Evernight, l'amore oltre i confini.

di Wave__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'inizio di tutto - Capitolo 1. ***
Capitolo 3: *** Quando tutto è così difficile - Capitolo 2. ***
Capitolo 4: *** Dopo una discussione è meglio non lasciare nulla in sospeso - Capitolo 3. ***
Capitolo 5: *** Da male in peggio - Capitolo 4. ***
Capitolo 6: *** Quando qualcosa si spezza - Capitolo 5. ***
Capitolo 7: *** Rivederlo fa così male - Capitolo 6. ***
Capitolo 8: *** Cosa si può fare per rimediare? - Capitolo 7. ***
Capitolo 9: *** Le cose sono destinate a cambiare - Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** La realtà cambia in modo imprevedibile - Capitolo 9. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Evernight – L’amore oltre i confini.
 
 
Dedico questa storia a coloro che mi sono stati affianco, costantemente, che non mi hanno mai abbandonata, che mi hanno dato la forza e la volontà d’inseguire la mia passione, senza freni, senza rimpianti.
Coloro che mi hanno fatto capire, che rischiare ne vale davvero la pena, quando hai un sogno, una passione. 
Si, perché scrivere è questo: riempie il cuore e la mente, riempie la vita.
La dedico a coloro che mi hanno fatto crescere durante questi anni, non farò i loro nomi, ma so che capiranno. Sono loro, quelle persone che mi riempiono i giorni, quelle persone per cui vale la pena rischiare tutto, quelle persone che mi hanno fatta crescere, che mi hanno insegnato che cosa voglia vivere davvero, quelle persone che mi hanno insegnato che cosa voglia dire amare davvero.
E’ a loro, che dedico la mia storia. 
Alla mia Famiglia.
Immensamente, Vi Amo.


 
PROLOGO.
 
Diciassette anni.
Una piccola adolescente che è lì, in bilico, tra l'essere una ragazza e il diventare una donna.
Diciassette anni, capelli lunghi e scuri, occhioni grandi color nocciola, che guardano il mondo con aria spaesata, con l'aria di chi ha perso la strada, con l'aria di chi darebbe tutto, per qualcosa di vero e puro, come un Amore che nasce dalle profondità del proprio io.
Diciassette anni..
Ma cosa sono alla fine?
E' solo un numero, uno stupido numero. O forse un numero che vale tutto.
Chi lo può sapere?
Tutti dicono che siano pochi per amare, ma dove c'è scritto che dev'esserci un’età, per amare? Amare davvero, amare forte? Amare con tutto sé stessi? Nessuno.
Non esiste un’età perfetta, per iniziare ad amare.
L'amore è questo. L'amore ti prende e ti sradica, ti catapulta in posti e luoghi che non ti saresti mai aspettato. In luoghi inesplorati. In luoghi che vivono dentro di te, che crescono dentro di te. Nei campi di grano che si hanno nell'anima, quei campi dove si corre spensierati, pieni di vita, di gioia, di voglia d'amore. Di voglia d'AMARE.
L'amore.. Tutti ne parlano, ma che cos'è realmente? Come si fa a descrivere?
L'amore è questo. E' un sentimento, unico, speciale, differente per ogni persona.
L'amore non si può esprimere a parole, si sente, si vive. Nei gesti, nei tocchi..

Ma soprattutto lo si vive nello sguardo, quello sguardo così intimo e così profondo, che incatena i vostri occhi, quello sguardo che letteralmente ti scalda, ti deturpa l'anima, te la leviga, fino a quando quelle due anime non combaciano perfettamente.
Finchè quelle due anime si fondono in qualcosa di unico che può essere descritto solamente con una parola: NOI.
Non esistono più due persone. N'esiste una sola; un'unica persona che spartisce ogni cosa, ogni attimo di vita o di morte.
L'hai mai provato un Amore così forte, per cui vale la pena morire?
L'hai mai provato un Amore così forte, per cui daresti tutto, anche ciò che non hai?
L'hai mai provato un Amore così forte, per cui saresti disposta a strapparti il cuore dal petto, per proteggere chi ami?
L'hai mai provato un Amore così forte, da dire: "Si, ti seguo ovunque tu voglia. L'importante che tu resti con me"?
L'hai mai provato un Amore così grande, immenso, che quando lui non c'è, ti manca l'aria, l'ossigeno, perchè lui è il tuo ossigeno?
Bhè, è qua che tutto ha inizio. E’ da qua che la storia ha inizio.
Una ragazza che non credeva più all'amore e un ragazzo che non ci aveva mai creduto, che non lo voleva neppure.
Lei, la ragazza che veniva descritta come "l'innocente Cappuccetto Rosso", e lui.. Lui che si descriveva come "il Lupo Cattivo" che avrebbe potuto mangiarla da un momento all'altro.
..Nessuno avrebbe mai immaginato che, dal giorno in cui i due si conobbero, tutto sarebbe notevolmente cambiato.
Per entrambi.




Bene, questo è soltanto l'inizio. Recensite in tanti e fatemi sapere quel che ne pensate. Quando ci saranno un paio di recensioni, posterò anche il primo vero capitolo. ;)

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Capitolo 2
*** L'inizio di tutto - Capitolo 1. ***


L’INIZIO DI TUTTO - CAPITOLO 1
 
Ciao! Mi chiamo Janelle Ravenwood, ma tutti – o quasi – utilizzano il mio soprannome: Ever. Questa che vi racconterò è la mia storia, ma non una storia qualsiasi, non una storia come quelle che si vedono nei film. Questa storia è reale e anche io ho faticato a credere a tutto quello che stava succedendo, inizialmente. Ma poi quella realtà che credevo non esistere, è diventata parte della mia vita, che si è completamente trasformata in pochi mesi.
Sono passata da "vita tranquilla di una diciassettenne stronza che usava i ragazzi per puro divertimento" a "vita frenetica, impossibile, ma soprattutto paranormale di una diciassettenne innamorata".
 
«Jan, svegliati! E’ tardissimo ed è solamente una settimana che vai a scuola!»
Sentivo la voce lontana di mia madre. Sempre la solita madre apprensiva che viziava la figlia maggiore come nessuna mai vizierebbe la propria.
Ero la sua prescelta. Mi amava. Quasi mi venerava come se fossi una Dea.
Bhè che dire, avevo avuto la fortuna di nascere in una famiglia ricca e di avere tutto quello che avevo sempre desiderato.  
«Janelle Ravenwood, muoviti, o farai tardi!»
La sua voce era distante, eppure anche così dannatamente vicina.
Sempre mamma che mi chiamava. Non poteva starsene zitta?
Ero nel bel mezzo di un sogno. Si, un sogno che mi perseguitava, uno di quelli che non lasciano scampo. Nulla riusciva mai a strapparmi da quell’incubo.
 
«Corri Ever! Corri e non ti fermare.. Non ti puoi far prendere dal panico!»
Erano quelle le parole che rimbombavano nella mia testa. Continuamente.
Continuavo a correre, voltandomi a ogni passo. Sentivo la sua presenza costante dietro di me ma non riuscivo a vederlo. Sapevo che era un uomo. E voleva me.
Mi voleva per sé.
«Non mi scapperai, tu sei mia. Mia. Ancora non l’hai capito?!»
Avevo i brividi, quella voce era possente, ringhiava, ruggiva.
Sentivo il suo respiro sulla nuca, così dicevo alle mie gambe di correre più forte.
Correvo e più correvo, più mi mancava il fiato, sentivo i polmoni bruciare, quasi come se stessero andando a fuoco; sapevo di stare per cedere ma non potevo.
Non potevo fermarmi, non potevo arrendermi.
Dovevo liberarmi di Lui. Solamente dopo, mi sarei fermata.
Solamente dopo avrei detto stop.
Il silenzio prese posto, facendomi voltare improvvisamente. I suoi passi non si sentivano più.
Il bosco tutto a un tratto era diventato calmo, confortante quasi.

Avrei tanto voluto tirare un sospiro di sollievo, lo stetti per fare, quando..
Quanto tutto successe in una frazione di secondo.

Qualcuno che mi fissava, qualcuno che mi stava perforando da parte a parte con un semplice sguardo. Lentamente, totalmente impaurita e tremante, mi voltai e mi ritrovai faccia a faccia con quell’orribile mostro.
Lui aprì la mandibola, mostrandomi i lunghi canini.
Feci per urlare, ma non ne ebbi il tempo.
I suoi denti s’infilarono nella mia carne.

Mi svegliai di soprassalto, tutta sudata. Il babydoll appiccicato perfino alla pelle. Quell’incubo mi perseguitava. Com’era possibile sognare per una settimana di fila la stessa cosa? E cosa ancora più strana se sognavi.. Un vampiro.  Mi passai una mano tra i lunghi capelli scuri, cercando di calmarmi, cercando di calmare soprattutto il battito del mio cuore, che ancora martellava nel petto.
«I vampiri non esistono, Ever. Non esistono.» dissi tra me e me, scuotendo la testa per levarmi quel pensiero dalla mente, che ormai era diventato il mio tormento giornaliero.
Non riuscivo a pensare ad altro per tutto il giorno e di sera, avevo costantemente l’ansia di andare a dormire. Se avessi potuto, non lo avrei fatto.
Il pensiero di poter sognare ancora la stessa cosa, mi destabilizzava.
Perché diamine quel sogno era così ricorrente?
Dovevo lasciar perdere tutto. Forse s’evitavo di pensarci, le cose sarebbero cambiate. Quello che il mio inconscio creava, sarebbe svanito nel nulla.
Mi alzai dal letto, stirandomi. Dai lunghi tendoni entrava un sole brillante e per essere l’inizio di settembre scottava ancora. Le aprii, guardando fuori dalla finestra, ammirando il bellissimo paesaggio che si vedeva. Le montagne lontane che circondavano Yellow Stone e che di li a breve si sarebbero riempite di neve.
Ecco un altro dei motivi che mi facevano amare questa cittadina.
Dopo aver contemplato il panorama, andai a farmi una doccia rapida.
L’acqua tiepida mi tolse di dosso il peso di quel sogno. Dovevo smetterla di farne un dramma. Era uno stupido e schifoso incubo incoerente.
Mi vestii con i migliori vestiti che avevo, asciugandomi i lunghi capelli, che andarono successivamente a formare un’alta coda di cavallo, che lasciai ricadere sulla schiena.
Presi la mia borsa dall’armadio, infilandoci l’occorrente scolastico ma, prima di uscire dalla mia camera, mi guardai rapidamente allo specchio.
«Come sempre sono impeccabile.» sussurrai alla mia immagine riflessa, sorridendo.
Scesi rapida le scale, andando verso la cucina.
«Buongiorno mamma! Buongiorno Matt!» salutai entrambi dando loro un bacio sulla guancia.
«Ever, amore, oggi torni a casa o resti da Charlotte?»
«Da Charlie, mamma.»
«Non avevo dubbi.» rispose mio fratello, in tono decisamente freddo.
«Mi dici che ti succede, tesoro? E’ da quando sei in piedi che ti comporti in questa maniera.»
«Cosa vuoi che mi succeda, uhm? Ever è amata da tutti, ma io, invece? Io sono visto da tutti sempre e solamente come il fratello di miss Janelle Ravenwood.»
«Ever è il capo delle cheerleader, Matt. E’ normale che la conoscano.»
«Ero, mamma. Ero. E’ da un anno che non sono più il loro capitano. Per via di quel problema al ginocchio.»
Mamma non mi ascoltava mai, faceva di tutto per mettere Matt in secondo piano.
Ed io, per quanto superficiale fossi, odiavo quando si comportava in quella maniera.
Non mi piaceva che facesse sentire mio fratello come “la pecora nera” della famiglia.
Mi avvicinai a lui, abbracciandolo d’istinto.
«Hei, sarò anche popolare e tutto il resto, ma guarda che sei sempre il fratello migliore del mondo ed io ti voglio un bene dell’anima. Non scordarlo mai.»
Lo guardai negli occhi, sorridendo, quando improvvisamente lo sguardo mi si posò sull’orologio appeso sopra la porta. Merda, merda, merda!
Mancava solamente un quarto alle otto.
«Oddio, è tardissimo! Ho appuntamento nel cortile della scuola con Charlie!»
Non diedi loro il tempo di rispondere, non aspettai neanche mio fratello. Non diedi loro neanche l’attimo per dire qualcosa.
Uscii come una furia da casa, sbattendo la porta, sentendo mia madre imprecare per la mia furia mattutina. Feci il primo pezzo di strada correndo, fermandomi ed iniziando a camminare, in modo tale da riprendere fiato.
Sapevo che di li a poco avrei rivisto la mia migliore amica, Charlotte - per gli amici Charlie -, che era stata a Newport Beach dai parenti per tutta l'estate e anche per la prima settimana di scuola. Alla fine poteva permetterselo, all’inizio del nuovo anno scolastico, non si fa mai nulla.
In qualunque caso, non potevo e non volevo permettermi di fare neanche un solo e unico minuto di ritardo. La voglia di riabbracciarla era grande, immensa.
Con quel pensiero fisso, mi diressi nel mio regno. La mia scuola.
La scuola a cui tutti ambivano, ma ove solamente pochi potevano entrare.
Era lì, che ero cresciuta, era lì che avevo amici, ma anche nemici.
C’era chi mi amava, e chi mi odiava, per invidia, per quello che ero.
La Yellow Stone College.

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Capitolo 3
*** Quando tutto è così difficile - Capitolo 2. ***


