Deboli come i soffioni al vento

di nicky__
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Perchè dovrebbe essere tutto perfetto? ***
Capitolo 3: *** Se non avessimo paura, noi non esisteremmo. ***
Capitolo 4: *** 3. L'unico modo per vivere è amando. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.
19 agosto 2012
 
Margaret
Decisamente non sarei dovuta andare a quella festa, ieri sera. Erano le undici e mezza di domenica mattina ed io mi ero appena svegliata. Trovavo strano che i miei genitori non mi avessero svegliato per portarmi a messa, come ogni settimana, poi però mi salì alla mente il vago ricordo di mia madre che mi sussurrava ‘per oggi stai pure a letto, Mag’, quando ancora non ero del tutto cosciente.
Scesi dal letto con la testa che pulsava e mi diressi lentamente verso la porta di vetro che univa camera mia e di mio fratello. Era chiusa, segno evidente che quella notte l’aveva passata in compagnia di qualche ragazza. Socchiusi la porta per poter sbirciare dentro e constatare se lei fosse ancora lì. Decisamente sì. La faccia di Eros era stata completamente sommersa dalla chioma di capelli castani della ragazza girata su un fianco, mentre gli dava le spalle. La coperta riusciva ad avvolgerla fino a poco più sotto del seno, mio fratello invece era a malapena coperto, mentre si nascondeva gli occhi con il braccio destro. I suoi stupendi ricci neri erano un totale disastro.
Richiusi la porta sghignazzando, attenta a non fare rumore. Ogni volta che tornavamo a casa da una festa, Eros si svegliava sempre accanto a qualcuno di nuovo, qualcuno che sicuramente prima d’allora non si ricordava di aver mai visto. Infondo sapeva che quelle ragazze sarebbero tornate a casa la mattina dopo, perché io non avevo nessuna voglia di vedere girare per casa delle troie del genere, solo una volta era capitato che qualcuna si fosse fermata a pranzo, ma quella era stata la prima ragazza seria di Eros, visto che con lei era durata ben due mesi. La vedevo ancora a scuola, ogni tanto, doveva avere un anno in più di me, si chiamava Eleonor.
Scesi al piano di sotto e mi rifugiai in bagno, giusto in tempo per potermi infilare nella doccia con l’idromassaggio. Avevo davvero bisogno di darmi una svegliata.
Appena uscita dal box doccia sentii una ragazza urlare imprecazioni contro qualcuno. Eros aveva appena cacciato la sua compagnia notturna dal suo letto, come sempre.
-Eros, è mezzogiorno di domenica mattina, vuoi smetterla di fare casino?- gli parlai con voce in crescendo, mentre salivo le scale verso camera mia, una volta essermi cambiata e vestita per casa.
-Non sono io, Mag. E’ quella lì…!- indicò scocciato la ragazza sulla porta d’entrata, mentre stava finalmente uscendo da casa nostra. Tuttavia, l’essere chiamata ‘quella lì’ da mio fratello evidentemente non le andava propriamente a genio, perché si voltò e gli urlò contro di nuovo, fracassandomi i timpani e facendo aumentare la mia irritazione.
-Senti cosa, metti il tuo culo fuori da casa mia o ti ci mando io. Non ti sta bene che mio fratello non conosca il tuo nome? Potevi pensarci prima di finirci a letto. Speravi che tu potessi essere la sua principessa per il resto della tua vita? Beh, è evidente con non lo conosci bene.- fui io a parlare, perché davvero quella mattina mi urtava i nervi vedere girare qualcun altro che non fosse Eros per casa. Avevo mal di testa, un buco nero al posto dello stomaco e in più mi ero appena resa conto di avere male ad una mano. Decisamente non ero in vena di contrattazioni.
Lei mi guardò con gli occhi spalancati, stupita, mentre boccheggiava cercando una valida risposta da propinarmi. Quando si rese conto che non aveva senso rimanere ancora lì, prese di buon grado la pochette che aveva lasciato sul tavolino dell’atrio ed uscì sbattendosi la porta dietro le spalle.
-E’ per questo che ti adoro.- mi sussurrò Eros, abbracciandomi soddisfatto.
-Lo so.- fu l’unica cosa che davvero mi sentii di dirgli, perché nonostante mi fratello fosse il mio migliore amico, la rivalità e l’orgoglio reciproci non sarebbero mai ceduti.


Ryan
Nonostante la sbronza, riuscivo perfettamente a ricordarmi il nome di quella ragazza, Margaret. Ci eravamo conosciuti la sera prima, avevamo ballato un po’ assieme, ci eravamo divertiti, mi aveva anche permesso di offrirle un drink. Non abitava molto distante da me, giusto un paio di isolati più in là, lo avevo scoperto quando mi aveva concesso anche di riaccompagnarla a casa in macchina, lasciando invece suo fratello alla festa.
Lei aveva sedici anni ed io ne avevo diciannove. Sono tre anni di differenza e mi hanno sempre insegnato che quando si è adolescenti, tre anni sono tanti.
Smisi di rimuginare sopra quella ragazza e mi preparai ad una sfuriata di mia madre per essere tornato tardi la sera prima, perché devo studiare per recuperare il debito in fisica e matematica, perché a diciannove anni non do ancora una mano in casa, perché mi sono svegliato alle due del pomeriggio saltando la messa domenicale. Senza contare le minacce di togliermi la macchina, i videogiochi, internet e la tivù, fino a che non avessi imparato a vivere in quella casa e tutti quanti gli elogi a mia sorella maggiore, Phoebe, di ben venticinque anni che già alla mia età era in grado di cavarsela da sola andandosene di casa e lasciandomi solo in quella gabbia di matti.
Mi alzai dal letto e, come previsto, appena misi piede in cucina mia madre mi piombò addosso con un vomito di parole da far invidia alla Divina Commedia..
-Ma’, stai tranquilla. Oggi pomeriggio io e Mark ci troviamo e studiamo fisica, va bene?- ovviamente non era vero, ma preferivo mentirle così per farla stare calma, anziché dichiarare il suicidio rispondendole indietro.
Lei infatti non ci credette. O almeno non subito.
-Si, con Mark? Non era anche lui alla festa ieri sera?- merda, mi ero dimenticato di quel particolare.
-Lui è andato via a mezzanotte, ma’. Aveva trovato un po’ di compagnia.- mi inventai una scusa abbastanza credibile e visto che mia madre conosceva Mark, si fece abbindolare dalle mie parole. Inutile di dire che quel pomeriggio io e lui non avremmo fatto altro che bere birra, fumare sigarette e parlare della sua nottata di fuoco.


