Le sette Vergini

di Stanys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Rannicchiato nell'angolo più buio della sua cella, Alfred pensava. Non che fosse possibile fare molto altro, ma non riusciva a distogliere la sua mente dal pensiero di cosa sarebbe successo il giorno successivo, quando il sole che sarebbe sorto di lì a poche ore, nonostante per la stragrande maggioranza delle altre persone avrebbe significato l'inizio di un altro giorno, sarebbe stato l'ultimo che avrebbe visto. Sicuramente non sarebbe stata lui l'unica persona a morire sulla faccia della terra quel giorno, ma la differenza tra lui e gli altri era che sapeva che sarebbe morto. Nessuna grazia, nessuna telefonata dell'ultimo momento avrebbe impedito al boia di azionare il circuito della sedia che un sadico secondino tempo prima gli aveva descritto come "una vera comodità, di quelle che quando provi non riesci più a separartene".
Aveva ammesso ogni sua colpa, e le prove raccolte coincidevano con la sua storia. Probabilmente quello di confessare era stato l'atto più coraggioso della sua non lunghissima esistenza (era solito dire che un uomo di quarantatré anni non può certo considerare lunga la sua vita), eppure, da qualche parte tra le pieghe della sua coscienza che a fatica si faceva largo tra i corpi che la sua mano aveva spezzato, sentiva che non avrebbe dovuto pentirsi del suo gesto, cosa che lo faceva rabbrividire e considerare l'idea di essere sulla via della pazzia. Ma subito si tranquillizzava, pensando che non avrebbe avuto il tempo di impazzire completamente: ci avrebbe pensato la Giustizia a resettargli il cervello. Era continuamente combattuto tra una miriade di desideri contrastanti ed emozioni una più devastante dell'altra: dai climax di paura e terrore agli eccessi d'isteria, fino alla noncuranza. Aveva un disperato bisogno di dormire, lo sentiva, ma anche in quel caso la risposta che ad alta voce la sua testa gli suggeriva era: che importa? Avrò tempo per dormire, tutto il tempo che voglio.
La notte procedeva inesorabile, e la pioggia leggera che dal pomeriggio aveva cominciato a cadere sul carcere si era trasformata in una tremenda tromba d'aria: l'acqua spinta dalle raffiche di vento entrava senza alcun pudore dalla finestra, attraversando in modo ridicolmente semplice la grata che costringeva Alfred, quando si affacciava al mondo esterno, ad una visione a quadretti del già di per sé non idilliaco paesaggio, nonché a patire il freddo in notti come quelle. Una di queste folate d'acqua e vento lo colpì in pieno viso, scuotendolo finalmente dai suoi pensieri, aiutato dal tuono che arrivò subito dopo alle sue orecchie, con una potenza tale da farlo sobbalzare di paura. Dopo essersi ripreso dallo spavento ed asciugato il viso con una manica della divisa da prigioniero, si alzò imbufalito e coprì d'un sol balzo la breve distanza che lo separava dalla finestra e, afferrata la grata, urlò contro la pioggia «Va bene, va bene, rotto in culo! Ho finito, contento? Che cazzo vuoi ancora, eh?»
La sua rabbia non aveva un destinatario preciso, ma non sapeva più come gestirla, eruttando in modo imprevedibile. L'isolamento dal mondo e dagli altri prigionieri non aveva fatto altro che indurirlo ancora di più.
In quel momento un lampo cadde esattamente nella zona ricreativa del penitenziario, attratta dagli innumerevoli attrezzi metallici lasciati ad arrugginire dagli inservienti
sempre troppo poco zelanti, a meno che il compito non fosse quello di percuotere i detenuti. In quello erano davvero imbattibili. Il rombo che ne scaturì fu ancora più imponente del precedente, e Alfred quella volta ebbe davvero paura. Ma anche in quella occasione, la stessa parte della sua coscienza che prima lo spingeva lontano dal pentimento, ora lo incitava subdolamente a rimanere lì aggrappato a quella grata ad inveire non si sa contro chi o cosa, né tantomeno sapendo perché, visto che le sue urla erano ampiamente coperte dal vento e dalla pioggia. Ciò nonostante, urlava con tutto il fiato che aveva in corpo, e la rabbia montava ad ogni respiro. Quella volta decise di prendersela col soggetto più facile da aggredire.
«Avanti! Sono qui, cosa aspetti? Non sai fare di meglio? Bastardo Onnipotente dei miei coglioni, dove sei?»
