Il Principe Corvo

di Amrita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non sei degno di me ***
Capitolo 2: *** Gli animali del bosco fiutano la paura ***
Capitolo 3: *** Principino ***
Capitolo 4: *** Dio, perché a me? ***
Capitolo 5: *** Le pentole ***
Capitolo 6: *** Il castello ***



Capitolo 1
*** Non sei degno di me ***


«Dobbiamo farlo per forza? Non me ne piacerà nessuno di sicuro, e tu lo sai!» chiedo per l'ennesima volta, affrettandomi a seguire mio padre dopo essermi fermata a rimirare la mia immagine nel riflesso di una finestra.
Mio padre, il re, continua a camminare con il passo fermo di un soldato «Figlia mia, - borbotta. - se solo non fossi così schizzinosa...»
«Ma sono uno peggio dell'altro! Non puoi chiedermi di sposare uno di quegli stoccafissi!», dico, indicando con enfasi il grande androne in cui stavamo per entrare.
«Sei in età da matrimonio e hai una fila di pretendenti che potrebbe attraversare il mio intero regno, ti ordino di scegliere qualcuno stasera, o Dio solo sa di cosa sarò capace», mi dice con tono calmo, mentre mi precede oltre le alte porte di legno. Non posso far altro che sospirare e seguirlo. Non vorrei metterlo in imbarazzo, ma odio queste situazioni.
Voglio dire, adoro avere ammiratori, vivere al castello, organizzare maestose feste, indossare abiti dai colori delicati che facciano risaltare la mia straordinaria bellezza. Ma dover scegliere un marito, questo non mi piace. Perché mai dovrei concedermi a quegli uomini quando nessuno di loro è degno di me?
Il Re segue il solito procedimento e ordina i pretendenti per grado e ceto, dopodiché mi prende sottobraccio e mi accompagna verso di loro. Padre, perché lo stai facendo? Non voglio nessuno di questi uomini.
«Troppo grasso - decreto. - Troppo basso. Troppo vecchio. Troppo malaticcio» continuo così, esagerando i difetti di ognuno di loro. Il dispiacere nei loro occhi è evidente, ma mi fa provare solamente un maggiore ribrezzo nei loro confronti. Qualcuno abbassa la testa con accondiscendenza, altri hanno gli occhi che si infuocano di indignazione, ma si mordono la lingua e stanno al loro posto. Esattamente ciò che devono fare.

Arrivo, infine, al termine della fila. E' rimasto solo un uomo.
«Troppo magro» dico, espirando, e l'uomo non si muove. Non vedo nessuna reazione, soltanto un sorriso beffardo che non dà segno di voler vacillare. Cosa lo rende così sicuro di sé? Gli lancio una seconda occhiata. I tratti del viso sono piacevoli, gli occhi chiari, belli, il naso dritto.
Ma non voglio nemmeno lui.
«Inoltre ha i capelli troppo scuri e i tratti troppo spigolosi, sembra un corvo», ed è con questo termine che continuo a riferirmi a lui per l'intera serata.
Quando sto per ritirarmi nelle mie stanze, il re mi afferra il polso «Nemmeno stasera hai scelto uno sposo, Abigail, eri stata avvertita - mi dice. - Lasciandoti scegliere ti ho dato una grande libertà, una libertà che non viene concessa a tutte le donne, ma ora mi trovo costretto a...» sospira stringendomi più forte «Sceglierò io - bisbiglia, deciso. - Anzi, lascerò che decida il fato: sposerai il primo che si presenterà alla nostra porta, chiunque esso sia.»
Mi divincolo delicatamente dalla sua stretta sorridendo con noncuranza. Potreste pensare che sia stato stupido, ma conosco il mio pollo. Non è la prima volta che cerca di intimidirmi in questo modo, e il solo fatto che io sia ancora nubile la dice lunga su quanto queste minacce vengano messe in atto, perciò mi limito a dargli le spalle e fare la mia uscita.