**spazio autrice**
Okay, lo ammetto. Questa è una delle prime fanfiction vere e proprie che scrivo e devo ammettere che sono abbastanza compiaciuta di me stessa,  nonostante io non creda minimamente in me stessa. E si, per quei pochi che l'avessero già letta, solo ieri ho pubblicato una one-shot, perciò data la mia voglia di far conoscere a quante più persone possibili i miei scritti, pubblico di nuovo in pochissimo tempo. 
Devo dire che questa sarà una storia piuttosto corta, cinque capitoli massimo -prologo compreso- perciò non aspettatevi che duri tantissimo tempo.
Non mi aspetto il successo assoluto immediato ovviamente e qualsiasi recensione, positive e non, sono ben accette, soprattutto per farmi capire dove sbaglio e migliorarmi.
Già dal prologo si intuisce di che tipologia siano Margaret e Ryan. Lui è il tipo cattivo ragazzo a cui piace solamente divertirsi, mentre lei ha un carattere molto più pacato e diciamo che è quel tipo di persona che pensa prima di fare/dire qualsiasi cosa. Per il resto non vi preannuncio nulla, lascio alla vostra lettura e vi ringrazio del tempo che mi avete dedicato leggendo questo mini spazietto in fondo al capitolo.
Con questo vi saluto,
Baci, Nicky <3

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Capitolo 2
*** Perchè dovrebbe essere tutto perfetto? ***


1. Perchè dovrebbe essere tutto perfetto?
 
3 settembre 2012
 
Ryan.
Come ogni lunedì, quello era il giorno della lavanderia. Il problema vero e proprio era che io non ero mai stato in lavanderia. Sapevo dov’era solo perché leggevo ogni giorno la scritta azzurra ‘lavanderia’  incollata al vetro traslucido del locale mentre andavo a scuola.
Di nuovo, mia madre mi aveva fatto la ramanzina perché avevo passato il test di fisica per tredici punti e quello di matematica per un punto e mezzo. Davvero, a me non me ne fregava nulla né di matematica, né di fisica. Non penso che quando ordinerò una pizza da portare a casa loro mi diano lo scontrino con il totale calcolato in radici quadrate. Ma chiaramente, mia madre non era d’accordo.
Entrai nella stanza ed un forte odore di ammorbidente mi riempì le narici. C’erano ben tre file di macchinari, ognuna da circa otto lavatrici. O forse erano asciugatrici? Non ci capivo assolutamente nulla, l’unica cosa ben chiara al mio cervello era l’ennesima certa sfuriata di mia madre su quanto io le avessi rovinato il bucato e su quanto io fossi un buono a nulla. Cercai almeno di imparare da tutte le altre persone lì presenti. Mi fermai ad osservarle cinque minuti ciascuno, giusto per capire almeno da dove io dovessi cominciare. Non sembrava difficile. Butti la roba da lavare dentro l’oblò di plastica, estrai il mini cassetto sovrastante l’oblò e dentro ci versi la polvere rosa prendendola dalla scatola con su scritto ‘detersivo’, poi chiudi tutto e giri la manopola.
Si, ce la potevo fare.
Mi avvicinai titubante ad una di quelle macchine con gli oblò, rendendomi conto fin da subito che in realtà la faccenda era molto più complicata di così.
-Serve una mano?- una voce femminile cristallina mi risvegliò dai miei pensieri. Sembrava divertita.
Non mi domandai nemmeno da chi provenisse quel suono. Molto probabilmente mi aveva visto così spaesato e voleva darmi qualche preziosa nozione su come si facesse la lavatrice, salvandomi davvero dal dover dire addio alla macchina per un mese.
-Decisamente si.- risposi, grattandomi la nuca, mentre continuavo a fissare il cerchio in plastica trasparente della lavatrice.
Rise, evidentemente divertita dalla pessima figura che stavo inscenando. Alzai lo sguardo su di lei. Aveva i capelli biondi, ma le lampade alogene li facevano sembrare quasi grigi, vecchi; erano mossi, con qualche boccolo morbido qua e là ed arrivavano fino a metà della sua schiena. I suoi occhi erano dipinti di azzurro, un azzurro cielo. Sulla bocca, in basso a destra, risaltavano il paio di piccole palline metalliche del piercing che aveva. Era alta, quasi quanto me e anche se non era particolarmente prosperosa, la sua assenza di curve la rendevano… interessante.
Aveva un aria familiare. Sapevo di conoscerla, eppure il mio cervello non riusciva bene a collocarla.
-Piacere, Ryan.- mi presentai, rendendomi conto che non potevo rimare lì a fissarla inebetito per il resto della giornata.
-Margaret. Allora, cosa dovresti fare di preciso?- lì capii. Capii che razza di coglione fortunato fossi e ringraziai mille volte mia madre per avermi mandato in lavanderia proprio quel lunedì e non quello dopo, o quello prima.
Era la stessa Margaret che avevo accompagnato a casa qualche settimana prima.
-Dovrei lavare questi.- indicai con una mano la borsa che mi portavo sotto braccio.
-Bene, vuoi darmi? Così faccio io.- tese le mani verso di me, prendendo la sacca.
La vidi dividere diligentemente la roba bianca da quella nera e da quella colorata in tre lavatrici differenti. Mi spiegò che era per non disperdere i vari colori e per evitare che rimanessero macchie distinte sui capi. Per ogni lavatrice mise tre detersivi diversi. Per i panni colorati usò quello in polvere rosa, per quelli bianchi ne usò uno del medesimo colore e per quelli neri utilizzò un liquido bianco perlaceo.
Mi ritrovai a sorridere come un idiota di fronte a lei, mentre la guardavo svolgere il compito che era stato destinato a me. Lei sembrò accorgersene subito, visto che anche sul suo volto si aprì un sorriso confuso, lasciando comparire una ruga in mezzo alle sopracciglia ed un bellissimo paio di fossette sulle guance. Non le avevo notate, prima.
-Che hai da ridere tanto?- mi chiese, divertita anche lei.
-Stavo solo pensando che grazie a te, mia madre non mi toglierà la macchina.
Rise scuotendo la testa, alla confessione che le avevo appena rivelato. Perché capì che nonostante la mia età, avevo ancora paura di mia mamma, a volte.
Si fermò e si sedette vicino a me, mentre aspettava che le varie lavatrici finissero il loro lavaggio. La vidi incrociare gambe e braccia, la fronte corrugata alla ricerca di qualche pensiero. Dopo pochi minuti, parlò.
-Sai, speravo tu te ne ricordassi, ma… Alla festa studentesca di qualche settimana fa, mi hai riaccompagnata a casa. Non che mi aspettassi che tu ti saresti ricordato di me, certo, era solo per fartelo sapere.- la vidi gesticolare, mentre mi esponeva il proprio monologo che si era appena preparata nella sua testa.
-Io me ne ricordavo.- dissi semplicemente, perché quella era la verità.
Lei non disse nulla, alzò entrambe le sopracciglia e dischiuse leggermente la bocca, tornando alla sua posizione iniziale, ora molto più rilassata.
-Ti va se andiamo a prenderci un caffè, ogni tanto?- me ne uscii io, che nemmeno mi piaceva il caffè.
-Beh io preferirei una tazza di tè, ma sì, va bene.- si voltò verso di me, sorridendo ancora una volta, facendo scintillare i suoi occhi azzurro mare.
 
