì sporcandosi le labbra e il mento.
Gli occhi di Adam, solo in quel momento, parvero vivi.
Il polso scricchiolò sotto la suola dello stivale e si sforzò di non lasciare andare alcun grido di dolore, non gli avrebbe dato questa soddisfazione.
Non l'avrebbe visto soffrire, non l'avrebbe ucciso.
Sarebbe stato Eric a uccidere lui, era una parola che avrebbe mantenuto.
«Morirai prima che questo anno si chiuda, Eric.»
«Sarai tu a morire...» La determinazione non bastò a non far vibrare la sua gola.
Adam sorrise e spinse ancora il piede contro il suo corpo. Era come avere un masso di roccia addosso, eppure il corpo di quell'animale era poco più sottile del suo.
«L'arroganza sarà la tua rovina, Cacciatore.»
Tossì ancora finché non avvertì il sangue salire in bocca e riscendere di nuovo. Poteva soffocare, e non sarebbe riuscito a portare a compimento la sua missione.
Aveva cacciato ogni notte solo per rivederlo, solo per poter avere l'occasione di piantare un paletto in quel cuore putrido, e ora giaceva a terra immobile e dolorante. L'infrangersi di quell'unica occasione sarebbe stata la sua morte.
Padre...
«È qui che ti ha colpito, vero?» Adam picchiò la punta dello stivale contro il suo stomaco e Eric non trattenne un gemito. «Sei stato uno sciocco. Non c'era nulla di umano in quel bambino.»
«L'ho ucciso...» sibilò sentendo la pressione diminuire e il fiato riempirgli di nuovo i polmoni.
«Hai esitato e gli hai concesso la possibilità di colpirti.»
Anche il suo polso fu libero ma non smise di fare male. Si tirò a sedere quando Adam indietreggiò di qualche metro.
Si passò le dita sulle labbra sporche di sangue e poi sul mento. Quegli occhi seguirono ogni suo gesto.
«Quel demone ha fatto la fine che meritava, fossi in te mi preoccuperei di non seguirlo a breve.»
Cercò di alzarsi ma la risata di Adam lo schiacciò di nuovo a terra.
«Mi inviti con tale presunzione a badare alla mia vita mentre sei steso nella polvere a bere il tuo sangue?!»
Deglutì e il sapore ferroso quasi parve tossico. «Sei più che patetico, sei ridicolo, Cacciatore.»
«Lo scherno delle tue parole sarà il tuo ultimo fiato.» Flesse un ginocchio e si mise in piedi cercando di ignorare il polso che ardeva. «E questa sarà l'ultima notte che i tuoi occhi dannati vedranno.»
«Se lottassi con la stessa foga con cui pronunzi minacce saresti un Mastro degno di questo nome. Ma sei solo un moccioso arrogante e avventato, che spera di poter competere con un Sire quando non riesce neanche a uccidere un vampiro di poche lune senza lasciarsi ferire.»
Odiava che quelle parole fossero solo verità. Sapeva che non aveva ancora né la forza né la lucidità per poterlo anche solo affrontare e sapeva che sì, aveva esitato davanti a quel volto di bambino e c'era voluta la rabbia del subire il colpo a fargli scoccare quel dardo per lui letale.
E se non fosse stato un bambino inesperto a quest'ora...
«Victor non ha mai commesso errori del genere.» Non poteva sopportate che quel demone parlasse di lui, non di suo padre, non dopo averne denigrato la memoria con le sue menzogne.
Non volle udire altro.
Affondò la mano nella casacca e tirò fuori il suo paletto d'argento. Non lo aveva più usato, lo teneva addosso solo per lui.
Da qualche parte suo padre lo avrebbe guardato mentre lo affondava nel suo petto, sua madre gli sarebbe stata accanto e sarebbero stati fieri di lui.
Strinse forte le dita il freddo dell'argento si scaldò in fretta.
Non avvertì più il dolore al polso, non avverti più lo stomaco che si contorceva.
Leccò via dalle labbra qualche altra traccia di sangue e la sputò lontano.
«Stai per tornare all'inferno a cui appartieni, Adam.»
Un altro sorriso di beffa. «Mi piace come suona il mio nome sulla tua lingua... Godrò nel sentirtelo piagnucolare quando mi supplicherai di risparmiarti.»
Serrò la mascella e le dita sulla sua arma. «Non accadrà mai!»
Si avventò contro di lui senza riflettere più di tanto, con furia cieca, rivedendo il volto in lacrime di sua madre, lo sguardo severo di suo padre e le parole di un bambino che chiedeva quando avrebbe potuto brandire un coltello.
Arriverà quel giorno, Eric.”
Fu veloce, freddo e caldo allo stesso tempo, fu bagnato e appiccicoso come il sangue che colava lungo la sua pelle.
Non era quello di Adam.



*



Aprì le palpebre che era notte, non la stessa, ne erano passate altre. Eric non sapeva dirlo.
«Sei sveglio...» Gli occhi che incontrò erano due gemme castane, calde e profonde. Castane come le onde morbide che incorniciavano il viso. «Riposa.»
Una pezza fresca gli venne posata sulla fronte. Non riuscì a guardarsi attorno, non riuscì a chiedersi dove fosse, perché fosse ancora lì. Nelle orecchie solo la voce di Adam, sulla pelle solo la sensazioni della paura.
«Io...»
Provò a sollevarsi ma due mani lo obbligarono a restare con le spalle contro il letto - era un letto?
«Non fare sforzi. Hai perso molto sangue.»
Cercò di mettete a fuoco il resto di quel viso quando due labbra gli sorrisero dolcemente.
Chi sei?
«Il mio nome è Sarah.»
Non capì se gli avesse letto nella mente.
Richiuse le palpebre, un nuovo sonno lo colse senza che potesse impedirlo.



*



Charles Williams era basso, grasso e dai modi burberi. Gestiva la locanda di Briston insieme alle sue figlie. Eric aveva conosciuto Catherine e Annemarie. Poi c'era Sarah.
Era stata lei a trovarlo dietro la locanda, privo di sensi e coperto solo dal suo stesso sangue.
Era stata Sarah a chiamare aiuto, a chiedere a suo padre di portarlo in casa. Era stata Sarah a vegliare il suo sonno agitato per sei notti di seguito.
Era stata Sarah a salvarlo.
«Due lepri e un fagiano.»
«Non ho un fucile. Come posso sparare a un fagiano?»
«Ti inventerai qualcosa.» Le sue labbra erano morbide e dolci. Per Eric erano il sapore di casa, la sua nuova casa.
«Sei ancora qui? Non hai da lavorare, bellimbusto?» Charles sbucò alle spalle di Sarah come sempre con la faccia irata di chi vorrebbe aprirti il cranio in due.
Eric si limitò a un sorriso sbilenco e a un cenno del capo.
«Stavo proprio per andare.»
«E allora sbrigati - e tu torna in cucina che i clienti aspettano.»
Quando Charles era rientrato Eric si era sporto per rubarle un altro bacio.
«Stai attento.»
«Sarah!» Si udì sbraitare poco distante.
«Devo andare.»
Eric non sapeva che nome dare a ciò che gli scaldava il petto. Ne aveva paura, ne aveva tremendamente paura.
Adam lo aveva portato a un passo dalla morte e lui neanche sapeva cosa fosse successo.
Ricordava solo il suo sorriso beffardo e poi il dolore che aveva attraversato il suo corpo quando aveva ripreso conoscenza.
Tre mesi, era questo il tempo trascorso.
Tre mesi in cui aveva cacciato di notte e rubato baci di giorno.
Tre mesi in cui non lo aveva più incontrato e in cui Sarah era diventata tutto ciò a cui pensava.
Si trovava sempre più spesso a rileggere il diario di suo padre, la sua lettera.
Padre Jonathan era partito da tempo e Eric a malincuore rimpiangeva di non avergli parlato, di non avergli chiesto come fosse il Victor “Cacciatore”, il Victor prima di diventare padre, prima di abbandonare la lotta per crescere un figlio.
Pensava sempre più spesso a cosa voleva dire avere un figlio, e sempre più spesso capiva la sua scelta.
Se avesse mai avuto un figlio, avrebbe avuto il sorriso di Sarah e i suoi occhi.
Se avesse mai avuto un figlio, Eric avrebbe gettato quella scatola e i suoi mille segreti sul fondo dell'oceano.



*



«Dove vai tutte le notti?» La domanda era giunta con tutto il suo peso, con lo sguardo preoccupato di Sarah e le mani strette attorno alla casacca. «Dove vai, Eric?»
Le aveva sfiorato il viso. «Se temi che ci sia un'altra- »
«No, non temo la tua infedeltà, temo il tuo silenzio, perché è assordante, Eric.»
Una prima lacrima le aveva segnato il viso poi una seconda e altre ancora.
Quella notte non andò a caccia, restò in un piccolo letto con lei, la tenne stretta fra le braccia e le raccontò la storia di un bambino che ammirava suo padre, di un ragazzo che lo aveva odiato e poi aveva capito. La storia di un uomo che aveva una missione che non aveva chiesto né compreso, ma che avrebbe portato a compimento.
Quando il sole si levò a baciare i loro corpi, Eric le chiese di essere la sua sposa.



*



Era al mercato per vendere le sue pelli quando udì quelle note.
Rabbiose eppure avvolgenti. Inquietanti e allo stesso tempo dolci come una carezza.
«Chi sta suonando?» chiese inconsciamente al vecchio che stava valutando attentamente la pelliccia avorio di un coniglio.
«Hai bevuto, cacciatore?»
Aggrottò la fronte mentre la musica sembrava accrescere di secondo in secondo.
«Questa musica, da dove viene?»
«Senti, ti do dieci denari per tutte e tre.» Non badò alle sue parole, non badò alla sua voce che gli urlava dietro. Afferrò le pellicce nella mano e cercò di seguire quelle note.
Perché?
Non cercò una risposta.
E fu lì, dietro al vetro appannato di un'elegante sala che lo vide.
Il sole coceva nei primi giorni d'estate, ardeva alto nel mezzogiorno eppure lui era lì, con gli occhi chiusi e le dita che si muovevano agili sullo strumento.
Aveva qualche paletto di frassino negli stivali, non il suo argento e se ne rammaricò.
La chioma nera seguiva ogni movimento del capo ed Eric pensò che sembrava danzasse. Un pensiero sciocco e inappropriato, folle.
Ogni tasto che pigiava con le dita risuonava assordante nelle sue orecchie, risuonava nel suo petto, nel suo ventre, nella sua testa.
Non riuscì a muovere neanche un piede finché la musica non cessò.
Solo in quel momento vide la coltre di gente ben vestita attorno a lui, seduta su eleganti poltrone di velluto rosso. Applaudivano, applaudivano chiamando il suo nome.
Ma gli occhi di Adam si aprirono solo per posarsi su di lui, sulla figura immobile davanti a quel vetro.
Un cenno del capo, un sorriso.
Eric avrebbe solo voluto che le sue dita stringessero un freddo paletto.



*



La sera appena Sarah prese sonno, Eric uscì.
Sapeva, lui lo stava aspettando.



*



Le strade della città erano insolitamente affollate, insolitamente vive.
Camminò sul marciapiede scrutando ogni angolo, ogni riflesso e ogni ombra.
Nei pressi della chiesta di St. Thomas, fu lì che sentì di nuovo quelle note.
Ed era più che sicuro di essere il solo a udirle.
Avrebbe dovuto provare per lo meno timore a ritrovarsi di fronte quegli occhi, perché era da quella notte che non li rivedeva, ma non c'era paura a guidare i suoi passi.
Mentre saliva le bianche scale della chiesa, Eric sentiva di provare solo una grande, profonda e inspiegabile necessità.
Necessità di sapere, necessità di capire.
Il massiccio portone di legno era appena socchiuso. Lo aprì con una sola mano e la musica lo inghiottì.
Adam sedeva davanti a un clavicembalo, apparentemente perso nella sua sonata.
Sembrava la stessa immagine che Eric aveva visto quella mattina al mercato, ma non c'erano più le donne eleganti ad applaudire, non c'era il caldo del sole.
Mentre avanzava per la navata con passi lenti ma decisi, sentì il suo cuore battere furente ad ogni nota.
Il paletto già nella sua mano.
Aspettò che terminasse, aspettò che risollevasse lo sguardo e che come quella mattina gli sorridesse.
«Neanche un piccolo plauso? Eppure ho suonato solo per te.»
Lo so.
«Come puoi camminare al sole?»
«Fra tante domande poni la più sciocca.» Adam si alzò dalla sua seduta e scese i tre gradini che li separavano. «“Perché sono ancora vivo?” È questa la domanda che temi di fare, Eric.»
Rabbrividì ma finse un sorriso. «Pensi ancora che non ti ucciderò?»
«Penso che tenterai, con tutte le tue deboli forze e che alla fine fallirai... Come tutti coloro che ti hanno preceduto.» Le braccia intrecciate dietro la schiena, le labbra una linea retta, una sola ciocca nera a tagliargli lo sguardo. Poi un sorriso. «Mi lusinga che tu abbia abbandonato il caldo giaciglio della tua sposa per raggiungere me in questa fredda notte.»
Le dita strinsero forte il paletto, i denti quasi scricchiolarono fra essi. Eric provò una rabbia che forse non aveva mai provato prima.
«Non osare neanche pensare di avvicinarti a lei.» Sapeva che Adam era a conoscenza di Sarah, sapeva che i suoi occhi non lo avevano lasciato mai in quei mesi e poi nei seguenti, sapeva e ne aveva timore. Eppure aveva rischiato e aveva deciso di cedere all'affetto di quella ragazza dolce, alla fantasia di essere felice al suo fianco, alla folle illusione di poter condividere con lei ogni singolo giorno.
Era stato un egoista, era stato uno stupido, forse si era solo scioccamente innamorato.
«Non sai difendere neanche la tua pelle e vorresti porti a difesa di un'altra vita.»
Non capiva come potesse lasciarsi toccare così ogni volta dalle sue parole, non riusciva ad accettare che quella bestia malefica conoscesse così bene le pieghe del suo cuore, della sua stessa anima.
«Io so perché sei qui, Eric.» Adam lo fronteggiò con un sorriso sulle labbra e lui non sapeva perché ancora non avesse tentato di colpirlo. «Vuoi risposte.»
«Non voglio nulla da te a parte vederti in cenere.»
Il sorriso era ancora lì, il paletto ancora fermo nella sua mano.
«Vuoi sapere di Victor, della sua storia, della nostra lotta...»
Deglutì sentendo quasi il bisogno di indietreggiare. Non lo fece.
«Non sopporti l'idea che io conosca il vero Victor.»
«Tu non conosci proprio niente!» Non riuscì a regolare la rabbia con cui aveva sputato quelle parole lasciando che Adam se ne facesse beffa con un risolino.
«No, sei tu che non sai chi fosse realmente Victor, quale cacciatore abile e spietato fosse, quale uomo privo di compassione e pietà.»
«Taci!»
Adam non tacque, Adam continuò a colpirlo con sguardi e sorrisi e lui era incapace di restituirgli uno solo di quei fendenti.
Rimpianse di essere andato lì, rimpianse l'abbraccio di Sarah. Voleva solo tornare codardamente fra le sue braccia e restare cieco e sordo di fronte a quella verità.
Era verità o erano le calunnie di una bestia di Lucifero?
Chi era veramente Adam? E perché voleva così ossessivamente scoprirlo?
«Tu hai conosciuto solo un'ombra di Victor, solo ciò che i tuoi occhi di fanciullo ti hanno permesso di vedere.» Le sentiva sul bordo delle ciglia quelle lacrime eppure riuscì a impedir loro di cadere.
Adam gli fu a un passo e avvertì le sue dita sul viso. «Non sarai mai un cacciatore come lui, Eric.» Quando le sentì scivolare su una guancia sollevò lentamente la mano con il paletto fino a portarla all'altezza del suo cuore. Lo guardò negli occhi e affondò.
Adam sparì dalla sua vista in un frammento di secondo.
Non riuscì neanche a cercarlo che lo sentì alle sue spalle.
Un braccio attorno al suo petto, una mano ad afferrargli il mento.
«Non sarai mai come lui...»
Tremò come non aveva mai tremato.
Fu un solo misero attimo.
«No...» Le parole morirono nella sua gola mentre il dolore lancinante gli lacerava la carne. Il paletto sfuggì dalla sua presa e tintinnò assordante sul pavimento della chiesa vuota.
Strinse le palpebre cercando la forza di opporsi, ma non la trovò.
Tutto il suo corpo pareva ardere, bruciava come fosse avvolto dalle fiamme eppure poté sentire il sangue colare lungo il suo collo, i capelli di Adam solleticargli il viso, i suoi denti affondare sempre più in lui.
Non poteva finire così, non voleva finisse così, avrebbe preferito morire mille volte anziché tramutarsi in una di quelle bestie, eppure con tutta la sua rabbia, la sua paura, il suo dolore, era completamente privo di volontà.
Il cuore batteva nel petto, forte, sempre più forte... sempre più forte.
La mente si annebbiò, immagini sbiadite coprirono i suoi ricordi, immagini scarlatte, occhi verdi, sorrisi taglienti.
Provò a sollevare una mano e riuscì a stringere le dita attorno al polso con cui lo teneva fermo.
«N-no...» A chi apparteneva quella voce? Era la sua? Era lui che stava supplicando come un bambino di non ucciderlo?
Lasciò che le sue spalle deboli si poggiassero contro il suo petto, che lo tenesse in piedi mentre gli strappava via sangue e anima.
Non sarai come Victor... Non sei come Victor...
Lo sentì nella testa e poi sentì la sua stessa voce implorare.
Smettila...
Il pavimento della chiesa era gelido eppure le sue ginocchia non lo avvertirono. Avvertirono solo l‘abbraccio soffocante in cui era stretto, il caldo del sangue che ormai colava sul petto, sulla sua camicia.
Era un fantoccio privo di forza e di volontà, un fantoccio nelle mani di un demone che sembrava impossibile da domare.
Nei suoi occhi avrebbe voluto imprimere l'immagine della sua dolce Sarah, del suo sorriso, dei suoi capelli castani smossi dal vento mentre lo salutava sulla soglia di casa.
Buona caccia, amor mio.
Ma non c'era. La voce nelle sue orecchie non era quella di Sara, il volto sorridente non apparteneva a sua moglie, il nero dei capelli non era il suo.
Dietro le palpebre lei non c'era, c'era solo il mostro.
Era dentro di lui, nella sua testa, nelle sue vene, in ogni più piccolo angolo del suo cuore. Graffiava nelle sue paure ed Eric le sentiva divorarlo senza pietà.
Suo padre, sua madre, il piccolo bambino che una volta era stato.
Tutto era solo un frammento perso fra le verdi iridi di Adam. Tutto era un riflesso di una vita che lo stava abbandonando.
Strinse finché poté le dita attorno a quel esile polso sentendo il caldo di una lacrima lasciare i suoi occhi.
Poi anche le ultime sue resistenze caddero sotto i denti di una bestia priva di anima, sotto le parole di beffa di un demone, sotto l'abbraccio mortale di Adam.



*



Un colpo, poi un altro, infine il freddo di qualcosa sul viso. Acqua, acqua gelida.
«Sveglia! Non voglio ubriaconi nella mia chiesa!» Ancora un colpo su un fianco.
Sollevò il viso verso l'uomo nella lunga veste nera che lo sovrastava. «Allora? Alzati!»
All'ennesimo calcio rifilato sul fianco si mise a sedere.
La testa girava.
Dov'era? Perché era lì?
Non ricordava.
«Dove...?»
Il fuoco, il sangue... Adam.
Tutto tornò prepotente nella sua memoria.
Si portò agitato una mano al collo. Toccò la pelle più volte portando poi sotto gli occhi le sue dita: pulite, non c'era alcuna traccia di sangue.
Saettò in piedi barcollando.
«Dov'è?»
«Chi stai cercando? In questa-»
«DOV'È?» gridò con forza tale da ardergli la gola.
Le mani erano sempre pulite, il suo collo privo di qualsiasi ferita, i suoi abiti coperti solo dalla polvere.
Non era possibile avesse sognato tutto.
No, quelle sensazioni erano state vere, quella paura era stata vera. La morte lo aveva tenuto per davvero fra le braccia.
Il respiro non voleva rallentare, il suo petto non voleva smettere di far male.
Guardò ancora le sue mani come quella prima notte di caccia, quando un ragazzo ingenuo si era ritrovato coperto di sangue dannato. Ora erano ancora assurdamente e spaventosamente immacolate.
Ma come quella prima notte urlò con tutto il fiato che avesse nel corpo.
Poi pianse.
In ginocchio, in una fredda chiesa, sotto lo sguardo immobile di un enorme crocifisso.



*



«Mio padre vorrebbe che lo aiutassi con i lavori alla locanda.»
Affondò il cucchiaio nella ciotola e mandò giù un boccone di patate bollite.
«Ha detto che ha bisogno di due braccia forti e capaci.» Sarah sorrise, Eric mangiò un'altra cucchiaiata di cibo.
Poi un'altra ancora finché Sarah non sorrise più.
«Eric- »
«Di' a tuo padre che non ho tempo per andare da lui.» La sedia aveva fischiato sul pavimento mentre si alzava pulendosi distrattamente la bocca con il dorso della mano.
Quando le dita di Sarah lo raggiunsero le scansò. «Eric?»
«Vado in città.»
Non era neanche arrivato alla porta. Stavolta la presa di sua moglie fu dolorosamente decisa.
«Per amore del cielo, Eric! Cosa ti sta succedendo?» Non voleva abbassare lo sguardo e si costrinse a reggere quello ferito di Sarah solo per un patetico orgoglio. «Cosa ti è accaduto? È da quella mattina... da quando sei tornato quella mattina che sei diverso, sei... sei lontano.» Un carezza sul viso, avrebbe voluto sfuggire anche da essa. «Dove sei Eric?... Parlami... Ti prego, amor mio, non chiudermi fuori dai tuoi pensieri.»
Sarah gli prese il viso fra le mani e lui le allontanò con le proprie. «Torno prima del tramonto.»
Si chiuse la porta alle spalle cercando di ignorare i singhiozzi che si era lasciato dietro.



*



Gli incubi non lo lasciavano dormire neanche poche ore. Eric non ricordava più sogni, solo nere ombre ad attenderlo nel suo letto, sotto l'ombra di un albero, fra le dure assi di una panca.
Ombre nere e mani pallide.
Occhi come fiamme verdi e un sorriso affilato.
Le note di una sonata disperata risuonavano per lui ogni notte e ogni alba.
L'abbraccio della morte, caldo e soffocante lo attendeva puntuale ad ogni sonno.
Si alzò dal letto passandosi una mano sul viso sudato, guardando la donna che dormiva al suo fianco e provando ribrezzo per se stesso.
La tinozza con l'acqua ai bordi del giaciglio gli diede misero sollievo. Si bagnò anche la testa senza però riuscire a cancellare le ultime immagini ferme come lame nelle sue pupille.
Si toccò il collo come ogni volta. Non c'era nulla eppure poteva sentire il sangue colare, i denti affondare e la sua bocca saziarsi di lui.
Era disgustoso e non poteva mandare via quella sensazione.
Tornò con il capo sul cuscino cercando di sfiorare i capelli di Sarah. Si ritrasse non appena lei si mosse.
Ormai cacciava solo poche ore per notte perché non voleva che lei fosse sola, eppure era così chiaro che Sarah fosse sola. Perché lui l'aveva abbandonata, l'aveva lasciata nonostante dormisse al suo fianco, nonostante condividesse ogni giorno con lei.
Sarah era sola.
Eric non era più lì, e lei lo sapeva.
Chiuse gli occhi pronto a rivivere l'ennesimo inferno, pronto a ritrovarsi privo di difese e di volontà, pronto a essere ancora una volta un fantoccio.