QUANDO TUTTO E’ COSI’ DIFFICILE - CAPITOLO 2

Arrivai come una furia a scuola, entrando nel cortile scolastico quasi di corsa, alla ricerca di Charlotte. Non la vedevo da nessuna parte, dove diamine era, quando la cercavo?! Mi balenò nella mente l’idea che potesse non essere ancora arrivata. Probabile. Era sempre in ritardo, quella ragazza.
Da quando ero entrata nel cortile della scuola la maggior parte dei ragazzi che erano li a studiare o ripassare per interrogazioni o verifiche di quel giorno, si erano girati a fissarmi. Sentivo su di me i loro occhi fissi, che mi scrutavano, ma ormai dopo quasi quattro anni di popolarità alla Yellow Stone, mi era abituata a tutto questo.
All’inizio tutti quegli sguardi puntati su di me, non avevano fatto altro che mettermi in suggestione, non li volevo, non mi sentivo così “bella” o “popolare”, da avere così tanta notorietà solamente al primo anno di liceo.
Con il tempo, poi, ci feci comunque l’abitudine.
Essere popolare era qualcosa che tutti avrebbero voluto essere, ma ehi!
Nessuno era come Janelle.
Ignorai tutte quelle occhiatacce sulla mia persona, continuando a cercare Charlie, alzandomi di tanto in tanto in punta di piedi, per vedere anche più lontano.
Il mio cuore perse un colpo. La vidi. Vicino al nostro albero.
Quello sotto il quale, tre anni prima, ci eravamo tirate i capelli davanti a tutti per il ragazzo da portare al ballo, quello dove avevamo discusso la prima volta, ma soprattutto quello dov’era nata da nostra grande amicizia in un giorno freddo d’inverno, quasi undici anni prima.
Si, perché prima di diventare “Yellow Stone High”, quella struttura era adibita come scuola elementare. Era lì che tutto aveva avuto inizio, per noi due.
Lei stava piangendo ed io era andata a consolarla, non conoscendola.
Non sapevo neanche perché piangesse, ma sinceramente non me ne importava neanche. Ero sì una piccola bambina di solo sette anni, ma già all’epoca ero superficiale e menefreghista, sinceramente. Anche se avevo sempre avuto una dote particolare: l’empatia.
Ero sempre stata fatta così; amavo aiutare le persone in difficoltà, nonostante il mio egocentrismo e il mio orgoglio smisurato.
I momenti passati con Charlie, erano i ricordi migliori della mia infanzia e della mia adolescenza.
Mi fermai a guardarla un istante, lasciando dipingere sul mio volto un largo sorriso. Le corsi incontro e, senza farmi vedere, le gettai le braccia al collo da dietro, saltandole in spalla, come quando eravamo quattordicenni.
«Amore mio, sei qui! Di nuovo a Yellow Stone!»
Esclamai, dandole un bacio sulla guancia, continuando a starle attaccata come un koala fa con il suo albero.
«Quanto mi sei mancata neanche lo immagini! Ho passato più di tre mesi infernali senza di te. Tre lunghissimi e fottutissimi mesi, lontana dalla mia migliore amica, che era a spassarsela con i ragazzi più ricchi, viziati e soprattutto magnifici di quella cittadina della California!»
«Dai stupida, scendi dalla mia schiena! Giuro che se fai toccare il suolo ai tuoi piedi, ti racconto ogni cosa» mi urlò ridendo, posando le sue mani sotto alle mie gambe, come a sorreggermi per quello sforzo.
La lasciai andare, entusiasta, emozionata, portandomi di fronte a lei e, senza darle neanche il tempo di fare nulla,
«Tesoro, mi sei mancata troppo. Non sono riuscita a dormire per tutta la notte, mi sono rigirata dieci mila volte, ma niente. Ero troppo agitata e ansiosa di rivederti. Pensavo che anche oggi avresti fatto ritardo, come tuo solito, ma invece sei più puntuale di un orologio svizzero, una volta tanto»
Rise abbracciandomi nuovamente. Non le dissi nulla dell’incubo che avevo avuto, anche perché, ehi, era appena tornata!
Mi staccai, questa volta definitivamente, prima di riprendere a sorriderle.
Si notava quanto entrambe fossimo affiatate, quanto entrambe avessimo condiviso e spartito gran parte di noi stesse, della nostra breve vita.
«Tu mi sei mancata, davvero troppo.» sorrisi. Non sapevo neanche descrivere la mia felicità in quel momento, la felicità d’averla al mio fianco.
«Parlando d’altro, ci sono così tante novità qui a scuola, che neanche t’immagini! A partire dai ragazzi.»
«Oddio, sentirti dire queste cose mi riempie il cuore di gioia. L’esserti mancata, oddio..», poi cambiò discorso, curiosa di sapere tutto come il suo solito.
«Novità?! Voglio sapere tutto, dimmi tutto! Sono tutta orecchie. Ma dimmi.. Alex come sta? Dov’è? Voglio rivedere anche lui.»
Vedere quel sorriso dipinto come se fosse un ritratto sulla faccia di Charlie per me era semplicemente tutto, mi dava tutto.
Ma appena sentii nominare Alex, il mio cuore di riempì di dolcezza, tenerezza, tristezza e nostalgia di lui. C’era un miscuglio d’emozioni dentro di me, a cui non sapevo bene dare un senso, se proprio volevamo dirla tutta.
«Alex è ancora via, non è tornato e ha perso l’inizio scolastico, proprio come te. Ho provato a contattarlo per parlarci ma.. Nulla. Il suo cellulare suona sempre spento. Mai una chiamata in rimando, un messaggio. Niente di niente. Credo che mi stia evitando.» sospirai, per poi appoggiarmi a un albero e alzare gli occhi al cielo, guardando le nuvole. Era colpa mia se Alex se n’era andato.
Era colpa mia se adesso non era ancora tornato.
Dov’era? Come stava? Gli era per caso successo qualcosa?
L’ansia mi logorava in maniera micidiale.
«Non dire così, Ever. Siete migliori amici da sempre, da una vita ormai. Non potrebbe mai evitarti. Se è per quella discussione che avete avuto tempo fa, gli sarà già passata. Vedrai che appena tornerà, sarà tutto come prima. E poi, te l’ho sempre detto che penso che lui abbia una cotta storica per te.»
Lo sapevo che era gelosa del rapporto tra me e il mio migliore amico, in fondo lo era sempre stata.
Sapevo che anche lei avrebbe desiderato un amicizia con un ragazzo, così proprio come la mia, però per il momento, lei non l’aveva mai avuta.
In ogni caso centrò proprio l’argomento.
Ciò che Alex provava per me. I suoi sentimenti nei miei confronti.
Cuore che io avevo spezzato. Come una stronza.
«Hai presto in pieno l’argomento, Charlie. La cotta di Alex», la vidi guardarmi, seriamente, come se non capisse di cosa parlavo. Sospirai, scuotendo la testa e decisi di continuare e raccontarle tutta la verità.
In fondo se la meritava. Era la mia migliore amica, no?
«Vedi, Charlie.. Io e Alex.. Quest’estate..»
Mi bloccai, titubante. Sicura del fatto che l’avrebbe presa male, se non peggio.
Non si sarebbe di certo immaginata una cosa simile. I miei pensieri vennero interrotti dalla sua voce che, curiosa come non mai, richiedeva informazioni.
«Dai, Ever.. Non è da te non sapere come dire le cose. Sputa il rospo. Tu e Alex.. Cosa? Continua, ti ascolto. Ti prometto di non giudicarti. Non dirò niente di inappropriato, croce sul cuore.»
Ecco che la parte tanto dolce di Charlotte usciva allo scoperto.
Sapevo che non mi avrebbe mai e poi mai giudicata, nonostante le numerose cazzate che tempo addietro avevo combinato e di cui di certo non mi andava di parlare. Presi un grande respiro profondo, riprendendo così il precedente discorso su me e Alex.
«Abbiamo provato a stare insieme quest’estate. Ecco perché ti dico che mi sta evitando!»
Sputai quella frase con tutto il fiato che avevo in corpo, con voce smorzata e spezzata, quasi in un sussurro, in modo che potesse sentirmi solamente lei.
Era diventato così tanto un peso che non riuscivo più a tenerlo solo con me.
Non avevo nessun altro a cui dirlo. Lei era l’unica di cui io ciecamente mi fidassi.
Adesso condividevo questo segreto con qualcuno.
Notai i suoi occhi sbarrarsi per lo stupore, il suo sguardo assumere un espressione a dir poco shoccata. Si, ero sicura che non fosse affatto contenta di sapere ciò che era successo tra noi due.
«COSA?!? Tu e Alex siete stati insieme e non mi hai detto nulla per tutta l’estate?»
Il mio sentire quella parola scandita, mi diede quasi i nervi, così come il suo tono di voce notevolmente alto.
«Abbassa la voce, Charlie, cavolo!» dissi stizzita, tappandole la bocca con la mano.
La guardai con un espressione che stava a dire “che diamine, ti dico una cosa e la vai a spiattellare ai quattro venti? Tappati la bocca.”
Aspettai che annuisse, facendomi intendere che avesse capito.
Levai la mano, facendola così tornare a respirare.  
«Oh cazzo, non ci credo ancora, è così difficile da comprendere! Tu e Alex.. Insieme?» fece una risata forzata, sospirando poco dopo. Potevo quasi sentire la sua gelosia nell’aria, andando ad impossessarsi di tutte le sue membra.
«Ma tu provi qualcosa per lui?»
Ecco lì, quella domanda a cui sinceramente non sapevo cosa rispondere.
Gli volevo bene, ma solamente come amico. Non saremmo mai potuti essere niente di più, e niente di meno. Scossi la testa, facendo un profondo respiro.
«Hai presente quando hai un migliore amico da tanto tempo e provi a starci insieme, anche se per poco tempo, per vedere se c’è qualcosa di più della semplice amicizia? Stare con lui per un mese soltanto, mi ha fatto capire che oltre la nostra semplice e unica amicizia non ci potrà mai essere nient’altro. Io lo vedo solo come il migliore amico mai esistito e il migliore amico del mondo.»
Feci una pausa per poi guardare negli occhi la mia migliore amica, senza sapere bene come continuare, cosa dire.
Dovevo trovare le parole. Obbligatoriamente.
«Dopo quello che è successo quest’estate, il fatto di stare insieme.. Mi sembra come se io e lui fossimo da due parti opposte di un valico enorme. Gli ho distrutto il cuore, Charlie. Gliel’ho distrutto totalmente. L’ho illuso, gli ho fatto credere chissà cosa e poi.. Poi semplicemente l’ho lasciato andare.»
Iniziavo a vedere appannato, gli occhi mi erano diventati lucidi tutto d’un botto, senza neanche che io me ne rendessi conto. Riuscii a trattenere le lacrime, odiavo piangere in pubblico, odiavo farmi vedere debole in quella maniera.
«Vieni qui, piccola. Non ti preoccupare, vedrai che tutto si sistemerà. Ci sono qui io con te. Sai che qualunque cosa tu faccia o scelga, io ti appoggerò sempre.»
L’abbraccio di Charlotte fu quello che di più desideravo in quel momento. Quelle parole le venivano dal cuore. Era davvero la migliore amica che io potessi mai desiderare. Sempre lo sarebbe stata.
«Grazie davvero per tutto quello che fai, tesoro. Sei davvero l’unica e sola migliore amica che io potrò mai avere. Sei la migliore amica del mondo.»
In quel momento la campanella che segnava l’inizio delle lezioni suonò.
Mi girai istintivamente e notai tutti gli studenti che si trovavano nel cortile salire le scale per entrare nelle apposite classi.
«Sarà meglio che mi sbrighi, già ho fatto una settimana in più di vacanza, se faccio tardi quell’arpia mi fa fuori.»
Mi misi a ridere sentendo le parole di Charlie, dandole una leggera pacca sulla spalla.
«Dai muoviti, prima che ti prendi una bella sgridata appena tornata.»
La vidi allontanarsi quasi correndo, immergendosi nel turbinio di studenti, che avanzavano lenti e chiacchieranti sulle scale dell’ingresso.
Fu in quel momento che notai una figura maschile, con indosso un giubbotto di pelle scura, attaccato con una spalla al tronco di un albero del cortile scolastico.  Guardava dalla mia parte. Lasciai lo sguardo vagare nel campus, notando d’essere rimasta una delle poche ancora lì fuori.
Quando andai a scorgere con i miei occhi di nuovo il punto in cui poco prima era appoggiato il ragazzo, mi resi conto che non c’era più.
Né lì, né in nessun’altra parte all’esterno.
Non era di certo uno studente. Non l’avevo mai visto. Forse uno nuovo?
Impossibile. Non c’era nessuno così alla Yellow Stone.
Dovevo avere le allucinazioni. Si, dovevo essermelo semplicemente immaginato.
“Tutta suggestione. Tutta fottuta suggestione causata dal sogno.”
Scossi la testa, alzandola poco dopo al cielo, chiudendo gli occhi e lasciando che i miei pensieri tornassero a quest’estate, alla cazzata commessa con Alex.
I nostri baci, gli abbracci, gli scherzi, i sorrisi, le volte in cui intimamente eravamo stati assieme.
Ero squallida. Ero una persona squallida, c’era poco da dire. O da fare.
Mi riscossi dai pensieri quando la campanella suonò la seconda volta, indicando l’inizio delle lezioni. Dovevo davvero entrare, nonostante non ne avessi proprio voglia, quella mattina.
Mi staccai dal tronco dell’albero, incamminandomi rapidamente verso l’entrata poco distante, entrando così alla Yellow Stone.
Furtivamente mi guardai attorno, sentendomi come osservata, anche se da lontano. Nessuno, non c’era nessuno.
Chi era quel ragazzo? L’avevo solamente immaginato, oppure era reale?
“Smettila di pensare a queste idiozie, Ever.”
Spalancai la porta, che nel frattempo si era richiusa, facendo tintinnare i tacchetti bassi nel corridoio ormai deserto.
Sarebbe stata una lunga giornata.. Soprattutto se la prima ora della mattinata era chimica.

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Capitolo 4
*** Dopo una discussione è meglio non lasciare nulla in sospeso - Capitolo 3. ***