Sapeva che dall'altro lato di qualunque cosa verso la quale si stesse rivolgendo, fosse la pioggia, il carcere, o le nuvole ed il cielo stesso, c'era qualcosa che lo stava ascoltando, e voleva, anzi pretendeva che venisse da lui. Aveva troppe domande da sottoporre che esigevano intransigenti una risposta. E qualcosa in effetti arrivò, anche se non esattamente come Alfred se l'aspettava. La pioggia, o chi per essa, gli rispose con un altro lampo, stavolta ad una manciata di metri dalla sua cella. Il prigioniero fu sbalzato indietro dall'onda d'urto, acciecato dalla fortissima luce. Indietreggiando, scivolò su dell'acqua accumulatasi sul pavimento e cadde rovinosamente a terra, battendo la testa. Il mondo da bianco divenne nero, e perse i sensi.


Quando riprese conoscenza non solo stava ancora piovendo ma, come ebbe modo di appurare appena riacquistò i sensi, la pioggia gli stava cadendo addosso, e anche da parecchio tempo, a giudicare dai vestiti bagnati fradici. Ma quella scoperta fu niente in confronto alla sorpresa che lo accolse quando finalmente, dopo essersi girato su un fianco, aprì gli occhi: non era più nella sua cella.
Si era risvegliato in quello che sembrava essere un vicolo, con tutto il suo bagaglio di sporcizia e degrado. Tutto quello che riusciva a vedere da terra nel buio della notte era il lampione acceso appena fuori dal vicolo, un faro in fondo a quel tunnel che sembrava indicargli una via che non aveva neanche deciso di prendere. Cercò di mettersi in piedi, ma il dolore dietro la nuca gli impedì di andare oltre lo stare seduto, così si appoggiò al muro più vicino. Respirava a fatica, aveva un freddo cane, e l'unico pensiero che aveva in mente gli uscì dalla bocca come dotato di vita propria.
«Ma dove diavolo sono?»
Un'altra volta, la risposta arrivò in modo particolare. Alle sue parole, diverse ombre fecero capolino all'ingresso del vicolo, accompagnate da passi duri e frettolosi. Il cuore di Alfred ebbe un sobbalzo, e gli impose istintivamente di appiattirsi il più possibile contro il muro. Apparvero nel cono di luce del lampione quattro uomini in divisa (una divisa mai vista prima da Alfred, completamente nera con ricami dorati) accompagnati da un cane che uno di loro teneva al guinzaglio. Le quattro figure si fermarono davanti al vicolo in attesa del cane, che si era fermato e stava evidentemente fiutando qualcosa. Alfred pregò con tutte le sue forze che non fosse lui ciò che stavano cercando sebbene, a giudicare dal fatto che era un condannato a morte che all'alba sarebbe stato giustiziato, e non si trovava più nella sua cella, ne fosse quasi certo. Il cane finì di fiutare e, alzando il collo, puntò il muso esattamente contro Alfred, il quale decise che in fondo non era proprio così necessario respirare in quel momento. Il fuggiasco e l'animale rimasero a fissarsi per interminabili secondi prima che l'uomo che teneva il cane al guinzaglio lo interrogasse: «Allora, è qui o no? Rufus, vai a controllare»
«Io?» rispose l'uomo in fondo al gruppetto. «Il cane non ha abbaiato, quindi io là dentro non ci vado!»
L'uomo col cane si girò verso Rufus e con un sorriso quantomai beffardo gli disse «Rufus, sei proprio un cagasotto. Andiamo, dai»
Si rimisero in cammino e, usciti dall'illuminazione del lampione, sparirono tanto velocemente quanto erano comparsi.
Passò un'eternità prima che Alfred decidesse di separarsi dal muro al quale si era incollato, ormai convinto di aver scavato un buco delle sue esatte fattezze. Prese così coscienza del fatto che ormai non poteva stare a vegetare in quel vicolo in eterno, quindi raccolse le sue forze e si levò in piedi. L'incredulità aveva ormai da tempo ceduto il posto al terrore e al panico: cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andato? Difficile anche solo tentare di rispondere, visto che non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Decise quindi che quella sarebbe stata la prima voce della sua nuova lista di cose da fare.
