Fino alla fine del cielo, al di là delle nuvole e oltre l'universo

di Ciribiricoccola
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oltre l'universo...? ***
Capitolo 2: *** Non è là... ***
Capitolo 3: *** ... il mio principe. ***
Capitolo 4: *** Note e spiegazioni ***



Capitolo 1
*** Oltre l'universo...? ***


morte

All’improvviso, senza un apparente motivo, si ritrovò a correre in un bosco nero, pieno di alberi spogli, dai rami secchi.

Anche il cielo era nero, ma il sole era bianco e brillante e ogni tanto lanciava onde di luce , come un faro fuori dal controllo del suo guardiano. E allora tutto diventava brillante, chiarissimo, così tanto da costringerla a ripararsi il viso con un braccio mentre non smetteva di correre, per paura di rimanere abbagliata.
“Perché sto correndo?” si chiedeva mentre le sue gambe scattavano da sole e i polmoni sembravano darle all’infinito il fiato di cui aveva bisogno.

“Lo devi cercare fino alla fine del cielo, al di là delle nuvole e oltre l’universo…”

Sì, sua nonna glielo aveva sempre detto e ridetto, fin da quando era molto piccola.

Alla fine del cielo.

Al di là delle nuvole.

Oltre l’universo.

E poi avrebbe trovato il suo principe azzurro.
Sì, glielo aveva assicurato: lo avrebbe trovato e sarebbe stata felice e contenta per sempre, come le principesse delle favole.

Correva in quell’oscurità, ostacolata dai lampi di luce che la confondevano, dai rami secchi che le graffiavano la pelle come unghie di strega, ma non si fermava, perché il suo obbiettivo le stava svolazzando davanti, era a pochissimi metri da lei.

Una foglia di platano. Rossa e piena di venature.

Sembrava fragile, ma volteggiava in quel vento impetuoso con grazia, senza impigliarsi da nessuna parte. E soprattutto, era velocissima
La rincorreva con una determinazione infondata, senza neanche sapere il perché.
Ma le parole di sua nonna le risuonavano nella testa e non poteva ignorarle.

Ormai era vicinissima a quella foglia, così bella e sgargiante in tutto quel nero.
Mentre correva, saltò con il braccio proteso in avanti e l’assenza di gravità quasi la spaventò: non stava più toccando terra, quel salto sembrava non finire più.
Proprio mentre l’orlo della sua lunga gonna nera stava per toccare nuovamente il suolo, la sua mano riuscì ad afferrare la foglia.

Sorrise.

E la foglia la portò giù con sé.

Giù in un abisso ancora più nero del bosco, lungo il quale lei non fece altro che rotolare, senza neanche rendersi conto di cosa le stava succedendo.
Non vedeva niente, non sentiva niente, rotolava giù come un sasso, tenendo stretta quella foglia che sembrava trascinarla con una forza inaudita.

 

Quando finalmente quel caos terminò, smise di rotolare, si ritrovò rannicchiata da qualche parte.
Non sapeva dove, perché aveva tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo. Inoltre, aveva il fiatone.

Era spaventata.

Sentendo un piacevole tepore riscaldarle la spalla nuda, aprì piano gli occhi e scattò a sedere, la testa che guardava prima a destra, poi a sinistra. Si sentiva come un’indigena piombata nel mondo civilizzato.

Era finita in mezzo a un bosco, un bosco bellissimo.
Il sole filtrava potentissimo attraverso i rami rigogliosi di centinaia di alberi altissimi pieni di foglie, tutte rosse e grandi, come quella che aveva rincorso.
Erano platani.
Centinaia di platani intorno a lei.
E tutti facevano cadere silenziosamente le loro foglie rosse, senza che mai si esaurissero sui rami.

Si alzò lentamente e si guardò intorno: quel posto era silenzioso, fantastico, le sembrava di essere in paradiso. In lontananza, sentiva dell’acqua scorrere, lì vicino doveva esserci un ruscello, un fiume o qualcosa del genere.

Cominciò a camminare in quel mare di foglie, non si curò neanche di sollevarsi la gonna, e all’improvviso la voce di sua nonna era sparita dalla sua mente, come il senso di ansia che aveva prima, in quel bosco oscuro.

Continuò a camminare con il naso all’insù, divertendosi a guardare il colore delle foglie che si intensificava sotto i raggi di quel sole bizzarro che giocava a nascondino: si nascondeva dietro qualche nuvola grigia per poi spuntare fuori e riscaldarla.

Sentiva la brezza soffiare piano sulle sue spalle scoperte e rinfrescarla, visto che il sole, attirato dal suo abbigliamento nero, puntava i raggi sui suoi vestiti, accaldandola un po’.

D’un tratto sentì un rumore, una specie di fruscio alle sue spalle, e abbassò lo sguardo per poi voltarsi di scatto, ma non riuscì a vedere niente, nemmeno un’ombra di sfuggita. Cominciò a guardare in tutte le direzioni, decisa a non considerare quel rumore una semplice coincidenza, bensì qualcosa o qualcuno che la stava seguendo.

Non notò il cielo che stava velocissimamente mutando sopra la sua testa.

