What If The Storm Ends

di LoonyW
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Attraverso lo specchio ***
Capitolo 3: *** Why can't we be friends? ***
Capitolo 4: *** Let the sun shine ***
Capitolo 5: *** Volunteers for Hogwarts ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


What if the storm ends
 
 
 
 
What if the storm ends, and I don’t see you
as you are now, ever again?
(E se la tempesta finisse e non ti vedessi mai più
così come sei ora?)

 
 
 
 
 
La fenice di bronzo sembrava viva sotto il Sole, brillando come di luce propria. Il parco di Hogwarts era silenzioso e le rive del lago calme, come il cielo che prometteva una bella giornata. “Il Giardino della Memoria”: così era stata chiamata quella parte del parco, il luogo in cui erano seppellite le vittime della seconda guerra magica, protette all’ombra della statua di una fenice dalle ali distese, simbolo dei caduti.
«È un bel luogo per riposare» disse Luna, guardandosi intorno.
Le lapidi bianche erano ben allineate e ancora intatte, pulite. Era passata poco più di una settimana dalla fine della guerra. Il gruppetto di ragazzi –una quindicina o poco più- si avvicinò in silenzio al punto in cui riposava l’uomo che non avevano mai avuto l’occasione di ringraziare. La tomba di Severus Piton era in prima fila, al centro della linea, e su di essa era posato un bel fascio di gigli bianchi, ancora freschi.
Neville, a capo dell’Esercito di Silente, si schiarì la voce, cercando le parole giuste. «Ci perdoni per averla sempre fraintesa, professore».
A queste parole, seguì un piccolo singhiozzo da parte di una delle ragazze.
«Grazie per averci protetti» sussurrò Ginny, accarezzando la tomba con una mano.
Era difficile accettare quella nuova visione di Severus Piton: per anni lo avevano considerato un aguzzino, un tirapiedi di Voldemort, un individuo odioso; adesso dovevano fare i conti con la consapevolezza che in realtà Severus Piton aveva sempre cercato di aiutarli, e nessuno di loro se ne era mai accorto.
Luna si chinò sulla lapide, posando a terra uno dei fiori che lei e suo padre coltivavano, la Sundewa: fiore speciale, che cambia colore in base a chi ne entra in contatto. Nelle mani di Luna era bianco, ma appena si posò sulla tomba divenne verde smeraldo. Un verde che per Severus Piton aveva un particolare significato; per i ragazzi dell’Esercito di Silente invece simboleggiava il verde della speranza e della rinascita.
 
 

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Capitolo 2
*** Attraverso lo specchio ***


Attraverso lo specchio
 
 
 
 
 
Note iniziali: questa storia nasce come seguito di “The Other Story”, ma credo sia comprensibile anche da nuovi lettori estranei alla prima parte, sempre se ce ne sono. Anyway, se volete qualche chiarimento o anche solo per curiosità potete fare un salto alla prima storia, incentrata sulla resistenza dell’Esercito di Silente a Hogwarts, altrimenti, sentitevi liberi di cominciare da qui e chiedere spiegazioni qualora ne servissero :)
Per i vecchi lettori: questa storia non inizia esattamente da dove è finita The Other Story, ovvero con il viaggio in Irlanda, ma qualche tempo prima. Lo capirete dai comportamenti dei personaggi.
Grazie a chiunque sia qui, sia a vecchi lettori che ai nuovi!
 
 
***
 
 
 
Il volto di Fred sorrise, fece una linguaccia e agitò la mano in saluto. Dalla fotografia, il ragazzo era assolutamente indistinguibile dal suo gemello, ma Ginny sapeva che era proprio lui in quella foto, e non George. Era da più di mezz’ora che fissava il volto del fratello come se non l’avesse mai visto prima. Notava particolari ai quali non aveva mai fatto caso, come il piccolissimo neo sulla guancia destra e la cicatrice su uno dei polsi. Le sembrava di aver sprecato il tempo che avrebbe potuto usare per stare con Fred, per conoscere cose di lui che non avrebbe mai avuto l’opportunità di sapere, non più.
Erano giorni che Ginny usciva dalla sua stanza solo per mangiare e per andare in bagno, apatica nei confronti della sua famiglia e di chiunque altro.
Erano passate le prime, frenetiche settimane dalla fine della guerra: tutto stava rallentando. Perfino i giornalisti avevano finalmente smesso di bussare alla loro porta.
Ginny aveva atteso quel momento per giorni, ma anziché migliorare, tutto sembrava precipitare nel baratro. Non l’aveva capito prima, ma i contrattempi, le visite di amici e parenti, la fretta di lavorare e aiutare l’avevano distratta dal peso di ciò che non c’era più. Adesso che la comunità magica aveva lasciato in pace la famiglia Weasley, niente e nessuno poteva più alleviare la perdita di Fred, la cui assenza aleggiava in tutta la casa.
Ginny ripose la foto del fratello nel diario e si rese conto di stare piangendo solo quando una lacrima si scontrò con la pagina di carta, lasciandovi il segno. Da giorni era caduta in uno stato di isolamento e disinteresse che sfociava spesso nella depressione: non rispondeva alle lettere, non usciva di casa e non faceva niente all’infuori di azioni che riguardassero le sue funzioni vitali. Aveva smesso di curare il suo aspetto e di interessarsi a ciò che succedeva fuori dalle mura della Tana.
Si alzò, con molta fatica, per prendere piuma e calamaio sulla scrivania. Si lasciò subito cadere a terra, poggiando sulle ginocchia il diario per scrivere.
 
“Caro Harry,
qui va tutto bene, ma la mamma ancora cade nei suoi flashback. Spesso scambia George per Fred, e gli parla come se lui non fosse mai morto. George la lascia fare, e a volte le fa credere che sia davvero Fred per farla felice. Papà non riesce a dire nulla. Adesso le acque si sono calmate, ma sembra che non sia una buon cosa.
Per favore, fatti sentire ogni tanto. Facci sapere dove ti trovi, manda una lettera o un segnale. Anche Hermione e Ron sono preoccupati, dicono che non rispondi nemmeno ai loro messaggi. Facci sapere almeno se stai bene.
Torna, ci manchi.
Ginny.”
 
