Il Principe Corvo di Amrita (/viewuser.php?uid=114818)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non sei degno di me ***
Capitolo 2: *** Gli animali del bosco fiutano la paura ***
Capitolo 3: *** Principino ***
Capitolo 4: *** Dio, perché a me? ***
Capitolo 5: *** Le pentole ***
Capitolo 6: *** Il castello ***
Capitolo 1 *** Non sei degno di me ***
«Dobbiamo
farlo per forza? Non me ne piacerà nessuno di sicuro, e tu
lo sai!» chiedo per l'ennesima volta, affrettandomi a seguire
mio padre dopo essermi fermata a rimirare la mia immagine nel riflesso
di una finestra.
Mio padre, il re, continua a camminare con il passo fermo di un soldato
«Figlia mia, - borbotta. - se solo non fossi così
schizzinosa...»
«Ma sono uno peggio dell'altro! Non puoi chiedermi di sposare
uno di quegli stoccafissi!», dico, indicando con enfasi il
grande androne in cui stavamo per entrare.
«Sei in età da matrimonio e hai una fila di
pretendenti che potrebbe attraversare il mio intero regno, ti ordino di
scegliere qualcuno stasera, o Dio solo sa di cosa sarò
capace», mi dice con tono calmo, mentre mi precede oltre le
alte porte di legno. Non posso far altro che sospirare e seguirlo. Non
vorrei metterlo in imbarazzo, ma odio queste situazioni.
Voglio dire, adoro avere ammiratori, vivere al castello, organizzare
maestose feste, indossare abiti dai colori delicati che facciano
risaltare la mia straordinaria bellezza. Ma dover scegliere un marito,
questo non mi piace. Perché mai dovrei concedermi a quegli
uomini quando nessuno di loro è degno di me?
Il Re segue il solito procedimento e ordina i pretendenti per grado e
ceto, dopodiché mi prende sottobraccio e mi accompagna verso
di loro. Padre, perché lo stai facendo? Non voglio nessuno
di questi uomini.
«Troppo grasso - decreto. - Troppo basso. Troppo vecchio.
Troppo malaticcio» continuo così, esagerando i
difetti di ognuno di loro. Il dispiacere nei loro occhi è
evidente, ma mi fa provare solamente un maggiore ribrezzo nei loro
confronti. Qualcuno abbassa la testa con accondiscendenza, altri hanno
gli occhi che si infuocano di indignazione, ma si mordono la lingua e
stanno al loro posto. Esattamente ciò che devono fare.
Arrivo, infine, al termine della fila. E' rimasto solo un uomo.
«Troppo magro» dico, espirando, e l'uomo non si
muove. Non vedo nessuna reazione, soltanto un sorriso beffardo che non
dà segno di voler vacillare. Cosa lo rende così
sicuro di sé? Gli lancio una seconda occhiata. I tratti del
viso sono piacevoli, gli occhi chiari, belli, il naso dritto.
Ma non voglio nemmeno lui.
«Inoltre ha i capelli troppo scuri e i tratti troppo
spigolosi, sembra un corvo», ed è con questo
termine che continuo a riferirmi a lui per l'intera serata.
Quando sto per ritirarmi nelle mie stanze, il re mi afferra il polso
«Nemmeno stasera hai scelto uno sposo, Abigail, eri stata
avvertita - mi dice. - Lasciandoti scegliere ti ho dato una grande
libertà, una libertà che non viene concessa a
tutte le donne, ma ora mi trovo costretto a...» sospira
stringendomi più forte «Sceglierò io -
bisbiglia, deciso. - Anzi, lascerò che decida il fato:
sposerai il primo che si presenterà alla nostra porta,
chiunque esso sia.»
Mi divincolo delicatamente dalla sua stretta sorridendo con noncuranza.
Potreste pensare che sia stato stupido, ma conosco il mio pollo. Non
è la prima volta che cerca di intimidirmi in questo modo, e
il solo fatto che io sia ancora nubile la dice lunga su quanto queste
minacce vengano messe in atto, perciò mi limito a dargli le
spalle e fare la mia uscita.
Qualche giorno più tardi, mio padre mi fa chiamare, e io
spero vivamente che non abbia organizzato un'altra festa per i
pretendenti. Cammino velocemente per i corridoi. La servitù
mi segue curiosa e silenziosa.
«Figlia mia, siediti accanto a me» mi invita non
appena entro nell'ampia sala, poi solleva il capo «Fatelo
entrare» ordina, e le stesse porte di legno che hanno accolto
conti, baroni, principi e re giusto poche sere fa, aprono il passaggio
ad un mendicante, un suonatore dagli abiti luridi. Si avvicina a noi e
piega il capo con reverenza. Posso sentire la puzza del popolo dalla
mia postazione privilegiata, e arriccio il naso.
«Prego» ordina di nuovo il re, e l'accattone inizia
a cantare una ballata molto popolare.