Adam suonava. Eric lo ascoltava in silenzio.
La musica cessava e il paletto era freddo nel palmo della mano.
Cadeva a terra con un tonfo e Adam sorrideva.
Passo dopo passo.
Paura... paura...paura.
“So perché sei qui.”
Paura... paura...paura.
“No, non sai niente!”
Un altro passo.
Un altro sorriso.
Paura.
Il paletto tornava gelido nella mano.
Adam affondava i denti nel suo collo e Eric lo lasciava cadere ancora.
Paura.
“So perché sei qui.”
Sangue... fuoco... paura.
...
Il crocifisso lo guardava.
Sangue... sangue... sangue.
Le braccia di Adam erano calde, bruciavano.
Eric bruciava con esse.
Paura...
Eric aveva paura di quel fuoco.
Eric aveva paura di quel sangue.
Eric aveva paura...
“So perché sei qui.”



*



Quando si compì un ciclo di lune, Eric lo sentì.
La cena con pochi pasti, Sarah che ravvivava le braci del piccolo camino affumicato.
Eric fece cadere il coltello sul tavolo.
«Dove vai?»
Si alzò lentamente.
Lentamente si avvicinò alla porta.
Lentamente l'aprì.
Lo sentiva.
Non c'era nulla nell'ombra della sera.
Un cielo plumbeo con poche stelle, la compagnia silenziosa di decine di alberi.
«Eric?» Sarah lo raggiunse.
«Va' dentro, Sarah.»
La guardò come non la guardava più da tempo, con gentilezza, con dolcezza, con amore.
«Fa' attenzione, Eric.»
Le sorrise e Sarah annuì.
La porta si chiuse e con essa la tiepida luce delle fiamme.
Era buio, troppo, ma non abbastanza.
Lo sentì e poi lo vide.
Il lampo di due occhi fra le fronde, il pallore di una figura che si muoveva fra le ombre e fu allora che Eric avverti la pelle far male.
Si toccò il collo e guardò le dita.
Erano sporche di sangue.
No, era un incubo, uno di quelli che lo tormentavano ormai tutte le notti.
Toccò ancora la ferita e altro sangue gli macchiò le mani.
Non si fermava.
Cercò con agitazione quegli occhi.
«Dove sei? Codardo, vieni avanti, lascia che metta fine a tutto!» ringhiò al vento della notte.
Nessuno rispose.
Guardò la porta della sua casa, guardo il legno chiuso.
Era al sicuro? La sua Sarah era al sicuro?
Il sangue era scivolato fin dentro alla stoffa dei suoi abiti, non si fermava.
Si pulì ancora una volta il collo con la mano ma non riusciva a impedire alla ferita di sanguinare.
Non capiva, non aveva risposte.
In quel diario non ne aveva più trovata alcuna, quelle di padre Jonathan non le aveva volute udire.
«Mostrati!» urlò ancora, e ancora fu silenzio. «Ti ucciderò! Lo giuro sul nome di mio padre e su questo stesso sangue! Ti ucciderò, lurida bestia, mi hai sentito?»
Affannò guardando in ogni direzione senza più trovarlo.
«Hai sentito quello che ho detto? Ti ucciderò, Adam! Ti ucciderò!»
«Eric?» Si voltò incrociando lo sguardo di Sarah, i suoi occhi colmi di paura.
«Va' dentro, Sarah!» Stavolta fu privo di qualsiasi gentilezza. «Vai!»
Gesticolò rabbioso verso la loro casa e a quel punto per poco non gli mancò il fiato.
Le sue mani erano di nuovo candide.
Toccò il collo: non c'era più sangue.
«No, no, no, questo non può accadere...» biascicò fra gli ansiti. «Non può accadere... »
«Eric, che sta succedendo?»
Si sfilò con impeto la maglia e la trovò senza alcuna macchia.
La sua mente lo ingannava, la sua ragione si stava sgretolando.
«Eric, guardami!» Sarah gli prese quelle mani pulite e le strinse fra le sue, Eric guardò i suoi occhi completamente e irrimediabilmente perso. «Guardami.»
«Sarah...»
«Sono qui, amor mio. Sono qui.»
«Sarah... » Abbandonò la maglia a terra e lasciò che le sue braccia lo stringessero forte.
«Sono qui.» L'abbracciò come forse non aveva mai fatto, come forse non aveva mai sentito il bisogno.



*



La chiesa era silenziosa, il pavimento freddo.
Adam sorrideva.
Il paletto giaceva a terra.
Il sangue colava lungo il suo collo.
“So perché sei qui.”
Eric indietreggiava strisciando sui gomiti e finiva con le spalle contro il muro.
“No, non sai niente!”
Adam sorrideva.
Paura...
Fuoco...
Sangue...
“Io so tutto.”
Adam incombeva su di lui, gli spostava senza fatica la mano dalla ferita e sorrideva ancora.
“No...”
Eric tremava.
Dita fra i capelli, ancora denti nella carne.
...
Il crocifisso lo guardava.
Sangue... sangue... sangue.
Le braccia di Adam erano calde, bruciavano.
Eric bruciava con esse.
Paura...
Eric aveva paura di quel fuoco.
Eric aveva paura di quel sangue.
Eric aveva paura...
“So perché sei qui.”
...paura di se stesso.

Si svegliò di soprassalto. Respirò profondamente ma il cuore continuava a battere privo di controllo.
Era solo un incubo, l'ennesimo, ma solo questo.
Non era reale.
Non è reale.
Si toccò il collo e portò le dita sotto la luce della finestra.
Tremò.
Erano sporche di sangue.
Lo sentiva: lui era lì.












***












NdA.
Grazie a tutti per l'apprezzamento a questa fic ^///^ spero sia stato gradito anche questo secondo appuntamento e mi scuso se è stato un pochino tardivo.
Con mia sorpresa mi sono accorda che la storia ha da dire molto più di quanto credevo per cui probabilmente aggiungerò qualche capitolino in più rispetto a quelli precedentemente plottati.
Non so se sia una buona notizia per voi u////u
Alla prossima e tranquilli, le risposte arriveranno.
Come sempre per consigli, suggerimenti e riflessioni sono a vostra disposizione ^^
Kiss kiss Chiara

p.s. Benché storicamente inappropriata, questa è la sonata che ho immaginato suonasse Adam, la linko nel caso vi andasse di ascoltarla. <3

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Capitolo 3
*** La fede del Cacciatore ***


Cap3 La fede del Cacciatore
A story ever told





III. La fede del Cacciatore





Non era mai stato un tipo molto religioso. Non aveva ma creduto molto.
Sua madre era solita ringraziare prima del pasto, suo padre non pronunciava mai neanche un amen.
Poi aveva avuto fra le mani quella scatola, poi un mondo nuovo e oscuro era piombato nella sua vita, poi in quella vita già stravolta aveva incontrato lui.
Non era un tipo religioso, Eric, neanche adesso che sapeva di avere sulle spalle un compito dato dall'Alto, un compito nato dalle labbra di San Michele e tramandato per secoli, millenni, da quelle degli uomini.
Un Cacciatore, un portatore di luce, un uccisore di demoni.
Bene e Male, la lotta primordiale di ogni Era.
Quando era stato baciato da quel Male solo a quel punto aveva cercato il Bene, solo quando le mani e gli occhi di Adam avevano iniziato a perseguitare realtà e sogno, solo in quel momento aveva sentito il bisogno di credere. Credere che ci fosse davvero qualcosa che si chiamasse salvezza, che ci fosse qualcosa che valeva la pena salvare.
Di quella lotta aveva visto solo una fazione, la vedeva tutte le notti e ormai neanche provava più il brivido solcargli la pelle.
Per cosa lottava? In nome di chi?
Sarah.
Era la sua risposta.
Non gli bastava più.
Affondò il paletto una volta. Lo affondò ancora e poi ancora, anche quando quel corpo stava ormai per divenire sempre più pallido; alle prime luci del sole sarebbe volato via come cenere.
Sentì il cuore galoppare doloroso nel petto mentre guardava quegli occhi, che non appartenevano più a una donna, osservarlo ormai vitrei.
Gettò il legno a terra con un gesto di stizza e iniziò a tossire forte.
Lo sentiva in gola, il sapore ferroso, il sapore del suo stesso sangue.
Tossì e poi tossì di nuovo.
Non era sangue, non c'era sangue.
Lei non aveva avuto modo di colpirlo. Eric era stato veloce e preciso e non c'era stato modo di fermare il suo affondo.
Eppure lo sentiva, lo sentiva salire dallo stomaco, fermarsi nella gola, invadere la bocca, colare dalle labbra.
Tossì.
Poggiò le mani sulle ginocchia e tossì ancora, tossì così forte finché lo stomaco non si contorse e vomitò sulla terra umida.
Non era sangue, non c'era sangue.
Si pulì la bocca con una manica e strizzò gli occhi.
Il collo pulsò.
No...
Stavolta le dita lo trovarono: sangue caldo sulla sua pelle sudata.
La ferita sanguinò finché non giunse a casa.



*



«Cosa ne pensi?»
Prese un profondo respiro mentre Sarah lo guardava in attesa. Strinse il braccio attorno alle sue spalle e le baciò la fronte. «Un figlio nostro... è quello di cui hai bisogno anche tu, Eric.»
«Un figlio che potrebbe divenire orfano di padre prima del tempo.»
Sarah si scansò dal suo abbraccio stringendosi nella coperta.
«Non amo sentirti fare questi discorsi.»
«Non sono discorsi, è la semplice realtà.»
Le ciglia trattennero le lacrime solo perché ormai ne aveva versate troppe.
«Perché hai voluto che divenissi la tua sposa se non hai intenzione di darmi dei figli?»
«Sarah...»
Non ebbe risposta.
Sarah gli diede le spalle e lui la sentì piangere. Non fece nulla, lasciò che il pianto la cullasse fino al sonno.
Dietro le proprie palpebre, Eric trovò solo altro sangue.
Non lo aveva più rivisto eppure sapeva che era sempre lì vicino, lo rincontrava ogni volta che chiudeva gli occhi, ogni volta che chiudeva i pensieri.

Il luogo era sempre lo stesso, sempre la chiesa di St. Thomas con il suo crocifisso a guardare.
Adam suonava.
Dita agili sui tasti antichi, palpebre chiuse e labbra sporche di sangue che colava fino al mento.
Eric lo raggiunse e si sedette sulla prima panca, di fronte al clavicembalo.
«Ti piace?» gli chiese ed Eric annuì. «L'ho scritta per te, Cacciatore. È il tuo requiem.»
E sorrise con i denti macchiati di rosso ed Eric sentì la paura far serrare le dita sul paletto.
«Stavolta ti ucciderò» asserì tornando in piedi e aspettando la fine della sua sonata.
Quando Adam pigiò l'ultima nota il paletto d'argento cadde a terra con un tonfo.
Eric saettò con lo sguardo al pavimento ma non riuscì neanche a piegare un ginocchio per afferrarlo. Mosse solo un passo indietro mentre lo vedeva avanzare verso di lui.
Aveva paura.
Aveva terrore.
Stava piangendo.
«Tu non mi ucciderai mai, Eric.»
Gli fu di fronte. Il palmo della mano a pulire il mento insanguinato, quella stessa mano portò poi via le lacrime dal suo viso lasciando una patina di linfa rossa sulla sua pelle.
«Sai perché non lo farai?»
Paura. Ancora paura.
Le gambe tremavano, le mani erano sassi immobili.
«Io ti ucciderò...»
«No, Eric, non lo farai perché non è ciò che vuoi davvero.»
«Tu sei un mostro! Io pianterò un paletto nel tuo petto e ti guarderò morire! Lo giuro!»
Un giuramento che lo fece solo sorridere.
Le dita di Adam raggiunsero i suoi capelli reclinando con poca gentilezza il suo collo.
«Non lo farai...» La sua voce gli scaldò la pelle e poi la sentì lacerare sotto i suoi denti.
Strinse gli occhi e il cuore prese a correre forte.
Si aggrappò a lui per non crollare a terra ma Adam lo accompagnò sul pavimento della chiesa continuando a nutrirsi di lui.
Sentiva il sangue colare caldo dal suo collo, le sue mani fra i capelli, il suo corpo a schiacciarlo.
Sentiva la sua vicinanza rubare pezzo dopo pezzo un po' della sua anima.
Respirò forte finché non sentì il freddo soffiare sulla pelle ferita e gli occhi di Adam bruciare sul suo viso.
Gli accarezzò con le dita il collo e lo portò alle labbra, alle labbra di Eric.
Scosse il capo furente eppure non aveva forza.
«Lasciami in pace... perché continui a torturarmi?»
Adam sorrise ancora.
«Non sono io che vengo, sei tu a chiamare me.»
«Non è vero.»
Il suo viso vicino, le sue labbra sporche del suo stesso sangue a un soffio dalla sua bocca.
«Vuoi risposte che non sai chiedere... vuoi emozioni che non riesci più a provare nella tua vita... nella tua caccia.»
«Non è vero...»
Lo era.
Adam soffiò sulle sue labbra e il suo respiro lo fece tremare.
«Vieni tu da me, e avrai ciò che brami, Eric.»
Un bacio sporco di sangue.
«Vieni da me.»

Quando si svegliò sapeva che doveva andare.



*



Era domenica mattina ma lui se ne rese conto solo quando trovò la chiesa, sempre in solitudine, piena di gente.
Superata la soglia guardò l'acquasantiere di marmo ma non immerse le dita. Si fermò e gettò uno sguardo alla nuca dei vari fedeli.
Quando le note del clavicembalo suonarono forte sentì il respiro fermarsi.
Non era lui a pigiarle, era un ragazzo magro con capelli castani e ricci.
Eppure più lo guardava più vedeva i suoi lineamenti mutare, più lo ascoltava più sembrava che lui fosse lì.
Si toccò il collo di istinto ma lo trovò privo di ferite.
Non gli piaceva stare lì, non in quel momento, non con quelle note, non con le parole d'ammonimento di un religioso.
«Cos'è il peccato, fratelli e sorelle? Il peccato è affascinante? Sì, lo è... Esso sembra brillare, sembra pronto a regalarci gioia e felicità. Ma è reale? È sincero?... No! Menzogne! Solo menzogne, fratelli e sorelle. Menzogne che possono inghiottire la nostra anima e condannarci per sempre al tormento.»
L'uomo che parlava con fervore dal pulpito poteva avere la sua età o essere addirittura più giovane. Capelli biondissimi, occhi di un azzurro quasi irreale.
La sicurezza che copriva ogni parola, la determinazione con cui le pronunciava, come se ci credesse sul serio. Ci credeva, questo Eric lo sapeva.
Credeva realmente che ci fosse un Male e che quel Male andasse combattuto e vinto.
Parlava di tentazione, di peccato.
Ma cosa poteva saperne quel ragazzo di cosa volesse dire davvero? Di cosa si provava a svegliarsi al mattino accanto a una donna che amavi, ma con il sudore sulla pelle per sogni in cui lei non compariva? Per sogni che avrebbero dovuto essere incubi?
Cosa ne sapeva della tentazione che poteva essere la verità?
Molto più infida, molto più seducente di una mela su un albero.
Vieni da me...
Sobbalzò alla sua destra ma non c'era nessuno a parte una donna che pregava a capo chino con le ginocchia poggiate a terra e le mani congiunte.
Si passò una mano sugli occhi sentendo la gola stringersi in una morsa. Aveva bisogno di uscire da lì, di abbandonare le parole del giovane predicatore e le note di quel maledetto clavicembalo.
Voltò le spalle a tutti e si incamminò verso l'uscita.
Il sole che lo accolse sembrò ardere contro la sua pelle ed era piacevole.
Non aveva senso restare lì, non aveva senso aspettarlo.
Tornò a casa, tornò da Sarah.
Quando scese il tramonto andò a caccia.



*



Erano in tre, eppure lo affaticarono come fossero una dozzina. Erano veloci, abili, forti.
Aveva imparato che era conseguenza della longevità della loro vita dannata. Più tempo trascorrevano sulla Terra, più tempo erano lontani dall'inferno a cui erano destinati, più forti diventavano.
Il calcio arrivò fulmineo dritto allo stomaco. Eric si ritrovò scagliato letteralmente con la schiena contro il muro alle sue spalle.
Tossì mettendosi in piedi prima di subire un nuovo attacco ma riuscì a bloccare il polso del secondo che lo aveva aggredito da sinistra.
L'ultimo arrivò dalla sua destra e lo colpì dritto al mento facendogli lasciare la presa sull'altro.
Poi sentì il collo soffocato nella stretta del suo braccio, l'aria scarseggiare e la testa iniziare a girare per la mancanza di ossigeno.
«Sarai un lauto pasto per me e i miei fratelli, Cacciatore.» La sua lingua a leccargli la guancia e la nausea a coglierlo dallo stomaco.
Calciò d'istinto l'essere che gli si piantò di fronte tentando inutilmente di liberarsi da quella morsa.
Era difficile e sentiva i sensi essere prossimi ad abbandonarlo.
Ma non poteva morire, non prima di aver conosciuto ogni cosa, non prima di aver trafitto con rabbia il cuore di Adam.
Aspettò che il secondo lo caricasse di nuovo e a quel punto usò entrambi i piedi per calciarlo e spingersi con le spalle così da far perdere l'equilibrio alla bestia che lo teneva imprigionato.
Quando entrambi caddero a terra fu semplice svincolarsi dalla sua presa e rotolare di qualche metro per avere la libertà di afferrare il paletto dalla caviglia.
Lo trafisse a terra senza lasciargli la forza di alzarsi.
«No!» Urlò il secondo mentre lo colpiva con una ginocchiata.
Aspettò che si avventasse su di lui e lasciò che si impalasse sul legno con le sue stesse mani.
Calciò poi via il corpo mettendosi in piedi con un colpo di reni.
A quel punto il terzo sarebbe stato facile da eliminare, ma Eric fu costretto a ingoiare un'imprecazione quando vide la sua balestra brillare nelle mani di quel demonio.
«Hai ucciso i miei fratelli...» Non sembrava esserci rabbia nelle parole ma i suoi occhi bruciavano e i denti aguzzi erano digrignati con ferocia. «Ora pagherai.»
Urlò con dolore quando il dardo di frassino gli colpì la coscia costringendolo a cadere sul suo ginocchio.
Sollevò lo sguardo per vederlo caricare il secondo colpo e stavolta puntarlo dritto al suo petto.
«Pagherai, Cacciatore.» Il braccio teso e la balestra pronta a colpire.
Non aveva paletti fra le mani e per estrarne uno dalla sua cintura avrebbe dovuto essere più rapido della sua arma, e con una coscia ferita e il legno a scheggiargli la carne, Eric sapeva non avrebbe neanche avuto la possibilità di azzardare.
Strinse i denti mentre un copioso fiotto di sangue defluiva dal profondo taglio.
Il respiro impossibile da rallentare e gli occhi fissi in quelli della sua preda, adesso non più tale.
Non aveva una sola possibilità.
«Colpisci» sibilò bagnandosi le labbra secche.
«Sto per farlo e, preparati, non c'è nessun Paradiso ad aspettarti dall'altra parte.» Sorrise rabbioso l'altro e tese ancora di più l'arma. Solo pochi metri li dividevano ed evitare il dardo sarebbe stato impossibile.
Quando avrebbe sentito il colpo partire Eric avrebbe comunque tentato.
Avrebbe fallito e sarebbe morto in un vicolo buio della periferia, e Sarah lo avrebbe pianto.
E Adam...
Si sentì male nel rendersi conto che il suo ultimo pensiero in quella vita sarebbe stato per lui.
Maledetto!
«Crepa, Cacciatore!»
Il respiro si arrestò nel momento in cui sentì il sibilo della balestra. Le palpebre si serrarono.
Alla fine non aveva neanche tentato di gettarsi da un lato o dall'altro, alla fine si era semplicemente arreso.
Arreso al dolore che ne sarebbe seguito, alla sua morte.
Ma il dolore non arrivò.
Arrivò il tonfo di un corpo che cadeva.
Aprì all'istante gli occhi e scorse l'essere ormai privo di vita a terra. Dinanzi a lui si ergeva ora un'altra figura, con un'altra balestra fra le mani, con gli occhi azzurri e i capelli biondi.
«Stai bene?»
La voce era quella che aveva udito quella mattina dal pulpito, la voce del predicatore.
«Chi sei?» chiese mentre atroci fitte pulsavano dal legno conficcato nella sua gamba.
Il ragazzo si avvicinò e gli allungò una mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Padre Cornelius.»
«E che ci fa un Padre con una balestra?» mormorò afferrando la sua mano e rimettendosi dolorosamente in piedi.
«Quello che fai tu, Eric.» Al sentirgli pronunciare il suo nome lo guardò diffidente ma il giovane non sembrò curarsi del suo sospetto. «Dobbiamo sanare quella ferita prima che si infetti.»
«Come conosci il mio nome?»
Ingoiò un ringhio di sofferenza quando le mani del prete iniziarono a tastare la sua coscia lacerata.
«Padre Jonathan mi ha parlato di te.» Scrutò i suoi occhi chiari anche nell'ombra della notte e il sorriso gentile che mostrava ancora una volta la sua giovane età. «Sono un Cacciatore.»