Margaret.
-Non lo conosci nemmeno!- mi ammonì per la terza volta in quindici minuti.
-Si chiama Ryan e vive a due isolati da casa mia.- le risposi diretta. Ero scocciata per il suo comportamento, infondo, che ne sapeva lei?
-E poi? Quanti anni ha? Lavora? Studia? Magari spaccia e nessuno lo sa.- continuò ad inventarsi scuse su scuse per non farmi uscire con lui.
-Elèna… Smettila. Non è un tossico, né un alcolista. E’ apposto.- non la sopportavo più. Era la mia migliore amica e per me voleva solo il meglio, certo, ma non poteva nemmeno permettersi di giudicarlo così.
-Lo hai visto due volte in vita tua, in una delle quali non eri neanche del tutto lucida. Non sai se è apposto.- enfatizzò l’ultima parola caricando un paio di virgolette con le mani.
-Andiamo a berci qualcosa assieme, non ad concerto reggea!- esclamai, alzando gli occhi al cielo. Davvero, quando faceva così non la sopportavo.
-Però mi prometti che se qualcosa va storto mi chiami? Perché io corro da te immediatamente.- mi implorò a sguardo basso, le mani raccolte in grembo, arrendevole.
Risi, perché nonostante lei fosse una delle persone più esasperanti, megalomani, prepotenti e testarde della mia vita, era la mia migliore amica e non l’avrei scambiata con nessun altra.
 
 
20 settembre 2012
 
Margaret
Era la prima volta che uscivamo ed ero particolarmente nervosa per un’uscita con un semplice amico. Avevamo continuato a vederci solo in lavanderia, stringendo amicizia lì. Il luogo e l’ora erano stati concordati il giorno prima, quando gli avevo nuovamente fatto il bucato. Inutile dire che quel ragazzo fosse davvero imbranato per quanto riguardava le faccende domestiche.
Dovevamo incontrarci alle dieci all’entrata del Baker Park a meno di cinque minuti da casa mia, ma erano già le dieci e mezza ed io cominciai a sospettare che non si sarebbe presentato. Sentii una leggera punta di irritazione mista a cosa? Delusione? Farsi strada nella mia mente. Molto probabilmente mi aveva preso in giro.
Girai lo sguardo in direzione della strada di casa, quando una voce mi distrasse dai miei pensieri.
-Ehi! Dove stai andando?
Mi girai e lo vidi. Aveva le guance arrossate dal vento freddo che soffiava quel giorno, gli occhi color miele erano lucidi a causa della temperatura, le labbra più rosse del solito. In testa portava un cappello grigio per evitare di congelarsi la testa e di scompigliarsi i capelli dritti castani e la giacca a vento nera gli impediva di sentire particolarmente freddo al busto.
Non mi resi conto subito della reazione involontaria che la sua presenza aveva provocato al mio corpo. Mi sentivo rilassata, forse anche troppo perché sentivo le gambe molli e deboli, il respiro era regolare, nonostante l’anormale ritmo delle pulsazioni cardiache.
-Sei in ritardo, Ryan.- lo accusai in partenza, rispondendo anche alla sua domanda.
-Lo so, scusami. Non è un granché inizio, vero?- rispose colpevole, grattandosi la nuca.
Scossi la testa ridendo, sinceramente divertita.
-Ti va una cioccolata calda?- sviai il discorso, per non metterlo ancora di più in imbarazzo.
Alzò gli occhi e mi sorrise, scoprendo i denti bianchi. Poco dopo annuì, incamminandosi verso la caffetteria più vicina.
 