Sbuffo. Non ho voglia di starlo a sentire, non è nemmeno un
bell'uomo, e il mio sguardo inizia a vagare per la stanza,
soffermandosi sulle finestre, sul soffitto, sulle guardie.
Finalmente finisce la sua canzone. Borbottando e inchinandosi, chiede
una modesta ricompensa.
Mio padre ride e ride. Perché ride?
«Il tuo canto mi è piaciuto tantissimo. Ti
darò una somma di denaro e una moglie» gli dice.
Giro la testa verso di lui per vedere quale donna nella stanza stia
indicando, e d'improvviso mi sento svenire.
«Cosa?! - strillo con uno squittio, mentre i miei occhi
osservano con orrore il dito del re, puntato verso di me con fare
accusatore. - No! No, non puoi farlo!»
Lui mi sorride gentile «Sì che posso, sono tuo
padre, il re: decido io il gioco.»
«Così sarebbe solo un gioco per te?»
sibilo indignata. Come poteva farmi una cosa del genere?
«Per me è una cosa molto seria, sei tu che hai
preso il matrimonio come un gioco fino ad ora, figlia adorata. E' il
tempo di pagarne le conseguenze» mi dice con lo stesso tono
che userebbe per raccontare una favola ad un bambino. Mi sento tradita.
Sono sua figlia, sono una principessa, sono la bellezza più
desiderata del regno, e vuole darmi in sposa a un accattone.
Sta già chiamando il parroco «Le nozze si terranno
oggi stesso» dice, mentre il mendicante si avvicina
sorridendo e mi prende sotto braccio.
Che ne sarà di me?
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Capitolo 2 *** Gli animali del bosco fiutano la paura ***
Guardo il
mio sposo mentre camminiamo per il sentiero. Perché non ho
scelto un marito da sola? Perché ho lasciato che succedesse
tutto questo?
«Ora,
via, andate via dal mio castello. Non lascerò che la moglie
di un mendicante viva sotto al mio stesso tetto» ha detto mio
padre, il re, cacciandomi. Così, con la testa bassa nel
tentativo di nascondere il mio viso, ho camminato al fianco
dell'accattone sulla via principale della città, giudicata
da mille e mille sguardi taciturni. Il silenzio regnava tra la gente, e
i passi che mi allontanavano dalla mia vecchia casa risuonavano sempre
più pesanti. "Guardatemi, sono la moglie del mendicante!"
sembravano urlare "Guardatemi, deridete la mia stoltezza!"
Forse
sono stata stolta, ma mio padre è stato crudele. Quegli
omuncoli non erano degni di me, e lui lo sapeva. Avrebbe dovuto
accettarlo. Anche adesso, è lui che deve convivere con la
degradante idea di avere un pezzente in famiglia, e il pensiero rende
la mia situazione meno amara.
Un
ostinato cinguettio mi distoglie dai miei pensieri e mi costringo ad
alzare gli occhi. Chissà da quanto siamo usciti da quel
girone di dannati e ci siamo addentrati nella foresta. Gli alberi ci
circondano altezzosi, solo qualche scoiattolo ritardatario smuove le
foglie mentre una nebbia sottile filtra i colori viola e arancio del
tramonto.
«Dove
ci troviamo?» chiedo con ammirazione.
«Questa
foresta appartiene al principe Loki, colui che chiamavi Corvo. Se non
l'avessi rifiutato, sarebbe tua» canticchia tranquillo il mio
accompagnatore, e io non rispondo. Non ho bisogno di farmi prendere per
i fondelli da un rozzo accattone, così continuo a
trascinarmi in silenzio tra le foglie cadute e le spesse radici.
Iniziano
a calare le tenebre quando il musicista smette di camminare
«È troppo buio per proseguire – mi dice
-, dobbiamo fermarci per la notte.»
Fermarci
per la notte? Nel bosco? Io, la principessa? E cosa dovrei fare,
mettermi a dormire a
terra?
Quando
lui si sdraia capisco che sì, è esattamente
ciò che si aspetta.
Busso
sulla sua spalla con due dita, mantenendo la maggior distanza possibile
«Scusa, secondo te dove dovrei mettermi io?» gli
chiedo enfatizzando l'ultima parola e sollevando le sopracciglia. Lui
indica la terra sotto ai miei piedi «Assolutamente no! Mi
rifiuto di dormire in compagnia di ratti, insetti e chissà
quale altra porcheria!» squittisco, indicandolo quasi
involontariamente. Le sue sopracciglia si aggrottano e la sua mascella
si contrae per un momento, ed io sento ancora una volta il dolce gusto
della superiorità.
«Attenta,
gli animali del bosco fiutano la paura» mi dice, poi si volta
su un fianco, ignorandomi.
Bene,
me la vedrò da sola. Sollevo il cappuccio del mio mantello,
coprendomi la testa, poi mi siedo sotto un albero, e mi abbraccio le
gambe. Immediatamente, sento la mancanza del castello.