Strappò la pagina dal diario e la arrotolò, lasciandola sulla scrivania per inviarla appena Leo sarebbe tornato. Ginny si guardò intorno, cercando qualcosa che le desse forza, ma le appariva tutto inutile e privo di valore, ora che anche Harry sembrava essersi arreso. Era scomparso nel nulla da più di una settimana, senza lasciare biglietti o avvisi, e Ginny si sentiva sola e abbandonata. Era convinta che alla fine della guerra tutto sarebbe stato migliore e che avrebbero avuto il tempo che desideravano per stare insieme ed essere felici. Invece, Harry aveva deciso di staccare da tutto e tutti, persino da lei. Non aveva sue notizie, non sapeva nemmeno se fosse vivo, se stesse bene…
E lei era lì, ancora una volta a lottare contro i fantasmi del passato, stavolta più tremendi che mai. Gli incantesimi si possono schivare, ma le assenze non si possono colmare, come l’ingrediente fondamentale di una pozione non può essere rimpiazzato da uno a caso.
Stava per scenderle un’altra lacrima, quando la porta della sua camera si spalancò, ed entrarono a salvarla ancora una volta i suoi due compagni di sventure, come cicloni.
«Tadaaaaaaaa!» urlò l’inconfondibile voce di Neville, arrivando a braccia spalancate e rimanendo confuso nel non trovare Ginny nella stanza.
Ginny, che si era seduta ai piedi del letto, era stata coperta dalla porta spalancata, rimanendo silenziosamente in attesa che si chiudesse da sola.
«Forse l’hanno rapita i Cocorinni!» esclamò la voce spaventata di Luna, e Ginny, ancora nascosta dietro la porta, non riuscì a trattenere –dopo tanto tempo- una genuina risata che svelò il suo nascondiglio.
«Ecco dove ti eri cacciata» sorrise Neville chiudendo la porta.
La risata di Ginny si spense quando i suoi occhi videro la brutta cicatrice che solcava il viso di Neville, portandole alla memoria tutto ciò che stava cercando di cancellare.
«Forza, Ginny» disse Neville rabbuiandosi. Si chinò su di lei per stamparle un bacio sulla nuca, avendo notato lo spegnersi del suo sorriso. Luna si inginocchiò accanto a lei, poggiando le mani sulle sue spalle «Ginny, ti farà bene prendere un po’ d’aria..» mormorò con voce pacata.
«Vedrai che alla luce del sole ti sentirai meglio» le assicurò Neville, sedendosi a gambe incrociate davanti a lei.
«Io… non mi va..» sussurrò Ginny guardando altrove.
Luna passò delicatamente le dita tra i capelli dell’amica, cercando di consolarla e al tempo stesso di metterli in ordine.
«Non rispondi alle nostre lettere da quasi due settimane..» disse Neville amareggiato.
«Lo so» rispose Ginny atona.
Non sembrava più lei. Ginny era sempre stata tenace, determinata, piena di forza d’animo; era difficile abbatterla o convincerla a lasciar correre. Adesso sembrava aver perso la voglia di andare avanti.
«Harry tornerà, ha solo bisogno di stare da solo..» tentò Luna, stringendole la mano.
Neville si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra. «Scommetto che sono settimane che non fai un giro in scopa»
A quella parole magiche, l’attenzione di Ginny sembrò risvegliarsi. «Già..» riuscì a mormorare. «È da molto tempo che non volo»
La bacchetta di Neville si mosse e immediatamente la scopa di Ginny si precipitò nella stanza, sbattendo tra la finestra e la scrivania.
Ginny guardò la sua scopa come se non l’avesse mai vista, e finalmente si alzò da terra per impugnarne il manico, mentre un piccolo sorriso si faceva strada sul suo volto.
Luna e Neville si strinsero accanto a lei, poggiando le mani sulle sue spalle e scambiandosi un sorriso fiducioso. Una piccola lacrima rigò la guancia di Ginny, che continuò a sorridere stringendo la sua scopa come se si aggrappasse ad essa per reggersi in piedi. «Mi è mancata..» sussurrò tra il sorriso e il pianto.
«Ti stava aspettando» la incoraggiò Luna, indicandole la finestra.
Ginny alzò il viso verso la finestra, socchiudendo gli occhi all’intensa luce solare. «Torno subito» disse all’improvviso, voltando le spalle e uscendo dalla stanza. «Mi sistemo e andiamo» disse la sua voce proveniente dal bagno.
Luna e Neville si sorrisero, abbracciandosi di gioia. Sapevano che sarebbe stato difficile scuotere Ginny dal grigiore che si era impadronito di lei, e ottenere un risultato così immediato sembrava un’utopia. Ignoravano che già solo aver visto i suoi due più cari amici aveva scosso Ginny aiutandola a uscire dal suo tunnel buio.
Ginny tornò in camera con il viso fresco e i capelli in ordine, impugnando la sua scopa con il desiderio di non lasciarla più. Scoppiò in una fragorosa risata e la cavalcò, lanciandosi fuori dalla finestra.
Neville e Luna si guardarono preoccupati. «Inseguiamola, prima che combini qualcosa.»
Si precipitarono giù per le scale e passarono per il salotto, che trovarono incredibilmente vuoto e silenzioso –così diverso da come lo ricordavano prima della guerra-, e uscirono all’aria aperta recuperando le loro scope parcheggiate nel cortile, in attesa di spiccare il volo.
Ginny sfrecciò sulle loro teste, con i capelli al vento e i vestiti che si muovevano scompostamente. «Forza, andiamo!» gridò loro dall’alto.
I due ragazzi la seguirono subito, librandosi nell’aria accanto a lei verso una meta sconosciuta.
Dopo tanto tempo, Ginny si sentì viva. Il fruscio dei capelli che le sfioravano il viso, il vento che la accarezzava gentilmente, le lacrime a causa della forte luce, il verde smeraldo dei campi che stavano sorvolando… tutto sembrava gridarle che c’era ancora speranza e che un nuovo futuro la aspettava. Avrebbe voluto urlare il nome di Harry, ma sapeva che era lontano e che non l’avrebbe sentita. Si buttò in picchiata e fece due capriole, aggrappandosi alla scopa con tutte le sue forze, lanciando un grido di giubilo per liberare i polmoni e le corde vocali che erano rimaste immobili così a lungo.
«Noi siamo ancora qui!» gridò Neville per farle compagnia, allargando le braccia verso il cielo e reggendosi in bilico sulla scopa solo con le gambe.
«Non ci spaventano nemmeno le Bickente!» seguì a ruota Luna, lasciando attoniti gli altri due, che poi scoppiarono in una risata.
«Siamo l’Esercito di Silente!» gridò Ginny a pieni polmoni.
Un secondo dopo stava planando a terra, fermandosi sul terreno con un’espressione ferita, come se avesse appena ricordato qualcosa di molto brutto.
«Cosa c’è?» chiese gentilmente Luna, toccando terra con i piedi.
«Tutto bene?» domandò Neville preoccupato, dopo un atterraggio piuttosto brusco.
«Io.. è da molto che non ho notizie di Helena» proferì lentamente Ginny «avevo dimenticato cosa le era successo..»
«Be’.. è ancora in coma, Ginny..» la informò Neville rattristato.
«I Guaritori hanno assicurato che si riprenderà, ma c’è bisogno di tempo..» disse Luna.
«Possiamo andare a trovarla?» chiese Ginny supplichevole.
«Certo».
Unirono le mani in cerchio e si smaterializzarono prima alla Tana per lasciare lì le scope, poi sparirono nuovamente per andare al San Mungo. Ciò che più sembrava strano a Neville era il silenzio della Tana: nessuno che chiedeva dove andassero, che uscisse a salutarli, nessun rumore di pentole o arnesi. C’era un lugubre silenzio di vuoto, non di pace. Il San Mungo lo distolse da quelle tristi considerazioni, rasserenandolo con il suo frastuono di ospedale.
Oltrepassata l’entrata camuffata, restarono qualche minuto a cercare di capire in quale piano fosse Helena, il cui coma era stato causato da lesioni gravi e probabilmente anche da maledizioni durante la seconda battaglia di Hogwarts.
«Quarto piano?» tentò Neville.
«Potrebbe anche essere al primo..» considerò Ginny.
Luna si allontanò da loro e si rivolse allo sportello di aiuto. «Salve» salutò allegra «siamo degli amici di Helena Andsworth. Sappiamo che è qui, ma non in quale piano. Può aiutarci?»
Il signore allo sportello, un uomo di mezza età dall’aria annoiata, rifilò a Luna uno sguardo piatto, e si mise a trafficare con le cartelle. «Andsworth, quarto piano, stanza E2».
«La ringrazio, signore» rispose Luna con un sorriso gentile, avviandosi verso le scale, subito seguita dagli altri due.
Quando giunsero davanti la stanza di Helena, furono fermati da una signora sulla quarantina con la divisa da Guaritrice. «Siete parenti del paziente?» chiese lanciando ai ragazzi uno sguardo di sfuggita, per poi concentrarsi sulla cartella clinica che reggeva in mano.
«No, siamo suoi amici» rispose Neville quasi con aria di sfida.
«Non è orario di visite» fece notare la Guaritrice in tono piuttosto scocciato.
«C’è forse un orario per decidere quando si ha voglia di vedere una persona a noi cara?» intervenne Ginny facendo un passo avanti.
La Guaritrice distolse lo sguardo dalla cartella e lo posò su Ginny, che aveva riacquistato la sua fierezza. «Io vi ho già visti» disse la donna.
«Siamo i ragazzi dell’Esercito di Silente» ribatté Neville con orgoglio «e meritiamo di poter visitare una nostra amica, nonché combattente dell’ultima battaglia che ci ha salvati tutti».
A quelle parole, la Guaritrice arrossì un poco, ma non distolse lo sguardo dal viso di Neville. Fece un gesto con il braccio verso la stanza per dargli il permesso di entrare, e se andò a testa alta, dopo aver sussurrato un “io non vi ho visti”.
La stanza di Helena era di un bianco accecante, resa splendente anche dalla luce del sole che penetrava dalle finestre. In quell’atmosfera Helena, con i suoi lunghi capelli biondi, sembrava un angelo addormentato. Non c’erano né flebo né macchinari attorno a lei, ma solo un comodino sul quale erano posati un girasole e una lettera. Nella stanza c’erano altri due letti di cui uno era momentaneamente vuoto, e nell’altro un ragazzo di circa quindici anni leggeva una rivista.
Ginny accarezzò i capelli di Helena, la cui espressione serena contrastava con le ferite ancora evidenti e i lividi del volto. Luna aveva gli occhi lucidi, ma rimase in silenzio.
«È bellissima nonostante i segni della guerra» disse una voce dietro di loro, facendoli sobbalzare.
Ginny emise un lungo sospiro nervoso, Luna sorrise debolmente e Neville rifilò un’occhiata diffidente al nuovo arrivato, nonché altro paziente che risiedeva nella stanza: Theodore Nott.
«Che diamine ci fai qui?» borbottò Ginny sgarbatamente, mentre Luna la guardò ammonitrice.
«Sono ricoverato anche io» balbettò il ragazzo sdraiandosi nel suo letto, intimorito dalla poca accoglienza.
«Proprio nella sua stessa stanza?» chiese scettico Neville, alludendo a ciò che c’era stato tra lui ed Helena.
Nott fece spallucce «Giuro di non aver chiesto nulla. È stato un semplice caso».
«Non ci prenderai in giro, Nott» sibilò Ginny incrociando le braccia «lei non ha bisogno di te»
«Lei non può né sentirmi né vedermi» ribatté Nott con voce dura, serrando la mascella «pretendi che io non possa nemmeno guardarla?»
«Già, vorrei tanto che non la guardassi nemmeno» ringhiò Ginny «l’hai solo delusa».
Nott stava per ribattere, ma Neville intervenne. «Va bene, basta litigare. La guerra è finita».
«La guerra contro i veri traditori non finirà mai» ribatté Ginny, memore di ciò che i Serpeverde le avevano fatto durante quell’ultimo, tremendo anno.
«La guerra cambia molte cose» rispose Nott tranquillo «dovresti saperlo meglio di me».
Ginny rimase muta a quell’osservazione, e cercò di rispondere qualcosa di pungente, ma fu fermata dalla tranquillizzante stretta di Luna sulla sua mano.
«Cosa vedono i miei occhi» esclamò una nuove voce, apparendo sulla soglia della stanza. «I nostri fantastici capi dell’ES!»
Astoria Greengrass era appena arrivata nella stanza con un sorriso stanco, ma pur sempre contenta di vedere i suoi compagni di lotta. Si avvicinò al letto di Helena e lasciò un fiore rosso tra le sue dita socchiuse, in un silenzio ovattato.
«È un po’ che non ci vediamo» fece notare Neville, salutandola con una stretta sulla spalla.
«Non è successo granché» rispose Astoria facendo spallucce.
Luna e Ginny si chiesero subito cosa fosse successo tra lei e Draco, ma non osarono fare domande a riguardo.
Insieme uscirono dalla stanza, dopo aver dato un ultimo saluto a Helena e si diressero verso l’ultimo piano per prendere un the.
«Che mi dite di Harry?» chiese Astoria, versando cinque cucchiaini di zucchero nella sua tazza.
Il gelo calò sul trio, e lo sguardo di Ginny si incupì, tanto che Astoria se ne accorse e allontanò la tazza dalle labbra. Era particolarmente intuitiva, Astoria, ma spesso non aveva il tatto necessario per affrontare determinate situazioni. «È ancora via?» chiese sorpresa.
Neville annuì e cercò di farle intendere con lo sguardo di chiudere l’argomento, ma lei proseguì decisa.
«Ginny, dobbiamo andare a cercarlo» la spronò Astoria, cercando di farla reagire.
«Ha deciso lui di andarsene» rispose Ginny atona, con lo sguardo perso oltre la finestra che affacciava su Londra.
«Ma sono sicura che in questo momento non desidera altro che qualcuno che gli stia vicino» ribatté Astoria in tono convinto.
Ginny le rivolse uno sguardo scettico, poi sbuffò. «Non posso credere che..»
Non concluse la frase, ma tutti e tre i suoi amici compresero ciò che avrebbe voluto dire: “non posso credere che mi abbia abbandonata”.
«…che sia scappato così, lui che è il nostro eroe, colui che ha sconfitto Voldemort» concluse Ginny dopo qualche secondo di silenzio e una ragionata scelta di parole.
Ginny aveva ragione: nessuno si sarebbe mai aspettato che proprio il Salvatore del Mondo Magico, così coraggioso e nobile, sarebbe scappato senza avvisare nessuno. Sarebbe tornato presto? Stava bene? Voleva solo stare da solo per un po’? E chi poteva dirlo? Nessuno di loro aveva avuto sue notizie, né Ron, né Hermione, né Ginny. Per quanto sembrasse assurdo, in quel momento così precario in cui tutto iniziava di nuovo e con fatica, Harry se n’era andato, abbandonando i suoi amici.