DOPO UNA DISCUSSIONE E’ MEGLIO NON LASCIARE NULLA IN SOSPESO - CAPITOLO 3

Prima ora: chimica. La materia che odiavo di più al mondo. Ma chi l’aveva inventata? Entrai in classe, sbuffando. Quell’argomento era a dir poco insopportabile. Feci scorrere il mio sguardo in lungo e in largo alla ricerca di qualcuno che conoscessi. Il mio sguardo si puntò su Stephanie Rinaldi, nuova arrivata, origini italiane e capelli colore rosso fuoco. Era già seduta al suo posto con aria seccata. 
Le voci che circolavano a scuola su di lei, non erano delle migliori, anzi. Si diceva che aveva gravi problemi famigliari e che sua madre fosse morta quando lei era ancora piccola. Non volevo neanche immaginare che cosa significasse vivere senza una madre, non volevo proprio immaginarlo.
Non avevamo un vero rapporto, insomma, non che io simpatizzassi tanto per i nuovi arrivati. Però potevo pur sempre fare un’eccezione, no?
Mi ricordai la prima volta che l’avevo vista aggirarsi furtivamente tra i corridoi della scuola, la precedente settimana, con un cappuccio a coprirsi la testa. Non avevo mai visto una ragazza con i capelli naturali rossi in quel modo. 
Avrei dovuto integrarla, il mio essere empatica nei confronti delle persone in difficoltà, mi portava ad avvicinarmi a tutti quelli che avevano problemi. Ero fatta così, non potevo farci nulla e quella parte di me stessa non l’avrei mai e poi mai cambiata. Non vedevo di buon occhio la sua integrazione nel duo mio e di Charlie, anche perché eravamo state per ben undici anni solamente noi due. In quei giorni, comunque, ci avevo riflettuto. Si, mi sarebbe piaciuta averla come amica. Assolutamente. 
Il suo carattere era forte, lei era una forza e, anche se la conoscevo semplicemente in maniera superficiale, avevo capito che sarebbe potuta nascere una grande amicizia.
Mi avvicinai al banco dov’era seduta, in terza fila, posando la mia borsa proprio sul tavolo, afferrando la sedia e mettendomi comoda, proprio al suo fianco, stampandomi sul viso un bel sorriso. Il sorriso che mi rispecchiava e che era sempre solare. 
«Hei, buongiorno Red.»
“Red” era il soprannome che io stessa le avevo dato, pochi giorni prima, quando davanti a tutta la scuola l’avevo chiamata così. Era stata una mossa di pessimo gusto, la mia, ma l’importante era imparare dagli errori, no? 
Per poco non ci prendevamo a schiaffi, davanti a tutti. Ed ora, dopo neanche una settimana, eravamo seduta l’una al fianco dell’altra a parlare.
Volevo chiarire le cose con lei. Avevo sbagliato, totalmente.
I suoi occhi mi fulminarono, fissi su di me.
«La smetti di chiamarmi in quella maniera? Non mi piace, per nulla. Chiamami che ne so Stef, Steffy.. O come vuoi tu, ma non usare quel soprannome. Mai più.»
Okay, avevo perfettamente capito che odiasse quella parola che riprendeva il colore rosso dei suoi capelli.
«Red non è mica così male, devi solamente farci l’abitudine.. Forse.» le sorrisi, divertita, accavallando le gambe, 
«Dici te. Vedremo. Comunque sia, tutto normale. Insomma, il solito. Tu, invece?»
«Mi sento abbastanza uno schifo, ma.. Mi passerà.» Sospirai, posando i gomiti sul banco. 
Non rispose a ciò che dissi, anche perché, che cosa poteva fare? Chiedermi che problemi io avessi? No, non mi conosceva neppure bene ed inoltre, io mi sentivo ancora abbastanza a disagio per ciò che le avevo fatto precedentemente. 
Non volevo fare la doppiogiochista con lei e non volevo neppur lasciare questioni in sospeso, se fossimo diventate amiche in un tempo più lontano.
Presi coraggio e aprii la bocca, lasciando le parole uscire da sole. 
«Red, senti.. Vorrei chiederti ancora scusa per averti preso in giro, sai per.. I tuoi capelli. Voglio chiarire le cose, non voglio lasciare niente in sospeso.. Ho sbagliato e ho fatto una cazzata, per cui ti porgo ancora le mie scuse..» 
Lasciai cadere la frase, non sapendo come continuare. Io non ero una persona che si scusava, non mi ero mai scusata in tutta la mia vita, perché avrei proprio dovuto iniziare a farlo in quel momento?
Per quanto stronza potessi essere, nonostante tutto, anch’io avevo un cuore.
«Senti non importa okay? Per me il passato non è importante, adesso lo è, il presente. Ti chiedo solo di non farlo più. La prossima volta non esiterò a tirarti uno schiaffone in piena regola, sono stata chiara? Non parliamone più, intesi? Quel che è fatto è fatto!»
Le sue parole mi spiazzarono, non pensavo ad un’uscita in quel modo, in piena regola. Mi guardò un istante, per poi voltarsi a guardare fuori dalla finestra, facendo perdere il suo sguardo nella limpidezza del cielo. Chissà a cosa stava pensando. 
Stephanie sapeva il fatto suo, era in gamba, caratterialmente tosta, sapeva come farsi rispettare anche mettendosi contro la ragazza più popolare della scuola. Nessuno l’aveva mai fatto e dovevo ammettere che la faccenda mi aveva lasciata al quanto perplessa, ma non mi ero di certo fatta abbattere. 
«Ricominciamo proprio da capo, dunque.» 
Allungai la mia mano nella sua direzione, aspettando una sua azione. L’avrebbe stretta, in segno di “resa”, oppure avrebbe continuavo ad ignorarmi?
«Janelle Ravenwood, ma tutti mi chiamano Ever.»
Restò un attimo perplessa da quel mio gesto, sicuramente inaspettato. Sbatté le palpebre, ripetutamente. Alla fine si decise. 
Allungò la sua mano verso la mia, stringendola. 
«Piacere mio. Stephanie Rinaldi, appena arrivata in Italia. Una volta tutti mi chiamavano Steffy, ma dopo una brutta discussione con una ragazza, di cui non ricordo il nome, il mio soprannome è diventato Red.. Forse. Credo che tu possa immaginare il motivo.», rispose in modo sarcastico, indicandosi i capelli, ridendo.
Scossi la testa, come a non capire a che cosa si riferisse.
«Uhm, non ne capisco proprio il motivo» le feci l’occhiolino, sorridendo e scompigliandole i capelli. 
«Ehi, ehi, ehiii! Giù le mani dai miei capelli, ferma! Non mi piace che me li tocchino.» 
Se li aggiustò con le mani, facendoli tornare in ordine. Oltre a essere una ragazza dal comportamento eccezionale, era anche una ragazza dal portamento impeccabile. Possedeva tutte le caratteristiche per diventare mia amica e finire sotto la mia ala protettiva.. Anche se non ne aveva assolutamente bisogno. 
Sapeva difendersi da chiunque l’avesse toccata su un nervo scoperto.
Che strano, il professore non era ancora arrivato. Meglio. Meno seguivo quella materia, meglio era. 
Mi riscossi dai miei pensieri quando con la coda dell’occhio, vidi arrivare in classe, correndo come suo solito e con un abbigliamento disastrato come sempre, la mia peggior nemica. Amanda Fox. 
Saputella impertinente che vedevo ogni santo giorno dal primo di elementari.
Ragazza che cercavo di sopportare come meglio potevo, anche se proprio non la potevo vedere. 
«Ecco che arriva Miss-so-tutto-io.» dissi seriamente, lasciando andare anche uno sbuffo, guardando nella sua direzione, fissa. Dio, quanto non la sopportavo. 
Stef lasciò perdere –finalmente, aggiungerei- il cielo oltre il vetro, voltandosi verso di me, con le sopracciglia aggrottate. 
«Chi? La bionda appena entrata che sembra Barbie, ma che non ha niente della Barbie?»
Le feci cenno con il capo, indicandola con un dito, osservando ogni suo gesto. Abbassai la voce notevolmente, in modo che solamente Stephanie potesse sentirmi.
«Si, proprio lei. Sembra tanto Barbie, ma non ha proprio nulla della bambolina. Si chiama Amanda Fox, ma tutti l’hanno sempre chiamata Mandy. E’ in classe con me praticamente da sempre. Non ci sopportiamo, o meglio, non ci possiamo proprio vedere.»
Sospirai, scuotendo nuovamente la testa, alzando gli occhi al cielo, imprecando mentalmente. Perché semplicemente non poteva sparire? 
«La verità è che ha l’aria di un pasticcino al cioccolato. Ma da come la racconti tu, sembra davvero odiosa.»
Scoppiò in una risata soffusa, portandosi una mano alle labbra. 
A quanto notavo, sembrava che pure a lei, piacesse prendere in giro qualcuno. 
Avevo una nuova alleata dalla mia parte.
Avrei tanto voluto allungare un piede e farla cadere a terra. Lei assieme a tutti quegli stupidi libri che si portava appresso. 
Speravo vivamente che se ne andasse al suo posto, due banchi dietro il mio, ma si fermò a fissami, l’espressione stupita sul viso e ne capii anche il motivo. 
Non ero mai puntuale alle lezioni, eppure non avevo mai preso una nota in tutta la mia vita. Il bello di essere anche la cocca dei professori. 
Doveva volatilizzarsi, la sua semplice presenza m’innervosiva. 
Abbassai lo sguardo, per prendere dalla borsa il mio quaderno e l’astuccio, quando la sua voce, quella odiosa e gracchiante voce che evitavo come se fosse peste, mi trapassò i timpani. 
«Ciao ragazze. Io.. Io non voglio disturbarvi ma.. Ever, avrei bisogno di chiederti una cosa.»
Alzai la testa, inclinando un lato del labbro. Come mi aveva appena chiamata? Ever? Io e lei non eravamo amiche, né tanto meno conoscenti. Quel soprannome lo usavano solamente le persone che mi conoscevamo.
«Forza parla, sono qua. Cosa stai aspettando? Un fulmine a ciel sereno?»
Sospirai, impertinente. Sapevo d’essere sempre stata odiosa e dispettosa nei suoi confronti, ma era come se non potessi farne a meno. 
«Volevo solamente chiederti se avessi per caso visto o trovato il mio quaderno di matematica. L’ho chiesto alla classe, ma nessuno sa niente. Forse l’hai visto tu, Stephanie.»
La fissai, con uno sguardo a dir poco indispettito. Mi stava accusando, per caso? Nessuno accusa mai la ragazza più popolare della scuola e tanto meno le mie amiche.
Mi voltai verso Red, la mia espressione stava a significare un tacito: “te l’avevo detto che era odiosa”.
«Mi spiace Amanda, ma.. » feci una breve pausa, in cui mi fissai le unghie laccate di rosso, battendole un attimo sul tavolino, lasciando passare differenti secondi di silenzio. «Non ho visto il tuo quaderno, sorry baby.» 
Rispetto alle altre volte che parlavamo, sembravo un mare in quiete, come se una calma glaciale si fosse impossessata di me. Ma non durò a lungo: come mio solito, quando c’era lei nei paraggi, iniziai a sghignazzare, abbassando gli occhi.
«Non l’hai visto? Va bene, grazie lo stesso.»
Fece per andarsene, ma quando era così vicino a me, quando c’incontravamo, non riuscivo mai a trattenermi, le parole uscivano dalla mia bocca senza pensare. 
Ero sempre stata una persona impulsiva e parlavo anche quando non dovevo. 
Forse in quel caso era meglio che io stessi zitta ma, ahimè, non lo feci. 
«Devo dire che non sei per niente cambiata in questi anni.. Sei sempre la solita secchiona, vestita male e puntuale a tutte le lezioni.»
Si fermò di botto. Potei giurare di aver sentito il suo respiro fermarsi un istante. Pensai che avrebbe ricominciato a camminare, senza dire nulla e invece, invece si voltò verso di me.
«Beh se è per questo neppure tu sei cambiata di una virgola.. Charlotte non c’è? Dove l’hai lasciata?»
Risi, una risata proruppe dalla mia gola, senza freni. 
«La vedi per caso qui con me? Dormi ancora? Hai bisogno di un paio d’occhiali nuovi, uhm?» mi girai sulla sedia, accavallando le gambe in modo sensuale, sentendo i pochi compagni che erano in classe ridere anch’essi.
«Oh, e per tua informazione, è un piacere non cambiare mai, restare sempre quelli di una volta. Ed io, sai, non ho intenzione di modificarmi, per nulla al mondo.» 
La guardai di sottecchi, con aria di sfida, alzandomi in piedi, fronteggiandola. 
Sentivo il suo imbarazzo palpabile nell’aria, la sua vergogna salire sulle guance che piano piano diventavano rosse. Sapevo di essere la prediletta. 
Quello era il mio territorio e tutti mi amavano. Che cosa poteva fare una come lei contro di me? Nulla. 
Avevo reso la sua vita un inferno personale, lo sapevo, ma lei faceva esplodere dentro di me quella parte cattiva che avevo, senza saperne il motivo. Forse la sua voce, i suoi modi di fare, ma tutto, tutto di lei mi dava il nervoso. 
Improvvisamente Stephanie, che era rimasta tutto il tempo a osservare la scena senza dire una parola, mi tirò per una manica, come per richiamarmi all’ordine, ma non le badai. Non avevo tempo di parlare con lei, adesso. 
Le avrei spiegato tutto, ma non adesso. Quello non era di certo il momento adatto. 
«Beh, la mia era una semplice domanda, non c’è bisogno di fare l’acida ogni volta, non credi? E poi, cambiare? Oh no, tranquilla, sei perfetta così.» 
Fece una smorfia, accennando una risata. 
Da quando in qua lei, cercava di insultare una come me? 
Certe cose non le sopportavo, nessuno aveva mai osato così tanto. Non riuscii più a trattenermi. Alzai le spalle, in modo strafottente. Decisamente strafottente.
Avevo perso la pazienza. Già non ne avevo, poi mi capitavano persone come lei, che me la facevano perdere proprio del tutto.
«So di essere perfetta, Miss-culetto-sodo. E se te lo domandi, io sono acida perché con te riesco a comportarmi solamente così.» 
La frase che avevo detto fece ridere ancora tutti. La classe, nel frattempo, si era riempita di studenti. Tutti erano li a guardare quello che avevamo da dirci. Alcuni ragazzi perfino sbirciavano dalla porta, ammassati. 
Sicuramente la voce dell’ennesima litigata tra me e Amanda, in pubblico, era giunta anche fuori dall’aula.
Dopo la mia ultima uscita verbale, sarebbe doveva scoppiare in lacrime, come faceva sempre dopo una nostra discussione e invece.. 
..Quella volta fu diverso, Amanda restò li.

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Capitolo 5
*** Da male in peggio - Capitolo 4. ***