Sfortunatamente per lui, si rese subito conto che non sarebbe stato un compito facile. Uscito dal vicolo infatti si trovò su un lunghissimo viale che si distendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni, sul quale affacciavano schiere di alti casermoni color rosso mattone, tutti dannatamente uguali, tranne che per una specie di numero civico, composto da lettere e numeri. Nessuna indicazione stradale, o circa la strada in cui si trovava. I palazzi erano chiusi a chiave, separati gli uni dagli altri tramite piccoli vicoli come quello in cui si era svegliato, anche loro tutti uguali in squallore e sporcizia. Lo scenario era di una desolazione disarmante: non un passante, non una luce accesa nelle case, non una macchina né altro trasporto. Nel camminare, Alfred perse la cognizione del tempo, e stava per cominciare ad avere nostalgia della sua cella quando, girandosi ormai stancamente verso l'ennesimo vicolo cieco, si accorse che questo era più stretto degli altri e, cosa più importante, non era cieco. Senza pensarci due volte, pur di abbandonare quella terrificante visione, lo imboccò volentieri. Mentre si faceva strada tra le mura dei due palazzi, che ad ogni passo si avvicinavano sempre più, diceva: «Devo essere sicuramente impazzito, o quantomeno quella caduta deve avermi mandato in coma e questo è tutto un sogno fottutamente verosimile. Vorrei proprio vederla ora, la faccia di quello stronzo di Governatore, chissà se mi farà ammazzare lo stesso oppure mi terranno a vegetare nel letto di un ospedale. Figurati, e chi le paga poi le spese, lo Stato?»
Il sorriso amaro che nacque da quella breve riflessione fu completamente abbattuto da ciò che vide una volta arrivato all'altro capo del vicolo: un enorme spiazzo si apriva davanti a lui, completamente lastricato di un marmo bianchissimo che lo costrinse, nonostante la poca luce ed il maltempo, a socchiudere gli occhi per poter osservare meglio, come se quel pavimento brillasse di luce propria. Al centro della piazza si ergeva una struttura maestosa, anch'essa completamente bianca, simile ad una chiesa, ma in qualche modo diversa. La facciata ricordava una cattedrale gotica, affollata di statue allegoriche e con un grande rosone ricco di colori al centro, ma ai lati aveva altre due strutture basse e lunghe, sormontate da archi rampanti che andavano a poggiarsi sulla struttura principale, in corrispondenza di sei torri che contornavano il corpo principale di quello strano complesso. Una settima torre svettava dal centro del tetto, più alta delle altre, ma sulla sua sommità al posto delle campane era stato costruito una specie di baldacchino, che riparava dalla pioggia la statua di un uomo seduto su un trono, o almeno così sembrava vista da terra.
«Sicuramente da quell'altezza riuscirei finalmente a farmi un'idea di cosa c'è qui intorno» disse Alfred, quindi si incamminò verso l'ingresso. Giunto agli alti battenti della chiesa, notò come la pioggia non avesse minimamente intaccato il candore del marmo, anzi sembrava quasi che l'acqua non riuscisse a bagnarlo. Poggiando una mano su uno dei battenti, anch'essi bianchi, al tatto lo sentì asciutto, dall'aspetto possente, eppure leggero quasi in modo innaturale mentre si muoveva. Una volta entrato, se lo chiuse alle spalle, e dopo fu solo silenzio.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Non il rumore di una singola goccia di pioggia riusciva a penetrare quelle strane pareti, che nell'ombra a stento si vedevano. Tutto ciò che riusciva a vedere davanti a sé erano due enormi colonnati, che si estendevano per un'altezza spropositata, molto più alti rispetto alle apparenti dimensioni della struttura, così come la navata dava l'impressione di essere molto più lunga. La poca illuminazione arrivava direttamente dalle colonne, che brillavano di una tenue luce propria, come di un crepuscolo avvolto dalla nebbia.
Nonostante i timori e l'inquietudine che quelle osservazioni avevano causato in lui, Alfred si incamminò zuppo di pioggia lungo la navata centrale, sperando (neanche tanto in realtà) di incontrare qualcuno, o quantomeno un passaggio che potesse condurlo alla torre. Aveva camminato molto, la stanchezza cominciava a farsi sentire e, forse preda dell'insofferenza, si lasciò sfuggire un timido ma incauto «C'è nessuno?», dal quale non ricevette neanche l'eco in risposta, e che lo fece agitare ancora di più.
Ma finalmente scorse qualcosa.