Ryan
Riuscimmo davvero a parlare di tutto.
Scoprii che aveva un fratello più grande di lei, Eros,  di ventidue anni.
Che i suoi genitori si chiamavano Rose e Matt Jhonson e che si erano sposati all’età di venticinque anni, quattro anni dopo la nascita di Eros.
Che quando aveva cinque anni il gatto che le avevano regalato era scappato di casa dopo poco di un mese, inutile dire quando Margaret fosse rimasta traumatizzata da quel fatto.
Mi disse che quel piercing che aveva sul labbro inferiore non le piaceva affatto e che voleva toglierselo perché se lo era fatto solo sotto la costrizione della sua migliore amica Elèna.
Mi disse che almeno una volta a settimana doveva far sloggiare una ragazza dal letto di suo fratello e che ogni volta loro si sentivano umiliate e che ogni volta Eros poi si complimentava con lei per la poca pazienza che utilizzava con loro.
Mi confidò il fatto che avesse ancora paura del buio e che ogni volta che usciva di casa d’inverno per andare a scuola aveva sempre la sensazione di essere seguita da un qualche mostro.
E anche che le piaceva un sacco andare alle feste, soprattutto quelle che organizzavano gli amici di Eros perché erano più divertenti e perché così la facevano entrare gratis.
Le piaceva leggere e scrivere, a scuola aveva la media dell’otto e odiava ogni suo professore, ognuno per un motivo diverso.
Mi disse che ogni volta che riusciva a mettere assieme più di novanta dollari andava a fare shopping in centro con Elèna e che ogni volta entravano nei negozi di marchi firmati solo per prendere in giro tutti gli snob con la puzza sotto il naso.
Le scappò per sbaglio di dirmi che aveva fatto sesso solo una volta.
Scoprii che le piacevano i cani grandi e che quando avrebbe avuto una casa tutta per sé ne avrebbe adottato uno.
Che quando aveva undici anni aveva sbirciato nella stanza di suo fratello mentre era assieme ad una ragazza non riuscendo però a capire bene cosa stessero facendo.
Che il suo sogno da grande era di fare la psicologa, perché le è sempre piaciuto dover scoprire le persone attraverso quello che loro dicono, come se le stessero lasciando degli indizi per invogliarla a fare conoscenza e che suo fratello non approvava affatto perché aveva paura che durante una seduta incontrasse uno psicopatico che voleva farle del male.
Mi disse che lei e suo fratello erano sempre stati inseparabili fin da quando era appena nata, perché lui aveva sei anni più di lei e si sentiva in dovere di proteggere la sua sorellina e che per questo motivo i suoi genitori, quando hanno traslocato, hanno scelto una casa che potesse avere due camere da letto comunicanti così da potersi controllare a vicenda e che anche adesso erano divise solo da una porta scorrevole di vetro.
Mi disse che Elèna viveva un isolato più in là di me, una volta averle spiegato dove abitassi io.
Io, dal canto mio, le avevo parlato di me come solo Mark sapeva, probabilmente.
Le dissi che odiavo la scuola e che infatti mi avevano rimandato in due materie e che la massima lettura in cui riuscivo a cimentarmi erano le istruzioni su come si giocava ai videogiochi.
Le raccontai di quando da piccolo ero rotolato a faccia in giù sull’asfalto rompendomi quasi una caviglia e di quanto avessi riso con Mark quel giorno per la figuraccia che avevamo fatto di fronte a tutti.
Che avevo una sorella più grande anche io, Phoebe, di venticinque anni e che se ne era andata di casa a diciannove, appena ne aveva avuto la possibilità lasciandomi da solo con mia madre.
Le confidai che mio padre aveva lasciato mia madre per una puttanella notevolmente più giovane e più attraente quando io avevo quattordici anni e che ogni notte potevo sentire mia madre piangere nella sua camera da letto e che quindi andavo a dormire assieme a lei per non farla sentire sola, perché mi sentivo anche io in dovere di proteggerla.
Le raccontai che quando avevo nove anni i miei genitori mi regalarono un acquario con dentro una decina di pesci rossi, che però morirono tutti entro tre mesi, uno dopo l’altro e che non ci rimasi particolarmente male, perché poi me ne ricomprarono di altri.
Le dissi che Mark era il mio migliore amico da quando avevo tre anni e che viveva di fronte a casa mia.
Che mi piaceva la musica house e che ogni volta che andavo in discoteca per poterla sentire, non l’ascoltavo più per giorni perché mi aveva stufato.
Che avevo un tatuaggio sulla schiena con scritto “E’ meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente” solo perché quando me lo ero fatto era l’unica cosa che mi piaceva e che volevo farmi un piercing sulla lingua entro i vent’anni.
Che mia sorella mi aveva chiesto di accompagnarla all’altare quando si sarebbe sposata e che avrei fatto da padrino a suo figlio.
Che mia madre mi aveva pagato il corso di guida per i miei sedici anni e la macchina per i miei diciassette.
Anche io mi lasciai sfuggire il fatto di aver scopato per la prima volta a sedici anni, ma che di certo non l’avevo fatto solo in quel momento.
Le dissi che non mi piaceva fare shopping e che qualche volta avevo rubacchiato qualche abito in qualche negozio perché costava più di venti dollari.
Le dissi che in quel momento non ero impegnato con nessuna ragazza e mi godei per bene la sua reazione scocciata quando continuai dicendo che sarei stato solo per lei per almeno il prossimo mese. Lo schiaffo che mi arrivò di rimando non mi sorprese, ma riuscii comunque ad afferrare la sua mano quando stava uscendo dal bar. La girai verso di me, in modo che mi guardasse negli occhi, poi mi avvicinai a lei e feci mie le sue labbra percependo le due palline fredde del piercing che non le piaceva per nulla. Rimase immobile all’inizio, ma non ci volle molto per farla abbandonare a me.
In quel momento realizzai che sarebbe stato più di un mese.


**spazio autrice**
Da dove comincio? Beh, intanto col dire che questo è un capitolo un po' più lungo del prologo ed è il primo vero capitolo della storia. Il carattere dei personaggi ancore non è stato ben definito, ma basterà aspettare ancora poco per quello. Ryan sembra sempre il solito guastafeste buono-a-nulla, visto che non sa ancora come utilizzare una lavatrice -su questo sono abbastanza d'accordo con sua madre- e chi corre in suo aiuto, ovviamente? Ma la nostra Mag! Okay... Forse era scontato...
Subito Ryan le dà l'impressione di uno scansafatiche che non si presenta puntuale nemmeno agli appuntamenti ed è per questo che si stava voltando per andarsene, ma come il suo solito, il Prode Cavaliere corre in soccorso con il suo solito tempismo da film smielati.
Lo scambio di conoscenze l'uno all'altra ho scelto di descriverlo senza un apparente ordine logico e non in un discorso diretto semplicemente perchè così mi sembrava di lasciare maggior spazio ai pensieri di ognuno dei due.
Sono un po' dispiaciuta di non aver ricevuto nemmeno una recensione per il Prologo, ma non mi dò per vinta e sono di nuovo qui a pubblicare un'altro capitolo.
Con questo vi lascio alla lettura -sperando di invogliare qualche commento- e mi dileguo,

Baci, Nicky <3

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Capitolo 3
*** Se non avessimo paura, noi non esisteremmo. ***