Sento
la mancanza delle soffici coperte di cotone, lana, seta e del morbido
materasso di piume, della serva che mi spazzolava i capelli ogni sera,
del calore del caminetto. Sento la mancanza del salone e dei profumi
delle cucine, della tavola imbandita con cibi di gran
varietà, profumi speziati che ti riempiono le narici e ti
fanno venire l'acquolina in bocca. Mi brontola lo stomaco, e mi rendo
conto che non abbiamo cenato. Lancio un'occhiata a mio marito. Potrei
chiedergli del cibo, ma sembra essersi già addormentato. Non
che mi faccia troppi problemi a svegliarlo per richiedere
ciò che mi spetta, ma mi rifiuto di dargli la soddisfazione
anche per un solo momento, mi rifiuto di poter fargli credere che io
possa dipendere da lui per qualcosa.
Vorrei
dormire, sento le palpebre pesanti, ma i suoni della foresta mi tengono
sveglia. Un fruscio di ali, il soffiare del vento, un ramo che si
spezza, un lupo che ulula lontano, uno zampettare fin troppo vicino.
Solo quando il cielo inizia a rischiararsi riesco finalmente a
rilassarmi, e chiudere gli occhi.
È
ormai giorno quando mi sveglio. Sento un fiato caldo sul collo e
qualcosa di morbido che mi sfiora il viso. Apro gli occhi con uno
scatto, e mi trovo davanti un paio di occhietti neri incastonati su
un'enorme muso ricoperto di pelliccia marrone. Lancio un'occhiata verso
il punto in cui il mendicante si era addormentato e lo vedo a
terra, immobile, le braccia e le gambe in una posizione leggermente
innaturale. I pochi oggetti che portava con sé sparsi
ovunque. Gli abiti strappati.
Istintivamente,
lancio uno strillo. L'orso sembra spaventarsi più di me,
poiché indietreggia di qualche passo, poi solleva una zampa
e vedo gli artigli che incombono su di me come una sentenza di morte.
Avvicino le ginocchia al petto e cerco di proteggermi la testa con le
mani, come se potesse servire a qualcosa, ma l'attenzione dell'animale
sembra venire attirata da qualcos'altro e gira l'enorme testa con un
grugnito.
Seguo
il suo sguardo, e vedo mio marito in piedi, la camicia a brandelli e
qualche graffio superficiale sul petto e sulle braccia, le labbra
livide per il freddo e le dita strette attorno a una pietra, che lancia
sulla schiena dell'orso. Questo emette un altro grugnito e si avvicina
per attaccare il suonatore, che però scatta veloce e si
inoltra nella foresta.
L'animale
lo segue, dimenticandosi di me.
Io
rimango li, non riesco a muovere un muscolo. Sento lo stomaco chiuso in
una morsa per la paura e per la fame, il fiato mozzato, tremo. Tremo, e
tengo gli occhi puntati sugli alberi, osservando il punto in cui
l'ombra li ha inghiottiti.
Dopo
quella che mi sembra un'eternità, sento dei passi veloci e
leggeri avvicinarsi, e io tiro un sospiro di sollievo.
«Se
non ti fossi fatta prendere dal panico tutto questo non sarebbe
successo» mi dice mio marito, passandomi davanti senza
degnarmi di uno sguardo, e raccatta le sue cose da terra «In
futuro, sappi che se rimani immobile l'orso penserà che sei
morta e andrà via.»
«Per
essere precisi, tutto questo non sarebbe successo se tu non mi avessi
portata via dal castello in primo luogo» gli faccio notare,
stizzita.
Lui
pianta i suoi occhi nei miei mentre si allaccia il mantello al collo
«Per essere precisi - mi riprende - tutto questo non sarebbe
successo se tu
fossi stata più giudiziosa in generale, ma puoi tornare al
castello se vuoi. Io vado a casa» dice, iniziando a camminare.
«Lo
farei se solo sapessi la via del ritorno!» gli strillo.
Lui
si limita a fare spallucce senza fermarsi «Affari
tuoi.»
Lancio
uno sguardo agli alberi alle mie spalle con desiderio, poi guardo mio
marito che si allontana sempre più.
«Oh,
che diamine» borbotto, prima di seguirlo con passo spedito,
cercando di raggiungerlo.
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Capitolo 3 *** Principino ***
Dopo due
ore di cammino, il bosco inizia finalmente a diradarsi, e ci ritroviamo
in un enorme prato. L'erba è verdissima, i fiori di campo si
stagliano alti e le gemme degli alberi da frutto iniziano ad
schiudersi, rivelando bellissimi petali.
«Chi
è il proprietario di questa terra?» chiedo, senza
riuscire a trattenere un sorriso quando due farfalle si rincorrono
vivaci davanti ai miei occhi.
«È
proprietà del principe Loki» ripete il suonatore,
continuando a farsi strada nel prato.