Grosse nuvole grigio scuro si stavano accumulando intorno al sole, soffocandolo, e lei se ne accorse troppo tardi.

Vide grosse gocce cadere su tutte quelle foglie, le vide moltiplicarsi, triplicarsi, quintuplicarsi e cercò di corsa un riparo, coprendosi la testa come poteva con le braccia.

Si fermò dopo pochi secondi.

Non era bagnata, neanche un po’.

Perché c’era quella pioggia all’improvviso?

E perché la pioggia non la stava bagnando?

Si appoggiò a un albero, rabbrividendo per la paura: non ci stava capendo più niente. Non ci aveva mai capito niente.

Si accucciò, la testa tra le mani, e aspettò che smettesse di piovere. Quella pioggia era così fitta che non riusciva a vedere più niente chiaramente.

Si sentì toccare gentilmente una spalla e sussultò per lo spavento per poi ritrovarsi davanti un ragazzo.

Sapeva chi era.

Come lei, non era stato sfiorato dalle gocce di pioggia, era perfettamente asciutto.

Lo guardò esterrefatta, senza sapere cosa dire.

Anche lui era vestito completamente di nero e la fissava, accucciato di fronte a lei. Non riusciva a leggere la sua espressione, era indecifrabile.

Vergognandosi per la domanda stupida che stava per fare, chiese: “…Siamo alla fine del cielo?”
Il ragazzo sorrise dolcemente, facendole brillare gli occhi, e rispose: “No. Siamo oltre l’universo”.

“… E quando sarai arrivata, lui sarà lì solo per te e ti porterà via da questo mondo di cattivi. Sarà bello e forte e vivrete per sempre felici e contenti.”

Irene spalancò gli occhi, mettendosi una mano davanti alla bocca.

Aveva trovato il suo principe azzurro.

Il ragazzo le accarezzò il viso, avvicinandosi, e appoggiò la fronte contro la sua, sorridendo.
Lei ricambiò il sorriso e disse, emozionata: “Non credevo fossi tu…”
“Io lo sapevo… Finalmente…” ribatté lui, sospirando. Il suo respiro era gelido, ma Irene era troppo presa dalla sua vicinanza per notarlo.

La aiutò ad alzarsi e le circondò le spalle con un braccio mentre insieme camminavano nel bosco, in mezzo alla pioggia.

“Perché la pioggia non ci bagna?” chiese lei nel silenzio degli occhi di lui, che la strinse più forte a sé mentre rispondeva: “La pioggia non è affar nostro. Io e te siamo speciali”.
Si accontentò di quella che risposta, nonostante non le sembrasse molto sensata, e strinse la mano che stava sulla sua spalla, sentendola fredda, gelida.
Non riuscì a trattenersi dal fare un’altra domanda…
“Hai la mano fredda! Ma stai male?”
Il ragazzo le sorrise ancora una volta con dolcezza e le prese le mani per baciargliele; dopodiché rispose: “Come posso stare male se adesso ci sei tu con me?”.
Le sue parole la fecero arrossire, gli sorrise e non disse nulla, piena d’imbarazzo.
Senza lasciarle le mani, lui continuò: “Ti ho aspettato qui per tutto questo tempo… questo è il giorno più felice per me, sai?”
Quasi mortificata, lei ribatté: “Io non… non sapevo che fossi tu, non sapevo come cercarti… io non… pensavo neanche di poterti raggiungere, perché…”

La interruppe dandole un bacio e l’abbracciò, lasciandola quasi senza fiato per la sorpresa.
Gli prese il viso tra le mani, cercando di memorizzare i lineamenti del suo viso delicato con l’aiuto delle dita, poi lui si staccò con lentezza dalle sue labbra e le disse: “Non importa, non importa… adesso sei qui e non m’importa più di nient’altro, solo di te!”

Sorrisero entrambi, lei confusa e felice, lui estasiato.
Nessuno l’aveva mai fatta innamorare così tanto.
La prese per mano e insieme iniziarono a correre, lui che guidava lei chissà dove.
E si misero a ridere all’improvviso, come due bambini, con il vento che li spettinava e la pioggia che cadeva senza sfiorarli.

Lo vedeva ridere come un ragazzo qualsiasi.

Anzi, no.

Come il suo principe.

Non era più il ragazzo famoso amato e odiato da migliaia di persone.

Era solo il suo principe in quel momento.

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Capitolo 2
*** Non è là... ***


morte

Quando finalmente si fermarono, erano finiti davanti a un enorme castello fatto d’argento e ossidiana.

Sembrava una scultura, Irene ne era veramente impressionata e non riusciva a non restare a bocca aperta guardandolo, mentre stringeva la mano del ragazzo.
Sarebbe rimasta a contemplarlo par chissà quanto, ma lui la trascinò via, continuando a correre verso il portone principale, che spinsero insieme con non poca fatica affinché si aprisse e loro potessero scorrazzare in quelle immense stanze luminose che brillavano di luce propria, senza il bisogno del sole.

Correvano, correvano come dei matti, senza una ragione, solo per sentire il vento in faccia, e Irene vedeva sfrecciare davanti a sé le statue chiare d’argento e quelle nere di ossidiana, che decoravano i corridoi: sembravano fondersi insieme talmente stava andando veloce. L’unica cosa chiara e dai contorni perfettamente definiti che vedeva davanti a sé era la schiena del suo principe, coperta dal pesante impermeabile di pelle nera.

