Scusa ma ti chiamo amore

di Depp is perfect
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 9: *** capitolo 7 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 11: *** capitolo 9 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 14: *** capitolo 12 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 20: *** Capitolo finale ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


«La mamma dice che non si fuma», squittii, facendo sobbalzare Johnny che se ne stava in tutta tranquillità a fumare una sigaretta, sdraiato sulla sedia sul retro del giardino di casa.
«Non è una sigaretta vera: è fatta di cioccolato», mentì sorridendo e lui lo sapeva fare così bene che una bambina ingenua come me ci cascò.
«Me ne dai una?»
«Non sono per i bambini»
«Il cioccolato è per tutti!», replicai imbronciata, scrutandolo poi attentamente in ogni minimo dettaglio mentre aspirava il fumo e lo cacciava dalle narici. «E poi la cioccolata non caccia fumo: non è vero! Non è finta!», aggiunsi un paio di minuti dopo, urlando da brava mocciosa qual’ero.
«Sssh! Non vorrai dirlo a zia Betty, vero?», sorrise sornione. Lo guardai confusa prima di sorridere anche io.
«Solo se mi dai la cioccolata», borbottai. Lui si alzò ridendo e lanciò via il mozzicone, cacciando il fumo dalle labbra mentre si avvicinava a me.
«Hai capito tutto della vita, tesoro», sorrise arruffandomi i capelli.


Mi piaceva ricordare Johnny così, come quel ragazzo dai capelli sempre gelatinati, naso piccolo, occhi scuri e due simpatiche fossette quando mostrava uno dei suoi sorrisi smaglianti.
Mi piaceva ricordare quando le sue braccia forti mi stringevano per farmi il solletico e mi sollevavano in aria per farmi fare l’aeroplanino , quando nascondeva una caramella tra le mani e dovevo indovinare in quale delle due fosse, per poi scoprire che non avrei potuto mai perdere perché ne aveva una sia nella mano destra che nella sinistra.
Mi piaceva vedere quell’uomo in televisione e sui giornali e associarlo a quel ragazzo ribelle che fumava di nascosto mentre io tenevo il segreto, così dolce e simpatico.
Erano passati più di vent’anni da quando Johnny era un ragazzino pieno di sogni ed io una poppante in cerca di un compagno di giochi, più di vent’anni dall’ultima volta che l’avevo visto. Eppure era stato così importante, così speciale per me da avere sempre impressa nella mente la sua immagine, sebbene i contorni fossero sfumati. Faceva un altro effetto, c’era da ammetterlo: se guardavo quello che ora era diventato quasi stentavo a credere che fosse il mio Johnny se non fosse per il fatto che si chiamava John Christopher Depp II, nato a Owensboro in una calda giornata del 9 giugno 1963, se non fosse per il fatto che aveva conservato il suo sguardo vivace e le fossette che adoravo riempire di baci. Ora era un uomo di carriera, l’attore più bravo della terra, sposato e con due figli, amato e stimato in ogni parte del mondo. Era tutto così diverso: lo vedevo alla televisione, al cinema, sui giornali, ed era diventato per me quasi un idolo come lo era tantissimi anni fa, ma in maniera un po’ diversa… Non avrei mai potuto dimenticarmi di Johnny, ero l'unica ad averlo chiamato per prima così ed ero rimasta sorpresa la prima volta che lo avevo visto sul grande schermo e lui si era presentato al mondo con quell'appellativo. Almeno qualcosa di me gli era rimasto, una piccola parte di quello che eravamo: Johnny ed Elle, Elle e Johnny. Non riuscivo mai a chiamarlo John Christopher, non mi piaceva, e così un giorno mi uscì dalla bocca “Johnny”. Eravamo come due migliori amici a quel tempo, anche se io ero solo una piccola bambina mentre lui già un giovanotto seguito ed ammirato da giovani ragazze con le gambe lunghe un chilometro e minigonne aderenti. Mi ricordo quando lo vedevo sparire con loro e io lo aspettavo nel vialetto per giocare con lui e vi rimanevo fino a notte fonda, almeno finché la mamma non mi richiamava, dicendomi che era ora di andare a letto.  Avevo quasi paura di guardarlo e trovarlo così diverso tanto da non riconoscerlo e mi domandavo spesso se lui si ricordasse ancora di quella bambina vivace dalle lunghe treccine. Mi aveva mai più pensato da quando ci eravamo separati? Probabilmente no, in fondo ero solo la figlia dei suoi vicini di casa, non avevo il diritto di essere importante per lui.
Anche della signora Depp, la dolce “zia Betty”, conservavo un bel ricordo: mi chiedeva sempre “una mano” per preparare le sue fantastiche torte al cioccolato e passavo più della metà del mio tempo a casa loro. Quante volte mia madre mi aveva detto che dovevo lasciarli stare in pace!
Mi veniva da ridere se pensavo alla prima volta che vidi Johnny in mutande! La mia memoria fotografica mi permetteva di dire che aveva dei boxer azzurrini con i bordi bianchi. Ricordo di aver sgranato gli occhi sorpresa e di aver voltato la faccia prima di scappare via terrorizzata, urlando per tutto il viale che Johnny era nudo. E ricordo anche al risata che si erano fatti lui e sua madre il giorno dopo, quando ero ritornata a casa loro con la coda tra le gambe.

«Fai bene, Elle. Scappa sempre dagli uomini nudi!», sussurrò Johnny, prendendomi in giro, accovacciandosi per essere della mia stessa altezza.
«Perché? Uccidono le bambine?», chiesi ingenuamente con una vaga espressione di confusione.
«Più o meno», ridacchiò.
«E come?»
«Usano una pistola»
«Come quella nei film?»
«Tutti i maschi ne hanno una, tra le gambe, e…»
«Johnny!», intervenne Betty interrompendolo, prima di dargli uno schiaffetto dietro la testa. «Ma cosa diavolo le racconti?! Oh povera bambina! Vieni con me, tesoro… l’unico da cui devi stare alla larga è questo cattivone qui», farfugliò la donna, prendendomi dolcemente tra le braccia e portandomi fuori in giardino.
«Perché? Ha anche lui una pistola?»


Ora ero veramente scoppiata a ridere. Sperai vivamente che nessuno si ricordasse più di tutti quei imbarazzanti episodi.
Ah, coraggio Elle, muoviti! Si è fatta ora di andare! Mi preparai di tutta fretta e afferrai la mia borsa di lana colorata, fermandomi qualche secondo dinanzi allo specchio per controllare che il rossetto non si fosse sbavato e che il cappellino di lana stesse al posto giusto. Uscii fuori di casa, lasciandovi dentro il cellulare, i pensieri, i ricordi. Era bello lasciarsi andare ai ricordi d’infanzia, ma erano pur sempre solo ricordi: se c’era una cosa che mio padre mi diceva sempre era che non andava MAI scambiato il futuro per rimpiangere il passato.Il tempo dei giochi è cessato da un bel po’, ormai sono una donna! Una donna con un passato che il cuore non smette di rinnegare ed un futuro con troppi svincoli. Johnny farà sempre parte di quel passato che non potrò mai cancellare dalla mia memoria. I suoi occhi mi hanno guardato dentro troppo a lungo... Del resto lascio fare al destino...
 

Salve a tutte voi amanti del più grande attore mai esistito sulla faccia della terra! u.u
Volevamo -sì, al plurale- iniziare col dire che questra storia è il frutto di 4 manine e 2 menti malsane e contorte per onorare il più grande uomo mai esistito...l'unico e vero Johnny Depp *O*
Per caso ci siamo incontrate qui, su Efp, e abbiamo legato subito, accomunate dallo stesso amore per Johnny!
Ci presentiamo: Siamo Aishia e Princess of Dark, già appartenenti al grande popolo di efp, e molto probabilmente ci conoscerete già Quindi salutiamo con grande affetto chi ci conosce e diamo un caloroso benvenuto ai visi nuovi: chi ama Johnny è SEMPRE il benvenuto u.u (accettiamo donne, uomini, bambini, animali, piante e esseri non classificati!)
Beh...abbiamo deciso di sperimentare un qualcosa di nuovo, spero apprezziate ciò che abbiamo iniziato a creare!
Qui sotto c'è il Johnny dell'età adolescenziale (?) descritto nel prologo :P
Speriamo che il prologo sia di vostro gradimento ^^

Un bacio A & P  



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Le pagine dei nostri profili: Princess http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=177714
Aishia: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=185674

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


"Non è giusto a volte riaffrontare i fantasmi del passato"
La coincidenza ci farà incontrare e chiamalo destino quel percorso naturale