*



Cornelius lo aveva seguito fino a casa sua perché Eric aveva obiettato alla sola idea di essere curato nella sua di casa, in quella chiesa.
Così aveva camminato con sofferenza muta su quella gamba ferita non lasciando neanche che lui lo sorreggesse. Aveva sentito la carne lacerarsi ancora ad ogni passo ma aveva mandato giù dolore e grida.
Sarah lo aveva curato come sempre e aveva offerto una tazza di minestra al religioso.
Cornelius l'aveva mangiata con gradimento fino all'ultima goccia.
Eric studiava il suo viso e i suoi modi mentre affondava il cucchiaio nel liquido e spiegava a Sarah come sanare al meglio la sua ferita.
«Non ho estratto il paletto perché questo avrebbe solo peggiorato la lesione. Il legno ha impedito che perdesse più sangue.»
«Ti ringrazio per il tuo aiuto, padre.» Sarah lo aveva già ringraziato diverse volte dacché era seduto su quella sedia nella loro piccola e calda cucina.
Eric no, non gli aveva detto grazie.
«Mi stavi seguendo?» chiese mentre le mani di sua moglie medicavano la ferita.
Cornelius abbandonò la tavola e raggiunse il suo letto.
«Non esattamente. Ti cercavo, questo è vero, ma non mi aspettavo di trovarti in quel vicolo.» Aveva maniere semplici che non sembravano quelle di un predicatore, non sembravano quelle del ragazzo che aveva parlato con tale foga e sicurezza dal pulpito di quella chiesa.
«Ho incontrato Padre Jonathan qualche mese fa e quando mi ha parlato di te ho voluto raggiungerti per poter conoscere il Mastro della nostra Congrega.»
Non nascose una smorfia infastidita alla quale però Cornelius rispose con un sorriso. «Io sono Cornelius, Cacciatore della Congrega dei Figli della Neve. Mio padre era Marcus, amico fraterno di tuo padre Victor.»
Mio padre...
Non riuscì a dire nulla e aspettò in silenzio che Cornelius continuasse.
«Quando Victor abbandonò la Congrega, fu mio padre ad avere l'onore di fare le sue veci.»
«Dov'è tuo padre?» chiese Sarah e Cornelius si rabbuiò.
«In un luogo migliore.»
Anche Sarah tacque guardandolo dolcemente negli occhi ed Eric prese un profondo respiro.
Non aveva incontrato nessuno al di fuori di Jonathan che fosse a conoscenza di quella storia, nessuno a parte Adam.
La verità su suo padre, la verità dietro quella missione.
Cornelius poteva avere quella verità, avere quelle risposte la cui ricerca lo stava divorando notte e giorno.
«Sta per sorgere il sole. Sarà meglio che vada prima che Padre Gregory scopra le mie stanze vuote.»
«Aspetta.» Lo fermò quando giunse alla porta.
Provò a scendere dal letto ma Sarah glielo impedì.
«Riposa. Quella ferita può diventare una brutta faccenda se non la curi come necessita.» Lo raccomandò ancora il giovane. «Veglierò io per le notti che ci aspettano finché non ti sarai ristabilito.»
«Scordatelo!» tuonò. Il dolore era insopportabile e non riusciva neanche a tenere il piede poggiato a terra, ma non avrebbe di certo lasciato che un ragazzino vestito da frate facesse il suo lavoro.
«Permettimi di mostrarti il mio valore, Mastro.» Cornelius fece un piccolo cenno con il capo e sorrise ancora. «Tornerò con degli unguenti che accelereranno la tua guarigione.»
«Grazie per tutto.» Dopo l'ennesimo ringraziamento di sua moglie, il religioso lasciò la sua casa. «Il Signore ha ascoltato le mie preghiere.» A quelle parole guardò il viso di Sarah e lo scoprì sorridente.
Non le chiese nulla, lasciò che si prendesse cura della sua ferita e delle sue perplessità.
«Cornelius scioglierà i tuoi dubbi, amor mio. Forse scioglierà anche il buio che ha coperto i tuoi pensieri.»
L'aveva baciato ed Eric aveva sorriso.



*



Dopo una manciata di giorni a riposo, Eric riuscì di nuovo a camminare. Zoppicava e non era ancora in grado di piegare il ginocchio senza che la ferita tirasse dolorosa, ma era sulla buona strada per guarire, così aveva detto Cornelius.
Gli aveva fatto visita ogni dì e aveva portato con sé carne e frutta. La ferita aveva impedito a Eric di cacciare sia di notte che di giorno, e quindi se non fosse stato per lui, Sarah sarebbe stata costretta a chiedere aiuto a suo padre.
Eric non voleva lo facesse. L'uomo ancora non approvava la loro unione e in più di un'occasione i dubbi avevano sfiorato la sua mente.
Forse aveva ragione, non avrebbe dovuto legare Sarah alla sua vita, avrebbe dovuto lasciarla libera di incontrare e amare un uomo che sapesse renderla felice e che le desse quel figlio che tanto voleva, che le desse notti scaldate dagli abbracci e baci su un viso senza lacrime.
Eric sapeva di non essere quell'uomo, ma era l'uomo che lei aveva scelto e Sarah era l'unica donna che Eric avrebbe voluto al suo fianco, l'unica che sapeva dargli quel briciolo di pace che ormai faceva così fatica anche solo a cercare.
Sarah amava le visite di Cornelius, amava la sua compagnia. Cornelius aveva sempre un sorriso sul volto e una parola di conforto. Era un prete, ma era soprattutto un ragazzo vitale, vivo.
Vuoi emozioni che non riesci più a provare nella tua vita...
Adam era tornato ogni notte nei suoi sogni che erano sempre gli stessi eppure stavano cambiando.
Eric riusciva a reggere fino alla fine quel paletto, riusciva ad allontanarlo, riusciva a resistere e anche se alla fine crollava sempre fra le sue braccia, la notte seguente riusciva a resistere un po' di più.
«Cosa stai facendo in piedi, Eric? Torna a letto!» Lo rimproverò Cornelius quando lo scoprì alzato accanto al fuoco.
«Eric, non dovevi muoverti da solo.» Si aggiunse anche Sarah mentre portava dentro una cesta con la frutta che Cornelius aveva acquistato al mercato.
Non protestò neanche, ormai si era abituato alla loro alleanza a sue spese.
Si stese sulle lenzuola e Sarah gli lasciò dell'acqua accanto al letto.
«Vado alla locanda. Annemarie sta per partorire.»
Il sorriso sul suo viso era solo un modo per nascondere la sofferenza. Eric non disse nulla, non le chiese perdono per la sua volontà di non avere un figlio e Sarah ormai aveva smesso di chiederglielo.
«Dio benedica le tue mani, Sarah, che accolgano presto una nuova vita fra di noi.» Cornelius le baciò i palmi e disegnò in aria una croce.
Sarah uscì dalla porta con un sorriso più sincero.
«Com'è andata stanotte?» chiese quando furono soli.
Glielo chiedeva ogni mattina.
«Al solito, ma stanno mutando il loro comportamento. Sono più cauti e ormai attaccano in branchi di tre, quattro. È sempre più insolito trovarne qualcuno in caccia solitaria.»
Cornelius si accomodò sulla sedia accanto al suo letto con i suoi occhi azzurri sul suo viso.
«Stanotte andrò io.»
«Non se ne parla. Non sei ancora in grado di cacciare.»
Sorrise. «Ho riportato ferite peggiori e non sono mai stato fermo così a lungo» ammise sincero.
Spesse volte si era trovato al limite, spesse volte quegli esseri gli avevano causato tagli e lividi e talvolta aveva anche rischiato di essere morso. Ma mai prima di quella sera era rimasto a letto. Solo quella volta, solo quando Adam lo aveva portato a un passo dalla morte e Sarah lo aveva salvato.
«Prima eri solo, Eric, adesso ci sono anche io.»
Scosse il capo. «Non cambia nulla. Stanotte andrò a caccia. Discorso chiuso.»
«No.» Cornelius poggiò la mano sul suo braccio impedendogli di alzarsi. «Sai perché i Cacciatori si sono organizzati in Congreghe? Perché hanno bisogno di lottare insieme. Uno affianco all'altro, uno per l'altro.»
«Io l'ho sempre fatto da solo e così continuerò.»
Era sempre stato solo, Eric. Non aveva avuto fratelli da bambino né amici da adulto. Il suo carattere schivo e rude non lo rendeva avvicinabile da nessuno e a lui era sempre andato bene così.
Suo padre era stato il suo punto di riferimento e quando l'aveva perso era stato costretto ad affrontare qualcosa di così grande che era stato difficile ancora solo comprendere. Ed era stato costretto ad affrontarlo da solo.
Da solo aveva affrontato la morte di suo padre, quella di sua madre. Da solo aveva affrontato quella vita predestinata.
Le notti di caccia con il solo argento come compagnia.
Poi era arrivata Sarah e aveva avuto l'illusione di poter riavere ancora calore accanto a lui, ma Adam aveva distrutto anche quell'illusione ed Eric era stato più solo in quel letto con lei, di quanto non lo fosse mai stato prima.
Cornelius parlava di confratelli, di compagni, di lottare l'uno per l'altro.
Eric non aveva mai lottato per qualcuno che non fosse se stesso, non aveva mai dovuto né voluto badare a una vita che non fosse la sua e indirettamente quella di Sarah.
Quella sera sarebbe dovuto morire, ma Cornelius aveva scelto di aiutarlo.
«La tua missione non è un fardello che devi sopportare da solo, Eric. Tutti i confratelli portano lo stesso peso ma quando ci sono tante spalle quel peso diventa più lieve, anche se non sparisce mai del tutto. Si chiama condividere, la gioia come il dolore. Le lacrime e le ferite.»
Amava parlare, Cornelius, parlava di tante cose e usava tante parole per dire cose semplici.
«È stato tuo padre a parlarti di questo?» chiese.
Lui annuì. «Mio padre mi iniziò alla caccia che avevo dodici anni, ma mi parlò della nostra missione quando avevo coscienza per capirne il significato.»
«Hai cacciato con lui?»
Ci fu un breve silenzio e poi Cornelius assentì ancora con il capo.
«Ho cacciato al fianco di mio padre fino alla notte in cui fu ucciso...» L'azzurro si scurì e le labbra persero ogni sorriso. «Erano in due. Doveva essere una lotta semplice. Avevamo affrontato interi branchi ed eravamo riusciti ogni volta a debellare il Male, ma quella notte no. Mio padre fu colpito alla schiena. Non sono riuscito neanche a vedere come fosse accaduto, ho sentito solo le sue urla... Maledette bestie...» Cornelius strinse i denti e chiuse le palpebre. Eric conosceva il dolore della perdita, non sapeva cosa si provasse però a perdere qualcuno per colpa di una di quelle bestie, a vederla morire sotto i propri occhi senza poterla proteggere. «Riuscii a ucciderli entrambi e cercai di soccorrerlo, ma ormai non c'era più niente da fare... Mio padre è morto senza riuscire neanche a salutare l'alba. Lui amava l'alba di ogni nuovo giorno...» Quando il suo racconto terminò le labbra tornarono a sorridere sebbene fosse un sorriso triste e amaro. «Presto ti riprenderai e andremo a caccia insieme.»
Insieme...
Non aveva mai compreso quanto potesse essere calda quella parola.



*



«Non hai scritto un diario?»
Eric addentò una mela e scrollò le spalle. «Perché avrei dovuto?!» mormorò poggiandosi contro il tronco dell'albero alle sue spalle.
Il cielo ero rosso e prossimo alla sera e lui stava solo aspettando che scendesse la sua notte. La loro notte.
Aveva scoperto presto quanto cacciare con un altro Cacciatore potesse essere allo stesso tempo un aiuto quanto una distrazione.
Cornelius era un abile cacciatore e nonostante la sua veste da religioso, quando lottava aveva furia negli occhi e nessuna esitazione. Era soprattutto un cacciatore preciso e con le armi a distanza non mancava mai il colpo.
Eric preferiva la lotta vera e propria, preferiva sentire il pugno schiantarsi contro la carne, il piede schiacciare le ossa e il sangue di quegli animali macchiare le mani quando affondava il paletto.
La caccia era tornata ad essere viva grazie a Cornelius.
«Sei un Cacciatore, Eric, e per di più un Mastro. Devi avere un diario.»
«Non ne vedo il motivo.»
«Cosa vuol dire? Devi farlo perché così è scritto.»
Lo osservò a lungo continuando a mangiare la sua mela per poi gettare il torso sull'erba.
«Sarah vorrebbe un figlio» sospirò con un sorriso triste. «Un figlio da me...»
«Mi sembra naturale e giusto che sia così. È la tua sposa.»
Cornelius gli sorrise con calore e lui scosse il capo.
«Dovrei mettere al mondo un figlio per condannarlo? Per renderlo orfano prima del tempo e lasciargli come eredità questa vita?» Si alzò da terra con rabbia. «No, grazie.»
Cornelius lo seguì subito dopo.
«Non è una condanna, è solo il tuo destino.»
«Non l'ho chiesto io questo destino.»
«Il destino non si sceglie, Eric, si accetta soltanto.»
Destino, missione, chiamata. Qualsiasi nome potesse trovare, Eric sapeva solo che non era la vita che voleva per suo figlio.
In un'altra storia avrebbe donato a Sarah tutti i figli che desiderava e l'avrebbe guardata crescere con amore e cura la loro famiglia.
Ma la sua storia non si sarebbe scritta con quelle intenzioni.
«Tu lo stai scrivendo il tuo diario?» chiese.
«Certo.»
Sorrise. «E per lasciarlo a chi? Sei un prete.»
Cornelius non cadde nella sua provocazione e gli sorrise di riflesso.
«Come ben saprai non c'è necessità di prole, basta un giovane degno a cui affidare la nostra missione, e in ogni caso non si scrive il diario solo per tramandarlo, ma anche per se stessi. Ogni Cacciatore impara dalle proprie azioni, dai propri sbagli. Ogni Cacciatore, così come ogni semplice uomo, cambia e matura a seguito delle proprie esperienze.» Il sorriso si accentuò. «E di solito migliora.»
«Quanto ti piace parlare, prete» brontolò dandogli una spallata e incamminandosi verso il sentiero che portava al villaggio.
Il sole non era ancora calato.
Cornelius lo seguì ridendo ed Eric si lasciò contagiare come ogni volta.
Lui li chiamava confratelli, Eric avrebbe voluto dire amici.
«Eric, Jonathan ti ha parlato dei dieci Sire?»
Il suo cuore saltò un battito e un nodo ruvido gli scese nella gola.
«Ha detto qualcosa a proposito di farne fuori uno.»
Delle tante domande che aveva posto a Cornelius, nessuna aveva riguardato Adam.
Cornelius gli aveva detto che suo padre Marcus conosceva Victor e che avevano lottato fianco a fianco per anni. Gli aveva detto che nel diario di Marcus più volte veniva riportato il coraggio e il valore di Victor, la sua lealtà e la sua fedeltà alla Congrega. Quelle parole rispecchiavano quelle di Padre Jonathan.
Il vero Victor... un cacciatore abile e spietato, un uomo privo di compassione e pietà...
La voce di Adam tormentava ancora i suoi pensieri sebbene si fosse fatta più lontana e così anche la sua presenza.
Il suo collo non aveva più sanguinato ma i suoi sogni non l'avevano abbandonato.
«Pensi di cercarlo, un giorno?» A quella domanda aveva rallentato il passo e aveva guardato il compagno con la coda dell'occhio.
«Perché dovrei?»
«È il tuo compito primario, in verità. La caccia spetta principalmente ai confratelli minori della Congrega, un Mastro dovrebbe impegnarsi solo nella ricerca e nell'uccisione del Sire. Non fraintendere le mie parole, mai nessuno si attiene con rigore a questa regola.»
Ricordava bene le parole di padre Jonathan: trovare lui prima che lui trovi te.
«Tu l'hai mai incontrato un Sire?» chiese con un filo di voce ma Cornelius scosse il capo con un sorriso quasi divertito.
«No, mai. Se l'avessi fatto non sarei di certo qui a raccontarlo.»
Il passo si arrestò e la sua espressione seria portò Cornelius a spegnere quel sorriso.
«Che vuoi dire?»
«Un Sire non è un comune vampiro, è un vampiro puro. Non c'è nessuna umanità in lui, in quanto esso è nato direttamente dal sangue di Lucifero, dal suo peccato di disobbedienza. È più forte, più feroce e spietato di ogni altro vampiro. Per questo un Mastro trascorre l'intera vita nella preparazione fisica e mentale per affrontarlo, per affrontare un male primordiale e antico, perché è questo che rappresenta un Sire: il Male incarnato.»
Sentì un brivido correre lungo la sua schiena e la gola sussultò.
«Non si può uccidere quindi.»
«Oh, certo che si può, ma nessuno ci è mai riuscito.» Cornelius parve pentirsi di quell'affermazione perché scostò lo sguardo lontano.
Nessuno era mai riuscito a ucciderne uno, nessun Mastro nel corso delle Ere era riuscito a mettere fine ad una sola di quelle dieci vite.
Come poteva riuscirci lui? Un Mastro senza conoscenza né abilità all'altezza?
Cornelius che era più giovane in età era già un Cacciatore esperto se non quanto lui addirittura superiore.
«Devi avere fede, Eric. Dio non abbandonerà i suoi figli, quando essi lottano in nome suo.»
«Io non lotto in nome di nessuno.»
«Ora non bestemmiare...» Lo riprese Cornelius con sguardo ammonitore ma Eric non aveva voglia di sorbirsi un altro sermone sulla fede e sul credere. Sul Bene e sul Male.
Aveva solo voglia di cacciare e di tornare da Sarah con le mani lorde di sangue.
Dietro i colli il sole era tramontato.
La notte era appena iniziata.



*



Un calcio, poi un altro. Una gomitata, un pugno.
Una ginocchiata sui denti.
Eric cadde al suolo ma rotolò sulla schiena e recuperò il paletto dal terreno.
Affondò il legno immediatamente dopo nel cuore della sua preda.
Alle sue spalle il sibilo della balestra.
Un colpo, due colpi.
Due tonfi.
Si voltò con il fiatone e Cornelius saltò giù dal ramo su cui aveva fatto da vedetta.
«Sei ferito, Eric?» gli chiese controllando con la punta del piede che nessuno dei cinque vampiri si muovesse più.
Eric sputò un grumo di sangue e si pulì le labbra con il polsino della camicia.
«Sono ancora tutto intero...» Cornelius gli sorrise e poggiò l'arma a terra. «Grazie per essere rimasto a guardare.»
«Ho solo rispettato i tuoi ordini. Mi hai detto tu di coprirti le spalle.»
Gli lanciò un'occhiataccia mentre cercava di distendere i muscoli del collo indolenzito.
Passò accanto al vampiro dai capelli bruni guardandolo con sdegno.
«Ha cercato di mordermi...» sospirò quasi fosse un pensiero ad alta voce.
Aveva rischiato di vacillare quando aveva avvertito i denti contro la sua pelle, memorie torbide si erano presto appropriate della sua mente, ma per fortuna il suo braccio era stato più veloce dei pensieri ed era riuscito a ucciderlo prima... prima che-
«Se l'avesse fatto sarebbe comunque cenere a quest'ora.» Sollevò lo sguardo sul suo viso. Non comprese quelle parole e Cornelius dovette capirlo. «Non eri a conoscenza di questo, Eric?» Si sentì chiedere e semplicemente alzò le spalle.
«Mio padre era di poche parole» spiegò riferendosi al suo diario.
Cornelius lo raggiunse dopo aver raccolto le armi che avevano portato con loro per quella caccia.
Il sole era prossimo a sorgere.
«Il sangue di un Cacciatore è letale per loro.» Lo informò. «Così come loro sono figli di Lucifero, noi siamo discendenti di Michele e quando non vi è collegamento di sangue, vi è il passaggio del dono della caccia. Nel momento in cui un Cacciatore tramanda il suo compito a un altro uomo, tramanda con esso la benedizione di Michele che rende il semplice servo di Dio, un'arma, la Sua arma contro il male... Nessuna bestia degli inferi può trarre nutrimento dal sangue di un Cacciatore in quanto esso è consacrato da Dio stesso.»
I suoi pensieri non poterono che andare all'episodio della chiesa.
Non era stato reale? Era stato tutto un incubo come quelli che lo perseguitavano da allora?
Eppure ricordava chiaramente la sensazione che aveva investito il suo corpo, ricordava il sangue, il dolore. Ricordava la paura.
«Più di una volta mi sono trovato con i loro denti a un soffio dal mio collo. Sei certo di ciò che dici?» chiese ancora conferme.
Cornelius annuì con sicurezza. «Se per pura follia dovessi chiederlo a uno di loro, questi demoni ti direbbero che è solo una leggenda, una menzogna creata dai Cacciatori per impedir loro di bere il nostro sangue.» Sorrise con altrettanta fermezza poggiandogli una mano sulla spalla. «Ma nessun vampiro è rimasto in vita per contraddire questa “leggenda”. È verità, Eric. È la parola diretta di Michele, colui che difese la fede in Dio nella biblica battaglia in cui tutto ebbe inizio.»
Cornelius lo superò per avviarsi al sentiero ma Eric restò fermo sui suoi passi.
Non poteva essere davvero così, se il suo sangue poteva uccidere una di quelle bestie, come aveva potuto lui nutrirsi di lui? Come?
Se era stato reale, se era accaduto sul serio, allora...
«È letale...» sospirò recuperando la sua attenzione. Gli occhi di Cornelius indugiarono sul suo viso in silenzio. «Anche per un Sire è letale?» chiese ma la sua voce tradì i suoi dubbi, tradì la sua incertezza.
«Non posseggo questa risposta, Mastro.» Ne seguì un lungo silenzio e poi le sue labbra si mossero ancora. «Temo tu debba scoprire ancora molte verità, mio buon amico.» La balestra stretta nel pugno e un piccolo sorriso sul viso. «Sarò lieto di aiutarti a cercarle.»
Eric era grato della presenza di quella voce nel suo silenzio, di quel sorriso nei suoi timori, di quell'amicizia nella sua solitudine. Eppure Sarah si era sbagliata, perché con tutto il calore e la vita che Cornelius aveva portato con il suo arrivo, non era riuscito a sciogliere i suoi reali dubbi che nulla avevano a che fare con la sua missione. I suoi dubbi, le sue domande, le sue paure che vorticavano pericolose attorno a quel nome, attorno a quel mistero che era Adam.



*



Era ancora la chiesa di St Thomas. Era ancora il clavicembalo che suonava.
Eric si avvicinò al primo banco e si sedette ad ascoltarlo.
«Ti piace?» gli chiese ed Eric annuì. «L'ho scritta per te, Cacciatore. È il tuo requiem.»
«Potrebbe essere il tuo.»
Adam sorrise ancora e i suoi denti scintillarono sotto la luce della candela poggiata sullo strumento.
Gli occhi chiusi che si aprirono per guardarlo.
La musica cessò stavolta prima che la sonata fosse conclusa.
Adam abbandonò il clavicembalo e si diresse verso di lui.
Eric stringeva con forza il suo paletto freddo fra le dita.
A pochi metri, Adam si fermò e allungò la mano. «Vieni da me, Eric.»
Il paletto diventava sempre più pesante, sempre più pesante, finché non fu più capace di tenerlo.
Cadde a terra tintinnando.
«Non voglio» sospirò facendo un passo indietro.
«Oh, sì che lo vuoi.» Il suo sorriso si allargò e la lingua inumidì le labbra.
Il suo cuore stava battendo forte nel petto, così forte da voler uscire fuori.
«Ti ucciderò!»
«Vieni da me.»
Scosse il capo ma le gambe non riuscirono a fare un solo passo più lontano.
Fu Adam ad avvicinarsi mentre i suoi piedi sembravano inchiodati al suolo.
Il collo iniziò a far male e il sangue prese a scendere copioso dalla ferita di nuovo lacerata sulla sua pelle.
Eric la coprì con la mano ma non poteva arrestare il fluire denso del liquido cremisi.
Osservò inorridito le sue dita coperte di sangue e scosse di nuovo il capo con furia.
«No!»
Sollevò lo sguardo e Adam gli era di fronte.
Non poteva andare via, non poteva lottare.
«Vieni da me, Cacciatore, e avrai ciò che brami.»
Adam gli sfiorò il viso e poi il collo. Le sue labbra lambirono la pelle ferita.
Rabbrividì.
Chiuse gli occhi e lasciò che Adam lo stringesse a sé, che affondasse i denti nella sua gola e lo facesse crollare fra le sue braccia.
Le sue dita strinsero con forza il nero dei suoi capelli e solo in quel momento Eric si rese conto che non era per allontanarlo.
Le labbra lasciarono andare un gemito che avrebbe dovuto essere sofferenza.
Non lo era.
«Veni da me.»
Lasciò che fossero quelle di Adam a inghiottire ogni altro suono.