2. Se non avessimo paura, noi non esisteremmo.
 
15 novembre 2012
 
Margaret
Era già un mese e mezzo che io e Ryan stavamo assieme, secondo le previsioni iniziali ci saremmo separati a breve. Eppure in quel momento mi sentivo come se saremmo stati assieme per il resto della nostra vita.
Avevamo litigato si, molte volte, ma alla fine bastava un bacio a far ritornare tutto come prima.
Avevo pianto e avevo pensato a quanto sarebbe stato meglio per me se quel giorno non lo avessi guardato mentre cercava disperatamente di capire il funzionamento di quella macchina con l’oblò, come la chiamava sempre lui.
Mi ero chiesta se davvero lui ci tenesse a me come io tenevo a lui. Perché anche se era passato solo un mese e mezzo, io mi ero innamorata di lui quando mi aveva portata a casa dalla festa. E continuavo ad innamorarmi ogni giorno, quando non mi scriveva per ore intere lasciando in sospeso un discorso e poi mi richiamava per scusarsi e allora io gli urlavo contro perché mi aveva fatta preoccupare e lui rideva ogni volta ripetendomi che avevo paura della mia ombra e che grande e grosso com’era nessuno gli avrebbe fatto nulla.
O come quella volta che io ero così sicura che lui fosse andato ad una festa e poi mio fratello mi aveva detto che quella sera di Ryan non ce n’era stata traccia perché lo avevo fatto imbucare io per poterlo controllare. E allora io avevo pianto, perché ero stata una stupida a non fidarmi di lui e ad averci litigato per una cosa così insignificante.
Ryan una volta si era arrabbiato con me, perché diceva che io avevo paura di tutto e di tutti, anche di me stessa e allora io mi ero scagliata contro di lui, perché anche se sapevo quanto quella mia caratteristica fosse reale, non volevo dargliene prova, volevo dimostrargli la mia forza, per quanto tempo sarei sopravvissuta senza di lui.
Perché io tenevo così tanto a lui che mi sentivo il petto scoppiare ogni volta che incrociavo il suo sguardo e ogni volta che lui mi prendeva per mano e incastrava le nostre dita a me venivano le lacrime agli occhi e tutti i pomeriggi che avevamo passato al parco mi facevano vibrare le corde vocali, perché faceva un freddo cane quei giorni e lui mi aveva avvolta nel suo giubbotto per riscaldarmi.
Ma forse aveva ragione lui, avevo così tante paure in me stessa, così tante insicurezze eppure così tanta voglia di vivere che forse non ne avevo davvero bisogno. Me ne ero resa conto un mese prima, quando mio fratello era andato a ritirare i risultati delle mie analisi del sangue. Il medico aveva detto che era meglio farle, perché era da qualche tempo che avevo sempre mal di testa e ogni tanto la vista mi si offuscava, giusto per precauzione.
Le avevo portate in ospedale e mi hanno richiesto delle lastre alla testa. Non sapevo nemmeno cosa ci fosse scritto in quella carta, quali valori fossero risultati sballati, ma mi chiesero di rimanere lì un paio d’ore in più per poter vedere la mia testa più da vicino. Avevo avuto paura, molta.
Non ricordo di averne mai avuta così tanta prima di quel momento.
C’era solo Eros lì con me, perché non volevo che qualcun altro potesse vedermi in tutta la mia debolezza, nemmeno Ryan. Non sarei mai scesa a tanto.
Passò un ora, poi due, e poi tre. Dopodiché chiamarono Eros fuori dalla sala d’aspetto. E dovetti aspettare ancora, perché lui ritornò da me solo trenta minuti dopo, con uno sguardo spaesato sul volto e la carnagione color bianco candido.
-Eros… C-cosa c’e?- avevo così tanta paura. Credevo che il mio cuore sarebbe esploso dal terrore nel giro di pochi minuti. Lui alzò gli occhi e li fissò nei miei. Riuscii a scorgere il panico dentro le sue iridi azzurre, poi le coprì con le palpebre e fece un respiro profondo. Rimase in quella posizione per qualche secondo, come se stesse pensando intensamente a qualcosa di molto profondo e complicato, mentre il mio cuore scalpitava e si dibatteva nella mia cassa toracica. Quando riaprì gli occhi, notai un misto di frustrazione, pena e tristezza, passargli per la mente.
-Cosa c’è?- ripetei.
Ci volle qualche altro secondo prima che mi desse una risposta. –Andiamo a casa, Mag.-
Non parlammo per tutto il tragitto verso casa e non ne potevo più. Avevo il disperato bisogno di sapere cosa gli passasse per la mente ogni volta che induriva lo sguardo e stringeva il volante tra le mani, come se volesse romperlo in due.
 
-Cazzo, Eros! Dimmi cosa è successo!- eravamo a casa e lui si ostinava ancora a non dirmi nulla. Stava guardando la tv senza prestarne particolare attenzione, smise il suo eterno zapping quando sbucai da dietro le sue spalle, urlandogli contro.
Lentamente appoggiò il telecomando sul tavolino di fronte alla tv, poi si sistemò sedendosi decentemente in un angolo del divano, i piedi appoggiati sul pavimento e la testa fissa tra le sue mani.
-Siediti.- mi intimò, lo sguardo rivolto a terra. Così feci, mi sedetti sull’angolo opposto a lui, le gambe raccolte al petto. Vidi Eros passarsi una mano sugli occhi, poi guardare me.
-Ti ricordi di Olivia?- mi chiese, parlando lentamente.
-Si, certo.- era stata la mia compagna di classe solo in prima e in seconda media, perché poi le avevano diagnosticato un cancro al cervello, costringendola a non venire più a scuola. Credo che mi ricorderò per sempre il modo in cui me lo disse. Era tranquilla, serena, come se quella fosse la situazione più semplice e felice del mondo, ma io davvero non ero riuscita a capirla. Quando qualcuno ti dice che morirai a breve, non dovresti essere così tranquilla, no? Fu in quel momento che un dubbio mi assalì. Perché mio fratello mi stava parlando di lei? Cosa c’entravo io?
Si passò di nuovo la mano sugli occhi e quando li riaprì, li vidi lucidi di lacrime. Stava per mettersi a piangere. E lì io capii, perché mio fratello non si era mai messo a piangere e se lo faceva voleva dire che era qualcosa di davvero grave.
-Mi dispiace.- fu l’unica cosa che riuscì a dirmi, perché non era in grado di parlare in quel momento. Le lacrime cominciarono a scendere sulle sue guance e io mi sentii come se l’intero peso del mondo gravasse su di me. Gli occhi e la gola cominciarono a pizzicare e la voce si spezzò in gola quando cercai di dire qualcosa.
-Eros… Cosa stai dicendo?- mi abbracciò come solo un fratello poteva fare. Il suo era un abbraccio così tanto carico di tristezza e di sensi di colpa non suoi che temetti di cadere per terra dalla sola forza dei suoi sentimenti. Non riuscivo a circondare con le braccia il suo collo, perché le lacrime salate avevano cominciato a scendere indisturbate sulle mie guance e perché in quel momento avevo scelto di non sapere. In quel momento avevo scelto la strada dell’ignoranza, perché almeno avrei vissuto meglio, ma Eros continuava a stringermi tra le sue braccia e mi sentii in bisogno di conoscere, perché lui non mi stava rispondendo.
-Rispondimi, ti prego…
-Dovrai andare in ospedale tre volte al mese e poi… Si vedrà.- non si staccò da me e la cosa mi spaventò ancora di più.
 