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Capitolo 3
*** Why can't we be friends? ***


Why can’t we be friends?
 
 
 
 
 
 
 
 
Il ronzio della mosca era tanto fastidioso quanto affascinante. In quel momento, qualunque cosa distraeva Neville dallo studio: il muro davanti ai suoi occhi, le nuvole che camminavano lente fuori dalla finestra, la mosca che aveva deciso di rendergli il compito ancora più difficile ronzandogli intorno e poi posandosi sulla parola “funzione” a pagina trentacinque del suo vecchissimo e pesantissimo libro di Erbologia acquea. Neville sbuffò forte facendo volare via la mosca, e poggiò la fronte sul libro, rassegnato. Di solito gli risultava facile impegnarsi. Aveva scelto una materia che amava e che lo appassionava –questo era il segreto, ripetevano tutti- e non era un sacrificio per lui studiare per il test di ammissione al corso di formazione professionale per insegnanti. Stare seduto davanti ad un libro di Erbologia e non riuscire a leggere alcunché era una novità per Neville, ma il motivo non gli era ignoto: in quei giorni non faceva altro che litigare con Nonna Paciock, e di conseguenza con Hannah.
La settimana prima aveva avuto la folle idea di portare Hannah a casa per presentarla alla nonna. Si era capito subito che non c’era simpatia da parte dell’anziana verso la ragazza, che era stata giudicata “superficiale”, “pettegola” e “ordinaria”. Incautamente, Neville l’aveva raccontato ad Hannah. Non era stata affatto una buona idea: la ragazza l’aveva preso molto sul personale, arrabbiandosi anche con Neville nonostante lui avesse tentato di difenderla agli occhi della nonna. Adesso Hannah si rifiutava di rientrare in casa Paciock.
Quando capì che non sarebbe riuscito a concentrarsi, Neville chiuse il libro con un sospiro e si alzò per uscire. Sulla porta, la voce della nonna lo fermò.
«Dove vai, ora?»
Neville alzò gli occhi al cielo. Aveva avuto l’impressione di aver ritrovato il rapporto con la nonna dalla fine della guerra, ma era durato poco. Era bastato essere un po’ incauto per rovinare quel piccolo idillio.
«Vado a trovare Hannah, nonna» rispose atono, pronto ad uscire.
«Io non sono d’accordo» fu l’amara risposta.
Neville si voltò sgranando gli occhi.
Sua nonna, più curva e bassa di come Neville la ricordava, lo squadrò con sguardo torvo e deciso. «Non voglio più che tu veda quella ragazza, non è giusta per te!»
A Neville scappò un’inopportuna risata, che degenerò irrefrenabilmente. Sotto lo sguardo allibito e offeso di nonna Paciock, finalmente Neville riuscì a calmarsi e commentò serafico: «Non me ne importa un accidente». Così dicendo, uscì e si chiuse la porta alle spalle.
«Neville Paciock!» tuonò la voce della nonna, ben udibile da tutto il vicinato. Neville si fermò in mezzo alla strada del quartiere dove abitavano da sempre, udì la porta che si apriva e i passi pesanti della nonna che lo seguivano. Si smaterializzò senza pensarci due volte.
 