Aprì le palpebre ma era ancora buio.
Il suo cuore non smetteva di battere forte e le mani di tremare.
La fronte madida di sudore così come il resto del suo corpo.
Si liberò della casacca che gli copriva il petto e la passò sul viso per asciugarsi.
Passò la stoffa sul collo ma non trovò sangue.
La passò sul ventre umido.
I suoi occhi inorridirono quando si accorsero della reazione vergognosa del suo stesso corpo.
Serrò la mascella e strinse le palpebre per cancellare l'ignobile vista, ma nel buio dello sguardo riusciva solo a rivivere le immagini di quell'ennesimo incubo.
La sua voce, i suoi occhi, le sue labbra... le sue mani.
Vieni da me...
E quella reazione era solo un insulto alla donna che giaceva al suo fianco.
Mandò giù la rabbia e la frustrazione, la vergogna e il disgusto per se stesso e scese dal letto.
Si diresse verso la porta e lasciò che il freddo lo schiaffeggiasse.
L'erba umida sotto i suoi piedi nudi e il gelo della notte prossima alla fine.
Raggiunse il tronco del faggio a una decina di metri e poggiò il braccio sulla corteccia nascondendo poi il viso contro di esso mentre cercava di cancellare quella vergogna dal suo corpo.
Lasciò al silenzio della notte i gemiti abominevoli che lasciarono le sue labbra, e al vento freddo il compito di asciugare ogni goccia di sudore che scivolava infamante sulla sua pelle.
Crollò sulle sue stesse ginocchia con il legno del tronco a graffiare il suo braccio e con ancora la mano ferma fra le sue gambe, una mano bagnata di vergogna.
Colpì forte il faggio con un pugno, poi un altro e un altro ancora finché le nocche non si scorticarono macchiando la corteccia di sangue.
Il respiro ancora affannato e le spalle ricurve come a volersi nascondere dagli occhi del mondo stesso.
Non avrebbe mai potuto nascondersi dai propri.



*



I giorni seguenti aveva evitato la compagnia di Cornelius ma non gli fu altrettanto facile evitare gli sguardi di Sarah e le sue mute domande.
Non l'aveva più toccata, non era stato più capace di sfiorarla dopo quella notte perché ognuna di quelle che ne erano seguite, Eric era dovuto fuggire sotto l'ombra del faggio.
Andava a caccia, tornava stanco e sporco di sangue e chiudeva gli occhi nel caldo del suo giaciglio e lì gli incubi lo tormentavano finché non era costretto a macchiare di nuovo le sue mani.
Adam non era mai stato più lontano eppure più vicino come allora ed Eric non l'aveva mai odiato di più.
Stava tornando dalla sua battuta di caccia mattutina con il bottino di qualche lepre e un coniglio quando aveva incrociato lo sguardo di Cornelius fra le genti del mercato.
«Buondì, Eric.» Lo aveva salutato con l'immancabile sorriso.
Eric aveva risposto con un semplice cenno del capo mentre barattava con un mercante le sue pelli.
Aveva raccolto il denaro e aveva preso il passo con premura verso la periferia della città.
Cornelius lo aveva seguito.
«Eric, aspetta.» Una mano a fermarlo e nessun sorriso sulle labbra. «Cosa turba i tuoi pensieri, amico mio?»
«Ho solo fretta» mentì.
Cornelius non credette a quella menzogna e gli fece cenno di seguirlo.
Eric tentennò.
«Per favore, Eric.»
Alla sua destra la chiesa di St. Thomas.
Non ci aveva più messo piede neanche dopo le insistenze di Cornelius affinché partecipasse alle celebrazioni della domenica.
Non poteva andare lì, non dopo ciò che accadeva nell'ombra del suo sonno.
«Voglio mostrarti qualcosa.»
«Cosa?»
Gli sorrise gentile. «Il diario di mio padre.»
Il diario di Marcus, il diario che parlava di suo padre Victor.
Osservò ancora le scale e ingoiò ogni inquietudine.
Padre...
Seguì Cornelius fin dentro alla chiesa e non poté impedire a un conato di vomito di salirgli acido dallo stomaco quando i suoi occhi caddero prima sul clavicembalo e poi sul crocifisso. Sulle panche e sul pavimento freddo.
«Attendi qui. Voglio accertarmi che Padre Gregory non sia nei paraggi.»
Cornelius sparì dietro a una piccola porta di legno malconcia ed Eric cercò di far rallentare il cuore.
Chiuse gli occhi e si poggiò con la mano contro una delle panche.
Erano solo incubi, solo costrizioni della sua mente.
Nulla era reale. Nulla.
Eppure le sue azioni lo erano, le sue azioni folli e prive di morale, spregevoli e abominevoli.
La porta cigolò e riaprì le palpebre.
Non era la porta dietro cui era scomparso Cornelius, ma quella che si era aperta alle sue spalle.
Passi lenti ma decisi a cui non avrebbe dato importanza se non avesse avvertito il caldo bagnare il suo collo.
Accarezzò la pelle con le dita mentre i passi si avvicinavano sempre più.
No...
Il suo cuore gli bloccò la gola quando le dita tremanti mostrarono il sangue.
I passi si arrestarono.
Gli occhi fissi sulle sue stesse mani e i piedi impiantati a terra.
«Tu...» Fu un debole fiato.
«Io.» A quella voce raggelò.
Voltò lentamente il capo e incrociò due occhi verdi su un viso pallido.
Fu a quel punto che il Cacciatore reagì al posto dell'uomo afferrando con rapidità il paletto alla cintura e tentando l'affondo.
Non si sorprese che lui evitasse il suo colpo.
«I tuoi riflessi sono migliorati.» Era alle sue spalle.
«Non sai quanto!»
Si voltò e tentò una seconda volta. Il suo polso fu imprigionato fra le sue dita e la torsione dolorosa gli fece perdere la presa del legno. Provò comunque a colpirlo con l'altra mano ma Adam bloccò con facilità anche quella.
A quel puntò fu un calcio a fargli mollare la presa.
Adam fece un balzo indietro e le sue mani tornarono libere.
«Ho visto che hai fatto amicizia.»
Da dietro la schiena tirò via un piccolo paletto che gli lanciò contro.
Adam lo afferrò al volo e lo spezzò fra le dita senza alcuna fatica.
Poi sparì dalla sua vista e fu di nuovo dietro di lui.
Eric si voltò velocemente scorgendo il suo sorriso.
«In tutti i vostri discorsi sotto la luna non ti ho udito accennare a me, Eric.»
Non rispose. Il suo cervello stava cercando di elaborare in fretta un piano d'attacco ma qualcosa teneva occupato ogni suo pensiero.
Era il sangue che sgorgava dalla sua pelle, erano i suoi occhi, erano le sue labbra. Era il riflesso di quegli incubi.
«È il figlio di Marcus, vero?»
Sentì la rabbia montare nelle vene e qualcosa di altrettanto forte afferrargli lo stomaco. Era paura.
Nessuno aveva mai ucciso un Sire, aveva detto Cornelius. Nessuno, nessun Mastro, nessun Cacciatore.
Un Sire è il Male incarnato.
«Non toccarlo.» Lo minacciò stringendo i pugni, ben consapevole che non sarebbe stata qualche parola a fermare qualsiasi fosse stata la sua intenzione.
I Cacciatori combattono fianco a fianco, l'uno con l'altro, l'uno per l'altro.
Eric avrebbe rispettato almeno quell'ordine.
«Lo difendi...» Il sorriso di Adam sembrò vacillare appena. «Come Victor e Marcus... La storia si ripete» affermò reclinando appena il capo cosicché una leggera ciocca nera gli coprisse lo sguardo da un occhio.
«La storia... Quale storia?»
Adam sorrise ancora.
«La storia che tu non conosci, Eric, quella storia che non sarà il tuo compagno Cacciatore a narrarti.»
La sua gola sussultò sotto quello sguardo, sotto ogni singola parola, sotto la sua semplice presenza.
«Se vuoi conoscerla... Vieni da me.»
Se la porta non si fosse aperta con un cigolio assordante, se Adam non fosse sparito così come era apparso, se il suo collo non avesse smesso di sanguinare e i suoi vestiti non fossero tornati candidi come ogni volta, se Cornelius non lo avesse raggiunto con un vecchio diario stretto nella mano, Eric sarebbe crollato nuovamente al suolo.
Avrebbe nascosto il capo fra le braccia e avrebbe pregato.
Per la prima volta nella sua vita avrebbe pregato quel Dio che non conosceva ma per cui doveva lottare.
Avrebbe invocato una fede che non aveva per chiedere perdono di un peccato che non aveva realmente assaggiato, eppure riusciva lo stesso a sentirne il sapore.
Ed era dolce come la più crudele di ogni tentazione.












***













NdA.
Lo so che mi avevate dato per dispersa, ma questa storia necessita di un certo stato d'animo per essere scritta, quindi chiedo venia per avervi fatto aspettare tanto, spero che almeno l'attesa sia stata ripagata.
Grazie a chiunque legga e segua questa piccola fiaba gotica.
Mi auguro di poter concludere presto e concludere degnamente ^^
Un abbraccio.
Kiss kiss Chiara

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Capitolo 4
*** Il morso del Vampiro ***


4. Il morso del Vampiro
A story ever told





IV. Il morso del Vampiro





Coraggio, valore, lealtà.
Nel diario di Marcus, Eric lesse queste parole ripetersi più volte. Victor era un cacciatore coraggioso, un uomo di valore, un amico leale.
C'erano episodi che narravano delle loro cacce, che narravano delle paure di Marcus e delle rassicurazioni di Victor, suo padre, perché Victor era un mastro votato al suo compito.
Eric trovava l'immagine dell'uomo che anni addietro, nella sua piccola cucina, padre Jonathan aveva disegnato. Nelle pagine ingiallite del diario di Marcus, Eric trovò quel cacciatore abile che non avrebbe mai eguagliato. Non c'era nulla che invece parlasse di un uomo crudele e spietato; nulla, fra quelle righe, riportava neanche un pallido riflesso del Victor raffigurato dalla voce ambigua di Adam.
Adam aveva mentito, Adam mentiva.
Avrebbe dovuto esserne sollevato, avrebbe dovuto arrabbiarsi ancora di più, avrebbe dovuto cacciare con più foga notte dopo notte e attendere di ricontrarlo per porre finalmente fine alla sua vita e alle sue menzogne.
Ma tutto ciò che Eric continuava a sentire, era una profonda e agghiacciante paura.
Cornelius gli aveva mostrato quel diario con gioia, aveva insistito affinché lo tenesse lui per tutto il tempo che gli fosse necessario per capire ancora più a fondo la sua missione; Cornelius, in tutta la sua smisurata amicizia, ignorava quei timori che Eric nascondeva dietro ai suoi silenzi, dietro agli sguardi che gli evitava e ai sorrisi che aveva dimenticato.
Sarah era andata alla locanda. La casa era silenziosa e vuota. Eric chiuse il diario e poggiò la fronte nel palmo della mano, guardando senza vederlo, il legno malconcio del suo tavolo. Lo scoppiettio invadente del fuoco, interrompeva a ritmo irregolare i suoi pensieri, le sue domande, i suoi dubbi.
Padre... padre mio.
Avrebbe voluto che fosse lì, davanti a lui, che lo guardasse e gli rispondesse.
Victor non avrebbe potuto farlo. Le risposte di Marcus non gli bastavano.
La finestra si aprì con una folata di vento, sbattendo rumorosa contro la parete.
Eric guardò al d là del legno, la piana verde che scendeva ai piedi della sua casa, e fra le fronde del faggio scorse un'ombra.
Era lui?
Lo stomaco si piegò come colpito da un pugno al solo ipotizzarlo.
Sentì la gola farsi secca e si alzò dal tavolo per avvicinarsi alla finestra. Socchiuse lo sguardo per combattere le folate violente di vento. Guardò il faggio, guardò l'ombra e vide solo le orecchie di un cane di montagna, la sua coda grigia, e i suoi occhi fuggiaschi che lo guardavano.
Un guaito e corse via.
Eric lasciò andare un sospiro e chiuse la finestra.
Se fosse stato lui? Se fosse stato Adam?
Cosa avrebbe fatto? Cosa poteva fare? Cosa voleva fare?
Da quella volta alla chiesa di St. Thomas, non l'aveva più rivisto. Erano ormai trascorse un paio di settimane, solo un paio di settimane, eppure ogni notte era sembrata più lunga, ogni caccia più pericolosa e ogni alba più accecante.
Vieni da me.
Sentiva i brividi solcargli la spina dorsale al rimembrare quelle parole, che non erano state frutto di un sogno, ma che erano state reali come quella dannata paura che lo accompagnava ormai a ogni respiro.
Si passò una mano sul viso, soffocando contro il palmo l'ennesimo sospiro.
Un'altra notte così e Eric sarebbe impazzito.



*



Quella notte fu diversa.



*



Sarah era tornata dalla locanda con un cesto di frutta e un messaggio: Cornelius gli mandava a dire che non lo avrebbe accompagnato quella notte.
«Padre Gregory sta male, ormai gli resta poco. Cornelius non può lasciare il suo capezzale, non credo che lo farebbe in ogni caso.» Eric aveva annuito a quelle parole e le aveva accarezzato il volto. Sarah si era ritratta e aveva iniziato a sistemare la frutta sul tavolo.
Sarah sfuggiva sempre più spesso alle sue carezze, forse perché ne avvertiva il freddo.
Cenarono nel silenzio, come ogni sera.
«Torno prima dell'alba.»
«Sii prudente.» Ormai era diventato un rituale. Triste e amaro, come ogni rituale.


Non riuscì neanche a scendere il sentiero che lo avrebbe portato al borgo, ché si ritrovò attaccato da due esseri notturni.
Nonostante l'abitudine di essere in compagna di Cornelius, Eric riuscì comunque a debellare la loro minaccia con facilità. Bastò un colpo di balestra al primo e un paletto di frassino al secondo: caddero a terra senza emettere un solo suono.
La notte era fredda e umida, Eric sentiva il gelo dell'inverno che si avvicinava ad ogni cambio di luna. Presto la landa sarebbe stata coperta di neve, nei mesi che sarebbero seguiti avrebbe avuto solo bianco a circondarlo e lo avrebbe macchiato di rosso a ogni notte.
Amava l'inverno, Eric; l'inverno portava con sé quei pochi ricordi felici, ricordi di un bambino ingenuo, con i guanti bucati e i vestiti cuciti da stoffe diverse, che mangiava una zuppa calda accanto al fuoco facendosi carezzare la testa da sua madre e godendo dello sguardo di suo padre.
Quegli inverni erano stati più caldi di ogni estate che avesse vissuto dopo il suo diciassettesimo compleanno.
Agganciò la balestra alla spalla e si sistemò la giubba grigia. Alzò la vista al cielo nero e alla luna sfumata di bianco.
«Splendida notte... Non trovi?»
Il suo cuore si era incastrato nella gola.
Abbassò lo sguardo e si ritrovò i suoi occhi verdi di fronte.
Fu istintivo portare le dita al suo collo. Non c'era sangue. Non aveva fatto male, non aveva bruciato come era solito.
Non l'aveva sentito quella volta.
Adam sorrise ed Eric strinse i denti.
«Il tuo fratello Cacciatore non ti accompagna questa notte? Me ne rammarico, avrei voluto fare la sua conoscenza.»
«Come se potessi credere che sia un caso che ti sia fatto vivo adesso.» Era la prima volta da quando cacciavano insieme che Cornelius non era con lui.
Eric capì solo in quel momento quanto volesse averlo al suo fianco, quanto volesse nascondersi da quella voce nella sua testa, quella che gli sospirava domande che non trovavano mai risposta in nessuna pagina e in nessuna parola.
Fece scivolare dall'avambraccio un paletto di frassino ma lo tenne soltanto stretto nella mano.
«Posso staccarti la mano prima ancora che tu possa sollevare il polso» affermò quasi apaticamente Adam, tenendo lo sguardo incatenato nel suo.
Sapeva era verità, ma non era per paura di veder messa in atto la sua minaccia che non provò a colpirlo.
«Perché non c'è nessuna traccia di te nel suo diario?» Fu la prima e la più difficile da porre, fu la domanda che gli fece tremare la voce e quasi bruciare la lingua.
Adam non rispose, continuò a guardarlo con il viso pallido messo in ombra dal chiarore della luna.
Eric sentì il suo stesso battito impazzire contro le tempie.
«Hai detto di averlo conosciuto, di aver lottato con lui... Eppure non c'è una singola pagina in cui appaia il tuo nome.»
Sei un bugiardo, avrebbe voluto dire.
Mi stai mentendo. Stai solo giocando con la mia mente, bestia degli inferi.
Si limitò a coprirsi a sua volta di silenzio e attese una sua mossa, con la mano piena del paletto e le gambe pronte a scattare.
Adam sollevò il viso al cielo, scostando per la prima volta gli occhi. Era avvolto in un mantello nero da cui si intravedeva il bianco della camicia e il rosso infuocato della sua casacca.
«Era una notte come questa, simile a questa...» disse soltanto.
Eric seguì con lo sguardo la linea delle sue labbra, poi scese fino al suo collo niveo. Avrebbe potuto approfittare di quel momento per colpirlo. Avrebbe potuto essere veloce e affondare il paletto.
Poteva farlo, era una frazione di secondo, forse meno, ma poteva tentare o morire nel tentativo.
Poteva, la verità era che non voleva.
Quando Adam abbassò nuovamente lo sguardo nel suo, Eric capì di aver perduto la sua unica possibilità, l'unica di quella notte, forse l'unica della sua stessa vita.
«Quel diario è solo un petalo, Eric. Ne mancano ancora molti per completare la corolla.»
Deglutì. «E tu possiedi gli altri?»
Adam sorrise di nuovo. «Solo quelli che ho saputo cogliere nel corso della mia lunga esistenza, giovane Cacciatore.» Un passo più vicino. «Vuoi che te li mostri?»
In quel preciso istante gli tornarono alla mente le parole che Cornelius disse quel giorno sul pulpito. Il peccato e la sua effimera bellezza, la sua inconcludenza, la sua menzogna.
Avrebbe voluto che Cornelius fosse lì, a ricordargli ancora una volta quelle parole, a impedirgli di cedere a quella tentazione.
Cornelius non era lì.
Eric era solo, in una fredda notte, con tante armi che non avevano efficacia, senza una fede a cui chiedere aiuto o una speranza in cui rifugiarsi. Aveva solo domande e paure e altre domande ancora, aveva solo gli occhi di Adam e le sue parole.
«Mostrameli, allora.»
E cadde, nel caldo abbraccio di quell'illusione chiamata tentazione.
Adam assentì con un cenno del capo e gli porse la mano.
«Vieni con me.»
Eric guardò quelle dita pallide sentendo le sue tremare attorno al paletto. Guardò di nuovo il suo viso e i suoi occhi chiari inghiottiti dalle ombre della notte, le sue labbra sottili, la pelle pallida e la chioma selvaggia di capelli corvini.
«Non ti concederò una seconda occasione, Eric.» Quelle parole gli fecero serrare la presa sul legno. «Se vuoi risposte, questa sarà l'unica notte in cui ti sarà concesso udirle.»
Non avrebbe voluto essere così debole da farsi piegare da un misero e beffardo ricatto, ma lo era. Davanti agli occhi di Adam, Eric si sentiva debole come non mai, disarmato e nudo, senza difese o certezze.
Come fosse stato uno di quei tanti sogni soffocanti che lo avevano tormentato, da cui si svegliava come non avrebbe dovuto.
Stavolta era reale, stavolta poteva cambiare l'esito e non essere un fantoccio fra le sue mani.
Poteva, ma per l'ennesima volta, non voleva farlo.
Allentò la presa sul paletto finché non cadde a terra. Non fece un solo rumore mentre si perdeva nell'erba umida della piana.
Eric avvicinò le dita della mano a quelle di Adam, quando fu a un soffio dallo sfiorarle si fermò e lo guardò negli occhi.
«Vieni da me... Eric.»
Se c'era davvero un dio che gli aveva dato quella missione, Eric pregò affinché lo perdonasse.
Afferrò le dita di Adam e poi fu solo buio.