Vorrei
restare e godermi per un po' l'aria primaverile, ma non voglio
chiedergli nessun favore, potrei pentirmene.
Forse dovresti almeno
ringraziarlo per averti salvato la pelle, dice una voce
insistente nella mia testa. Ma ringraziare? Io non ho mai ringraziato
nessuno, se non per accettare un complimento. Però mi
avvicino a lui e mi schiarisco la voce. Quanto difficile può
essere, dopotutto? Devo solo dire "Grazie..."
Mi
rendo conto così che non ho la più pallida idea
di quale sia il suo nome, durante la cerimonia non gli avevo prestato
la minima attenzione.
Do
un colpetto di tosse per prepararmi a parlare.
«Vuoi
dirmi qualcosa?» mi precede lui, e io lo guardo con gli occhi
sbarrati per un momento senza rendermene conto.
«Ehm,
sì. Non credo di aver afferrato il tuo nome» gli
dico, diretta. Girarci intorno non sarebbe servito a niente, comunque.
Lui
rallenta un po' il passo e mi fissa sollevando una delle sue spesse
sopracciglia.
«Puoi
chiamarmi Fürsten, mi conoscono tutti con questo
nome» risponde, poi.
«Fürsten?
E perché mai ti fai chiamare "principino"?»
Lui
ridacchia con uno sbuffo «Non so, non sono io ad averlo
deciso. Un giorno hanno iniziato a chiamarmi così per gioco
e poi il nome è rimasto.»
«Principino...»
ripeto piano «Eppure quanto hai fatto con l'orso non aveva
nulla di principesco.»
«Come,
scusa? Ho salvato quella tua dannata pellaccia, cos'altro vuoi da
me?» esclama un po' stizzito, e io arrossisco.
Ebbene
sì, sono arrossita. Credo sia la prima volta che mi succede,
ed entro un po' nel panico «No, no, che hai capito? Intendevo
che un principe non avrebbe mai avuto il fegato di farlo, almeno non
quelli che ho incontrato io» dico tutto d'un fiato, e gli
occhi neri come pozzi di mio marito si addolciscono
«Principessa, mi stai per caso ringraziando?»
chiede.
Io
mi stringo nelle mie spalle, distogliendo lo sguardo. Se vuole, ci
arriva da solo, io non lo dirò mai.
Fürsten
sorride «Non c'è di che.»
Finalmente
raggiungiamo il mondo civilizzato. Oltrepassiamo delle alte mura,
controllate da guardie ben piazzate con armature lucide e lo sguardo
fermo. Camminiamo per qualche minuto tra la gente che si muove veloce
tra i banchi del mercato, e non posso fare a meno di notare che tutti
indossano abiti non ricchi ma piuttosto ben tenuti, con poche toppe e
rammendi, e non c'è nemmeno un mendicante che chiede la
carità per le strade.
«Che
magnifica città!» dico, a nessuno in particolare.
«Già.
Qui non esiste la povertà, chiunque viene aiutato in un modo
o nell'altro.»
«E
chi è il signore di questo posto?»
Fürsten
trattiene a stento uno sbuffo «Sempre il Corvo.»
Ostento
un sonoro sospiro «Ma che diamine mi passava per la testa
quella sera...» mi rimprovero.
«Ehi!
Se ti piace tanto puoi anche sposartelo!» mi dice
Fürsten con aria stizzita, punzecchiandomi il braccio con una
delle sue dita ossute.
Gli
scocco un'occhiata che spero lo incenerisca sul posto (ma,
ahimè, non accade) «Magari potessi - dico,
sollevando una mano e mostrandogli l'anello attorno al mio dito -
Purtroppo c'è un non so che che me lo
impedisce» sospiro sarcastica.
Fürsten
non risponde. Mi guarda negli occhi abbandonandosi ad un sorriso
strafottente che non avevo ancora visto sulle sue labbra rozze ma
gentili, e che mi fa tornare alla mente l'espressione del principe Loki
la sera della festa.
Se
solo avessi accettato.
Mi
perdo nei miei pensieri per non so quanto tempo, rigirandomi
nervosamente una ciocca di capelli biondi tra le dita.
Improvvisamente,
Fürsten borbotta qualcosa che non riesco a capire,
riportandomi alla realtà, e mi accorgo che ci troviamo di
nuovo davanti alle mura, all'altro capo della città.
«Dove
stiamo andando?»
«A
casa» risponde mio marito, senza distogliere gli occhi dalla
via.
Guardo
la città alle mie spalle con aria interrogativa
«Ma io credevo vivessi qui...»
«Credi
che avrei questo aspetto se vivessi qui?»
Giusta osservazione,
mi dico, e lo seguo tristemente. Come se non bastasse, appena usciamo
dalle mura inizia a piovere, e nel giro di venti minuti le mie scarpe
sono infangatissime, così come il mio vestito, con schizzi
che arrivano fino all'altezza delle ginocchia. Intanto,
Fürsten ridacchia incurante del mio più che
evidente disagio, e canta:
C'era
una volta, e c'è ancora oggi
Una
principessa un po' viziata
Orsù,
porgete i vostri omaggi
La
principessa si è accasata
Caro
marito, ti odio.