Qualche giorno più tardi, mio padre mi fa chiamare, e io spero vivamente che non abbia organizzato un'altra festa per i pretendenti. Cammino velocemente per i corridoi. La servitù mi segue curiosa e silenziosa.
«Figlia mia, siediti accanto a me» mi invita non appena entro nell'ampia sala, poi solleva il capo «Fatelo entrare» ordina, e le stesse porte di legno che hanno accolto conti, baroni, principi e re giusto poche sere fa, aprono il passaggio ad un mendicante, un suonatore dagli abiti luridi. Si avvicina a noi e piega il capo con reverenza. Posso sentire la puzza del popolo dalla mia postazione privilegiata, e arriccio il naso.
«Prego» ordina di nuovo il re, e l'accattone inizia a cantare una ballata molto popolare.
Sbuffo. Non ho voglia di starlo a sentire, non è nemmeno un bell'uomo, e il mio sguardo inizia a vagare per la stanza, soffermandosi sulle finestre, sul soffitto, sulle guardie.
Finalmente finisce la sua canzone. Borbottando e inchinandosi, chiede una modesta ricompensa.
Mio padre ride e ride. Perché ride?
«Il tuo canto mi è piaciuto tantissimo. Ti darò una somma di denaro e una moglie» gli dice. Giro la testa verso di lui per vedere quale donna nella stanza stia indicando, e d'improvviso mi sento svenire.
«Cosa?! - strillo con uno squittio, mentre i miei occhi osservano con orrore il dito del re, puntato verso di me con fare accusatore. - No! No, non puoi farlo!»
Lui mi sorride gentile «Sì che posso, sono tuo padre, il re: decido io il gioco.»
«Così sarebbe solo un gioco per te?» sibilo indignata. Come poteva farmi una cosa del genere?
«Per me è una cosa molto seria, sei tu che hai preso il matrimonio come un gioco fino ad ora, figlia adorata. E' il tempo di pagarne le conseguenze» mi dice con lo stesso tono che userebbe per raccontare una favola ad un bambino. Mi sento tradita. Sono sua figlia, sono una principessa, sono la bellezza più desiderata del regno, e vuole darmi in sposa a un accattone.
Sta già chiamando il parroco «Le nozze si terranno oggi stesso» dice, mentre il mendicante si avvicina sorridendo e mi prende sotto braccio.
Che ne sarà di me?

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Capitolo 2
*** Gli animali del bosco fiutano la paura ***


Guardo il mio sposo mentre camminiamo per il sentiero. Perché non ho scelto un marito da sola? Perché ho lasciato che succedesse tutto questo?
«Ora, via, andate via dal mio castello. Non lascerò che la moglie di un mendicante viva sotto al mio stesso tetto» ha detto mio padre, il re, cacciandomi. Così, con la testa bassa nel tentativo di nascondere il mio viso, ho camminato al fianco dell'accattone sulla via principale della città, giudicata da mille e mille sguardi taciturni. Il silenzio regnava tra la gente, e i passi che mi allontanavano dalla mia vecchia casa risuonavano sempre più pesanti. "Guardatemi, sono la moglie del mendicante!" sembravano urlare "Guardatemi, deridete la mia stoltezza!"
Forse sono stata stolta, ma mio padre è stato crudele. Quegli omuncoli non erano degni di me, e lui lo sapeva. Avrebbe dovuto accettarlo. Anche adesso, è lui che deve convivere con la degradante idea di avere un pezzente in famiglia, e il pensiero rende la mia situazione meno amara.
Un ostinato cinguettio mi distoglie dai miei pensieri e mi costringo ad alzare gli occhi. Chissà da quanto siamo usciti da quel girone di dannati e ci siamo addentrati nella foresta. Gli alberi ci circondano altezzosi, solo qualche scoiattolo ritardatario smuove le foglie mentre una nebbia sottile filtra i colori viola e arancio del tramonto.
«Dove ci troviamo?» chiedo con ammirazione.
«Questa foresta appartiene al principe Loki, colui che chiamavi Corvo. Se non l'avessi rifiutato, sarebbe tua» canticchia tranquillo il mio accompagnatore, e io non rispondo. Non ho bisogno di farmi prendere per i fondelli da un rozzo accattone, così continuo a trascinarmi in silenzio tra le foglie cadute e le spesse radici.
Iniziano a calare le tenebre quando il musicista smette di camminare «È troppo buio per proseguire – mi dice -, dobbiamo fermarci per la notte.»
Fermarci per la notte? Nel bosco? Io, la principessa? E cosa dovrei fare, mettermi a dormire a terra?
Quando lui si sdraia capisco che sì, è esattamente ciò che si aspetta.
Busso sulla sua spalla con due dita, mantenendo la maggior distanza possibile «Scusa, secondo te dove dovrei mettermi io?» gli chiedo enfatizzando l'ultima parola e sollevando le sopracciglia. Lui indica la terra sotto ai miei piedi «Assolutamente no! Mi rifiuto di dormire in compagnia di ratti, insetti e chissà quale altra porcheria!» squittisco, indicandolo quasi involontariamente. Le sue sopracciglia si aggrottano e la sua mascella si contrae per un momento, ed io sento ancora una volta il dolce gusto della superiorità.
«Attenta, gli animali del bosco fiutano la paura» mi dice, poi si volta su un fianco, ignorandomi.
Bene, me la vedrò da sola. Sollevo il cappuccio del mio mantello, coprendomi la testa, poi mi siedo sotto un albero, e mi abbraccio le gambe. Immediatamente, sento la mancanza del castello.
Sento la mancanza delle soffici coperte di cotone, lana, seta e del morbido materasso di piume, della serva che mi spazzolava i capelli ogni sera, del calore del caminetto. Sento la mancanza del salone e dei profumi delle cucine, della tavola imbandita con cibi di gran varietà, profumi speziati che ti riempiono le narici e ti fanno venire l'acquolina in bocca. Mi brontola lo stomaco, e mi rendo conto che non abbiamo cenato. Lancio un'occhiata a mio marito. Potrei chiedergli del cibo, ma sembra essersi già addormentato. Non che mi faccia troppi problemi a svegliarlo per richiedere ciò che mi spetta, ma mi rifiuto di dargli la soddisfazione anche per un solo momento, mi rifiuto di poter fargli credere che io possa dipendere da lui per qualcosa.
Vorrei dormire, sento le palpebre pesanti, ma i suoni della foresta mi tengono sveglia. Un fruscio di ali, il soffiare del vento, un ramo che si spezza, un lupo che ulula lontano, uno zampettare fin troppo vicino. Solo quando il cielo inizia a rischiararsi riesco finalmente a rilassarmi, e chiudere gli occhi.