DA MALE IN PEGGIO - CAPITOLO 4
 
Amanda mi fissava con uno sguardo che non le avevo mai visto dipinto sul viso.
Notai il suo viso avvampare, i suoi occhi farsi piccoli. Forse stava davvero per scoppiare a piangere.
«Bhè, dopo tutte le tue belle storielle, puoi anche andare.»
La guardai fissa, sorridendo beffardamente. Stavo per voltarmi, tornando a sedermi, quando, nuovamente, parlò.
«Scusa, cosa hai detto? Sai una cosa, Janelle? Mi fai solo pena. Se non prendi in giro gli altri non stai bene con te stessa sei, sei..»
Mi squadrò dalla testa ai piedi. L’aula ormai era gremita di gente. Stephanie  continuava a chiamarmi, sussurrando il mio nome, ma in quel momento ero troppo infuriata per ascoltarla. Non le avevo dato retta per tutto il tempo, figurarsi se avrebbe abbassato lo sguardo proprio adesso. Quella piccola mocciosa impertinente mi aveva stufata.  
«Dillo forza. Cosa aspetti? Forza, affermalo davanti a tutti, no? Così almeno la tua coscienza si libera da tutte le bugie che vai in giro a dire sul mio conto.»
Ero sull’orlo dell’imprecazione, come avevo fatto a non dire ancora neanche una parolaccia, era qualcosa che non sapevo.
«Sei squallida. Tu.. Insieme alla tua amichetta dai capelli biondi.»
Al solo sentir tirare in causa la mia migliore amica, sentii il fuoco divampare al mio interno, come se avessero gettato una miccia su benzina appena versata.
Nessuno poteva insultare la mia migliore amica.
Una parola, una singola parola che mi mandò completamente fuori di testa.
«Non osare mai più nominare Charlie.», scandii parola per parola, puntandole l’indice contro. Dio, ma che cosa aveva quella ragazza, che non andava?
Diventavo una iena a sentire il suo nome in bocca a qualcuno che non la conosceva neppure e si permetteva di giudicarla come una persona “squallida”.
Gli occhi di tutti erano puntati addosso a noi, avevamo monopolizzato l’attenzione dell’aula.
Nessuno in quattro anni di college aveva mai assistito ad una litigata in pubblico tra Janelle Ravenwood ed Amanda Fox.
Sapevo già che la notizia avrebbe fatto il giro di tutta la scuola prima della fine della giornata. Stavo per rispondere, nuovamente a tono, quando sentii a voce del professore di chimica, richiamarmi all’ordine, quasi stupito.
«Che cosa succede, signorina Ravenwood?»
Perfetto, non poteva arrivare in un momento peggiore! Non poteva tardare ancora di qualche minuto, eh?
«Buongiorno a lei, professor Hollis. Oh, nulla d’importante, non si preoccupi.»
Sorrisi gentilmente come nulla fosse successo, scoccando un’occhiata rapida ad Amanda che, nel frattempo, aveva raggiunto il suo posto a testa bassa.
«Fottiti, stronza.»
Sussurrai tra i denti, risedendomi al mio posto e ricomponendomi nel modo più educato possibile, sentendo gli occhi della mia compagna di banco, puntarsi su di me ad intervalli regolari, cercando in tutti i modi di dirmi qualcosa.
Avevo iniziato a prendere appunti su ciò che diceva l’insegnante.. Di cosa parlava?
Non lo sapevo neppure io, scrivevo perché dovevo, ma sinceramente non ci stavo capendo nulla. Quella era l’unica materia in cui sempre avevo peccato e in cui sempre mi ero salvata solamente grazie a Charlie.
«Mi dici che diamine ti prende? Che cosa stai combinando con Barbie?», la sua voce un sussurro, in modo che nessuno ci potesse sentire.
Mi voltai lentamente in sua direzione, puntando i miei occhi nocciola nei suoi verdicci.
«Sono sempre così con lei e..»
M’interruppi, sentendo la voce del professore.
«Ravenwood e Rinaldi volete rendere anche noi partecipi della vostra discussione? Credo che sicuramente sia molto più interessante chiacchierare che ascoltare la mia lezione.»
Alzò un sopracciglio, acido come sempre. Ecco un altro motivazione sul perché non mi piacesse quella lezione. Non sopportavo a pelle quell’uomo.
Era la prima volta che mi richiamava all’ordine, non l’aveva mai fatto in quattro anni e, sinceramente, non avrei mai pensato che avrebbe potuto iniziare ora.
Mostrai il mio bel sorriso e feci buon viso a cattivo gioco.
«Oh no, professor Hollis. Stavo chiedendo alla mia compagna di banco se alla fine della lezione mi poteva rispiegare una parte della lezione che sta tenendo.»
«Per questa volta non prendo provvedimenti. Che questa sia l’ultima volta che vi riprendo, signorine. Siamo intesi?»
Il suo sguardo era fisso su di noi, in attesa di un cenno che non esitai a fare.
Annuii, inclinando la testa da un lato, facendo un breve sorriso.
Nel corso della lezione, senza farmi vedere, mi voltavo, cercando Amanda nelle file dietro di me. Non l’avrebbe passata liscia per quello che mi aveva detto poco. Non ero una persona che se ne stava buona e calma nell’angolino, proprio no.
Oltre ad essere acida ed egocentrica, ero pure vendicativa. Quella, comunque, era la parte che persone come lei, tiravano fuori dal mio essere.
Avrei tanto voluto spiegare a Stephanie la situazione, ma non potevo. Il signor Hollis continuava a guardarmi ed io non ebbi neanche un momento per dirle una sola parola. L’unica idee che mi venne? Scrivere su un pezzo di carta. Mi faceva tanto bambina delle elementari, ma in quel frangente di tempo, le idee scarseggiavano.
Rapidamente scrissi pochi parole, affermando che a fine lezione, le avrei detto ogni singola cosa. Senza farmi vedere dal prof, le passai il fogliettino, facendolo scorrere sotto la mia mano fino al suo banco. Red lo afferrò rapidamente, leggendolo senza farsi vedere. Sospirai, cercando di tornare a concentrarmi sulla lezione, inutilmente.
Il mio cervello macchinava come fargliela pagare, ma le immagini del sogno che mi tormentava da una settimana, si sovrapponevano ai miei reali pensieri attuali.
Com’era possibile che la mia mente, il mio inconscio, continuasse a macchinare l’immagine di me stessa inseguita?
Diamine, era fuori logica! Io non credevo neppure nei vampiri, che assurdità.
Improvvisamente la campanella suonò, facendomi sobbalzare e riscuotendomi dai miei pensieri, annunciando la fine dell’ora. Non mi ero resa conto che fossero già passati sessanta minuti e non avevo capito decisamente niente di quello spiegato. Sbuffai, prendendo le mie cose e scaraventandole praticamente dentro la mia borsa.
«Allora mi vuoi spiegare che succede con quella?»
«Dammi cinque minuti. Devo togliermi di dosso la tensione che ho.»
Mi alzai, portandomi il cinturino della borsa sulla spalla, dirigendomi verso l’uscita, fermandomi però, improvvisamente, all’uscio della porta.
Dovevo smetterla di pensare, di tormentarmi con.. Tutto probabilmente.
Avevo bisogno di rilassarmi un attimo prima di parlare con Red o con chiunque altro.
La classe si sarebbe svuotata di lì a breve, ed io sarei potuta rimanere un altro poco in quelle quattro mura, a calmare i nervi.
Ero ancora appoggiata alla porta quando “quella”, mi si parò davanti.
O meglio, io le bloccai l’uscita.
Davvero, perché non spariva?
«Che vuoi ancora? Pensavo che mi avevi detto tutto quello che dovevi dire, no?», domandai con la voce piena di astio.
«Sei tu che mi blocchi il passaggio», il suo tono freddo e diretto, i suoi occhi su di me.
«Non ho più niente da dirti infatti e, se non ti dispiace, dovrei uscire. Sai, non ho tutta la giornata.»
Il professore era ancora in classe, non potevo fare e dire nulla, altrimenti sarebbe finito sul mio curriculum scolastico e sarei finita dal preside. Fortunatamente l’insegnante uscì, lasciando noi alunni dimezzarci nell’aula. Mi spostai, accennando all’uomo un sorriso quasi sarcastico, osservandolo allontanarsi in mezzo alla calca degli studenti che si spostavano da un’aula all’altra.
Impulsivamente agii, bloccandole il passaggio con una mano, che andò a posarsi sull’uscio della porta.
Mi sporsi verso di lei, fino quando le mie labbra non sfiorarono il suo orecchio.
«Non ti conviene metterti contro di me, ragazzina. Sai che potresti finire male, molto male. Sono capace di qualsiasi cosa, soprattutto se vai a punzecchiare le persone a cui io tengo. Dunque.. Un avviso. Attenta a ciò che fai.»
Mi scostai un poco, dipingendo sul mio viso un sorriso di pura stronzaggine.
«Da questo momento.»
Conclusi, piena d’odio nei suoi confronti. Il mio cervello si snebbiò improvvisamente. Che cosa avevo fatto? L’avevo minacciata?
Non potevo averlo realmente fatto, non potevo averla minacciata lì, con un fil di voce. Perché non ricordavo i momenti precedenti a quelle parole?
Era come se fossero uscite in maniera del tutto naturale, fuori controllo.
Sbattei le palpebre, più volte, come a volermi riscuotere.
Che cosa era successo?
In qualsiasi caso ciò che avevo fatto se l’era meritato. Mettersi contro di me, non portava mai nulla di buono. Tanto meglio quella minaccia –che ancora dovevo capire come mi fosse uscita-, ma almeno non avrebbe più parlato di Charlie nominandola “squallida.”
L’espressione di pieno stupore vigeva sul viso della ragazza bionda che mi stava di fronte. Ancora non se n’era andata? Che palle.
«Pensavo che un po’ di dignità, un po’ di cuore, o meglio, un po’ di cervello, ti fosse rimasto. A quanto pare mi sbagliavo. Adesso, se non ti spiace, tolgo il disturbo.»
«Affari tuoi, Amanda. Pensa ciò che ti pare e piace.»
Non avevo mosso un muscolo, ero tornata nella mia precedente posizione, questa volta tendendo una gamba e Amanda, essendosi voltata un istante, non si accorse del mio gesto e, quando fece per uscire dalla classe, non si accorse del mio gesto, ruzzolando a terra assieme a tutto quello che aveva tra le mani, davanti all’infinità di studenti che popolavano il corridoio, per il cambio della lezione.
Una risata unica li scosse.
Si mise a sedere, massaggiandosi la caviglia, raccogliendo tutto.
L’avevo umiliata proprio tanto, quella volta.
Quella giornata se la sarebbe ricordata. Come minimo l’avrebbero schernita tutte le ore, tutte le volte che l’avessero incrociata nel corridoio.
Non ero mai stata così cattiva con lei, ma una parte di me continuava a ripetermi che se l’era meritata.
Portai le braccia al petto, incrociandole, camminando in sua direzione e abbassandomi alla sua stessa altezza.
Avevo posato una mano sui suoi capelli, rigirandomi una ciocca tra le dita.
«Maaaandy, non sei neanche capace di stare in piedi adesso?»
Strascicai il suo nome, con fare soddisfatto, inclinando le labbra verso il basso, in un espressione fin troppo beffarda.
«Non toccarmi!» mi urlò contro, come una pazza isterica.
La lasciai andare, voltandole le spalle e prendendo a camminare verso il cortile, in quanto avevo l’ora libera. Fu in quel momento che mi sentii afferrare per un braccio, facendomi rigirare nuovamente. Merda, mi ero dimenticata che li con me ci fosse Stephanie, che aveva assistito a tutta la scena, impotente.
La sua espressione sgranata, come a volermi chiedere che diamine stessi combinante. Io non mi ero mai comportata così, avevo ancora una dignità, e non mi sarei mai sognata di fare un gesto del genere. Neanche ad Amanda, che tanto non sopportavo.
«Voglio una spiegazione, adesso.»
«Amanda è..», avevo iniziato a parlare, con voce bassa, per spiegarle la faccenda, quando Mandy parlò nuovamente, questa volta con un tono di voce decisamente alto.
«Sei solo una stupida ragazzina viziata, Ever!»
L’intero corridoio che un attimo prima rideva, si era ammutolito.
Non si sentiva neanche più una mosca volare.
Le parole pronunciate, furono come una lama tagliente, che mi perforò.
Mi bloccai, girandomi lentamente in sua direzione; i miei occhi inferociti su di lei.
Fino a un attimo prima ridevo a crepapelle, un attimo dopo avrei voluto strapparle i capelli.
«Ti prego, ti prego Ever, lascia perdere.. Non fare nulla.. Ti prego andiamocene, non peggiorare le cose, ti prego..»
Ancora una volta Red cercava di farmi calmare, cercava di portarmi via da quel posto, ma era come se le orecchie mi si fossero tappate, lasciandole aperte solo alle parole di Amanda. Quello era un insulto. Pesante. Pubblico.
Ma chi pensava di essere?
«Scusa? Che cazzo hai detto?»
Per la prima volta, esordii con parolacce in pubblico.
Le puntai un dito contro, urlando, furibonda.
Si sentiva la mia voce rimbombare nel corridoio silenzioso, sembrava quasi che tutti trattenessero il fiato, in attesa.
«Hai sentito bene cosa ti ho detto!» mi urlò quelle parole in faccia, rimettendosi in piedi. Non avevo mai sentito Amanda alzare la voce, né tanto meno rispondermi con quel tono, in quel modo.  
«Sono una ragazzina viziata? Gelosia, per caso?»
Una sforzata risata proruppe dalla mia gola. Centinaia di occhi puntati su di noi.
Con un moto di stizza, mi passai una mano nei capelli, intrecciandoli sul dito.
«Gelosa? Di te? Mai e poi mai.»
«Basta, mi hai stufata. Pensa di me quello che vuoi, non me ne frega nulla. L’hai sempre fatto, no? Continua a farlo. Io so la verità.»
Sputai fuori quelle parole come se fossero veleno, a denti stretti.
«Bene, siamo in due.»
Quello che mi aveva detto mi bruciava dentro, in profondità. Ero davvero viziata come diceva? Mi stava facendo mettere in discussione me stessa, ciò che ero.
Sentivo le lacrime pulsare dietro gli occhi, ma le trattenni tutte.
Non avrebbe di certo avuto la soddisfazione di vedermi crollare.
Non davanti a tutti, per lo meno.
La mia era solamente una facciata, una facciata che usavo per proteggermi dagli altri. Potevo sembrare perfetta, sotto ogni aspetto, ma non lo ero. Nessuno sapeva quanto la mia vita, invece, fosse complicata. Nessuno sapeva quanto avessi sofferto per il tradimento di mio padre, quanto avessi sofferto per il loro divorzio e soprattutto quanto continuassi a soffrire, sapendo di avere una sorellastra che viveva chissà dove, nata da una sveltina di mio padre.
Tutti si erano sempre fermati all’apparenza. Alla copertina di ciò che ero realmente.
La ragazza forte, popolare e splendida della Yellow Stone.
Mi voltai, ricominciando a camminare rapidamente per mettere più distanza possibile da lei. Dovevo uscire, avevo bisogno d’aria.
Senza neanche rendermi conto, diedi una spallata a una ragazza bionda, mai vista.
Sicuramente nuova. Cos’era, l’anno dei nuovi, per caso?
«Scusami..»
Sussurrai, senza ottenere neanche una risposta. Certo che l’educazione regnava sovrana. Con la coda dell’occhio la vidi andare ad aiutare Amanda ad alzarsi.
Avevo sempre odiato chi faceva il buon samaritano. Bhè, oddio, anch’io lo ero. Ma di certo non con il primo che mi passava davanti agli occhi.
«Mi spieghi che diavolo combini, Ever? Che diamine ti è preso?»
Non mi fermai. Aprii di scatto la porta che portava all’esterno, spingendo la maniglia antipanico, facendomi investire dalla brezza leggera del primo mattino.
Le parole di Amanda continuavano a logorarmi la coscienza, bruciando dentro come fossero fuoco incandescente.
“Viziata. Viziata. Viziata.”
Rimbombavano nella mia testa, senza sosta.
Chiusi gli occhi, emettendo un respiro profondo, calmandomi. Dovevo farlo, o avrei potuto avere una crisi di nervi, o peggio.
«Mi dispiace, per quello a cui hai dovuto assistere, ma quando vedo Amanda, anche la minima cosa, un minimo suo gesto, mi manda su tutte le furie, facendomi perdere il controllo. Non la posso proprio vedere. Lei si è trasferita nella nostra cittadina quando era piccola, abitava a Las Vegas, in precedenza.
Non ci siamo mai sopportate troppo, diciamo che c’è sempre stata antipatia reciproca. All’inizio c’era indifferenza, poi è stato sempre peggio.
Esco con differenti ragazzi, ma non è mai nulla di che. Amanda ha sempre pensato male su di me. O meglio, sono venuti a dirmi quello che lei diceva sul mio conto»
Avevo iniziato a parlare, così dal nulla, rompendo in quella maniera quel silenzio che era andato a crearsi precedentemente.
«Ed è stata la fine. Non mi aveva mai provocato come oggi e la cosa mi ha fatto andare in bestia.»
Mi resi conto solo allora che avevo lasciato la porta della struttura scolastica aperta, e che i primi borbottii sull’accaduto avevano iniziato ad alzarsi.
Mandy era sparita, probabilmente con la bionda che l’aveva aiutata a rimettersi in piedi. Stephanie non disse nulla, semplicemente mi strinse la mano, inaspettatamente, come a farmi forza. Le sorrisi, dolcemente.
Scesi con lei le poche scale, camminando verso l’ombra di un albero, andando a sedermi proprio sotto ad esso, la mia schiena contro la corteccia.
Per la prima volta in vita mia volevo andarmene da quel posto. Volevo tornare a casa.
Anche se quello avrebbe messo in dubbio tutto, ciò che ero risultata per quattro lunghi anni. Sinceramente? Non m’importava.

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Capitolo 6
*** Quando qualcosa si spezza - Capitolo 5. ***