Non aveva ben riflettuto su dove andare. Eppure, nonostante il suo primo pensiero sarebbe stato smaterializzarsi da Hannah, si ritrovò sulla collina che portava a casa Lovegood. Dopo un momento di smarrimento, capì che se si fosse trovato da Hannah, arrabbiato e frustrato com’era, avrebbe finito per scaraventare la sua rabbia su di lei, scatenando un litigio irreparabile. Invece, ciò di cui aveva bisogno in quel momento era proprio un amico con cui sfogarsi. Salì gli ultimi passi che portavano all’entrata della casa nera con il cuore martellante di indignazione, memore delle parole di nonna Paciock. Mentre suonava il campanello, buttando uno sguardo alle prugne-dirigibile –ancora intatte nonostante la guerra-, si sentì trattato come un bambino capriccioso e incapace.
Nonna mi ritiene ancora un buono a nulla che non sa prendere le giuste decisioni. Non è cambiato niente, pensò Neville amareggiato.
Si udì un rumore di pentole e cianfrusaglie cadute, e Luna si affacciò alla porta con i capelli raccolti in un treccia disordinata. «Ciao, Neville» gli sorrise raggiante.
«Hey» salutò lui, con le mani in tasca e lo sguardo triste.
Luna si scansò e aprì la porta, facendogli cenno di entrare. Aveva già notato che qualcosa non andava e sapeva che le cause potevano essere solo due, ed erano entrambe donne.
Neville gettò uno sguardo distratto al disordine della casa, piena come al solito di oggetti strani quanto indescrivibili e a volte insensati, e si preparò a parlare, ma fu interrotto da un rumore di passi che scendevano le scale.
«Ciao» salutò la voce di Dean Thomas alle spalle di Neville, che si voltò lentamente e strabuzzò gli occhi per la sorpresa.
«Dean..» sfiatò il ragazzo, mentre Luna richiudeva la porta con aria tranquilla.
«È un po’ che non ci si vede» disse cordiale Dean, tendendogli la mano. Neville ci mise un po’ a riprendersi e a capire che avrebbe dovuto stringergliela di rimando. Imbarazzato, rispose con un poco loquace “già”.
«Passavo da queste parti e ho deciso di venire a trovare Luna» spiegò Dean, con un’espressione che voleva essere gioviale, ma che lasciava trapelare un poco di imbarazzo.
Neville annuì, con la tremenda sensazione di aver interrotto qualcosa. Inorridì al pensiero di una storia tra Luna e Dean, e subito scosse la testa tra sé e sé, pensando che era assolutamente impossibile. Sobbalzò quando Luna gli chiese se volesse un the. «Eh, come? Umh, no, in realtà ero passato solo per salutare, adesso vado..»
«No, rimani, io stavo andando via, in ogni caso» intervenne subito Dean, accostandosi alla porta.
«Resta e prendi un the, dai» disse Luna «ne ho uno buonissimo allo zenzero e marmellata di prugne-dirigibili che abbiamo fatto io e papà».
Dean gli strizzò l’occhio e aprì la porta. «Ci vediamo, Luna»
«A presto» salutò lei affacciandosi dalla cucina con un sorriso.
«Neville» disse Dean in saluto, con un cenno del capo. Neville riuscì appena a rispondere ricambiando il cenno, ancora stordito e disorientato dalla scena.
Quando la porta si richiuse, ci fu qualche secondo di silenzio rotto solo dal tintinnare delle stoviglie proveniente dalla cucina.
«Luna..» mormorò Neville, entrando in cucina. «C’è qualcosa che hai dimenticato di dirmi?»
Luna poggiò il bollitore sul fuoco e si voltò a guardarlo con i suoi occhi puri e innocenti, e Neville quasi si vergognò di aver pensato che le aveva tenuto nascosto qualcosa.
«Cosa dovrei aver dimenticato?» chiese lei in tono serafico, come se non avesse capito a cosa alludeva.
Neville rimase spiazzato. «Be’, niente.. non so, pensavo ci fosse qualcosa tra te e Dean» disse in tutto franchezza. A quel punto, Neville si aspettava che Luna ci ridesse sopra, o che lo tranquillizzasse assicurandogli che non c’era nulla da sospettare. Invece, Luna lo guardò con un alzata di spalle. «Immagino che sia ancora troppo presto per poterlo dire..»
Neville sgranò gli occhi e si sedette sulla prima sedia che trovò, non facendo caso all’aggeggio simile ad una scatolina variopinta che era già lì. Appena la sfiorò con il sedere, la scatola si aprì e ne uscì fuori una molla con la testa di un pagliaccio attaccata, che spaventò Neville facendolo gridare e lo scaraventò a terra.
«Oh, scusami» accorse Luna, aiutandolo ad alzarsi e richiudendo la scatola. «Papà lo ha dimenticato lì»
«Cosa diamine è?!» sbottò Neville riprendendo fiato per calmarsi.
«Un gioco babbano. Lo usano per gli scherzi» spiegò Luna, sorridendo e tornando ad armeggiare con il bollitore per mettere in infusione il the, che già si preannunciava disgustoso dall’odore.
«Dicevamo» insistette Neville, che non voleva lasciar cadere l’argomento «mi stai dicendo che tra te e Dean c’è qualcosa?»
Luna non si voltò, indaffarata con il bollitore. «Non ho detto questo. Ho detto che è presto per dirlo»
«E questo cosa vuol dire?!»
«Non stiamo insieme, se è questo che ti preoccupa» lo tranquillizzò lei. «Ma da quando abbiamo passato tutto quel tempo a Villa Conchiglia insieme, il nostro rapporto è diverso. Siamo molto più legati. Non vuol dire che ci sia qualcosa di più, però»
Neville rimase allibito. «Ma vuol dire che potrebbe esserci»
Luna alzò di nuovo le spalle e sorrise.
Neville rimase a fissare il vuoto. Non aveva mai pensato alla possibilità che Luna si fidanzasse. Per lui era sempre stata un essere etereo, quasi asessuato: in un certo senso, era come se avesse sempre immaginato Luna come un angelo che non può unirsi con gli essere umani. Non ci aveva mai riflettuto, ma per la prima volta si rese conto di avere un’idea distorta di Luna. Era anche lei un’adolescente, molto più matura della maggior parte, ma anche carina e, sebbene strana, piacevole e gentile. Era del tutto normale che qualcuno, prima o poi, finisse per innamorarsi di lei. Lui stesso, pensò Neville, era stato a lungo in dubbio riguardo i suoi sentimenti verso di lei.
Non dovrei essere sorpreso.
Si stupì ancora di più di essere sorpreso di aver sempre avuto quell’immagine astratta e impossibile di Luna, che conosceva bene come solo un migliore amico può conoscere.
Fu solo quando l’oggetto delle sue riflessioni gli pose sul tavolo una tazza fumante di the, che Neville si riscosse dalla trance e scrollò la testa con imbarazzo.
«La cosa ti sorprende?» chiese Luna, sedendosi di fronte a lui.
Neville tossì e si rigirò la tazza bollente tra le mani «No, be’, è solo che non so, Dean.. non immaginavo..».
«Non ci sarebbe nulla di male, se anche fosse» disse Luna.
Mentre portava la tazza alle labbra, l’immagine di Luna e Dean che si baciavano prese forma nella testa di Neville. Bastò quell’idea immaginaria per far montare dentro di lui un sentimento che riconobbe subito: gelosia.
Il the aveva un sapore amaro e aspro e gli scottò le labbra. Tossendo, Neville posò la tazza sul tavolo con uno scatto e scosse la testa. «No, no, no, no, no»
Luna gli rivolse uno sguardo perplesso e poggiò la tazza a sua volta. «“No” cosa?»
«Non puoi» sbottò Neville «Non con Dean! Andiamo! Dean?! Di tanti ragazzi, proprio Dean?! E poi è l’ex di Ginny! Come pensi che la prenderebbe?!»
Luna gli rivolse uno sguardo tra l’offeso e il sorpreso.
«No, non se ne parla. Non va bene come primo ragazzo! Non è serio, guarda come è andata con Ginny! No, non va bene per te!»
Luna rimase in silenzio per qualche secondo. Poi, lentamente rispose con una calma invidiabile «Mi spiace che la pensi così, ma comunque non ti stavo chiedendo il permesso»
«Be’, mi spiace che non me lo stavi chiedendo, perché Dean non è il ragazzo che fa per te!» ribatté Neville animandosi.
«Come pensi di sapere qual è il ragazzo giusto per me, Neville? Non sei mio padre» rispose Luna sempre più allibita dal suo discorso.
«No, sono il tuo migliore amico! Lo so»
«Un migliore amico non avrebbe detto “non puoi, non se ne parla”. E poi, non stiamo insieme, come ti ho già detto» ribatté Luna, il cui tono era sfumato nell’indignazione «avrei accetto volentieri un parere, non un’imposizione da parte tua»
Neville arrossì, ma la gelosia, mista alla rabbia per la litigata con la nonna e allo stress causato da quelle settimane salì a galla, scaraventandosi contro la malcapitata Luna.
«Andiamo, Luna! Non siete due tipi compatibili! Non farti illusioni con lui, non è un tipo affidabile. E poi… e poi..»
«E poi?» incalzò Luna, rossa di rabbia.
«E poi non lo so! Perché proprio lui?! Ginny già è depressa, chi lo sa come potrebbe prenderla!»
«Come dovrebbe prendere cosa?! Non stiamo facendo nulla di criminoso, siamo solo amici!» si indignò Luna esasperata «ho detto che ci metteremo insieme? No! Ho solo detto che il nostro legame si è stretto! Perché mi stai facendo questa scenata?! Non ho diritto anche io a ricominciare una nuova vita dopo la guerra? A farmi nuovi amici? A cercare qualcosa di più? Tutti lo state facendo, perché devi venire qui a dare giudizi a sproposito?»
«Stavo solo cercando di aiutarti a non prendere decisioni sbagliate» si difese Neville, atterrito dalla rabbia di Luna ma allo stesso tempo troppo arrabbiato a sua volta per riuscire a chiedere scusa.
«Sono grande e matura abbastanza per prendere decisioni da sola. Ti ringrazio per il tuo parere, anche se avrei preferito che l’avessi espresso in un modo diverso» rispose Luna, alzandosi per posare la sua tazza vuota nel lavandino e nascondere il suo volto ferito e deluso.
Neville sospirò debolmente e si prese la testa tra le mani, appoggiando i gomiti al tavolo. La sua rabbia era già sbollita, schiumando di fronte alla fermezza e al dispiacere di Luna. Era impossibile essere arrabbiati con lei. «Scusami..» gemette «non volevo essere così idiota. Lo stress mi rende odioso e insopportabile»
«Non fa niente» rispose Luna di spalle, appoggiata al ripiano della cucina. La sua voce era nasale e un poco incrinata. Non era difficile indovinare che stava piangendo.
Neville si sentì un verme. Si alzò titubante e le si accostò, abbastanza da sentirla tirare su col naso. «Sono un cretino. Ignorami quando dico cose del genere. Non ci credo davvero» di scusò, stringendola in un abbraccio che lei ricambiò con forza.
«È solo che.. ti ho sempre vista così innocente e pura, non riesco a sopportare che un ragazzo ti si avvicini. Non voglio che qualche cretino come me possa farti soffrire. Lo sai come siamo noi ragazzi..»
Luna scoppiò in una piccola risatina «Mi fa piacere che tu ti sia incluso nella cerchia di ragazzi idioti»
«Visto come sono umile?» ridacchiò Neville, accarezzandole i capelli. «Per me sei come una sorellina da proteggere. È la iperprotettività da fratello maggiore che mi fa parlare»
«Allora, fratellone, penso che dovresti lasciare che la tua sorellina abbia una vita sua e abbia un po’ di esperienze come una ragazza normale» sorrise Luna, sciogliendosi dall’abbraccio per guardarlo negli occhi.
Neville le prese il viso tra le mani «Solo se mi prometti che ti terrai alla larga dai ragazzi idioti come me»
Luna sorrise e lo baciò sulla guancia, ristringendolo in un abbraccio. Neville si sentì molto più leggero di quanto non fosse stato in quelle ultime settimane.
 
 
 
 
 
 
*Buon Natale a tutti <3*

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Capitolo 4
*** Let the sun shine ***


Let the sun shine
 
 
 
Nota iniziale: in questo capitolo potrebbe comparire qualche accenno alla precedente storia che potrebbe far risultare poco chiara la situazione a chi non ha letto il prequel. In questo caso, chiedete pure chiarimenti :) Buona lettura!
 
 
 