È ormai giorno quando mi sveglio. Sento un fiato caldo sul collo e qualcosa di morbido che mi sfiora il viso. Apro gli occhi con uno scatto, e mi trovo davanti un paio di occhietti neri incastonati su un'enorme muso ricoperto di pelliccia marrone. Lancio un'occhiata verso il punto  in cui il mendicante si era addormentato e lo vedo a terra, immobile, le braccia e le gambe in una posizione leggermente innaturale. I pochi oggetti che portava con sé sparsi ovunque. Gli abiti strappati.
Istintivamente, lancio uno strillo. L'orso sembra spaventarsi più di me, poiché indietreggia di qualche passo, poi solleva una zampa e vedo gli artigli che incombono su di me come una sentenza di morte. Avvicino le ginocchia al petto e cerco di proteggermi la testa con le mani, come se potesse servire a qualcosa, ma l'attenzione dell'animale sembra venire attirata da qualcos'altro e gira l'enorme testa con un grugnito.
Seguo il suo sguardo, e vedo mio marito in piedi, la camicia a brandelli e qualche graffio superficiale sul petto e sulle braccia, le labbra livide per il freddo e le dita strette attorno a una pietra, che lancia sulla schiena dell'orso. Questo emette un altro grugnito e si avvicina per attaccare il suonatore, che però scatta veloce e si inoltra nella foresta.
L'animale lo segue, dimenticandosi di me.
Io rimango li, non riesco a muovere un muscolo. Sento lo stomaco chiuso in una morsa per la paura e per la fame, il fiato mozzato, tremo. Tremo, e tengo gli occhi puntati sugli alberi, osservando il punto in cui l'ombra li ha inghiottiti.
Dopo quella che mi sembra un'eternità, sento dei passi veloci e leggeri avvicinarsi, e io tiro un sospiro di sollievo.
«Se non ti fossi fatta prendere dal panico tutto questo non sarebbe successo» mi dice mio marito, passandomi davanti senza degnarmi di uno sguardo, e raccatta le sue cose da terra «In futuro, sappi che se rimani immobile l'orso penserà che sei morta e andrà via.»
«Per essere precisi, tutto questo non sarebbe successo se tu non mi avessi portata via dal castello in primo luogo» gli faccio notare, stizzita.
Lui pianta i suoi occhi nei miei mentre si allaccia il mantello al collo «Per essere precisi - mi riprende - tutto questo non sarebbe successo se tu fossi stata più giudiziosa in generale, ma puoi tornare al castello se vuoi. Io vado a casa» dice, iniziando a camminare.
«Lo farei se solo sapessi la via del ritorno!» gli strillo.
Lui si limita a fare spallucce senza fermarsi «Affari tuoi.»
Lancio uno sguardo agli alberi alle mie spalle con desiderio, poi guardo mio marito che si allontana sempre più.
«Oh, che diamine» borbotto, prima di seguirlo con passo spedito, cercando di raggiungerlo.