E questo le bastava.

Si fermarono di scatto soltanto quando giunsero alla terrazza di una delle stanze più alte del castello; rimasero entrambi attaccati alla ringhiera, piegati in due e con la ridarella e il fiatone addosso, le loro gambe non reggevano più.

Si accasciarono sul pavimento, lei con una mano sulla pancia, intenta a ridere, lui già in piedi, pronto a tenderle la mano per farla alzare.

“Guarda” le disse con un sorriso, mentre la tirava su. Irene si alzò e appoggiò le mani sul cornicione.
Il paesaggio era indescrivibilmente bello, anche con la pioggia furiosa che lo annebbiava.
I fulmini illuminavano il cielo, ne squarciavano il grigiore,e mettevano in risalto il rosso delle chiome dei platani e il verde dei prati.
“Tu” domandò Irene, incantata “vivevi qui da solo?”
“Sì” le rispose serio il ragazzo, abbracciandola da dietro e poggiando la testa sulla sua spalla “Sono sempre stato qui ad aspettarti”.
Lei mise le mani sulle sue e sorrise; mentre un lampo illuminava il bosco, disse: “Adesso sono qui”.
Si voltò a guardarlo e trovò due occhi scuri a fissarla con dolcezza, ma anche con desiderio.
Quello sguardo racchiudeva tante cose, tante emozioni represse nel corso del tempo e  che in quel momento stavano uscendo allo scoperto, libere, assolutamente selvagge.
In quel momento, uno tuono terribile colse le sue orecchie di sorpresa e la fece sobbalzare, nonostante non avesse più paura dei temporali da un pezzo. Si strinse a lui, che le circondò le spalle con un braccio e disse: “Vieni, entriamo”, mentre guardava il cielo come se volesse sfidarlo, come se gli stesse dicendo: “Non toccare la mia principessa, stà lontano”.

 
Chiuse con decisione la porta- finestra in ferro battuto che dava sulla terrazza e si voltò, sorprendendo Irene a guardarsi intorno un po’ smarrita.
“E’ la tua stanza?” gli chiese, le braccia che abbracciavano il busto, come se avesse freddo.
“Sì” confermò lui, togliendosi l’impermeabile e restando con una semplice camicia nera e i jeans dello stesso colore “Non ti piace?”
“Oh, no no, è che non avevo mai visto una camera da letto in un… in un castello… così…” balbettò lei, sentendosi goffa e inadeguata. Quella stanza era grande e un più cupa rispetto alle altre che aveva visto di sfuggita nel castello, ma soprattutto aveva un letto matrimoniale sfarzoso e con le lenzuola nere in seta. Era impossibile non notarlo, vista la sua ampiezza.
Il ragazzo sorrise divertito e, dopo essersi seduto proprio sul bordo del letto, le fece cenno di mettersi accanto a lui; Irene eseguì, un po’ insicura, senza smettere di guardarsi intorno, e lui le chiese: “Cosa c’è che non va?”
Il suo disagio era davvero notevole: tutto era successo così in fretta e in modo così apparentemente insensato che lei ancora non riusciva a capacitarsi di niente.
“Non so…” rispose, scuotendo dubbiosa la testa “Mi sento come se fossi nata oggi, non riesco a capire niente…”
Il ragazzo le prese le mani e, guardandola negli occhi, le disse: “Non c’è niente da capire. Siamo io e te. Qui. Di cos’hai paura?”
Irene esitò prima di rispondere: “… Di tutto! Io non so niente di te!”
Lui sorrise e dopo essersi avvicinato molto di più alla ragazza, ribatté: “Ma se mi conosci da sempre… mi hai sempre cercato… mi hai sempre tenuto dentro di te…”
Sì, ma… io… non so se ce la faccio, se sarò all’altezza di questa cosa, io…” balbettò lei, stringendo ancora più forte le sue mani, nonostante il suo pessimismo.
“Irene” la interruppe lui “Io sono tuo. Tu sei mia. Perché non dovresti essere all’altezza della situazione, se siamo fatti l’uno per l’altra?”

 
Vero.
L’uno per l’altra.
Anche se erano stati lontani per vent’anni, ovvero da sempre.
Anche se quella era la prima volta che si vedevano.
Anche se lui era una celebrità e lei una ragazza comune.
Anche se tutto intorno a loro era così strano.
L’uno per l’altra, oltre l’universo.

Lo strinse forte a sé e lo baciò, come se per lei fosse vitale, come se dalle labbra di lui uscisse linfa.
“Possiamo fare tutto, noi due insieme… tutto…” le disse dopo essersi staccato dalle sue labbra, mentre la stringeva e le mani cominciavano a muoversi sul suo corpo.

La fece sdraiare sul letto, tornando a baciarla, e lei lo trascinò con sé, stringendogli le braccia al collo.
Sopra il suo corpo caldo, la mano fredda spostò con calma la lunga gonna, con movimenti lenti e sicuri. Quando arrivò a sfiorare l’interno coscia, Irene ebbe un piccolo brivido, ma subito lo dimenticò, iniziando a sbottonare la camicia di lui, ed allargò di più le gambe.