Guardavo la mia immagine riflettersi sul piccolo specchio opaco del finestrino, mentre l’ambiente circostante procedeva troppo velocemente, rapidamente , non facendomi gustare il meraviglioso paesaggio attorno a me.
Il percorso che stavamo facendo con la piccola Volvo grigia metallizzata mi sembrava identico a quello di vent’anni fa: anche le case sopra quella collina erano le stesse, sebbene sembrasse che avessero perso la loro magia nel corso del tempo. Niente di quello che avevo lasciato era cambiato o forse ero io a ricordarlo troppo bene. Tutto era colorato come un tempo e anche la prateria non sembrava essere mutata di una virgola. Quante volte avevo temuto che si fosse seccato tutto!
«Siamo arrivati», sussurrò flebilmente mia madre al posto di guida, mentre un piccolo sorriso malinconico spuntava tra le sue labbra sottili. Sentì il tamburellare del mio cuore che mi sussultava spasmodicamente nel petto ed ebbi paura che anche lei l’avesse sentito.
Finalmente intravidi le piccole casette a me familiari, posizionate l’una vicina all’altra e separate da piccoli pezzi di giardino. Erano passati più di vent’anni da quando avevamo lasciato Owesboro,la mia piccola città natale. Ero molto piccola quando mi trasferii in Italia, ma tutto era impresso nella mia mente come se non me ne fossi mai andata, come se avessi tenuto i ricordi di quel luogo impressi nella mente -o meglio- nel cuore.
L’auto si fermò di colpo di fronte ad un cancello di ferro rovinato e il mio sguardo andò a finire sulla piccola casetta dopo quell’immenso prato incoltivato, pieno di fiori ed erbacce che erano cresciuti senza freni durante tutti questi anni. Era tra le poche ad essere così malandata.
«Ci vorrà una bella sistemata!», esclamò mia madre con un tono sarcastico.
«Tanta fatica e litri di caffè», continuai con un cenno di noia se solo immaginavo la fatica che ci sarebbe voluta per mettere a lucido la casa. Scesi dalla macchina e cominciai ad avviarmi verso di essa. Venni percorsa da un brivido: ricordavo ogni piccolo particolare, ogni centrimetro di quell’ambiente, era tutto molto invecchiato ma vivibile. Mi guardai intorno, chiusi gli occhi e respirai quell’odore che proveniva dalla casa, dal mio nido passato. L’odore della mia infanzia, l’odore dei ricordi molto simile al profumo delle pagine di un vecchio libro. Fu allora che mi sentii invadere da un senso di malinconia. Mi era mancato tutto questo!
Lo stritolio della porta mi fece destare dai miei futili pensieri. Mi voltai lentamente, trovando la figura di mia madre entrare con due enormi valigie, entrambe rivestite da una pelle nera e dai manici marroni. Anche lei era cambiata molto da allora: molto più magra, con qualche filo bianco tra i voluminosi capelli scuri e qualche ruga ad incorniciarle il viso ovale. Anche lei, come me, aveva guardato con uno sguardo malinconico e nostalgico quel lungo corridoio e quel soffitto rudimentale, probabilmente sconvolta dai miei stessi pensieri, probabilmente soggetta dalle mie stesse paura e i miei identici timori.
«… Ci siamo…», sussurrò a denti stretti socchiudendo gli occhi. Mi avvicinai a lei, prendendo la valigia, non prima di averle dato un piccolo sguardo di sfuggita.
«Finalmente siamo ritornati nella nostra vecchia vita, mamma». Un piccolo sorriso spuntò tra le sue piccole labbra, più di incoraggiamento che di felicità secondo me.
«Non sempre è giusto riaffrontare i fantasmi del passato».
Ed è così che avrei ricordato mia madre: una dolce donna sulla quarantina, sempre con un sorriso sulle labbra nonostante tutto quello che aveva dovuto affrontare nel corso della sua vita. Il tempo era stato troppo duro con noi, soprattutto con lei, che aveva dovuto pagarne le conseguenze. Mio padre, quando avevo la tenera età di sette anni, era andato via con un’altra donna. “Solo una cliente” aveva detto. Sì. Una cliente… infatti circa due settimane dopo ci aveva lasciato per mai più ritornare. Ricordo ancora le piccole lacrime fuggenti di mia madre che non voleva mostrarsi così debole e che aveva dovuto ingoiare l’orgoglio. L’aveva lasciato andare: non gli avrebbe mai permesso di restare se non si trovava bene e non era felice della sua famiglia! Questo mio fratello David non glielo aveva mai perdonato: “vai mamma! Vai a riprenderlo… corri mamma!”. Come se la colpa fosse stata solo della mamma e che papà fosse stato solo una vittima delle circostanze. Al compimento dei suoi 18 anni se n’era andato anche lui, senza dire nulla e non facendoci avere più sue notizie. Chissà che fine aveva fatto pure lui… perché la gente tende a scomparire?! Quello fu il periodo più triste per la nostra famiglia e fummo costretti per vari problemi, tra cui economici, a cambiare città, trasferendoci in un paesino vicino Venezia, giurando di non ritornare mai più in quest’assurda cittadina troppo ricca di ricordi. E a mia madre era pesato ritornarci: le faceva troppo male sentire ancora le risate di papà e di David per quelle quattro mura oppure, quando felici e spensierati aprivano i regali di natale vicino all'enorme caminetto nel grande soggiorno, ridendo come matti mentre scartavano la carta argentea. David entrava sempre in uno stato confusionale allo scartale dei regali! E quante risate, ricordo di non aver mai riso così tanto. A quel tempo credevo di essere felice per sempre, noi quattro: io,David,mamma e papà… ma alla fine i sogni son desideri e il mio si è disciolto il giorno in cui papà e uscito dal vialetto con quella bellissima donna dai capelli rosso fuoco e due occhi chiari come il ghiaccio. Non dimenticherò mai quello sguardo. Mi ricordo ancora il giorno stesso della mia partenza:
«Ti ricorderai di me Johnny?», sussurrai con i lacrimoni che fuoriuscivano imperterriti, mentre dentro di me cercavo la forza per essere forte e non far soffrire la mia mamma, che altro non desiderava se non vedermi felice.
«Non potrei mai dimenticarmi della mia piccola Elle…», mi sussurrò il giovane ragazzo dai capelli gelatinati e un piccolo sorriso di conforto ad incorniciargli il volto, mentre la zia Betty, dietro di lui, si asciugava con il terzo fazzoletto, sicura che non sarebbe finita la.
«Amici per sempre?», gli porsi la mano con il ditino rialzato. Quella era una promessa e in quel modo Johnny avrebbe dovuto rispettare il patto a qualunque costo! Era una promessa dopotutto…
«Amici per sempre», sorrise stringendomi il ditino.
Ma quel patto fu disfatto con il passare del tempo, degli anni, dei decenni…
Sorrido a quel ricordo,anche se avevo una gran voglia di piangere. L’unica cosa che volevo era rivedere coloro che avevano fatto parte del mio passato, come la cara zia Betty, la mia seconda madre. Morivo dalla voglia di sapere se stava bene e se si ricordava ancora di me.
Poggiai la mano sulla liscia superficie del muro legnoso, accarezzando quelle pareti levigate e rifinite.
«So a cosa stai pensando», sussurrò mia madre, poggiando la mano sulla mia spalla e guardandomi con lo sguardo di chi la sapeva lunga. «Vai: qui ci penso io! Più tardi passerò a salutare anch’io Betty». Le sorrisi, ringraziandola con lo sguardo, prima di uscire dalla porta e dirigermi verso la casa accanto.
Uscii dal cancello: dopo quella piccola stradina si trovava la casa di Johnny… chissà cosa faceva in questo momento! Anche se molto probabilmente si trovava a Los Angeles con la sua famiglia. Attraversai la strada, con il cuore in gola e le gambe che mi tremavano non permettendomi di proseguire adeguatamente. Poi tutto accadde in un attimo:
sentì un clacson squillante, il rumore dello sgommare delle ruote e il brusco fischio del freno. Mi voltai lentamente e vidi quella scena procedere a rallentatore come in un film, accorgendomi troppo tardi che una macchina mi stava travolgendo! Ora capivo il senso della frase “prima di morire ti scorre tutta la vita davanti gli occhi”. In un attimo infatti ritornai bambina, chiusi gli occhi per non vedere la mia fine e mi coprii il volto con le mani. La cosa più assurda era che stavo per morire e non facevo nulla, non riuscivo a muovermi, incapace di comandare al mio corpo di spostarsi dalla strada. Sentii solo la frenata incessante della vettura e poi il nulla…
Ero morta? Probabilmente sì… ma non sentivo nulla! Credevo almeno di sentire qualche dolore lancinante in qualche parte del corpo, ma nulla…
«Sta bene?». Sentii uno sportello che sbatteva e in vicinanza una vocina con un tono piuttosto in apprensione. Riaprii gli occhi, ritrovandomi la figura di un uomo dall’aria piuttosto somigliante davanti gli occhi.
«Signorina sta bene?», continuò l’uomo. Non sentì più le gambe e mi sentì quasi svenire e probabilmente lo feci, perché mi ritrovai sull’asfalto. No! Che dico… mi ritrovai tra le braccia di quell’uomo.
«Chiamo un ambulanza», increspò l’omone.
«No! Sto bene… credo… Ma tu sei…». I miei occhi si spalancarono immediatamente e il mio cuore cominciò a tamburellare incessantemente quando realizzai chi avevo davanti. «Ma tu sei Johnny!», esclamai, portandomi le mani alla bocca, sentendo gli occhi velarsi dalle lacrime. In quel momento non seppi cosa provai esattamente: gioia, felicità, commozione, nostalgia, rabbia, amore. Era il mio Johhny! L’uomo che avevo desiderato di rivedere negli ultimi vent’anni e che speravo ancora di incontrare mentre tornavo alla mia vecchia casa. Anche se non avevo più davanti un ragazzino dai capelli gelatinati e un sorriso da ragazzino ma avevo di fronte un uomo, ogni mio timore di non riconoscerlo svanì: i suoi occhi scuri e intensi mi dicevano tutto ed erano così familiari: era lui! Era Johnny, il mio Johnny.
Lo abbracciai di scatto, desideravo di stringerlo forte da tempo, respirando il profumo della sue pelle che un tempo mi aveva dato sicurezza e cercando di imprimere nella mia mente quell’istante così pieno di emozioni. Lo sentii irrigidirsi mentre mi teneva ancora per la schiena per evitare che sbattessi a terra.
«Ehm… signorina…?», mormorò a disagio e rapidamente mi ritirai, allontanandomi da lui.
«Oh! Scusami! È che… era da tempo che…»
«Ci conosciamo?». Lo osservai sbattere le ciglia ripetutamente, guardandomi confuso. Il quei pochi attimi il mondo mi crollò addosso. Ci conosciamo? CI CONOSCIAMO?!
«A quanto pare no… ma io conosco te», mormorai con l’amaro in bocca. Johnny mi aveva dimenticata. Io ero restata a soffrire come un cane e lui mi aveva completamente rimossa dalla sua mente. Evidentemente quella piccola promessa che ci eravamo fatti prima della mia partenza erano solo parole, frasi discontinue dette senza un motivo preciso, le solite favolette che si raccontano ai bambini per farli smettere di frignare. In quel momento mi accorsi di non essere mai stata importante per lui. Come potevo? Ero solo una bambina «Sei il mio attore preferito», aggiunsi, sperando che bastasse per giustificare quel mio atto disperato. Mi morsi il labbro inferiore, trattenendo le lacrime. Delusione, la mia era delusione allo stato puro, amara come il cioccolato fondente.
«Ah, allora sei una di quelle fan pazze sfegatate che perseguitano il loro idolo?», scoppiò a ridere, allungando una mano per aiutarmi a sollevarmi.
«No», ringhiai, scostandomi immediatamente dalla sua presa. Come diavolo osava darmi della “pazza fan sfegatata”?! Quello che prima era dispiacere divenne rabbia. Mi misi in piedi e sentii la caviglia tirarmi. Mugolai qualcosa e zoppicai prima di inciampare. Di nuovo le sue mani m’impedirono di baciare il terreno e mi ritrovai ad un soffio dal suo viso perfetto.
«Ti porto da un dottore»
«Non ne ho bisogno, grazie»
«Oh sì invece! E mi sento anche in colpa, potevi rimanerci secca…»
«Veramente stavo andando…»
«Ci andrai dopo. Prima ti accompagno in ospedale». Il suo tono duro non mi permise di replicare. Mi spinse sulla sua auto e mise in moto. Sospirai, non sapendo se ringraziare o maledire la sorte che mi aveva fatto quasi investire da lui. Quando si dice che il destino fa brutti scherzi. Nel mio caso non aveva proprio nient'altro che fare!
«Dovrei farti causa e farti ritirare la patente: uccidi la gente se guidi così», scherzai, anche se in cuori mio cercai di sembrare più seria possibile. Cominciai a tormentarmi le mani, mentre le gambe mi tremavano. Inalai aria e cercai di tranquillizzarmi.
«Sei tu che sei comparsa all’improvviso!», replicò dopo diversi attimi come se stesse cercando la giusta scusa, accendendosi una sigaretta. Storsi il naso e lui mi guardò. «Ti spiace se fumo?». Non era il fumo che mi infastidiva: era il fatto che ero talmente insignificante per lui mentre per me era stato tutto! Quei gesti erano talmente familiari che mi salì un gran magone sullo stomaco e fui costretta ad ingoiare quel nodo che mi si era formato alla gola.
«Figurati, è la tua auto». Riprese ad aspirare il fumo, osservandomi di tanto in tanto sottocchio. Sì, era cambiato come temevo purtroppo. Parcheggiò l’auto nello spazio riservato ai pazienti del Green Hospital e mi aiutò a farmi scendere.
«Appoggiati alla mia spalla»
«Ce la faccio a camminare!»
«Uh-uhm si è come dici tu, ora però appoggiati alla mia spalla», sorrise afferrandomi il braccio. Lo osservai scettica.
«Mi prendi in giro?», borbottai.
«Sei sempre così ostile con chi ti vuole aiutare?!»
«Sì, se ha cercato di mettermi sotto», farfugliai e lui alzò gli occhi al cielo. Mi appoggiai a lui e mi feci aiutare mentre raggiungevamo la sala d’attesa. Cinque persone da aspettare prima del nostro turno. Johnny sbuffò, grattandosi la testa.
«Mi dispiace, ti sto facendo perdere tempo», mormorai a testa bassa sinceramente avvilita.
«Figurati», farfugliò in un tono di voce che sembrava tutt’altro che sincero. Il Johnny di prima si preoccupava PER me anche se mi sbucciavo un ginocchio mentre ora si seccava a restare ad aspettare un paio di turni. Era mortificante da un lato essere un simile peso, mentre dall’altro era faticoso guardare in faccia alla realtà. Arrivò il nostro turno dopo circa mezz’ora: Johnny camminava avanti e dietro per la sala parlando al cellulare prima in francese poi in inglese, fumando un paio di sigarette fino a quando non gli fecero notare il cartello “don’t smoke” e lui aveva sussurrato un “sorry”con un tono tra l'imbarazzato e il mortificato. Il dottore mi aveva esaminato, dicendo poi che era soltanto una distorsione che sarebbe guarita nel giro di una settimana se restavo a riposo e massaggiavo con una crema che mi aveva prescritto.
«Posso offrirti un caffè? Sono stato scortese prima e vorrei rimediare», mi sorrise infine. Alzai lo sguardo per incrociare i suoi occhi color cioccolato e supposi che stavolta doveva essere sincero.
«Non andavi di fretta? Non vorrei esser-»
«Ormai sono già in ritardo. Rimanderò i miei impegni a domani», mi fece un occhiolino. Lo guardai esitante. «E poi… non capita tutti i giorni di investire una ragazza tanto carina», aggiunse sorridendo furbamente. Mi diede una vaga impressione di Jack Sparrow e non potetti fare a meno di arrossire e sorridere come una deficiente a quel complimento. Neanche io mi ero soffermata molto su di lui: indossava dei jeans chiari stracciati, una camicia bianca e azzurrina, portava i capelli spettinati e un pizzetto di barba. Lo adoravo con i baffi, così carini come li portava adesso. Che magia aveva fatto per diventare così dannatamente sexy?!
«Allora? Accetti il mio invito?», sorrise, porgendomi il braccio.
«Dovrai trascinarmi di peso però», scherzai, aiutandomi con il suo braccio per entrare in macchina. Accese un’altra sigaretta.
«Sei stressato?», gli chiesi ingenuamente.
«Eh?»
«Stai fumando di continuo: cosa ti mette in agitazione?», sorrisi. Ricordavo perfettamente quando da bambina lo vedevo fumare perché era arrabbiato o nervoso. Si vedeva dall’intensità con la quale aspirava e cacciava fuori il fumo, divorando la sigaretta come se fosse il suo peggior nemico.
«Come fai a sapere che fumo quando sono agitato?», borbottò curioso. Spalancai gli occhi prima di sorridere e guardai da un’altra parte per nascondere l’imbarazzo.
«Oh ehm… ho una grossa capacità di vedere dentro persone», risi nervosa.
«Mmh… lo sperimenteremo». In qualche modo, quella affermazione mi fece rabbrividire. Arrivammo in un piccolo bar affollato da persone di ogni genere, Johnny indossò degli occhiali scuri –sicuramente per tentare di non farsi riconoscere- ed entrammo, sedendoci ad un tavolino vicino all'enorme veranda. Un cameriere arrivò dopo due secondi.
«Cosa prendono i signori?». Johnny mi guardò ed io annuii poi ordinò due caffè zuccherati.
«Non vivrei senza caffè», disse infine, sorseggiando la sua bevanda. Accostai la bocca alla tazzina, scottandomi la lingua. Mi ritrassi, imprecando sottovoce mentre strizzavo gli occhi dal dolore. Lo sentii ridere di buon gusto.
«Non è il tuo giorno fortunato, eh?»
«Dipende da quale punto di vista considero la situazione», farfugliai, tastandomi la lingua. Rise ancora.
«Non conosco ancora il tuo nome»
«El…enore», farfugliai. Sì, avevo appena mentito a Johnny. Stavo per dirgli il mio vero nome, cosa che non volevo affatto fare: avevo paura che pronunciare il mio vero nome potesse suscitare in lui qualche strana reazione. Non so il vero motivo per cui mentì, ma fu una cosa più forte perfino di me stessa. Non potevo piombare nella sua vita dopo vent'anni e volermi intrufolare come se non fosse successo nulla: se mi aveva dimenticata c’era un motivo. La verità sarebbe stata inutile, non sapevo nemmeno se dopo quel giorno lo avrei più rivisto.
«Eleonore», ripeté con un tono di voce così profondo da far rabbrividire. «Posso chiamarti solo Elle? Hai un nome lunghissimo», aggiunse. Trasalii, ricordando le mille volte che aveva pronunciato il mio nome anche se a me parve che lo facesse per la prima volta.
«Oh, s-sì… come vuoi…», mormorai sorpresa.
«Sai, il tuo nome ha qualcosa di familiare… mi ricorda…». Il cuore mi salì in gola e lo guardai nell’attesa che continuasse.
«Si?», sussurrai sperando che dicesse finalmente quelle parole.
«Mmh nulla, lascia stare», mi sorrise, tornando a sorseggiare il caffè. Annegai anche io il mio dispiacere nel caffè, giusto per ingoiare quel groppo che si era fermato alla gola.
«Dov’è che stavi andando?», mi sorrise poi.
«Ehm… sai che non lo ricordo?», ridacchiai, deviando la discussione, sperando che annegasse quella sua curiosità nella tazza di caffè.
«Certo che sei proprio strana», rise lui. Mentre lo guardavo ridere non potevo fare a meno di osservare il suo profilo perfetto, incatenata a quegli occhi sempre vispi e divertiti, sempre con quel bagliore che lo avevano caratterizzato da sempre.
«Beh, eri nei paragi della casa dei miei genitori… abiti anche tu da quelle parti?», mi chiese interessato. Johnny era sempre stato il tipo che adorava più ascoltare gli altri che parlare di sé: ti lasciava il giusto spazio per poter parlare e lui ascoltava interessato e paziente.
«Non proprio», farfugliai e mai come allora mi accorsi che non avevo per niente imparato “l’arte del mentire”. Un paio di squilli di telefono mi costrinsero a staccare gli occhi da Johnny per frugare nella tasca. Guardai il display illuminato, scrutandolo perplessa.
«Chi è?»
«Oh, ehm, ecco…», farfugliai.
«Perdonami! Sono stato invadente, non volevo», sorrise due secondi dopo. Ricambiai divertita.
«Non ne ho la più pallida idea: è un anonimo»
«Mmh a me arrivano di continuo telefonate di questo genere», farfugliò con indifferenza, leccandosi le labbra per assaporare l’aroma del caffè. Oh Dio, Johnny non può leccarsi le labbra in quel modo dinanzi a me!!
«E non rispondi?», aggiunse, quando il cellulare riprese a squillare insistentemente per la terza volta. Guardai lo schermo agitata.
«No», borbottai. «Odio questo genere di cose. Sarà qualcuno che ha voglia di scherzare». Premetti a lungo il dito sul tasto rosso e il cellulare si spense. Chiunque avesse osato rubare un solo secondo a questo benedetto caffè con Johnny sarebbe stato molto, ma molto in pericolo!
Uscimmo tutte e due un po’ controvoglia da quel posticino caldo. Un vento freddo sibilò facendomi rabbrividire quando sferzò il mio viso. Johnny mi guardò e senza esitare si tolse con fare cortese la giacca scura per poggiarmela sulle spalle. Lo guardai sorpresa, ringraziandolo con un sorriso impacciato. Ci rimettemmo in auto e Johnny si propose gentilmente per riaccompagnarmi a casa.
«Non preoccuparti! Basta che mi lasci dove ci siamo incontrati, proseguo da sola»
«Non sono abituato a lasciare le donne a metà strada, miss»
«Ma no-»
«Sssh!», sussurrò scherzosamente. «Dimmi dove abiti», aggiunse con un sorriso. Restai a bocca aperta, sbiancando, a metà tra l’essere sorpresa/avvilita/alla ricerca di una scusa. Arrivati all’incrocio nel quale ci eravamo scontrati, Johnny rallentò e mi guardò in attesa che gli dessi delle indicazioni. Ovviamente, non potevo portarlo alla mia vera casa o avrebbe capito chi ero e avrei fatto la figura della bugiarda. “Sei nella merda”, avrei pensato se lui fosse stato una persona qualunque. Ma lui era Johnny Depp, ero sicura di non rivederlo più: dovevo solo resistere per qualche altro minuto fortunatamente e sfortunatamente per me. Chiusi gli occhi, ordinando alla mia memoria di tornare vent’anni indietro per ricordare qualche casa che fosse inabitata o comunque adatta alla situazione.
Dai, Elle, dai! Avevi detto di ricordare tutto di questo posto! Sei in un mare di guai!
Mare… ma certo! La casetta che usavo per giocare da piccola quando fingevo di essere nella casa al mare! A tre isolati da lì c’era una piccola casa scolorita dove un tempo abitava una coppia di novelli sposi che lasciarono la città quando lei scoprì di essere incinta. Avevo visto mezza volta quella donna, ad essere sincera neanche la ricordavo bene: avevo impressa nella mente soltanto al sua chioma di riccioli neri.
«Vai dritto e gira a sinistra alla terza traversa». Johnny annuì, ingranando una seconda.
«Vivi da sola?»
«Con la mia famiglia»
«Mmh ti invidio molto», sussurrò ammirante, sospirando. Lo scrutai perplessa e confusa.
«E perché?»
«Beh… il mio lavoro mi costringe a stare lontano dai miei genitori, dai miei figli, la mia famiglia… non posso permettermi di legarmi ad un posto in particolare. A volte mi viene la nostalgia di questi vecchi posti e mi viene la brillante idea di ritornarci. È da più di un anno che non vedo i miei genitori, quest’anno ho avuto parecchi film a cui lavorare…», bofonchiò mentre quel piccolo sorriso che aveva sulle labbra SVANI' LASCIANDO IL POSTO AD UN SORRISO AMARO
«Mi piacerebbe sapere della tua infanzia», ammisi sognante. In realtà, speravo che in qualche modo Johnny si ricordasse di me. Lo so, era da pazzi, ero una masochista.
«È una storia lunga», accennò imbarazzato, passandosi una mano sui suoi baffi.
«Dai!»
«Magari un’altra volta». Non ci voleva uno psicologo per capire che non voleva parlarne e perciò non insistetti. Un’altra volta? Un’altra volta?!
Arrivammo davanti a quella piccola casetta. Era esattamente come la ricordavo. Giardino incolto, un alberello spoglio, pareti scolorate a causa del tempo.
«Non era abbandonata?», borbottò accigliato, scrutando ad occhi socchiusi il luogo di fronte a sé. Forse anche lui lo ricordava, forse anche lui c’era passato mille volte davanti…Cazzo.
«Oh… ehm… l’abbiamo appena comprata. Mi piaceva il luogo e… con una sistemata sarà perfetta», sorrisi sorniona, sperando che la bugia non fosse stata troppo evidente. Johnny mi scrutò perplesso per diversi secondi che parvero interminabili ma poi alla fine sorrise.
«Questo è il luogo giusto se vuoi startene in santa pace», mi fece l’occhiolino mentre uscivo dall’auto. «Allora è stato un piacere conoscerti, Eleonore»
«Il piacere è stato mio!», esclamai, facendo il giro della macchina e accostandomi al suo finestrino. Mi sporsi e gli diedi istintivamente un bacio sulla guancia, come facevo sempre da piccola. A vote faticavo a ricordare che dovevo mantenere un po’ di contegno perché eravamo cresciuti. Mi guardò sorpreso, io arrossii e lo guardai quasi a volergli chiedere scusa, anche se non avevo la minima intenzione di farlo. Poi lui mi sorrise, mostrando lievemente i suoi denti.
Dieci secondi dopo ero da sola dinanzi a quella stupida casa. La stupida in realtà ero stata io. Non mi sarebbe costato nulla dirgli “ti ricordi di me?” e invece ho avuto paura. Gli ho raccontato un mare di cazzate e ora mi sento in colpa. Mi strinsi le spalle e solo allora mi accorsi di indossare ancora la sua giacca. E ora?!
Stupida Elle. Stupida Eleonore, come mi chiamava Johnny.
Ma in fondo “Non è giusto a volte riaffrontare i fantasmi del passato”. 




Come promesso, siamo ritornate presto con il primo capitolo: Elle sembra perseguitata dai ricordi e al contrario Johnny sembra non ricordare minimamente di lei. Come cambieranno le cose?
"La coincidenza ci farà icontrare e chiamalo destino quel percorso naturale" per chi non la conosce è "Arrivi tu" di Alessandra Amoroso: sembra proprio fatta per questa storia *.*
Ci tenevamo tantissimo a ringraziare le ragazze che ci hanno seguito amorevolmente e quelle che lo faranno ancora!
Speriamo che questo capitolo sia di vostro gradimento e altrettanto di quelli successivi!!
Un bacione, A & P <3

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Sembra pazzesco di come tutto possa cambiare, come un attimo possa mutare o rimanere immobile. Tutto sembra far parte di un ciclo annesso alle pagine di un libro in cui noi siamo i protagonisti assoluti, in cui ogni capitolo racchiude i giorni, stagioni, anni in cui passiamo a recitare una parte che probabilmente non vorremmo o che non accetteremo mai.
La vita sembra un libro scritto solo a metà, poiché saremo noi a completare la storia e a scoprire la trama di quel sontuoso volume chiamatosi vita.
Io avevo strappato senza rimorsi le pagine del mio libro, bruciando interi capitoli, pezzi della mia vita. Ora stavo cercando un modo per riappropriarmi di quelle pagine e ce l’avrei fatta anche a costo di scrivere io stessa la mia storia!