 
Astoria Greengrass era sempre stata una dormigliona. Se non svegliata da niente o nessuno, poteva anche dormire ininterrottamente per l’intera giornata. Ma da quando la guerra era finita, qualcosa era cambiato: ogni giorno si svegliava all’alba e non riusciva più a dormire. A volte aveva sentito i suoi nonni lamentarsi del fatto che quando si è anziani spesso si dorme per poche ore, ma come poteva non voler dormire lei, che aveva sedici anni e un gran bisogno di lunghi riposi per riprendere le forze? Quando il sole sorgeva, ogni giorno Astoria si alzava con calma, si lavava e vestiva, faceva colazione con tè e muffin e usciva di casa. Passeggiava per il vialetto di villa Greengrass, coglieva qualche bel fiore dal giardino e si smaterializzava. Ogni mattina la sua destinazione era la stessa, sebbene non fosse un bel posto: l’Ospedale San Mungo. Andare a trovare Helena per lei era una necessità, oltre che un rito e un dovere. Ogni giorno sperava che sarebbe stata la volta buona, la volta in cui Helena avrebbe riaperto gli occhi e al suo risveglio avrebbe trovato il viso sorridente e grato di Astoria. Ma ogni giorno Astoria veniva delusa: Helena non riprendeva coscienza, e lei tornava a casa aspettando con ansia la mattina dopo e sperando che la sua amica non si svegliasse durante la notte, quando lei non poteva accoglierla.
Quella mattina, Astoria aveva colto dei ciclamini rossi e li aveva legati con un nastrino azzurro. Erano freschi, e nonostante non fossero i preferiti di Helena, Astoria sapeva che l’avrebbe resa contenta averli lì nella sua stanza.
La osservava spesso nel suo lungo sonno, trovava particolari che non aveva mai notato né avrebbe avuto modo di notare, se non con una minuziosa attenzione. Le parlava spesso, e a volte immaginava le reazioni che avrebbe avuto se solo avesse potuto rispondere.
E poi, a volte, Nott era lì e si metteva in mezzo. Le faceva domande, in particolare su Helena, cercava di fare conversazione, le chiedeva come stesse, a volte le faceva anche dei complimenti, tesi a guadagnarsi i suoi favori o per lo meno il suo rispetto. Come se fossimo amici, si sdegnava Astoria. Se l’aspettava, in realtà: era un Serpeverde, e lei sapeva come agivano.
Quando Astoria entrò nella stanza, con sua gioia vi trovò solo Helena. Quelli erano i suoi momenti preferiti: poteva parlare liberamente con la sua amica, ad alta voce, senza esserne imbarazzata o ascoltata da orecchie indiscrete.
«Buongiorno» salutò con affetto Astoria, poggiando i ciclamini sul comodino e sedendosi sullo sgabello di fianco al letto. «Oggi è una bellissima giornata. Una di quelle che ti piacevano tanto la mattina presto, quando eravamo a Hogwarts. Ti ricordi? Volevi sempre passeggiare nel parco quando c’era un sole così brillante e indisturbato»
Astoria le strinse la mano, fredda eppure ancora morbida come la ricordava. «Passeggeremo ancora. Ci saranno altri giorni come quelli passati, e saranno migliori. Pensa a guarire e a tornare da noi. Poi cammineremo insieme, dovessi portarti in braccio io stessa»
Astoria buttò uno sguardo alle sue spalle, per accertarsi che Nott non fosse lì ad ascoltare. «Non fidarti di lui, Helena» sussurrò, chinandosi più vicina «so che mi senti. È un Serpeverde e sai anche tu come ragionano. Guarda Draco… che fine ha fatto? È ancora vivo? Perché non si fa sentire?». Sospirò, rivolgendo lo sguardo alla finestra. Posò un bacio sulla guancia di Helena e uscì dalla stanza, desiderando qualcosa di caldo e confortante.
Si recò all’ultimo piano, dove si sedette ad un tavolino appartato, vicino la grande finestra che dava sulla città, e ordinò un tè ai mirtilli.
Due minuti dopo, mentre era appoggiata al vetro e persa nei suoi pensieri, un cameriere le portò una bella tazza dipinta in stile cinese, con un piattino colmo di biscotti e lo zucchero necessario. Lasciò il vassoio sul tavolo e le sorrise cordiale. Astoria si sentì rincuorata dalla gentilezza di quel ragazzo e gli sorrise di rimando con gratitudine. Non era così facile trovare persone di buon umore e disposte a regalare sorrisi a persone sconosciute. Sorseggiò il suo tè con calma, con lo sguardo rivolto al panorama. Quando lo abbassò, si rese conto del biglietto che era stato posato tra la tazza e il piattino. Pensando che fosse lo scontrino, lo aprì per leggere il prezzo e pagare.
“Hai degli occhi meravigliosi. Non riesco e smettere di guardarli”.
La sorpresa le fece andare di traverso il tè, che si rovesciò un poco sul tavolo. Imbarazzata e arrossita, Astoria si affrettò ad asciugarlo e a richiudere il bigliettino, come se fosse stato qualcosa di criminoso. Si sentì allo stesso tempo lusingata e in imbarazzo, di fronte a un complimento così disinteressato e anonimo. Guardandosi intorno, capì che l’unico che poteva averlo scritto era il ragazzo che le aveva portato il tè. Arrossendo ancora di più, finì la bevanda in un sorso solo e si avviò verso la cassa per pagare ed andarsene, sopraffatta dalla timidezza. Quando fu a un passo di distanza, da dietro il bancone spuntò proprio il ragazzo che l’aveva servita, sorridendole divertito. Astoria si immobilizzò, ma si fece coraggio e pensò che il momento imbarazzante sarebbe durato poco.
«Tavolo sette?» chiese il ragazzo, facendo finta di nulla.
Astoria annuì guardando a terra.
«Il tè lo offre la casa» disse lui «ma solo se accetta un appuntamento per oggi pomeriggio» aggiunse.
Astoria sgranò gli occhi e alzò lo sguardo su di lui, sorpresa. Il ragazzo, circa sulla ventina, la guardò divertito, valutando la sua reazione. Aveva capelli castani che lei avrebbe definito “strategicamente disordinati”, una barbetta di qualche giorno e occhi castani e vivaci. Niente di particolare, un ragazzo come un altro. Ma il modo in cui la guardava, a metà tra lo speranzoso e l’allegro, la fece ammutolire d’indecisione per qualche istante.
«Che ne dici?» incalzò lui, di fronte al suo silenzio.
Astoria ripensò alla sua vita di quei giorni: attendeva in silenzio che la sua amica si svegliasse, aspettava che Draco si rifacesse vivo, e aspettava ancora per qualcosa che avrebbe cambiato un po’ la sua vita, che stava inesorabilmente prendendo una piega piatta e monotona.
«D’accordo» rispose, sorprendendo perfino se stessa.
Lui le sorrise ancora di più e sembro quasi sollevato. «Mi chiamo Thomas, a proposito» aggiunse, tendendole la mano «molto piacere»
«Astoria» gli sorrise lei, stringendogli la mano.
I suoi occhi brillarono di nuovo, di una luce gioiosa e interessata. «Originale»
«Anche troppo» rise lei.
«Thomas!» lo richiamò l’altro cameriere, indaffarato.
Il ragazzo le sorrise e si scusò. «Il dovere mi chiama. Stacco alle quattro. Ci vediamo fuori da qui per andare in qualche posto migliore?»
Astoria sorrise per quella scelta di parole, e annuì, eccitata e chiedendosi allo stesso tempo cosa diamine avesse accettato. Lo salutò con un cenno e si diresse velocemente verso la porta, con le idee annebbiate e confuse.
Scese le scale più velocemente che poté, rischiando di cadere. Quando si rese conto che il cuore stava per esploderle per l’adrenalina, si fermò a riprendere fiato.
Questa non sei tu, Astoria. Astoria Greengrass non accetta appuntamenti dagli sconosciuti. Tu non sei una tipa impulsiva e avventurosa, si disse amareggiata. Adesso chissà quel ragazzo che strane idee si farà! Penserà che sei una facile e ti porterà a ubriacarti per farti andare a casa sua!
Poggiando la testa contro il muro, Astoria si ripeté che doveva calmarsi.
Nah, andiamo. Non sembrava un pervertito che pensa solo a rimorchiare ragazze a caso. “Ma le apparenze ingannano!” le rispose una vocina nella sua testa.
«Oh, diamine!» sbottò Astoria a voce alta.
Smettila. Ormai hai accettato. “Ma puoi sempre non andarci..” propose la stessa vocina di poco prima. Ma passo le mie giornate in questo ospedale. Prima o poi mi ritroverà.
«Basta» disse di nuovo a voce alta, rendendosi conto di stare dando di matto. Concluse il suo monologo interiore e si diresse a grandi passi verso la stanza di Helena, certa che il viso angelico dell’amica l’avrebbe calmata.
La stanza era ancora vuota; Astoria si buttò di peso sullo sgabello al fianco del letto di Helena e sbuffò. «Ho appena accettato un invito da uno sconosciuto. Sono una cretina. Ti prego, dimmi che sono una cretina»
Ovviamente, non ci fu risposta.
«Va bene, ti sento comunque» rispose Astoria. «E hai pienamente ragione. Stavo praticamente parlando da sola, prima. Helena, sto impazzendo. Ho bisogno di te»
Si afflosciò in grembo all’amica e le strinse la mano, immaginando che lei potesse risponderle davvero, e sentire di nuovo la sua voce e la sua risata cristallina.
Le scappò una lacrima di rabbia e frustrazione, subito repressa dalla mano che corse ad asciugarsi la guancia.
«Brutta giornata?» chiese una voce alle sue spalle, facendola trasalire.
Astoria sbuffò nervosamente, divisa tra fastidio e imbarazzo.
Nott era appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate sul petto, vestito con il camice bianco dell’ospedale.
«Si può sapere con quale scusa continui a farti tenere qui dai Guaritori? Sei evidentemente sano» sibilò Astoria, voltandosi solo per un secondo per fulminarlo con un’occhiata inviperita.
Nott ridacchiò e si avvicinò al suo letto con passi barcollanti. «Sempre più acida, Greengrass».
«Hai rinunciato alle galanterie con me, Nott? Era ora» ribatté Astoria soddisfatta.
«Era solo formale gentilezza. Ora capisco che non è necessaria, dato che tu non ti sforzi di essere gentile con me»
«E perché mai dovrei?!»
Nott si adagiò sul letto con calma, facendo una piccola smorfia di dolore. «Vuoi la lista completa delle buone ragioni? Partiamo da una fondamentale: perché non sono tuo nemico»
«Questo lo dici tu» rispose Astoria con aria di sfida.
«Non mi stupisce che Draco non si faccia sentire» mormorò Nott, abbastanza da farsi sentire da lei.
Astoria si alzò di scatto, rovesciando lo sgabello. Si avvicinò al suo letto così velocemente e con una tale furia che lui temette quasi di aver esagerato.
«Non osare nominarlo. Mai più» ringhiò a bassa voce, guardandolo fisso negli occhi.
«Argomento scottante?» chiese lui beffardo, senza distogliere gli occhi dai suoi.
«Non sono affari tuoi» sussurrò lei tra i denti «non permetterti mai più di origliare le mie conversazioni»
«Ma quali conversazioni, Astoria?» sbottò lui esasperato «lei non può sentirti, lo sai benissimo!»
Lo schiaffo gli arrivò così velocemente che non fece in tempo ad accorgersene e a prepararsi. Nott si ritrovò con la testa piegata e la guancia in fiamme. Ci mise qualche secondo a realizzare cosa era successo, ma quando ci riuscì, Astoria era già uscita a passi pesanti, sbattendo con furia la porta alle sue spalle.
 