In mezzo alla navata centrale stava un altare, illuminato da due bracieri posti ai lati ed innumerevoli candele poggiate sopra. Davanti erano stati posizionati due troni: uno più grande, riccamente decorato, che poteva essere stato tranquillamente trafugato da un palazzo reale ottocentesco, mentre l'altro, alla destra del primo, era molto più semplice, poco più di un blocco di pietra intagliato per accogliere una persona. Alle spalle dell'altare, un'imponente stele nerissima svettava ricolma di incisioni incomprensibili e, tra l'altare e la stele, la statua di un uomo dagli abiti sontuosi dava le spalle all'altare con le braccia spalancate.
D'istinto Alfred si nascose dietro la più vicina colonna, temendo che potesse esserci qualcuno nei paraggi. Dopo una rapida analisi concluse che quel posto, come tutti gli altri visti finora, era deserto, quindi si fece avanti. Raggiunse i due troni e, osservando lo scranno di pietra, notò che anche questo era ampiamente arricchito di piccoli segni, una specie di geroglifici.
«Il tuo posto è su quello accanto»
La voce arrivò dalle sue spalle e subito si diffuse in tutto l'ambiente come dotata di potente amplificazione. Pur non avendo un tono ammonitorio, suonò peggiore di una maledizione. Alfred trasalì e rimase pietrificato per il terrore, poiché non aveva la più pallida idea di chi avrebbe potuto avvicinarlo di soppiatto in quel modo senza essere scoperto, dopo ore di infruttuosa esplorazione. Rimase col braccio sospeso nell'atto di toccare il trono di pietra e lentamente girò il capo verso la fonte della voce. Riconobbe subito gli abiti della statua davanti alla stele, quindi immaginò che l'uomo di mezza età dallo sguardo benevolo che gli stava davanti fosse il sacerdote di quella chiesa. Questo riuscì a far recuperare ad Alfred un minimo di tranquillità tale da fargli dire: «Mi perdoni, Padre, ma pensavo non ci fosse nessuno qui»
Lo sguardo del sacerdote si fece interrogativo: «Padre? Non sono padre di nessuno io, men che meno il tuo»
Alfred fu sorpreso da quella risposta assolutamente insolita.
«Ma come, non è lei quello ritratto in questa...statua?»
fece fatica a finire la frase perché, giratosi per indicarla, vide che la statua non era più al suo posto.
“Ok, sto impazzendo” si disse tra sé.
Il sacerdote sorrise come un nonno comprensivo sorride al suo nipotino e disse «Non era una statua, ero io. Semplicemente, non avevo motivo di muovermi, almeno finora. Ma adesso che finalmente sei qui, Alfred, devo svolgere il mio compito»
«Come sai il mio nome?»
«Lo so perché ti aspettavo. E no, non sei in coma, né questo è un sogno fottutamente verosimile»
Il povero Alfred non riuscì a fare a meno di assumere un'espressione di puro sbigottimento alle parole del sacerdote, che sembrava averlo seguito dal momento in cui si era risvegliato in quel posto.
«Immagino che a questo punto tu voglia sapere qualcosa di più sul luogo in cui ti trovi, no? Questo» disse allargando le braccia «è il tempio dell'Uomo, il tuo tempio»
«Di chi, scusa?»
«Beh, non proprio strettamente tuo, ma di ogni uomo, quindi anche tuo.»
«Ma dov'è che siamo? In quale parte del Paese intendo.»
«Oh, non siamo affatto nello stesso Paese da cui vieni tu. A dirla tutta, non siamo neanche sullo stesso pianeta. In fondo non è neanche importante, possiamo essere dove preferisci. Noi qui non “stiamo”, ma “siamo”, esistiamo e basta.»
Di nuovo il sacerdote indovinò i pensieri che Alfred aveva così bene dipinti in viso con la sua maschera di incredulità e dubbio. «Capisco che sia difficile da capire, anzi: non mi aspetto mai che un umano capisca, ogni volta che passa per questo luogo. Ma poi dopo un po' tutto appare più chiaro.»
Alfred intanto si guardava intorno per cercare di mettere a fuoco le parole che ascoltava con l'aiuto di ciò che vedeva. Si fermò davanti alla stele e chiese «Ma tu chi sei?»
«Ottima domanda: sono il Sacerdote dell'Uomo, custode del Tempio, ma tu puoi chiamarmi Krys, ed io mi inchino a te, Alfred, mio padrone umano.»
Di tutto ciò che aveva sentito fino a quel momento, nulla aveva sbigottito Alfred quanto il sentirsi chiamare “padrone”. «Il tuo cosa?»
