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di kiki96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** UNO ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


13
PROLOGO
 
Una piccola bambina corse verso un uomo. I capelli mori le svolazzavano accarezzandole il viso, le sue labbra aperte in un sorriso armonioso e i suoi occhi, i suoi bellissimi occhi, erano come diamanti neri illuminati dal sole.
Aveva le braccia aperte, come una rondine che volava abbracciata dal vento, e correva veloce verso quell’uomo alto e vecchio. Capelli imbiancati e corti, quasi a spazzola, sorriso con qualche dente mancante, viso solcato da profonde rughe come tanti ruscelli che scendevano una montagna. I suoi occhi, occhi che raccontavano la meraviglia della nuova vita e il terrore di viverla fino in fondo, erano celesti e sembravano coperti da una sostanza semitrasparente.
Aveva visto tante cose, quel vecchio. Ma la più bella di tutte era solo una: la libertà.
Era un uomo che aveva vissuto dei giorni tristi, senza colore e poveri di gioia. Aveva vissuto la terribile verità della guerra, le sue armi che portavano discordia e falsità tra la razza umana. E di falsità ce n’era stata pure troppa.
Ora, quel vecchio, guardava il futuro venirgli incontro, vedeva felicità e vita. Tanta vita.
«Nonno! » urlò la bambina.
L’uomo si abbassò, le sue povere ossa scricchiolarono a quel movimento, e abbracciò la sua piccola nipote.
«Mary» rise tra sé e sé, una piccola lacrima di felicità minacciò di scendere sulla guancia.
«Nonno, perché piangi? » Mary si staccò dall’abbraccio quel tanto che bastava per alzare le mani verso il viso rugoso di suo nonno e asciugare la piccola goccia.
«Sono contento, Mary» il vecchio la prese in braccio e guardò l’orizzonte di fronte a sé: «Felice di tutto questo»
«Nonno, è solo il sole»
«È vero, è solo il sole. Mary, se tu non vedessi il sole per il resto della tua vita, cosa faresti? »
«Non voglio» rispose la piccola: «il sole ci sarà sempre, vero? » i suoi grandi occhi scrutarono il vecchio con preoccupazione.
«Per sempre» ripeté il vecchio: «È tanto tempo, ho sentito dire» rise, una risata roca.
«Ma ci sarà! » ribadì la bambina, lo sguardo era più sicuro di prima.
«Chi può dirlo… » il vecchio rise ancora: «Solo se tu vorrai»
I suoi occhi fissarono il vuoto e il suo sorriso scomparve.
«Che significa? »
Lo sguardo perso del vecchio si rivolse alla bambina e poi, lui, sospirò. C’era stato un tempo in cui il sole non esisteva, era solo una leggenda. Tutti ne parlavano come un qualcosa di magico e quel giorno, quando per la prima volta si era mostrato, si rivelò per quello che era: non era magico, era straordinario, qualcosa più simile all’immaginabile che al reale.
Ma quel giorno era stato più vicino di quanto si pensasse, la leggenda era diventata realtà solo da qualche decennio. E poi era stato tutto luce.
«È una lunga storia»
«Raccontamela»
Il vecchio fissò gli occhi della nipote, erano così pieni di sincerità e di purezza, era giusto raccontarle quella storia? La storia della sua libertà?
Lui se l’era guadagnata la libertà, aveva combattuto per ottenerla. Ma era giusto raccontarla a lei, un’anima ingenua? Che imparasse a vivere? Che imparasse dagli errori passati?
Il vecchio iniziò a raccontare e il mondo- il prato sul quale stavano seduti, i fiori e gli alberi che frusciavano al vento- cambiò del tutto, dandogli un colore neutro e triste.

*NDA: Allora, che possiamo dire di questa piccola è breve introduzione? Nulla, a parte che è solo la fine della storia. Eh, già. Per una volta inizio finendo... Dato che non sapevo come iniziare mi sembra giusto xD E nulla, questo è tutto. Spero che vi si piaciuto :D
K.*

 