**



Qualcosa di caldo mi sfiorò la pelle destandomi dal mio sonno privo di sogni. Non sognavo molto spesso e ad un certo punto, quando mio padre e mio fratello erano andati via, avevo addirittura smesso di farlo.
Aprii lentamente gli occhi, sbattendo più volte le palpebre per abituarmi ai continui sbalzi d’intensità della luce del sole che mi avvolgeva con il suo immenso calore.
Mi sollevai, stando bene attenta a come mi muovevo a causa di quel gran mal di testa che si era assicurato di non farmi dormire bene questa notte.
Mi sentivo spaesata e per un momento non riconobbi il luogo in cui mi trovavo: impiegai qualche minuto a riconoscere la mia camera da letto.
Quando ero piccola decisi di soggiornare nella soffitta così da ammirare il bellissimo panorama che solo quel luogo, in tutta la casa, era in grado di offrire.
Eravamo a Owensboro da qualche giorno e ancora non avevamo iniziato tutti i lavori, soprattutto della mia camera da letto: le pareti color panna erano sbiadite dall’umidità, c’era qualche buchino che avevo appositamente richiuso per non far penetrare spifferi d’aria e nel pavimento di legno chiaro vi erano tavolette scricchiolanti.
La finestra aveva un’anta rotta che si bloccava: avremmo dovuto cambiarla perché faceva oltrepassare all’interno i raggi funesti del sole e il delicato venticello di tramontana.
Mi alzai e i miei piedi affondarono su qualcosa di morbido: non ricordavo di avere un tappeto! Invece, abbassato lo sguardo, appurai che quel tessuto nero era la giacca di Johnny. Mi chinai Mi fermai di botto quando il sole mi riscaldò l’animo e il vento mi accarezzò la pelle. Era una bella sensazione, uno dei motivi per il quale mi mancava questo posto. Mi affacciai e guardai il panorama intorno a me: le casette abitate da gente tranquilla sembravano disabitate, forse dormivano ancora tutti.
Notai una figura accovacciata al prato non curato del giardino sotto la mia finestra, osservando mia madre che si asciugava la fronte mentre era china a tagliare con delle grosse forbici l’erba secca. «Buongiorno!», esclamai a gran voce. La donna sussultò e si voltò immediatamente verso di me, riservandomi uno dei suoi sorrisi calorosi più belli da vedere.
«Giorno a te! Dormito bene?»
«Sì, a parte qualche topo…». Storpiò il viso disgustata e avrei scommesso che nel giro di qualche secondo sarebbe svenuta sul prato per l’orrore: mia madre poteva sopportare di tutto ma di certo non i topi o qualunque creatura proveniente da quella specie. «Stavo scherzando», aggiunsi per rincuorarla e la vidi cominciare a respirare sollevata.
«Va’ a fare colazione! Ti raggiungo». Sorrisi e rientrai dentro. Riordinai alla meglio la mia stanza, mi concessi una doccia calda e rilassante e dopo essermi vestita scesi al piano di sotto per preparare la colazione. «Allora, dove sarebbero questi topi?», urlò mia madre combattiva entrando dalla porta dell’ingresso. Sorrisi e mi alzai per servirle la colazione
«Credo che siano entrati dai buchi nella soffitta»
«Effettivamente li abbiamo disturbati: questa era la loro casa», rise sarcastica e cominciò a bere la ciotola di latte e biscotti.
«Cosa facevi in giardino?»
«Ho guardato i nostri vicini e i loro giardini sono così belli… non possiamo fare una figuraccia! Nel frattempo che sistemiamo dentro, voglio tagliare l’erba secca e piantare un prato nuovo pieno di fiori!»
«L’erba del vicino è sempre più verde, eh?». Ridemmo a crepapelle e le nostre risa risuonarono nell’appartamento semi vuoto
«Comunque pensavo di passare da Betty! Vuoi venire con me o avevi altri programmi?». Un brivido mi percorse. Anche se morivo dalla voglia, non potevo andare da Betty: se ci fosse stato Johnny?
«Beh… in verità avevo intenzione di passare a salutare Sarah… verrò un altro giorno da zia Betty. Ci andremo insieme ma non oggi, va bene?». Sembrò pensarci e sperai con tutta me stessa di averla convinta. Dopotutto, questo era un ottimo motivo per fare un improvvisata a Sarah, la mia migliore amica dai tempi dell’asilo: eravamo sempre insieme e quando Johnny non c’era passavamo giornate intere a giocare.
Tutto questo prima della mia partenza. Ma la nostra amicizia non era andata perduta, infatti Sarah passava le sue vacanza estive in Italia… fino a quattro anni fa, quando si era laureata e aperta uno studio medico tutto suo.
«Come preferisci, Elle. Avevi già detto a Sarah del nostro arrivo qui a Owensboro?»
«No! è una sorpresa… quindi vado!». Mi alzai, posai la tazza nel lavandino e uscii di casa, ma non prima di aver preso la mia giacca e aver dato un piccolo bacio al viso stanco di mia madre.
Uscii stando ben attenta a non esser vista: magari Johnny poteva trovarsi da quelle parti e avrebbe potuto vedermi, quindi scoprire, e quindi sarei morta! Arrivai alla mia macchina, aprii lo sportello,vi entrai e misi in moto.
Io e Sarah parlavamo quasi ogni giorno, quindi sapevo benissimo anche la via del suo studio dove svolgeva il dottorato. Imboccai la via, presi la strada principale passando per il centro e dopo qualche chilometro arrivai in un palazzo antico ma ristrutturato.
Era di un colore bianco sbiadito e le finestre erano ricoperti di motivi vari e rudimentali. Guardai nel piccolo citofono “Dott. Sarah Cars’’. Suonai e subito dopo la porta principale si aprì.
Entrai e cominciai a salire le scale che mi portarono nel suo studio: la porta era già aperta ed entrai. L’interno sembrava più che altro la sala di aspetto di un ospedale: sia le pareti che le mattonelle era perennemente bianche e piccole sedie di pelle nere erano appoggiate al muro. Non c’era ancora nessuno.
«Scusi ma ancora non siamo apert…». Una piccola figura con un camice bianco spuntò dal piccolo corridoio: aveva i suoi adorabili capelli biondi raccolti in un una codina improvvisata e i suoi occhi chiari erano resi ancora più limpidi da un intensa matita nera. Aveva un vaso in mano che per sua sfortuna cadde per terra rompendosi in mille pezzettini minuscoli.
«Non ci posso credere», sillabò in un sussurro, impalata lì come se avesse visto un fantasma.
«Mi immaginavo la scena in un’altra maniera, mia cara Sarah». Un sorriso comparve sulle sue labbra e in men che non si dica mi ritrovai le sue braccia appese al collo e lei attaccata a me in un profondo abbraccio che non potei non ricambiare .
«Oddio! Ma che ci fai qui?»
«Sono qui per restare. Ma suppongo che ti dovrò ripagare il vaso…». Il suo viso si illuminò e –dopo avermi permesso di respirare- mi diede la mano e mi indicò la stanza di fianco. Entrammo e mi accorsi solo dopo qualche minuto che si trattava del suo studio vero e proprio.
«Siediti», farfugliò indicandomi la sedia, mentre lei si sedette sullo spigolo della scrivania di legno scuro e accavallò le gambe. «Non riesco ancora a crederci! Ma perché non mi hai avvertita?»
«Che sorpresa sarebbe stata altrimenti?» le sorrisi e lei ricambiò. Mi accorsi solo ora di quanto mi fosse mancato questo posto: Owensboro era il prologo del mio libro, l’inizio della mia vita e non potevo ignorarlo perché le persone di questo paesino erano troppo importanti da cancellare.
«Raccontami tutto! Da quanto tempo sei qui? Sono la prima che ti rivede? Dai, racconta!». Era difficile stare appresso alle blaterazioni di Sarah e frenare il suo entusiasmo! Ma questa era un ottima notizia, voleva dire che non era cambiata affatto, restando la solita ragazzina di sempre.
«Beh da dove incomincio? Sono qui da due giorni e sono in piena ristrutturazione della mia casa andata a male e beh… ho incontrato Johnny ieri!». Vidi il suo volto pallido sbiancare ancora di più e spalancò gli occhi incredula.
«John Cristopher è qui?»
«Non lo chiamare John Cristopher! Si fa chiamare Johnny!», ribattei. Ridemmo come due bambine al tempo dei giochi.
«Oh scusa, non oserei mai storpiare il nome del tuo Johnny! Cosa ti ha detto quando ti ha vista?». Abbassai lo sguardo imbarazzata e indecisa se raccontarle il guaio in cui mi ero cacciata.
«Beh… in verità non mi ha riconosciuta e io non gli ho detto la mia vera identità». Sul suo viso si dipinse un ulteriore espressione di stupore. Cominciai a tormentarmi le mani, sentivo un enorme magone all’altezza dello stomaco e un terribile nodo alla gola.
«Come ha fatto a non riconoscerti?! E perché non gliel’ha detto?» sibilò guardandomi come a volermi leggere dentro. Ero questo che mi spaventava di lei: la possibilità di leggermi dentro! Di trovare in me tanta insicurezza ed esitazione!
«Non ne ho visto il motivo, dato che non mi ha riconosciuta!»
«Avevi paura della sua reazione?»
«No! Avevo paura della mia! Lo sai che da bambina ne ero innamorata pazza e … ritornare da lui mi sembrava un assurdità! Avevo paura che mi vedesse come la bambina di quel tempo e sono una donna adesso! E poi… non voglio ripresentarmi nella sua vita in questo modo se lui si è dimenticato di me»
«E questo non ti sembra una bambinata? Elle che ti costava dire: Johnny sono io, sono Elle!». Abbassai lo sguardo: se non volevo sembrare una bambina adesso mi sentivo una vera e propria neonata. «Hai ragione ma adesso non posso più tornare indietro!», borbottai. Alzai lo sguardo e notai appeso al muro una foto di un paesaggio a me familiare.
«Ma quello non è il lago dell’Incantatrice?», sussurrai con un mezzo sorriso –per l’appunto- incantato sul volto. Eravamo stati noi bambini a ribattezzare il lago in quella maniera, quando ci riunivamo intorno a quell’acqua così bella,limpida e maestosa da sembrare incantata. Facevamo sempre finta di essere le regine del lago: le Incantatrici. Sarah si voltò e sorrise.
«Esattamente». Improvvisamente mi ritornò alla mente dei giochi nell’acqua con Sarah, come io e Johnny ci passavamo intere giornate, di come avevamo costruito la nostra casetta nell’unico albero vicino al lago. Sorrisi come un’ebete a tutti quei ricordi e una profonda nostalgia mi inondò il cuore.
«Che ne dici se stasera ci vediamo?», proferii alzandomi di botto.
«Già te ne vai?»
«Ci vediamo più tardi», sussurrai velocemente dandole un bacio sulla guancia. Dove volessi andare era ormai chiaro.
Il lago si trovava ai confini della città: impiegai una mezz’ora circa per arrivare e quando misi piede su quel terreno ritornai improvvisamente bambina.
Era tutto come allora: un infinito prato verde senza macchie neanche di fiori circondava l’intera area immacolata, fino a quando non spuntava un lago di grosse dimensioni ma non così esageratamente grande.
L’emozione dei ricordi che mi ritornavano lentamente tra la mente era quasi prepotente. Credevo di aver eliminato tutto ciò che mi legava a Owensboro ma invece era tutto l’opposto! Quei sentimenti ed emozioni li avevo solo depositati in una parte buia della mia mente e ora a poco a poco stavano riemergendo.
Cominciai correre con foga cercando di raggiungere più velocemente possibile quel bellissimo posto, arrivando con il fiatone.
Mi fermai vicino all’unico albero accanto al lago e sfiorai il suo tronco massiccio. Andai alla ricerca di una piccola incisione e trovai le lettere “EJ” sulla corteccia legnosa. Elle e Johnny. Alzai lo sguardo lì dove un tempo vi era la casetta sull’albero nella quale io e Johnny giocavamo sempre, o meglio, era lui ad accontentarmi sempre giocando! Mi arrampicai sui rami e cercai di salire: la casa sembrava malridotta e il legno logorato a causa del maltempo. Ma dopotutto erano passati vent’anni: non poteva essere tutto immacolato! Entrai nella casetta sperando che con cedesse e fui costretta ad abbassarmi per potervi accedere.
L’interno era ridotto ancora peggio dell’esterno e una gran malinconia mi assalì. Sfiorai quelle piccole pareti legnose che il buon signor Depp e suo figlio Johnny mi avevano costruito e venni travolta violentemente dai miei ricordi:
Guardai Johnny seduto di fronte a me, a gambe incrociate, con un cellulare che cacciava dalla tasca della sua tuta blu ogni volta che vibrava. E vibrava ogni tre secondi! Lo fissai arrabbiata, incrociando le braccia al petto.
«Chi è?», borbottai.
«Uhm nessuno»
«Non si dicono le bugie alla propria moglie», replicai e lui alzò lo sguardo dal display incuriosito e confuso.
«Di che parli?», rise.
«Avevi detto che mi sposavi! Ti ricordi?», sorrisi, sventolandogli davanti agli occhi un foglio scarabocchiato con la sua firma. Qualche giorno fa, forse per scherzo, lui aveva detto che mi avrebbe sposato, probabilmente per farmi contenta. Ed io, per precauzione, gli avevo chiesto di firmare sotto quei scarabocchi in modo che non potesse rimangiarsi la parola.
«Oh certo!», esclamò lui, dandosi uno schiaffetto alla fronte. «Non ti dimentichi mai niente tu…»
«Devi darmi un bacio!», replicai come se fosse un mio diritto. Lui rise ancora, facendomi cenno di avvicinarmi piegando l’indice.
I miei occhi si illuminarono dalla speranza e dalla felicità e corsi a gettarmi tra le sue braccia. Mi sedetti tra le sue lunghe gambe, poggiando le mani sulle sue ginocchia e chiusi gli occhi, come avevo visto fare molte volte nei film che la mamma guardava sempre in tv. Le labbra di Johnny si schiusero sulla mia guancia delicatamente ed io restai a fissarlo delusa.
«Non così», mormorai a testa bassa.
«E come? Sentiamo…»
«Sulla bocca!». Rise sonoramente, forse anche un po’ meravigliato per le mie intenzioni a quell’età.
«Impari in fretta, ragazzina», ridacchiò, passandomi una mano tra i capelli per arruffarmeli. «Ma sei ancora troppo piccola per queste cose», aggiunse, facendo morire ogni mia speranza. Lo guardai corrucciata.
«Tu lo fai sempre»
«E tu che ne sai?!»
«Ti ho visto l’altro giorno», borbottai amaramente. Lui si passò una mano tra i capelli, guardandomi imbarazzato.
«Eh beh, si da il caso che io abbia almeno dieci anni in più a te. Quando ti farai grande te ne darò uno anche a te, ok?»
«Promesso?»
«Promesso». Il mio piccolo cuoricino si mise in pace: sulla lista delle cose da fare c’era baciare Johnny.
«L’anno prossimo va bene?», dissi entusiasta, scattando all’in piedi. Lui sorrise dolcemente.
«Quando arriverà il momento te ne darà uno. Non voglio dirti quando: è più bello a sorpresa», mi sussurrò all’orecchio, facendomi l’occhiolino. In quei momenti, chiunque fosse passato avrebbe visto i miei occhi brillare intensamente, il mio volto sorridente e il mio piccolo cuoricino battere furiosamente nel petto.