«Il mio padrone» ripeté Krys, «mio come di ogni altra divinità.»
dopo quest'ultima frase Alfred non riuscì a trattenere le risa, che esplosero sonoramente all'interno del Tempio. L'espressione di Krys tuttavia non era mutata.
«E io sarei il padrone di tutti gli dèi? Per curiosità, quanti sarebbero?»
«Tutti quelli che l'Uomo ha creato»
«Mi sembra giusto, meglio non farsi mancare niente. Mi dispiace, ma io a questa pagliacciata non ci sto. Cercherò un altro palazzo da cui affacciarmi per guardarmi intorno.»
«Io non andrei via se fossi in te» sentì dire Krys alle sue spalle, mentre Alfred si era incamminato nella direzione da cui era venuto, sperando di guadagnare l'uscita. «Tanto più» continuò il sacerdote «che sta per cominciare una cerimonia in tuo onore.»
«Mi dispiace, ma non sono adeguatamente vestito. Vado a cercare uno smoking e torno.»
«Sì, è una buona idea.»
Dopo pochi passi Alfred sentì una leggera brezza arrivargli dalle spalle, avvolgendolo rapidamente, e subito dopo si sentì perfettamente asciutto. Nell'oscurità non riuscì a capire cosa fosse successo, quindi si avvicinò ad una delle colonne e scoprì che la divisa della prigione era sparita, sostituita da un impeccabile smoking, con tanto di farfallino nero e scarpe lucide ai piedi.
«Che cazzo mi hai fatto?» urlò da lontano verso Krys che, col solito tono piatto, rispose «Ti ho accontentato: non era uno smoking che volevi?»
Alfred continuava a guardarsi lo smoking senza riuscire a trovare una spiegazione plausibile per ciò che gli stava accadendo.
E infine si arrese.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


«Sarà meglio che torni qui e ti siedi, Alfred. Ti stanno aspettando tutte.»
Quasi inconsciamente Alfred si diresse verso il trono regale, memore del precedente monito del sacerdote, che subito dopo lo imitò accomodandosi sullo scranno di pietra. Krys fece quindi un cenno verso l'oscurità e con tono grave disse «Bene, ora le Vergini possono entrare.»
Si udì il rumore di un battente che veniva aperto e poi richiuso, seguito dall'eco di diversi passi che si avvicinavano.
«Chi sono le Vergini? Non ero l'unico umano qui?»
«Lo sei infatti. Le sette Vergini sono divinità, le più potenti che l'Uomo abbia mai creato, e coloro a cui l'Uomo ha sempre donato di più.»
«In che senso donato?»
Krys si girò verso Alfred, che ora pendeva sinceramente dalle labbra di quell'individuo così strano, di cui ormai sentiva il richiamo, ma che contemporaneamente sapeva essere in suo potere «Vedi, così come l'Uomo, anche gli dei hanno bisogno di nutrirsi per sopravvivere, ma il loro nutrimento non è semplice da procurarsi come quello che basta a voi»
«E di cosa vi nutrite?»
«Di fede» rispose Krys. «La fede che un uomo ha in un dio nutre quest'ultimo, gli dà forza, è la linfa vitale che scorre nelle sue vene. Voi uomini sbagliate a pensare che siano immortali: possono morire eccome. E ne sono morti, purtroppo. Quelli che ancora non sono morti, agonizzano nei loro rifugi, incapaci di suscitare quella fede che potrebbe salvarli. E così muoiono.»
«Per questo tutti gli edifici che ho visto sono vuoti?»
«Già. L'Uomo ha smesso di credere: si è posto lui stesso sul trono che prima aveva riservato ai suoi dèi. Ed è in quel momento che sono apparse le Vergini. Hanno attinto senza fine dai più reconditi e meschini desideri dell'Uomo, e hanno schiacciato ogni altra fede, divenendo padrone assolute. Ma pur sempre soggette a voi Uomini, a te. Ecco perché ora loro sono qui, per ottenere il tuo favore». Stese quindi una mano davanti a sé e aggiunse: «Potete farvi avanti»
Alle parole di Krys, dall'ombra emersero lentamente, una alla volta, sette figure incappucciate, ognuna con una cappa di colore diverso. Una dopo l'altra si inginocchiarono davanti ad Alfred, che cercava senza successo di sbirciare sotto ai cappucci per poter osservare i volti. Sei di loro si disposero in tre file, a formare un triangolo col vertice rivolto verso l'altare, mentre la settima figura stava un paio di passi più indietro.