QUANDO QUALCOSA SI SPEZZA - CAPITOLO 5
 
Più ci pensavo, e più mi sentivo morire. Non ero mai stata trattata in quella maniera. Mai nella mia vita, mai prima d’allora.
Le affermazioni precedenti mi stavano facendo davvero mettere in dubbio ogni cosa. Era la verità? Possibile che non me ne fossi mai neanche accorta?
Possibile che fosse davvero così?
Saltai tutte le successive lezioni rispetto all’ora di chimica, restandomene da sola all’aria aperta, nel parco.
Stephanie ed io ci saremmo viste alla mensa, a pranzo. Né un attimo prima, né un attimo dopo. Tutti erano nelle rispettive aule. Tutte tranne io e.. Il ragazzo che furtivamente mi osservava, fisso. Era lo stesso identico ragazzo che avevo visto quella mattina. Stessi capelli, stessa giacca. Stesso tutto.
Era la stessa persona che poi era sparita in un battito di ciglia.
Ora avevo la prova concreta che, anche al mattino, puntava me.
Ma chi era? Che cosa voleva?
Nonostante la lontananza potevo vedere i suoi occhi scuri, troppo scuri. Scuri forse ancora più della notte.
Odiavo chi mi fissava insistentemente, così, come se nulla fosse.
«Scusa, cerchi qualcuno per caso?», domandai, alzando la voce e alzandomi da terra, stando bene attenta ad ogni mia mossa. Non volevo di certo finire nei guai, o peggio.
“Ti ho trovata, ragazzina.”
La stessa voce. Era lo stesso identico suono di quella che sentivo nel mio sogno costantemente, ripetutamente.
Oddio, stavo diventando paranoica. Non andava bene. Proprio no.
Dovevo smetterla di pensare. Smetterla e basta.
Sbattei le palpebre, voltandomi ed afferrando la borsa da terra, cercando di mettere a tacere quella voce.
“Si, fai bene. Dovresti davvero smetterla di pensare.”
Mi gelai. Com’era possibile una cosa del genere? Com’era possibile che potesse.. Parlarmi nella mente?
Dai andiamo, non era mica un film horror o un film sul paranormale.
Eppure non mi aveva perso di vista un attimo. Avevo indietreggiato senza neanche rendermene conto fino alla corteccia dell’albero, bloccandomi contro con la schiena, respirando profondamente. Il terrore si era impossessato di me.
Quell’uomo, chiunque egli fosse, mi stava terrorizzando.
Il suo sguardo era qualcosa che non avrei mai voluto vedere. Era.. Troppo tutto.
Le mie gambe erano ferme, il petto che si alzava e s’abbassava a ritmo sconnesso.
«Chi sei? Che cosa vuoi, da me?»
Come avevo fatto a parlare, non ne avevo idea.
Mi ritrovai una frazione di secondo dopo con gli occhi del giovane puntati nei miei.
Com’era possibile che si fosse spostato così rapidamente?
Dovevo avere le allucinazioni, sicuro.
«Per adesso il nome non ha importanza, bambolina. Posso essere chiunque tu voglia che io sia. Cosa voglio.. Lo scoprirai. Non ora, comunque. Sarò il tuo peggiore incubo.»
Il suo sorriso beffardo, pieno d’odio. Sentii l’ansia salirmi nel petto, il cuore battere decisamente troppo veloce. Probabilmente smisi anche di respirare.
«Nessuno deve sapere che io sia in città. Nessuno deve cercarmi. Non ora.» 
Una pausa sorda, una paura battente nel mio corpo. Non ne avevo mai avuta così tanta, prima d’allora. I suoi occhi ne incutevano ancora maggiormente. Avevo ragione.
Erano ancora più scuri dell’oscurità stessa. 
Com’era possibile avere certi occhi? Come?
Deglutii, incapace di dire altro.
«Dimentica di avermi incontrato. L’unica cosa che devi tenere a mente, solamente una cosa. “Tutto cambierà.”»
Sbattei le palpebre, guardandomi attorno.
Perché mi ero alzata? Avevo un mal di testa allucinante. Che cosa era successo?
Era come se avessi un vuoto. Una frase però ci martellava.
“Tutto cambierà”. Ma che cosa avrebbe dovuto cambiare, poi?
Poco ma sicuro era tutta colpa del mio ricorrente incubo.
Alzai gli occhi al cielo un istante, prima di afferrare il cellulare per controllare l’orario. Diamine, era già quasi la una.
Scossi la testa, ripetutamente, scacciando qualsiasi cosa ingombrasse il mio cervello.
Solamente due ore, dovevo resistere in quel luogo solamente centoventi minuti.
Volevo andare a casa, stare da sola, parlare con Matt che, sicuramente, aveva già saputo l’accaduto con Amanda e, come sempre, mi avrebbe fatto la predica per ciò che avevo fatto. Si, pensandoci forse avevo un tantino esagerato.
Avevo cercato Charlotte, prima di entrare nella mensa, inutilmente. Dov’era, quando avevo bisogno di lei? Quando dovevo parlarle? Maledizione!
Red mi aspettava all’entrata e, quando mi vide, fece un piccolo sorriso.
«Hai per caso visto Charl.. Ah vero, tu non l’hai ancora conosciuta.»
Alzai le spalle, smettendo di guardarmi attorno. Tanto non era lì. Sembrava volatilizzata nel nulla.
Ci eravamo da poco sedute ad un tavolo libero, quando la visita improvvisa di Matt, mi fece restare perplessa. Gli era per caso successo qualcosa? Non veniva mai in mensa a parlarmi, se non per qualcosa di grave. Mi preoccupai.
«Fratellino, che ci fai qui? E’ successo per caso qualcosa? Stai bene?»
Ansia. Tanta immensa ansia. Perché quella sensazione che mi attanagliava le viscere? Io non ero mai ansiosa.
«Lei comunque è Stephanie Rinaldi, è arrivata da poco dall’Italia.»
Mio fratello la guardò come se fosse poco importante. Come se non la vedesse neppure. Con freddezza allucinante, rispose d’essere mio fratello.
Che gli succedeva? Afferrò una sedia e la tirò indietro, sedendosi, posando i gomiti sul tavolo, fissando me.
«Hai per caso visto Amanda?»
Sgranai gli occhi. Per poco non mi andò di traverso il pezzo di pesca che stavo mangiando. Stava scherzando, vero?
«Amanda?! Scusa ma chi è? Io non conosco nessuna con quel nome.»
Dovevano smetterla di nominarmela. Soprattutto quel giorno.
«Smettila di fare la cretina, Ever. Amanda Fox. So che cosa le hai fatto. Lo sa tutta la scuola, se la cosa ti rallegra.»
Ed eccolo lì, quello sguardo che tanto odiavo vedere negli occhi di mio fratello. Non poteva semplicemente farsi gli affari suoi, anche lui?
No, ovviamente no! Doveva intromettersi in faccende che non lo riguardavano.
«Smettila di guardarmi con quell’espressione accusatoria, okay? Inoltre, è colpa sua, se l’è cercata. Da un lato, per lo meno.»
«Amanda non ti ha fatto niente. Non oggi, almeno. Aveva semplicemente chiesto se avessi visto il suo quaderno. E tu l’hai maltrattata. Davanti a tutti.»
Blah, blah, blah. Quante inutili parole. Roteai gli occhi, sbuffando.
«Da quando in qua sei amico di quelle che fanno parte delle basse classi sociali dello Yellow Stone College, Matt?»
Alzai un sopracciglio, assottigliando il tono della voce. Odiavo chiamarlo Matt. Non lo facevo quasi mai. Il suo nome era utilizzato solamente quando mi faceva infuriare e, quello, era uno di quei momenti.
«Credo che stia dalla parte di Barbie.», commentò Red, che folgorai con lo sguardo.
«Smettila, Red, per favore. Non è il momento.»
«Ti voglio parlare in privato.»
«Dopo.» scandii la parola per fargli capire che in quel momento, quel luogo, non era il posto adatto ove farlo.
«Smettila di fare la ragazzina, Ever. Alzati e vieni con me.» aveva alzato il tono di voce, d’improvviso, e ora alcuni si erano girati a guardarci.
Dio, una seconda discussione nella giornata. No, ti prego.
Poi, da quando in qua mio fratello era diventato così testardo? Se dicevo una cosa, era quella. La risposta non cambiava, nonostante la sua insistenza.
«Abbassa la voce, Matt Ravenwood.»
«Oh! Perché mai dovrei farlo? Rendiamo tutta la scuola partecipe del battibecco tra i fratelli Ravenwood, forza!»
La voglia di picchiare una mano sul tavolo era tanta, eppure la trattenni.
Stavo perdendo nuovamente la calma e non era un bene. Mi conoscevo.
Troppo.
«Smettila Matt. Ti stai mettendo in ridicolo per una cavolata. Te possiamo riparlare?»
«Adesso, in privato.»
«Ti ho già risposto. Dopo.»
I miei occhi si chiusero a fessura, senza staccarli dalla sua figura. Maledizione, perché non capiva? Cocciuto fino alla fine.
«Ha ragione Amanda, sai? Sei solo una ragazzina viziata che pensa solo alla sua immagine, alla sua popolarità, a quello che gli altri pensino di lei. Complimenti, Ever. Anche tu ti sei mostrata per quello che realmente sei.»
Lo guardai, sbarrando gli occhi. Restai impassibile. Nessuna risposta era fuoriuscita dalle mie labbra, troppo shoccata per dire o fare qualcosa.
Non mi mossi dal mio posto, dal tavolo. Tentai la tattica dell’indifferenza, ma non funzionò, non in quel caso.
Si alzò, spingendo con forza la sedia sotto al tavolo.
«Charlie ti ha cambiata, in tutti questi anni. E non te ne sei mai neanche resa conto. Sei diventata sua immagine e somiglianza. Oh, e dato che siete così amiche, noto con piacere che non ti ha neanche detto che oggi sarebbe uscita prima, anche se è solamente il primo giorno dell’anno, per li.»
La mano di Red strinse la mia sotto al tavolo, facendomi intendere di restare calma, e soprattutto lucida.
«Charlie è la mia migliore amica e tu non hai il diritto di giudicarla. Non la conosci neppure.»
Mi alzai dalla panca, sulla quale ero seduta a finire il mio pranzo; pranzo ovviamente interrotto e che non mi andava neanche più. Lo fronteggiai.
«Ah, si? Altrimenti? Mi fai cadere davanti a tutti, umiliandomi? Vuoi anche un applauso, Janelle?»
Sentivo la rabbia vivida dentro di me, mi sentivo scoppiare come un palloncino a cui è stata inserita troppa aria. Perché anche Matt adesso mi odiava?
Cosa avevo fatto per istigarlo? Non lo sapevo.
«Ne parliamo a casa, Matt. Adesso vai.»
«No! Io non sono uno dei tuoi tirapiedi. Io non faccio quello che dice Miss Popolarità! Io faccio quello che mi dice il mio cervello. Io voglio essere solamente me stesso, non voglio essere quello che gli altri vogliano che io sia.»
Quelle parole furono per me il colpo di grazia. Una pugnalata profonda, conficcata con tanta forza e violenza che mi sentii cedere.
«E’ così allora che mi vedi? Come un burattino comandato e costruito per compiacere gli altri?»
Matt mi vedeva come una specie di strega cattiva quando io lo amavo così tanto. Lui era tutto, per me. Era fondamentale per la mia vita e, più volte, lo avevo dimostrato. Adesso avevo alzato anche io la voce, che altro potevo fare?
«Proprio così, Jan. Non sembri neanche più te. Sei diversa, sei cambiata! Fai la stronza con tutti. Mi dici che cosa è successo, per un cambiamento così radicale?»
«Matt, sono la stessa Ever di sempre, diamine!»
Mi portai una mano tra i capelli, tirandoli indietro, in un gesto abituale e di puro nervosismo.
«Non sei la stessa. Non te ne rendi neanche conto. Sei così cambiata che non ti vedi quanto Ever di ora sia un falso di quella vera. Tu sei migliore di così, sorellina.»
«Cosa devo fare per dimostrarti che non sono cambiata nei tuoi confronti?»
Ed ecco che, come sempre, le persone non potevano starsene alla larga. Alcuni in piedi, alcuni voltati ad osservare la discussione.
Due in un giorno. Wow, avevo battuto ogni record.
«Quando capirai davvero chi sei, sai dove trovarmi. Adesso tolgo il disturbo.»
Le parole di mio fratello risuonarono ancora una volta, acide.
Potevo sopportare tutto, ma non quello. Era qualcosa più forte di me.
«Stai pure qui tu, Matt. Sono io quella che se ne va.»
Nuovamente presi la borsa, senza guardare nessuno. Neanche Stephanie.
Ero comunque sicura del fatto che nessuno si aspettasse che io lasciassi la stanza.
Lanciai un’occhiataccia alla mia amica, che avevo intuito volermi seguire.
Scossi la testa, facendole capire che volevo restare da sola.
La calca di studenti si spezzò al mio passaggio, guardandomi passare mentre mi dirigevo verso l’uscita. Non riuscii più a trattenermi.
Stavo iniziando ad odiare tutti quegli sguardi.
«Embé? Che diamine avete da stare li impalati a guardare? Non avete nient’altro da fare nella vita?» sbottai quelle parole senza accorgermene, allargando le braccia, notando successivamente in un angolo colei che aveva sicuramente parlato con Matt.
Amanda. Feci un applauso in sua direzione, folgorandola.
«Vivissimi complimenti, Amanda. Se volevi farmela pagare, hai trovato proprio il modo sbagliato per farlo. Non ti prenderai mio fratello. Ricordalo.»
Non le diedi neanche il tempo di rispondere, uscendo furiosa.
Talmente nervosa, spaesata, andai a scontrarmi con un ragazzo.
Occhi color del ghiaccio.
L’unico dettaglio che riuscii ad intravedere. Non chiesi neanche scusa. Ero troppo scossa, per tutto quello che era successo nell’arco di neanche dieci minuti.
Ma quanti nuovi non c’erano, in quel benedetto College?!
Avrei fatto bene a starmene a casa, quel giorno.
Troppe stranezze per una giornata sola.
“Tutto cambierà.”
Perché continuavo a pensare a quelle due schifosissime parole? Era come se mi si fossero attanagliate addosso, senza lasciarmi scampo.
Occhi indiscreti mi notarono, capirono al volo che ero sola.
Non era mia abitudine girare per i corridoi senza qualcuno affianco.
Quella volta era diverso. Avevo lasciato la sala mensa dopo una discussione.
Non era da me. Non era da Janelle Ravenwood.

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Capitolo 7
*** Rivederlo fa così male - Capitolo 6. ***


RIVEDERLO FA COSI’ MALE - CAPITOLO 6
 
Ero nervosa, furente e frustata. Avevo bisogno di scaricare la mia rabbia e tutta quella tensione accumulata in neanche sei ore. Avevo bisogno di sfogarmi con Charlie e di uscire da quella maledetta scuola. Al diavolo anche le lezioni.
Le avrei recuperate in un battito di ciglia.
Prima di andarmene, dovevo posare i libri che avevo nell’armadietto, tanto non mi servivano. Lo aprii, riponendoli, finendo con lo sbatterlo con forza.
Stavo scaricando la mia frustrazione su un oggetto. Perfetto.
Avrei avuto spagnolo, quell’ora, ma non ci sarei andata. Casa.
Volevo andare solamente in quel posto.
Avrei potuto aspettare il primo autobus che passasse di lì, ma preferii farmela a piedi, così da poter pensare su me stessa, elaborare ogni dettaglio di quella mattinata.
Martoriarmi con quella parola. Viziata.
..Io ero anche egoista ed egocentrica, quello lo sapevo. Eppure, adesso, stavo mettendo in discussione ogni cosa della mia persona.
Era giusto, ciò che facevo? Il mio comportamento?
Battevano ardenti ancora le frasi sputate fuori da mio fratello.
“Non sei quel tipo di persona.”
Aveva ragione? Perché tutti quei dubbi su me stessa? Perché dovevo iniziare ora, con le paranoie assurde?
Avevo sempre amato me stessa, ma adesso.. Adesso l’unica cosa che provavo era odio. Odio per aver schernito Amanda, per non averla mai provata veramente a capire e soprattutto per essermi basata solamente su voci di corridoio, per averla sempre e solamente schernita ed umiliata.
Odio per il modo in cui avevo trattato mio fratello davanti a tutti.
Odio per il mio schifoso carattere.
Odio per aver fatto soffrire e per aver usato Alex in una maniera al quanto squallida, l’avevo semplicemente illuso.
Dio, ma che tipo di persona ero?
Odio per me stessa, semplicemente.
Alex non era infatti ancora tornato e lui mi mancava da morire.
Dopo tutto quello che era successo quest’estate, capivo perfettamente i motivi che l’avevano spinto ad allontanarsi dalla nostra cittadina. Prendere le distanze da me e da quello che provava.
L’avevo chiamato costantemente, tante volte, senza mai ottenere nulla da parte sua.
Ero proprio una stupida. Avevo giocato con i suoi sentimenti come se valesse nulla.
Camminai fino al parco di Yellow Stone, andando a cercarmi un posto dove stare tranquilla, per un po’.
Avevo sempre amato la natura, mi ci trovavo in sincronia.
Avessi potuto, sarei andata a vivere in campagna, o in un posto dove c’era tanto ed immenso verde lussureggiante. Mi sedetti a terra, sul prato, poco lontano dall’entrata.
Una marea di pensieri occupavano la mia mente.
Il sogno, mio fratello, Amanda, il tizio intravisto prima dell’entrata a scuola e poi quelle parole che continuavano a ripetersi, senza ben capire perché le pensassi o dove le avessi sentite. Se volevo migliorare, la prima cosa da fare era parlare con Alex.
Spiegare lui ogni cosa. Faccia a faccia.
Estrassi il cellulare dalla tasca dei jeans, digitando rapidamente un messaggio.
 “Alex, mi spieghi che fine hai fatto? E’ una marea di tempo che non ci sentiamo. Mi fa male non stare insieme al mio migliore amico. Mi dispiace per quest’estate, davvero. Ti ho spezzato il cuore, lo so. Non era mia intenzione. Io..
Rispondimi appena vedi questo messaggio. Mi manchi e.. Ti voglio bene.”