*



Quando riaprì le palpebre attorno a lui c'era un forte calore, un calore che pareva soffocarlo. Fiamme alte danzavano creando ombre sui muri.
Doveva essere l'inferno, pensò. Poi udì il rumore della legna che scoppiettava nella brace. Sollevò il busto e si trovò dinanzi un enorme camino.
Si guardò intorno: era una grande sala con un enorme libreria che copriva due intere pareti. Si accorse in quel momento di essere seduto su un sofà di velluto rosso, il legno intarsiato finemente.
Passò le dita sul bracciolo laccato. Tornò poi con lo sguardo al fuoco rimanendo quasi incantato nell'osservare le fiamme arancioni che salivano alte.
Il respiro divenne caldo nei suoi stessi polmoni.
Si rese conto solo allora di Adam che lo guardava poggiato contro una colonna a qualche metro di distanza.
Si sollevò immediatamente in piedi studiandolo con prudenza.
Non aveva più il mantello né la sua giacca rossa. La pallida camicia era aperta di qualche bottone. Fra le mani reggeva un calice di cristallo con del liquido troppo denso per essere vino.
Sentì lo stomaco rivoltarsi e strinse i pugni delle mani.
Il caldo del camino era diventato improvvisamente insopportabile.
«Ho atteso che ti svegliassi, non mi sembrava cortese interrompere il tuo sonno.»
«Dove sono? Dove mi hai portato?» chiese a bruciapelo.
Adam sorseggiò il suo calice e si passò poi la lingua fra le labbra che erano divenute inquietantemente rosse.
«Questa, giovane Mastro, è la mia umile dimora» affermò poggiando il bicchiere su un tavolo. «Ritieniti onorato: sei il primo della tua specie a mettervi piede.»
Quelle parole lo confusero.
«Specie?»
«Cacciatori» rispose Adam. «L'unico cacciatore.»
Lo aveva condotto nella sua casa.
Era verità?
Eric guardò ancora la stanza, il velluto del sofà, lo stesso velluto con cui erano cucite le tende che celavano la balconata. Il camino di marmo, il numero indefinito di libri che componeva la biblioteca e all'angolo, illuminato da un candelabro, un clavicembalo.
E fu proprio il clavicembalo che Adam raggiunse. Accarezzò il legno e poi i tasti, e si sedette sulla seduta frontale.
Chiuse gli occhi e iniziò a suonare.
Il cuore di Eric smise di battere mentre udiva le stesse note che avevano suonato in ogni sua notte, quelle note che avevano centellinato ogni incubo e ogni paura.
Guardò il volto di Adam, le ombre disegnate dalle candele e dal fuoco del camino, i suoi capelli che offuscavano lo sguardo celato.
Adam continuò a suonare la sua musica, disperata e bellissima, alzando di tanto in tanto gli occhi nei suoi, come saette che squarciavano il buio del cielo durante una tempesta. Suonò con un sentimento che Eric poteva descrivere con una parola soltanto: passione. Ed era inarrestabile mentre si spandeva per tutta la stanza e giungeva fino a lui senza esitazioni. Note come gocce di veleno letali.
Poi la struggete sonata terminò, i tasti piansero per l'ultima volta e fu silenzio.
Eric riusciva a sentire il suo cuore battere assordante.
«Sai quanti Mastri ho incontrato nella mia vita, Eric?» Adam non aspettò una risposta. «Centinaia, diverse centinaia...» Si alzò poi dallo strumento e lo guardò. «E sai quanti di loro ho ucciso?»
«Tutti?»
Adam sorrise.
«Tutti tranne uno.»
Mio padre...
Sentì la gola in una morsa.
«Dieci erano i Sire all'alba di quel giorno e dieci sono ancora oggi, a dispetto di quante Ere si siano succedute» disse ancora.
L'aria divenne una lama che trafiggeva il suo petto ogni volta che respirava. Lo seguì allontanarsi dal clavicembalo per tornare al tavolo dove sostava il calice. Ne prese un altro sorso.
«È una lotta impari. Sarà sempre una lotta impari, Eric.»
«Se ti aspetti di impressionarmi devo deluderti: non ho intenzione di abbandonare il mio obbiettivo» affermò con fermezza sebbene il sangue stava pompando con troppa forza nelle sue vene.
«Le mie parole non avevano questo intento.» Il bicchiere era ora vuoto, sporcato solo da una patina che aveva seguito la discesa del liquido. «Di tutti e dieci i Sire solo una manciata si trovano ancora qui sulla Terra. Lo sapevi?»
No, non lo sapeva.
Non rispose comunque e Adam piegò le labbra in un pallido sorriso.
«Ma di tutti e dieci gli Angeli Fedeli, quanti di loro hai visto lottare al tuo fianco? Vi hanno lasciato soli in una battaglia che non vi vedrai mai vincitori. Soli, accompagnati solo dall'utopia di una fede cieca e muta, come se potesse realmente armare le vostre mani. C'è un che di poetico nella vostra esistenza, Eric, oppure è solo la tristezza dell'inevitabile che cercate di esorcizzare inseguendo una chimera chiamata salvezza... Ma per te queste parole non contano nulla. Non conta sapere se ci sia davvero un Paradiso che ti attende al termine di questa vita devota. Dico bene? E ad ogni modo, non è come lo descrivono. Credimi, io l'ho visto.»
«Dove vuoi arrivare?»
«Voglio semplicemente che tu mi dica per cosa combatti, Eric. Per quale motivo ogni notte, da anni, vivi sporcandoti le mani di sangue.»
È la mia missione. Era questa la risposta, era ciò che gli aveva detto suo padre in quel diario, e che gli aveva ribadito sia Jonathan che Cornelius.
Ma non era la verità.
«Cosa ti importa del perché lo faccio?» chiese quasi con rabbia, rifugiando nell'astio la sua incertezza.
«Perché sei figlio di tuo padre, e Victor ha lottato sempre per un solo motivo che nulla aveva a che vedere con la fede.» Ogni qualvolta nominava il suo nome, Eric avrebbe voluto ucciderlo. «Ho fatto questa domanda a ogni singolo Mastro che ho incontrato, a ogni singolo Cacciatore tanto coraggioso e stupido da intrecciare la sua strada con la mia: per cosa combatti?... Mi hanno risposto tutti la stessa identica cosa, tranne uno. Tranne Victor.»
Schiuse le labbra per poter respirare con più facilità, l'aria sembrava non bastargli.
Adam lo guardava poggiato nuovamente contro la colonna, con le braccia incrociate e le labbra rosse.
Attendeva che gli porgesse quella domanda, e Eric aveva paura di farlo ma...
«Cosa ti rispose?»
Lo vide aprirsi in un debole sorriso.
«“Perché mi piace.”»
Mandò giù quel poco di saliva che gli era rimasta in bocca e fece vagare nuovamente gli occhi al fuoco.
«È la stessa motivazione che hai tu, non è vero?... Non ci sono questioni di fede o giustizia, c'è solo la brama di cacciare. Il suo bisogno e l'eccitazione che ti provoca.»
«No, non è così...» Ma lo disse senza guardarlo negli occhi, con la voce debole e le labbra asciutte, e Adam scorse facilmente la sua menzogna.
Perché sei figlio di tuo padre.
«C'è solo una differenza fra te e Victor, ed è quella differenza che faceva di lui un grande Cacciatore e di te...» Non completò la frase e Eric tornò a guardarlo. «Victor era conscio di ciò che era e non ha mai combattuto la sua vera natura. Se non avesse lasciato la Congrega e la nostra battaglia, sono sicuro sarebbe stato l'unico a potersi avvicinare alla realizzazione di quel compito di cui si veste ogni Mastro.»
L'unico che avrebbe potuto uccidere Adam.
Eric sentì le gambe deboli, avrebbe voluto sedersi su quel sofà e nascondere gli occhi e la testa, farla smettere di pulsare e far smettere quel cuore di galoppare doloroso nel petto.
C'era una nota di rispetto e di ammirazione che attraversava le parole di Adam, sottile e impalpabile, eppure c'era.
Sentì il collo pungere. Lo toccò e sulle dita trovò sangue.
«Non è reale.» Le parole di Adam suonavano lontane nel caos che imperversava nei suoi pensieri.
Il sangue continuò a sgorgare senza arrestarsi.
«Come può non essere reale?» urlò mostrandogli il palmo umido. Adam non cambiò la sua espressione apatica mentre lo osservava a pochi metri.
«Sei tu a renderlo reale, e la tua mente che vuole che lo sia.»
«No! Non è vero!» ribadì con furia sentendo il caldo liquido scendere lungo il suo collo. «Tu... tu mi hai morso...»
«No, non era reale.»
Non capiva.
Pensò alle parole di Cornelius, all'impossibilità di uno di quei mostri di nutrirsi di un Cacciatore. Allora era vero? Anche Adam poteva morire semplicemente se si fosse nutrito di lui?
Ma aveva avvertito i suoi denti nella carne, ricordava nitidamente quella sensazione. Come poteva non essere stato reale? Come poteva non esserlo adesso?
«Perché...?» chiese infine osservando quella mano diventata rossa.
«È il tuo modo di chiamarmi.»
«Cosa?» Scosse il capo con un sorriso tragico. «Tenti ancora di confondermi con le tue parole?»
Adam si allontanò dalla colonna sciogliendo le braccia e si avvicinò a lui con passi lenti ma inesorabili. Non poteva andare via, non poteva scappare da nessuna parte. L'incubo stava divenendo realtà.
«Quella ferita non è reale, è solo la tua mente che vuole che lo sia, perché vuole che io ti raggiunga.»
«Stammi lontano!» Gli intimò allungando la mano. «E taci con queste assurdità! Io non voglio altro che ucciderti.»
Adam sorrise a gli afferrò il polso torcendolo con forza. Eric strinse i denti provando a colpirlo con l'altra mano. Adam afferrò anche l'altra e le piegò con violenza dietro alla sua schiena costringendolo in ginocchio sul pavimento. Eric non riuscì a trattenere un gemito di dolore.
«Non è reale.» Gli sibilò contrò l'orecchio e Eric tremò.
Scosse la testa provando a rimettersi in piedi e sentendo il sangue scivolare sempre più copiosamente.
Alle sue spalle Adam serrò la presa facendo tendere dolorosamente i suoi gomiti piegati.
Eric urlò ancora.
«Credi che la brama del tuo sangue mi porterà da te.» Il respiro era sempre più corto, il dolore sempre più forte. «Ma io non posso nutrirmi di te, Eric, lo sai. È stato il figlio di Marcus a dirtelo.»
Cornelius...
In quel momento avrebbe voluto chiamare il suo nome. Strinse invece i denti e continuò a combattere contro la sofferenza.
Avvertì ancora il fiato di Adam contro il suo orecchio. «Non hai bisogno di quella ferita, Eric... Io sono già qui. Sarò sempre qui.»
Voltò il capo e incrociò i suoi occhi, le sue labbra vicine e l'odore pungente del sangue che emanavano.
Sentì la morsa sulle sue braccia allentarsi finché non furono di nuovo libere. Le lasciò cadere lungo i fianchi restando in ginocchio su quel pavimento di legno, sotto il calore che irradiava il fuoco e quello che bruciava nel fondo delle iridi di Adam.
Percepì poi la carezza delle sue dita sul suo collo.
Quando le portò sotto il suo sguardo, Eric vide che erano candide e pallide.
A quella vista si sentì letteralmente crollare.
Se fosse quella la vera illusione, se fosse stata quella che lo aveva tormentato da quella notte nella chiesa, se fossero i sogni che governavano i suoi sonni o l'incubo che stava vivendo in quel momento, Eric non lo sapeva, non sapeva più nulla. Non aveva mai saputo realmente nulla.
Chiunque fosse stato suo padre, chiunque fosse stato quel cacciatore di nome Victor, Eric non voleva più davvero saperlo.
«Adesso mi ucciderai?» chiese con un filo di voce che fece fatica a riconoscere lui stesso.
«Vuoi che lo faccia?» La domanda di Adam fu accompagnata da una carezza sui suoi capelli.
Eric annuì.
«Fallo.»
Era sicuro come non mai, era codardamente sicuro.
Adam gli accarezzò ancora la testa e flesse un ginocchio per essere alla sua stessa altezza.
Forse gli avrebbe rotto il collo, o gli avrebbe letteralmente strappato via il cuore, magari lo avrebbe soffocato lentamente facendogli imprimere negli occhi l'immagine del suo viso, cosicché fosse l'ultima cosa ad accompagnarlo nel lungo viaggio verso l'Inferno.
«Farà male...»
«Non importa» affermò con ridicola convinzione. Nulla avrebbe potuto fare più male di ciò che stava annegando nel suo petto.
Adam sorrise e gli sfiorò il viso ed Eric avrebbe voluto morire in quel momento, non uno dopo, perché la sensazione che gli attraversò la pelle era devastante.
«Addio, Eric.»
Fu doloroso, faceva male, Adam aveva ragione. Nel momento esatto in cui sfiorò la sua bocca con le labbra, Eric sentì il cuore scoppiare. Quando assaporò con la lingua il sangue che tingeva quella di Adam, la sua carne iniziò a bruciare come fosse gettata in quella brace vicina. Mentre stringeva quel corpo pallido contro il proprio e gemeva sulla sua bocca, Eric capì che Adam non avrebbe potuto scegliere un modo peggiore per ucciderlo.
E l'aveva fatto.
Eric era morto.



*



Riaprì gli occhi e si ritrovò davanti il verde dei prati, gli arbusti che salivano fino al cielo, l'aurora appena nata.
Sulla bocca il suo sapore, sulla pelle la sensazione delle sue dita.
Alzò il voltò al sole pallido e lasciò andare una lacrima per quel ragazzo che non c'era più.



*



Cornelius tornò a cacciare con lui qualche notte dopo. Padre Gregory era morto e un nuovo prete era giunto dalla vicina cattedrale per prendere il suo posto. A Cornelius non era stato neanche chiesto di farlo: troppo giovane. Fu una fortuna, perché in caso contrario non avrebbe potuto rifiutare ed Eric sarebbe dovuto tornare a cacciare in solitudine.
Non voleva più farlo.
«Dietro di te!» Eric si voltò e colpì il demone con un calcio prima di ucciderlo definitivamente con un paletto. Alzò lo sguardo e vide un altro giungere alle spalle di Cornelius che però era occupato a mirare al petto di una femmina a qualche metro. Il dardo partì centrando la preda ma non avrebbe avuto il tempo di colpire anche quello che stava giungendo velocemente.
«Giù!» Gli urlò Eric e Cornelius si abbassò permettendogli di lanciare il paletto e colpirlo senza errore.
«Grazie... non l'avevo visto.»
Eric assentì con il capo riprendendo fiato. Nella radura una decina di corpi giaceva a terra. Il sole stava per sorgere e avrebbero aspettato che bruciassero tutti prima di andare via.
Raggiunse un tronco tagliato e si sedette con stanchezza pulendosi le mani sporche con una stoffa logora che tirò fuori dalla tasca.
Cornelius lo raggiunse sedendosi a terra e poggiando la testa contro il suo ginocchio.
«Diventi sempre più abile, Mastro.»
«E tu sempre più distratto.» Lo richiamò ma lo udì ridere.
«Chiedo venia, ma la colpa è della tua impeccabile compagnia, Eric. Mi porta ad abbassare la difesa.»
«Quindi se ti farai uccidere sarà perché sto diventando più abile. Una bella responsabilità.»
Cornelius rise ancora e poi sollevò il capo per guardarlo. Il sorriso sfumò presto.
«Ho parlato con Sarah, stamani.»
Ingoiò un sospiro mentre continuava a togliere il sangue dalle dita con la stoffa.
«E quindi?»
Cornelius si alzò per sedersi proprio accanto a lui sul tronco.
«Sai che non mi è concesso parlare di ciò che mi viene confidato, però come tuo amico, sento il bisogno di dirti dei dubbi che stanno pervadendo la tua sposa, Eric.»
«Grazie per la preoccupazione ma non sono affari tuoi.» Provò ad alzarsi ma Cornelius gli prese una mano obbligandolo a restare.
«La vostra è stata un'unione basata su un sentimento sincero, lo so, e so anche che quel sentimento c'è ancora e che è forte... Qualsiasi cosa ti possa angustiare, Eric, non permetterle di ledere quel legame. Non dimenticare i voti che hai preso davanti a Dio: hai promesso di essere uno sposo e un marito degno dell'amore di Sarah.»
Sapeva bene a cosa si riferiva, sapeva bene che il gelo che era sceso nella loro casa era sceso anche nelle loro notti e non era più a causa di quei sogni. Non li aveva più fatti, Eric, non c'era più stata nessuna sonata e nessuna macchia di sangue. Non era più dovuto scappare vergognosamente sotto al faggio. Il suo collo non aveva più pulsato.
Adam era andato via dai suoi incubi e dalle sue paure. Eppure non aveva abbandonato i suoi pensieri ed era divenuto anche peggio, perché la pace che sembrava aver apparentemente trovato nelle sue notti, Eric non riusciva a scorgerla nella sua veglia. Adesso che non tormentava più i suoi sogni, Adam riempiva i suoi pensieri.
«Ha forse avuto qualche mancanza nei tuoi confronti, Eric?»
Scosse il capo.
«No, Sarah è...» Sospirò. «A volte mi chiedo quanto sia stato egoista a legarla a me.»
Cornelius strinse con gentilezza la sua mano.
«Non è stato egoismo, Eric, è stato amore e quell'amore c'è ancora. Devi solo riscoprirlo.»
Gli sorrideva, sincero e amico, ed Eric si chiese cosa avesse mai detto se avesse saputo la verità, se avesse saputo di Adam e delle sue labbra e di come era stato perversamente intenso sentirle sulle proprie, come era stato intenso il sapore del sangue nella sua bocca e le sue dita fra i capelli, se avesse saputo con quanta disperazione avrebbe voluto rivivere quella morte mille volte ancora.
«Lascia che vegli io per queste notti, concedi la tua compagnia alla tua sposa e cancella l'ombra che è scesa sui suoi occhi.»
Sorrise.
«Ti farai uccidere e poi dovrei venire a prenderti a calci da quell'altra parte.»
Cornelius rise e gli diede una pacca sulla spalla.
«È un rischio che sono disposto a correre, amico mio.»
«Moriresti per farmi rispettare i miei voti nuziali?» chiese beffardo cercando di non far trapelare la sua vera inquietudine.
Cornelius sorrise ancora.
«Morirei volentieri se ciò servisse a farti trovare pace, Eric.»
Quelle parole gli fecero vibrare la gola. Il sorriso di Cornelius era ancora lì, mentre l'arancio dell'alba scaldava l'oro dei suoi capelli.
«Giurami che non lo farai» ordinò serio intanto che le fiamme andavano ad avvolgere uno per uno i corpi privi di vita sulla terra. «Giurami che non farai mai una stupidaggine simile!»
«Non posso, sarebbe un giuramento che tradirei.»
Fu Eric ad afferrare la sua mano a quel punto e impedirgli di allontanarsi.
«Cornelius, non azzardarti mai e poi mai a porre la tua vita prima della mia. In nessuna occasione e per nessun motivo. Siamo intesi?» Lo guardò con sguardo di rimprovero e con una certa rabbia verso se stesso, perché non avrebbe mai voluto che qualcuno come Cornelius potesse ritenere la sua vita qualcosa che avesse così tanto valore. Non dopo tutto ciò che gli stava tacendo.
Ma Cornelius sorrise nuovamente.
«Tu lo faresti per me?»
«Non è la stessa cosa...»
«E perché? Perché tu sei un Mastro e io un Cacciatore semplice?... Sei mio amico, Eric, sei mio fratello e darei la vita per te così come so tu daresti la tua per me, e te lo impedirei allo stesso modo con cui tu vorresti impedirlo a me. Non chiedermi di fare giuramenti, chiedimi di essere prudente e di fare attenzione. Solo questo, fratello mio. Solo questo.»
Nel fondo dei suoi occhi chiari, Eric trovò un sentimento che andava oltre la semplice amicizia, oltre la condivisione per quello stesso compito, andava oltre la lealtà.
Fratello.
Eric poteva dire finalmente cosa volesse dire.



*



Sarah stava preparando la cena quando Eric rientrò chiudendosi la porta alle spalle.
«È quasi pronto...» sospirò senza voltare le spalle.
«Bene.» Raggiunse il tavolo e iniziò ad appuntare i suoi paletti, guardandola fare gli stessi gesti di ogni giorno con la stessa tristezza e la stessa malinconia.
Il suo viso era lo stesso di quando l'aveva vista quella prima volta, coperto di ferite e timori, mentre lei lo curava amorevolmente. I suoi capelli erano gli stessi che aveva fatto scorrere fra le dita quando avevano fatto l'amore la prima volta sull'erba umida, e i suoi occhi nocciola avevano le stesse venature d'ambra che gli avevano fatto vibrare il cuore.
Sarah era bella come un tempo e lui l'aveva dimenticato.
Aveva dimenticato come fosse vederla sorridere, il suono della sua risata, il calore gentile e timido delle sue carezze.
Aveva perduto memoria di quel tempo per abbracciare l'ombra soffocante di una tentazione impossibile, di un peccato privo di salvezza.
Davanti a quel fuoco Eric aveva lasciato morire i dubbi e le incertezze, e aveva lasciato morire l'uomo che aveva sposato quella giovane donna.
Non poteva più essere quell'uomo, Eric, forse non voleva neanche più esserlo.
E se poteva essere un fratello leale per Cornelius, nonostante i suoi oscuri segreti, avrebbe potuto essere un buon marito nonostante quei desideri, nonostante quella brama illecita.
Sarebbe stato un compromesso che era disposto a condividere con la sua anima; per Sarah, avrebbe potuto farlo.
Lasciò il coltello e il paletto sul tavolo e la raggiunse di nuovo avvolgendole le braccia attorno alla vita.
La sentì irrigidirsi quando le posò un bacio fra i capelli.
Quando Sarah voltò il viso per guardarlo, Eric le sfiorò una guancia e poi la baciò con dolcezza sulle labbra.
«Eric..?»
«Perdonami, Sarah.» La baciò ancora e poi ancora, mentre gli si stringeva alle sue spalle con forza.
Un velo umido le scivolò sul viso e lui lo asciugò con le dita.
«Perdonami...»
E lei gli sorrise.
«Amor mio, sei tornato? Sei tornato da me?»
Un'altra lacrima, un'altra carezza.
«Sono tornato» mentì ed ebbe ancora un sorriso, ancora un bacio.
E mai menzogna avrebbe potuto essere più dolce.



*



Eric mentì per altre notti, per altre notti la strinse fra le braccia e l'amò come gli era concesso e come Sarah meritava di essere amata.
Per altre notti Cornelius cacciò in solitudine mentre Eric guardava l'aurora sorgere dalla finestra della sua piccola camera.
Per altre notti chiuse gli occhi sentendo il cuore di Sarah battere contro il proprio petto e sentendo di amarla, in modo diverso, ma che mai avrebbe smesso di farlo.
Per altre notti si ingannò da solo, credendo che quella menzogna non esistesse, che era verità ogni bacio e ogni sospiro, e ogni lacrima.
Per altre notti Adam sparì dai suoi sogni e dai suoi pensieri, quasi fosse stato solo un fantasma mai realmente esistito.
E a ogni notte seguiva una nuova alba, seguiva un sorriso di Cornelius e una sua parola, seguiva una ferita che Eric medicava e una raccomandazione che Cornelius prometteva di seguire.
Poi giunse una nuova alba e tutto cambiò.
Sarah entrò raggiante dalla porta gettandogli le braccia al collo.
«Aspetto un figlio, amor mio. Un figlio tuo.»



*



Non erano a caccia. Era un pomeriggio grigio, ventoso, che lasciava cadere poche gocce d'acqua.
Stavano risalendo il sentiero verso casa sua quando Eric arrestò il passo. Fra le mani un paio di conigli.
«Eric?»
Cornelius si fermò a sua volta.
«Sarah è incinta.» Ogni volta che lo diceva, fosse a voce bassa o soltanto nei suoi pensieri, suonava come una dannazione.
«Oh, Eric!» L'abbraccio di Cornelius fu immediato. Le sue braccia lo strinse forte e a sua guancia liscia premette con affetto contro la sua. «Che notizia felice, amico mio!»
Se anche non avesse avuto le mani impegnate a tenere le sue prede, Eric dubitava fortemente avrebbe avuto la forza di ricambiare quell'abbraccio.
«Dici davvero?»
Alle sue parole scorse l'incredulità sul volto di Cornelius.
«Certo! È una gioia che riempie il mio cuore, Eric.» Gli sorrise sincero e gli baciò le guance. «Tu non sei felice?»
Deglutì e annuì.
«Credo di sì...» No, non lo era. Era terrorizzato, era spaventato dall'idea della vita che stava germogliando nel ventre di Sarah.
Cornelius andò al di là delle parole e scorse quella verità.
«Ricordo bene i tuoi timori sull'avere un figlio, ma non devi averne. Nessuno. Sarai un buon padre.» Gli poggiò una mano sulla spalla scuotendolo con affetto. «Aspetta di vederlo nascere e vedrai dissipare nel vento ogni paura.»
«Potrei essere morto prima che venga al mondo...»
«La morte fa parte della vita. È una tappa che tutti raggiungiamo prima o poi. Non puoi vivere però credendo che sia l'unica. C'è tutta una vita prima, una meravigliosa vita, Eric. Fatta di sorrisi e di lacrime, di dolori ma anche di gioie. Essere un padre è una delle più grandi che tu possa sperimentare. La tua missione non sarà un limite, sarà solo un insegnamento in più da tramandare a tuo figlio.»
Nella voce di Cornelius c'era una carezza per ogni parola, c'era lo stesso abbraccio con cui lo aveva stretto, c'era lo stesso calore e la stessa fiducia. Cornelius confidava davvero che sarebbe divenuto un buon padre ed Eric voleva solo essere capace di condividere quella convinzione.
«Non so cosa potrei mai insegnargli... io sento di non aver imparato ancora nulla nella mia vita.»
Cornelius gli sorrise. «L'umiltà. Sarebbe già un buon punto di partenza, non credi?»
Ricambiò quel sorriso sospirando sonoramente.
«Devo smetterla di parlare con te... Hai sempre una risposta per tutto. Dannato!» mormorò passandosi una mano sugli occhi.
Le braccia di Cornelius lo avvolsero ancora mentre se la rideva di gusto.
«Un giorno o l'altro ti convincerò anche a confessarti.»
Tentò di spingerlo via ma non c'era volontà nei suoi gesti.
«Impossibile!»
«Oh, io dico che ci riuscirò.»
«Mi stai soffocando, prete!» brontolò allungando però un braccio attorno alla sua schiena.
«Sono così felice per te, amico mio. Così felice...»
Cornelius ignorò le sue proteste e continuò ad abbracciarlo, gli passò poi una mano sulla spalle e ridendo lo invitò a bere per la lieta notizia.