Si mise in piedi quindi la prima, che abbassando il cappuccio rivelò lunghi capelli neri come il il mantello che portava, e il viso di una donna meravigliosa, i cui occhi azzurri trafissero Alfred come due stiletti di ghiaccio.
«Salute a te, Alfred. Parlerò per prima io, che son Superba, e delle mie compagne sicuramente sono la più adatta ad iniziare. Possa la tua scelta esserci propizia»
Pur non comprendendo appieno l'auspicio, Alfred le fece un cenno di ringraziamento. Subito le due donne alle spalle di Superba si alzarono e una parlò dicendo «Pur non essendo concordi nella scelta su chi avesse dovuto cominciare, noi ci atteniamo alla decisione presa sebbene, essendo io Invidia, ritengo avrei dovuto io presentarmi per prima»
«Taci, miserabile stracciona!» la interruppe la donna vestita di viola che le stava accanto, ponendo l'accento sul consunto mantello blu che Invidia portava, «o ti farò ricordare perché porto il nome dell'Ira. Quanto a te, Uomo» disse poi rivolta ad Alfred, «fa' ciò che devi, non ti dico altro»
«Certo, che altro potresti dire? Non hai un minimo di classe. Anzi, a dire il vero, non hai niente di niente, al contrario di me»
A parlare fu la prima donna della terza fila, dal fisico smilzo, quasi scheletrico, ma dall'aspetto molto raffinato, vestita di raso verde e piena di gioielli che controllava costantemente di avere al loro posto. La donna corpulenta che le stava accanto intervenne dicendo «A che serve avere classe quando non hai di che sopravvivere, Avara? La gola, è solo la gola che conta, e noi abbiamo bisogno di lui, della sua fede. Io ne ho bisogno»
«Lo sappiamo benissimo che ne hai bisogno» disse la terza donna della fila, che apparentemente sotto al mantello rosso non indossava nient'altro. «Personalmente, la sua fede non mi interessa più di tanto. Io voglio il suo desiderio, i suoi spasmi di passione. Che felicità provo per te, Umano che conosci la Lussuria. Non sapete che vi perdete voialtre, specialmente tu, qui dietro, Accidiosa»
La donna vestita di bianco in fondo al gruppo, apparentemente lasciata in disparte, si fece avanti. «Che importa quale sarà la tua scelta? Per me non cambia nulla. Fate quello che volete, a me sta bene»
«Non fa una piega» le fece eco Superba, con una punta di malcelato disprezzo. «Ebbene, Alfred, avremo quindi il tuo favore?»
«Già» aggiunse Gola. «Potremo essere tue?»
Prima di rispondere, Alfred si fermò a pensare alla sua vita, alle azioni che aveva compiuto, e si chiese cosa avesse guidato la sua esistenza fino a quel momento. Quale dio avesse nutrito. Pensò alle persone che aveva conosciuto, le cose che aveva detto e fatto, e si rese conto che effettivamente era stato preda delle Vergini dal suo primo vagito: col passare degli anni aveva mentito, odiato, evitato scelte, desiderato fino a corrodersi, e poi ucciso per invidia, per gelosia e gola. E tutto per raggiungere lo scopo che in fondo ogni uomo persegue: il proprio vantaggio. Ora capiva perché le sette Vergini avessero acquisito tutto quel potere, perché erano l'esatta proiezione di quello che l'Uomo era già, e non quello che avrebbe potuto o dovuto essere.
Sorrise, e le dee capirono.
Si avvicinarono in ordine sparso verso di lui e lo circondarono, baciandolo e toccandolo ovunque. La sensazione che provò in quel momento fu per Alfred indescrivibile: continui fremiti di piacere lo attraversavano completamente, e l'unica cosa che riuscì a fare fu abbandonarvisi chiudendo gli occhi. Sperò che quel piacere durasse per sempre, ma non fu così. A fargli aprire gli occhi fu Krys, con la sua voce piatta e salda, che ammonì le Vergini con un semplice «Basta», sufficiente a farle bloccare all'istante e farle indietreggiare di un passo.
«Che succede?» chiese Alfred.
«Devi andare ora»
«Dove?»
«A morire»
Gli occhi di Alfred per poco non gli uscirono dalle orbite. «Cosa? Che significa?»