Fu quella la prima volta che mi innamorai di qualcuno: avevo all’incirca sei anni e inconsapevolmente mi ero innamorata di lui.
Scossi il capo, accennando una risatina. Vallo a ricordarglielo ora: mi aveva promesso un bacio, era in debito con me! Guardai dalla finestrella il sole specchiarsi nell’acqua del lago e scesi dall’albero velocemente. Mi accostai alla riva e mi tolsi le scarpe provando il solletico dei ciuffi d’erba sotto i piedi e mi sfilai i vestiti. La mia immagine sorridente si proiettò nell’acqua. Rabbrividii con il contatto della pelle con l’acqua fredda e mi immersi lentamente fino a quando l’acqua non mi arrivò al collo. Chiusi gli occhi, spensi il cervello privandolo di qualsiasi pensiero e mi godetti quella magnifica sensazione mentre mi bagnavo i capelli e le goccioline d’acqua scorrevano lungo il mio viso. Ero decisa a rimanervi finché non avessi sentito il bisogno intransigente di uscire.
«È fredda?». Una voce mi fece sobbalzare, mi voltai di botto e il mio cuore di fermò all’istante. Johnny mi sorrise, accovacciandosi alla riva con un ciuffo d’erba tra le mani.
«Non capisco come facciamo ad incontrarci così spesso!», continuò con la sua bellissima voce profonda. In quel momento mi sembrò un miraggio, uno scherzo del destino ma evidentemente mi stavo sbagliando: la sua figura non svaniva!! Cercai di coprirmi alla bella meglio con le mani e in quel momento desiderai sprofondare per non risalire più sulla superficie.
«Girati e passami i vestiti!». Lui alzò le braccia al cielo in segno di arrisa, si mise all’in piedi e si voltò.
«Come faccio a darti i vestiti se sono girato? Li prendi al volo?», scherzò, afferrando i miei indumenti sparsi caoticamente sul prato a formare una montagnella. Li afferrai frettolosamente e mi ricoprii.
«Ok, puoi girarti», risi e lui si voltò per incrociare il mio sguardo.
«Perdonami, non volevo disturbare il tuo momento di relax», sorrise ed io con lui.
«Non preoccuparti, non avevo comunque molto tempo da sprecare», sospirai, stiracchiandomi sull’erba.
«Sprecare? E chi ha parlato di spreco?», rise lui, sedendosi accanto a me. «Questo posto è il paradiso, non è mai tempo sprecato!»
«Hai proprio ragione», sospirai, avvertendo un calore sempre più forte: il sole stava lavorando parecchio oggi!
«E come mai eri qui?». Aprii gli occhi e il cuore mi salì in gola, appurando che l’improvviso calore era dato dalla sua vicinanza al mio viso. Sdraiato sul fianco, con il capo sorretto dal palmo della mano, mi guardava curioso e sorridente. Mi alzai di botto, fu una cosa istintiva, forse per assicurarmi che riprendessi a respirare e mi augurai di non essere arrossita.
«Beh… passavo per caso e ho visto l’acqua così limpida: era impossibile resisterle!». Si tirò su e si mise a sedere, imitandomi, per potermi guardare in faccia.
«Un po’ di tempo fa, le bambine del paese lo chiamavano “il lago dell’Incantatrice”. Non ho mai capito veramente perché», sussurrò sorridendo. Lo guardai col cuore in gola, in attesa che dicesse “qui ci venivo con Elle!” osservando un volto che sorrideva con gli occhi al dolce ricordo. E certo, cosa poteva saperne del gioco che inventavamo noi bambine sui re e le regine?
«Oddio, direi non solo “un po” di tempo fa… saranno passati più di vent’anni ormai!». Sorrisi anche io, strizzandomi ancora i capelli.
«Da come ne parli, hai bei ricordi di questo posto… sei stato via da qui per molto?». Si passò una mano tra i capelli.
«Ho dei bellissimi ricordi d’infanzia: sono nato qui»
«Questo lo so, c’è scritto anche su Wikipedia», scherzai e lui rise con me.
«Il lavoro mi ha strappato via, poi la mia relazione con Vanessa mi ha tenuto lontano per molto tempo da qui… quando sei lontano così a lungo dal “nido” ti viene la nostalgia», sorrise amaro. «E poi, con tutto il chiasso e il rumore della città… questa è un’oasi di pace e relax», aggiunse, sdraiandosi di nuovo e poggiando il capo sulle braccia piegate all’indietro. Chiuse gli occhi e il sole baciava così perfettamente la sua pelle dorata da farlo sembrare il dio della bellezza, o forse già lo era. Aprì solamente un occhio, in fare scherzoso, per sbirciarmi, e mi colse di sorpresa a guardarlo: probabilmente sentiva su di se il mio sguardo e doveva anche pesare parecchio. Scoppiò a ridere, divertito dalla cosa, quando mi voltai di scatto e nascosi il mio viso tra i capelli. Sentii la sua mano sulla spalla e un secondo dopo il suo respiro era sul mio collo. Mi scostò i capelli dal volto, portandoli dietro all’orecchio, per potermi guardare.
«Lo so che può sembrare strano ma… posso invitarti a cena stasera?», disse e mi parve imbarazzato. Lo guardai sorpresa e lui sorrise, passandosi la mano dietro la nuca. «Cioè… non è nulla di particolare, solo qualcosa per passare una serata diversa e…». Stava farneticando. Scoppiai a ridere io stavolta.
«Mi piacerebbe, ma ho già promesso alla mia amica che ci saremmo viste stasera», farfugliai.
«E non puoi rimandare? Insomma… se le dici che esci con Johnny Depp potrebbe anche perdonarti», scherzò. Alzai un sopracciglio, scettica.
«Sei parecchio modesto, eh?». Ridemmo, poi lui ad un tratto si mise a fissarmi.
«Passo a prenderti alle otto a casa?»
«S-no! Ci vediamo qui», esclamai allarmata, suscitando in lui un po’ di confusione.
«Ok», rise, tornando poi a fissare il sole. «Fa piuttosto caldo, eh? Mi sembra già agosto». Il buon Depp voleva vedermi morta, perché si tolse la maglietta e rimase a petto nudo accanto a me. E io dovevo avere sul volto un’espressione talmente idiota che se ne accorse, visto che sospirò, socchiudendo gli occhi e facendo una smorfia.
«Oh, scusami, non sei fidanzata, vero?», sussurrò in attesa di una risposta. “non sei fidanzata vero?” cosa diamine voleva stare a significare?!
«No, in realtà sono sposata con te», avrei voluto dire, ma mi uscì un “Eh?” ancora più da idiota di prima. Insomma… avevo bisogno di più tempo per riprendermi dallo shock!! «Non vorrei che passasse per casualità il tuo ragazzo e pensasse a male», aggiunse ironico ridendo.
«Non succederà, tranquillo, sono felicemente single», scherzai, mentre non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo petto liscio. Morivo dalla voglia di poggiarci sopra una mano e sfiorarlo: perché non l’avevo violentato già quando avevo avuto la possibilità di farlo?! Avrei perso la verginità a sei anni, ma non me ne sarei pentita affatto!! Una folata di vento mi fece rabbrividire e la maglia di Johnny si sollevò leggermente, iniziando a volteggiarsi in aria fino a posarsi sull’acqua del lago.
«Merda!», esclamò, alzandosi di scatto come se fosse ancora in tempo per recuperarla. Sbuffò, osservando il tessuto inzupparsi e andare verso il centro mosso dalle piccole onde increspate dal vento. Risi divertita.
«Ti conviene recuperarla prima che vada più lontano!». Johnny sospirò pazientemente, attorcigliandosi attorno le caviglie i pantaloni per non bagnarsi e sfilandosi le scarpe. Lo sentii sussultare quando probabilmente toccò l’acqua fredda e quel gemito mi sembrò la cosa più eccitante del mondo. Doveva esserci Sarah, cavolo, doveva vederlo come si era fatto sexy! Mi alzai furtivamente mentre lui, con l’acqua all’altezza delle ginocchia, era chino mentre recuperava la maglia. Mi accostai a lui e dimenticai subito che eravamo sconosciuti che si erano incontrati solo due volte: lo spinsi per la schiena, lo sentii urlare e affondare con uno “splash” nell’acqua. Scoppiai a ridere, divertita, osservandolo risalire e portarsi dietro il ciuffo di capelli, mentre gemeva per l’impatto con l’acqua fredda. Incrociai i suoi occhi infuocati.
«Sei perfida», sussurrò in segno di sfida, sollevandosi di colpo e rabbrividendo. «Come cavolo hai fatto ad immergerti?! È ghiacciata! Se prenderò un raffreddore è colpa tua…», borbottò, alzandosi dall’acqua. Continuai a ridere mentre mi si avvicinava, poi mi afferrò per il lembo della maglia e mi tirò giù, nonostante gli avessi implorato un “no!” mentre già stavo cadendo. Stavolta fu lui a ridere, sentii la sua risata echeggiare anche sott’acqua. Così ci ritrovammo stesi sull’erba bagnati fradici e con i vestiti inzuppati, cercando disperatamente di asciugarli.
«Era da tempo che non ridevo così. Grazie», sorrise infine, rannicchiato come se stesse racchiudendo tutto il calore del suo corpo per riscaldarsi. Ricambiai con un enorme sorriso: per quegli attimi ero tornata la bambina che scherzava con lui ed ero stava così bene che avrei pagato per rivivere quelle emozioni. Mi maledii per aver scelto di indossare una camicia bianca tremendamente trasparente ora che era bagnata. «Che ne dici se ci andassimo a cambiare? Non si asciugheranno mai…», accennai a disagio dal suo sguardo.
«Mmh, sì, potresti prestarmi una di quelle minigonne che vanno tanto alla moda tra voi donne…», accennò scherzoso. Ridemmo.
«Non ti starebbero male! Intendevo ognuno a casa propria». Johnny si alzò, scrollandosi l’erba che era rimasta appiccicata sui vestiti.
«Ti accompagno?»
«No, ho anche io la mia macchina qui»
«Ok, a stasera allora». Ci avvicinammo tutti e due contemporaneamente per salutarci come persone educate con due baci sulla guancia e –sorpresi per aver fatto lo stesso gesto- ci ritrovammo a pochi centimetri di distanza. Il cuore mi salì alla gola e gli occhi di Johnny vagarono improvvisamente in fondo ai miei, prima di posarsi sulle mie labbra. Sorrisi imbarazzata, allontanandomi lentamente e mettendomi tremolante una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«A stasera», farfugliai arrossendo, dandogli le spalle e scappando letteralmente da lui.



Siamo tornate più cariche che mai! xDPrima di tutto volevamo ringraziarvi di cuore per aver seguito la storia e lasciato un commentino che ci fa sempre piacere!
Dopo il primo incontro di Elle con Johnny abbiamo deciso di far giocare ancora una volta il destino! (magari il destino fosse così generoso anche con noi! *-*)
Speriamo davvero che il capitolo sia stato di vostro gradimento!
vi lasciamo con la bellissima immagine del lago ^^
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bella no?? *_* A presto,
A & P <3