 
4 dicembre 2012
 
Ryan
Ormai mi sono convinto di quanto in fretta le persone possano cambiare.
Eravamo al parco in quel momento, io e Mag, a goderci le brevissime, freddissime, rarissime giornate di sole. Io ero appoggiato ad un albero e lei era distesa sopra ad un lenzuolo con la testa appoggiata sulle mie gambe. Le stavo accarezzando i capelli e lei si stava pian piano lasciando andare tra le braccia di Morfeo, nonostante fossero le tre del pomeriggio. Si era portata da studiare, ma alla fine aveva accantonato i libri e si era dedicata completamente a me e a noi due.
Fu in quei momenti che vidi la prima trasformazione.
La Margaret dolce, ansiosa e testarda aveva permesso l’entrata ad una accondiscendente, calma e molto meno incazzata con il mondo che la circonda.
Perché già dalla prima volta che l’avevo vista mi resi conto di quanti complessi potesse avere. Lei non li dava a vedere, accantonava il tutto con un semplice ‘Non c’è nulla che non vada, io valgo molto di più’. E Dio solo sapeva quanto quella frase fosse vera, ma lei non ne era mai stata realmente convinta. Lo si poteva leggere nei suoi occhi quando parlava, quando leggeva, quando studiava, quando cantava, nella sua espressione quando dormiva. Perché ogni cosa che le accadeva attorno, ogni cosa che guardava, che scopriva non le scivolava addosso come se nulla fosse. La penetrava fin dentro nelle ossa, la assillava fin quando non la faceva impazzire. E non parlo solo del complesso estetico di ogni singola persona su questo Pianeta, lei andava ben oltre quello.
Lei era quel tipo di ragazza che se ascolta una canzone che parla dei diritti umani piange dalla gioia di sapere che non è la sola al Mondo a pensarla così.
Lei era tutto ciò che leggeva, qualsiasi cosa fosse.
Lei era testarda e non pensava mai alle conseguenze delle sue azioni.
Lei era Margaret e già da un paio di settimane il Mondo attorno a lei aveva cominciato a scivolarle addosso.
All’improvviso aprì gli occhi e io potei subito notare le profonde occhiaie che li circondavano. Si alzò a sedere e mi incatenò con le sue iridi azzurre.
-Hey.- mi sorrise dolcemente, come se non mi vedesse da troppo tempo.
-Hey.- le sorrisi anche io e le presi una mano. Passai un dito sopra il cerotto posto sul dorso della mano destra, come a voler curare il profondo graffio che si era procurata giocando con suo fratello.
-Hai fame?- le chiesi. Speravo mi dicesse di si, perché ero convinto che nell’ultimo mese avesse perso almeno cinque chili, ad occhio e croce, ma lei scosse la testa.
-Nemmeno se ti offro una cioccolata calda?- cercai di invogliarla, ma la sua testa continuò a voltarsi verso destra e verso sinistra. Le scappò uno sbadiglio e io non riuscii a fare a meno di sorridere alla sua tenerezza infantile. Nonostante avesse quindici anni, la sua parte più innocente non esitava a venire fuori.
All’improvviso scostò lo sguardo dal mio e spalancò gli occhi, impaurita. Mi misi all’erta, non sapevo il motivo di quel suo gesto, ma subito dopo tornò tutto normale.
-Che è successo?- le chiesi, apprensivo.
Lei scosse nuovamente la testa. –Nulla, mi sono solo ricordata di una cosa…- chiuse le palpebre, come se volesse cacciar via quel pensiero fastidioso che si era insinuato nella sua mente.
-E cioè?- ora la mia era sincera curiosità.
-Nulla di che, cose di scuola.- sapevo che non era così semplice come ‘cose di scuola’, perché mi aveva sempre detto tutto della propria scuola.
-Quindi noiose?- risi leggermente a quel sinonimo.
Lei sorrise ed annuì divertita.
Lì percepii un ulteriore cambiamento.
Mi stava mentendo. Lei non lo avrebbe mai fatto, o almeno così credevo. Mi aveva sempre detto tutto, da cosa aveva mangiato a colazione, al motivo per cui era andata a letto tardi la sera precedente.
Cercai di confortarmi ricordandomi che quella era la prima volta che lo faceva, ma non ci riuscii molto. Sul primo momento mi arrabbiai, ma poi mi calmai, pensando che forse voleva farmi una sorpresa e che quindi non poteva dirmi nulla.
Me ne feci una ragione e la lasciai ritornare ad appisolarsi sulle mie gambe.
 
 
**spazio autrice**
Sono in ritardo, si lo so, tranquille. Mi vorrei scusare, ma visto che sono costretta a pubblicare i capitoli con il pc di mia nonna perché il mio non va, credo sia lui a dovervi delle scuse.
Vaneggi a parte, che ne pensate?
Tanto per cominciare, Eros non ha esplicitato la malattia di Margaret semplicemente perché non se la sentiva, visto che non è proprio una malattia da poco… Spero che tutte voi abbiate capito di cosa si tratta e se siete in dubbio, sicuramente vi verrà chiarito nel prossimo capitolo.
Detto ciò, vorrei passare a Ryan. Lui sente che Mag è cambiata e forse è davvero così, solo che non riesce ancora a capire bene il perché. Ma secondo voi, cosa è venuto in mente alla nostra ragazza, e perché ha scelto di non dire nulla a Ryan?
Fatemi sapere cosa ne pensate :)
Un abbraccio, Nicky <3

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Capitolo 4
*** 3. L'unico modo per vivere è amando. ***