Astoria continuava a camminare avanti e indietro lungo la strada, arrivando dal lampione alla cabina telefonica e viceversa. Si era smaterializzata fuori dall’Ospedale subito dopo lo schiaffo che per poco le aveva dato un senso di liberazione. Riflettendoci, quando si fu calmata, ricordò che quello era la seconda volta in tutta la sua vita che usava le mani per rabbia. E, in entrambi i casi, era successo in una situazione di esasperazione. Non se ne pentiva, sebbene fosse allo stesso tempo conscia di quanto fosse sbagliato e inutile usare la violenza.
Sbuffò e si appoggiò al lampione, buttando uno sguardo all’orologio della piazza in cui si era smaterializzata. Mancava un quarto d’ora all’una: non sapeva cosa fare, né come perdere tempo in attesa dell’appuntamento. Ancora sicura di volerci andare?, mormorò la sua vocina interiore.
«Sì» rispose ad alta voce Astoria, sorprendendosi per una seconda volta. Dopotutto, cos’aveva da perdere? Non aveva voglia di tornare in Ospedale, né di tornare a casa. Hogwarts era lontana, e anche i suoi compagni. Sentiva spesso la loro mancanza, ma pensava fosse meglio lasciare che si riprendessero dallo shock ognuno per conto proprio. Aveva paura di disturbare Ginny, che stava passando quello che sarebbe stato il periodo più oscuro e difficile della sua intera vita; con Neville non aveva un gran rapporto; Luna era quasi sempre lontana da casa e Amy era tornata in Irlanda.
Dopo questo infelice inventario, Astoria si sentì più sola che mai.
Una ragione in più per andare all’appuntamento, non ti pare?, disse la vocina che apparteneva all’altra “parte” di sé. E cosa faccio nel frattempo?, si chiese angosciata e nervosa.
Si concentrò, si diede una calmata e  si smaterializzò nel centro di Londra, in una via che aveva visto su delle riviste babbane e di cui ricordava a malapena il nome. Era piena di mercatini e bancarelle colorate piene di articoli vari, ma soprattutto di cibo di tutti i tipi. Astoria rimase per un po’ incantata a osservare il via vai di persone che camminavano, affrettate o affascinate dal luogo, altre che si fermavano a parlare, ad assaggiare, a comprare. Ascoltò il miscuglio di lingue e conversazioni differenti tipiche di un posto turistico in una città grande e frequentata come Londra. Le sarebbe piaciuto vivere lì. Magari, pensava, prima o poi mi trasferirò. Trovava adorabile il gusto inglese in ogni cosa, in particolare nell’architettura e nel modo di vestire dei babbani, di gran lunga più originale e creato per osare rispetto a quello più monotono dei maghi, che poteva apparire stravagante solo agli occhi non abituati di un babbano. Si avvicinò con aria sognante a una bancarella e lasciò vagare lo sguardo sui dolcetti incartati con carta trasparente e infiocchettati, scegliendo alla fine un pacchettino di invitanti cookies. Continuò a camminare sgranocchiando i biscotti e sentendosi subito più in pace con sé stessa. Bastava poco a volte…
Gironzolò per un’oretta tra i mercati, poi si intrufolò in una biblioteca vecchio stile in cui tutto gridava l’essenza delle storie intrappolate nelle pagine, e si convinse a comprare per la prima volta un libro babbano, scritto da una certa Jane Austen che Astoria non aveva mai sentito prima; infine si ritirò in un piccolo locale per mangiare qualcosa di più sostanzioso dei biscotti e ordinò una cosa a caso dal menù. Osservando il via vai di gente, Astoria si sentì completamente fuori posto. Non sapeva nemmeno cosa diamine fosse il doppio cheeseburger che aveva appena ordinato con aria incerta al cameriere. Eppure, in quell’ambiente, finalmente si sentì protetta. Forse era l’anonimato che una città grande come Londra garantiva, o il fatto che nessuno badasse a lei perché nessuno conosceva il suo viso o il suo nome nel mondo babbano, nessuno temeva di doverle portare riverenza o, al contrario, disprezzo per la sua famiglia. Lì era una ragazza qualunque, seduta ad un tavolo qualunque intenta nel fare ciò che chiunque faceva tutti i giorni.
L’arrivo del doppio cheeseburger la spiazzò in quanto molto più grosso e condito di quanto se l’immaginava, ma si rivelò anche gustoso e in grado di saziare la peggiore fame. Iniziò il libro appena comprato e si immerse talmente nella lettura che non si rese conto che si era fatto tanto tardi che avrebbe finito per arrivare in ritardo all’appuntamento. Pagò in fretta, trovando qualche problema nel contare i soldi babbani a cui non era abituata, e si immerse di nuovo nelle strade di Londra. Soddisfatta, constatò che quel giretto nel mondo non-magico le aveva schiarito le idee e resa più tranquilla, pronta per affrontare qualcosa di tutto nuovo.
Avrebbe voluto passare a trovare Helena prima di uscire con Thomas, ma ormai erano le quattro e il ragazzo era lì che l’aspettava all’uscita del San Mungo.
Quando lui la vide, sorrise e fece un mezzo sospiro divertito. «Temevo avessi cambiato idea»
«Sono molto in ritardo?» chiese Astoria preoccupata.
«No, è che non avevi un’aria molto convinta quando mi hai detto di sì» ammise il ragazzo.
«Be’, adesso lo sono» sorrise Astoria.
«Vuoi andare in qualche posto in particolare?» le chiese subito lui, sistemandosi la giacca di pelle nera.
«Ti lascio pergamena bianca»
Lui sorrise a quel buffo modo di dire, cosa che incuriosì Astoria.
«Scusa, è che a casa mia dicono sempre in un altro modo. Sai, sono nato in una famiglia babbana.»
Astoria rimase impassibile e lo guardò con crescente curiosità.
Lui la guardò di sottecchi, mentre si avviavano lungo il viale. «La cosa ti turba?»
Astoria scrollò le spalle «Dovrebbe? Anche la mia migliore amica lo è»
Thomas sembrò sollevato e si scostò i capelli dalla fronte, gesto che poteva indicare nervosismo o forse solo un modo per essere accattivante. «Questo mi tranquillizza. Preferisco sempre metterlo in chiaro da subito. Tu sembri una ragazza di buona famiglia, e so che molte buone famiglie sono contro quelli come me..»
Astoria gli pose delicatamente una mano sul braccio per tranquillizzarlo. «Hai ragione, vengo da una buona famiglia, purtroppo Purosangue e snob, ma io non sono come loro. Con me non devi preoccuparti di questo argomento. Non pensarci più».
Lui le sorrise tra il sorpreso e il grato, e annuì.
«Allora, com’è che i babbani dicono questo modo di dire?» chiese lei per togliere di mezzo l’imbarazzo.
«Te lo racconterò davanti a una bella cioccolata calda. Andremo in un locale babbano» decise Thomas, più intraprendente, porgendole il braccio per smaterializzarsi. «Okay?»
«Assolutamente» rispose Astoria, prendendolo a braccetto e lasciando che la portasse via.
 
Verso le sei e mezza, Astoria tornò in Ospedale per dare un ultimo saluto a Helena prima che finisse l’orario di visite.
L’appuntamento con Thomas era andato in modo decente ma senza particolari degni di nota che lo distinguessero dagli altri. Era un ragazzo simpatico, dai modi vivaci e intraprendenti, ma Astoria aveva colto un po’ troppa sicurezza celata sotto quel modo di fare allegro e seduttivo. E –ormai l’aveva imparato per esperienza- gli uomini troppo sicuri di sé non sono mai un bene: rischiavano di cadere nella buca dell’arroganza con molta facilità. Astoria non gli aveva lasciato un recapito e lui non gliel’aveva chiesto, ma l’aveva lasciata dicendo: “So dove trovarti. Ci rivedremo in Ospedale”. (Frase che poteva suonare inquietante, ma date le circostanze era piuttosto normale).
Ad Astoria l’uscita aveva fatto piacere, ma non era certa che avrebbe accettato un secondo invito. Forse per noia o per non stare da sola, chissà. Ma sapeva che non ci sarebbe stato nulla di più tra loro. Non era rimasta attratta o affascinata da lui, solo vagamente incuriosita.
Salii le scale dell’Ospedale piena di pensieri, indecisa se accettare o meno un eventuale secondo appuntamento. Arrivando al piano giusto, notò che c’era più via vai del solito, ma non vi diede peso.
Quando però notò una piccola folla di persone che trafficavano attorno al letto di Helena, ebbe un tuffo al cuore. Si lanciò nella stanza e si intrufolò tra due Guaritori col cuore che batteva all’impazzata, tremando al pensiero che le fosse successo qualcosa mentre lei non c’era.
«Stia lontana, signorina» la respinse un Guaritore, sbarrandole la strada e allontanandola da Helena, semicosciente, che muoveva la testa a destra e sinistra in stato confusionale.
«Helena!» gridò Astoria senza volerlo «è sveglia! O mio Dio, è sveglia!»
«È già da più di due ore che è in questo stato» disse la voce di Nott alle sue spalle, entrando nella stanza e andando a sdraiarsi sul suo letto. «Quando si è svegliata la prima volta era cosciente e riusciva a parlare. Poi ha cominciato ad addormentarsi e a svegliarsi di continuo.»
«Da due ore?!» domandò angosciata Astoria «è già sveglia da due ore?!»
Nott sorrise beffardo «Non è colpa mia se non eri qui quando si è svegliata»
Astoria ebbe l’impulso di schiaffeggiarlo ancora, ma si trattenne per amore di Helena. Si voltò verso la sua amica e si avvicinò al suo letto, cercando di guardarla in viso, o almeno di intercettare il suo sguardo sotto le palpebre semiaperte, ma i Guaritori la allontanarono.
«Devo chiederle di uscire, la prego» chiese una Guaritrice di mezza età in modo cortese e preoccupato.
«Sono la sua migliore amica» implorò Astoria con le lacrime agli occhi.
La Guaritrice la guardò impietosita, ma poi si mostrò irremovibile. «Mi spiace, è la legge. In questo momento possono esserci solo Guaritori e paziente nella stanza»
Astoria marciò fuori infuriata con sé stessa e con il resto del mondo. L’unico momento in cui aveva abbassato la guardia per distrarsi e rilassarsi un po’, ecco che succedeva ciò che lei aspettava da tempo, proprio mentre lei non era lì per poter assistere. «Sono un disastro» si disse amareggiata. Fu in quel momento che scorse Draco alla fine del corridoio, con le mani in tasca e uno sguardo spaesato, come se fosse capitato lì per caso.
 