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


«Scusami Sarah, davvero, mi dispiace! Non ho scusanti!», sospirai al cellulare che tenevo stretto all’orecchio con la spalla, mentre cercavo nell’armadio qualcosa di decente da mettere addosso.
«Te l’ho già detto: non preoccuparti! Non mi hai ancora detto con chi devi uscire…»
«Johnny mi ha invitata a cena», dissi noncurante, pescando un abitino rosso con dei fiorellini bianchi ricamati sopra. Dall’altra parte del telefono, Sarah squittì come un topolino, iniziando ad urlare a voce alta dall’entusiasmo.
«Johnny ti ha riconosciuta?! Oh Dio raccontami com’è successo!». Sospirai, mordendomi il labbro e rigirandomi ancora il vestito tra le mani. Sarah si accorse del mio silenzio e lo interpretò come una probabile risposta. «Oh, scusa»
«Sai, se ci penso mi fa male il fatto che non abbia riconosciuta ma… se faccio finta che tra noi non è mai successo niente e che abbiamo ricominciato da capo… con lui sto bene», le confessai con un filo di voce, come se me ne vergognasi, sedendomi sul bordo del letto.
«Sei innamorata»
«È assurdo!», esclamai ridendo, alzandomi di nuovo all’in piedi e scostando un mucchio di vestiti con i piedi.
«Invece no! È da quando avevi cinque anni che sei innamorata di lui! Mi riempivi la testa ogni volta che ci vedevamo, mi lasciavi da sola per andare a giocare con lui e poi passavo il giorno seguente a sentirti raccontare tutte le cose belle che avevate fatto: per te era la cosa più importante». Sarah aveva perfettamente ragione e un po’ mi sentivo in colpa per tutte le volte che avevo lasciato da sola la mia amica per andare da Johnny. Ero un po’ egoista e la colpa era tutta mia! Ma non potevo farci nulla. Era assurdo solo pensare che una bambina potesse essere innamorata,ma io lo ero e la mia povera Sarah ne pagava giornalmente le conseguenze.
«Scusami», farfugliai veramente pentita e lei scoppiò a ridere.
«Ti stai scusando per le tue marachelle di vent’anni fa?», chiese divertita, riprendendo dopo diversi istanti. «Con la lontananza ci eri passata sopra, ma rivederlo ti avrà fatto uno strano effetto», aggiunse. Nonostante lei fosse un medico, si ostinava a fare la psicologa, le era sempre piaciuto e le riusciva alla perfezione capire la gente. Quello suo era un dono: la capacità di leggere la gente anche solo da uno sguardo,di capirli nel pieno senso della parola e soffrire con loro. La sentii canticchiare qualcosa.
«Ehi, secondo te va bene un vestito rosso con i fiorellini?», le chiesi ingenuamente guardandomi allo specchio mentre portavo l’abito al mio corpo.
«Certo! Se devi fare un picnic in campagna», mi prese in giro e io sbuffai “offesa”.
«Non sei d’aiuto!»
«Ah, andiamo, non vorrai sul serio metterti un vestito rosso con i fiorellini come quelli di mia nonna?!». Guardai il vestitino di fronte a me: oltre ad essere rosso e a fiori, portava i bordi ricamati e un profondo scollo a V. Mia nonna si che si sarebbe considerata irresistibile.
«Ha uno bello scollo!»
«Uhm-uhm», continuò lei ironica. «Perché non sono lì con te?!», aggiunse sospirando.
«Non mi saresti di grande aiuto lo stesso», la presi in giro io,ridendo sotto i baffi.
«Ah!», esclamò come se ebbe avuto un’illuminazione ed io di scatto allontanai il cellulare dall’orecchio per conservare il mio udito. «Ti ricordi quel vestito che ti regalai due natali fa?» «Ehm…»
«Quello blu!!»
«Ah, sì! Aspetta… vuoi che metta quel vestito?!»
«Cos’ha di male?», farfugliò. Cacciai il tubino blu dall’armadio: era ,come ho detto prima, un tubino di una tonalità di blu quasi come la notte, era semplice e scendeva aderente fin sopra le ginocchia e aveva il corpetto a forma di cuore con i volant.
«Non è troppo…»
«…sexy?», mi suggerì lei, facendomi ridere. «Indossalo, ti sta una favola»
«Ok, mi hai convinta. Ora vado a prepararmi»
«Domani voglio il resoconto!»
«Certamente, ciao!», risi, staccando la chiamata e gettando il cellulare sul letto, scomparso sotto la montagna di vestiti. Mi preparai e indossai il tubino, rendendomi conto che forse mi stava davvero così bene come diceva lei. Misi delle scarpe nere con il tacco, ma non troppo alte altrimenti sarebbe sembrato che stessi per andare ad un matrimonio, un velo di phard, mascara e lucidalabbra. I capelli li lasciai liberi sulle spalle e tra di essi si perdevano degli orecchini pendenti di brillanti. Afferrai la borsetta, la giacca di Johnny, e mi avviai alla porta.
«Dove vai?» Giusto, avevo dimenticato di avvisare la mamma! E ora che le dico?
«Esco con Sarah», mentii, dandole le spalle e fissando la maniglia della porta. Mi sentii improvvisamente una ragazzina, quando dovevo nascondere a lei e soprattutto a mio padre se uscivo con un ragazzo o se mettevo il rossetto troppo forte.
«Vestita così?», insistette, scettica, sollevando un sopracciglio. Mi voltai di scatto, allarmata.
«Sono orrenda?!»
«Ma no! Sei bellissima, tesoro», sorrise lei, afferrandomi per le guance e stampando su di esse dei baci.«Ma non fare tardi». La guardai apprensiva e sorrisi sotto i baffi.
«Dimentichi che non sono più una bambina?»
«Vai, divertiti! E ricorda che per me sarai sempre la mia bambina! Salutami tanto Sarah», aggiunse, facendo finta di aver creduto alla mia bugia.
«Ti racconto tutto quando torno». La parte più facile era terminata: e se quella poteva definirsi “facile” mi spaventava quella difficile che mi aspettava a qualche isolato più avanti. Cominciai a camminare in fretta e furia cercando di essere puntuale finchè…
«Aspetta qualcuno?». Un finestrino di una Mercedes nera si abbassò e il volto di Johnny sorridente spuntò dietro di esso. Sorrisi, guardandolo immobilizzata e persa nel suo bellissimo sguardo magnetico.
«In realtà ero in attesa del mio principe azzurro, ma mi sa che non viene più», feci spallucce, stando al gioco.
«Allora posso essere io il suo cavaliere, miss?»
«Con piacere», gli sorrisi, facendo il giro ed entrando in macchina,sedendomi in modo da non sgualcire il vestito.
«Ciao», sorrise lui, iniziando a guardarmi.
«Ciao», farfugliai imbarazzata. «Ti ho portato la tua giacca, me l’hai prestata qualche giorno fa»
«Sì me lo ricordo… appoggiala dietro al sediolino». Obbedii e mi sporsi per poggiarla sui sedili posteriori, avvicinandomi di più a Johnny, abbastanza da sentire il suo profumo maschile da sogno. Mantieni la calma, Elle. La calma è la virtù dei forti.
«Wow, dov’è finita la ragazza nei jeans di questa mattina?», sussurrò, iniziando a fissarmi maliziosamente. Sorrisi imbarazzata, abbassando lo sguardo, rigida sul sedile dell’auto.
«Spero ti piaccia il pesce», aggiunse e il silenzio che ne seguì si fece imbarazzante. Scoppiai a ridere e lui mi guardò perplesso prima di ridere anche lui. «E non pensare male!», aggiunse quasi lamentandosi. Mi asciugai una lacrima passandomi il dito sotto gli occhi, all’attaccatura delle ciglia. «Non ho pensato male!»
«Sì, come no… immagino che devo stare attento a ciò che dico d’ora in poi…», mi prese in giro ed io sorrisi ancora.
«Sei tu che ti esprimi male»
«Vi rigirate sempre la frittata voi donne», commentò divertito. Iniziai a fissarlo mentre teneva gli occhi dritti sulla strada e il suo viso era illuminato dal bagliore dei lampioni che si susseguivano uno dietro l’altro,rischiarando il panorama che si mostrava orgoglioso dinanzi a noi.
Guardavo il profilo del mio cavaliere: Si era rasato e aveva lasciato cadere i capelli all’indietro con qualche ciocca che gli ricadeva delicatamente sul viso. Indossava un semplice giubbino beige come i mezzi stivaletti,sopra una maglia bianca e dei jeans chiari. Venni attratta dai tanti braccialetti colorati che penzolavano dal suo braccio e il suo tre tatuato sul dito medio della mano.
«Cosa stai guardando?», sorrise curioso, staccando lo sguardo dalla strada per fissarmi.
«Oh ehm… il tuo anello», farfugliai, mentendo per metà perché lo sguardo era finito veramente sul suo anello gotico. Lui se lo sfilò e me lo porse.
«Ti piace?»
«Tantissimo!». Me lo infilai. «Ci andrebbero due delle mie dita qua dentro», aggiunsi e lui accennò una risatina, tornando ad indossarlo. Arrivammo in un luogo vicino al mare, illuminato dai mille lampioni.
«Eccoci qua». In un posto del genere, era ovvio che si potesse mangiare solo pesce! Scesi dalla macchina e venni travolta dall’odore del mare salato e la sua brezza marina. Chiusi gli occhi, sospirando sonoramente mentre quell’odore mi entrava dentro purificandomi i polmoni e inebriandomi l’anima.
«Mmh… è fantastico»
«Sarà ancora più fantastico a stomaco pieno, fidati», disse lui, afferrandomi delicatamente per un braccio. Nel muoverci, la sua mano scivolò fino alla mia e il cuore mi salì alla gola tanto che temetti che stesse per uscire dal petto mentre la stringeva forte. Indossò un paio di occhiali scuri e avvolse una sciarpa intorno al suo collo.
«Non ti da fastidio se per caso dovessero beccarci e pubblicare le foto su internet o su un giornale di gossip, vero?»
«Eh?»
«Spero solo che non ci disturberanno anche stasera», aggiunse noncurante.
«Oh, deve essere faticoso essere amato da tutti», lo presi in giro e lui mi lanciò un’occhiataccia, ridendo. Entrammo nel ristorantino con una grossa insegna blu e azzurra luminosa “Sea Restaurant” con due allegre aragoste rosse che muovevano le loro teste. L’interno era arredato tutto con colori che richiamavano il mare, così come le decorazioni e i bellissimi acquari incastrati nella parete come se fossero tutt’uno.
«Oh, mister Depp!». Un uomo alto e snello dai folti baffi e i capelli brizzolati ci venne vicino, sorridendo.
«Buonasera, Joseph, c’è un posto per noi?». L’uomo mi squadrò curioso, mettendomi quasi disagio per i suoi sguardi troppo ambigui e poi tornò a lui sorridente.
«C’è sempre un posto per lei! Seguitemi». Avanzammo e tralasciò il particolare che la sala era praticamente piena zeppa di persone che appena ci videro rimasero immobilizzati e cominciarono a guardarci dalla testa ai piede. Ci presentò un tavolo, uno degli ultimi in fondo alla sala.
«Il più appartato, come chiede sempre», sorrise, scostandomi la sedia per farmi sedere di fronte a lui. Sussurrai un “grazie” e iniziò a versarci del vino rosso nei calici. Solo mettere piede in quel posto costava un occhio della testa, a giudicare dalla raffinatezza. Anche Johnny lo ringraziò e ordinò due delle “specialità della casa”, assicurandomi che era delizioso, poi il cameriere ci lasciò da soli.
«Vieni spesso qui?», sorrisi.
«Ogni volta che ne ho la possibilità. Sono molto calorosi e si mangia il pesce più buono della città»
«È molto bello»
«Mi sento a casa mia», fece spallucce. I due piatti arrivarono quasi subito e ringraziai il cielo così evitai un imbarazzante silenzio che mi avrebbe sicuramente messo in agitazione.
«Mmh e sono anche parecchio rapidi, a quanto vedo», sorrisi, afferrando un’aragosta dal piatto decorato e facendola muovere. «Povera me! Non mi mangiare, pietà!», esclamai imitando la probabile voce di un’aragosta. Lui per poco non sputò l’acqua che stava bevendo, scoppiando a ridere.
«Oh si che ti mangio, sono crudele!», tuonò lui, camuffando la voce e infilzando la forchetta nel “corpo” della sfortunata. Ridemmo e lui scosse il capo.
«Ho notato che fai uscire il lato peggiore di me, Eleonore», mi ammonì dolcemente.
«Quello bambino?», sorrisi dolcemente e lui mi guardò titubante, prima di sorridere.
«Che ne dici di un brindisi per inaugurare la serata?», mi propose ed io annuii sorridente.
«A…?»
«Alle aragoste parlanti!», suggerì ed io risi.
«Alle aragoste parlanti», ripetei con un enorme sorriso sul volto. Mi sentivo felice solo a guardarlo: i suoi occhi erano così belli e immensi che avrei potuto perdermi dentro per sempre. In quel momento desiderai che quel per sempre non arrivasse mai,facendosi rimanere così: uniti e felici come un tempo. «E alla fortuna che ci ha fatto incontrare», aggiunse, facendo tintinnare i bicchieri. Bevvi, osservandolo fare lo stesso e iniziammo a mangiare. Johnny era il tipo di persona che non ti metteva a disagio e, se facevi qualche stupidaggine, ti assecondava anche. Si comportava in questo modo anche da bambini. Non perdeva mai l’occasione di assecondarmi e farmi ridere. Era per questo che mi ero perdutamente innamorata di lui,era per questo che quel sorriso dolce mi era mancato terribilmente. Ci fu un attimo di silenzio, poi venimmo attirati da un movimento alla nostra destra. Ci voltammo e una ragazzina, probabilmente sui dodici anni, arrossì, facendo ancora qualche passo con un foglio e una penna in mano.
«Johnny?», chiese timorosa mentre la sua vocina si faceva sempre più flebile a causa dell’emozione «Uhm?», farfugliò lui, pulendosi la bocca con un tovagliolo.
«Puoi farmi un autografo?», sussurrò con un filo di voce, guardandolo speranzosa mentre arrossiva ancora di più. Mi fece quasi tenerezza: il suo viso speranzoso,la strana luce che aveva negli occhi, era un qualcosa di ammaliante ma quello era l’effetto che faceva Johnny sulla gente, di qualsiasi età. Lui mi guardò quasi a volermi chiedere il permesso ed io sorrisi.
«Ma certo, come ti chiami?»
«Claire», sorrise entusiasta, porgendogli il foglietto bianco e la penna. Johnny fissò il foglio bianco, borbottò qualcosa e firmò la dedica porgendogli il piccolo pezzo di carta che sicuramente per la piccola bimba dai riccioli biondi divenne il trofeo più grande della sua vita.
«Sei un mito, grazie!», sorrise e timidamente si avvicinò per stampargli un bacio sulla guancia, prima di correre via.
«Anche io ne voglio uno!», si sentì dire.
«Come hai avuto l’autografo di Johnny Depp?!», disse l’altra. Ben presto, attorno al nostro tavolo si fece una fila così lunga che sembrava di essere alle poste. Ragazzi, ragazze, bambini, adulti di ogni età iniziarono a chiedere con gentilezza un autografo, nonostante i camerieri avessero più volte cercato di riportare tutto all’ordine. Ma quando c’è Johnny Depp in sala, il cameriere può anche morire. Ogni tanto lui mi lanciava un’occhiata come a volersi scusare o chiedere un aiuto, tra un autografo e l’altro, non riuscendo a dire di no a chi lo chiedeva. Neanche io avrei avuto il coraggio di dire di no ad una bambina speranzosa che chiedeva soltanto una firmetta che avrebbe tenuto come il suo oggetto più prezioso.
Mi voltai verso Johnny facendogli segno verso il bagno e dopo aver ricevuto uno sguardo misto tra il dispiaciuto e il bisognoso, mi alzai, dirigendomi tra una delle porte scorrevoli con la scritta “woman”  intagliata sul legno. Entrai, socchiudendo la porta alle mie spalle. Sorrisi e mi pizzicai il braccio, smentendo il fatto che si trattava di un brutto incubo e che ciò che stavo vivendo fosse solo un bellissimo sogno. Per la prima volta in vita mia mi accorsi che la vita poteva avere anche le sue sfumature rosee e colorate. Quello lo dovevo a Johnny. Per la seconda volta mi aveva tirata indietro dal baratro della mia vita priva di amore e qualsiasi forma di felicità.
Mi avvicinai allo specchio, accorgendomi solo adesso dell’espressione un po’ troppo imbambolata che aveva assunto il mio volto. Presi la borsa –cosi da darmi una mezza sistemata- dove estrassi il lucida labbra e mi contornai le labbra. Guardai la mia figura allo specchio: le guance erano arrossate per via del caldo che emanavano i condizionatori e gli occhi,un po’ lucidi,ma questa volta era a causa di Johnny e dell’effetto che mi provocava la sua presenza. Non sapevo come definirlo,erano sentimenti troppo grandi per essere espressi a parole, forse come aveva detto la mia amica ero innamorata? Non avevo il benché minimo dubbio! Elle e Johnny …Johnny ed Elle: uniti dal destino per la seconda volta.
Improvvisamente sentì una strana irritazione alla gola,un bruciore intenso come se un coltello mi stesse trafiggendo o raschiando la laringe. Mi portai istintivamente i polpastrelli delle mani sul collo e poi alla bocca, cominciando a tossire con foga e impeto,cercando disperatamente di respirare o cercare un modo per ricominciare a farlo! Mi sentivo morire e non sapevo neanche il perché. Aprì le finestre in modo da far entrare un po’ d’aria e aprì l’acqua in modo da lavarmi la faccia,così da rinfrescarmi e riprendermi, finchè …
«Ma cos… », sussurrai a bassa voce notando delle macchioline scarlatte nella pianta della mano. «Sangue», aggiunsi poco dopo,sgranando gli occhi mentre gli occhi si ingrandirono spropositante. Mi sciacquai la mano: qualunque cosa fosse stata, questo era il momento meno opportuno per pensarci! Non potevo rovinare un momento del genere,il MIO momento con Johnny. Avrei chiamato Sarah, riferendole dell’accaduto ma al momento…
Presi una mentina dalla borsa e ritornai in sala. Quando tutti ebbero avuto il loro autografo, Johnny sospirò, potendo respirare nuovamente la sua aria e incrociò il mio sguardo a metà tra il divertito e annoiato.
«Ci hai messo una vita», proferì ironico riprendendo a mangiare, lamentandosi sul fatto che era diventato tutto freddo.
«Avevo dimenticato che stessimo cenando insieme, sai?», scherzai.
«Scusami. Non ho saputo dire di no e…»
«Tranquillo», sorrisi beffarda e lui con me. «Sei considerato l’attore più gentile del mondo: concedi autografi a tutti», aggiunsi dolcemente. Arrivò il dolce, la mia parte preferita e quella che mi avrebbe fatto dimenticare ogni tipo di pensiero e angoscia.
«Mmh assaggia questo qui», sorrise Johnny, porgendomi la sua forchetta con un pezzo di torta sopra. Lo guardai perplessa: mi stava invitando a mangiare dalla sua forchetta?! «Avanti», mi spronò ancora, con il braccio sollevato a mezz’aria. Mi accostai alla forchetta timidamente, assaggiando il suo dolce.
«Direi che è quasi più buono del mio», sorrisi, leccandomi le labbra per ripulirmi dalla cioccolata. Johnny mi guardò in modo strano, distogliendo poi lo sguardo e sospirando ad occhi chiusi. Ok, avevo fatto un gesto che non dovevo fare… ma non era a doppio fine! Tornò a fissarmi maliziosamente.
«Facciamo una passeggiata?». Si alzò e mi venne vicino, porgendomi il braccio dopo aver messo i soldi sul tavolo. «Questa la portiamo con noi», aggiunse, afferrando la bottiglia di spumante dolce per il collo. Joseph ci salutò ringraziandoci e uscimmo per respirare un po’ d’aria pulita e fredda. Rabbrividii pentendomi di aver indossato un vestitino che mi lasciava le braccia e le spalle scoperte. «Eh sì, fa freddo», commentò lui, togliendosi la giacca e poggiandomela sulle spalle. In quel momento si avvicinò talmente tanto da poter sentire il suo fiato a dosso e inclinai il viso imbarazzata.
«Non vorrai che mi porti anche questa a casa», scherzai,scostandomi una ciocca di capelli che mi era caduta sul viso.
«Almeno avrò il pretesto per rivederti», sorrise, stringendomi forte e cingendomi, sfregandomi le spalle con vigore per generare calore. Anche lui sentiva freddo, lo percepivo, ma aveva comunque fatto un gesto di galanteria. Magari ci fossero ancora uomini come lui! E non c’entrava nulla il fatto che appartenesse alla vecchia generazione! Mi sfilai i tacchi per poter camminare sulla sabbia, ancora tiepida perché il sole l’aveva riscaldata tutto il giorno, iniziando a camminare sul lungo mare, senza bagnarci i piedi.
«Non mi hai detto il motivo del tuo ritorno a Owensboro », disse lui, fissando davanti a sé.
«Prima tu», replicai e lui accennò una risatina amara.
«Sarò schietto al cento per cento», accennò. «Prima o poi si ritorna! Come ti ho detto il giorno stesso che ci siamo incontrati»
«Quando mi hai quasi investita?», lo interruppi facendolo ridere e mi diede una leggera spinta continuando a guardarmi con i suoi bellissimi occhi che al contatto con il riflesso della luna sembravano splendere di luce propria.
«Proprio così!». Sospirò per poi tornare serio. «Avevo bisogno di uno strappo alla routine di ogni giorno. Sono stanco di conoscere gente che sanno tutto di me mentre io non so nemmeno il nome. Sono stanco di interpretare ruoli per qualche film ma una volta ogni tanto voglio interpretare me stesso! Rincontrare visi conosciuti o persone di cui so vita, morte e miracoli… e quale posto migliore della propria casa? Si. Owensboro è la mia casa e… devo ammetterlo: ho avuto un gran nostalgia!», mi accorsi solo dopo che cominciò a fissarmi che io lo stavo facendo con ardore da svariati minuti. Mi voltai imbarazzata, riservando lo sguardo alla luna. sorrisi ammaliata da tutto il calore che possedeva il suo cuore, sedendomi sulla panchina accanto alla quale eravamo arrivati. «Ora tocca a te»
«Mio padre è letteralmente scappato con un’altra donna e io e mia madre non potevamo sopportare di vedere la sua sagoma sul letto e il suo riflesso in ogni angolo della casa! Era troppo e ogni volta il magone che avevo al petto si fortificava. Finché non mi creai un enorme muro dinanzi a me: fu a quel punto che mia madre decise di partire e io andai con lei. Ora sono ritornata perché come hai detto tu ho avvertito un enorme nostalgia di casa… a volte bisogna riaffrontare i fantasmi del passato», gli sputai tutto come a volermi sbarazzare di quel sassolino sulla scarpa. Rabbrividii appena mi accorsi di avergli detto fin troppo.
«La tua storia è molto simile a quella…»
«Cosa?», chiesi tutto ad un fiato mentre il mio cuore mi tamburellava spasmodicamente sul petto e mi avvicinai a lui per capire meglio la sua espressione. Il suo sguardo si spostò sul mio volto.
«Hai una ciglia sulla guancia», sorrise lui, avvicinandosi al mio viso. Trattenni il respiro, avvertendo improvvisamente il suo calore, sentendo il suo respiro e profumo. Incrociai i suoi occhi, a due centimetri dai miei.
«Se era una scusa per baciarmi, era pessima», scherzai e lui rise, poggiando il dito sulla mia pelle e mostrandomi la ciglia che volò via.
«Se avessi voluto baciarti ti avrei detto che hai ancora la bocca sporca di cioccolato», sussurrò, sfiorando le mie labbra con il pollice, prima che si avvicinasse di quel centimetro che bastava per unire le nostre labbra. Le sue erano così calde e morbide, così esperte che si muovevano con disinvoltura sulle mie, accarezzando e stuzzicando la mia lingua con la sua. La sua giacca cadde nella sabbia quando le sue mani mi sfiorarono le mie braccia, le mie spalle e poi il mio collo ed io, abbandonata a lui, gli misi una mano tra i capelli. Questo era il bacio che mi aveva promesso quando eravamo più piccoli. Quando lo pretendevo e invece lui mi aveva risposto che da grande avrei capito tutto, che me l’avrebbe dato. Staccò sonoramente le labbra dalle mie e incrociò il mio sguardo. Perché non poteva sapere chi ero veramente?! Arrossii all’istante e indietreggiai leggermente, sconvolta, per riprendere fiato.
«Scusami», sussurrò lui imbarazzato. «Sono uno stupido, ho rovinato tutto», aggiunse, passandosi una mano tra i capelli, gettando il capo all’indietro ad occhi chiusi.
«Già», borbottai titubante, anche se non ero per niente d’accordo.
«Ti giuro che non avevo intenzione di baciarti! Stavo scherzando ma poi… ho pensato “forse non è poi così ridicolo se la baciassi ora”. Non so cosa mi sia passato per la testa, mi è venuto istintivo», iniziò a farfugliare caoticamente. Risi.
«Ehi, è stato solo un bacio», commentai, alzandomi e recuperando la giacca di Johnny. «Si è fatto tardi, domani devo svegliarmi presto per iniziare i lavori in casa», aggiunsi, scrollando la sabbia e restituendola a lui. Sorrise, si alzò e ci rimettemmo in auto.
«Ti ringrazio, è stata una bella serata», sorrisi, quando lui accostò nel vialetto di quella che, mentendo, avevo detto fosse la mia “casa”.
«Sì, infatti, spero che ce ne saranno altre», commentò. Restai qualche secondo in silenzio. Scese dalla macchina,raggirandola per aprirmi lo sportello. Mi porse la mano che accettai senza neanche pensarci due volte. Tra noi si piombò nuovamente il silenzio imbarazzante di un attimo fa. Eravamo vicini ad un soffio dai nostri animi.
«Non hai rovinato tutto», dissi infine e lui mi guardò perplesso. «Con il bacio intendo», aggiunsi guardandolo e con il viso un piccolo sorriso beffardo. «È stato bello anche quello». E dopo quella tremenda rivelazione che avrei dovuto risparmiare, tenendola per me, mi voltai, facendo finta di entrare in casa.
«Aspetta!», mi canzonò costringendomi a voltarmi. Mi tirò qualcosa che per fortuna presi al volo e lo guardai sbalordita,fissando poi il suo anello e un piccolo pezzo di carta con un numero scritto sopra.
«Quello è il mio numero e l’anello… è il pretesto per rivederti ancora», sorrise prima di mettersi in moto e partire,facendomi l’occhiolino.
Quando fui certa che se ne fosse andato, cominciai a camminare per dirigermi verso casa. Avrei dovuto fare qualche passo a piedi, di notte, da sola, con i tacchi ai piedi per arrivare a casa, ma non sarebbe stato nulla di così impossibile se pensavo ancora a quello splendido bacio che mi aveva regalato.
Mi infilai l’anello al dito e cominciai a sognare a d’occhi aperti,immaginando sognante quello che era accaduto quella sera. Finalmente mi sentivo parte integrante di Johnny e riconobbi il ragazzino di vent’anni fa.
Arrivai dopo una ventina di minuti circa alla mia vecchia casa,riconoscibile a venti metri di distanza grazie al portico malandato e al giardino non curato. Percorsi quella piccola via ed entrai in casa,cercando di fare meno rumore possibile. Dopo essere entrata in camera, buttai il telefono sul letto e il vestito sulla sedia, mentre quei tacchi vertiginosi finirono in qualche parte della stanza che in quel momento non mi interessava sapere.
Il mio telefono squillò improvvisamente e sorrisi quando vidi sul display il nome di Sarah che sicuramente si era mangiata le mani per sapere come fosse finita la serata.
«Pronto?»
«Elle dimmi tutto!!». Fui costretta ad allontanare l’apparecchio dalle orecchie.
«Sarah, oddio, sai che ore sono?! Parla piano!», canzonai e la mia amica abbassò di qualche decibel la sua voce squillante.
«Com’è andata?», mi chiese speranzosa con una nota impaziente nella voce. «Ti avevo promesso di vederci oggi no? domani che ne dici di vederci così che ti possa raccontare tutto con calma senza però che i miei poveri timpani devono spaccarsi in due?»
«Accetto l’offerta e vado avanti!»
«A domani», risi staccando la chiamata e mettendomi tra le calde coperte del mio comodo letto. Socchiusi gli occhi,cercando di vedere il volto di Johnny nell’oscurità della mia mente. Mi abbandonai al sonno e fui certa di averlo sognato quella notte.