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Capitolo 2
*** UNO ***


UNO
 
Vento. Un freddo, insistente, potente vento mi scompigliò i capelli mossi che avevo. Chiusi la giacca di pelle per proteggermi da quell’improvvisa folata d’aria che mi aveva fatto rabbrividire e stupire al tempo stesso. Era strano, solitamente, in questa parte del mondo, non tirava mai un filo d’aria, né di giorno né di notte.
Con la mano sinistra presi la bottiglia di birra che avevo appoggiato sul muretto diroccato di una fontana, bevvi il liquido che mi bruciò la gola dopo il suo passaggio. Sospirai confuso, sapevo che il vento non portava mai buone notizie, soprattutto per noi poveri umani rimasti sulla terra. Nonostante tutto, questo agente atmosferico mi piaceva molto, forse perché assomigliavo un po’ a lui. Ero un fuggitivo che si divertiva a sparire sempre nei momenti più critici e ritornavo pieno di guai, riuscivo a mutare a seconda della situazione che mi si presentava ed ero un bugiardo. Un bravo bugiardo che si divertiva alle spalle di tutti. Così, almeno dicevano gli altri. Io non mi definirei così, a dire il vero non mi definirei e basta. Odiavo dare un punto fisso alle cose e aggrapparmi a quel punto come se mi potesse salvare la vita, ero sicuro che, quel punto fermo, un giorno o l’altro sarebbe mutato ed allora sarebbe stata la fine. Ma nonostante ciò, sapevo per certo che non riuscivo a non aggrapparmi a qualche vana speranza, una speranza che sarei uscito da questa prigione senza sbarre e a cielo aperto.
Frugai nella tasca interna del giubbotto rabbrividendo di nuovo quando aprii la cerniera, e presi un pacchetto di sigarette accendendone una.
L’unica salvezza in questo frammento di mondo rimasto: sigarette. Fumandole riuscivo a pensare e a capire cose che non sembravano avere logica, mi davo delle risposte alle domande impossibili che mi facevo e smettevo di credere che qualcosa potesse cambiare dando una giustificazione a tutto ciò che mi circondava.
Il perché il pianeta era diventato un giocattolo loro, il perché nessuno aveva mai provato a ribellarsi, il perché fossimo diventati numeri…
Inspirai la nicotina e poi la rigettai fuori. Una nuvola di fumo fuoriuscì dalle mie narici impedendomi la visuale per una breve frazione di secondo.
Guardai ancora una volta il solito paesaggio squallido che mi si presentava davanti agli occhi: una casa bruciata e crollata era disposta ad una ventina di metri da me, altre macerie giacevano attorno alla piazza, composta ormai da mattonelle disconnesse e da profonde crepe nel terreno, al centro di quello che era rimasto della piazzetta si intravedeva un piedistallo di marmo incrinato e privo, ormai, della statua che avrebbe dovuto sorreggere.
Un altro tiro e poi poggiai la testa contro la statua della fontana, quasi inesistente anch’essa.
Sapevo che questo posto era inquietante per via del silenzio che alleggiava o perché ogni tanto c’erano rumori improvvisi di cui si ignorava la provenienza, ma qui mi rilassavo e potevo essere libero. Solo per poco.
Clack!
Ogni volta che sentivo questi rumori, mi tornava in mente solo una parola: fantasmi.
Non sto parlando di quei fantasmi che hanno un corpo ectoplasmatico o che sono bianchi e cattivi, no. Intendevo fantasmi del passato, quelli che vivevano nelle fondamenta delle città, quelli che pur essendo distrutti sono ancora vivi, quelli che avevano vissuto e impresso ogni emozione nel cemento, quelli che reclamavano con dolore la libertà perduta.
Ogni volta, dentro me, mi univo a loro gridando col cuore una giustizia che non c’era più da molto tempo.
Quando finii la sigaretta, la gettai in terra e poi scolai la bottiglia di birra. Finito di rodere il mio fegato, mi alzai con passo deciso e tornai sui miei passi attraverso i vicoli bui e sconnessi.
«Accesso negato, lei non può stare qui»
Mi voltai con irritazione sapendo già cosa avrei visto. Infatti, davanti a me sostava un manichino con un busto quadrato che lampeggiava di rosso, sugli arti si vedevano bene i legamenti di ferro e titanio che collegavano dal busto alla mano, la testa aveva due occhi rossi e vitrei privi di ogni qualsiasi emozione e sulla sua cima c’era una cappello dell’unità militare. Il colore verde scuro era un cazzotto in un occhio rispetto a quel bianco impuro e neutro, senza vita e senza sentimenti.
«Lo so, lattina ambulante»
«Offesa a pubblici ufficiali, signore. Dovrebbe venire con me»
Presi una sigaretta dalla tasca e l’accesi, feci un tiro e poi spensi la sigaretta sull’occhio del robot: «Io non andrò da nessuna parte con te. Né ora né mai»
Il robot, con la mano a tenaglia, cercò di afferrarmi il polso mentre diceva meccanicamente: «Oggetti di contrabband-» con un movimento lesto gli presi la testa e gliela spaccai con la forza del ginocchio. Prima che lanciasse l’allarme con le sue ultime energie, strappai i fili che aveva dietro la nuca e lo lasciai a terra, come un burattino immobile.
«Offesa un cavolo. Crepa, razza di bastardo» con passo lento e strascicato me ne andai da quel luogo prima che arrivassero altre guardie.
Con nostalgia immaginai come erano stati i tempi in cui il mondo non era comandato da stupide scatole elettriche, tempi lontani e dimenticati ormai che, purtroppo, non sarebbero più tornati.
Fissai il ginocchio e notai che una chiazza rossa si stava allargando sui jeans già strappati. Loro diventavano sempre più forti e pericolosi, noi eravamo afflitti dalla maledizione dell’umanità, eravamo troppo vulnerabili e deboli, non potevamo competere. Però avevamo qualcosa che loro non avrebbero mai avuto: le emozioni. Erano la nostra ultima ancora di salvezza o la nostra debolezza che ci avrebbe portato a morte certa.
Purtroppo non avevamo ancora tentato nessun attacco serio e loro continuavano a controllarci sempre, con costanza.
Sospirai angosciato, le mani tremavano dal freddo che era penetrato fin nelle ossa. Salii sulla moto, nera con ruote estremamente grandi e piccoli led blu che le illuminavano, e partii verso quella che chiamavo “casa”.  Partii verso Number-city.

NDA: ecco il primo capitolo! Non so cosa dire a  aprte una cosa: è una trama terribilmente complicata e, fino ad un periodo fa, il genere fantascientifico non faceva per me. Non FA per me. Ma questa storia l'ho sognata e credo che valga la pena di essere raccontata, in fondo questo futuro potrebbe essere più vicino di quanto si pensi, no?
K.

 

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