 
 
 
 
Note: Voglio ringraziare tutti voi lettori per il supporto che mi state dando, e vi sprono a chiedere qualunque chiarimento, qualora ce ne fosse bisogno!
Un bacione a tutti

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Capitolo 5
*** Volunteers for Hogwarts ***


Volunteers for Hogwarts
 
 
 
 
 
Da lontano, le maglie azzurre dei volontari di Hogwarts sembravano tante margherite in un prato, contrastanti con l’erba verde brillante e lucida per la recente pioggia.
Le condizioni di Hogwarts erano ancora disastrose: metà struttura era semi-demolita e completamente da rifare –Sala Grande compresa- e il parco era stato rovinato dalla battaglia quanto il castello. Di comune accordo, nella prima giornata di Volontariato, i ragazzi si sarebbero occupati proprio di giardinaggio, sotto coordinazione della professoressa Sprite e di Neville, suo nuovo aiutante.
Ginny stiracchiò le braccia e legò i capelli per stare più comoda, buttando un’occhiata al gruppo di persone che si stava radunando. Luna saltellò da lei in modo allegro, battendo le mani eccitata. «Sono così contenta di poter fare qualcosa di utile per la comunità»
«E anche per noi, se pensi che quest’anno torneremo a vivere e studiare qui» le fece notare Ginny atona. Non che non fosse contenta di potersi rimboccare le maniche e distrarsi, ma anche in quella situazione le era impossibile non pensare all’assenza di Harry.
«Già» sussurrò Luna inseguendo distratta il volo di una farfalla «ogni tanto dimentico che per noi Hogwarts non è finita. Ma sembra un luogo così diverso ora, dopo la guerra. Non è più come prima, quando la sentivo come una seconda casa. Adesso i brutti ricordi inquinano le mura di questo castello»
Ginny le rivolse un’occhiata in tralice. Non l’aveva ancora ammesso a sé stessa, ma provava la stessa cosa. Era difficile non guardare a Hogwarts come a un nido caldo, ma in quelle condizioni –distrutta e ferita alle fondamenta- sembrava solo un luogo del passato, come se fosse cambiato insieme alle persone che un tempo vi abitavano. In un certo senso, anche Hogwarts era morta. Ma, a differenza delle persone, aveva la speranza di rinascere come una fenice.
«Terra chiama Ginny» irruppe una familiare voce.
Amy stava camminando verso di lei cercando contemporaneamente di infilarsi la maglietta azzurra dei Volontari, finendo ovviamente per ingarbugliarsi.
Ginny le andò incontro con un sorriso a labbra strette, aiutandola ad abbassare la maglietta che le si era incastrata tra il collo e il braccio destro. «Guarda un po’ chi si vede» le disse Amy in tono scherzoso, dandole un veloce abbraccio. Sembrava più affettuosa di come Ginny la ricordava, meno guardinga e sospettosa, più pronta alla risata. Evidentemente la sua nuova vita con Noel le stava facendo molto bene.
«Come vanno le cose in Irlanda?» chiese Ginny.
«Oh, tutto bene, sai… pioggia, lavori, Noel.. andiamo in giro parecchio» sorrise lei. «Tra poco arriverà anche lui»
«Un paio di braccia in più fanno comodo» rispose Ginny chinando lo sguardo.
Amy intuì subito. «Novità?» chiese in tono discreto, dopo qualche secondo di silenzio.
Ginny fece spallucce con aria depressa. Amy le strinse il braccio, ma sapeva che era di poco conforto in una situazione simile. «Vorrei venire a trovarti il prima possibile»
«Quando vuoi» annuì Ginny sforzandosi di sorridere.
Amy la guardò e sentì una stretta al cuore. Si augurò che dovunque Harry fosse, si rendesse conto di quanto stava facendo soffrire le persone che lo amavano. Ginny in particolare, che non si capacitava della sua sparizione.
«Dai, andiamo a piantare qualche albero» la spronò Amy, avvolgendole le spalle con un braccio. Io Harry lo ammazzo, pensò la ragazza, mentre Ginny si asciugava velocemente una piccola lacrima che le stava scivolando all’angolo dell’occhio.
La McGranitt, a pochi passi da loro, fece cenno ai presenti –una quarantina circa- di radunarsi in circolo. La guerra l’aveva cambiata: sembrava un po’ più vecchia di come la ricordavano, ma anche più forte. Sorrise incoraggiante, mentre le Maglie Azzurre si raggruppavano, pronti a combattere una nuova battaglia, ma senza spargimenti di sangue.
«Innanzitutto, voglio ringraziare tutti voi che siete qui, che avete deciso di partecipare all’Azione Volontaria di Hogwarts e mettervi a disposizione per la comunità. Vuol dire molto per noi poter contare su persone che hanno amato e amano questo posto e che vogliono curarlo, per farlo tornare ad essere la casa accogliente che è sempre stata. Hogwarts vi ringrazia, oggi più che mai. La guerra è finita, ma adesso ci aspetta la parte più difficile: ricostruire ciò che è andato distrutto o perduto. E per farlo dobbiamo essere uniti.»
Un piccolo applauso, partito da un infervorato Neville, interruppe il discorso della professoressa, i cui occhi brillavano fieri. Lo sguardo della McGranitt corse sui visi dei partecipanti per cercare quello di Harry, rimanendo deluso nel non trovarlo.
Dopo un piccolo sospiro, la McGranitt aggiunse: «Severus Piton e Albus Silente sarebbero stati orgogliosi di voi, come noi lo siamo di loro. E prima di iniziare, voglio dare una piccola notizia: essendo io nuova preside di Hogwarts, ho deciso che -date le circostanze- ai partecipanti all’azione Volontari di Hogwarts sarà concesso di soggiornare nelle mura del castello, nei Dormitori rimasti intatti, durante il periodo di servizio e di prendere parte alla mensa del castello, riaperta dai valorosi elfi di Hogwarts. Chi di voi è interessato a restare, può stabilirsi appena finito il primo turno. Detto questo, buon lavoro!»
I ragazzi dell’ES si guardarono eccitati ed entusiasti. «Come ai vecchi tempi» sussurrò Seamus prendendo a braccetto Neville e Ginny e stritolandoli in un abbraccio doppio. Ginny era titubante: temeva che fosse ancora troppo presto per lei rientrare in quel luogo affollato di brutti ricordi.
«Che mi sono perso?» chiese la voce di Noel, che arrivava giusto in quel momento, infilandosi la maglietta azzurra.
«Un discorso toccante e il permesso di restare a Hogwarts per un po’» gli rispose Amy senza enfasi, andandogli incontro per stampargli un veloce bacio sulle labbra.
«Davvero?!» esclamò lui incredulo «possiamo restare qui? Come prima? Ma è fantastico!»
«Yeeee!» gli fece eco Seamus, il più entusiasta di tutti.
«Qualcosa non va, fiorellino di campo?» chiese Noel a Amy, che era rimasta zitta e impassibile, in tono a metà tra lo scherzoso e il preoccupato.
«Fiorellino di campo?!» sbottò Amy ridendo.
Noel la prese sottobraccio e la trascinò poco lontano, lasciando gli altri a chiacchierare sui programmi e le possibilità di quel soggiorno.
«Perché non stai saltando dalla gioia?» chiese Noel turbato.
«Dovrei?» rispose Amy scettica.
«Perché no?»
«Perché sì?» domando lei.
«La smettiamo di risponderci a vicenda con delle domande?»
Amy ridacchiò. «Forse?»
Noel sbuffò divertito e la sommerse in un abbraccio soffocante. «Cosa non mi stai dicendo, Amy?»
Amy alzò gli occhi al cielo. Dopo i precedenti segreti, il suo ragazzo non faceva altro che temere che lei gli stesse nascondendo qualcosa. «I tempi dei misteri sono finiti. Non ti nascondo più nulla, lo sai. È solo che non sono sicura di voler tornare qui. Non sono neanche sicura di voler ricominciare a studiare qui»
«Cosa?!» sfiatò Noel.
«Insomma, sono successe tante di quelle cose orrende, non so che effetto mi farebbe..» si giustificò Amy.
«Ma.. ma» boccheggiò Noel interdetto «e cosa farai, se non tornare qui?»
«Non so, non ci ho ancora pensato… magari finire l’anno in Irlanda e poi vedrò…»
«Quindi avresti intenzione di rimanere lì per sempre?» chiese lui, guardandola con un’aria seria che Amy non gli aveva mai visto.
«VOLONTARI!» li chiamò qualcuno. «In azione!»
Amy fu grata dell’interruzione, ma Noel la prese per il braccio. «Non fare finta che vada tutto bene. Parleremo dopo, questa è una questione importante»
«Certo» annuì Amy cercando di sembrare tranquilla, ma in cuor suo temendo che quel discorso avrebbe potuto portare a una grossa frattura tra loro. Come avrebbe reagito Noel, se avesse saputo che Amy aveva davvero intenzione di non andarsene mai più dall’Irlanda?
Neville si era già messo all’opera, scavando e piantando gli arbusti più adatti, che si sarebbero poi trasformati in alberi, cespugli o fiori.
Noel e Amy si separarono, il primo si ricongiunse con i compagni Tassorosso che non vedeva da tempo, mentre la seconda si unì a Ginny e Luna.
«Successo qualcosa?» chiese Luna, alzando a malapena lo sguardo per un secondo. Sapeva essere dannatamente intuitiva e perspicace.
«Solo stanchezza» rispose Amy con un sorriso tirato.
«Se vuoi ho una tisana per il sonno. Un infuso di barbabietole, prezzemolo, miele, finocchio e semi di giansjunk, una pianta che cresce solo nei fiumi e che ruba il sonno a tutte le creature del fiume. Ricavando il succo si può dormire anche mille anni» propose Luna.
«Deve essere davvero buona. Ma non amo molto gli infusi..» balbettò Amy «grazie comunque»
Ginny era silenziosa. Questa era una delle sue tante, nuove caratteristiche, dalla fine della guerra. Dovevano tutti imparare a convivere con una Ginny diversa, opposta a quella che conoscevano. Amy cercò di dirle qualcosa, ma prima di aprir bocca l’occhio le cadde sul giornale dietro il punto in cui Ginny era seduta. Si chinò in avanti e posò a terra l’arbusto che stava per piantare, aprendo il giornale in modo da leggere l’articolo in prima pagina. Riguardava Harry. Prevedibile, pensò Amy. La questione del momento: Harry Potter vivo, morto o scomparso? Lesse qualche riga dell’articolo ma non riuscì a finirlo, le diede la nausea. I capelli di Ginny, voltata di spalle, si mossero sotto i suoi movimenti, e Amy distinse un capello chiaramente bianco, immerso in quella chioma ardente. La assalì un’immensa rabbia nei confronti di Harry. Non sapeva le sue motivazioni, ma, qualunque fossero, come aveva potuto abbandonare chi aveva combattuto con lui? Come aveva potuto abbandonare Ginny? Senza neanche una spiegazione, due righe ogni tanto, giusto per rendere noto al mondo che il Salvatore-Di-Questa-Gran-Pluffa stava bene.
Amy ripiegò con cautela il giornale e si rimise a lavoro, lanciando di tanto in tanto uno sguardo preoccupato a Ginny, concentrata in ciò che stava facendo.
«Sapete» disse la ragazza all’improvviso, scostandosi i capelli rossi dal viso «ho sempre desiderato vedere un roseto nel parco di Hogwarts. È l’unica cosa che mancava».
Amy e Luna si guardarono. «Magari possiamo proporlo. Non credo che dispiacerà a qualcuno» disse Amy.
«Anzi, magari le generazione future ci ringrazieranno» esclamò sognante Luna.
«Vado a dirlo a Neville» rispose Ginny alzandosi e dirigendosi verso il diretto interessato.
«Non riesco a vederla così» mormorò Amy a Luna, dopo che Ginny se ne fu andata.
«Adesso comincia a migliorare» sussurrò Luna, con gli occhi fissi sulla piantina che stava finendo di coprire di terra. «I primi tempi sono stati i più duri»
Amy prese a mordicchiarsi le labbra, come faceva ogni volta che era nervosa. «Mi spiace non essere stata più presente… avrei dovuto esserle più vicina»
Luna le rivolse uno sguardo che non era né di rammarico né di rimprovero. «Hai fatto quello che hai potuto. Anche tu dovevi iniziare una nuova vita»
Amy le fu grata per la comprensione e le rivolse un sorriso tirato, ancora tinto di sensi di colpa. «Magari potrebbe fare ad entrambe restare qui con il resto dell’ES per qualche giorno» pensò Amy ad alta voce.
«Oh, sì, credo anche io che vi aiuterebbe molto. Dovreste proprio restare» le rispose Luna sorridendo mentre sistemava la piantina.
Da lontano videro Ginny e Neville confabulare con la McGranitt e la Sprite, la quale indicò un punto oltre le spalle di Luna e Amy. Un grosso sorriso da parte di Neville mise fine alla conversazione, e lui e Ginny si diressero verso il punto che aveva indicato la Sprite.
«Abbiamo il permesso» disse Ginny alle due ragazze che lavoravano, passando accanto a loro.
«Da quest’anno, ogni ragazza di Hogwarts potrà avere una rosa quando vuole» dichiarò entusiasta Neville.
«Il romanticismo subirà picchi impressionanti» ironizzò Amy. «Chissà quanto ci odieranno i ragazzi che si sentiranno costretti a regalare un rosa alle fidanzate»
«In compenso le ragazze ci adoreranno» ribatté Neville. «Venite con noi a piantare il nuovo bosco di rose
«Sì, qui abbiamo finito» rispose Luna alzandosi e battendo l’ampia gonna gialla che indossava quel giorno, facendo cadere foglie e un po’ di terriccio.
«Dean non è qui?» chiese Neville mantenendosi su un tono neutro.
«Arriverà tra poco» disse Luna nel suo consueto tono tranquillo e allegro, che non lasciava trasparire né rabbia né risentimento.
Neville annuì silenzioso, cercando di sdrammatizzare mentre raggiungevano il muro, ma non gli venne in mente niente di divertente da dire.
Amy lanciò uno sguardo a Ginny e cercò di iniziare una conversazione, per poter introdurre l’argomento “soggiorno ad Hogwarts”, ma proprio in quel momento la voce della McGranitt richiamò l’attenzione della ragazza.
«Weasley! Weasley!»
Ginny si voltò lentamente e fece un passo in avanti verso la professoressa, che camminava svelta verso di lei con una lettera in mano. «È appena arrivata da un piccolo gufo che sembrava quasi un pulcino. Evidentemente deve sapere che ti trovi qui. È molto intelligente»
«Grazie» rispose Ginny prendendo la lettera, e la McGranitt non capì se si riferiva al complimento per il gufo o se la stava ringraziando per averle portato la lettera. Le rivolse un sorriso tirato che voleva essere anche un incoraggiamento e tornò sui suoi passi. Non riusciva a guardare Ginny per più di un minuto. Le provocava una fitta di dolore nel cuore stanco e anziano, che non poteva sopportare ancora per molto il peso di quella guerra e delle perdite che aveva portato. Ginny era sempre stata un’allieva attiva, intelligente, appassionata in ciò che faceva, coraggiosa. Adesso le sembrava una pila senza più batterie. E aveva solo diciassette anni. La addolorava, ma per esperienza sapeva che solo il tempo poteva lenire certe ferite.
Ginny si era avventata sulla lettera con furia, sperando che fosse –finalmente- un segno da parte di Harry, ma rimase in parte delusa nel costatare che il mittente era suo fratello Charlie. Evidentemente il gufo che aveva usato aveva lasciato la lettera a casa Weasley, e da lì Leopoldo –il piccolo gufetto nero- aveva intelligentemente deciso di recapitarla fino a Ginny, sapendo di trovarla a Hogwarts.
Scartò la lettera con gesti lenti, quasi svogliati.
“Carissima sorellina, spero di venirvi a trovare a breve per poter restare un po’ di tempo con voi. Come stai? Sono molto preoccupato per te, e anche per il resto della famiglia. Vorrei che tu sappia che se dovessi sentire il bisogno di allontanarti per un po’ da lì, casa mia è aperta per te e lo sarà sempre.
A questo proposito, vorrei dirti una cosa che forse migliorerà il tuo umore o forse lo peggiorerà, anche se spero vivamente nella prima ipotesi. Harry si trova qui. Immagino che al momento tu sia molto arrabbiata con lui, e in parte hai ragione. Ma ti prego di capirlo: ha semplicemente sentito il bisogno di allontanarsi da tutto e da tutti per un po’, per riflettere e ragionare su quello che è successo. Ha perso praticamente tutti i membri della sua famiglia e i giornali non gli lasciavano un attimo di tregua. Non ha detto nulla a nessuno per non essere scoperto, per paura che i media lo rintracciassero ovunque, non per sfiducia o sadismo. Sto dicendo questo a te, Ginny, perché meriti di sapere, e perché so che sei in pena per lui. Non farne parola con nessuno, ti prego. Mi fido di te. Harry non sa che ti sto dicendo questo, mi ha pregato di non parlarne con nessuno. È arrivato qui ieri dopo aver viaggiato spostandosi di tappa in tappa per tutta l’Europa, confondendosi tra i babbani. Tornerà presto. Voleva solo aspettare che si calmassero le acque. Lo capisco, se fossi stato in lui avrei fatto lo stesso. Non avercela con lui. Mi ha confidato di sentirsi molto in colpa per non averti detto nulla, ma spera allo stesso tempo che capirai quando saprai la verità.
Vieni a trovarmi, ogni tanto.
Charlie”
 