Quella sera, andarono alla taverna di Briston e trascorsero la notte fra i boccali di birra e i sermoni alticci di Cornelius che, salito su un tavolo, iniziò a narrare storie che avrebbero dovuto essere scritte nella Bibbia.
Eric non sapeva se fosse così o meno, la Bibbia lui non l'aveva mai neanche aperta.
Ma sorrise mentre lo ascoltava, mentre Charles gli intimava con modi rudi di scendere dal suo tavolo e Cornelius continuava a predicare con un boccale nella mano.
Eric sorrise e rise mentre riceveva gli auguri degli uomini che bevevano con lui, uomini che non aveva mai realmente guardato, che avevano nomi e lavori e che lo avevano chiamato amico anche solo per una sera.
Quella notte non ci sarebbe stata caccia né sangue ad attenderlo. Quella notte Eric non sarebbe stato un Cacciatore, solo un uomo che presto sarebbe diventato un padre. E avrebbe imparato molto.



*



«Non avrei dovuto farti bere» sospirò mentre lo trascinava verso la chiesa di St.Thomas. Stretto al suo fianco, Cornelius ridacchiava senza reale motivo e continuava a dire quanto fosse felice.
«Sarà un figlio fortunato, Eric. Avrà te come padre.»
«Sì, sì...»
Aprì il grosso portone e lo condusse verso il corridoio che dava alle stanze dei religiosi. L'indomani tutti avrebbero avuto notizia di ciò che era accaduto alla locanda e Cornelius si sarebbe di certo beccato una lavata di capo. Era stato così insolito vederlo perdere ogni freno e controllo. Benché fosse sempre un animo gioviale e amichevole, Eric non aveva mai davvero avuto modo di vederlo così libero.
Lo portò nella sua stanza e lo lasciò cadere sulla piccola branda.
«Ora dormi senza fare troppo baccano o sveglierai tutti.» Gli raccomandò ma Cornelius era già con il viso sul cuscino e gli occhi socchiusi.
Gli tolse gli stivali e li adagiò ai piedi del letto.
«Sono felice...» gli udì mormorare.
«Forse lo sei più di me» confessò con un filo di voce sedendosi sulla branda. Cornelius aveva ora chiuso gli occhi e respirava profondamente. «Ho paura, davvero... E vorrei potertelo dire» ammise in solitudine. «Vorrei davvero poterti dire tutto, amico mio.» Lasciò andare un profondo respiro e si alzò. Prima di uscire guardò ancora il volto assopito del suo compagno.
Gli doveva tanto e non glielo aveva mai davvero detto e, sapeva, non lo avrebbe mai fatto.
Tornò accanto a lui e si chinò per posargli un bacio sulla fronte umida.
Grazie.



*



Abbandonò le stanze private della chiesa per tornare nella sua sala, con i banchi di legno e il grande crocifisso, con il pulpito in alto e il clavicembalo solitario.
Dov'era adesso?
Era andato via per sempre?
Una parte di lui lo sperava, sperava che fosse così, un'altra parte invece avrebbe voluto rivedere i suoi occhi e sentire la sua voce, un'altra parte ancora avrebbe voluto affondare l'argento nel suo petto e scoprire come era uccidere un Sire, cosa accadeva a chi non bruciava al sole, quale sfumatura avrebbe attraversato il suo viso pallido mentre gli strappava via quella vita dannata.
Una parte di lui avrebbe voluto chiamare il suo nome e attendere che rispondesse.
Sono già qui. Sarò sempre qui...
Si avvicinò allo strumento e guardò i tasti. Poteva sfiorarli, poteva suonare una sola nota.
Alzò il capo al crocifisso e, per la prima volta, si fece un segno della croce.
Voltò le spalle e abbandonò quella chiesa.
Sua moglie lo stava aspettando e con lei suo figlio.
Per quella notte Eric avrebbe dimenticato di essere un Cacciatore.
Avrebbe dimenticato la sua missione.
Avrebbe dimenticato Adam.
...
Non gli sarebbe stato concesso.



*



Arrivò davanti la sua stessa casa e lui era li, poggiato contro quel faggio che tante notti aveva atteso lui.
«Perché non hai suonato?» Lo accolse con quella domanda, mentre un sorriso si tagliava nell'ombra della notte.
«Dovevo?» Sei venuto comunque.
Dalla finestra della camera la pallida luce della candela, l'unica compagnia di Sarah.
Eric la guardò e poi guardò il volto di Adam.
«Un figlio, Eric?... Sei stato così sciocco?»
Un'altra domanda, un'altra accusa.
«Forse lo sono sempre stato» ammise sentendo l'umidità notturna scivolare sulla sua pelle e entrare fin dentro alle ossa, o erano gli occhi di Adam, era la sua vicinanza.
Non aveva armi con sé eppure non ne sentiva la necessità. Non in quel momento, non quella notte che avrebbe voluto fosse diversa, fosse unica.
Lo era stata fino a quell'attimo, forse lo sarebbe stata ancora.
Poi fu Adam a guardare verso quella finestra.
«Dorme,» disse. «Sento il suo respiro e il battito del suo cuore... li sento entrambi.»
«Senti il suo cuore?...» Come?
Adam sorrise e tornò a volgere a lui il suo sguardo.
«Dovrei congratularmi con te, credo.»
«Risparmiatelo.»
La sua debole risata strappò un sorriso anche a lui e Eric pensò fosse colpa dell'alcol che aveva bevuto. Non poteva essere altrimenti, non poteva essere per altri motivi.
Non c'erano ragioni diverse per giustificare il calore che lo avvolse quando Adam si avvicinò, per spiegare il batticuore che tuonò nel suo petto quando gli fu di fronte e le sue labbra si aprirono ancora.
«Potrebbe essere un addio, Cacciatore, se è ciò che vuoi.»
«È già stato un addio, Adam.»
Inclinò la testa di qualche grado e sorrise ancora.
«Amo gli addii, sono affascinanti nel loro essere saturi di vuoto. Dovrebbero segnare una fine, eppure cos'è una fine se non un diverso inizio?»
«Ripetilo quando ti avrò piantato un paletto nel cuore.»
Un'altra risata, che però si spense presto, prima che quegli occhi verdi lo inghiottissero.
«Credi ancora di poter tentare?»
«No, credo di poterci riuscire.»
Adam lo guardò a lungo, in silenzio, poi mosse un solo passo indietro e scostò il lungo mantello nero con un gesto del braccio.
«Dimostramelo. Stanotte.»
Un fremito attraversò la sua schiena ed Eric sentì le mani vuote. Le strinse in due pugni e accettò quella sfida. Forse l'ultima; forse, finalmente, la prima.
Il primo attacco andò a vuoto e Adam lo colpì allo stomaco con una ginocchiata. Tentò ancora, stavolta afferrandogli un braccio, ma Adam sfuggì dalle sue mani quasi fosse solo acqua, impossibile da trattenere.
Eric si voltò e riuscì a schivare un pugno, ma non il secondo che lo colpì alla spalla. Non evitò neanche il calcio, né la gomitata che lo fece tossire con forza.
Si poggiò barcollando contro il tronco alla sua sinistra, pulendosi le labbra sporche di sangue con il dorso della mano.
«Ti arrendi?» Adam lo fronteggiava impavido e privo di una sola ferita.
Scosse la testa con affanno e si aprì in un semplice sorriso di puro orgoglio.
«Mai.»
«Hai fatto la tua scelta, allora.»
Eric guardò la sua mano sporca di sangue e ne sentì il sapore in bocca.
Fu un pensiero fulmineo, un'idea assurda eppure che non seppe scacciare.
Si lasciò poggiare totalmente con le spalle contro il faggio in attesa che lui lo attaccasse.
Ogni attimo che ne seguì parve atrocemente lungo, ma quando Adam gli fu di fronte con gli occhi di fiamme verdi e il pallore di quel viso a un soffio, con le sue dita attorno al collo, Eric non esitò: si sporse e poggiò le labbra sulle sue, lasciò che si schiudessero e che la sua lingua scivolasse nella sua bocca.
La morsa sul suo collo si allentò e fu lui ad afferrare il collo pallido di Adam, e a spingerlo contro il tronco.
Continuò a lambire le sue labbra con rabbia e disperazione. Finché non sentì le sue mani spingerlo via.
Ricadde violentemente a terra e lo udì tossire più volte.
Sollevò il capo e lo vide piegato sulle sue stesse ginocchia mentre continuava a tossire coprendosi la bocca con il palmo. Dense gocce di sangue presero a colare dalle sue dita.
Si sedette con affanno sull'erba, chiedendosi perché non fosse ancora corso ad afferrare il paletto celato nel manico della sua ascia,conficcata a pochi metri; chiedendosi perché stesse provando quella strana sensazione allo stomaco mentre lo guardava tossire senza tregua. Eric si chiese se la morte di Adam avesse davvero significato una fine.
Cos'è la fine se non un diverso inizio?
«Che mossa sleale...» Furono le prime parole che gli sentì sospirare. Adam spostò la sua mano e mostro le labbra e il mento sporco di sangue, i suoi occhi chiari freddi come ghiaccio. «Degna di Victor.»
Fu Adam a rimettersi in piedi per primo, non senza mostrare una certa difficoltà. Non si curò di pulire il viso, non si curò di pulire le sue dita che pendevano ancora umide ai suoi fianchi.
Eric si rialzò velocemente e in quel momento capì che l'aver esitato lo aveva condannato.
E pensare che era stato proprio Adam, quella lontana notte, a riprenderlo per quella debolezza.
«Ma poche gocce del tuo sangue, Cacciatore, non possono nulla.»
L'immagine che aveva di fronte era così diversa dal solito, così lontana da come aveva imparato a conoscerlo. Non c'era l'algido uomo che lo aveva affrontato più volte, che lo aveva torturato nei suoi giorni e nelle sue notti. Le sue dita non erano le stesse che danzavano agili sui tasti di uno strumento. Ora, mentre Adam gli puntava contro l'indice sporco di sangue, Eric pensò che sembravano più gli artigli di una fiera, i suoi occhi quelli di un rapace; i suoi denti, zanne pronte a dilaniare e divorare.
Solo adesso, Adam era il mostro, la bestia che aveva sempre creduto ed Eric, stranamente, non ne ebbe timore.
«Avanti, allora. Che aspetti?» lo incitò, conscio di quanto di lì a poco se ne sarebbe pentito.
Ma Adam non attaccò. Adam abbassò il braccio e sciolse il suo mantello nero che cadde alle sue spalle senza far rumore. Si sfilò anche la giacca rossa e la gettò a terra senza smettere di guardarlo.
Eric deglutì una certa inquietudine guardando le sue dita macchiare la candida camicia mentre ne scioglievano i piccoli nastri che la tenevano unita. Quando la stoffa fu slegata, i suoi occhi scrutarono la pallida striscia di pelle che si intravedeva al centro.
«Cosa credi di fare?» Non si chiese se fosse trapelata la sua agitazione, la sua inquietudine per quei gesti che non capiva. Quando Adam fece scivolare via dalle spalle anche la camicia restando con il dorso nudo sotto i suoi occhi, Eric non si chiese se fosse riuscito a leggere ciò che li stava attraversando.
«Ti mostro quanto tu sia simile a tuo padre, Eric.»
«Cosa-?»
Non terminò la domanda, perché Adam si voltò mostrandogli la schiena e a quel punto Eric vide una profonda cicatrice che l‘attraversava diagonalmente, dal fianco sinistro alla spalla destra.
Sembrava la ferita di una spada ma più che l'arma, ciò che gli fece galoppare forte il cuore, fu capire a chi apparteneva il braccio che l'aveva inflitta.
«Mio padre...» sospirò debolmente.
«Quella mattina sulle sponde del lago. C'eri anche tu.» Adam si voltò nuovamente ma non raccolse i suoi abiti da terra. «Fra le lacrime, mi chiese di risparmiarti e io lo feci. Risparmiai la vita di quel bambino.»
Eric lo ascoltò in silenzio mentre lo vedeva avanzare verso di lui.
«Ma decisi di risparmiare anche la sua. Mi voltai e andai via e a quel punto, mentre ero di spalle, come un vigliacco, mi colpì.»
Il respiro crebbe quando gli fu di fronte.
«Stavo per ucciderlo, stavo per prendermi la sua vita, e lo sai cosa mi disse mentre tenevo il suo collo in questa mano?... “Un giorno mio figlio completerà l'opera.”»
Le labbra di Adam sorrisero fra il sangue che ancora le tingeva.
«Avrei dovuto uccidere lui e uccidere te, ma decisi di non farlo. “D'accordo, Victor” gli dissi. “Fa' solo che ne sia all'altezza.” Tu a quel punto mi guardasti. Tremavi e piangevi, e pensai che non ne saresti mai stato in grado.»
Eric sentì le dita di Adam afferragli i capelli prima che le sue labbra sanguinanti fossero sulle sue e stavolta il sapore del sangue che invase la sua bocca, era quello di Adam.
«Vuoi chiedermi la stessa cosa, Eric?» gli chiese poi con un fiato che arse la sua carne. «Vuoi che risparmi il figlio che ancora non hai tenuto fra le braccia affinché porti a compimento ciò che hai fallito tu?» Fu ancora un bacio, rabbioso e umido.
«Io non fallirò» ansimò sentendosi sbattere contro il tronco. «Non fallirò.»
Di nuovo le sue labbra, di nuovo il sangue sulla sua lingua.
Eric fece scivolare le mani sulla sua schiena e sentì sotto le dita la profonda cicatrice che la dilaniava.
Poi furono le mani di Adam a vagare sul suo corpo, a lacerare la sua casacca con un gesto deciso, a strappare via la sua cintura di cuoio e a premere contro il suo corpo.
Sentì il fiato mancare e il cuore distruggersi in mille battiti mentre il peccato che aveva consumato numerose volte sotto quello stesso faggio sembrava impallidire di fronte a ciò che stava vivendo in quel momento.
Le dita di Adam lasciarono striature rosse lungo la sua pelle, le sue labbra bruciarono ogni volta che toccavano le sue.
Il suo viso fu graffiato dalla corteccia quando si ritrovò premuto contro il legno.
Non seppe dire se urlò, se pianse, se gemette soltanto; mentre Adam lo uccideva nuovamente e mentre Eric, sapeva, lo stava uccidendo a sua volta.
Sotto una luna sfumata e il freddo dell'ultimo autunno, fra le coperte delle fronde di un faggio, morirono entrambi.
Non ci sarebbe mai stata alcuna vittoria, per nessuno.



*



Poi fu silenzio, fu vento, fu freddo, poi fu di nuovo solitudine.
Eric non si voltò per vederlo andare via. Alzò solo lo sguardo verso la sua casa: dalla finestra non veniva più alcuna luce.
La candela si era consumata tutta.












***













NdA.
Il prossimo sarà l'ultimo.
Grazie per aver letto e seguito questa storia con affetto. Mi ha appassionato più del previsto e, non avrei creduto di poterlo dire, la concludo con una certa tristezza.
Mi scuso se ho aggiornato a cadenze così irregolari, ma come già detto in precedenza, è una storia che riuscivo a scrivere solo con un certo stato d'animo.
Ringrazio ognuno di voi per il tempo dedicato a queste parole, e un abbraccio a chi a lasciato un commento con cui coccolare un po' la piccola fanwriter che vivacchia nella mia anima ^^
Ho altri progetti targati Hiddlesworth, ma per adesso, terminata questa storia, mi prenderò una piccola pausa dalla RPS. Ho monopolizzato il fandom anche per troppo tempo u///u
È stato piacevolissimo condividere con voi le emozioni che mi scatenano questi due figlioli.
Alla prossima avventura ❤
Kiss kiss Chiara

P.S. Anche la sonata di Adam, presente in questo capitolo, appartiene al caro Scarlatti ed è la “Sonata in D minor, K. 141.”
Se vi andasse di ascoltarla, questa è la meravigliosa esecuzione di Jean Rondeau. Buon ascolto.

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Capitolo 5
*** Il destino del Cacciatore ***


cap5 NdA.
Stavolta vi rubo qualche secondo prima e poi vi lascio a questo ultimo capitolo.
Ha faticato un po' a venir fuori e vi chiedo davvero scusa per questa infinita attesa. È anche un periodo parecchio down per me su molti aspetti e sono conscia che non è un granché come finale, ma a un anno esatto dal primo ho voluto comunque chiudere il ciclo ^^
Grazie a chiunque mi abbia fatto compagnia.
Se c'è ancora qualcuno in ascolto, vi auguro un Buon Halloween e buona lettura.
Kiss kiss Chiara



A story ever told





V. Il destino del Cacciatore





Eric iniziò a scrivere un diario.
Una mattina, mentre passeggiava con le sue prede legate alla cintola, vide un piccolo diario con la copertina scarlatta come sangue; gli costò tutta la sua selvaggina, ma lo prese senza alcun'esitazione.
Giunse a casa.
Sarah riposava sulla seggiola di legno, con il fuoco che ardeva povero nella brace e i ferri della maglia poggiati sulle ginocchia, e con la sua pancia tonda che sporgeva dolcemente dalle sue vesti. Eric si sedette al tavolo, senza far rumore, e scrisse la sua prima parola su quelle pagine vergini.
Scrisse il suo nome: Adam.


*


Charles voleva che si trasferissero in città, voleva che Eric portasse sua figlia in un luogo meno isolato e deprimente, usò queste due precise espressioni.
«Se è ciò che Sarah vuole» rispose Eric, bevendo una sorsata di birra dal boccale.
Charles gli puntò contro il suo grosso indice e lo guardò con quegli occhi neri, duri e severi.
«Non mi sei mai piaciuto, e mai mi piacerai, ragazzo, ma stai per diventare il padre di mio nipote perciò meglio che inizi a comportarti con responsabilità.» Lo ammonì per poi passare il panno umido sul bancone. «Trovati un lavoro che ti assicuri un piatto sulla tavola ogni giorno, perché se mia figlia è stata felice di fare la fame con te, non lascerò che mio nipote viva allo stesso modo. Chiaro?»
Eric annuì e trattenne un sospiro stanco. Poi la porta della locanda si aprì e Charles guardò infastidito l'uomo appena entrato.
«E smettila di frequentare quel prete... le preghiere non ti riempiono lo stomaco.»
Lo udì borbottare ancora e allontanarsi non appena Cornelius si sedette accanto a lui.
«Buondì, Charles.» Al suo saluto gentile, non ci fu alcuna risposta.
«Ignoralo, oggi ha la luna storta... tanto per cambiare.» Gli spiegò finendo la sua birra e poggiando il boccale sul bancone. Si voltò a guardarlo e vide un sorriso troppo luminoso disegnato sul suo viso. «Cos'è quella faccia? Ti hanno forse eletto Papa?» Lo prese in giro mentre si alzava dallo sgabello.
«Nulla di particolare. Sono solo allegro,» rispose Cornelius seguendolo verso l'uscita.
«Buon per te.»
Ad accoglierli il freddo pungente dell'inverno, il cielo bianco e l'aria che profumava di neve.
Eric si strinse nella sua casacca mentre Cornelius sollevava il cappuccio del suo mantello marrone.
«Ti sono venuto a cercare a casa ma non ti ho trovato, e Sarah mi ha detto che probabilmente eri qui.»
Eric sospirò.
«Charles vuole che ci trasferissimo qui al villaggio.» Lo informò con tono privo di colore.
«Non mi pare per nulla un'idea malvagia, Eric. Ormai manca poco al termine della gravidanza di Sarah e sarebbe di certo più di aiuto essere accanto alle sue sorelle. Per non parlare della facilità con cui potrebbe procurarsi ogni bene necessario per allevare il nascituro.»
Non perse neanche tempo a obiettare. Cornelius era nella ragione, ma Eric non sopportava la vita del villaggio, troppa confusione, troppo rumore... Troppi occhi.
Era sempre stato un tipo solitario, amava la tranquillità della sua dimora. Per questo amava essere un cacciatore, per poter essere in solitudine con la sua preda, seguirla, studiarla e poi stanarla senza necessità di altro fuorché della sua arma.
L'unica caccia che aveva accettato di condividere era quella notturna perché Cornelius era un fratello, non un semplice compagno.
Mentre Sarah diveniva ogni giorno più bella e la sua pancia cresceva, Eric continuava a cacciare con Cornelius ogni notte, alle volte tornando prima dell'alba, altre, attendendo che il sole fosse alto. Sarah non gli chiedeva di esserle accanto, e se anche Cornelius insisteva spesse volte affinché il suo posto fosse di fianco il sua sposa, Eric preferiva restare con il suo paletto nella mano, con gli occhi fissi in quelli di un demone, con il suo sangue a sporcargli vestiti e pelle.
La sua vita di Mastro era rimasta apparentemente la medesima, eppure c'era qualcosa di profondamente diverso. Perché le notti in cui tornava a casa quando la luna era ancora alta, erano quelle in cui lo scorgeva ad attenderlo sotto il faggio; quelle in cui aspettava l'alba e poi il suo zenit, erano quelle in cui era Eric ad attenderlo.
E Cornelius non sapeva, nessuno sapeva, nessuno avrebbe mai saputo delle loro lotte, di tutte le volte che Eric tentava di affondare il paletto e di tutte quelle in cui lui glielo strappava dalle mani. Nessuno avrebbe mai saputo del sangue che scorreva sulla sua pelle, di quello che sporcava la pallida pelle di Adam, delle sconfitte, delle vittorie, dei baci e delle carezze, selvagge e rabbiose, intense e disperate. Nessuno avrebbe saputo della tentazione a cui Eric cedeva notte dopo notte, luna dopo luna, alba dopo alba.
«La vita del villaggio non è così male come credi, e poi sarà una buona occasione per frequentare le celebrazioni mattutine.»
Eric lo guardò con un sopracciglio sollevato e Cornelius rise colpevole. «Va bene... come soleva dire il saggio Padre Gregory: la fede non è un obbligo, ma una passione.»
«Mh... alquanto blasfemo» sottolineò divertito e Cornelius continuò a sorridere.
«Avere fede è un po' come essere innamorati. Ne hai un bisogno smodato, lo avverti nel cuore e nelle tue stesse vene. Lo brami, semplicemente... è passione, la più alta di ogni passione, quella che ti fa sentire realmente vivo.»
Eric ascoltò ogni parola con attenzione, guardò le labbra di Cornelius pronunciarle con intensità, con profonda convinzione.
«Come fai a sapere cosa si prova a essere innamorati?» gli chiese sinceramente incuriosito dal modo in cui ne parlava.
Cornelius non gli negò il suo sguardo seppure sembrò coprirsi di un sottile imbarazzo. Le sue guance pallide si arrossarono ulteriormente sotto il freddo del pomeriggio ma il sorriso non lasciò la sua bocca.
Non gli rispose, però, intanto che un piccolo fiocco di neve cadeva leggero sul suo naso. Poi ne cadde un altro ed Eric sollevò lo sguardo all'insù, verso il cielo da cui piovevano sempre più cristalli di neve.
«Meglio che torni in chiesa prima che inizino a giungere i bisognosi di riparo,» disse Cornelius stringendosi nel suo lungo mantello. «Ci vediamo stasera, Eric. Porterò un mantello anche per te.»
«Ti ho già detto che non lo indosserò!» gli rispose mentre lo vedeva allontanarsi con passo lesto.
Scosse poi il capo decidendo che era ormai tempo di rientrare. Con quel freddo non sarebbe stato possibile trovare alcuna preda da cacciare ed era meglio fare una buona scorta di legna. L'inverno di quell'anno sarebbe stato fra i più rigidi.
 