Prima che io potessi cambiare idea, premetti l’invio. Inviato.
Non potevo più tornare indietro. Era fatta. Appena lo avesse acceso, lo avrebbe letto. Vibrò. Il mio cellulare stava vibrando.
Il mio cuore si fermò, ebbe un sussulto e prese a battere all’impazzata. Alex.
Era davvero un suo messaggio.
“Sono tornato.”
Alex. Alex era tornato. Anche se erano solo due semplici parole, almeno adesso sapevo che era di nuovo a Yellow Stone e che stava bene.
Finalmente potevo parlarci e chiarire. Non riuscii neanche a rispondere.
Mi alzai di scatto, iniziando a correre all’uscita del parco, bloccandomi di colpo.
Dove volevo andare? Presentarmi a casa sua, così come se niente fosse? E se lui non era ancora tornato? Sarebbe stato troppo imbarazzante aspettarlo fuori dal cancello.
Potevo farmi un giro per la piazza, prima. Successivamente avrei potuto mandargli un secondo sms e chiedere lui quando potevamo vederci.
Quando arrivai nel luogo che mi ero prestabilita, feci scorrere lo sguardo in lungo e in largo. Una parte di me sperava vivamente di poterlo trovare lì.
Mi andai a sedere sul bordo della fontana che si trovava al centro esatto, osservando l’acqua che si muoveva lenta, dopo essere stata spruzzata da una stata a forma di leone con fauci spalancate. Avevo sempre amato sedermi sul bordo, anche quando ero piccola. Andavo alla fontana, quando i miei genitori litigavano pesantemente, prima che si separassero.
Diffondeva in me una sensazione di pace, serenità e tranquillità.
Chiusi gli occhi, ripensando alla mia mezza estate con Alex, prima che lui partisse per andare a trovare sua zia a Chicago.
Lasciai il ricordo tornare a galla, sopra tutto il resto.
Proprio di fronte a quella fontana, ci eravamo dati il nostro primo vero bacio. Involontariamente mi portai due dita alle labbra, toccandomele.
Se ci pensavo intensamente, riuscivo a rivedere noi due in piedi, uno di fronte all’altro. L’attimo in cui lui aveva dichiarato l’amore che provava nei miei confronti. L’emozione che aveva sprigionato. Era stato un bacio pieno di passione, di voglia. Un bacio dato dal suo amore. Inizialmente il cuore mi sussultava nel petto, ogni qualvolta che le sue labbra toccavano le mie ma poi.. Era stato solo un attimo.
Avevo capito che non potevo trasformare quell’amicizia profonda in amore.
Avevo capito che lui poteva essere solo il mio migliore amico.
Era stato sempre in quel luogo che gli avevo distrutto il cuore in tanti piccoli pezzi, dicendogli che lo vedevo solo come un amico. Che lui non sarebbe mai stato mai nulla di più. Ero stata io, con il mio infantile comportamento, a fargli prenotare il primo aereo per Chicago, facendolo sparire per il resto dell’estate.
Alzai lo sguardo verso l’alto. Era un gesto abituale, quello.
Si diceva che chi era capace di guardare il cielo, era perché era ancora capace di sognare. Ma io, lo ero ancora?
L’orologio del campanile segnava già le quindici e quaranta.
Non mi ero accorta di essere seduta sulla fontana da così tanto tempo. Avevo perfettamente preso la cognizione del tempo.
Era ora di tornare a casa, preparandomi ad una secondo discussione pesante con mio fratello. Sempre se avessi deciso di parlarci.
Mi alzai ma, quando feci per andarmene, un taxi che si era appena fermato nella strada proprio di fronte alla piazza, si fermò. 
Restai perplessa. Non si vedevano mai macchine gialle nella mia cittadina. Restai ferma, per capire chi fosse. L’ennesimo nuovo?
“Andiamo, forza. Apri quella benedetta portiera”, continuai a ripetermi mentalmente.
Come se mi avesse sentito, si aprì.
Un ragazzo con dei capelli biondissimi scese da esso. Indossava un paio di jeans e una maglietta bianca, entrambi di marca. Gli occhi coperti da un paio di Ray-Ban a goccia. Lo vidi respirare, quasi con difficoltà, l’aria della città. 
Il mio cuore, nel frattempo, aveva però smesso di battere.
Il tassista gli aveva portato la valigia, che aveva preso dal bagagliaio pochi attimi prima. Attimi che io non avevo neanche notato, troppo intenta a fissarlo.
Era nervoso, troppo. Si vedeva lontano un miglio, dalla rigidità dei suoi gesti.
Prese la valigia, dopo aver pagato l’uomo, iniziando a camminare, trascinandosela dietro. Immobile. Era tutto quello che riuscivo a fare.
C’era un modo perché io riprendessi coscienza dei miei arti inferiori?
Era ormai quasi in fondo alla piazza, quando le mie gambe decisero di muoversi, iniziando a corrergli dietro. Il suo passo era lungo, la fretta di andarsene.
«Alex, fermo!»
La mia lingua si srotolò e iniziai a chiamarlo, più voglie chiedendogli di fermarsi.
Non si voltò, non mi dava ascolto, come se non mi sentisse. Il passo ancora più lungo del precedente, la camminata imperterrita.
La milza mi doleva dalla corsa, il cuore in gola, il battito fin troppo forte.
Non avevo quasi più fiato, ormai.
Mi fermai e, con tutto il fiato che avevo in corpo, urlai.
«Alex! Ti ho detto di fermarti! Per favore!»
Appoggiò la valigia a terra e si voltò, squadrandomi.

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Capitolo 8
*** Cosa si può fare per rimediare? - Capitolo 7. ***


COSA SI PUO’ FARE PER RIMEDIARE? - CAPITOLO 7
 
Non mi stava semplicemente guardando, mi stava proprio squadrando. Dalla testa ai piedi. Come se avesse visto un fantasma.
Che non volesse vedermi, era il minimo.
Restai immobile, sperando che lui facesse o dicesse qualcosa, qualsiasi andava bene. L’importante era che si rompesse quella tensione che era andata a crearsi.
Niente. Semplicemente.. Immobile. I suoi occhi sulla mia figura.
A malapena riuscivo ad emettere un respiro. Profondamente ne feci uno, muovendomi d’un passo. Dovevo pur cercare un modo di relazionarmi con lui. Diamine, era il mio migliore amico! Avevo mandato si tutto a farsi fottere, ma diamine! Dovevo avere un approccio. Subito.
Non sapevo come cominciare, cosa dire, così la prima frase che mi passò per l’anticamera del cervello, la gettai fuori, seppur sconnessa.
«Alex, io.. Volevo dirti che..»
Persi l’uso della parola. Tutto quello che avrei voluto dirgli, mi morì in gola. Non sapevo più formare frasi  Non sapevo più formare frasi di senso compiuto, il mio cervello aveva fatto semplicemente ko.
Mi guardò di sottecchi. Era a disagio, un disagio forse mai provato prima d’allora nel nostro rapporto. Cosa avrei potuto fare? Ero stata io a creare quel baratro atroce tra noi due.
«Lascia perdere, Ever. Non voglio le tue scuse.»
«Ma tu.. Io devo farlo, devo scusarmi con te.»
«Non devi dire niente, Ever. Davvero.»
No! Io avevo un’infinità di cose da dire, invece! Riprese la valigia, dandomi le spalle.
Quello per me era troppo, non potevo permettere che tutto finisse così, non potevo sopportarlo. Avevo bisogno di spiegarle, avevo bisogno che lui capisse, che mi stesse ad ascoltare anche solamente un minuto.
Lo raggiunsi, poco dopo, andando a pararmi di fronte a lui.
«Adesso mi ascolti.»
Lo vidi schiudere le labbra, come se volesse dire qualcosa, ma fui più veloce e lo interruppi.
«Ti ho detto di ascoltarmi. Per cui, stai zitto una benedetta volta!»
Maledizione, perché tutte quando avevo da dire qualcosa di serio e importante, doveva sempre interrompermi? Non mi rispose e, proprio per questo, mi feci coraggio, parlando.
«Ho fatto un errore quest’estate, un errore madornale. Non avrei mai dovuto stare con te. Ti ho illuso, ti ho spezzato il cuore, calpestandotelo come se valesse nulla. Ho scavalcato i tuoi sentimenti e.. Mi dispiace. Sono stata un’idiota, ho pensato solamente a me stessa, come sempre. Non mi sono soffermata a pensare a ciò che realmente provi. Sono solamente una stupida egoista. E’ questa la verità.»
Scossi la testa, facendo una breve pausa. Dovevo continuare, dovevo fare in modo di sistemare le cose, per quanto possibile mi fosse.
«Ti ho lasciato. Distruggendoti e facendo crollare quello che siamo. Tu te ne sei andato, sei sparito per tutta l’estate, senza darmi tue notizie. Non sapevo dove fossi, se stessi bene, se ti fosse successo qualcosa.. Ho cercato in tutti i modi di contattarti, ma tu non mi hai mai calcolata. Non mi hai mai richiamata.»
Non se n’era andato. Avrebbe potuto farla e invece.. Invece era restato. Deglutii, lasciando i miei occhi incontrare i suoi.
«So che eri letteralmente devastato, ma io avevo bisogno di parlarti. Avevo bisogno di te. Ho bisogno di te. Ho bisogno del mio migliore amico. Sono qui, di fronte a te, con tutte le difese basse, nulle. Solamente per chiederti perdono. Ed io.. Io sai che non mi scuso mai. Eppure a te lo devo. Non avrei mai dovuto comportarmi così. Sono stata stupida e io.. Io.. Non ho scusanti. Perdonami, Alex.»
Avevo detto tutto ciò che mi premeva dentro. Abbassai il capo, senza sapere che cos’altro aggiungere. Anche se, sinceramente, non c’era niente più d’affermare. Sentivo le lacrime graffiarmi gli occhi. Sarei potuta scoppiare a piangere proprio lì, al centro della piazza. Avevo la sensazione d’essere osservata, forse lui mi stava osservando, cercando di capire che cosa mi passasse per la mente.
Era sempre stato così.
Alle mie orecchio giunse un rumore sordo, secco. Alzai di poco gli occhi, osservando la valigia a terra, Alex con le braccia incrociate al petto, i suoi occhi che mi stavano trapassando da parte a parte.
Ero pronta a subire la sua ira, la sua furia, in fin dei conti me la meritavo.
Ero pessima. Decisamente pessima.
La sua risposta fu totalmente diversa da quella che il mio cervello aveva elaborato precedentemente.
Avevo immaginato che mi avrebbe urlato addosso, il suo dito contro di me, dicendomi di quanto fossi vigliacca, viziata, egoista.
Cosa che non fece. Restai stupita, alle sue parole, che erano tutto il contrario di quello che pensai mi avesse sputato addosso.
«E’ vero. Mi hai distrutto il cuore, me l’hai calpestato, mi hai disintegrato. Completamente. Ma, come vedi, sono ancora qui. Hai voluto parlare? Sono rimasto qua, ad ascoltarti. Cioè vuol dire che non è tutto perduto, sai? Nonostante il male che mi hai causato, in quei due mesi, me ne sono fatto una ragione, se così vogliamo chiamarla. Sono ancora qui perché ti voglio bene.»
Quelle parole furono qualcosa che mai, mai e poi mai avrei pensato che mi potesse dire. Entrarono dentro di me, nel profondo del cuore. Le rinchiusi, a chiave, in quel posto, qualsiasi esso fosse.
Sorrisi dolcemente, eppure in quel momento troppe emozioni s’impadronirono di me, sbilanciandomi. Una lacrima mi tradì.
Le avevo trattenute per così tanto tempo che non mi ero neanche accorta che stesse scorrendo sul mio viso. Lo capii solamente quando sentii il mio labbro superiore bagnarsi. Portai rapidamente una mano sotto l’occhio, levandola.
Era la prima volta che piangevo davanti a qualcuno.
Alex restò immobile, senza sapere cosa dire. Prima che potessi fare qualcosa, le sue braccia mi circondarono, in un abbraccio vero, sentito, stringendomi a lui. 
Posai la testa al suo petto, respirando profondamente. Tutto inutile.
Altre lacrime caddero sul mio viso, rigandomi le guancie. Se prima avevo pensato che sarei potuta riuscire a ricacciarle indietro, avevo sbagliato proprio ad intendere.
Mi era mancato così tanto..
«Ehi su, basta piangere. Sono ancora qui.»
La sua mano si posò sulla mia testa, lasciandomi un delicato bacio tra i capelli, prima di andare a posarle entrambe sulle mie guance, facendomi alzare il viso verso di lui, asciugandomi con il pollice quelle lacrime che ancora cadevano.
«Non c’è motivo di piangere. Hai sbagliato e, fortunatamente, hai capito il tuo errore. Stai cercando di rimediare e questo mi rende felice. Qualcosa allora ti ho lasciato.»
Il suo sguardo nel mio, pieno di dolcezza. Come facevo a non ricambiarlo?
Per tutti ero una ragazzina superficiale, ma non ero realmente così.
Mio fratello aveva ragione. Non ero più me stessa. Mi ero allontanata davvero troppo, ma ciò che ero veramente.
«Nonostante tutto.. Cammineremo ancora insieme in quel percorso chiamato vita?»
«Certamente. Adesso però smetti di piangere, non mi piace quando lo fai.»
Andai a sedermi su una panchina lì vicino, nella piazza, restando in quella posizione cinque minuti buoni, riprendendomi. Alex, in quell’arco di tempo, mi restò accanto, senza però fare nulla. Mi conosceva meglio di chiunque altro e voleva lasciarmi il mio spazio.
«Possiamo andare, forza.»
Strinse la maniglia della valigia, riprendendo a trascinarla. Camminammo l’uno affianco all’altro, senza inizialmente parlare.
C’era ancora tensione tra noi, ma come negarla? Come spezzarla?
Avevo così tanti pensieri nella testa, che davvero, non riuscivo a venirci a capo.
«Alex.. Sarai sempre il mio migliore amico, lo sai?»
Lo colsi alla sprovvista.
I suoi occhi risplendevano al sole, facendo risaltare il suo verde splendente ancora di più. Ci lessi tutto.
Anche quell’amore che io gli avevo negato, che io non ricambiavo. Purtroppo.
«Si, lo so. Per te, ci sarò sempre.»
Si avvicinò, passando il suo braccio attorno alle mie spalle ed io, a mia volta, gli cinsi la vita, prima d’andare a posare la mia testa sulla sua spalla.
Insieme, come quando eravamo piccoli, ci dirigemmo verso la sua abitazione.
Casa Vonnegut.