 
Nonostante la pioggia fosse visibilmente aumentata e avesse iniziato a martellare leggermente ma distintamente i vetri della porta- finestra, i loro gemiti sovrastavano il rumore, da sotto quelle lenzuola nere, lucide, stropicciate e bagnate.

 
Soddisfando il desiderio, non facevano altro che alimentarlo; così, i loro corpi mai stanchi si fondevano più e più volte.
La pelle di Irene scottava e sudava, la sua lingua non aveva smesso un attimo di catturare quella del suo principe, ma stranamente ogni centimetro della sua pelle era freddo. Era visibilmente eccitato e chiaramente coinvolto, ma il suo corpo rimaneva pallido, gelido.
E poi cos’era quella sensazione strana che provava nel cuore ogni volta che lui la penetrava?
Era come un pizzicotto, un minuscolo ma puntuale dolore che non era riuscita ad ignorare, nonostante fosse completamente presa da lui, nelle cui mani si sentiva come argilla.

“Ancora… ancora… ancora…” lo pregava, stringendolo fino a fargli male e tenendo gli occhi fissi nei suoi, mentre respirava affannosamente insieme a lui.

Sembrava che avesse due lingue, venti dita, quattro gambe e due bocche.
Non le sembrava umanamente possibile che un ragazzo così potesse fare l’amore in quel modo per così tante ore,e ancor meno possibile le sembrava il fatto che anche lei stesse resistendo così a lungo.
D’un tratto, durante un orgasmo, proprio quando tutto era perfetto e i loro corpi erano aderiti perfettamente, un fulmine cadde sulla terra, seguito da uno scoppio tremendo e uno dei platani che, colpito, stava prendendo fuoco.

 

E il cuore di Irene perse un paio di battiti, lasciandola stordita mentre gridava di piacere.

Restò con gli occhi spalancati, rivolti verso l’albero in fiamme, quelle fiamme che l’acqua non stava vincendo.

Il ragazzo notò le fiamme riflesse nello sguardo di lei e chiese preoccupato: “Che cosa c’è?”

Non rispose, mentre dai suoi occhi macchiati di rosso una lacrima veniva giù.

“FLAVIO” gridò il suo cuore con voce strozzata, perdendo sangue.

Sentì la mano fredda di lui sfiorarle piano il viso.

“Amore mio, dimmi che cos’hai!”

“Amore mio, dimmi dove devo andare” urlò di nuovo il suo cuore, rifiutando di smettere di battere.

“Irene!” la chiamò con voce ancora più ansiosa lui, invano.

La sua testa, i suoi occhi, il suo cuore, il suo corpo, tutto di lei si stava tendendo verso la luce emanata da quel fuoco, giù, nel bosco.

Nuda come un verme e incurante di essere tale, balzò fuori dal letto, spinse con violenza le ante della porta- finestra per aprirle e saltò giù dalla terrazza, senza pensare.

Ancora una volta, l’assenza di gravità la sorprese, ma stavolta le fece tirare un sospiro di sollievo: era sospesa per aria e, come un’aquila, stava puntando in picchiata verso la terra, seguita dal suo principe.
“Maledizione, vola anche lui!” pensò terrorizzata, cercando di accelerare il suo volo.
“Irene!!! Irene!!!” lo sentiva gridare, completamente mutato nella voce che, da carezzevole e seducente, era diventata rabbiosa, spaventosa come quella di un padrone cattivo che stava per frustare il proprio schiavo.

Finalmente i suoi piedi nudi toccarono terra; fu allora che si mise a correre esattamente come se ancora fosse nel bosco nero: velocissima, ansiosissima, instancabile, ma stavolta con il proprio cuore da salvare.
Quel cuore che batteva impetuoso e vomitava sangue a iosa ad ogni “tum” da lei percepito.

L’albero ormai era vicinissimo, poteva sentire le fiamme scoppiettare, quasi come se la stessero chiamando.
Le venne da sorridere: ce l’aveva quasi fatta.

“NO!!!” gridò la voce di lui alle sue spalle.
Prima che potesse anche solo pensare di fare qualcosa, si sentì trascinare brutalmente a terra per i capelli: qualcosa di mostruosamente forte l’aveva afferrata e la stava tirando indietro.

“TU SEI MIA!!! MIA!!!!” le gridò lui.

Irene si voltò per guardarlo e cacciò un urlo di terrore: le sue belle mani curate erano diventate rami neri e secchi, gli stessi che nel bosco nero l’avevano graffiata e che ora la tenevano per i capelli.

I suoi profondi e dolci occhi scuri erano diventate orbite nere e vuote che sprigionavano una cattiveria inaudita.

E il suo alito sapeva di vecchio, di decomposto.

“NO, NO, NO, NO!!!” strillò lei, in preda al panico, iniziando a piangere.

In quel momento, le fiamme dell’albero produssero non solo scoppiettamenti e calore, ma anche una voce.
Una voce flebile, ma udibile, che le fece spalancare gli occhi per la gioia.