«Oddio non ci credo,ti ha baciata??»
«Sarah non penso che lo debba sapere tutto Owensboro», motteggiai alla mia amica mentre soffiavo sulla cioccolata calda nella veranda del caffé-bar che si trovava nella piccola piazzetta della cittadina.
«Perché non me lo hai detto prima? Ti rendi conto che non ho ancora un abito da cerimonia?», scoppiai a ridere mentre guardavo la donna con uno sguardo sbalordito e stordito al contempo. «Cerimonia? Sarah è stato solo un bacio in un momento di cedimento! Non abbiamo fatto nient’altro: solo un banale bacio che rimarrà tale! Probabilmente non è stato nient’altro per lui e io non voglio bagnarmi prima che piova». Effettivamente la mia era paura. Paura di essere abbandonata ancora da qualcuno che consideravo più importante della mia stessa vita. Non sarei riuscita a sopportare un altro rifiuto,abbandono. Per questo non riuscivo a pensare che Johnny potesse provare qualcosa per me,soprattutto perché io non ero quella che diceva di essere. Avrei rovinato tutto dicendogli la mia vera identità e non potevo,anche se sapevo che stavo sbagliando con lui. Non ero nemmeno sincera con me stessa,credendo in una persona che effettivamente non ero.
«Allora perché ti avrebbe dato il suo anello?»
«Sarah, che ne dici di andare a fare una passeggiata?» .La mia amica sorrise e dopo aver pagato il conto uscimmo avviandoci verso il parco.
«Ma almeno vuoi ammettere che nei sei innamorata?»
«Lo ammetterò quando il mio cuore ne avrà conferma mia dolce amic…». Quel senso di fastidio alla gola ricomparve e il bruciore sembrò più violento del giorno precedente. Ispirai cercando di inalare più aria possibile ma non ne avevo abbastanza e i polmoni sembravano volermi esplodere dentro al petto.
«Cos’hai?», mi chiese Sarah guardandomi preoccupata.
«Non riesco a respirare», squittì cominciando a tossire rumorosamente, boccheggiando. Mi sentii mancare le forze e caddi a terra, sulle ginocchia continuando a tossire.
«Oddio aspetta!». Vidi la ragazza allontanarsi verso la fontana e dopo qualche minuto qualcosa di freddo mi inondò il volto e il corpo facendomi rabbrividire. «Va meglio?», mi chiese allarmata. Aprì gli occhi e la ritrovai con un piccolo secchiello in mano e mi accorsi solo dopo qualche secondo di essere completamente bagnata.
«Dovevo farti riprendere in qualche modo no?», disse con aria innocente, togliendosi ogni colpa, aiutandomi ad alzarmi.
«Grazie», dissi, a metà tra il sarcastico e il sincero.
«Non mi devi ringraziare… ma cos…?». Prese la mia mano portandosela dinanzi al viso. Sgranò gli occhi e mi guardò con uno sguardo terrorizzato. «Ma è sangue!»
«Mi è successo anche ieri al ristorante…»
«Cosa?! Ora vieni al mio studio che ti faccio una visita lampo!». Prendemmo la macchina, dirigendoci come un lampo al suo studio.
Quando arrivai il mio cuore perse un battito e l’ansia si impadronì di me alla vista dell’enorme ago che mi penetrò la pelle.
«Ahi», farfugliai, toccandomi il braccio dolorante.
«Scusa ma era inevitabile». Portò il sangue su un oggetto metallizzato dove esaminò il campione. Sgranò gli occhi terrorizzata e quando li rialzò impallidì…
«Sarah cos’hai?»
«Oh mio Dio…»





Con grande ritardo, ma siamo tornate xD
Johnny sembra ancora non ricordare la piccola Elle e lei si sta innamorando di nuovo di lui: certo che lui complica sempre tutto con questi baci promessi ù.ù
E poi...chissà Sarah cosa ha scoperto :O
ehehe speriamo davvero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento,
ci faranno piacere i vostri suggerimenti e pareri!
Un bacio, A & P <3

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Pensieri. Solo futili pensieri mi attraversavano l’anima come il soffio del vento sulla pelle, gelido come il ghiaccio, come un temporale improvviso che ti coglie di sorpresa desideroso di portarsi dietro solo indigenze.
Mi sentivo invasa da pensieri inquieti mentre nella mia mente navigavano incessantemente quelle parole: mi rimbombavano nel cervello come se avessi ricevuto una forte testata e adesso dovessi convivere con una forte emicrania. Il suono di quelle parole erano come una pugnalata al petto e l’ansia era devastante, impetuosa come il morso di una vipera il veleno che inizia a circolare velocemente nell’organismo, puntando al cuore. Erano queste le preoccupazioni che mi travolgevano, che ad ogni secondo si facevano più reali, era la consapevolezza del dubbio che mi faceva male: non sapere una cosa che è certa solo a metà.
Fino a quanto potevo convivere con l’incertezza?
E mentre spingevo con impeto il tasto dell’acceleratore quelle parole si facevano più vivide. Cercavo di mantenere il controllo della macchina mentre il vento mi sbatteva impetuoso sul viso e il paesaggio che si attorniava a me si distanziava ad ogni secondo, diventando diverso da quello precedente. Mi dirigevo nell’unico posto che era capace di rasserenarmi, dove venivo da piccola quando mamma e papà litigavano e mio fratello scaraventava la porta di casa per non sentirli litigare. Era qui che Johnny mi portava per non farmi continuare a sentire quell’odio che sprigionavano velenosamente, era sul lago dell’Incantatrice che mi stavo avviando così da dimenticare il suono di quelle parole amare.

«Non ne sono sicura ma non posso nasconderti che potrebbe essere grave, Elle. Devo consultarmi con un altro dottore più esperto e definire il referto. Non mi sento pronta a dirti questo, tu non sei pronta a sentire quello che sto per dirti. Ma come medico ti dico che quello che ho appena visto non sarà una bella passeggiata!».

Sentii una lacrima bagnarmi gli occhi, per poi scendere tra i miei zigomi e inumidirmi le labbra. Ma no, non dovevo piangere! Sarah aveva detto di non essere sicura, quindi poteva benissimo essersi sbagliata e -come diceva sempre la mamma- “mai bagnarsi prima che piova”. Mi asciugai il viso come il dorso della mano e posteggiai quando arrivai al lago. Scesi in fretta e respirai, sentendo l’odore dei pini e il fresco dell’aria pulita. Mi faceva sempre stare bene quel luogo: il canto degli uccelli,la brezza del vento sulla pelle, il fruscio delle onde erano una cosa che mi distoglieva dalla realtà portandomi in un luogo irreale e soprannaturale. Ispirai profondamente e cominciai a camminare lungo la piccola stradina terrena che portava al lago e alla nostra casetta segreta. La giornata era semplicemente fantastica, perfetta per distogliersi dai pensieri. Mi sedetti alle rive del lago giocando con qualche filo d’erba mentre le piccole onde mi bagnavano i piedi nudi. Avevo voglia di fare un bagno ma l’acqua era al dir poco gelata. Nel cielo le nuvole erano bianche e ognuna aveva una forma diversa: mi piaceva guardare le nuvole, come si muovevano condizionate dal vento, la loro forma e la voglia di zucchero filato che mi davano. Io e Joh da piccoli passavamo intere giornate ad ammirarle:

«Johnny, secondo te, quella a cosa assomiglia? Non riesco a capire la forma!», increspai le labbra imbronciata, mentre Johnny era disteso al mio fianco con un braccio intorno alla testa e con l’altra mano si portava una sigaretta alla bocca. Ci pensò su e dopo aver cacciato il fumo mi guardò attraverso la nuvoletta grigiastra e rise.
«Come fa una bambina a non dare una forma ad una nuvola? Di solito voi piccolini avete tanta immaginazione!»
«Io non sono una bambina! Sono grande!»
«Sì, sì… sei proprio una bella bambina, grande!», mugugnò arruffandomi i capelli con la mano.
«Elle non importa ciò che stai guardando: quel che conta è ciò che riesci a vedere! Tu cosa vedi? Guarda bene…»
«Vedo te e me insieme, per sempre», sussurrai piano inclinando la testa di lato per non farmi sentire, sicura di essere diventata rossa come un pomodoro. Lui divenne serio e mi guardò per qualche secondo che a me sembrarono anni. Si sollevò avvicinandosi a me.
«Sei una bambina parecchio sveglia», osservò divertito. «E anche dolce, lo sai?», mi sussurrò con un leggero sorriso sul volto.
«Certo che lo so! Avevi dubbi?». Scoppiò a ridere e inizio a farmi il solletico. Cercavo disperatamente di respirare mentre mi faceva il solletico, mi divincolai e scappai sulla casetta dell’albero, pur sapendo che mi avrebbe rincorsa anche lassù.


Mi voltai verso l’albero dietro di me dove era costruita la casetta sull’albero e alzandomi mi avviai, arrampicandomi sulla quercia. Entrai dalla porta malridotta e fradicia e scavalcai un piccolo pezzo di legno che fino a vent’anni fa doveva rappresentare l’insegna con i nostri nomi che Johnny aveva inciso e intagliato accuratamente ma che ora era tutta rovinata e illeggibile. La casetta non era affatto grande: era una piccola stanza che ambiva da sala da pranzo,camera da letto e da giochi e ormai rimaneva solo una casetta di legno rovinato, ma quel luogo rimaneva sempre un lago di ricordi, in cui giaceva sperduta la mia infanzia. Perché non ricordava? Come aveva fatto a dimenticare perfino la sua adolescenza? Camminai verso la finestra toccando quel legno chiaro e malconcio e sorrisi quando notai delle piccole lineette distanziate qualche millimetro dove Johnny segnava periodicamente la mia statura. Toccai quelle rifiniture e sorrisi.
«Dovrei ridargli una sistemata». Mi voltai verso quella voce e sbiancai improvvisamente vedendo l’uomo della mia infanzia sull’uscio della porta che si era chinato per entrare. «Sapevo di trovarti qui! Sono passato da casa tua ma non ti ho trovata quindi ho fatto due più due e ho visto la tua macchina posteggiata al confine. Spero che non ti dispiaccia se sto un po’ con te, no?», sorrise avanzando. Rimasi a fissarlo, ignorando la sua domanda, essendo rimasta al “sono passato da casa tua’’. Questo vuol dire che era passato da quella catapecchia e che… mi stava cercando?! Ritornai alla realtà quando mi sventolò la mano davanti con una strana espressione divertita sul viso.
«Oh si… beh, mi piace qui e scusa se mi sono intrufolata in casa tua… oddio, casa tua, che poi non è neanche una casa ma sono solo pezzetti di legno messi gli uni sopra gli altri disordinatamente! Se fosse casa tua dovresti pagare anche l’imu e…»
«Ssssh », mi sussurrò, posizionando l’indice della mano sulle mie labbra. Era pericolosamente vicino e la mia mente si offuscò quando annusai il suo profumo di pesco e i suoi occhi incatenati ai miei. Fremetti, osservando le sue labbra dischiuse che in quel momento avrei voluto assaggiare e prendere a morsi. Sorrise quando notò il mio interessamento e spalancai gli occhi quando mi sentì avvampare, rendendomi conto che stava facendo più caldo del previsto.
«Emh… quello era per zittirmi? Perché, sai, non è così semplice quando mi ci metto», risi nervosa, cominciando a tormentarmi le mani che Joh si prestò a prendere e ad incatenare alle sue.
«Umh… più che altro per far cessare il tuo imbarazzo ma a quanto pare… ». Lasciò la frase a metà e a libera interpretazione ma avevo intuito ciò che voleva dire. La cosa che mandava in tilt era che aveva capito l’effetto che mi faceva e che ci stava prendendo gusto. Ma dopotutto sono una donna e lo sanno in molti che siamo grandi provocatrici. Gli avrei fatto pagare quel suo tormento nei miei confronti! Sorrisi e inclinai la testa di lato guardandolo maliziosa mentre si sedeva di fronte a me, continuando a tenermi la mano, deciso a non lasciare la presa. Lo avrei lasciato fare finché non mi sarebbe andata in cancrena.
Sorrise anche lui e i suoi occhi divennero improvvisamente dolci, come se davanti a sé avesse la bambina di un tempo. Mi avvicinai a lui lentamente, portandogli le mani sul collo, e gli sistemai il colletto della camicia mentre il mio viso si era avvicinato pericolosamente al suo e c’erano solo pochi centimetri a separarci. Mi diede un occhiata maliziosa, dopodiché chiuse gli occhi e ispirò profondamente.
«Che stai facendo?», sibilai confusa, cercando di mantenere il mio istinto ben a freno.
«Ti sto annusando: hai un bellissimo odore»
«Anche tu», risposti prontamente, pentendomi subito dopo e arrossendo vistosamente. Lo sentii ridere.
«E di cosa so?»
«Di ricordi», mormorai a capo chino. Digli tutto. È la volta giusta. Digli chi sei realmente, Elle! «Bei ricordi spero», aggiunse curioso e inclinò la testa cercando di guardarmi negli occhi in modo da scorgere la mia anima impetuosa e travolta. Sorrisi amaramente.
«Bellissimi», farfugliai, alzando il capo. Il mio sguardo divagò dai suoi bellissimi occhi ben piantati su di me fino alle sue labbra che dicevano quelle parole che desideravo sentire da tempo. Forse ero ubriaca ma era così che mi sentivo ogni volta che era tra i paraggi. Ero ubriaca di lui e non mi interessava essere sobria! Non so cosa mi spinse ad avvicinarmi di più a lui ma sapevo che ciò che stavo per fare era assolutamente sbagliato e inconcepibile. O forse no. E se si stava solo divertendo? Se fossi stata solo uno svago per lui? Ma no, in quel momento non mi importava! Avevo già abbastanza pensieri, avrei riservato il rimpianto di questa cazzata per le lunghe notti durante le quali non sarei riuscita a dormire,oppure alle notti in cui avrei passato a sognarlo. Se non avessi dato retta alla ragione me ne sarei pentita per sempre.
Lo avevo desiderato per fin troppo tempo: perché non potevo lasciarmi andare? Perché non potevo lasciarmi travolgere da quella passione rimasta spenta per troppo a lungo? Sarebbe stata per una giusta causa, sarebbe stato per amore.
Dischiusi le mie labbra ed accarezzai le sue,da prima con i polpastrelli delle mani e poi avanzai lentamente, finché unì i nostri sospiri in un unico e solo respiro. Non era da me prendere iniziativa, non ero mai stata io a baciare per prima un ragazzo. Se Johnny non avesse voluto? Sentii il suo respiro sul mio viso incrementarsi mentre le sue mani scivolavano con destrezza sul mio corpo e le mie gli avvolsero il capo spingendolo verso di me. Sentii la sua lingua cercare con maestria la mia mentre le sue mani scivolarono in basso e mi presero per le cosce,issandomi e posizionandosi attorno alla sua vita. Emisi un gridolino quando si chinò di più su di me e, sbattendomi contro il “pavimento” della casetta, mi lasciò una scia di baci lungo il collo e in giù.
«Eleonore», sussurrò sulla mia bocca mentre affondai il mio volto sull’incavo del suo collo e la sua spalla. «Voglio farti mia». Che cosa stavo facendo? Elle fermati! Gli hai mentito fino ad ora dicendogli di una persona che non sei nemmeno tu! Fermati prima che ti lasci travolgere dalla passione, dalle sue mani… dai suoi baci.
«Sono sempre stata tua, Johnny», mormorai in tono lamentoso al suo orecchio, mentre sentivo il suo peso su di me. Non potevo continuare! Non potevo creare un rapporto basato sulla bugia e sulla menzogna. Non potevo temere che da un giorno all’altro scoprisse la verità e arrabbiato non mi avrebbe accettato per quella che realmente sono.
«Joh, fermati! C’è una cosa che devi sapere prima» sibilai con voce rotta mentre si arrestò di botto guardandomi negli occhi e scostandomi una ciocca di capelli che mi era ricaduta sul viso.
Con respiro corto e il cuore in gola, osservai distesa il suo volto accaldato.
«C’è una cosa che devi sapere, prima che-»
«Me la dirai dopo», sorrise, tornando sulle mie labbra. «Voglio solo sapere se ora lo vuoi anche tu» «Potresti cambiare idea se…»
«Non credo», rise lui, vagando fin sotto la mia gonna e giocando con l’elastico delle mie mutandine.
«Non è che dopo crolla tutta la catapecchia?», scherzai ironica anche se lo temevo veramente.
«La ricostruiremo», farfugliò lui accarezzandomi i seni con le sue mani forti e muscolose. Trattenni il fiato quando sentii le sue mani calde tra le mie gambe e allungai le mani sotto la maglia per sfiorargli il petto, prima di sfilargliela frettolosamente. Mi guardò malizioso, con quei suoi occhi scuri e profondi come un pozzo o come una grotta in piena notte sotto un cielo ricoperto da stelle. Appiccicai la mia bocca al suo petto, facendo scendere le mani fino all’orlo dei suoi pantaloni e aiutandolo a liberarsene. La mia testa si riempì in pochi attimi dei suoi sospiri e gemiti e riuscì a farmene strappare qualcuno anche a me, ogni volta che mi toccava e mi baciava. Avevo desiderato fin troppo a lungo tutto questo e quasi non me ne rendevo conto. La mia testa era vuota e leggera e dentro di me vi era solo lui e il suo corpo nudo incollato al mio. Poi entrò in me con una dolcezza e lentezza inaspettata, facendomi rovesciare il capo all’indietro ed ansimare, inarcando la schiena per concedermi meglio a lui. Sentivo il suo membro spingere contro di me con dolcezza e poi con impeto,mentre lo sentivo gemere di piacere e il suo viso era una pace per gli angeli,rilassato e felice. Mi fece sorridere quando dopo una spinta più forte che mi fece quasi toccare il cielo con un dito,mi guardò preoccupato,in modo da assicurarsi di non avermi fatto troppo male.
«Scusami … io non volev …»
«Non era un urlo di dolore». Mi strinse a lui, affondando nella mia carne,mentre le mie mani tastavano la sua pelle scura e la mia bocca assaporava ogni centimetro di lui. Non riuscivo a credere che finalmente dopo vent’anni stavamo facendo l’amore. Un amore incondizionato come quelli che si guardano nei film, come quelli che si vedono solo nelle favole. Mi baciò,ancora ancora e ancora fin quando non fummo entrambi ripagati e svuotati da ogni emozione.
Come potevo sentirmi così felice? In quel momento mi accorsi che la felicità non era niente al confronto a ciò che provavo in quel momento. Quei sentimenti che provavo per Johnny erano la cosa più vera di me e che lui purtroppo non era a conoscenza.
Stavamo facendo l’amore nella nostra casetta, stavamo riempiendo ulteriormente di ricordi questo posto: ormai sarebbe stato impossibile dimenticarlo per tutto il resto della mia vita. Si alzò da me prendendo da terra la sua camicia bianca ricoprendo il mio corpo totalmente nudo e si sdraiò al mio fianco,poggiando la testa sulla mano,mentre mi guardava beato e con un mezzo sorriso sul volto. Gli sorrisi flebilmente mentre con un piccolo gesto gli accarezzai il viso.
«Cos’è che mi dovevi dire?», disse lui curioso, sollevandosi su un braccio. Abbassai il capo,indecisa sul da farsi.
Ti sei scopato la bambina innamorata di te dall’asilo! Sì, era davvero un’ottima risposta. Per farlo scappare a gambe levate.
«Nulla di importante», farfugliai ad occhi chiusi e la mascella serrata, dandomi della stupida. «Sembrava esserlo» feci un cenno di diniego con la testa e ritornai a guardarlo in tutta la sua perfezione. Era dannatamente bello e ogni centimetro di lui mi spingeva a desiderarlo ulteriormente. Mi sollevai leggermente e ad occhi chiusi lo baciai di nuovo,cercando di imprimermi nella mente quel bellissimo momento. Sorrise mentre mi morse le labbra e mi accarezzò il viso con la mano mentre con l’altra si teneva in equilibrio.
«Sei stupenda! Non so come ho fatto a non incontrarti prima»
«Già», proferii amara,alzandomi e incominciando a vestirmi mentre sentivo il suo sguardo su di me.
«Cosa ti prende?», disse infine, venendomi vicino e accarezzandomi una guancia. Mi sento in colpa. Dovevo dirti chi ero prima che succedesse tutto questo. Mi sono cacciata in un pasticcio, mi sono innamorata e non posso continuare a stare con te raccontandoti sempre più bugie.
«Io… scusami, è che non sono abituata a fare le cose così impulsivamente», sorrisi. Mentendo ancora una volta.
«Sei pentita?»
«Questo mai! È solo che mi è sembrata una pazzia… ». Rise, avvicinandosi di più a me.
«Allora ti farò fare tutte le pazzie del mondo», mi sussurrò, prima di poggiare le labbra sulle mie. «Mmh», sospirai, attirandolo a me.
«Perché mi hai detto che abitavi in quella vecchia casa abbandonata?», disse infine con aria corrucciata.
«Quel posto è deserto, è impossibile che tu ci viva», aggiunse. Abbassai il capo e boccheggiai. «Beh, non do al primo che capita il mio indirizzo», deviai, sorridendo.
«Credevi fossi un maniaco?», rise lui.
«Mmh, qualcosa del genere. Ti vedo comparire sempre alle mie spalle», gli feci l’occhiolino. Rise divertito.
«Questo è l’unico modo per prenderti di sorpresa». Lui sorrise, accendendosi una sigaretta.
«Eh no, vuoi far prendere fuoco la mia reggia?!», scherzai, strappandogli la sigaretta dalle mani. «La tua reggia?», ripeté lui ridendo. Alzai gli occhi al cielo e uscii, fino a scendere dall’albero. «Eleonore?»
«Mmh?». Alzai il capo e lo fissai, ancora lì sopra la casetta che mi sorrideva.
«Qualcuno ti ha mai detto “ti amo”?», urlò per farsi sentire. Sgranai gli occhi avvampando visibilmente
«Vuoi urlarmelo lì sopra, Romeo? Lo sai che dovrei essere io quella affacciata ad un balcone?», scherzai. Lui rise e scese, fino a venirmi vicino.
«Rispondimi» proferì serio,guardandomi fisso negli occhi.
«No, nessuno di importante», mormorai. «Ho sperato lo facesse, ma ero troppo ingenua per caprie cosa significasse», sospirai, voltandomi. Stupida, stupida, stupida! Mi afferrò per una mano, costringendomi a voltarmi.
«Io… non so se posso già dire che ti amo, ma mi piaci parecchio! È come se ti conoscessi da sempre,che ti conoscessi da una vita e oltre! », sussurrò sulle mie labbra. Non potei fare a meno di sorridere e avvicinarlo a me.
«Forse è così»
«Come?». Mi allontanai di più da lui, tanto da permettergli di avere una visuale di me completa. «Avanti, Johnny, cosa ti ricordo?», sussurrai speranzosa, allargando le braccia e guardandolo con aria da cane bastonato. Lui restò a fissarmi per qualche secondo, prima di mettersi le mani in tasca. «Oh, scusami», farfugliò, quando anche io sentii la suoneria del suo cellulare. Le mie braccia crollarono lungo i fianchi: possibile che fosse così difficile dire la verità a volte?!
«Devo scappare», disse infine, venendomi vicino in gran fretta. «Ho un appuntamento con un amico: forse inizio un nuovo film», aggiunse, afferrandomi per un fianco.
«O-ok», mormorai confusa.
«Mi farò perdonare», sussurrò, poggiando velocemente le labbra sulle mie, prima di andar via. Tre… due… uno…
«Merda», ringhiai, lanciando un sasso nel lago e sedendomi sulla riva. Come diavolo dovevo dirglielo? Con una lettera? Chiusi gli occhi e per un secondo mi parve di sentire ancora nelle orecchie il suo respiro.
«Oh, Elle è tornata», sentii dire da mia madre.
«Finalmente!». Un’altra voce. Quella voce. Mi bloccai nel corridoio, con la borsa al collo e le chiavi dell’auto ancora in mano: sgranai gli occhi, spalancai la bocca e rimasi immobile per cercare di sentire di nuovo la voce.
«Sembrano passati secoli dall’ultima volta che l’ho vista». Oh no. Cercai di passare silenziosamente dalla cucina ma, quando mi chiamò mia madre, sobbalzai e mi bloccai, voltandomi lentamente verso le due figure sedute al tavolo davanti una tazza di the. Feci qualche passo e sorrisi imbarazzata. Betty Sue, la mia cara Betty Sue, si alzò di scatto dalla sedia e sgranò gli occhi, fissandomi come se avesse visto un fantasma.
«Oh Dio». La donna, dai capelli biondini e l’aria simpatica, era rimasta uguale a come la ricordavo: era identica a Johnny. Un brivido percorse la mia schiena e, quando lei mi strinse in un abbraccio, tornai dietro con gli anni a quando ero una bambina e lei mi teneva tra le sue braccia. Sì, era stata la mia seconda madre.
«Zia Betty, mi sei mancata», sorrisi ad occhi chiusi, nascosta con il viso tra i suoi capelli e ispirando il suo profumo misto alla cannella. Quando finimmo di crogiolarci nel nostro abbraccio, ci guardammo negli occhi.
«Ti ricordavo una bambina piccola così che giocava nel giardino dietro casa», sorrise al ricordo, con le lacrime agli occhi dall’emozione. Sorrisi anche io.
«Io invece ricordo le tue torte al cioccolato»
«Te l’ho portata!»
«Evvai!». Ridemmo, poi ci sedemmo a tavola e gustammo la sua deliziosa torta.
«Sei cambiata tantissimo, Elle», sorrise zia Betty, senza smettere di fissarmi. «Sei diventata una bellissima donna», aggiunse.
«Grazie»
«Oh, aspetta che ti veda Johnny! Sono sicuro che impazzirà!», esclamò lei entusiasta.
«No!», esclamai allarmata sgranando gli occhi, beccandomi delle occhiate perplesse. «Vorrei fargli una sorpresa», aggiunsi con tono più calmo. Il viso di Betty, confuso per qualche secondo, tornò sereno. E io avevo appena detto un’altra bugia per quella giornata.
«Oh, certo. Non gli dirò niente allora», sorrise, facendomi un occhiolino. «Anche se sarà un miracolo riuscire ad incontrarlo: è sempre pieno di impegni!». Ed era buffo, se pensavo che mezz’ora fa era lì, nella casetta, a fare l’amore con me.