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Capitolo 9
*** Le cose sono destinate a cambiare - Capitolo 8 ***


LE COSE SONO DESTINATE A CAMBIARE - CAPITOLO 8
 
La fine di ottobre si avvicinava sempre di più; più di un mese e mezzo era passato da quando Alex era tornato in città, quel giorno di metà settembre. Tra noi due le cose sembravano andar meglio, anche se ero consapevole del fatto che ci sarebbe voluto del tempo, prima che tutto tornasse alla normalità. Non m’importava.
Insieme avremmo superato anche questa. Avremmo scalato le montagne, scavalcato valanghe di fuoco bruciante sempre tenendoci per mano. Insieme eravamo imbattibili. Potevamo superare tutto. Era sempre stato così tra me ed Alex, e sempre lo sarebbe stato. Per lo meno ci speravo.
Sentire nuovamente in calore del mio migliore amico al mio fianco era inebriante, come il miglior profumo sul mercato.
Da quella giornata, erano successi svariati avvenimenti.
In città vennero registrati ritrovamenti di corpi senza vita, senza una reale causa scientifica che ne spiegasse le morti. Unico dettaglio? Dissanguamento.
Ma com’era possibile che un corpo si dissanguasse così, dal nulla? Com’era possibile che in un mese e mezzo, ben cinque corpi –indifferentemente se uomini o donne- erano stati trovati tutti con quell’unica caratteristica in comune?
..E com’era possibile che altri, venivano trovati in stato di shock, confusionario, senza saper raccontare o spiegare agli agenti di polizia, che cosa fosse accaduto loro?
Non dovevo pensarci, se ci avessi pensato, sarebbe stato peggio che mai.
Non era comunque l’unica sorta di novità.
La scuola pullulava di nuovi arrivati, stranamente.
Non mi era mai capitato di assistere ad un “invasione” scolastica di quel tipo.
Capivo gli studenti del primo, che facevano il cambio di scuola, passando da quella inferiore a quella superiore, ma una cosa del genere, non era mai successa.
Non con studenti del quarto o del quinto anno.
Avevo saputo che c’era un nuovo capitano nella squadra di football, Adam Parker, mentre una certa Victoria Parker –sicuramente la sorella di Adam- era divenuto il nuovo capitano della squadra di cheerleader. Ed io che ero fermamente convinta che sarebbe stata Charlotte a diventarlo, dopo tutti quegli anni. Sbagliavo.
Non l’avevo mai vista questa ragazza, ma tutti la descrivevano come una bionda con un fisico da paura, amica di tutti.
Come si faceva ad essere “amica di tutti”? Esistevano poche persone vere nella vita, il resto erano solamente conoscenti.. O persone che volevano semplicemente il tuo male. C’era un detto che diceva: “conosci i tuoi nemici e non scordare mai i loro nomi.”
Io rientravo nella categoria delle persone che non dimenticava mai nulla.
Soprattutto i torti subiti. Come quelli che mi aveva fatto Amanda e che continuava a farmi. Tutto tornava poi sempre a lei. Colei che andava in giro a dire che io fossi una poco di buono, solamente per il fatto d’uscire con differenti ragazzi.
Come se andassi a letto con tutti loro. Per sua informazione ero ancora vergine.
Di certo lei pensava tutto il contrario ma, sinceramente, la sua opinione per me contava ben poco. Solo io sapevo come stavano veramente le cose.
Era qualcosa di più forte di me, maledizione. Anche solamente pensarla mi faceva innervosire. Non poteva cambiare scuola, o città, o semplicemente tornarsene da dov’era arrivata?
Ed eccola lì, nel corridoio. Perfetto. Adesso quando la pensavo me la ritrovavo anche davanti. Da male in peggio, insomma.
Volevo ignorarla, non volevo fare nulla. Niente di niente, eppure era come una calamita per il mio sfogo personale.
Ciò che vidi, mi lasciò di stucco. Amanda con affianco una ragazza. La squadrai dalla testa ai piedi.
Si, la stessa ragazza che l’aveva aiutata ad alzarsi quel famoso giorno in corridoio.
Lei vestita, truccata e con i capelli acconciati alla perfezione, mentre Amanda.. Bhè, non c’era molto da dire. Era la solita Amanda.
Aveva un’amica? Seriamente? Quello si che mi fece restare di stucco, non poco.
 
Decisi di fingere. Volevo sapere che cos’avessero in comune quelle due.
«Amaaaanda!» la chiamai appena si fu avvicinata al suo armadietto, trascinando la seconda vocale. Sia lei che l’altra ragazza –di cui non sapevo il nome, non ancora per lo meno-, si voltarono a guardarmi. Non mi rispose. Stava usando l’arma dell’indifferenza totale, come ormai faceva da anni, anche se c’era d’ammettere che non sempre funzionava. In modo neutrale afferrò il libro di astronomia dall’armadietto, richiudendolo poco dopo.
«Anche tu astronomia?», domandai, rigirandomi una ciocca di capelli su un dito.
«Ciao anche a te, Ever. E comunque si, frequento astronomia.»
Non mi diede il tempo di rispondere, che si voltò, riprendendo a camminare verso la sua aula.
Non sarebbe finita così presto, proprio no. Le feci un sorriso sghembo, afferrandola per un braccio, senza farle male, obbligandola a fermarsi e guardarmi.
«Io cerco di fare conversazione con te e tu mi dici solo.. ciao?» alzai le spalle, così insistetti.
Non l’avevo neanche programmata. Era uscita totalmente naturale, ma con lei era così semplice, che quasi mi stupivo. Mi appoggiai all’armadietto, piegando la gamba e appoggiandoci il tacco.
«Per la prima volta in vita mia vengo a parlare con te in pace e tu mi tratti così.», le feci un’espressione triste, arricciando all’ingiù le labbra.
«Tu vuoi parlare con me in pace?»
Il suo tono retorico, quasi sarcastico e forse anche beffardo. Voleva prendersi gioco di me? Sicuramente.
«Andiamo Ever, ti conosco abbastanza bene per capire che non è affatto così. Se vuoi far conversazione, rivolgiti ai tuoi amichetti. Perché sai com’è, preferisco essere me stessa e non avere amici, piuttosto ch’essere una piccola mocciosa che si crede Miss Universo.»
Come mi aveva chiamata?! Quelle erano le cose che mi mandavano il sangue al cervello. Quelle erano le cose che mi facevano infuriare non poco.
Decisi di essere ragionevole e mantenere la calma, almeno per una volta. Dovevo farlo, per forza. Per me stessa, soprattutto. Mi ero ripromessa che sarei cambiata, dopo l’incontro con Alex. Ce la stavo mettendo davvero tutta, per lasciare quel rancore, il mio modo di fare superficiale e quant’altro da parte.
..Ma Amanda.. Lei tirava fuori il peggio di me. Com’era possibile che una persona potesse farmi diventare così isterica, farmi cambiare comportamento in men che non si dica? Le toccai i capelli, prendendole una ciocca di capelli tra le dita, attorcigliandola.
«Dio santo, che doppie punte! Da quanto tempo è che non vai dal parrucchiere? Lo sai che esiste e che è ora di darci una tagliata?» senza volerlo l’avevo detto a voce troppo alta. Chi passava li vicino era scoppiato a ridere.
Non mi ero resa conto che il corridoio di fosse riempito così tanto e, ormai, la conversazione era diventata di dominio pubblico, ancora una volta.
Umiliazione pubblica numero uno dell’anno. Uno per me, zero per lei. Come sempre.
«Non sono affari tuoi. Lo sai, vero?» mi rispose, mantenendo un tono di voce decisamente normale. Non lo alzò e non lo abbassò. Semplicemente neutrale.
Non diedi importanza alla sua voce, era come una mosca. Pensandoci bene, se fosse sparita, poi con chi mi sarei potuta divertire?
Da questo punto di vista era meglio che lei restasse in quel luogo.
«Smettetela. Tutte e due. State facendo la figura delle stupide, per l’ennesima volta.»
Una voce differente, parole sussurrate tra i denti.
Il mio viso si voltò di scatto sulla bionda che stava al fianco di Amanda, fulminandola. Perché s’intrometteva? Non sapeva farsi i fatti suoi?
«E tu chi sei? Nessuno ti ha chiesto nulla.»
Domandai squadrandola dalla testa ai piedi, alzando un sopracciglio, lasciando andare la ciocca di capelli che ancora tenevo tra le dita.
Il mio essere acida con Mandy, si era rivoltato contro di lei, che non c’entrava assolutamente nulla. La ragazza fece un sorriso, passando sopra al tono della mia voce. Lo ignorò.
«Holly Allen. Sono da poco in città.»
Mi allungò la mano, aspettando che io la stringessi, cosa che feci poco dopo, avendo inizialmente tentennato. Annuii, accennandole un sorriso.
«Janelle Ravenwood. Spero che ti troverai bene, nella nostra cittadina e che..»
La mia frase s’interruppe a metà.
«Ever!»
Charlie. La sua voce era inconfondibile. Mi voltai, facendole un rapido sorriso, vedendola avvicinarsi.
«Dov’è Stephanie?», domandai, non curante delle due ragazze di fronte a me. Mi fece capire con una sola occhiata, che ne avremmo parlato in sede a parte.
«Io e te ci siamo già conosciute. Nell’ora di fisica. Sei.. Holly, esatto?»
Si sorrisero, mentre io spostai l’attenzione, ancora una volta aggiungerei, su Mandy.
Le indicai il libro, posandoci sopra un dito, picchiettandolo. La sentii sospirare pesantemente, afflitta.
La mia mano andò a posarsi sulla sua spalla.
«Dai, non fare quella faccia. Sono solamente due ore in più la settimana. Che vuoi farci? Ricordati che non avremo solo astronomia insieme. Avremo anche matematica, spagnolo, inglese e letteratura. Te lo ricordo, così ti prepari psicologicamente per l’anno che ti aspetta.»
A quelle parole Holly e Charlotte, che si erano messe a chiacchierare, riportarono la loro attenzione su di me che, a voce decisamente bassa, avevo parlato con lei.
«Janelle, lasciala in pace. Smettila con questi giochetti da bambina stupida. Vi mettete a tavolino e risolvete i vostri contrasti, okay? Non fate altro che umiliarvi a vicenda, in questa maniera.»
Alzai un sopracciglio. Che avesse potuto avere ragione? Quella ragazza ci vedeva lungo, davvero tanto.
«Ev, andiamo. Faremo tardi alla lezione, altrimenti.»
«Si, sarà meglio..»
Venni fermata, però, dalla mano di Holly, che andò a stringersi sul mio polso.
«Janelle, quando puoi, possiamo parlare. Ho una cosa da dirti.»
Che diamine voleva? Non la conoscevo neppure. Restai imbambolata a fissarla, aggrottando poi le sopracciglia.
«Si, okay..»
Strattonai il braccio che mi aveva bloccato, facendo in modo che lasciasse la presa. Charlie era rimasta a fissarci, stupita anche lei, senza aggiungere altro.
Voltai le spalle, senza neanche salutare. Stavo ancora cercando di elaborare quello che era appena successo.
 
La lezione di astronomia finalmente finì e, dopo un’ora che avevo riempito di occhiatacce Amanda e dopo aver cercato di contenere i miei bollenti spiriti per sessanta interminabili minuti grazie anche all’aiuto di Charlotte che costantemente mi sussurrava di mantenere la calma, uscii dall’aula come un tornado, senza neanche aspettare la mia migliore amica. Non avevo tempo, dovevo fare una cosa.
Mi diressi verso la palestra, cercando di ricompormi come meglio potevo.
Era tempo che ci pensavo, ne avevo passato davvero tanto a rimuginarci sopra, prima di compiere quel passo e mettere nuovamente piede nella struttura.
Volevo ricominciare a praticare cheerleading, quella passione che mi aveva sempre attraversato il cuore, che mi aveva sempre fatta sentire viva e che per me era vita, ossigeno. Era circa un anno, che non svolgevo neanche un allenamento, non dopo quella brutta caduta che mi aveva messo fuori uso il ginocchio destro, rendendomi impossibile svolgere quello sport. 
Non dovevo pensarci troppo, se lo avessi fatto, sicuramente me ne sarei andata, avrei perso quel coraggio che avevo in quel momento.
Aprii la porta di scatto, facendola sbattere talmente forte che tutti quelli che erano in palestra si voltarono a guardarmi. Tutti ragazzi.
Che figura di merda, avevo sbagliato giorno. Quelle non erano le ragazze di cheerleading, era la squadra di football al completo.
Mi bloccai sulla soglia, senza muovere un muscolo. Un ragazzo, dai capelli scuri, che non dimostrava di certo la nostra età, diede un calcio alla palla, forse con un po’ troppa forza, a parare mio, che andò a colpire in pieno un ragazzo che si era fermato ad osservarmi.
«Svegliati!» gli urlò sorridendo una frazione di secondi, battendo le mani per poi lasciare il campo ed avvicinarsi a me.
Respirai profondamente, avvicinandomi a lui, ad occhi bassi.
Perché mi sentivo in soggezione? Perché mi sentivo così fuori luogo e una parte di me urlava di andarmene subito?
«Hey, son certa di aver sbagliato giorno, ma stavo cercando la signorina Colte. Per caso sai se è da queste parti?» gli domandai, accennando un sorriso, osservandolo un istante, distogliendo ancora una volta gli occhi da lui.
«No, mi dispiace. Non la conosco. Sono semplicemente il sostituto del coach di football.»
Dio santo, la sua voce quanto era fredda, ma al tempo stesso totalmente attraente.
Alt! Da dove arrivavano quei pensieri?
Alzai gli occhi, lentamente, quasi in imbarazzo. Si, lo ero sicuramente.
I miei incrociarono, per la prima volta, i suoi azzurro ghiaccio, un azzurro che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro.
M’incantai, imbambolandomi ad osservarli.
Erano bellissimi. E poi.. Poi risaltavano, contrastando lo scuro dei suoi capelli.
Sentii il cuore fare uno sbalzo. Mi guardai le mani senza sapere che dire, riscuotendomi poco dopo.
«Allora tolgo il disturbo. Magari è fuori, posso cercarla da sola.»
Lo vidi scuotere la testa.
«Oggi le cheerleader non ci sono. Non si sono viste. Forse hanno cambiato giorno d’allenamento.»
«Probabile. M’informerò, comunque e.. Grazie. Scusami ancora per l’interruzione, vi lascio al vostro allenamento.»
Feci un breve cenno del capo, tirando un sorriso sulle labbra.
Perché mi sentivo così in soggezione? Perché mi sentivo come se quegli occhi mi stessero trapassando da parte a parte, leggendomi come un libro aperto?
Odiavo quella sensazione, odiavo sentirmi vulnerabile. Io non lo ero mai e quella “cosa” che mi attanagliava le viscere così dal nulla, mi piaceva men che meno.
Dovevo andar via, si, era la cosa migliore da fare.
Dovevo levarmi quegli occhi dalla testa. Che poi, perché continuavo a focalizzarmi su quelli? Perché continuavano a rigirarmi nella mente? Gli avevo osservati solamente per una frazione di secondo eppure.. Eppure non sapevo descrivere la sensazione che essi mi avevano provocato.
Stavo per voltarmi, per allontanarmi da lì, quando la sua voce mi bloccò.
«Sei una cheerleader, vero Janelle?»
Mi gelai. Un attimo, io non gli avevo detto come mi chiamassi.
Non avevo fatto accenno al fatto che fossi una cheerleader, né tanto meno a come mi chiamassi. Come lo sapeva, se era semplicemente il supplente del coach?
«Come lo sai?», domandai, questa volta fissandolo seriamente, incrociando le braccia al petto.
«Sapere che cosa?»
Freddezza. Allucinante. Non ne avevo mai sentita così tanta in una sola voce.
«Il mio nome. Come lo sai?»
Lo vidi indicare un punto dietro di me, senza parlare. Mi voltai, osservando una mia foto, vestita com’era di consuetudine nella squadra, con tanto di nome sotto.
Sospirai, ricordando i vecchi tempi. Il modo in cui quello sport mi faceva sentire.
«Se uscissimo da qua? Questo posto mi fa sentire.. Non lo so, strana. Non mi piace la sensazione. O forse si..»
..E se fossi tu, a farmi sentire in questo fottuto modo? E se fossero i tuoi occhi, con il tuo fottuto modo di fissarmi? Dovevo smetterla con tutti quei pensieri, totalmente. Annuì, seguendomi all’esterno, seppur titubante.
Il parco esterno alla palestra era corto, appena tagliato. Il sole picchiava leggermente, anche se il primo freddo stava iniziando a calare. Era quasi finito ottobre, ormai.
Mancava poco all’inizio di novembre. Mi lasciai ricadere all’ombra di un albero, posando il mio palmo sull’erba umidiccia. Mi piaceva quella sensazione sotto le dita.
Alzai lo sguardo su di lui che, ancora una volta, tentennò, optando alla fine per restare in piedi, appoggiandosi con la schiena al tronco.
Allungai una mano verso di lui, alzando lo sguardo. Nuovamente questi occhi.. Che andarono a puntarsi sulle mie dita, che si erano distese in sua direzione.
La strinse, rapidamente, lasciandola andare una frazione di secondo dopo, come se quel contatto gli costasse fatica.
«Janelle. Chiamami Ever, comunque.»
«Ryan Brexton.»
Una risposta semplice. Nome e cognome. Un tono secco, gelido.
Diamine, ma che aveva quel ragazzo?
Se non voleva seguirmi all’esterno, avrebbe potuto dirmi semplicemente di no, che aveva altro da fare.
Nonostante tutto quello che mi si smuoveva dentro, a causa di un semplicissimo sguardo e tralasciando la sensazione d’essere osservata che provavo..
Che cosa dovevo dire? Perfetto. Avevo perfino dimenticato la frase.
Non mi ero resa conto d’essermi incantata a fissarlo. I miei occhi nei suoi. Lui non diceva niente, semplicemente mi guardava.
Mi riscossi, voltandomi successivamente di scatto, abbassando lo sguardo a terra.
Mi sentivo in imbarazzo, come non lo ero mai stata prima d’allora.
Ma che cazzo mi prendeva? Avevo preso per caso una botta in testa, e non me lo ricordavo? Dovevo respirare e soprattutto schivare il suo sguardo costante addossato alla mia figura.
«Scusami.» bofonchiai, poco dopo, riferendomi al mio atteggiamento precedente. Non ero una persona che si imbambolava ad osservarne altre. Men che meno un ragazzo e, se lo facevo, usavo un minimo di discrezione.
«Perché dovresti scusarti?»
Ecco la sua voce tagliente rompere il silenzio che era andato a crearsi. Ed ora? Che cosa avrei risposto? Dovevo mantenere il controllo, così come avevo sempre fatto, come facevo sempre.
«Io.. Niente. Lascia perdere.»
Mi alzai da terra, decisa a schiodare da quel posto. In fretta.
Mi voltai troppo rapidamente e, inavvertitamente, gli sfiorai la mano, senza volerlo, sentendo un brivido percorrermi la schiena.  Ryan s’irrigidì al mio fianco, fissandomi un istante. Potei giurare di averlo visto smettere di respirare un istante, scostando subito la mano a quel contatto, ritraendosi.
Ero nervosa, nervosa come non mai. Continuavo a rigirarmi sul dito una ciocca di capelli, tormentandomela.
«E’ meglio che io vada.»
Cinque parole gelide. Non una di più, non una in meno.
«Si, io.. Si, vado anch’io e.. Ryan..»
Non feci in tempo a concludere la frase, che nuovamente la sua voce proruppe.
«E’ meglio che tu mi stia lontana.»
Non ebbi il tempo di elaborare, di rispondere.
Restai lì, immobile, totalmente sbigottita.
Non sapevo cosa pensare, niente di niente.
Non avevo detto nulla, non avevo accennato minimamente al fatto se ci fossimo rivisti, ma.. L’avevo pensato.
Erano quelle le parole successive che stavano per uscire dalle mie labbra, successive al suo nome.
Che quella fosse la risposta alla mia domanda inespressa?
Scossi la testa. Dovevo smetterla, stavo diventando paranoica.
Ryan sparì, voltando l’angolo, senza guardarsi indietro, le mani in tasca.
Rimasi ferma sotto l’ombra dell’albero, senza capacitarmi di quello che era appena successo. Che cos’era realmente successo, alla fine? 