«Significa quello che ho detto» rispose Krys. «Hai fatto la tua scelta, ora dovrai portarla a compimento. Per nutrire e divenire parte delle Vergini, dovrai morire. E la tua condanna non è stata ancora eseguita»
Come un profondo scossone, di colpo Alfred ricordò dove si trovava fino a poche ore prima: ricordò la fredda cella che così poco calorosamente lo ospitava nell'attesa dell'esecuzione, gli altri detenuti, i secondini...si disse che non sarebbe più tornato lì, e lo ripetè ad alta voce. «No, lì non ci torno»
«Mi spiace Alfred, deve essere così. L'hai deciso tu»
«No!» urlò battendo il pugno sul bracciolo del trono. Si alzò e si girò verso il gruppo formato dalle Vergini e il sacerdote. «Voi non avete idea di cosa significhi stare lì: le miserie, le meschinità...»
Mentre parlava, Alfred non ci fece caso, ma le Vergini sorridevano malignamente tra di loro, scambiandosi cenni d'intesa: ormai era in loro pugno.
«Ed è proprio per questo che devi tornare, perché è questo che rende gli Uomini ciò che sono, e ciò che sei tu»
«Allora dovresti sapere anche che dovrete costringermi»

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Alfred non ci pensò due volte: si girò e cominciò a correre a perdifiato nella penombra. Sperava di guadagnare l'uscita, mentre sentiva in lontananza le risate delle Vergini, più simili tuttavia ad urla terrificanti di nera gioia, che coprirono le ultime parole di Krys: «Come preferisci». Si avvicinò alla stele e col dito aggiunse in calce il nome di Alfred, tornando poi nello stato pietrificato in cui l'Uomo l'aveva trovato.
Nel frattempo Alfred era quasi arrivato all'uscita, intravedeva il rosone della facciata, e stava per ringraziare il cielo di essere giunto all'ingresso, ma si rese conto di quanto quella frase avesse perso senso dopo quello che aveva scoperto, a patto che fosse tutto vero. Aperto il portone, voleva continuare la sua fuga sotto la pioggia, ma la vista sull'uscio del cane incontrato precedentemente con le guardie lo paralizzò. L'animale con un balzo cercò di azzannarlo al collo, e Alfred istintivamente si protesse con un braccio, che fu così addentato. Le urla di dolore arrivarono rapide alle orecchie delle guardie poco lontane che stavano accorrendo affannosamente, tanto rapidamente quanto i denti del mastino lacerarono la manica dello smoking ed affondarono nella carne. Alfred invocava disperato aiuto, ma il cane sembrava insistere sempre più nella sua morsa.
Poi si fermò.
Accecato dal dolore, Alfred riuscì ad intravedere appena le quattro figure delle guardie avvicinarsi a lui, una delle quali aveva in mano un fischietto sottile ad ultrasuoni.
«Visto Rufus, che ti avevo detto? Ecco il nostro fuggiasco. Su, riportiamolo indietro»
«Sì, Capo» rispose Rufus con la stessa voce insicura con cui si era rifiutato di ispezionare il vicolo qualche ora prima. Cercò però di darsi un tono una volta davanti ad Alfred, che giaceva inerme a terra e si teneva stretto al petto il braccio sanguinante.
«Dove pensavi di andare, eh Umano? Non è posto per te questo, non ancora almeno»
Estrasse quindi dalle tasche degli anelli che infilò ai polsi del prigioniero, e poi una struttura rettangolare per unirli ed immobilizzarli. Al bloccaggio delle manette, gli anelli si ispessirono fino a bloccare i polsi e la struttura centrale si illuminò, mostrando diverse cifre. Rufus diede un'occhiata e chiamò il suo superiore affinché chinandosi vedesse anche lui.
«Guarda guarda» disse questi, scrutando il suo sguardo, come fosse in cerca di qualcosa nei suoi occhi. «Pare che tu sia venuto qui per prendere confidenza col posto, vero?». Si alzò ed osservò soddisfatto il viso dolorante di Alfred, prima di estrarre la pistola dalla fondina e puntargliela in fronte. Alfred cercò di muoversi, ma le sue manette cominciarono ad emettere un segnale sempre più forte, mentre il suo corpo diventava pesante fino a risultare completamente immobilizzato. Il rumore emesso dalle manette era diventato talmente forte che Alfred quasi non sentì le parole della guardia, che non ne sembrava per nulla infastidita. Caricò l'arma e si congedò sorridendogli ancora.
«Bene, fai buon viaggio Alfred, e a prestissimo»
Il segnale acustico svanì, e la guardia premette il grilletto.