 Tage gehen vorbei
Ohne da zu sein…

 „FLAVIO!!! FLAVIO!!!“ iniziò a gridare, cercando di divincolarsi da quella mano ramosa che non voleva lasciarla, mentre lui ringhiava e stringeva gli occhi.

 Alles was gut…
Alles ich und du…
 

„Io e te,

io e te,

io e te!”

gridò il suo cuore, pompando più sangue che mai.

Irene mise le mani su quei rami che le stavano schiacciando la testa e con un grido che riecheggiò per tutto il bosco li spezzò.

Mentre lui urlava per il dolore e la rabbia, lei ricominciò a correre.

Geh…

GEH!

“Flavio, amore mio, sto arrivando!” pensò, tendendo un braccio verso una lingua di fuoco.

Sentì l’acqua bagnarle la testa e il fuoco sfrigolare.

“Illusa!!! Lui non ti pensa più!!! Ti vede già morta!!! Le senti le sue lacrime,eh?! LE SENTI?! Resterai qui con me!!!” le gridò dietro il ragazzo con un ghigno malefico sul viso, mentre dal suo ramo spezzato usciva sangue nero e vischioso. 

Wenn du jetzt gehst…

“NO!!!” gli gridò dietro Irene, con le mani tremanti in cerca di un ramo che ancora bruciasse di una fiamma viva.

La trovò.

Un ramo piccolo ma con una fiamma ostinata che sembrava addirittura tendersi verso di lei.

La toccò con una mano e fece appena in tempo a vedere il suo principe, ora deformato, che si accasciava a terra, gridando come un’aquila ferita; la sua pelle era diventata nera come l’asfalto, ormai non aveva più niente di umano.

Non era più il suo principe.

Una luce abbagliante la avvolse, costringendola a tapparsi gli occhi con le mani.

 

BLEIB…

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Capitolo 3
*** ... il mio principe. ***


morte

Sentì un leggero brusio nelle orecchie.

Anzi, no, non era un brusio.

Era “Geh” che ricominciava da capo per l’ennesima volta, probabilmente perfino il lettore MP3 si era stufato di fargliela sentire.

Aprì molto lentamente un occhio e subito lo richiuse, accecata dal neon bianco.
Poi sentì un casino inenarrabile.

“Dottore? Dottore, dottore! Lei si sposti, cosa fa qui, non lo vede che è finito l’orario di visita?! Si tolga! DOTTOREEEEEEEEEEEEEEEE!!!”
“Ma cos’è successo, cos’è successo?! Si è svegliata?!”

Quella voce le era familiare. Piacevolmente familiare.

“Le ho detto di uscire!!! Prima la visiterà il dottore! Aspetti fuori!”
“Ma…”
“FUORIIIIIIIIIIIIII!!!!!”
“Che infermiera isterica…” pensò seccata mentre provava di nuovo ad aprire gli occhi, stavolta con minore difficoltà.

Un dottore gentile e decisamente più diplomatico dell’infermiera accanto a lui le controllò le pupille, esaminò attentamente la sua cartella clinica e diede precisi ordini alla sua dipendente, il tutto lo sguardo un po’ stordito di Irene, che aveva un gran mal di testa.
“Irene, giusto?” le chiese con un sorriso cortese.
Lei annuì, ricambiando il sorriso con un po’ di stanchezza addosso.

“Come ti senti?”

Bella domanda.

Sospirò prima di rispondere: “Bene. Ma ho un po’ di mal di testa…”
“Tutto regolare, stà tranquilla… è normale dopo uno stato comatoso di una settimana! Ti somministrerò subito qualcosa per fartelo passare, stà tranquilla. Abbiamo già chiamato i tuoi genitori e…”
“Dov’è Flavio?” chiese immediatamente, pentendosi subito dopo di aver fatto la figura della menefreghista nei confronti dei suoi genitori, che amava tantissimo.
“Flavio?...” le fece eco il dottore, alzando perplesso un sopracciglio.
“Quel ragazzino moro che non azzecca mai l’orario delle visite!” intervenne prontamente l’infermiera, acidissima “Quando usciamo noi, entra lui! E resta cinque minuti! Cinque, eh, non di più!”.
Irene annuì, un po’ spaventata da quel tono perentorio, e i due se ne andarono pochi secondi dopo.

Fissò con insistenza la porta finché, un attimo dopo, non comparve lui.

FLAVIO.

Aveva gli occhi cerchiati, i capelli spettinati, i vestiti stropicciati e le cuffie del lettore MP3 che gli penzolavano da una tasca dei pantaloni.

Era bellissimo.

“Ire!” esclamò il ragazzo, spalancando le braccia e andando verso il suo letto.
Lei non disse una parola: dopo aver controllato che non ci fossero aghi, cavi o chissà cosa a limitarla, scese dal letto e, nonostante un tremendo giramento di testa, trovò la forza di gettargli un braccio al collo. Con l’altro era occupata ad aggrapparsi al letto.