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Capitolo 4 *** Dio, perché a me? ***
Smette di
piovere e mio marito si toglie gli stivali sull'uscio di casa, se
così si vuole chiamare quella minuscola baracca di legno
vecchio in mezzo al nulla in cui mi aveva portata.
«Abigail
- mi chiama (ma come si permette?) - accenderesti il fuoco, per
favore?»
Mi
avvicino al minuscolo caminetto con passi sicuri, anche se non so
assolutamente cosa fare. Mi inginocchio e metto nel focolare alcuni
ciocchi di legna, poi mi fermo.
Come
diamine si accende questa robaccia?
La
casetta mi sembra improvvisamente un'enorme sala piena di silenziose
persone che mi stanno giudicando per un esame.
Fürsten
mi posa una mano sulla spalla, dicendomi indirettamente di farmi da
parte, e così faccio. Lui si accovaccia nel punto in cui
stavo pochi secondi fa. Toglie qualche legno dal caminetto, poi fa
qualcosa che non riesco a vedere, poi soffia e poi la legna inizia a
scricchiolare.
«Visto?
Non era poi così difficile» mi dice affabile.
Bocciata
in "basi della sopravvivenza".
Fürsten
si avvicina allo scrauso tavolo traballante della cucina, lascia il
mantello su una sedia, poi prende un panno, che inumidisce con
dell'acqua, e inizia a ripulirsi il sangue dei graffi dalla pelle e dai
vestiti.
Rabbrividisce
un po' «Com'è fredda!»
Forse
dovrei aiutarlo. Dopotutto è mio marito e non posso
escludere che qualcuno di quei graffi se lo sia procurato allontanando
l'orso da me.
Ma
io non ho mai aiutato nessuno.
Non
sono riuscita nemmeno ad aiutare me stessa.
Fürsten
si sfila la maglia e ne controlla il retro. Contrae e rilassa i muscoli
della schiena, e così mi accorgo dei graffi un po' meno
superficiali che l'attraversano.
E
mi sento in colpa. Che diamine, non gliel'ho mica chiesto io di giocare
a nascondino con un animale, però. Giusto?
Lui
si incurva, cercando di vedersi la schiena, ma appena sfiora uno dei
graffi sobbalza con una smorfia di dolore.
Così,
il suo sguardo si ferma su di me.
Tentenna
un po', probabilmente pensando che io sia un'incapace. Non che non
abbia ragione. Infine, porgendomi il panno, mi chiede «Ti
spiace?»
Io
scuoto la testa piano, e lui si avvicina. Ci sediamo davanti al
caminetto (tanto ormai il mio vestito è rovinato) e io seguo
il percorso dei graffi con le dita, a un soffio di distanza dalla sua
pelle. Poi, inizio a passarci sopra il panno delicatamente. Lui
sobbalza leggermente e irrigidisce la schiena.
«Ti
ho fatto male?»
Fürsten
ridacchia piano con amarezza, e scuote la testa scura.
«Allora,
principessa, eh? - dice - Com'è fare la vita da
reale?»
«Comodo
- sentenzio -, e piuttosto inutile se sei donna. Devi pensare solo a
mantenerti bella il più a lungo possibile e sfornare una
prole numerosa una volta sposata. Immagino non sia molto diverso dalla
vita delle donne del popolo.»
«No,
in effetti no. Almeno voi avete la possibilità di studiare,
no?»
«Sì,
per essere un partito migliore. Non useremo mai le nostre conoscenze se
non per intrattenere gli ospiti con conversazioni
interessanti.»
Mio
marito ride con uno sbuffo, e io borbotto «Tutta questa
cultura e poi non riesco nemmeno ad accendere uno stupido
fuoco.»
Forse
sfrego il panno con troppa foga, perché Fürsten
sobbalza, sottraendosi alle mie mani, e vedo qualche goccia di sangue
che cade sul pavimento.
Rimango
con la mano a mezz'aria, incapace di dire niente. Fürsten si
alza piano.
«Io...io...»
boccheggio. Lui mi guarda con aspettativa, poi sospira
«Tranquilla, non fa niente. Grazie comunque» dice,
tornando al tavolo per aggiustare il resto dei suoi vestiti
«Se vuoi puoi metterti a dormire, io finisco qui.»
Guardo
il piccolo letto di fronte al caminetto. Mentre mi stendo, mi ricordo
ancora una volta dell'enorme e soffice letto a baldacchino su cui
riposavo al castello. Mi stringo su me stessa, dando le spalle al
centro del letto, nel tentativo di tenermi al caldo, e aspetto. Dopo un
po' mio marito si sdraia accanto a me. Riesco a sentire il suo sguardo
su di me e mi si stringe lo stomaco. La prima notte di nozze
è già passata e noi non abbiamo consumato. Che
sia arrivato il momento?