*


Spaccò decine e decine di ciocchi sotto la leggera nevicata. Diede vigore al fuoco e lasciò che la piccola cucina fosse abbracciata dal calore delle fiamme.
Sarah stava tagliando della verdura e gli sorrideva, in silenzio, ascoltando lo scoppiettare della legna. Eric si sedette al tavolo ad appuntare qualche paletto.
«Tuo padre vuole che andiamo a vivere al villaggio.»
La notizia non la sorprese.
«Anche Catherine mi ha chiesto lo stesso. Dice che quando il bambino nascerà sarebbe saggio che crescesse con i suoi cugini.»
Eric l'ascoltò e poggiò il paletto appena finito accanto agli altri. Prese l'altro pezzo grezzo di frassino e fece scorrere la lama sulla corteccia.
«Se vuoi andare a viverci per me va bene» affermò controllando l'angolazione del taglio. «Mi basta saperti felice.» Intento com'era nel suo lavoro non si accorse del silenzio di Sarah, dei suoi occhi che lo guardavano, delle domande che avrebbe voluto fargli ma che gli tacque. «Stasera potrebbe arrivare una bufera,» disse poi, soffiando via piccoli riccioli di legno. «Sigillerò tutte le imposte, così non dovrai temere il vento.»
«Potresti restare...» alle sue parole, Eric sollevò lo sguardo sul viso della sua sposa. «Non sei obbligato ad andare.»
Era una richiesta, chiara come il bruciare di quelle fiamme.
«Cercherò di tornare prima.»
Non poté dirle di sì. Non volle farlo.


*


Il freddo, come aveva scoperto da tempo, era un limite non solo per un uomo ma anche per uno di quei demoni, per il semplice motivo che non avevano possibilità di trovane nessuno di cui cibarsi.
Tutti erano al sicuro nelle loro case i gli sfortunati che affrontavano la notte gelida finivano con l'essere vinti dal freddo ancora prima che dai canini di quelle bestie.
Con la neve fra i capelli e le dita delle mani nascoste da pesanti guanti, Eric e Cornelius si aggiravano in solitudine per i boschi, fra i nudi alberi che si stagliavano nel bianco della neve come anime smarrite.
Incontrarono pochi demoni, tutti finirono per ricadere privi di vita sul manto candido a sporcarlo con il loro sangue maledetto.
«Sarà bene rientrare, mio buon amico» suggerì Cornelius stringendosi nel suo mantello. «Una bufera incombe. Sarebbe un rischio sciocco continuare ad avventurarci per queste fredde terre.»
Il vento aumentò ferendo il viso dei due come fosse fatto di lame affilate.
Eric si poggiò a un tronco per non perdere l'equilibrio.
«Va bene» disse con voce alta per vincere il frastuono delle raffiche. «Torniamo.»
Ma proprio quando avevano deciso di metter fine a quella battuta di caccia, furono attaccati da sei esseri della notte.
La sorpresa e la difficoltà dovuta al tempo pesarono pericolosamente sui loro movimenti e con fatica Eric riuscì ad abbatterne due mentre Cornelius ne affrontava altri.
Corse a dargli man forte e dopo una dura lotta rimasero due contro uno.
Cornelius teneva puntata la sua balestra con la fronte sanguinante ma con mani ferme. Eric strinse il suo paletto e fece un passo verso di lui.
L'essere indietreggiava con occhi folli, mentre osservava visibilmente terrorizzato il resto dei suoi simili completamente immobili al suolo.
Eric guardò verso Cornelius facendogli segno di colpirlo e il dardo partì.


*


Cornelius aveva preso il sentiero che portava al villaggio per raggiungere la sua chiesta. Eric risaliva il colle per far ritorno alla sua piccola casa.
Il vento sferzava violento, i piedi affondavano nel manto sempre più profondo di neve e lui si coprì gli occhi con una mano per non essere accecato dal cadere dei cristalli.
Poi fu un attimo, veloce tanto da non essere quasi percepito.
Eric si ritrovò con le spalle sulla neve e una lama puntata alla sua gola.
«Un po' troppo freddo per i miei gusti» sibilò Adam premendo il taglio sulla pelle ed Eric si umettò le labbra screpolate dal gelo. Guardò i suoi capelli neri confusi dal vento, il lungo mantello che si muoveva alle sue spalle, i suoi occhi che lo divoravano.
Con un movimento lesto, che Adam semplicemente seguì, ribaltò le posizioni e puntò lui il paletto d'argento al suo petto schiacciandolo contro il manto bianco.
Adam sorrise.
Eric si ritrovò nuovamente a finire con le spalle a terra ma stavolta non c'era la neve, non c'era il vento, né la notte gelida. Lenzuola di seta sotto di lui, la luce calda dell'enorme camino di Adam, il calore del suo corpo contro il suo.
Erano nella sua dimora, che ancora ignorava dove fosse.
Come accadeva spesso la lotta fu presto dimenticata, la lama e l'argento caddero al suolo, sul tappeto, senza far rumore.
E così fecero i vestiti e ogni pensiero morale.
Dimenticato Bene e Male, Giusto e Sbagliato, Eric lasciò che le mani di Adam sfiorassero il suo corpo, che le labbra lambissero ogni angolo di pelle, mentre Adam, sotto di lui, si lasciava  prendere.
Eric credeva di non aver mai conosciuto la passione prima, di non aver mai davvero saputo cosa fosse il desiderio e la brama se non dopo che i loro corpi si erano uniti, più volte in più occasioni, nella più alta di ogni perversione.
Ed Eric era creta fra le mani di Adam, lo piegava e modellava secondo la sua volontà, e lui non poteva opporsi. Mai...
Era divenuta una condanna.


*


Guardava il soffitto. Ombre tetre danzavano come anime maledette. Forse lo erano.
«La tua sposa è ormai prossima al parto.»
Eric odiava che parlasse di lei, odiava sentire il suo nome sulle sue labbra, odiava quello sguardo vacuo negli occhi.
«Forse dovresti tornare da lei...»
Adam riusciva a schiacciarlo con una semplice occhiata, con una sola parola, con la sua stessa presenza. Ed Eric non sapeva ribellarsi.
Se suo padre lo avesse visto ora, se Cornelius avesse mai saputo, se Sarah...
Si tirò a sedere e si rivestì con gesti rapidi. Raccolse il paletto da terra e lo strinse nella mano.
Con un movimento veloce si volse e cercò il petto di Adam per affondarlo, ma finì con il colpire solo il materasso vuoto.
Lo cercò con gli occhi. Era lì.
Ma un bracciò gli cinse la gola con forza smorzandogli il respiro.
«Mi chiedo se usi con lei la stessa gentilezza, Cacciatore» sussurrò Adam al suo orecchio stringendo più forte il braccio. Eric provò a divincolarsi senza successo. «Mi chiedo se l'hai mai riservata anche al figlio di Marcus.»
«Malede-tt-o.» Non aveva respiro, né forze.
Sentiva le pulsazioni battere con violenza e poi rallentare. Stava soffocando.
Un attimo prima di perdere i sensi, Adam lo lasciò andare ed Eric cadde con le ginocchia sul tappeto iniziando a tossire forte.
«Ti sei ammorbidito, se diventato più debole di prima» affermò con gelo Adam alle sue spalle. «Forse dovrei darti qualche motivazione per impegnarti di più nella nostra lotta.»
«Lurido mostro» ringhiò a fatica Eric cercando un equilibrio per rialzarsi.
Era quella la loro lotta: svilirsi, ferirsi, umiliarsi e consumarsi a vicenda.
Chi avrebbe mai potuto vincere?
Provò ad attaccarlo ancora, provò a difendersi. Venne colpito ma riuscì a sfiorargli la guancia con la sua stessa lama che aveva raccolto dal pavimento.
Adam si pulì il sangue con il dorso della mano e scosse il capo.
«Lento, Eric... troppo lento» sibilò leccando via il suo stesso sangue prima di schiacciarlo con le spalle al letto.
I polsi bloccati, le sue labbra rosse a un soffio dalle sue.
«La prossima volta che ci rivedremo, Mastro, ti strapperò il cuore dal petto.»
«Sarai troppo morto per farlo» ribatté lui con rabbia.
Adam gli sorrise e lo baciò.
«Vedrai che l'inferno ti piacerà.»
E con quelle parole nelle orecchie Eric si ritrovò sulla neve, sotto lo schiaffò gelido del vento.
Si ritrovò solo, con la compagnia di una semplice convinzione: non lo avrebbe rivisto per un bel po'.


*


Sentiva le sue grida, la voce di Catherine che la incitava a continuare a spingere.
Eric passeggiò davanti al focolare graffiandosi le dita con le unghie e guardando quella porta di legno con una profonda angoscia.
«Calmati, Eric» gli consigliò Cornelius mentre gli allungava un boccale con qualcosa di caldo. «È una tisana che ti aiuterà a distendere i nervi.»
«Bevila tu.» La allontanò disgustato dal semplice odore.
Non aveva mai provato quella sensazione nello stomaco, era un misto di paura, trepidazione, ansia, euforia, terrore. Sembrava che quell'ammasso di emozioni così diverse potessero ucciderlo.
«Sta andando tutto bene. Sarah è forte.» Cornelius gli strinse una spalla e gli sorrise ed Eric cercò di aggrapparsi a quelle parole come un naufrago prossimo ad annegare.
Poi lo udì, una voce più forte di ogni altra, un vagito che sembrò il ruggito di un leone e il suo cuore si fermò.
Secondi trascorsero, minuti, ore, secoli. Sembrò eterno quel lasso di tempo prima che Catherine uscisse dalla porta, con uno straccio logoro di sangue fra le mani e il viso sudato, ma sorrideva.
«È un maschio, Eric» disse aprendo un po' di più la porta. «Entra pure.»
Ma Eric non riuscì a entrare. Guardò quella penombra, udì la voce dolce di Sarah, udì altri piccoli vagiti e si coprì gli occhi con una mano.
Cornelius gli avvolse un braccio attorno alle spalle e lo scosse con vigore.
Ed Eric pianse come il suo stesso bambino. Pianse di altre mille emozioni diverse, più intesa di tutte, pianse per terrore.
Un maschio, il figlio di un Cacciatore. Un'altra vita dannata.
Non lo avrebbe permesso.


*


Sarah riposava. Era stata forte; la sua Sarah era forte come nessun'altra donna al mondo.
Eric la guardava dormire con il viso sereno e bello, e poi guardava Cornelius che cullava fra le braccia un fagottino, che ondeggiava in maniera ridicola canticchiando una ninnananna in latino.
«Smettila, così lo farai piangere di nuovo» brontolò seduto al tavolo, bevendo un sorso di birra.
Cornelius sorrise tenendo lo sguardo sul piccolo nato.
«È bellissimo, Eric. Il bambino più bello e dolce che abbia mai visto» disse e gli baciò la fronte rosea.
Eric sentì un calore profondo nel modo in cui Cornelius teneva suo figlio, con una tale premura, un tale affetto. Cornelius sarebbe stato un buon padre, avrebbe saputo amarlo come meritava.
Lui ci sarebbe riuscito?
Non era riuscito neanche ad amare sua moglie davvero, non era riuscito ad amare la sua missione.
A volte si convinceva di essere arido e sterile come quella neve che sentiva vicina. Freddo, inospitale, silenzioso... solo.
«Devi dargli un nome. Va battezzato quanto prima.»
Sospirò guardando le lingue di fuoco salire alte nella brace.
«Un nome...» bisbigliò sentendosi lontano con il pensiero e il cuore.
«Puoi chiamarlo come tuo padre: Victor.»
Si voltò immediatamente verso Cornelius.
Suo padre, di cui aveva conosciuto solo silenzi e segreti, di cui aveva ignorato per anni un'intera vita?
Suo padre, che amava e odiava in egual misura.
Scosse il capo senza dire nulla e Cornelius non indugiò.
«Allora come lo vuoi chiamare?» gli chiese.
«Sceglilo tu» disse bevendo la sua birra ormai calda con un solo sorso. «Dagli tu un nome che lo protegga o... qualsiasi altra stupidaggine voi preti professiate.»
Volle sembrare indifferente ma Cornelius capì cosa batteva nel profondo del suo cuore.
Sorrise e guardò ancora il bambino addormentato fra le sue braccia.
«Christopher» sospirò. «Colui che porta Cristo nel cuore.» Poi sollevò lo sguardo nel suo. «Esiste anche una storia, sai? Si dice che in tempi antichi esistesse un uomo con mille abilità che era alla ricerca di un principe da servire, ma voleva che costui fosse un uomo forte che meritasse i suoi servigi. Così udì parlare del Diavolo e di quanto potente fosse e decise di andare da lui, ma poi scoprì che il Diavolo fuggiva sempre quando si trovava davanti a una croce e capì che non era lui l'essere più forte, ma colui che giaceva sofferente inchiodato alle assi di legno. Iniziò allora la sua ricerca di Cristo ma mentre camminava scorse un fanciullo sulle rive di un fiume, senza forze per attraversarlo, che gli chiese aiuto. Christopher lo mise sulle spalle e lo condusse dall'altra parte. Il fanciullo lo ringraziò e gli chiese dove fosse diretto. “Cerco Cristo” rispose Christopher e il fanciullo gli disse: “Soccorri tutti colori che ti chiederanno aiuto durante il tuo cammino. Allora troverai Cristo.” Così Christopher si mise in viaggio seguendo le parole del fanciullo. Nella sua strada incontrò molti uomini sofferenti e feriti e usò le sue mille abilità per aiutarli. Compì così molte opere buone anche se sembrava non riuscire mai a trovare Cristo in persona. Un dì, rammaricato per la sua infruttuosa ricerca, si sedette sulle rive di un fiume chiedendosi se esistesse davvero questo Essere che stava cercando ormai da tutta la vita. E mentre i dubbi lo assalivano gli si avvicinò un fanciullo, lo stesso che aveva aiutato ad attraversare il fiume ormai molti anni prima. “Perché ti sei fermato?” gli chiese e Christopher rispose: “Perché volevo trovare Cristo per servirlo, ma non ho ancora potuto farlo, e ormai sono vecchio e stanco.” Il fanciullo gli mise una mano sulla spalla e gli disse: “Eppure lo hai servito tante volte nel tuo cammino. Ogni volta che hai aiutato chi ne aveva bisogno, ogni volta che hai alleviato le sofferenze di un uomo, ogni volta che hai risposto alla richiesta d'aiuto di un bambino.” Christopher capì così che quello stesso fanciullo era Cristo e comprese finalmente quale fosse il suo vero insegnamento.»
Eric aveva ascoltato la storia in silenzio, cercando di comprendere, percependo la luce negli occhi e nelle parole di Cornelius e capì quanto forte era la sua fede. Ed era qualcosa che Eric non avrebbe mai conosciuto.
«Così vuoi dare a mio figlio il nome di un tizio che si è fatto abbindolare da un bambino?» Ma sorrideva mentre lo diceva e Cornelius gli perdonò la sua irriverenza. 
«Allora, ti piace?» gli chiese e lui sollevò le spalle.
«Sì,» rispose. «Almeno è meno ridicolo di Cornelius.»
E lo udì ridere.


*


Stavano ritornando dalla locanda. Avevano brindato, bevuto e fatto infuriare Charles. Era stata una bella serata.
Eric, alquanto alticcio, ascoltava una delle tante parabole di Cornelius che trovava più ridicole che profonde.
«Tramutare l'acqua in vino?» chiese ridendo e Cornelius lo guardò con rimprovero.
«Nostro Signore può questo e altro» affermò poggiandosi al muro per non inciampare. Eric lo affiancò prendendo un braccio e legandoselo alle spalle.
«Ti riaccompagno in chiesa» suggerì notando il suo amico eccessivamente ubriaco.
«Nostro Signore te ne sarà grato» rispose Cornelius poggiando completamente il peso contro il suo corpo.
«Sì, come no...»
Lo trascinò fino al grande portone sperando di non incrociare qualche altro prete in vena di spargere richiami e consigli non richiesti.
La chiesa era vuota, illuminata solo da troppe candele.
Eric evitava di andarci, gli portava alla mente troppi ricordi che voleva seppellire.
Adam non si era più fatto vivo. Avrebbe dovuto essere un bene, invece aveva solo aumentato le paure di Eric che sapeva che quando lo avrebbe rivisto forse sarebbe stata la loro ultima lotta. E adesso c'era Christopher e lo avrebbe protetto a ogni costo.
«Eric, aspetta» disse poi Cornelius arrestando il passo e sottraendosi al suo sostegno.
«Dove vai?» gli chiese lui vedendolo barcollare in direzione di un armadietto.
«Devo prendere le chiavi della mia cella» rispose facendo fin troppo baccano con tutte le cianfrusaglie di quell'armadio. «Non l'ho portata con me perché avrei potuto perderla. Sai, quando bevo non sono più molto responsabile»
«Non mi dire» brontolò Eric sorridendo però per il modo goffo con cui Cornelius cercava di chiudere l'anta. Andò così ad aiutarlo e vide la chiave scintillare nel suo palmo. Almeno l'aveva trovata. Adesso non restava che-
«Buona sera, padre.»
La voce, quella voce.
No...
Si voltò con timore e scorse la sua figura.
No, no, non poteva. Non doveva!
«Buonasera» annaspò Cornelius ignaro di chi fosse l'uomo a cui stava sorridendo.
«Troppo tardi per una confessione?» chiese quest'ultimo con beffa ed Eric allungò il braccio per impedire a Cornelius di fare anche solo un passo avanti.
«Vattene da qui» gli intimò. «Scappa!»
«Ma che-»
«Vattene, Cornelius!» urlò ancora finendo con il confonderlo di più.
«Oh, perché dovrebbe?» ribadì Adam liberandosi del suo lungo mantello che cadde a terra. «È arrivata l'ora delle presentazioni. Non credi, Eric?»
Poi fu una saetta. Si ritrovò gettato contro i banchi di legno e vide il collo di Cornelius stretto nella mano di quel mostro.
No, no, no!
«Fermati!» urlò più con disperazione che con vera minaccia. «Lascialo stare!»
Cornelius soffriva nella sua morsa e provava inutilmente a liberarsi. Adam non pareva aver intenzione di lasciarlo andare ed Eric comprese solo allora il suo sbaglio. Avrebbe dovuto ucciderlo quando ne aveva avuto occasione, quella notte sotto il faggio e le decine di volte nella sua dimora, mentre era assopito al suo fianco. Doveva profittare del suo piacere per colpirlo, della sua perversione per vincerlo. Invece si era lasciato trascinare nel suo vortice ed era stato lui a lasciarsi vincere.
«Ti prego...» ingoiò il suo orgoglio e lo supplicò. Solo allora Adam lo guardò e nei suoi occhi Eric non riuscì a leggere nulla. Freddi e distanti come sempre.
Aprì la mano e Cornelius cadde al suolo privo di sensi ma ancora vivo.
«Sei patetico, Eric. Tu e il tuo illuderti di salvarli» disse Adam avvicinandosi a lui. «Non puoi difenderli, non puoi salvarli da me. Io posso prendere le loro vite, posso prendere la vita di tua moglie, del tuo fratello di caccia, perfino di tuo figlio.»
«Non oserai!» Lo fronteggiò con un coraggio ridicolo, con una forza inesistenze. Perché Adam aveva ragione, se avesse voluto avrebbe ucciso tutti coloro che amava, gli avrebbe preso tutto e lo avrebbe distrutto.
E allora perché non lo faceva? Perché continuava quella perversa lotta se sapeva bene che solo uno di loro avrebbe potuto vincerla?
Perché Eric glielo permetteva?
«Potevi essere il più grande Mastro che avesse mai messo piede su questa Terra, Eric. Potevi essere colui che avrebbe messo fine alla mia vita e invece... guardati.» Stavolta gli occhi di Adam lasciarono andare qualcosa, delusione, biasimo, disgusto.
«Cosa vuoi da me?» gli chiese Eric. «Cos'altro vuoi da me che tu non abbia già preso, maledetto essere degli inferi?!» Ma Adam non gli rispose, gli diede le spalle e recuperò il suo mantello. «Avevi detto che mi avesti strappato il cuore dal petto! Allora fallo, avanti!» Eric aprì le braccia e lasciò che la disperazione e la paura avessero la meglio.
Non avrebbe mai vinto, non avrebbe mai affondato quel paletto, non ne aveva forza né convinzione.
Patetico, vigliacco.
Adam non lo degnò di una risposta neanche allora. Si avviò alla porta, con passi lenti e solo allora lo guardò.
«È incredibile quanto tu sia sciocco, Eric» disse soltanto prima di sparire.


*


Cornelius riprese i sensi dopo qualche ora.
Eric sedeva al suo fianco e gli tergeva la fronte con un panno umido.
«Eric? Cosa è successo? Dove-»
«Riposa» comandò guardando i suoi occhi lucidi e i segni violacei attorno al suo collo. Fu costretto a distogliere lo sguardo. «Io devo tornare da Sarah e-»
Quando provò ad alzarsi Cornelius lo fermò per un polso.
«Chi era?» gli chiese ed Eric, che fino a quel momento aveva sperato non lo ricordasse, fu costretto a cedere.
«Qualcuno da cui dovrai stare alla larga» rispose.
«Era un Sire, non è così?» Non rispose e Cornelius ebbe la conferma. «Oh, Eric, quando pensavi di dirmelo? Credi che...» una smorfia sofferente piegò il suo viso quando provò a sedersi. Eric non cercò neanche di farlo desistere. Lo aiutò a poggiarsi con le spalle al muro e si lasciò guardare e accusare.
«Da quando?» chiese ancora.
«Da un po'» rispose Eric. Da troppo.
«E lo hai sempre affrontato da solo... Perché, Eric? Non ricordi più cosa vuol dire essere Cacciatori? Insieme, fratello mio, solo insieme possiamo vincere.»
Cornelius gli prese una mano e la strinse forte.
Eric si sentì crollare sotto tanta fiducia, sotto tanto affetto, sotto tutte le sporche menzogne che avrebbe dovuto riservargli.
«Volevo proteggerti. Volevo proteggere tutti voi» si giustificò, combattendo la voglia di gettarsi a terra e chiedergli perdono per la sua debolezza.
Cornelius gli sorrise con gentilezza. «Grazie per ogni tuo sacrificio, Eric. Adesso non devi farne più.»
Eric si sentì morire dentro ancora un po'.