“Sei sveglia…” le disse lui commosso, mentre la stringeva.
“Sì, sì, sono sveglia, per fortuna…” ribatté lei prima di baciarlo sulla guancia.
Smisero di abbracciarsi per guardarsi e Irene sorrise divertita: quei capelli erano davvero tremendi in quelle condizioni.
“Fla” disse, accarezzandogli la testa “Non avrai fatto la figura del barbone?”
“E’ probabile” rispose lui con un sorriso “Ho dormito sulle sedie della sala d’aspetto, ho mangiato poco, mi hanno sempre buttato fuori da qui per quei cinque minuti fuori orario… però non me ne frega niente!” e la baciò, sollevandola da terra.
Era molto più alto di lei, un gigante.
E in quella settimana in cui non lo aveva visto, le sembrava addirittura cresciuto!

“Oggi hai gli occhi gialli…” gli fece notare Irene, una volta seduta accanto a lui sul letto d’ospedale.
“Sì, perché piove… lo sai che a seconda del tempo diventano del colore che vogliono… prima verdi, poi gialli…” le spiegò Flavio.
La ragazza si voltò verso la finestra e vide la pioggia cadere.

I suoi occhi si fecero lucidi.

“E ti sono mancata?” chiese ancora, guardando negli occhi il suo ragazzo.
Flavio esitò un attimo prima di rispondere timidamente: “Che resti tra noi… ho pianto”.

Lo sapeva che aveva pianto.
Aveva visto le sue lacrime, anche se su quel letto aveva tenuto gli occhi chiusi per sette giorni.
Quelle lacrime che non aveva potuto percepire, perché erano lacrime vive.
E i morti non piangono, cosa ne possono sapere loro delle lacrime?

Fece finta di non sapere e chiese con espressione sorpresa: “Davvero?”
“Sì…” ammise il ragazzone, abbassando lo sguardo “E ti ho pure fatto ascoltare a ripetizione i Tokio Hotel, tutta la discografia, 24 ore non stop, sette giorni su sette, contenta?”
“Molto, grazie!” rispose lei, baciandolo a stampo, mentre ripensava a “Geh”… grazie a dio l’aveva sentita.
“Ah, e una tua amica… Giulia, mi pare, non mi ricordo bene… insomma, ti manda questo… all’inizio lo aveva attaccato al muro, davanti al tuo letto, ma poi i dottori hanno avuto la decenza di farglielo togliere! E meno male!”  sentenziò Flavio, tirando fuori dal cassetto del comodino vicino al letto un poster.
Glielo spiegò davanti e Irene per un attimo trasalì, ma poi si controllò, abbozzando un sorriso.

Bill Kaulitz la fissava con sguardo seducente appoggiato a un muro. Aveva una bella giacca di pelle nera, era impeccabilmente truccato e pettinato, come sempre, e aveva una delle sue consuete maglie dai disegni particolari.
C’era una grande stampa di una palla stroboscopica, con tutti i quadrati bianchi e brillanti, eccetto qualcuno di questi ultimi; e proprio quelli neri andavano a formare un disegno sulla palla.

Un teschio.

“Amore, finito di sbavare?” la canzonò Flavio, ripiegando il poster e togliendole da davanti gli occhi lo sguardo ambiguo di Bill con la sua maglietta.
“Quanto sei scemo!” ribatté prontamente lei con un sorriso.
“Non capisco che ci trovi in lui!” ribadì il ragazzo, tornando a sedersi vicino a lei.
“Ha una bella voce… ha molta presenza scenica… ed è molto bello…” gli spiegò Irene con un sorriso estasiato sulla faccia.
“Ecco,e qui ne discuterei, perché sembra una donna e non capisco proprio come faccia a piacervi uno che sembra una donna!” protestò il ragazzo, alzando gli occhi al cielo.

Irene lo guardò: lui di certo non era Bill.

Era Flavio, il suo Flavio.

Era alto, forzuto e non proprio aggraziato nei modi.

Ma aveva degli occhi stupendi, di un verde brillante che cambiava a seconda del tempo meteorologico.

E quella mattina portava una felpa azzurra.

Bè, non era proprio la “divisa ufficiale” del principe azzurro, ma non era il caso di fare la fiscalista e rinunciarvi…

“Sai che l’ho anche sognato?” gli disse, per stuzzicarlo.
“Mentre eri in coma?” le chiese lui.
“Sì!”
“E… quella luce che tutti dicono di vedere quando sono in coma? L’hai vista?”

Rifletté un attimo.

Quel sole nel bosco nero, così tanto somigliante a un faro impazzito.
E quell’altro, invece, quello del bosco del suo principe, tiepido e piacevole.
Quella lingua di fuoco che l’aveva salvata.

“Sì, l’ho vista… molto suggestiva…” rispose, annuendo.
“Che vuol dire suggestiva?”
“Emozionante, Fla, che ignorante che sei!”

Il suo principe avrebbe sicuramente saputo che cosa voleva dire quella parola.
Lui avrebbe saputo tutto di tutto.

 “E me? Non hai sognato me?” chiese il ragazzo, dandole un pizzicotto scherzoso per poi avvicinarsi e mettere testa sulla sua spalla.

 Certo che lo aveva sognato.

Anzi, lo aveva sentito.

Lo aveva percepito.

Non si era mai rassegnata all’idea di doverlo perdere. All’idea di dover morire e non rivederlo più.