3. L’unico modo per vivere è amando.
 
5 dicembre 2012
 
Margaret.
Era la prima volta, quel mese, che mi recavo in ospedale. Non ero potuta andare a scuola, poiché avevo l’appuntamento alle dieci di mattina.  Come di consueto mi aveva accompagnato mio fratello, che poi rimaneva lì tutto il tempo, tutte le sedute. Mi dava una mano, perché da sola non ce l’avrei mai fatta. Ero troppo debole per fare qualsiasi cosa, a stento tenevo gli occhi aperti.
Due flebo erano attaccate ad entrambe le braccia, una per parte e il dolore era indescrivibile. Partiva dall’ago nel braccio, finiva alla testa e bruciava, bruciava terribilmente. Era come avere fuoco dentro le vene.
-N-non deve saperlo nessuno, chiaro?- parlare era difficile, ma questo era il mio chiodo fisso, gli unici pensieri che riuscivo ad esprimere correttamente, davanti a tanta stanchezza.
Eros annuì stanco, perché non ce la faceva più a mentire e a doversi tenere tutto dentro, senza parlare con nessuno. Lui ascoltava, ascoltava e basta perché era l’unica cosa che i miei desideri gli permettessero di fare.
Era una di quelle persone che mente con successo a tutti, che appare forte di fronte a tanti ostacoli, ma dentro di sé ha una gola di dolore infinito. E mi faceva male pensare di essere io la causa di tanta sofferenza.
Non l’avevo mai visto così turbato. Alla notte lasciava sempre quella porta di vetro aperta, in modo da potermi vedere sempre, ma non bastava quasi mai. Si alzava e si coricava assieme a me nel mio letto, mi abbracciava e mi baciava i capelli, le tempie, le guance, perché sapeva che per me era confortante.
Lui sperava che io non lo notassi, ma in realtà avevo capito già da tempo che mi faceva compagnia per sé stesso e non per me. Voleva confortarmi, starmi vicino, ma molto probabilmente non era mai stato tanto distante da me. Veniva nel mio letto perché doveva riuscire a trovare la propria pace interiore, doveva riuscire a trovare un modo per dormire alla notte e smettere di domandarsi per qualche ora perché stesse succedendo tutto a sua sorella.
A me.
Per la prima volta nella sua vita non pensava a me, ma a sé stesso, ed io ero totalmente grata di questo suo egoismo improvviso, perché doveva imparare a cavarsela da solo, doveva imparare a cacciare le ragazze fuori di casa per conto suo, doveva riuscire a trovarsi un lavoro da solo, doveva pensare a sé stesso e non più a me. Doveva smettere di preoccuparsi tanto per me e cominciare a vivere la sua vita.
Non aveva mai pensato in grande e per lui questo era un cambiamento tanto radicale da sgretolare qualsiasi certezza lui avesse mai avuto.
Eros era mio fratello e lo stavo distruggendo poco alla volta.
Elèna era la seconda persona al Mondo che sapeva il mo segreto e qualche volta –quando poteva- sostituiva la mano di mio fratello, perché non avrebbe più retto la pressione che lo stava comprimendo ogni giorno di più. Mi stava tenendo la mano e io non potei essere maggiormente fiera di lei. Stava per piangere, lo sapevo, ma non aprì nessun rubinetto per non fare del male a me. Diceva sempre che le cose peggiori accadono alle persone migliori e che il peggior modo di fare star male una persona era piangere davanti ai suoi occhi, per colpa sua.
Non aveva mai creduto a nulla, era sempre scettica riguardo qualsiasi cosa, per lei tutto il Mondo le era contro, ma quando si sedeva su quella sedia sgangherata accanto alla mia poltroncina di pelle e stringeva la sua mano alla mia, per lei ogni tassello andava al suo posto, tutto era improvvisamente giusto. Per colpa mia aveva cambiato il suo modo di vedere il mondo, gli occhi della gente e il modo in cui ognuno si vestiva.
Diceva che per me non piangeva mai, che non voleva darmi questa delusione, ma almeno tre volte al mese Eros mi chiamava in salotto e mi dava in mano la cornetta del telefono e sentivo sua madre chiedermi se avessimo litigato, perché la sera prima aveva sentito chiaramente la figlia piangere disperata contro il proprio cuscino.
Elèna era la mia migliore amica e stavo distruggendo anche lei un poco alla volta.
Era sempre stata una lettrice accanita di romanzi classici, antichi, noiosi e complicati, ma quando si metteva a leggere per me in ospedale, portava qualche romanzo recente, di quelli sdolcinati che finiscono sempre bene, di quelli che piacevano a me.
Quel giorno toccava ad Ho cercato il tuo nome.
L’avevamo già letto fin troppe volte, ma a lei piaceva leggere i libri sapendo già come finiranno.
-Le parole gli sgorgarono dal cuore, parole che mai avrebbe immaginato di dire a qualcuno.
‘Ti amo, Elizabeth’, mormorò, ed era la pura verità.
Lei gli prese la mano e gli baciò le dita a una a una.
‘Anch’io ti amo, Logan’- finì il capitolo e di nuovo, una scarica di dolore partì dal braccio e finì alla testa, senza molto preavviso. Era come se Qualcuno mi volesse punire per star facendo dal male a troppe persone attorno a me. Era come se fosse sempre colpa mia.
Fu in quel momento che mi venne in mente Ryan e tutto il dolore che volontariamente non gli stavo portando.
-Wow. Almeno non gliel’ha detto solo perché era riuscito a portarsela a letto.- Elèna cercò di sdrammatizzare, ma in quel momento non avevo nessuna voglia di ridere. Lei continuava a parlare, ma per me era solo un mormorio di sottofondo. Volevo solo rifugiarmi in un buco e non uscirne mai più, perché un’altra ondata di dolore caratterizzò il mio busto e mi sentii terribilmente in colpa per tutte le bugie che stavo inventando con Ryan.
-N-non deve saperlo nessuno, chiaro?- ripetei, stremata, ad Elèna.
Lei mi sorrise, ma potevo vedere chiaramente il dolore trasparire dai suoi occhi scuri.
Girai la testa dall’altro lato e guardai oltre il vetro che separava i vari reparti dell’ospedale. Come una barzelletta di cattivissimo gusto, fu lì che mi accorsi di Ryan.
Mi vide ed io ero debole.
Non doveva decisamente andare così
 