Aspetto
e aspetto, ma lui non fa niente. Ecco, lo sento avvicinarsi. Mi tocca i
capelli piano.
Poi,
però, si alza. Afferra una coperta da chissà dove
e me la getta addosso. Non è molto, ma meglio di niente.
Fürsten si sdraia di nuovo accanto a me, stavolta
però mi dà le spalle e dopo qualche minuto un
russare leggero riempie la stanza.
È
passata una settimana circa e sono riuscita ad imparare come fare
qualche lavoro per la casa, accendere il fuoco, pulire il pavimento,
rifare il letto (non che sia così difficile con una coperta
sola), eppure qualsiasi azione io stia facendo non riesco a non
chiedermi: Dio,
perché a me?
Mentre
mi affaccio dalla porta per gettare la cenere, riporto la mente alla
conversazione che ho avuto con mio marito un paio di giorni fa e penso
che forse mi sarebbe potuta andare peggio.
«Perché
non ti avvicini mai? - gli avevo chiesto – Forse non ti
piaccio?»
Dopo
tre giorni di convivenza, ancora non aveva accennato a voler consumare
il matrimonio, e io stavo incominciando a preoccuparmi.
Lui
aveva riso «Se mi piace la principessa Abigail? No, direi di
no.»
Inizialmente
ci ero rimasta malissimo, ma poi ho pensato meglio così, voglio
avere a che fare il meno possibile con quel pezzente.
Peccato
solo che adesso anch'io sono una pezzente come lui.
Di
nuovo, Dio,
perché a me?
Fürsten
entra in casa chiamandomi.
«Ascolta
– mi dice –, è vero che il re ci ha dato
una buona somma di denaro al castello, ma non durerà per
sempre, e io non riesco a badare a entrambi economicamente. Devi
lavorare.»
Rimango
immobile per un momento «Devo cosa?»
«Lavorare
- ripete, senza batter ciglio. - Ora, il problema è che non
sai fare niente, ma troveremo qualcosa. Per adesso ho preso questi, ci
puoi fare dei canestri da vendere» continua, porgendomi dei
giunchi tagliati, che fisso in silenzio.
Lavorare?
Sul serio?
Ed
eccomi una decina di minuti più tardi con i giunchi tra le
mani e Fürsten accanto a me che cerca di insegnarmi come
intrecciarli. Ci lavoriamo su per un po'.
Sopra,
sotto, intreccia, sopra, sotto...
Non
è così difficile dopo tutto.
Sotto,
sopra, intreccia, sotto, sopra...
Le
dita mi fanno malissimo, ma continuo a lavorare in silenzio.
Intreccia,
sopra, sotto, sopra, intreccia...
Non
so per quanto potrò resistere ancora.
Sopra,
sotto, intreccia, sopra...
«Ahi!»
«Che
succede?» chiede mio marito, guardandomi allarmato. Poi, posa
gli occhi sulle mie mani. La pelle è arrossata, lacerata in
certi punti, sanguinante. Lui allontana i canestri e mi posa
velocemente un panno bagnato sulle mani.
«Va
bene, per oggi basta - mi dice - troveremo qualcos'altro.»
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Capitolo 5 *** Le pentole ***
Le pentole
tintinnano sulle mie spalle mentre mi dirigo al mercato.
«Pentole?
- avevo detto a mio marito - E cosa ci dovrei fare?»
«Le
devi vendere, ovviamente. Visto che le tue mani da nullafacente sono
inutili, questa è l'unica soluzione. Spero solo che le tue dita tenere non si feriscano anche prendendo i soldi» mi
aveva risposto con sarcasmo.
«Ma
cosa farò se incontro qualcuno del regno di mio padre?
Verrò derisa da tutti, verrò...»
Lui
mi aveva allungato il sacco di pentole tranquillamente
«Questo, o moriamo di fame. Decidi tu.»
E
così mi ritrovo a camminare, gambe in spalla, fino alla
bella cittadina del Corvo. Una volta al mercato, trovo un punto libero
e mi siedo a terra, esponendo le pentole attorno a me.
La
giornata va bene, le persone si avvicinano, comprano i prodotti
accettando qualsiasi prezzo io proponga, alcuni mi lasciano addirittura
soldi senza comprare niente.
«Che
magnifica giovane donna! - mi dicono - Il fiore più bello di
tutti!», e io li ringrazio tutti con un cenno del capo,
mentre metto i soldi in un sacchetto di pelle.
Prima
che faccia buio, raccolgo ciò che mi è rimasto e
torno a casa, soddisfatta. Quando apro la porta, mio marito mi lancia
un'occhiata dal caminetto «Eccoti finalmente! È
tardi, stavo iniziando a preoccuparmi. Com'è andata al
mercato?» mi chiede.