 “Sì, dai, ogni tanto nei miei sogni spuntavi fuori anche tu!” lo canzonò lei, annullando quei pochi centimetri che separavano le loro labbra.

 Lo baciò a lungo, accarezzandogli il viso e rannicchiandosi tra le sue braccia, con gran sorpresa di lui che, dopo essersi staccato dalla sua bocca, chiese piacevolmente sorpreso: “Ma che ti prende?!”
“Mi sei mancato, Fla, solo questo…” rispose lei con dolcezza, tirandolo di nuovo verso di sé.

 
“Lo devi cercare fino alla fine del cielo, al di là delle nuvole e oltre l’universo…”

 “Nonna, ti sei sbagliata… ho fatto tutta quella strada… e invece ce l’ho sempre avuto davanti, il mio vero principe azzurro…”.

FINE

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Capitolo 4
*** Note e spiegazioni ***


morte

NOTE DELL’AUTRICE

Premetto che questo breve racconto è frutto di un mio sogno. Avrete sicuramente notato quanto sia surreale, no? 

Onde evitare di confondervi le idee, se non avete capito qualcosa, potete mandarmi un MP, oppure potete leggere quanto segue e riuscire a chiarirvi i dubbi che magari avete avuto leggendo.

Innanzitutto, sono partita dal sogno originale che mi è capitato di fare: io in un paesaggio fantastico, su una terrazza, e Bill con me. Sì, quello che si può definire un sogno DOC !

Partendo da questa idea, questa “bozza”, ho sviluppato poi tutto il resto, e sono giunta al contrasto finale tra Morte e Amore, come avete letto.

La protagonista della storia, Irene, è un personaggio piuttosto “libero”, è diverso dai personaggi che ho creato in precedenza, penso che chi legge le mie storie lo abbia capito! Irene non ha un’età precisa, non ha un aspetto ben definito, non si sa neanche perché sia finita in coma, di lei si sa solo il nome, il fatto che è fidanzata e che le piace Bill Kaulitz.

Creando un personaggio così, ho voluto mettere in risalto non tanto CHI era, ma COSA pensava, cosa la circondava e anche cosa faceva; ho dunque tentato di mettere molta analisi psicologica nel racconto.

Il ragazzo misterioso protagonista del sogno di Irene, lo avrete capito tutti, è Bill. O meglio, è la Morte “travestita” da Bill.
Perché questa “maschera” così bella per qualcosa di così orribile di cui quasi tutti abbiamo paura? Semplicemente perché qui la Morte, che ho interpretato come un’entità che ragiona per conto proprio, ha una precisa volontà, ovvero strappare Irene alla vita,e lo vuole fare con l’inganno, ovvero attraverso un sogno in cui lei trova il Principe Azzurro, dimenticandosi di tutti e tutto per stare con lui per l’eternità.

La Morte non riuscirà nel suo scopo e il perché ve lo spiego tra qualche riga…

Flavio è un ragazzo normalissimo, fidanzato con Irene. A lui ho dato un aspetto fisico preciso per sottolineare quanto fosse “normale”, quasi bruttino di fronte a Bill; volevo far notare quanto potesse sembrare impossibile che proprio uno come lui fosse il Principe Azzurro di Irene!... salvo poi smentire tutto, perché alla fine Flavio è un ragazzo VERAMENTE innamorato e Irene lo ricambia alla grande… lo considera il suo vero Principe Azzurro, insomma, perché è VERO, SINCERO, in tutta la sua IMPERFEZIONE.

Il paesaggio.

Ecco, questa è la parte un po’ più complicata!
Mi sono liberissimamente ispirata a Dante, vi dirò, perché nella “Divina Commedia” ci sono molti elementi simbolici dei vari paesaggi, e così ho voluto fare anch’io con le mie creazioni!

Prima di tutto, il bosco nero. Perché il bosco nero? Può essere visto semplicemente come qualcosa di sinistro che stava bene nel racconto, ma in realtà ha il suo perché: rappresenta la Morte, quella che però Irene ancora non è in grado di percepire (i rami secchi la graffiano, ma lei non ci fa neanche caso; il sole, che rappresenta la vita che si sta spegnendo, lancia dei bagliori, come per farle notare che la sua vita sta per spegnersi, ma lei continua a correre; poi, ovviamente, il colore nero, il colore del nulla, del mistero) perché è impegnata a rincorrere la foglia di platano rossa. Ho scelto il platano perché, a mio parere, le sue foglie sono bellissime e durante l’autunno diventano di un colore molto intenso, e poi ho scelto il rosso perché rappresenta la passione, l’amore; ed è quello che Irene, inconsciamente all’inizio, cerca ed insegue; difatti, nella sua testa risuona la frase che le diceva sempre sua nonna, eppure lei non si sa spiegare il perché.

Il paesaggio in cui Irene si ritrova dopo aver attraversato il bosco nero è decisamente più piacevole, seppur strano: un bosco rigoglioso, un’atmosfera primaverile, un sole tiepido… eppure tutte le foglie di tutti gli alberi sono ROSSE, come se fosse autunno; questo perché ho voluto mettere in risalto il concetto di amore e passione; solo che c’è un particolare: le foglie che cadono di continuo dagli alberi. Cosa rappresenta questo? Il fatto che il concetto di Amore in quell’ambiente non dura, è fittizio. Non è quindi solo un effetto scenico bello da immaginare che ho voluto mettere lì, per fare qualcosa J.