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Capitolo 3
*** Principino ***


Dopo due ore di cammino, il bosco inizia finalmente a diradarsi, e ci ritroviamo in un enorme prato. L'erba è verdissima, i fiori di campo si stagliano alti e le gemme degli alberi da frutto iniziano ad schiudersi, rivelando bellissimi petali.
«Chi è il proprietario di questa terra?» chiedo, senza riuscire a trattenere un sorriso quando due farfalle si rincorrono vivaci davanti ai miei occhi.
«È proprietà del principe Loki» ripete il suonatore, continuando a farsi strada nel prato.
Vorrei restare e godermi per un po' l'aria primaverile, ma non voglio chiedergli nessun favore, potrei pentirmene.
Forse dovresti almeno ringraziarlo per averti salvato la pelle, dice una voce insistente nella mia testa. Ma ringraziare? Io non ho mai ringraziato nessuno, se non per accettare un complimento. Però mi avvicino a lui e mi schiarisco la voce. Quanto difficile può essere, dopotutto? Devo solo dire "Grazie..."
Mi rendo conto così che non ho la più pallida idea di quale sia il suo nome, durante la cerimonia non gli avevo prestato la minima attenzione.
Do un colpetto di tosse per prepararmi a parlare.
«Vuoi dirmi qualcosa?» mi precede lui, e io lo guardo con gli occhi sbarrati per un momento senza rendermene conto.
«Ehm, sì. Non credo di aver afferrato il tuo nome» gli dico, diretta. Girarci intorno non sarebbe servito a niente, comunque.
Lui rallenta un po' il passo e mi fissa sollevando una delle sue spesse sopracciglia.
«Puoi chiamarmi Fürsten, mi conoscono tutti con questo nome» risponde, poi.
«Fürsten? E perché mai ti fai chiamare "principino"?»
Lui ridacchia con uno sbuffo «Non so, non sono io ad averlo deciso. Un giorno hanno iniziato a chiamarmi così per gioco e poi il nome è rimasto.»
«Principino...» ripeto piano «Eppure quanto hai fatto con l'orso non aveva nulla di principesco.»
«Come, scusa? Ho salvato quella tua dannata pellaccia, cos'altro vuoi da me?» esclama un po' stizzito, e io arrossisco.
Ebbene sì, sono arrossita. Credo sia la prima volta che mi succede, ed entro un po' nel panico «No, no, che hai capito? Intendevo che un principe non avrebbe mai avuto il fegato di farlo, almeno non quelli che ho incontrato io» dico tutto d'un fiato, e gli occhi neri come pozzi di mio marito si addolciscono «Principessa, mi stai per caso ringraziando?» chiede.
Io mi stringo nelle mie spalle, distogliendo lo sguardo. Se vuole, ci arriva da solo, io non lo dirò mai.
Fürsten sorride «Non c'è di che.»

Finalmente raggiungiamo il mondo civilizzato. Oltrepassiamo delle alte mura, controllate da guardie ben piazzate con armature lucide e lo sguardo fermo. Camminiamo per qualche minuto tra la gente che si muove veloce tra i banchi del mercato, e non posso fare a meno di notare che tutti indossano abiti non ricchi ma piuttosto ben tenuti, con poche toppe e rammendi, e non c'è nemmeno un mendicante che chiede la carità per le strade.
«Che magnifica città!» dico, a nessuno in particolare.
«Già. Qui non esiste la povertà, chiunque viene aiutato in un modo o nell'altro.»
«E chi è il signore di questo posto?»
Fürsten trattiene a stento uno sbuffo «Sempre il Corvo.»
Ostento un sonoro sospiro «Ma che diamine mi passava per la testa quella sera...» mi rimprovero.
«Ehi! Se ti piace tanto puoi anche sposartelo!» mi dice Fürsten con aria stizzita, punzecchiandomi il braccio con una delle sue dita ossute.
Gli scocco un'occhiata che spero lo incenerisca sul posto (ma, ahimè, non accade) «Magari potessi - dico, sollevando una mano e mostrandogli l'anello attorno al mio dito - Purtroppo  c'è un non so che che me lo impedisce» sospiro sarcastica.
Fürsten non risponde. Mi guarda negli occhi abbandonandosi ad un sorriso strafottente che non avevo ancora visto sulle sue labbra rozze ma gentili, e che mi fa tornare alla mente l'espressione del principe Loki la sera della festa.
Se solo avessi accettato.
Mi perdo nei miei pensieri per non so quanto tempo, rigirandomi nervosamente una ciocca di capelli biondi tra le dita.
Improvvisamente, Fürsten borbotta qualcosa che non riesco a capire, riportandomi alla realtà, e mi accorgo che ci troviamo di nuovo davanti alle mura, all'altro capo della città.
«Dove stiamo andando?»
«A casa» risponde mio marito, senza distogliere gli occhi dalla via.
Guardo la città alle mie spalle con aria interrogativa «Ma io credevo vivessi qui...»
«Credi che avrei questo aspetto se vivessi qui?»
Giusta osservazione, mi dico, e lo seguo tristemente. Come se non bastasse, appena usciamo dalle mura inizia a piovere, e nel giro di venti minuti le mie scarpe sono infangatissime, così come il mio vestito, con schizzi che arrivano fino all'altezza delle ginocchia. Intanto, Fürsten ridacchia incurante del mio più che evidente disagio, e canta:

C'era una volta, e c'è ancora oggi
Una principessa un po' viziata
Orsù, porgete i vostri omaggi
La principessa si è accasata

Caro marito, ti odio.