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Capitolo 10
*** La realtà cambia in modo imprevedibile - Capitolo 9. ***


LA REALTA’ CAMBIA IN MODO IMPREVEDIBILE  - CAPITOLO 9
 
Quegli occhi così azzurri mie erano rimasti impressi, in ogni propria sfaccettatura. Non ne avevo mai visto un paio così, di un colore così intenso per di più.
Un colore azzurro ghiaccio, con sfumature di blu scuro, una tonalità talmente favolose che disegnarli sarebbe stata un’impresa.
Ero in fissa. Totalmente.
Non riuscivo a levarmeli dalla mente, neanche a volerlo.
Perché diamine continuavo a pensarci? Perché, maledizione?!
Un’altra settimana era trascorsa, ed io non avevo dimenticato quell’incontro.
Come avrei anche solamente pensato di poterlo fare? Impossibile.
Quel paio d’iridi non facevano altro che ballarmi nella mente, come una danza senza fine, senza sosta, continua ed instancabile nel mio cervello.
Chiusi con uno scatto secco la cerniera della borsa di cheerleading, portandomela a tracolla. Dovevo mettere out quei pensieri.
Andiamo, era stato solamente un incontro!
Che sarebbe mai potuto succedere?
Niente più, niente meno. Chi l’avrebbe più rivisto, poi.
Finalmente sarei tornata a praticare quello sport che tanto amavo, e si sa, quando una passione ti attraversa il cuore, non puoi fare altro che riprenderla in mano, non puoi nasconderla, non puoi metterla nei meandri della tua mente, non puoi farlo.
Uscii da casa dirigendomi al college per l’ennesimo pomeriggio.
Mi ero diretta all’esterno, in prossimità del campo di football, nonostante fossero gli ultimi giorni d’ottobre. Mancavano solamente due giorni ad Halloween. 
Sapevo che, anche se il tempo era abbastanza freddo, l’allenamento si sarebbe svolto all’esterno, mentre le coreografie all’interno.
Mi sembrava strano dover andare a parlare con il capitano, quando il capitano ero sempre stata io.
Respirai profondamente e, titubante, mi avvicinai alla ragazza dai lunghi capelli biondi seduta a terra che stava facendo riscaldamento.
Non la conoscevo e, come avevo saputo, lei aveva preso il posto di Charlotte.
Una nuova alunna forse? O magari era già lì, a Yellow Stone, da un po’ ed era divenuta popolare per via del suo essere capitano?
«Scusa se ti disturbo, sei Victoria?» domandai gentilmente, aspettando una sua risposta. La osservai mentre si alzava da terra e mi scrutava dalla testa ai piedi; i suoi occhi erano andati a squadrarmi. Dalla testa ai piedi ed io, non mi ero mai sentita così tanto in soggezione. Era come se mi stesse facendo la radiografia.
«Si, in persona. Cosa hai bisogno?»
Il suo tono di voce era freddo, gelido. Ma che cazzo avevano tutti, ultimamente?! Prima Ryan, adesso questa Victoria. Non potevano semplicemente dimostrarsi carini e simpatici con quelli che non conoscevano?
Ovviamente no, l’essere malfidenti regnava sovrano.
«Io.. Avevo bisogno di te, per tornare in squadra, in quanto capitano. Ho sentito che Charlotte aveva ceduto il suo posto, assieme al tuo nome. »
Affermai, mordendomi il labbro inferiore, tendendo la mia mano verso di lei, aspettando che l’afferrasse, cosa che fece poco dopo.
«Piacere di conoscerti, Victoria. Janelle Ravenwood, ma per la maggior parte Ever.», lasciai la sua mano, facendo un respiro profondo e riprendendo a parlare.
«E’ da un anno che non ne faccio più parte, a causa di problemi ad un ginocchio. Adesso posso riprendere a tempo pieno, e volevo tornare in squadra.».
Ottenevo sempre quello che volevo, e l’avrei ottenuto anche in quel momento. Cheerleading era la mia unica sola e vera passione. Lo praticavo praticamente da sempre e, visto che quello era il mio penultimo anno, volevo finire in bellezza con ciò che mi faceva sentire viva.
Victoria era rimasta in silenzio, come a valutare la situazione. Voleva per caso che facessi anch’io la selezione, per passare in squadra?
«Facevi già parte del team, per cui non ho bisogno di altro. Ricordati che gli orari degli allenamenti sono cambiati. Al giovedì ci sono solamente io, per elaborare le coreografie, mentre il lunedì e il mercoledì ci sono anche le altre ragazze.»
Restai davvero senza parole. Probabilmente se fosse stata un’altra, ci avrebbe pensato due volte a riprendermi. Avevo inizialmente avuto un impatto negativo, su di lei.
Ma chi non lo avrebbe avuto? Era peggio d’un ghiacciolo, fredda e sulle sue.
«Davvero? Io non sono come ringraziarti. Non ti deluderò, mi allenerò assiduamente per tornare al massimo delle mie potenzialità. Stanne certa.»
Passai gran parte del pomeriggio con Victoria, che volle vedere una delle mie vecchia coreografie, insegnandomi anche parte di quella nuova, che aveva ideato lei stessa e che era anche abbastanza difficile.
Ma non mi sarei data per vinto, l’avrei imparata tutta, alla perfezione.
N’era valsa la pena di passare così tanto tempo assieme a lei. Inoltre mi piaceva, ma se avessi saputo di lì a qualche mese che cosa sarebbe successo, mi sarei allontanata a gambe levate da lei. Il più lontano possibile.
Avevamo chiacchierato, fino quando una figura femminile, fluida e sinuosa, dai lunghi capelli neri, mossi e dagli occhi azzurri, aveva fatto la sua comparsa.
Victoria si era voltata rapidamente -interrompendo il discorso che stavamo facendo, sulla faccenda della popolarità- come se l’avesse sentita arrivare ancor prima di vederla. Il suo sguardo divenne qualcosa d’impenetrabile, qualcosa che non mi sarei mai aspettata di vedere sul suo viso.
«Scusami un attimo..»
Alzai le spalle e annuii, restando a guardare la scena, inebetita.
Victoria si era avvicinata e, visto che non erano neanche tanto distanti da me, le loro voci si sentivano perfettamente.
«Ti ho detto che non devi venire qua. Vengo io da te. Adesso vattene, per favore.»
Una risata leggera era aleggiata nell’aria, prima che altre parole la riempissero.
«Cos’è, paura del piccolo Adam? Del tuo fratellino? Darebbe di matto se sapesse che ti vedi con me? Oh, non immagini quanto quel ragazzino sclererebbe.»
I toni tra le due non erano di certo dei migliori, ed io come una stupida avevo attirato l’attenzione su di me. La mora lanciò un’occhiataccia a Victoria, come se potesse leggere in quello sguardo, ciò che le stava chiedendo.
«Kassandra..»
Din din din! Eccolo lì il nome della misteriosa sconosciuta..
..Che si stava avvicinando a me, e la cosa non mi piaceva per nulla. Il suo sorrisetto dipinto sul viso, la sua aria spavalda, il suo modo di atteggiarsi.
C’era qualcosa che non mi piaceva, qualcosa che mi metteva i brividi.
Era qualcosa nella sua espressione, qualcosa che m’incuteva un terrore che mi andava ad attanagliare le viscere.
“La piccola Janelle. L’ossessione di Derek.”
Derek? Chi era Derek? E da dove era arrivato quel pensiero?
Mi gelai. Mi ero sentita la voce di quella Kassandra nella testa.
Si, ero certa che fosse la sua.
Ferma, di una calma quasi innaturale, atona. Priva di sentimenti. Piena di un sarcasmo allucinante.
Era impossibile, totalmente impossibile. Non succedevano certe cose, non esistevano certe cose.
«Tu devi essere Janelle. Ryan mi ha parlato di te.»
Ryan? Quel Ryan? E lei chi era? Come mi conosceva? Io non l’avevo mai vista e mai avevo sentito neanche il suo nome. Sgranai gli occhi, senza sapere che dire.
Fu solamente in quel momento che notai la mano di Victoria stringere il polso di Kassandra, come a volerla trattenere, proprio per farla voltare verso di lei.
Che cazzo succedeva? E perché quegli sguardi inquisitori da parte della bionda nei confronti della mora?
Gli occhi chiari della ragazza che si trovava a pochi metri da me, si staccarono da quelli di Victoria, puntandoli su di me.
«Fai troppe domande, ragazzina.»
Domande? Ma chi diamine aveva parlato, adesso? Non avevo spiaccicato parola, non avevo aperto bocca. Avevo semplicemente.. Pensato differenti domande.
«Scusami!?»
Domandai acidamente, folgorandola con lo sguardo.
Ma che problemi aveva la tipa qua? Si sentiva bene o si era fatta di qualche fungo allucinogeno, prima di mettere piede al campo?
Mi alzai in piedi, poco dopo, decisa ad andarmene.
Non avevo intenzione di stare in quel posto neanche un secondo di più.
«Kassandra, lascia stare. Metti a rischio solamente tutto.. E tutti.», sibilò il capo delle cheerleader, in un tono decisamente basso, come a non farsi sentire, i suoi occhi quasi avrebbero potuto perforarla da parte a parte. Eppure la ragazza non si mosse, un immenso menefreghismo era sprigionato da ogni poro.
Rischio? Tutti? Perché non riuscivo a capire quella situazione?
Una sensazione prese possesso dentro di me, urlandomi di andarmene.
Di prendere le mie cose e scappare lontano, tornarmene a casa e dimenticare ciò ch’era appena successo.
L’avrei fatto, se le mie gambe avessero eseguito gli ordini che il mio cervello aveva impartito. Non mi mossi e Kassandra non l’ascoltò, anzi.
Si avvicinò maggiormente a me, il suo viso ad un palmo dal mio.
«Sono la sorella di Ryan, bambolina.. E ti consiglio di stargli lontana. Molto lontana. Lontana chilometri luce. Tu non lo conosci, non sai un cazzo di lui. Lascialo in pace.»
Sprizzava cattiveria da ogni poro, da ogni angolo di sé stessa. 
Ma chi si credeva di essere? Pensava di venire a darmi ordini? Manco mi conosceva!
«Volatilizzati. Chi ti credi di essere?»
Sputai fuori senza neanche rendermene conto. Che cosa voleva, poi?! Avevo visto suo fratello solamente una volta, e allora? Non avevo fatto nulla di male.
Il suo dito si era alzato verso di me, ma Victoria prontamente s’era messa in messo. 
«Kass, smettila, cazzo!»
«Se pensa di portare mio fratello sulla strada del bene, ha sbagliato a capire.»
Cosa stava dicendo? La strada del bene? Era per caso impazzita?
Sgranai gli occhi, senza capire. Mi allontanai d’un passo, indietreggiando verso la sacca da cheerleading, afferrandola prontamente.
«Non glielo ha detto. Lei non sa.»
Okay, la cosa mi stava spaventando non poco. Cosa avrei dovuto sapere? Cosa mi avrebbe dovuto dire Ryan? Cristo, era solamente uno sconosciuto, niente di più!
Mi aveva perfino detto di stargli lontana.
Adesso sua sorella veniva qua, al campo, urlandomi addosso frasi sconnesse e senza senso, come se potessi sapere di cosa parlava.
«Ever, sarà meglio che tu vada. E’ tardi e sei stanca. Ci rivediamo al prossimo allenamento.»
Annuii, senza dire nulla. Presi la balla al balzo per sparire.
Si, dovevo davvero andarmene e defilarmi da quel luogo, tornando a casa.
Anche perché il buio stava calando ed io, quella sera, volevo fare il giro lungo, per l’isolato, prima di rientrare.
«Si, certo.. Noi.. Ehm.. Ci vediamo», commentai, lanciando successivamente un occhiata alla mora, che si ricompose, tornando a fissare Victoria, prima di sibilarle qualcosa che non sentii. 
Ero uscita quasi di corsa dal cancello della Yellow Stone, prima di tornare a camminare, lungo la strada e l’isolato che avevo deciso di percorrere, lentamente e con dieci minuti di strada in più.
Tutto perché amavo il freddo, quel venticello leggero che sfiorava la mia pelle.
Non avrei mai neanche minimamente immaginato, quello che sarebbe successo.
Quello che era successo nelle ore precedenti –l’allenamento, il tornare in squadra, l’aver parlato con Victoria e le parole piene d’odio di Kassandra-, erano nulla in confronto a quello che stava per succedere. 

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