La pioggia improvvisa rappresenta il pianto di Flavio, il suo dolore. E per gran parte della sua permanenza nel bosco, Irene non lo potrà percepire (non viene bagnata dalla pioggia, esattamente come Bill), perché non riuscirà a ricordarsi dell’esistenza del suo ragazzo! Per l’appunto, c’è un momento in cui lei dice “Mi sento come se fossi nata oggi”… non sente i propri ricordi.

I temporali sono precisi segnali che vengono mandati a Irene, sono come delle “voci” che la spronano a ricordarsi della sua vita terrena, a non cedere alla Morte; avete letto, infatti, come il temporale si scatena quando Irene fa l’amore con Bill, con la Morte, è il momento più “pericoloso” per lei, che non sa chi è lui veramente e che vede come il suo Principe Azzurro. In pratica, sono come dei “segnali” che Flavio amnda inconsciamente ad Irene, come se le stesse chiedendo di svegliarsi, di tornare da lui-

Il fulmine che cade su uno degli alberi, facendogli prendere fuoco, è il segnale più forte di questo “SOS”, insieme al cuore della ragazza, che perde dei battiti, che sanguina, proprio perché lei si sta dimenticando della vita e del suo amore vero.

Il fuoco provocato dal fulmine, con il suo calore e la sua luce, rappresenta la possibilità di ritornare alla vita. È attraverso quella fiamma che Irene riesce a ricordarsi di Flavio, del fatto che lei può ancora vivere, ma soprattutto capisce che Bill non è un principe, ma soltanto una maschera che nasconde ciò da cui lei deve assolutamente scappare.

Geh”…
Una canzone che viene “immessa” nelle orecchie di Irene durante il coma. Avrete sentito sicuramente parlare di gente che si è risvegliata ascoltando una delle loro canzoni preferite, no? Ebbene, anche in questo caso è così: Flavio, per tentare ogni giorno di risvegliare la sua ragazza, gli fa ascoltare i Tokio hotel, e lei si risveglia con “Geh”.
Nel sogno, riesce a sentirla attraverso le fiamme dell’albero che, appunto, sembra che la “cantino”; ho scelto proprio questa canzone perché parla di un abbandono, di una coppia che si divide, con lui che dice a lei “Vai, vai, vai” per poi, alla fine, dire un solo “Bleib”, ovvero “Resta”; è l’ultima parola e, anche se detta una volta sola, incide molto di più di quei 20000 “Geh!”…
Irene è proprio combattuta tra l’ “andare” e il “restare”… “andare” verso la morte o “restare” in vita? Alla fine la ragazza sceglie l’unico “Bleib” di tutta la canzone, poco prima di risvegliarsi dal coma.
Quando la pioggia inizia a farsi sentire sulla pelle di Irene e sulle fiamme dell’albero, la Morte gioisce, perché l’acqua sta per far spegnere il fuoco e in quel caso Irene non potrà più tornare a vivere.

Perché la pioggia all’improvviso torna a farsi sentire?
Perché i pianti di Flavio stavano diventando pieni di rassegnazione e non solo di tristezza e paura. La tristezza e la paura non ti tolgono la speranza, la rassegnazione invece sì (in questo caso, la speranza che Irene si risvegli). Ed ecco perché l’acqua, ovvero le sue lacrime, cade sul fuoco, rischiando di spegnerlo del tutto.

Infine, il poster, quello che Flavio mostra ad Irene.

È un poster stupendo che esiste sul serio e che io ho a casa , e mi è sembrato proprio adatto per questa storia! L’immagine ve l’ho descritta per filo e per segno nella storia, quello che conta è la maglia che Bill indossa, ovvero quello con la palla stroboscopia raffigurante un teschio (se trovate l’immagine, dovete darci una bella occhiata, perché il teschio non balza subito all’occhio).
Il teschio, un simbolo di Morte.
Come se Bill, da quel poster, urlasse a Irene: “Sì, sono la Morte!”.
È tutta suggestione da parte di Irene, che sa benissimo che Bill dei Tokio hotel non è la Morte , ma ho pensato che fosse una buffa coincidenza!

 Per concludere, voglio mostrarvi le canzoni con le quali ho scritto! Sono state grande fonte di ispirazione per me e vi consiglio di ascoltarle mentre leggete!

  • Ich brech aus- Tokio Hotel
  • Tell me where it hurts- Garbage
  • Wir schliessen uns ein- Tokio Hotel
  • Who wants to live forever- Queen
  • Electrical storm- U2
  • Bellissime stelle- Andrea Bocelli
  • Geh- Tokio Hotel
  • Oh my love- John Lennon
  • Stop crying your heart out- Oasis
  • L’immenso- Negramaro

 Et voilà! Ho cercato di spiegarvi tutto come si deve, spero che avrete afferrato tutto della mia bizzarra storia adesso! In caso contrario, contattatemi e vi risponderò sicuramente ! Grazie dell’attenzione!

 

La vostra Ciry!

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