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Capitolo 4
*** Dio, perché a me? ***


Smette di piovere e mio marito si toglie gli stivali sull'uscio di casa, se così si vuole chiamare quella minuscola baracca di legno vecchio in mezzo al nulla in cui mi aveva portata.
«Abigail - mi chiama (ma come si permette?) - accenderesti il fuoco, per favore?»
Mi avvicino al minuscolo caminetto con passi sicuri, anche se non so assolutamente cosa fare. Mi inginocchio e metto nel focolare alcuni ciocchi di legna, poi mi fermo.
Come diamine si accende questa robaccia?
La casetta mi sembra improvvisamente un'enorme sala piena di silenziose persone che mi stanno giudicando per un esame.
Fürsten mi posa una mano sulla spalla, dicendomi indirettamente di farmi da parte, e così faccio. Lui si accovaccia nel punto in cui stavo pochi secondi fa. Toglie qualche legno dal caminetto, poi fa qualcosa che non riesco a vedere, poi soffia e poi la legna inizia a scricchiolare.
«Visto? Non era poi così difficile» mi dice affabile.
Bocciata in "basi della sopravvivenza".
Fürsten si avvicina allo scrauso tavolo traballante della cucina, lascia il mantello su una sedia, poi prende un panno, che inumidisce con dell'acqua, e inizia a ripulirsi il sangue dei graffi dalla pelle e dai vestiti.
Rabbrividisce un po' «Com'è fredda!»
Forse dovrei aiutarlo. Dopotutto è mio marito e non posso escludere che qualcuno di quei graffi se lo sia procurato allontanando l'orso da me.
Ma io non ho mai aiutato nessuno.
Non sono riuscita nemmeno ad aiutare me stessa.
Fürsten si sfila la maglia e ne controlla il retro. Contrae e rilassa i muscoli della schiena, e così mi accorgo dei graffi un po' meno superficiali che l'attraversano.
E mi sento in colpa. Che diamine, non gliel'ho mica chiesto io di giocare a nascondino con un animale, però. Giusto?
Lui si incurva, cercando di vedersi la schiena, ma appena sfiora uno dei graffi sobbalza con una smorfia di dolore.
Così, il suo sguardo si ferma su di me.
Tentenna un po', probabilmente pensando che io sia un'incapace. Non che non abbia ragione. Infine, porgendomi il panno, mi chiede «Ti spiace?»
Io scuoto la testa piano, e lui si avvicina. Ci sediamo davanti al caminetto (tanto ormai il mio vestito è rovinato) e io seguo il percorso dei graffi con le dita, a un soffio di distanza dalla sua pelle. Poi, inizio a passarci sopra il panno delicatamente. Lui sobbalza leggermente e irrigidisce la schiena.
«Ti ho fatto male?»
Fürsten ridacchia piano con amarezza, e scuote la testa scura.
«Allora, principessa, eh? - dice - Com'è fare la vita da reale?»
«Comodo - sentenzio -, e piuttosto inutile se sei donna. Devi pensare solo a mantenerti bella il più a lungo possibile e sfornare una prole numerosa una volta sposata. Immagino non sia molto diverso dalla vita delle donne del popolo.»
«No, in effetti no. Almeno voi avete la possibilità di studiare, no?»
«Sì, per essere un partito migliore. Non useremo mai le nostre conoscenze se non per intrattenere gli ospiti con conversazioni interessanti.»
Mio marito ride con uno sbuffo, e io borbotto «Tutta questa cultura e poi non riesco nemmeno ad accendere uno stupido fuoco.»
Forse sfrego il panno con troppa foga, perché Fürsten sobbalza, sottraendosi alle mie mani, e vedo qualche goccia di sangue che cade sul pavimento.
Rimango con la mano a mezz'aria, incapace di dire niente. Fürsten si alza piano.
«Io...io...» boccheggio. Lui mi guarda con aspettativa, poi sospira «Tranquilla, non fa niente. Grazie comunque» dice, tornando al tavolo per aggiustare il resto dei suoi vestiti «Se vuoi puoi metterti a dormire, io finisco qui.»
Guardo il piccolo letto di fronte al caminetto. Mentre mi stendo, mi ricordo ancora una volta dell'enorme e soffice letto a baldacchino su cui riposavo al castello. Mi stringo su me stessa, dando le spalle al centro del letto, nel tentativo di tenermi al caldo, e aspetto. Dopo un po' mio marito si sdraia accanto a me. Riesco a sentire il suo sguardo su di me e mi si stringe lo stomaco. La prima notte di nozze è già passata e noi non abbiamo consumato. Che sia arrivato il momento?
Aspetto e aspetto, ma lui non fa niente. Ecco, lo sento avvicinarsi. Mi tocca i capelli piano.
Poi, però, si alza. Afferra una coperta da chissà dove e me la getta addosso. Non è molto, ma meglio di niente. Fürsten si sdraia di nuovo accanto a me, stavolta però mi dà le spalle e dopo qualche minuto un russare leggero riempie la stanza.