*


Christopher aveva da poco compiuto un anno, gattonava sul pavimento con qualche ciuffetto nero di capelli sulla testa e faceva strani brontolii privi di senso.
Eric lo guardava crescere giorno dopo giorno, sorridente e forte, e guardava Cornelius giocare con lui e riempirlo di doni e parole. Guardava la sua casa sempre più in disordine, guardava le sue mani sempre più spaccate, guardava Sarah sempre più debole.
«Faccio io.» Le tolse le stoviglie dalle mani e le poggiò nel tinello. Sarah non disse nulla, barcollò fino alla sedia e si accasciò con un sospiro.
Stava male, da qualche mese, e non sembrava esserci cura.
Cornelius raccolse Christopher dal pavimento e lo accompagnò nella sua piccola cesta di vimini cantandogli una canzoncina per farlo addormentare.
«Forse avrebbe dovuto sposarsi» sospirò Sarah guardandoli ed Eric le si avvicinò sedendosi al suo fianco. Aveva occhi tristi e distanti. «Avrebbe dovuto avere dei figli, una famiglia... sarebbe stato un buon marito e un buon padre.»
Le prese la mano e l'accarezzò con dolcezza, con colpa.
«Avresti meritato qualcuno come lui e non...»
Ma Sarah gli sorrise e scosse la testa. I suoi capelli bruni erano spenti, il suo viso magro e pallido, eppure il suo sorriso sempre bellissimo.
«Sono felice di averti sposato, Eric. Felice della vita che abbiamo condiviso. Non rimpiango nulla.»
Eric abbassò lo sguardo sentendo gli occhi bruciare e non riuscì a trattenere le lacrime.
«Perdonami per il male che ti ho fatto, amore mio» sospirò baciandole la mano con le labbra salate di lacrime. «Perdonami per le mie mancanze, per ogni parola ingiusta, per tutto ciò che ti ha fatto soffrire.»
Sarah lo abbracciò ed Eric si sentì caldo fra le sue braccia da cui era sfuggito tante volte, quelle braccia che non aveva mai meritato davvero, quell'amore a cui non aveva saputo dar valore.
«Prenditi cura di lui, fallo crescere sano e colto e lontano da questo male, Eric. Promettimi solo questo.»
«Sulla mia vita. Te lo giuro sulla mia vita.»
E anche Sarah lasciò andare una lacrima.


*


Sarah morì quando Christopher neanche si reggeva sulle sue gambe.
Cornelius celebrò il suo funerale con occhi lucidi e voce rotta. Poi, davanti alla sua lapide, pianse in ginocchio.
Eric stringeva fra le braccia il suo bambino che sorrideva cullato dalla sua innocenza.
Glielo aveva promesso.


*


«Non puoi essere serio?!»
«E invece lo sono.»
A terra vi erano corpi pronti a divenire cenere, il sole era lì per sorgere ed Eric aveva mani e abiti coperti di sangue. Cornelius lo guardò con occhi sgranati, lasciò andare a terra la balestra e corse ad afferrargli la giaccia con entrambe le mani.
«Quali stupidaggini stai farneticando, Eric?!» lo scosse quasi con violenza ed Eric volse lo sguardo lontano.
«È la cosa migliore» disse.
«Come potrebbe esserlo? Come potrebbe essere un bene allontanare tuo figlio per sempre?»
Sapeva che sarebbe stato difficile da accettare, che Cornelius avrebbe avuto da ridire sulla sua decisione, ma Eric non era disposto a tornare indietro.
Christopher aveva ormai cinque anni, stava imparando a leggere ed era sempre più curioso della vita. Eric voleva che suo figlio avesse quella vita, voleva che quella vita riservasse per lui solo luce e gioia. Nessuna delle sue ombre avrebbe dovuto offuscarlo, nessun segreto, nessun destino di sangue.
Aveva atteso anche troppo, aveva aspettato perché l'amore per quel bambino era incredibilmente forte, perché l'affetto per Cornelius aveva la stessa intensità.
Adam era sparito, Adam era divenuta una voce lontana, cupa, che però gli sospirava nelle orecchie tutte le notti e gli rimembrava chi fosse in realtà.
Eric non voleva che un dì Christopher lo scoprisse, che come lui si trovasse a pensare a un padre e considerarlo qualcuno che non aveva mai davvero conosciuto.
«Con te starà bene. Lo crescerai e lo educherai e ne fra un brav'uomo. Ne sono certo.»
Cornelius aveva occhi lucidi e labbra tremanti. Lo scosse ancora per la casacca.
«Basta, ti supplico, Eric. Non voglio udire altro» gli intimò lasciandolo andare. «Christopher ha te, e i suoi cugini, la sua famiglia. Loro posso amarlo e proteggerlo e-»
«Come possono proteggerlo da questo?» urlò a quel punto indicando ciò che li circondava, i cadaveri, il sangue, il tanfo di morte. «Tu puoi proteggerlo perché sai cosa affronterebbe. Tu puoi proteggerlo e salvarlo da tutto questo perché conosci a cosa lo condurrebbe.» Cornelius scuoteva il capo conscio di quanto gli stava chiedendo ed Eric era consapevole che per farlo avrebbe dovuto tradire i suoi voti e abbandonare la sua missione di Cacciatore, così come fece Victor ormai molti anni prima.
«Rifletti, Eric... è una scelta egoista!» lo aggredì Cornelius quasi pentendosi subito delle sue parole, ma Eric gli diede ragione.
«Lo è» affermò. «Ma non posso fare altrimenti, amico mio.» E a quel punto gli sorrise tristemente. «Sei stato la mia salvezza quella notte. Hai salvato la mia vita e con il tempo anche la mia anima. Mi hai donato la tua amicizia e i tuoi insegnamenti e mai ti sarò grato abbastanza, ma ora ti chiedo, fratello, fai lo stesso con mio figlio: salva la sua vita.»
Cornelius pianse coprendosi gli occhi, singhiozzando come un fanciullo ed Eric gli si avvicinò e attese che sollevasse lo sguardo. Il sole spuntava da dietro l'orizzonte, e illuminava le lacrime sulle sue guance.
«Non posso lasciarti solo...» sospirò asciugandosi inutilmente gli occhi. «Non voglio.»
«Completerò la mia missione e vi raggiungerò» promise una menzogna.
Cornelius quasi lo capì.
«Lo ucciderai? Quel sire?» chiese ed Eric annuì.
«Sì.»
Cornelius lo abbracciò, pianse ancora mentre il mattino li raggiungeva e mille ceneri salivano nel cielo. Cornelius si aggrappò alle sue spalle con forza, quasi fosse un addio.
Eric sapeva lo era.


*


Era un piccolo carretto con due cavalli. Pochi sacchi e molte cibarie per il lungo viaggio.
«Ti invierò una missiva quando saremo arrivati» disse Cornelius stringendo le redini.
Eric carezzò il cavallo e sorrise. Negli occhi di Cornelius c'era una richiesta, una supplica. Vieni con noi, lascia tutto e scappa con noi.
Non avrebbe mai potuto farlo.
«Padre,» Christopher si sporse dal carretto per abbracciarlo. Era bello, il suo bambino, aveva i capelli e gli occhi di sua madre. La sua dolcezza e il suo calore. «Raggiungici presto.»
Eric inghiottì un urlo e sorrise.
«Certo.»
Un'altra promessa, un'altra menzogna.


*


Le lettere di Cornelius parlavano di un'abazia, maestosa e protetta, in cui nessuno avrebbe mai osato cercarli.
Christopher lo chiamava zio, ma nelle notti più buie, arrivava a chiamarlo padre. Cornelius lo scriveva con profonda tristezza ma Eric ne era sollevato. Sapeva che adesso il suo bambino era al sicuro.
Non rispose mai a nessuna di quelle missive, ma le conservò tutte accanto al suo diario che invece continuava a riempire pagina dopo pagina. Scriveva di tutto, i suoi pensieri, le sue colpe, la sua rabbia. Scriveva della paura che provava ogni notte quando fra i mostri che affrontava non c'era mai il volto di Adam e allora si chiedeva dove fosse, se li stesse cercando, se avrebbe fatto loro del male. Scriveva di come la caccia adesso fosse più silenziosa, di come l'assenza di Cornelius facesse rabbuiare il suo animo.
Gli mancava, la sua compagnia e la sua voce, il suo sorriso. Gli mancavano le domande di Christopher, la sua allegria, il suo calore, il ricordo di Sarah che brillava nel fondo dei suoi occhi castani.
E così, dopo la caccia, dopo aver scritto una nuova pagina, Eric beveva, ogni volta un po' di più, ogni volta annegando un po' del vuoto che piegava il suo cuore.
Quella sera barcollò fino al camminò e gettò dell'acqua per spegnere la fiamma prima di coricarsi, ma mancò completamente il bersaglio bagnando solo il pavimento.
«Pessima mira.»
Era troppo ubriaco per sorprendersi, troppo stanco per spaventarsi.
Si voltò e Adam era lì, nella sua cucina, seduto al suo tavolo.
Ed era lo stesso di sempre, lo stesso uomo che aveva incrociato la prima volta al vicolo, lo stesso che aveva maledetto la sua vita, bello e letale come solo il male poteva essere.
Gli anni invece avevano pesato su Eric, adesso sembravano decenni quelli che li dividevano. Qualche filo d'argento fra i capelli, una fronte più aggrottata, un cuore più opaco.
Gli sorrise e si sedette a terra, sentendo la testa dolere.
«Vieni qui come un angelo della morte per portarmi via una volta per tutte?» ridacchiò poggiando la nuca al muro.
«Mh... l'alcol ti rende poetico, cacciatore» ribatté Adam sarcastico ed Eric rise senza allegria. «Ho visto tuo figlio, l'altro giorno.» Quelle parole lo gelarono. Il sorriso morì e così quasi ogni riflesso di ebbrezza.
«Tu!» ringhiò provando a rimettersi in piedi ma Adam si alzò dalla sedia e lo tenne seduto a terra piantandogli un piede sul petto.
«Non lo toccherò. Né lui né il tuo amato fratello di caccia» disse con voce cupa. Ed Eric non gli credette.
«E pensi che mi fidi delle parole di un mostro?» sbraitò scacciando via il piede con il braccio e strascinandosi con le spalle al muro rimettendosi in piedi.
Adam lo guardava a pochi centimetri con il viso perlaceo e i capelli nerissimi a circondarlo.
«Promisi lo stesso a Victor e mantenni la mia parola. Tu ne sei la prova.»
Suo padre, il suo mistero più grande.
«E perché lo faresti?» gli chiese e Adam finalmente piegò le labbra seppure fu un sorriso quasi gelido.
«La nostra lotta, Eric. È solo questo che mi importa» rispose e gli accarezzò il viso con quelle dita calde capaci di creare musiche meravigliose.
«Sarai tu a vincere. Lo abbiamo sempre saputo, tutti e due.» Non gli costò neanche ammetterlo, ormai gli anni e gli affanni, avevano abbassato il suo orgoglio come un ramo che si piega sotto il peso del bianco inverno.
«Posso donarti la mia stessa forza, se vuoi... potremmo lottare ad armi pari per sempre.»
Eric tremò a quella proposta riuscendo ad ascoltare ciò che Adam non disse.
«E diventare come uno di quei mostri disgustosi?» ringhiò allontanandolo ma Adam lo schiacciò ancora contro il muro prendendogli il viso fra le mani e inghiottendolo con il suo sguardo.
«Saresti come me non come loro, saresti un Sire e non conosceresti vecchiaia né dolore o debolezza. Per sempre giovane e immortale.» Poi lo baciò, intenso e violento come solo lui sapeva essere. «Dammi la tua anima, Eric, e avrai tutto questo» sospirò sulle sue labbra. «La tua anima in cambio dell'Eternità.»
«No» disse soltanto guardando alle spalle di Adam la sua piccola casa solitaria, che un tempo Sarah aveva reso accogliente e calda, dove Christopher aveva emesso i primi vagiti, dove Cornelius si era preso cura di lui e l'aveva illuminata con la sua allegria.
No, Eric non voleva l'eternità, non voleva vivere in eterno. Voleva solo la pace dei ricordi, la speranza che gli regalava sapere Christopher e Cornelius lontani dal suo baratro.
Adam rimase silente alla sua risposta e si allontanò senza dire nulla, continuando a guardarlo freddamente.
«Se vuoi uccidermi adesso, va bene. Se vuoi lottare e umiliarmi, va bene lo stesso... ma non chiedermi di darti l'unica cosa che mi resta» disse stanco, in attesa di una lama che lo trafiggesse, di una mano che lo soffocasse.
«Come vuoi» sospirò Adam abbassando il capo con un gesto d'assenso. «Ma nella tua casa non oserei portare morte, perciò per stanotte sei graziato, Cacciatore.»
«La tua parola!» Lo fermò prima che andasse via. «Dammi la tua parola che non farai mai loro del male... neanche dopo
Adam lo guardò a lungo e annuì.
«Hai la mia parola, Eric...» Ma prima di uscire gli sorrise e disse: «Così come il mio cuore.»
Mentiva, pensò Eric.
Un'ultima beffa per il suo rifiuto, o forse una verità che non era disposto ad accettare altrimenti avrebbe dovuto accettare anche il riflesso di quella verità: anche Adam aveva sempre posseduto il suo.


*


Era una notte d'estate, calda, afosa, con sudore attaccato alla pelle e ai capelli, con sangue appiccicato alle mani.
Eric attaccò i due demoni e poi il terzo. Stanco e ferito a una gamba, fu costretto a subire l'aggressione del quarto che lo colpì allo sterno con una ginocchiata. Poi arrivarono pugni e calci, finché un sottile ramo non colpì la sua schiena come una frusta.
Il dolore gli bloccò il fiato e li udì ridere istericamente.
«È la tua ora, Cacciatore!»
«Morirai come il cane che sei, sporco umano!»
Ancora colpi, ancora risate. Eric sentiva il sangue che scivolava sulla sua schiena dilaniata mentre, obbligato in ginocchio a terra, era tenuto fermo per le mani da due esseri immondi.
L'alba era lontana, il sole non sarebbe venuto in suo soccorso. Nessuno lo avrebbe fatto.
Era solo. Doveva lottare per non morire.
Ignorò così la sofferenza e spezzò la morsa con cui veniva costretto dai due.
Afferrò i due paletti di frassino infilati negli stivali e li colpì specularmente, uno a destra e l'altro a sinistra.
Con la mano raggiunse quella specie di frusta improvvisata e riuscì a mettere a terra quel mostro prima di impalarlo lì al suolo. Ne mancava ancora una, era una donna dai capelli biondi e due occhi troppo azzurri.
Sembrò indietreggiare mentre lui si avvicinava raccogliendo da terra la balestra e puntandogliela contro, la balestra di Cornelius.
La donna affannò cercando con gli occhi una via di fuga ed Eric era lì, pronto a finirla, quando la vide sorridere in maniera sinistra e non capì finché qualcosa non lo colpì alla schiena, fino a trafiggerlo: la lama di un pugnale.
La balestra gli cadde dalle mani mentre altre pugnalate si univano ed Eric fini a terra, in ginocchio, a stringersi lo stomaco per il dolore.
Udì una risata stridula: un quinto demone che non aveva visto fino a quel momento.
Sollevò a fatica la testa e vide i due guardarlo perversamente divertiti, fra le mani di lui un lungo stiletto d'acciaio ricoperto di sangue, il suo.
La vista si annebbiò, le voci risultavano sempre più confuse, si sentiva debole, sfiancato, e attorno a lui si allargava una pozza cremisi.
Farsi colpire così, come non avesse cacciato in ogni notte per tutti quegli anni, come non fosse stata la sua vita stanare e uccidere quei mostri. Morire così, per colpa di uno stupido pugnale.
Il pensiero corse al suo bambino, adesso un ragazzo, che viveva felice nella compagnia del suo amico più fidato. Cornelius gli aveva spedito un suo ritratto ed Eric lo teneva in quel diario e lo guardava tutte le sere.
Avrebbe voluto vederlo ancora una volta prima di morire, avrebbe voluto rivedere Cornelius, abbracciarlo, e dirgli quanto ancora gli fosse grato per tutto. Ma non c'era più tempo, né parole. Tutte le occasioni erano perdute oramai, ed Eric poteva solo vedere i due esseri avvicinarsi, pronti a completare la loro opera.
Ma poi li vide arrestarsi, sgranare gli occhi senza fiato mentre una macchia di sangue si allargava dai loro petti. Quando caddero entrambi al suolo capì.
Adam, di fronte a lui, stringeva nei palmi i loro cuori che lasciò cadere a terra accanto ai loro cadaveri.
Poi la vista si confuse ancora, così come ogni altra sensazione ma percepì qualcuno sollevarlo e poggiargli la guancia su qualcosa di morbido.
Aprì le palpebre: Adam lo teneva sulle sue gambe e gli stava spostando i capelli dalla fronte.
«Sono ferite mortali.» Udì debolmente.
«Lo so...» annaspò tossendo sangue. «Un modo... patetico di ... morire... vero?» provò a sorridere ma non riuscì. Altro sangue abbandonò le sue labbra.
«Posso curarti, posso salvarti.»
«No...»
«Dammi la tua anima, Eric. Lascia che ti salvi.» C'era una nota strana nella sua voce, un tremolio, qualcosa che Eric non seppe definire.
Troppo stanco, troppo debole.
Adam gli stava accarezzando ancora il viso ma lui non riusciva a sentire più le sue dita.
«Com'è l'Inferno?» gli chiese con un fiato, ormai pronto a varcarlo.
«Non troppo diverso da questa Terra.»
Prese un respiro, profondo, doloroso.
«Credi che lo rivedrò?... Mio padre...»
Adam non rispose ed Eric sentì qualcosa di caldo che gli stava avvolgendo il corpo. Erano le braccia di Adam.
«Eric, posso salvarti...»
Stavolta capì che era una supplica, ma il suo tempo era finito.
In fondo era felice che lui fosse lì, con lui, per un'ultima volta.
«Adam... Avrei potuto ucciderti» disse.
«Sì, avresti potuto farlo.» La voce era rotta ma Eric aveva lo sguardo buio per vedere le sue lacrime. «Nessuno gli farà mai del male. Hai la mia parola.»
Eric sorrise.
«Adam...»
Il suo nome sulle labbra fu il suo ultimo respiro.



*
*
*



Qualcuno bussò ma quando Cornelius andò ad aprire non vi era nessuno sulla soglia. Cercò chi potesse aver bussato ma in basso scoprì una piccola scatola. La raccolse e la studiò portandola dentro.
Quando sollevò la parte superiore vide un libro in pelle rossa e molte lettere.
Bastò una sola occhiata per capire che fossero sue quelle lettere, per capire che quel libro era in realtà un diario, per capire che quel diario portava il nome di Eric.
Sapeva cosa volesse dire.
Lo portò al petto con le lacrime a rigargli il viso.
Il suo amico più caro, suo fratello.
Stette intere ore in silenzio, senza più lacrime da versare, senza più perdono da chiedere.
Lo aveva lasciato, abbandonato.
Il sole calava ignaro e Cornelius cadde pesantemente sul divano. Accarezzò la pelle rossa del diario con dita tremanti. Tirò su con il naso e aprì la prima pagina.


*


All'ultima pagina, Cornelius capì che quelle parole finali erano state scritte da qualcun altro, e comprese anche chi fosse.
Pianse ancora, di fronte a ogni frase, a ogni segreto che Eric era stato costretto a serbare, pianse della sua cecità e della sua stoltezza, pianse per quel dolore e quella colpa che lo aveva dovuto accompagnare per tutti quegli anni.
Pianse la sua anima lacerata, il suo cuore ferito.
Le ultime parole che chiudevano quel diario erano una richiesta, un comando: proteggilo.
E Cornelius l'avrebbe fatto.
Raggiunse il focolare e vi gettò dentro il diario e lo guardò bruciare lasciando che fossero le fiamme a conservare quella storia, quei segreti, quell'amore illecito.
Cornelius avrebbe protetto Christopher da qualunque minaccia, soprattutto dalla più pericolosa: la verità.
Mai avrebbe saputo.
Avrebbe vissuto ricordando un padre amorevole e generoso, che aveva sacrificato la vita per permettergli di vivere libero la sua.
Christopher avrebbe vissuto libero da una missione, da un obbligo divino e, che il Signore avesse pietà della sua anima, Cornelius avrebbe ucciso chiunque avesse voluto fargli del male.
Avrebbe fatto di lui un ragazzo colto e gentile, come sognava Sarah; avrebbe fatto di lui un brav'uomo, che voleva Eric.
E un dì, nel Regno dei Cieli, lo avrebbe ritrovato e sarebbero stati di nuovo insieme, come due fratelli.


*


Tornò molti anni più tardi nel vecchio villaggio. Christopher non era con lui, era insieme alla sua sposa e ai suoi tre bambini. Christopher, che suonava il violino come un angelo e sorrideva sempre.
Un uomo vecchio, dai capelli bianchi e le ossa dolenti, Cornelius si avvicinò alla croce di legno accarezzandola e guardando anche l'altra al suo fianco. 
Stette ore in silenzio con il solo sostegno del suo bastone, con la sola compagnia dei suoi ricordi.
Le notti di caccia, le risate alla locanda, il calore di quella piccola cucina.
E poi i pomeriggi seduti sull'erba a narrar storie, a sentirsi deridere eppure godendo di ogni attimo.
Quel ragazzo con troppa fede e poca resistenza all'alcol.
Le sgridate di padre Gregory, le cene semplici al tavolo di Sarah, la compagnia di Eric, il suo braccio teso che lo rimetteva in piedi, quel sorriso sempre così timido.
Sceglilo tu. Dagli un nome che lo protegga...
Christopher.”
Oh, quale onore era stato. Quale onore era stato crescere suo figlio.
E in fondo l'aveva cresciuto bene.
Annuì a se stesso, con un sorriso, come se qualcuno gli avesse dato una pacca sulla spalla, come se il vento avesse sospirato grazie.
Dei passi si avvicinarono e Cornelius scorse un giovane uomo con una rosa stretta fra le dita. Si inginocchiò e la poggiò in mezzo alle due croci.
L'aveva veduto una sola volta in tutta la sua vita, una notte fugace e confusa come un sogno, ma mai avrebbe dimenticato quegli occhi e quello sguardo.
Non si dissero nulla. Restarono silenziosi uno a fianco all'altro a guardare la tomba di qualcuno che, in un modo o nell'altro, avevano amato entrambi.
Fu Cornelius ad andar via per primo, tenendosi al suo bastone, sentendo la schiena dolere per il troppo tempo trascorso in piedi.
Non si voltò per vedere se lui fosse ancora lì.
Si disse che era sempre stato lì.
Si disse che lì sarebbe sempre restato.
Non lo rivide mai più. Non tornò mai più al villaggio.

In un mattino d'estate, troppo caldo e assolato, mentre Christopher gli teneva la mano, Cornelius chiuse gli occhi con un sorriso.
Eric lo stava aspettando.
 






 
***





E siamo giunti alla fine, nobili lettori e io so che domande angustiano la vostra mente perché di Adam si vuol sapere il destino, di Christopher la vita, e di quella lunga guerra biblica, l'esito.
Ma non possiedo tali risposte, sono solo un narratore, una voce nell'oblio che racconta una storia taciuta, fatta di segreti e silenzi, di colpe e peccati. Perché Eric fu un Cacciatore come tanti, eppure un uomo come pochi, un uomo che ha amato più di quanto ne fosse conscio, che ha dato più di quanto non fosse stato dato a lui.
Perciò, vi chiedo, non porgete domande, non cercate altre risposte, fate solo tesoro di quanto la mia povera lingua ha saputo raccontare perché anche questa voce non venga dimenticata.
Perché si ricordi e si narri di una storia fatta di sconfitte e di sangue, di vergogne e di colpe, eppure di amore e speranza, di brandelli di luce nelle infinite ombre.
Si narri di Eric, Cacciatore e uomo, padre e marito, si narri di un fratello che il buon Dio mi ha concesso di incontrare e amare. Si narri della sua vita fugace eppure intensa.
Si narri di questo. 
Il resto non conta, il resto è solo leggenda.


C.








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