 
8 dicembre 2012
 
Ryan
Tre giorni.
Tre fottutissimi giorni in cui non avevo più avuto notizie di Margaret.
Tre fottutissimi giorni da quando l’avevo vista sulla poltroncina nel reparto oncologico dell’ospedale con due tubi infilati nelle braccia.
Tre fottutissimi giorni in cui non avevo dormito, né mangiato, né chiacchierato, né guardato, né vissuto la mia vita, perché la domanda ‘Che ci faceva Mag lì?’ continuava a perseguitarmi giorno e notte, qualsiasi cosa io facessi o no.
Mag?
La mia Mag?
Perché era in ospedale? Era chiaro alla sola prima vista che lei non stesse bene. La pelle già chiara era ormai diventata diafana, gli occhi scavati –così come le guance- e le profonde occhiaie a contornarle lo sguardo colmo di dolore. Ma non era solamente un dolore fisico, era molto di più. Era un dolore sentimentale, interiore talmente grande da non poter essere contenuto in un corpicino così minuto. Era uno di quei dolori che non vuoi raccontare a nessuno, perché forse per molti sarebbe un qualcosa di superfluo e allora ti costringi a stare zitta, a soffrire in silenzio; perché vuoi troppo bene al mondo per poter pensare che loro ne vogliano altrettanto a te.
Tutta la stanza ne sembrava invasa, era come se lì dentro fosse esplosa una bomba carica di odio e tristezza e che si fosse concentrata lì, senza vie di fuga.
E la mia Mag mi aveva visto. E non aveva fatto nulla. Se ne stava lì, ferma, a fissarmi oltre il vetro con i suoi bellissimi occhi spenti, mentre Elèna le teneva la mano. Ed Eros era pochi passi più in là, seduto con la testa fra le mani e i riccioli decisamente poco ordinati, senza fare nulla. Lei mi stava guardando ed era spaventata, io lo so, perché la conosco. Perché so che se mi nasconde qualcosa un motivo esiste e perché se lei crede di potercela fare da sola, so che il più delle volte non è così. Perché lei è così testarda che la maggior parte del tempo fa di testa sua e quella restante cerca di convincermi che è lei quella che ha ragione, e io la lascio convincersi perché la amo e sei giorni prima avevamo fatto l’amore.
E non era una semplice scopata, era fare l’amore e non avevo mai avuto un momento così delicato, così intimo, così perfetto in vita mia. Ma lei non mi ha mai detto nulla del dolore che la dilaniava, non mi ha mai detto di stare male. In quel momento mi resi conto di quanto anche lei mi amasse, perché non voleva farmi star male raccontandomi ciò che la affliggeva e ciò che la rendeva triste.
E’ appena suonato il campanello e io spero con tutto il cuore che non sia lei, perché nonostante io pretenda dei chiarimenti, non credo di essere mentalmente pronto.
Apro la porta e un paio di occhi azzurro cielo mi investono in pieno petto come un treno in corsa.
Eravamo là, fermi.
Io dentro casa mia, la porta ancora in mano, un piede scalzo già pronto per andare verso di lei ed abbracciarla, la testa piena di domande, il petto pieno di amore e gli occhi pieni di dolore.
Lei nel corridoio principale del condominio, appena fuori del mio appartamento, i capelli sciolti attorno alle spalle, un paio di Converse sgualcite ai piedi, la borsa nera a penzoloni nella sua mano sinistra, la mano destra ad afferrare il gomito sinistro, la bocca privata di quel piercing nero così invitante e gli occhi colmi di scuse verso di me.
Era bellissima. Nonostante non sopportassi la sua menzogna, nonostante la maggior parte delle volte non riuscissi bene a comprenderla, nonostante con il passare dei giorni fosse sempre più stanca e più magra, nonostante le due profonde occhiaie violacee sotto gli occhi, era bellissima.
Nessuno dei due sapeva cosa dire all’altro, così cominciai io, invitandola dentro casa. Era alquanto timorosa nonostante fosse almeno la quarta volta che veniva a casa mia.
Stavo per parlare, ma lei stroncò il mio discorso appena improvvisato sul nascere, zittendomi con un gesto della mano. La vidi fissarmi per qualche secondo, per poi chiudere le palpebre per riordinare le idee.
Dopo poco riaprì gli occhi e riprese a fissarmi, poi parlò.
-Ho un melanoma con metastasi al cervello al terzo stadio. Ciò significa che tre volte al mese, ogni mese, ho due cicli di chemioterapia intensiva e che tra due mesi mi dovranno aprire il cranio in due per potermi togliere il tumore.- fu diretta, inespressiva, approfondita e mi fece sentire una merda.
-Non lo sa nessuno. Mio fratello, Elèna e adesso tu. I miei genitori lo sanno, ma l’unica cosa che fanno è chiedermi a fine giornata come sto e non mi sono mai stati vicini in ospedale.- di nuovo, fu diretta, concisa ed io ormai stentavo a sentirmi le gambe.
-Ho scelto io di non dire niente a nessuno ed è l’unica cosa che riesco a ripetere con serietà, mentre mi curano e anche mentre sono a casa, perché non voglio essere privilegiata solo perché ho il cancro.- qui la sua voce cominciò ad incrinarsi, ma non la interruppi, perché non ne avevo la forza.
-Non voglio essere compatita o vista come quella debole, perché non lo sopporterei. Ed Eros sta male, molto. Non l’ho mai visto così distrutto. Ed anche Elèna non è più la stessa. Credo seriamente che impazzirò perché le uniche due persone al Mondo che non volevo far stare male ora stanno peggio di me e questa è la cosa peggiore. E no, non mi sento in colpa perché non ti ho incluso in quelle ‘uniche persone al mondo’, perché non te l’avevo detto proprio per non farti stare male, perciò non di devo nulla.- aveva ragione, aveva perfettamente ragione mentre cominciava a fare sempre più velocemente avanti-indietro nel mio salotto.
-Tu non mi dovevi vedere quel giorno, ero vulnerabile e non voglio assolutamente che tu mi veda così, perché io non sono così. Io sono forte e lo dimostra il fatto che io sia qui, ora, a spiegarti tutto d’un fiato ciò che non sono riuscita a fare in più di due mesi di relazione. Ma lì dentro non ci sono, c’è una copia distorta di me. Piegata dal dolore e… da tutto ciò che mi circonda perché quelle maledette medicine fanno male, bruciano come fuoco, e rendono stanche le persone. Per questo ho le occhiaie. Sono dimagrita. Molto. Perché nei giorni prima e dopo la chemio qualsiasi cosa io mangi la rigetto nel giro di tre ore al massimo.- mi sentivo mancare. Tutto ciò avevo potuto ipotizzare su tale menzogna era sbagliato, completamente. Ed era molto peggio di ciò che riusciva a formulare il mio cervello.
-Non ho mai nessuno con cui parlare, di nulla. Ho sempre paura che si accorgano della mia malattia e io non voglio questo. Ho paura che tutti mi vedano debole, che mi vedano per quello che non sono. Ho paura di non farcela, Ryan.- aveva le lacrime agli occhi mentre di colpo arrestava la sua marcia continua e mi fissava negli occhi per l’ultima, inesorabile stilettata al cuore.
-Io ho paura di morire.- qui. Qui capii che razza di idiota io fossi e che razza di fortuna io avessi per le mani in quel momento. La vidi piangere, come non aveva mai fatto e io non potei fare altro che andare da lei ed abbracciarla, stringerla a me come mai prima e baciarle la testa, i capelli, le tempie, le guancie, le labbra, le lacrime, le occhiaie, il naso, gli occhi, il collo, le spalle, le mani, le braccia e cullarla dolcemente per portare via tutto il suo dolore. Il suo cancro, il semi abbandono dei suoi genitori, il peso di avermi tenuto nascosto un tale fardello da distruggere anche sé stessa, senza rendersene conto.
Alla sera, quando lei fu andata via, tornata a casa, io piansi. Piansi seriamente per la prima volta in vita mia e sperai con tutto me stesso che quello che stavo provando potesse essere almeno una minima parte del dolore che avevo provato ad estirpare dal cuore della mia Mag.


**spazio autrice**
D'accordo. Sono un disastro di autrice.
1. Non è scritto magnificamente, ma posso dire almeno di avercela messa tutta (?)
2. Non è molto lungo, ma almeno la storia va avanti.
3. Sono in ritardo, ma non mi scuserò per questo.
Personalmente, sono abbastanza scocciata per il numero di recensioni che NON ho ricevuto. Insomma... ho un sacco di visite -e intendo davvero un sacco, perchè 130 visite ad ogni capitolo sono tante-, ma è possibile che proprio nessuno spenda cinque minuti della sua vita per scrivere anche una minimissiam recensione, anche se pur più lunga di 10 parole? Io ci metto impegno, lavoro e tempo che potrei tranquillamente dedicare ad altro sicuramente più fruttuoso, visto che qui nessuno se le calcola nemmeno le mie storie... Mi va bene anche una critica, non deve per forza essere una di quelle recensione chilometriche su quanto io si brava e la storia via abbia preso; mi basta semplicemente un commento, giusto per sapere come la pensate.
Con questo fermo la mia lamentela perchè negli ultimi giorni ne sto facendo anche troppe.
Perciò passando alla storia, Ryan per puro caso scopre tutto di Margaret e lei non può fare altro che dirgli per filo e per segno ogni cosa. Devo ammettere che mi è piaciuto scrivere questo capitolo, sicuramente perchè c'è un po' di spiegazione in più da parte di Ryan sui propri sentimenti.
Ora vi saluto e ringrazio tutti quelli che spendono una briciola di tempo per leggere questo capitolo. Come al solito vi invito ad una recensione, e spero che almeno questa volta qualcuno ne faccia una.

E qui c'è Miranda Kerr -  alias, Mag
 -immaginatevela con un piercing al labbro-

E poi Francisco Lachowski - cioè Ryan


Adesso vi lascio per davvero,
Baci, Nicky <3

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