È passata una settimana circa e sono riuscita ad imparare come fare qualche lavoro per la casa, accendere il fuoco, pulire il pavimento, rifare il letto (non che sia così difficile con una coperta sola), eppure qualsiasi azione io stia facendo non riesco a non chiedermi: Dio, perché a me?
Mentre mi affaccio dalla porta per gettare la cenere, riporto la mente alla conversazione che ho avuto con mio marito un paio di giorni fa e penso che forse mi sarebbe potuta andare peggio.
«Perché non ti avvicini mai? - gli avevo chiesto – Forse non ti piaccio?»
Dopo tre giorni di convivenza, ancora non aveva accennato a voler consumare il matrimonio, e io stavo incominciando a preoccuparmi.
Lui aveva riso «Se mi piace la principessa Abigail? No, direi di no.»
Inizialmente ci ero rimasta malissimo, ma poi ho pensato meglio così, voglio avere a che fare il meno possibile con quel pezzente.
Peccato solo che adesso anch'io sono una pezzente come lui.
Di nuovo, Dio, perché a me?

Fürsten entra in casa chiamandomi.
«Ascolta – mi dice –, è vero che il re ci ha dato una buona somma di denaro al castello, ma non durerà per sempre, e io non riesco a badare a entrambi economicamente. Devi lavorare.»
Rimango immobile per un momento «Devo cosa?»
«Lavorare - ripete, senza batter ciglio. - Ora, il problema è che non sai fare niente, ma troveremo qualcosa. Per adesso ho preso questi, ci puoi fare dei canestri da vendere» continua, porgendomi dei giunchi tagliati, che fisso in silenzio.
Lavorare? Sul serio?
Ed eccomi una decina di minuti più tardi con i giunchi tra le mani e Fürsten accanto a me che cerca di insegnarmi come intrecciarli. Ci lavoriamo su per un po'.
Sopra, sotto, intreccia, sopra, sotto...
Non è così difficile dopo tutto.
Sotto, sopra, intreccia, sotto, sopra...
Le dita mi fanno malissimo, ma continuo a lavorare in silenzio.
Intreccia, sopra, sotto, sopra, intreccia...
Non so per quanto potrò resistere ancora.
Sopra, sotto, intreccia, sopra...
«Ahi!»
«Che succede?» chiede mio marito, guardandomi allarmato. Poi, posa gli occhi sulle mie mani. La pelle è arrossata, lacerata in certi punti, sanguinante. Lui allontana i canestri e mi posa velocemente un panno bagnato sulle mani.
«Va bene, per oggi basta - mi dice - troveremo qualcos'altro.»

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Capitolo 5
*** Le pentole ***


Le pentole tintinnano sulle mie spalle mentre mi dirigo al mercato.
«Pentole? - avevo detto a mio marito - E cosa ci dovrei fare?»
«Le devi vendere, ovviamente. Visto che le tue mani da nullafacente sono inutili, questa è l'unica soluzione. Spero solo che le tue dita tenere non si feriscano anche prendendo i soldi» mi aveva risposto con sarcasmo.
«Ma cosa farò se incontro qualcuno del regno di mio padre? Verrò derisa da tutti, verrò...»
Lui mi aveva allungato il sacco di pentole tranquillamente «Questo, o moriamo di fame. Decidi tu.»
E così mi ritrovo a camminare, gambe in spalla, fino alla bella cittadina del Corvo. Una volta al mercato, trovo un punto libero e mi siedo a terra, esponendo le pentole attorno a me.
La giornata va bene, le persone si avvicinano, comprano i prodotti accettando qualsiasi prezzo io proponga, alcuni mi lasciano addirittura soldi senza comprare niente.
«Che magnifica giovane donna! - mi dicono - Il fiore più bello di tutti!», e io li ringrazio tutti con un cenno del capo, mentre metto i soldi in un sacchetto di pelle.
Prima che faccia buio, raccolgo ciò che mi è rimasto e torno a casa, soddisfatta. Quando apro la porta, mio marito mi lancia un'occhiata dal caminetto «Eccoti finalmente! È tardi, stavo iniziando a preoccuparmi. Com'è andata al mercato?» mi chiede.
Io poggio le pentole a terra e sollevo il sacchetto con i soldi, senza riuscire a trattenere un sorriso. Fürsten, però, li ignora.
«Visto, alla fine non è stato così male, no? Non sei una completa buona a nulla dopotutto» mi sorride, e mi stringe in un breve abbraccio. Poi, si avvicina al tavolo «E ora, si mangia!» dice allegramente, indicando una minuscola ciotola di zuppa di verdure, affiancata da un tozzo di pane così piccolo che avrei potuto mandarlo giù con un sol boccone.
Ma va bene così.

