Reykjavík

di __deep
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ljós (prologo) ***
Capitolo 2: *** byrjun (uno) ***
Capitolo 3: *** rætur (due) ***
Capitolo 4: *** vón (tre) ***
Capitolo 5: *** dögun (quattro) ***



Capitolo 1
*** ljós (prologo) ***


ljós (prologo)

Reykjavik non era quel tipo di città che si alzava, di mattina. Sembrava perennemente addormentata, come fosse congelata dalla brezza che soffiava dall'Atlantico sulle sue coste. Era una città che sembrava vivere e plasmare la sua esistenza giorno per giorno intorno a fulcri sempre diversi. E chi ci viveva era come trascinato con lei in questo vortice di estasi.

Era una di quelle mattine in cui quando ti alzi la prima cosa che vedi è l'alito che condensa per il freddo, e la prima cosa che pensi è a bollire l'acqua per il tè.
La finestra era socchiusa, e dalle fenditure si intravedeva l'acqua semighiacciata del Tjörnin riflettere i raggi del primo sole invernale.
Ora, non so se hai presente il sole in un campo di fiori il venti di maggio.
Lei.
Aveva un modo tutto suo di stare seduta sul davanzale della nostra finestra. Era come se ci fosse delicatamente poggiata sopra. E sembrava un cristallo colpito dal primo raggio di un'alba invernale.
«Buongiorno», mi sussurrò frapponendo l'indice fra le due pagine aperte e chiudendo il libro che aveva in mano.

E un buon giorno lo era davvero.

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Capitolo 2
*** byrjun (uno) ***


byrjun (uno)

Ci conoscemmo in biblioteca perché lei era bellissima e leggeva il mio libro preferito. E non so come trovai il coraggio di avvicinarmi e dirle che stava leggendo un libro bellissimo, e che se l'aveva scelto aveva fatto la scelta giusta.
«Lo so che è bellissimo», mi rispose alzando la testa, sorridente, senza farmi nemmeno pesare il fatto che l'avessi disturbata «è anche il mio, di libro preferito, e l'ho già letto tre volte.»
Mi ricordo che mi chiedevo spesso prima di allora se esistesse davvero gente che rileggeva più volte lo stesso libro, e pensavo che fossi l'unico a farlo.
«Io sono Davide, se ti va di conoscermi.»
«Io Valentina, e, sì, certo che mi va.»
«E ti va di prendere qualcosa? Il caffé dietro la biblioteca ha una cioccolata calda dolcissima, se ti va di fare due passi.»
«Mi piacerebbe davvero! E' da molto che non parlo con qualcuno.»
Poi mise il segnalibro a metà fra le due pagine aperte e si alzò venendomi di fianco.
Mi ricordo che era giugno.
E nessuno dei due trovò da obiettare che non era tempo da cioccolate calde.

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Capitolo 3
*** rætur (due) ***


rætur (due)

Iniziammo a scriverci, da quel giorno. Poi a vederci, ad offrirci un gelato a testa, ed a prestarci i libri. A scrivere piccole dediche sulle copertine vecchie dei nostri romanzi ed a fotografarci i sorrisi quando uscivamo, mentre l'estate iniziava a soffiare via coi venti freschi e l'autunno bussava alle porte.
Quando ci confessammo a vicenda di essere diventati insostituibili l'uno per l'altra fu come il finale di un libro di Marquéz, che se lo leggevi vedevi il tramonto davanti agli occhi e le parole ti tremavano sulle labbra. Fu quella sera che le scrissi per la prima volta una poesia. E lei mi abbracciò forte. E sentii che forse era vero che il sole si era incarnato in un essere umano, un tempo.

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Capitolo 4
*** vón (tre) ***


vón (tre)

A volte uscivamo.
Io andavo da lei e mi toglievo il giubbotto rattoppato e dalle tasche cacciavo un libro vecchio, di quelli piccoli con la rilegatura in pelle marrone e una data degli anni '80 scritta in pedice sul frontespizio con una biro blu.
Poi ci sedevamo e leggevamo.
«Oggi pomeriggio dove andiamo?»
«In Cina.»
E io le leggevo la Cina.
Sentivamo i venti ghiacciati dell'Himalaya sulla schiena e ci coprivamo tanto per non sentire freddo, e poi dentro la Città Proibita stavamo in silenzio perché tanta imponenza ci strozzava le parole in gola. Passeggiavamo per i vicoli di Shanghai nei risciò e mangiavamo riso al pollo con le bacchette bevendo liquore.
Poi, quando iniziava a farsi scuro, tornavamo a casa. Era come tornare davvero, fare le valige e salutare la città dov'eravamo vissuti durante la lettura, e le strade che avevamo camminato, e i cieli che avevamo visto.
Se c'era abbastanza luce restavo a guardare il tramonto fuori dalla sua finestra con lei di fianco; altrimenti, l'abbracciavo forte prima di scendere e dirigermi a piedi verso casa.
Era l'unico modo per fuggire via.

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Capitolo 5
*** dögun (quattro) ***


dögun (quattro)

Arrivò un momento in cui i viaggi non bastarono più.
I nostri occhi avevano sete di panorami e vedute, i nostri piedi avevano fame di strade da percorrere e le nostre narici volevano respirare arie di cieli più azzurri.
Arrivò la voglia di conoscere e di esplorare, di sentire odori e ascoltare fruscii.
Arrivò la necessità di rompere le catene.
E quando lei mi urlò che non ce la faceva, che la sua famiglia l'avrebbe uccisa e che Napoli era una gabbia per lei, le chiesi se voleva andare via.
Mi disse sì.
Le chiesi che voleva fare.
Mi disse «Scrivere».
Le chiesi «Dove?».
Rispose «Ovunque.».
Ed io le chiesi «Insieme?».
E lei mi disse «Ti prego».
Sorse l'alba mentre lo disse, perché discutevamo di notte, e fu quella luce a dirmi che sapevo già cosa avrei dovuto fare per lei.

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