Io
poggio le pentole a terra e sollevo il sacchetto con i soldi, senza
riuscire a trattenere un sorriso. Fürsten, però, li
ignora.
«Visto,
alla fine non è stato così male, no? Non sei una
completa buona a nulla dopotutto» mi sorride, e mi stringe in
un breve abbraccio. Poi, si avvicina al tavolo «E ora, si
mangia!» dice allegramente, indicando una minuscola ciotola
di zuppa di verdure, affiancata da un tozzo di pane così
piccolo che avrei potuto mandarlo giù con un sol boccone.
Ma
va bene così.
Ed
eccomi ancora qui, seduta a terra tra le pentole. Oggi c'è
tanto sole al mercato, perciò mi sono seduta in un angolo,
ho disposto le pentole attorno a me e mi sono aperta in un invitante
sorriso.
I
clienti e i benefattori non tardano ad arrivare, approcciandomi con
degli “oooh”
e “aaah”,
accompagnati da complimenti sulla mia bellezza e una buona mancia in
denaro.
«Bellissima!
Meravigliosa!» mi dicono anche oggi.
«Grazie
– ripeto a tutti – Grazie, che Dio vi
benedica!» sorrido, mentre ripongo i soldi nel mio sacchetto.
Le
nobildonne mi guardano stizzite, al braccio dei mariti che mi salutano
con enfasi, gli altri mercanti mi lanciano occhiate di fuoco e cercano
di attirare l'attenzione dei clienti su di loro, strillando le
qualità dei loro prodotti più forte che possono,
ed io non riesco a trattenere un sorriso gongolante.
Un
uomo con l'aria da aristocratico mi si avvicina «Salve, che
bella merce avete!» mi dice.
«Grazie,
messere. Volete comprare qualcosa?» chiedo.
«Mi
piacerebbe molto» mi risponde, accovacciandosi davanti a me e
allungando una mano per toccarmi un braccio. Una strana espressione si
fa strada sul suo volto e una scossa mi percorre la schiena.
Lo
allontano delicatamente e indico le pentole «Be',
c'è una vasta scelta, prego!»
L'uomo,
però, non risponde e mi afferra per le spalle energicamente,
costringendomi a sollevarmi.
«Lasciatemi,
mi state facendo male» gli intimo, cercando di non far
trasparire la paura che mi sta assalendo, ma lui non mi lascia e inizia
a trascinarmi verso l'uscita del mercato. Cerco aiuto, ma gli altri
presenti distolgono lo sguardo e continuano con la loro vita di sempre.
Impotente,
invoco il nome di mio marito, sperando in una grazia divina.
Dopo
qualche secondo, un cavaliere ci viene incontro al galoppo,
obbligando l'uomo che mi stava portando via a lasciarmi e gettarsi a
terra per evitare il cavallo. Si rialza e cerca di raggiungermi
nuovamente, ma il cavallo sembra essere impazzito alla sua vista e si
imbizzarrisce, innalzando gli enormi e pesanti zoccoli sul viso
dell'uomo, che vedendosi in pericolo, finalmente, si allontana di
corsa. Faccio un passo in avanti per ringraziare il cavaliere, ma
questo non sembra nemmeno notarmi, troppo impegnato a calmare il suo
magnifico animale. Non appena riesce nel suo intento, riparte subito al
galoppo, addentrandosi nel mercato.
Allora,
sento un rumore di ferraglia che mi fa stringere lo stomaco.
Torno
alle mie pentole con il cuore in gola, e le trovo sparpagliate ovunque,
ammaccate e rotte.
Ahimè,
cosa dirà Fürsten?
Raccolgo
le parti ormai inutilizzabili delle pentole velocemente, chiudo il
sacco e mi metto sulla strada verso casa con la testa bassa.
Durante
il tragitto non riesco a pensare a niente, se non che alla possibile
reazione di mio marito. Ho visto cosa fanno quei contadini alle loro
mogli in città, ho visto i loro volti lividi e temo...
Così,
con questi tristi pensieri, arrivo a casa. Apro la porta piano,
sperando che non ci sia nessuno, ma Fürsten è
già lì, sdraiato sul letto a pancia in su, il
respiro pesante. Il sacco tintinna, e mio marito si risveglia con un
sussulto.
«Oh,
non ti avevo sentita entrare – mi dice, per poi lanciare uno
sguardo alla finestra – Ma come mai sei a casa
così presto?»
Lo
fisso per un momento. Cosa dovrei fare? Dirgli la verità?
Inventare una scusa? Correre via? Lui, però, mi precede e mi
toglie il sacco dalla mani. Uno dei lembi si allenta e gli scivola tra
le dita, e il contenuto si rovescia con un rumoraccio di ferraglia sul
pavimento.
«E
questo cos'è?» mi chiede, fissando il sacco vuoto,
ed io, parlando piano, gli racconto quanto è successo.