Ed eccomi ancora qui, seduta a terra tra le pentole. Oggi c'è tanto sole al mercato, perciò mi sono seduta in un angolo, ho disposto le pentole attorno a me e mi sono aperta in un invitante sorriso.
I clienti e i benefattori non tardano ad arrivare, approcciandomi con degli “oooh” e “aaah”, accompagnati da complimenti sulla mia bellezza e una buona mancia in denaro.
«Bellissima! Meravigliosa!» mi dicono anche oggi.
«Grazie – ripeto a tutti – Grazie, che Dio vi benedica!» sorrido, mentre ripongo i soldi nel mio sacchetto.
Le nobildonne mi guardano stizzite, al braccio dei mariti che mi salutano con enfasi, gli altri mercanti mi lanciano occhiate di fuoco e cercano di attirare l'attenzione dei clienti su di loro, strillando le qualità dei loro prodotti più forte che possono, ed io non riesco a trattenere un sorriso gongolante.
Un uomo con l'aria da aristocratico mi si avvicina «Salve, che bella merce avete!» mi dice.
«Grazie, messere. Volete comprare qualcosa?» chiedo.
«Mi piacerebbe molto» mi risponde, accovacciandosi davanti a me e allungando una mano per toccarmi un braccio. Una strana espressione si fa strada sul suo volto e una scossa mi percorre la schiena.
Lo allontano delicatamente e indico le pentole «Be', c'è una vasta scelta, prego!»
L'uomo, però, non risponde e mi afferra per le spalle energicamente, costringendomi a sollevarmi.
«Lasciatemi, mi state facendo male» gli intimo, cercando di non far trasparire la paura che mi sta assalendo, ma lui non mi lascia e inizia a trascinarmi verso l'uscita del mercato. Cerco aiuto, ma gli altri presenti distolgono lo sguardo e continuano con la loro vita di sempre.
Impotente, invoco il nome di mio marito, sperando in una grazia divina.
Dopo qualche secondo, un cavaliere ci viene incontro al galoppo, obbligando l'uomo che mi stava portando via a lasciarmi e gettarsi a terra per evitare il cavallo. Si rialza e cerca di raggiungermi nuovamente, ma il cavallo sembra essere impazzito alla sua vista e si imbizzarrisce, innalzando gli enormi e pesanti zoccoli sul viso dell'uomo, che vedendosi in pericolo, finalmente, si allontana di corsa. Faccio un passo in avanti per ringraziare il cavaliere, ma questo non sembra nemmeno notarmi, troppo impegnato a calmare il suo magnifico animale. Non appena riesce nel suo intento, riparte subito al galoppo, addentrandosi nel mercato.
Allora, sento un rumore di ferraglia che mi fa stringere lo stomaco.
Torno alle mie pentole con il cuore in gola, e le trovo sparpagliate ovunque, ammaccate e rotte.
Ahimè, cosa dirà Fürsten?

Raccolgo le parti ormai inutilizzabili delle pentole velocemente, chiudo il sacco e mi metto sulla strada verso casa con la testa bassa.
Durante il tragitto non riesco a pensare a niente, se non che alla possibile reazione di mio marito. Ho visto cosa fanno quei contadini alle loro mogli in città, ho visto i loro volti lividi e temo...
Così, con questi tristi pensieri, arrivo a casa. Apro la porta piano, sperando che non ci sia nessuno, ma Fürsten è già lì, sdraiato sul letto a pancia in su, il respiro pesante. Il sacco tintinna, e mio marito si risveglia con un sussulto.
«Oh, non ti avevo sentita entrare – mi dice, per poi lanciare uno sguardo alla finestra – Ma come mai sei a casa così presto?»
Lo fisso per un momento. Cosa dovrei fare? Dirgli la verità? Inventare una scusa? Correre via? Lui, però, mi precede e mi toglie il sacco dalla mani. Uno dei lembi si allenta e gli scivola tra le dita, e il contenuto si rovescia con un rumoraccio di ferraglia sul pavimento.
«E questo cos'è?» mi chiede, fissando il sacco vuoto, ed io, parlando piano, gli racconto quanto è successo.
Mentre i fatti scorrono dalle mie labbra, riesco a vedere le emozioni variare sul suo viso: incredulità, preoccupazione, sorpresa, rabbia e, infine, dispiacere.
Fürsten respira a fondo «Va bene, quel che è fatto è fatto. È vero che questi Signori sono terribili, egoisti e insensibili!»
Gli do ragione, i nobili pensano solo ad avere un buon riscontro personale. Poi, mi si stringe lo stomaco: possibile che anche io mi comportassi così? Che anche io fossi una di quelle orribili nobildonne? Quasi automaticamente, abbasso la testa.
«Non importa - mi dice mio marito. - Proprio oggi ho sentito che cercano degli sguatteri al castello del principe Loki, proverai a lavorare lì. E Abigail - mi richiama, prendendomi le mani e aggrottando le sopracciglia - stai più attenta in futuro.»