Passò qualche minuto prima che Ginny riuscisse a trovare la forza di mettere a fuoco e comprendere appieno ciò che aveva appena letto. Harry era vivo. Stava bene. In un primo momento si sentì ardere di felicità e sollievo, ma subito dopo arrivò la rabbia. Schiacciante, ardente rabbia.
«Brutto…» cominciò a dire, mordendosi le labbra per non parlare.
Si allontanò velocemente per non venire sommersa di domande, entrando nel castello per poter stare da sola. Era certa che qualcuno l’avesse vista sgattaiolare all’interno delle mura, quindi decise di correre fino al secondo piano, dove nessuno sarebbe andata a cercarla. Si infilò in un’aula vuota, ignorando la strana sensazione che le dava camminare di nuovo in quei corridoi in cui aveva chiacchierato, amato e combattuto.
L’aula era buia, polverosa e puzzava di chiuso. Ginny si avvicinò a una finestra e la aprì, scostando le tende che sollevarono una gran nube di polvere. Poi urlò.
Insulti, frasi sconnesse, parole senza alcun senso. Era conscia delle proprie grida, ma non riusciva a smettere, e più gridava più aveva voglia di farlo. Prese a pugni e calci la cattedra e i banchi, poi passò ad usare la bacchetta. Mandò in frantumi le sedie e i vetri, la lavagna e gli alambicchi disposti su un tavolo a lato della stanza. Poi, ansante, si fermò e si accasciò a terra, gemendo. Scoppiò a piangere prima che potesse fermarsi, con un lungo lamento.
«Perché non mi ha detto niente?» gemette, poggiando la fronte alle ginocchia. «Perché?»
«Ginny?» mormorò una voce timorosa, mentre si apriva uno spiraglio nella porta, lasciando entrare una lama di luce nella penombra.
Ginny si asciugò in fretta le guance e si voltò dall’altro lato, alzandosi in piedi.
Amy era entrata nella stanza, lasciando la porta aperta per far entrare più luce. «Ero.. ero entrata per andare in bagno e ti ho sentita urlare…» sussurrò la ragazza facendo un passo avanti «non voglio essere invadente, ma ho pensato che forse avevi bisogno di aiuto..»
Ginny si era coperta gli occhi con le mani tremanti, appoggiandosi alla cattedra quasi senza forze. «Ti spiace…» disse con voce roca. Tossì per schiarirsi la voce e riprese. «ti spiace lasciarmi sola per un poco? Vorrei.. riflettere su alcune cose..»
Non c’era accusa nella sua voce, solo una lieve supplica.
Amy annuì «Certo.. scusami, me ne vado subito. Quando vuoi ci trovi nel parco»
Se ne andò e richiuse la porta senza fare rumore, convinta che sarebbe stato meglio non lasciarla sola, ma allo stesso tempo timorosa di essere invadente e inopportuna.
Ginny, rimasta sola, riuscì a calmarsi dopo qualche minuto. La breve visita di Amy l’aveva rincuorata: le aveva fatto capire che non era sola, qualsiasi cosa succedesse, anche se una delle persone per lei più importante l’aveva abbandonata nel momento in cui tutto andava per il peggio. Ma adesso sapeva che era viva e che stava bene, ed era una buona notizia: stava cercando di accettarlo e di coglierne il lato positivo. L’ES le era accanto. Adesso lo capiva con certezza più che mai, anche se prima le era sembrato poco importante. Non lo era, lo aveva finalmente compreso.
Hogwarts mi chiama, pensò Ginny mentre usciva dall’aula e si immergeva di nuovo nella luce del giorno, sarà meglio ascoltarla e restare per un po’. 

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