Fino ad un attimo prima della sua fine, Alfred si sentiva completamente padrone di sé, e fu questo che lo spaventò di più. 
Dopo, più niente. Di nuovo il mondo si spense ai suoi occhi, coperti da un manto che, se all'inizio di  questo suo viaggio nero e buio come il vicolo in cui si era svegliato, stavolta appariva di una luce bianchissima, mentre lui era sospeso a mezz'aria, quasi galleggiando. Immaginava di provare la stessa sensazione di un neonato che sta per nascere e trascorre le sue ultime ore nel caldo e sicuro grembo materno, prima di essere accolto in un mondo che lo avrebbe storpiato moralmente, truffato, tradito, e che in fondo (Alfred ne era sicuro) non lo voleva affatto.
Una volta di più non sapeva che fine avesse fatto, ma stavolta non gli importava nulla, perché si sentiva bene: la ferita al braccio era sparita e quel caldo grembo gli piaceva davvero.
Poi lentamente la luce si spense: lento ma inesorabile, il candore cedeva il posto al grigio e poi al nero, mentre Alfred urlava senza voce, nudo, proprio come un neonato, e la sua disperazione aumentava ad ogni secondo. Venne quindi la notte, e un attimo dopo Alfred cadde, come rilasciato dalla sottile rete su cui era stato fino a quel momento adagiato. Ma la caduta fu brevissima, appena qualche centimetro. Strizzò gli occhi per il dolore causato dall'urto della schiena col duro e freddo pavimento, e urlando si accorse di avere di nuovo la voce.
«Ehi, cella ventisette»
La voce fastidiosamente familiare di uno dei secondini lo sorprese facendolo scattare in piedi.
«Piantala di urlare e agitarti. Vai in fondo alla cella piuttosto, è quasi ora»
Era davvero nella sua cella, e la cosa non gli piaceva affatto. Si sentiva scosso, gli girava la testa e aveva una fame tremenda, ma tutto questo passava in secondo piano davanti all'esigenza di capire se tutto quello che aveva visto e sentito l'aveva solo immaginato, o se da qualche parte Krys e le Vergini stessero davvero aspettando la sua prossima mossa.
«Guardia, che giorno è oggi? Che ore sono?»
La guardia gli sorrise con uno di quei ghigni che bene aveva imparato a conoscere. «Oggi? È sant'Alfredo abbrustolito, e quanto all'ora, ti basti sapere che hai giusto il tempo per un'ultima pisciata»
Aggrappato alle sbarre della sua cella, Alfred si lasciò cadere sconcertato. Era stata una splendida ma fugace illusione la sua: proprio quando aveva deciso di concedere il beneficio della possibilità a quell'assurda storia, era stato scaraventato indietro alla sua miserabile realtà. Tra poco sarebbe morto, e a nessuno sarebbe importato della sua fede. Strinse i pugni per la rabbia, e solo allora si accorse che la manica destra della sua divisa carceraria era lacera. Scostando un lembo vide lunghe cicatrici sull'avambraccio, all'apparenza vecchie di anni, come fossero ferite d'infanzia, anche se lui sapeva bene quale fosse l'unica occasione in cui se le sarebbe potute procurare.
Era salvo. Sorrise al suo braccio, e poi cominciò a ridere, sempre più forte. Si sentiva felice come un bambino a cui era stato promesso che dopo la visita dal dentista sarebbe stato accompagnato al luna park. Si presentarono tre secondini alla porta della cella, accompagnati dal cappellano del carcere. «Cos'hai da ridere, morto che cammina?» gli disse una delle guardie mentre apriva la porta.
«Nulla» rispose Alfred, «sono contento. Posso, signore?»
«Ah certo che puoi, e tra poco lo sarai ancora di più, promesso»
Il prete fece un timido passo avanti e si schiarì la voce: «C'è qualcosa di cui vuoi pentirti, figliolo? Qualcosa di cui vuoi parlarmi prima di andare?»
Alfred a stento tratteneva le ristate. «Non si preoccupi, padre. Ho già tutto quello che mi serve: la mia fede»
«Ne sono contento, ragazzo, così andrai in pace»
«La ringrazio, ma dubito fortemente che si rallegrerebbe se conoscesse la mia fede»
I secondini nel frattempo gli avevano legato mani e piedi, così lo condussero nel corridoio del braccio della morte.
«Ehi, gente» urlò Alfred «attenzione: uomo di fede che cammina! Ci vediamo davanti al Tempio dell'Uomo!»

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