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Capitolo 6
*** Il castello ***


Cammino verso il castello con passo spedito. Avrei potuto lamentarmi che una principessa non lavora come sguattera, ma dopo quello che era successo mi sembrava inappropriato fare la schizzinosa. In realtà, è già una settimana che lavoro con i servi che si muovono frenetici per le cucine e devo dire che, alla fine, non è così male come pensavo. Vengo pagata direttamente con del cibo e, per trasportarlo, ho inventato una innovativa cintura fatta dei resti delle pentole che vendevo. Inutile dire che così tutti sanno che sto arrivando, dato il rumore di ferraglia che sprigiono ad ogni passo.
Oggi, comunque, al castello non ci vado da sola: a quanto pare c'è il matrimonio del nipote del re, o qualcosa del genere, ed è stata richiesta la presenza di Fürsten come suonatore. Non appena arriviamo, ci separiamo. Io mi dirigo nelle cucine, mentre lui viene scortato all'interno dalle guardie.

Non smettono di darmi ordini.
«Pulisci questo!»
«Porta quello!»
«Passami quell'altro!»
Nonostante mi dia sui nervi, obbedisco.
«Porta questo in sala» mi dicono poi, e io faccio come mi viene ordinato.
Quando entro nella sala, i nobili ci mettono un po' a notarmi, nascosta come sono dalle mie vesti rovinate, ma quando lo fanno, riesco a sentirli bisbigliare tra di loro.
Mi sento a disagio, perciò mi giro e cerco di andarmene il più velocemente possibile, ma qualcuno mi ferma, afferrandomi per un braccio.
«Tu sei la pentolaia!» mi dice, strascicando le parole, un uomo, lo stesso che aveva cercato di portarmi via al mercato «Adesso vieni con me» sussurra. L'odore degli alcolici che ha bevuto mi assale immediatamente. Cerco di liberarmi dalla sua stretta e chiedo aiuto ai presenti, ma questi sembrano ignorare completamente la situazione. L'ubriaco inizia a strattonarmi e io non posso fare a meno di chiamare «Fürsten!»
Ma nessuno arriva, e io mi sento persa.
L'uomo mi trascina con una stretta ferrea per tutta la sala ed io, ancora cercando di liberarmi, faccio cadere le mie pentole piene di cibo, carni, frutta e minestra. Addio marito mio, addio castello, addio casetta mia, inizio a ripetermi invano come una preghiera.
Nessuno ascolta le preghiere di una serva.
«Abigail!» urla la voce di Fürsten alle mie spalle, e io inizio a vedere un barlume di salvezza.
Le guardie si avvicinano all'ubriaco «Non siete in voi, signore, lasciate che vi scortiamo alla vostra dimora.»
L'uomo mi tira verso di lui violentemente «Grazie, un passaggio ci farebbe proprio comodo.»
Le guardie si avvicinano, imperturbabili, e, con mia grande sorpresa, separano l'ubriaco da me e lo portano via. Io indietreggio di qualche passo, tremando, e sento qualcuno che mi stringe le spalle.
«Abigail, stai bene?» mi chiede Fürsten e io, senza nemmeno guardarlo, mi nascondo tra le sue braccia.
Ma la stoffa che indossa è troppo soffice sotto alle mie dita e odora di pulito.
Alzo la testa, ma il sorriso che trovo non è quello di Fürsten, bensì quello del principe Corvo.
Non riesco a non allontanarmi di un passo. Cosa succede?
Il principe sorride, e recita:

C'era una volta, ma non c'è ancora oggi
Una principessa un po' viziata
Orsù, porgete i vostri omaggi
La principessa si è accasata.

Il principe Corvo l'ingegno ha aguzzato
E della principessa con un inganno si è appropriato.
Con Fürsten a una nuova vita ha dato inizio
Fürsten vuol dire principe e tanto vi basti come indizio.

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