Mentre
i fatti scorrono dalle mie labbra, riesco a vedere le emozioni variare
sul suo viso: incredulità, preoccupazione, sorpresa, rabbia
e, infine, dispiacere.
Fürsten
respira a fondo «Va bene, quel che è fatto
è fatto. È vero che questi Signori sono
terribili, egoisti e insensibili!»
Gli
do ragione, i nobili pensano solo ad avere un buon riscontro personale.
Poi, mi si stringe lo stomaco: possibile che anche io mi comportassi
così? Che anche io fossi una di quelle orribili nobildonne?
Quasi automaticamente, abbasso la testa.
«Non
importa - mi dice mio marito. - Proprio oggi ho sentito che cercano
degli sguatteri al castello del principe Loki, proverai a lavorare
lì. E Abigail - mi richiama, prendendomi le mani e
aggrottando le sopracciglia - stai più attenta in
futuro.»
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Capitolo 6 *** Il castello ***
Cammino
verso il castello con passo spedito. Avrei potuto lamentarmi che una
principessa non lavora come sguattera, ma dopo quello che era successo
mi sembrava inappropriato fare la schizzinosa. In realtà,
è già una settimana che lavoro con i servi che si
muovono frenetici per le cucine e devo dire che, alla fine, non
è così male come pensavo. Vengo pagata
direttamente con del cibo e, per trasportarlo, ho inventato una
innovativa cintura fatta dei resti delle pentole che vendevo. Inutile
dire che così tutti sanno che sto arrivando, dato il rumore
di ferraglia che sprigiono ad ogni passo.
Oggi,
comunque, al castello non ci vado da sola: a quanto pare c'è
il matrimonio del nipote del re, o qualcosa del genere, ed è
stata richiesta la presenza di Fürsten come suonatore. Non
appena arriviamo, ci separiamo. Io mi dirigo nelle cucine, mentre lui
viene scortato all'interno dalle guardie.
Non
smettono di darmi ordini.
«Pulisci
questo!»
«Porta
quello!»
«Passami
quell'altro!»
Nonostante
mi dia sui nervi, obbedisco.
«Porta
questo in sala» mi dicono poi, e io faccio come mi viene
ordinato.
Quando
entro nella sala, i nobili ci mettono un po' a notarmi, nascosta come
sono dalle mie vesti rovinate, ma quando lo fanno, riesco a sentirli
bisbigliare tra di loro.
Mi
sento a disagio, perciò mi giro e cerco di andarmene il
più velocemente possibile, ma qualcuno mi ferma,
afferrandomi per un braccio.
«Tu
sei la pentolaia!» mi dice, strascicando le parole, un uomo,
lo stesso che aveva cercato di portarmi via al mercato
«Adesso vieni con me» sussurra. L'odore degli
alcolici che ha bevuto mi assale immediatamente. Cerco di liberarmi
dalla sua stretta e chiedo aiuto ai presenti, ma questi sembrano
ignorare completamente la situazione. L'ubriaco inizia a strattonarmi e
io non posso fare a meno di chiamare
«Fürsten!»
Ma
nessuno arriva, e io mi sento persa.
L'uomo
mi trascina con una stretta ferrea per tutta la sala ed io, ancora
cercando di liberarmi, faccio cadere le mie pentole piene di cibo,
carni, frutta e minestra. Addio
marito mio, addio castello, addio casetta mia, inizio a
ripetermi invano come una preghiera.
Nessuno
ascolta le preghiere di una serva.
«Abigail!»
urla la voce di Fürsten alle mie spalle, e io inizio a vedere
un barlume di salvezza.
Le
guardie si avvicinano all'ubriaco «Non siete in voi, signore,
lasciate che vi scortiamo alla vostra dimora.»
L'uomo
mi tira verso di lui violentemente «Grazie, un passaggio ci
farebbe proprio comodo.»
Le
guardie si avvicinano, imperturbabili, e, con mia grande sorpresa,
separano l'ubriaco da me e lo portano via. Io indietreggio di qualche
passo, tremando, e sento qualcuno che mi stringe le spalle.
«Abigail,
stai bene?» mi chiede Fürsten e io, senza nemmeno
guardarlo, mi nascondo tra le sue braccia.
Ma
la stoffa che indossa è troppo soffice sotto alle mie dita e
odora di pulito.
Alzo
la testa, ma il sorriso che trovo non è quello di
Fürsten, bensì quello del principe Corvo.
Non
riesco a non allontanarmi di un passo. Cosa succede?
Il
principe sorride, e recita:
C'era una
volta, ma non c'è ancora oggi
Una
principessa un po' viziata
Orsù,
porgete i vostri omaggi
La
principessa si è accasata.
Il principe
Corvo l'ingegno ha aguzzato
E della
principessa con un inganno si è appropriato.
Con
Fürsten a una nuova vita ha dato inizio
Fürsten
vuol dire principe e tanto vi basti come indizio.
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