Siamo state parecchio impegnate ultimamente e per questo ci scusiamo per la data di pubblicazione :3
Un grazie a quelle che continuano a seguirci, sarebbe bello conoscere anche il parere delle altre!
Elle sembra mostrare i primi segni di cedimento e, inoltre, l'incontro con zia Betty potrebbe metetre a rischio la sua vera identità: riuscirà Elle a confessare tutto? O Johnny lo scoprirà da solo?
Una cosa è certa: questi due, si piacciono! :P
Speriamo che il capitolo sia stato di vostro gradimento, ancora buona Pasqua posticipata,
bacioni, A & P <3

 

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Capitolo 6
*** capitolo 5 ***






«Non crederai che io mi sia bevuta la faccenda di Johnny, spero», borbottò la mamma, asciugandosi la fronte sudata con il dorso della mano sporca di terreno, mentre piantava i semi di girasole –il suo fiore preferito- nelle aiuole. Restai impassibile per qualche secondo, facendo finta di non averla sentita mentre tagliavo l’erba secca dall’ultimo pezzo di prato. Posai le grosse forbici e alzai lo sguardo verso lei che, accanto a me, continuava a fissarmi.
«Sapevo che non ci avresti creduto», mormorai. «Anche se ci ho sperato». La sentii tirare un grosso sospiro e posare tutte le sue “armi” da giardinaggio prima di stringere le mani al petto.
«Prima me lo dicevi, se c’era un problema… e mi chiedevi di aiutarti», sussurrò forse un po’ offesa. Mi morsi il labbro e alla fine smisi anche io di lavorare, sedendomi sul muretto accanto a lei.
«Lo sai che preferisco cavarmela da sola»
«Come vuoi! Ma mi fa male e lo sai perché?», mormorò e io alzai la testa per ascoltare la sua risposta e delle lacrime velare i suoi occhi scuri. «Perché mi sto accorgendo che il tempo sta trascorrendo così velocemente …e tu non se più una bambina, Elle! Ormai sei anche tu una donna». Sorrisi e increspai le labbra consapevole che il tempo è una puttana. «Intanto,bambina, cercherò di tenere a bada Betty fino a quando non avrai sistemato “non so che cosa” con Johnny», mi fece l’occhiolino e le sorrisi dolcemente. «Ah, Sarah ti cercava prima al telefono…»
«Uhm, okay, grazie, ora la richiamo», farfugliai, parlando a scatti con tono neutrale. Feci per entrare in casa, ma la voce della mamma mi fermò.
«Elle?». La vidi fissare il basso e mordersi la bocca, tipico di quando stava riflettendo se dire o meno qualcosa che avrebbe potuto avere delle… conseguenze. «Ecco… conosco Johnny da quand’era un ragazzino e avete degli anni di differenza… ma questo non importa, so che tipo è, so che è una brava persona ma ho bisogno di sapere se lui… beh se voi avete…»
«Sì. “Abbiamo”», tagliai corto, alzando gli occhi al cielo appena capii cosa voleva alludere quella donna. Sgranò gli occhi e sul suo volto si dipinse un velo di stupore.
«Cosa?! Non ci posso credere! Perché non me lo hai detto?»
«Scusa, mamma, se ho rispettato qualcosa che si chiama “privacy”», la presi in giro, entrando in casa.
«Elle!»
«Sarah mi sta chiamando!», urlai, sperando che la conversazione finisse lì. Mi affrettai a portare un cellulare all’orecchio per fingere di essere già in attesa di una risposta dall’altra parte del telefono.
«Elle?». La sua voce squillante mi arrivò alle orecchie e mi fece stare già meglio.
«Ehi, tutto bene?»
«Ti ho chiamata ieri ma non mi hai risposto…»
«Sì, ero… con Johnny», farfugliai, sedendomi sul bordo del letto e accavallando le gambe,tormentandomi le mani con fare nervoso senza conoscerne perfettamente il motivo
«Oh», disse con uno strano tono di voce. «Gli hai detto la verità?»
«Non ho avuto tempo», farfugliai, convincendomi del fatto che in parte era la verità.
«Che significa “non ho avuto tempo”, Elle? Devo preoccuparmi?!»
«E per che cosa?!», risi io, poggiando la testa sul cuscino e chiudendo gli occhi. Mi apparvero gli occhi scuri di Johnny e il suo respiro nella testa,cosa che mi fece pensare a quello che era accaduto poco prima «Con Johnny… è stata la mia volta più bella», sussurrai alla fine, indugiando, non sentendo più la voce di Elle dall’altra parte del telefono.
«Oh Dio, l’avete fatto?!»
«Nella nostra casetta», farfugliai, sentendo le guance andarmi a fuoco e il cuore tamburellarmi nel petto come se fossi stata una bambina alla sua prima cotta
«E ti è piaciuto?»
«Ti ho appena detto che è stata la mia volta più bella!», replicai e lei accennò una risatina.
«Sono felicissima!», squittì. «E tu… tu lo sei?». Rimasi un attimo spiazzata da quella sua domanda. Ma per la prima volta ero consapevole della risposta ma nonostante ciò avevo troppe idee che mi tamburellavano incessantemente sulla testa
«Sai, Sarah… è una vita che sogno di amare Johnny! L’ho sempre desiderato da quando ero all’incirca alta quanto un cassetto, ma non lo so… mi sento un esplosione dentro al petto ma vorrei anche spaccare tutto perché quello che ho fatto comporta delle conseguenze. Soprattutto mi affligge il pensiero che Joh non abbia fatto l’amore con me ma con Eleonore: ho sbagliato con lui e so che non posso più tornare indietro». Dall’altra parte della cornetta sentivo solo il suo respiro.
«Come hai detto tu ormai è tardi per tornare indietro! Ma non puoi nemmeno metterti il cuore in pace! In caso puoi lasciar correre e vedere come si mettono le cose»
«E invece da te come va? Intendo riguardo alle mie analisi…»
«Ho dato tutto al dottor Martini: dovrebbe farmi sapere qualcosa entro due giorni»
«Okay, tienimi aggiornata». Il cellulare mi vibrò tra le mani. «Ehi, Sarah, resta in linea mi è arrivato un messaggio»
«Sono qui», mi rassicurò lei e così cliccai il pulsante per metterla in attesa, aprendo il testo del messaggio che lampeggiava in alto con l’icona di una lettera.

Al lago dell’Incantatrice tra un’ora: ho una sorpresa per te!
Johnny.


Il mio cuore saltò un paio di battiti e sussultai, facendomi uscire uno strano suono dalla bocca.
«Elle? Sei lì? Tutto bene?»
«Johnny vuole vedermi!», urlai ad un fiato, precipitandomi giù dal letto. «Ha detto di avere una sorpresa per me!»
«Non ti vedevo così innamorata dai tempi del liceo…», osservò Sarah. «Sei strana», aggiunse ridendo e risi anche io.
«Ti lascio prepararti, fammi sapere!»
«Un bacio!». Staccai il cellulare e fissai l’armadio davanti a me.
«Ed ora, tesoro, a noi due», sussurrai minacciosa.
Presi alcuni vestiti dall’armadio antico che si trovava nella mia camera, cercando qualcosa che potessi utilizzare per la sorpresa che Johnny mi aveva organizzato. Ma di cosa trattava?
Cercai qualcosa che non mi facesse sembrare una di quelle balene dell’ottocento pronte per recarsi al gran ballo ne quanto meno una ragazza intenta a fare jogging.
Presi un vestito lilla e lo risolsi, spiegandolo dinanzi a me. Quando cavolo avevo comprato questa cosa orrenda?! Era sicuramente uno di quei regali di zia Sandra, una lontana parente della mamma, che se ne usciva con degli orrendi abiti da bambolina di porcellana ad ogni occasione che necessitasse di un regalo.
Afferrai una grossa camicia orientale e storsi la bocca.
Un altro regalo di zia Sandra.
Perché non l’avevo ancora buttato?!
Oh, giusto, quasi dimenticavo che pretendeva che lo indossassi almeno quando ci incontravamo…
Presi qualche altra maglia, buttandola scompostamente sul letto, cercando una combinazione perfetta di colori. Li provai ad uno ad uno, controllando la mia figura nell’enorme specchio sopra il comò dove tenevo segretamente i miei oggetti più preziosi, come alcuni regali che mi aveva fatto Joh a qualche mio compleanno. Amava i teschi fin da ragazzino: avevo anche io un anello simile al suo, me l’aveva regalato al mio compleanno.
Avrei potuto indossare quelle e dire: “Tadaan! Indovina chi sono?!?’’
Alla fine optai per un completo street di un paio di shorts di jeans chiari e una camicia giallo chiarissimo che si legava sul davanti in un grosso nodo che lasciava scoperta una parte della mia pancia: faceva caldissimo, mi sarei sciolta come un ghiacciolo al sole con uno di quegli maglioni di zia Sandra! Trovai non poche difficoltà ad infilare quei jeans che fino a poco tempo fa lineavano la mia fantastica 40. Ora sembravo gonfia quanto un cocomero: avevo di sicuro messo su un’altra taglia.
Indossai un paio di sandali bassi con uno strano tacco, presi la mia borsa e lasciai la mamma intenta a cucire un vecchio pantalone, attraversai il vialetto e mi misi in macchina.
Arrivai al lago dopo circa mezz’ora e quando vidi la sua macchina posteggiata all’ombra di un albero in pesco il cuore mi arrivò in gola. Non avevo riflettuto veramente su quello che stava accadendo. E quello era il momento giusto per decider cosa fare: girare la macchina volatilizzandomi da quel luogo o scendere e incontrare l’uomo con cui avevo vissuto momenti indimenticabili, con cui avevo fatto l’amore. E si… “amore” perché quel che avevo fatto con Johnny non era solo sesso ma gli avevo donato il mio cuore, la mia anima e lui mi aveva dato la sua. Era da tempo che avrei voluto offrirgli tutto questo.
Ma, dopotutto, mi sentivo come oppressa da un qualcosa più grande di me e lui messi insieme. Non ero mai stata brava a guardare dentro le persone, mi ero fatta molte illusioni e non riuscivo a capire se quel che dicevano o provavano era la realtà o solo un mucchio di bugie. Spesso facevo lo sbaglio di vedere solo ciò che volevo vedere: non riuscivo a scorgere nei volti delle persone l’autore che erano, tantomeno in quello di Joh. Mi pareva di conoscerlo da una vita, eppure, ogni volta avevo dinanzi a me un perfetto sconosciuto.
Rimasi immobile qualche secondo, con gli occhi ben piantati su quell’auto nera e dai vetri oscurati, cercando di prendere una decisione sul da farsi: o la va o la spacca!
Scesi dall’auto velocemente, evitando qualunque ripensamento, e mi gustai il venticello portatore d’estate che scompigliò i miei capelli. Percorsi la collina scoscesa arrivando finalmente alla casetta e alle sponde del magnifico lago che si prostrava di fronte a me in tutta la sua maestosità, scintillando e brillando come diamanti grazie al riflesso dei raggi solari.
Mi voltai verso l’albero dove era appesa la scaletta che mi avrebbe condotta alla casetta. Legata alla corda trovai una rosa rossa con un piccolo bigliettino. Sorrisi quando la presi e mi girai tra le dita quell’abbozzo con una scrittura che neanche uno stenografo avrebbe tradotto. Alla fine con non poche difficoltà lessi un:

Alla donna più carina del mondo! Un mio omaggio…
Ora sali colombella! Abbiamo un po’ di lavoro da fare!
Baci, il tuo Joh <3


“Il mio Johnny’’ quelle parole erano il suono più dolce che le mie orecchie avessero mai udito. Ripiegai il biglietto e me lo infilai in tasca per poi salire le gradinate, fin quando non entrai dentro la casetta e lo vidi come meno mi aspettavo…
(No, non era nudo purtroppo)
Sgranai gli occhi vedendolo con addosso una tuta grigia e blu, stringendo nella mano destra cinque barattoli di vernice, mentre nell’altra aveva dei chiodi e un martello. Mi portai le mani alla bocca e poi scoppiai a ridere.
«Ridi, ridi!», borbottò, venendomi incontro. Anche in quel modo era terribilmente sexy: sarebbe stato benissimo anche in camicia da notte! «Sono in tenuta di ristrutturazione! E tu… mi darai una mano!»
«Io?», chiesi incredula, puntandomi un dito contro. Forse era meglio che me ne fossi andata con la macchina! «Sai, quando parlavi di appuntamento… mi ero immaginata qualcosa di diverso come musica e candele…», scherzai.
«Sono un tipo che sa sorprendere», sorrise lui. «Su forza al lavoro! Tieni. Cambiati con questi così non ti rovinerai i vestiti. E comunque… wow!». Mi lanciò un grembiulino bianco che afferrai al volo, lo guardai scettica e feci spallucce, dandogli le spalle per infilarlo. Sobbalzai quando sentii le sue mani sulle mie per aiutarmi ad allacciarlo dietro la schiena. Tossii imbarazzata e abbozzai un sorriso per ringraziarlo, afferrando poi uno dei pennelli che aveva in mano. Mi avvicinai al suo viso quanto bastava per metterlo in imbarazzo.
«Su, forza, fammi vedere che uomo sei».
Il lavoro di ristrutturazione procedette velocemente tra una chiacchiera e l’altra. Nella prima parte non feci molto perché bisognava prima riparare alcuni danni ed io mi ero fatta male già due volte, quindi restai a fissare Johnny intento a martellare mentre teneva tra le labbra il prossimo chiodo da applicare. Nella seconda parte, invece, mi accusò di ozio e mi lanciò contro il pennello e il barattolo di vernice. Quanto meno non ci crollò il tetto di sopra…
« Joh? Posso farti una domanda?», chiesi fermando la mia opera di verniciatura mentre lui continuò senza guardarmi.
«Me ne stai già facendo una!»
«Piantala! Quando fai così mi sembri un bambino di sedici anni!», lo ammonii, dandogli una piccola spintarella con il bacino. Lui mi fissò con tanto d’occhi furbi e nel suo volto spuntò un sorriso strano e malizioso che non prevedeva nulla di buono. Si fermò, si girò verso di me e iniziò ad avanzare con in mano il pennello pieno di vernice celeste con il quale stava decorando l’interno. Indietreggiai mentre gli occhi minacciavano di uscirmi dalle orbite e quando sbattei contro la superficie legnosa ancora da verniciare capii che non avevo più scampo.
«Joh, fermati immediatamente!», squittii, ma in quel momento mi sembrò un po’ come Sweeney Todd nei suoi attacchi di pazzia. Lui si avvicinò mettendo una mano al muro a sinistra del mio orecchio, il petto poggiato sul mio e i nostri visi ad un soffio di distanza, quel tanto da poter percepire l’uno il respiro sulla pelle dell’altro. Ma ciò che mi preoccupava di più in quel momento era il pennello che teneva ben stretto sulla sua mano destra.«John Christopher Depp II, non sai che sono una serial killer e potrei vendicarmi se non mi levi ORA quel pennello dal naso?», sussurrai.
«Tu? Una serial killer?», scoppiò a ridere e fu questione di pochi attimi: la mia faccia era diventata azzurra come quella di un puffo e l’odore puzzolente mi entrò fin dentro le narici. Sbarrai gli occhi, guardandolo con sguardo omicida.
«Vuoi la guerra?», ringhiai, affondando il mio pennello nel barattolo di vernice rossa e puntandoglielo contro. «E guerra sia!». Ci ritrovammo nella situazione inversa: ora era il topo che rincorreva il gatto. Cominciò a scappare per tutta la casa e io dietro a rincorrerlo come una bambina. Le risate squillavano nella casetta mentre la mia mente ritornò indietro nel tempo, alla mia infanzia. «Basta mi arrendo! Sei libero!», caddi a terra, sprofondando nel muro stanca morta mentre lui vittorioso ed esausto mi venne vicino posizionandosi accanto a me. Lo sentii boccheggiare, con il fiatone esattamente come me. Con un fazzoletto mi ripulii la faccia e dopo qualche secondo riuscì a levare tutta la vernice e ad appropriarmi del mio colore roseo.
«La sai una cosa, Eleonore?», mi voltai a guardarlo perdendomi nell’immensità di quegli occhi scuri. Aveva il volto reclinato in avanti e uno strano sorriso ad illuminargli il viso.
«Cosa?»
«Con te mi sento una persona diversa, so di esserlo. Divento improvvisamente bambino quando giochiamo e poi ritorno adulto quando, dopo, ho voglia di baciarti. Come in questo momento per esempio. Ho solo timore di rovinare tutto e…». Gli presi il viso con due dita e lo avvicinai al mio, inebriandomi del suo bellissimo profumo. Un brivido mi percorse l’intera spina dorsale quando unii le nostre labbra. Era bellissimo sentirle sulle mie. Mi distolsi e sorrise.
«Se era un modo per farmi zittire… ci sei riuscita in pieno, è solo che non ho capito bene una cosa, quindi vorrei…». Mi prese il viso e abbassandosi mi diede un altro flebile bacio. Impazzii quando cercò di intrecciare le nostre lingue e non riuscimmo più a trattenere i nostri istinti. Si sistemò meglio, adagiandomi sul pavimento ed io, continuando a baciarlo, lo privai della sua maglietta sporca di vernice che andò a finire in un angolo della stanza. Le sue mani frugarono per cercare di sciogliere il nodo della camicia fino a raggiungere i miei seni. Allungai le mani e poi…
Accadde tutto in un istante.
Con una mano cercai di allungarmi prendendo con un piccolo gesto il pennello e spalmando Johnny con il colore. Si ritrasse improvvisamente e mi guardò strano come se fosse l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettato. Si alzò e mi sollevai cercando di riprender fiato dal forte ridere. Anche lui ad un certo punto scoppiò e gli puntai un dito contro.
«E adesso siamo pari!»
«Che gesto meschino! Non ti hanno mai insegnato che non si colpisce un nemico alle spalle?!», borbottò scherzoso, afferrando uno strofinaccio e iniziando a passarselo sui suoi bellissimi pettorali, faticando a togliere la vernice. Sorrisi e presi una delle spugne nei secchi d’acqua, strizzandola. Mi avvicinai a lui titubante.
«Togli le mani», gli ordinai, scostandogliele, prima di poggiare la spugna sul suo petto. Lui trattenne il fiato ma rimase impassibile al tocco, immobile come una statua e forse un po’ sorpreso. Mi augurai di non arrossire troppo vistosamente, mentre iniziavo ad accarezzare il suo petto liscio ripulendo facilmente la tintura. Poggiò le sue mani sulle mie, iniziando a sfiorarmi le braccia.
«Ma non potevi scegliere un altro momento per la tua vendetta?», sussurrò con un tono straziante. Alzai lo sguardo e il suo era terribilmente tenero e dolce. Imbarazzata abbassai il capo.
«Posso farti una domanda?», chiesi flebile, senza avere il coraggio di sollevare il capo dal suo petto per incrociare i suoi occhi.
«Certo»
«Perché oggi mi hai portata qui a sistemare la casetta?», chiesi, sperando in una risposta come “beh, sai com’è! Questa è la casetta con cui venivo con la mia dolce Elle! Ma… aspetta… sei tu!”.
Lui sorrise e mi prese la mano intrecciando le nostre dita.
«Per me questo luogo ha un significato tutto suo ed è diventato ancora più speciale, da quando ci abbiamo fatto l’amore… li pensò che ci metterò una X». Scoppiai a ridere, scuotendo il capo e allontanandomi definitivamente dal suo petto.
Beh… non era la risposta che mi aspettavo ma, sì, per ora mi bastava…




Tadaaan!!!!! :D
eccoci ritornate con un nuovo capitolo tutto per voi!!! scusate tanto per il ritardo ma questo capitolo è stato più complicato del previsto ma speriamo comunque che sia stato di vostro gradimento ;)
vogliamo ringrazire di cuore tutte coloro che hanno recensito e a chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite o chi semplicemente ha posato delicatamente il suo sguardo ed è volato via come una farfalla ^^
se avete qualche particolare richiesta ne terremo conto ovviamente sempre nei limiti della storia xD
bene! vi ringraziamo ancora di cuore...
un bacio
A & P <3

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


«Merda», ringhiai, quando la macchina iniziò a protestare e a malapena riuscii a portarla sul bordo della strada. Lo sapevo: non sarei mai dovuta venire qui! Avrei ucciso Johnny appena l’avrei rivisto, anche se in fondo non era colpa sua. L’avevo chiamato, lui scherzosamente mi aveva detto di essere a lavorare “in mezzo alle campagne” per il suo nuovo film e io gli avevo detto che l’avrei raggiunto. Non mi immaginavo che sarei capitata davvero in mezzo alle campagne!
«Avanti, non mi abbandonare, resisti ancora un po’!», mi lagnai, insistendo con il piede sull’acceleratore più volte. Dopo cinque minuti mi arresi e sbuffai, sprofondando nel sediolino della mia in utilissima auto. Mi guardai dallo specchietto, vedendo una donna molto diversa da quella che sarebbe dovuta essere quella giornata: la matita nera sbavata, i capelli arruffati raccolti sbadatamente in una coda di cavallo, viso che aveva perso il suo pallore arrossandosi per il caldo terribile: e ci credo, ero a quaranta gradi sotto il sole, in una stradina di campagna circondata da campi di grano, dove passava un auto una volta ogni due ore.
«La fortuna gira sempre dalla tua parte, eh, Elle?», dissi sarcastica a me stessa. Johnny aveva detto che, dopo il lavoro, mi avrebbe aspettata: gli inviai un messaggio avvertendolo che avrei fatto tardi. Molto tardi, aggiunsi quando circa un’ora dopo non si era fatto vivo neanche un cane. Sospirai, sfilandomi la giacca e sbottonando la camicetta di qualche bottone. Il caldo era una delle cose che odiavo di più, quando non ero al mare a godermelo in pieno relax. E stavo anche morendo di sete. «Serve una mano?». Aprii di scatto gli occhi, sussultando, e mi voltai in direzione della voce maschile che avevo sentito. Appoggiato al finestrino, un uomo mi sorrideva. Aveva i capelli biondi, un paio di occhi dorati, un sorriso illuminante e dei pettorali invidiabili ad una statua greca che si intravedevano sotto la sua maglia grigia attillata. Era uno di quei miraggi che di solito si hanno nel deserto?
«No, mi stavo divertendo a morire soffocata nella mia auto. Si unisce a me?», risposi sarcastica, facendolo ridere.
«Vedo che la situazione l’ha irritata parecchio»
«Provi lei a stare due ore sotto il sole di giugno»
«Ci lavoro tutti i giorni, sotto il sole di giugno», replicò beffardo. Incrociai i suoi occhi avvertendo una strana sensazione, simile a un déjà vu: aveva un non so ché di molto, molto familiare come se l’avessi già visto da qualche parte. Staccai lo sguardo da lui imbarazzata per fissare davanti a me la strada, dove un piccolo furgoncino sostava con le quattro frecce, probabilmente quello del ragazzo. «Lei se ne intende di motori?», gli chiesi qualche attimo più tardi, voltandomi nuovamente verso di lui.
«Abbastanza da salvare una fanciulla dai terribili raggi ultravioletti», mi prese in giro, avvicinandosi al “settore motore” della mia auto. Scesi anche io, accostandomi all’uomo che era intento a maneggiare tutti quegli aggeggi che non sapevo nemmeno esistessero. Era più alto di me, aveva le spalle più ampie di quello che pensavo e un grosso tatuaggio: era un gabbiano che spiegava le sue ali quasi a voler abbracciare tutto il suo muscolo. Sussultai e la mia mente ripercorse all’indietro alcuni anni della mia vita che sembravo aver cancellato.

Risi, osservando i suoi occhi chiari e vivaci. «Tu sei pazzo», sussurrai, socchiudendo gli occhi e osservando il tatuaggio per il quale sapevo sarebbe andato fiero per tutta la sua vita. Mi poggiai sull’auto nera, ignara che stavo per sporcarmi, incrociando le braccia al petto e osservandolo intento ad armeggiare con il motore dell’auto: stava imparando da suo zio a fare il meccanico, visto che non gli andava a genio l’idea di continuare la scuola.
«Altroché! Ti piace?», sorrise lui, sollevandosi e pulendosi le mani con un vecchio panno, mostrandomi meglio il tatuaggio. Tese il braccio e mi mise davanti agli occhi i suoi muscoli: Matt non sembrava affatto un sedicenne. Storsi la bocca e feci una smorfia.
«È orribile», scherzai, scuotendo il capo. Sollevò un sopracciglio.
«Sei solo invidiosa perché tua madre non ti darà mai il permesso per farne uno!», replicò orgoglioso, tornando con la testa nelle viscere dell’auto smontata.
«In realtà pensavo avessi fatto qualcosa del tipo un dragone, un teschio infuocato…», lo presi in giro, giocherellando con la camicia che pendeva dai suoi pantaloni.
«Sì, come no, poi avrei fatto dei piercing e mi sarei tinto di rosso e nero i capelli…»
«…e avresti iniziato a suonare la chitarra elettrica», aggiunsi, scoppiando a ridere. Di colpo si fermò e si mise a guardarmi.
«Ti va un gelato?»
«Non devi lavorare?»
«Mi prendo una pausa: zio Sam ti adora, non avrai nulla da ridire»
«…zio Sam crede che sia la tua ragazza!»
«E cosa c’è di male?», sorrise malizioso, avanzando verso l’altra stanza del garage mentre afferrava al volo una maglia appesa all’attaccapanni. Scossi il capo e vidi la chioma brizzolata dello zio uscire fuori. Zio Sam era il classico tipo da commedia americana: capelli un po’ lunghi screziati di bianco, tute arancioni sotto le salopette di jeans, vecchi scarponi e le mani sempre sporche di petrolio e lubrificante. Era simpatico e gentile: si era preso cura di Matt come un figlio da quando suo padre era morto e trattava anche me come tale, essendo un caro amico di famiglia. Quindi, Matt e io eravamo amici da molto tempo e questa era una cosa che Sam non aveva accettato come “innocua amicizia”: credeva che stessimo insieme e se lo negavamo rispondeva che eravamo degli idioti a vergognarci di ammetterlo davanti a lui!
«Ah, Elle, ciao!», sorrise, vedendomi in piedi davanti a lui. Accennai un sorrisetto.
«Ciao Sam», sussurrai imbarazzata. Lui ci guardò e annuì.
«Sai, Elle, non so se fai così tanto bene a Matt: da quando vi siete messi insieme non ha più i piedi a terra!»
«Zio, noi due non-»
«Sì, sì, lo so, me lo ripeti ogni volta», rise, «divertitevi». Matt mi poggio spavaldamente una mano sulla spalla: aveva un modo strambo di dimostrare il suo affetto, quasi arrogante, non erano mancate volte in cui mi aveva chiamato “amore” per pure scherzo.
«Forse dovremmo metterci insieme… così non gli verrà un colpo quando saprà che ti sei fidanzata con un’altra persona…»
«Bel tentativo, Matt», dissi sarcastica, dandogli un pizzicotto affettuoso e ridendo.


«Matt?», azzardai in quel momento con voce tremante. Sapevo di avere gli occhi lucidi e il cuore in gola, sapevo che avrei potuto sbagliarmi e farci una pessima figura ma ora, in quel modo, con quello sguardo accigliato mentre era impegnato a fare il suo mestiere, la punta della lingua verso l’angolo della bocca, con quel gabbiano impresso sulla sua pelle… doveva essere lui. Alzò la testa di scatto e mi fece sussultare: lo vidi sorridere.
«Ciao, Elle», mormorò tranquillamente, come se fosse la cosa più normale del mondo rivedermi improvvisamente dopo tutto quel tempo. Sgranai gli occhi e vidi un bel sorriso un suo volto. «Matt», squittii di nuovo, mentre mi precipitavo tra le sue braccia felice. Sentii la sua presa farsi sempre più forte, mentre affondavo con il viso nel suo petto e mi crogiolavo tra le sue braccia forti, ritornando un’adolescente. Allentai la presa e feci qualche passo indietro per guardarlo meglio. «Non mi sembra vero», sorrisi, stringendogli le mani.
«Quasi avevo perso la speranza di rivederti», rispose lui, sfiorando il mio viso. «Sei cambiata tantissimo», aggiunse.
«Anche tu»
«Sono più bello ora, eh?», sorrise spavaldo, facendomi ridere. Sì, era diventato più bello: l’avevo lasciato che era un sedicenne impazzito che fingeva di farmi la corte e l’avevo ritrovato come un uomo grande e maturo. Beh, forse maturo non tanto, visto che sembrava avere ancora la mente di un ragazzino… ma anche questo era da apprezzare: era bello mantenersi costantemente giovani dentro! «Come mi hai riconosciuta?», dissi curiosa e lui fece spallucce.
«Ho passato anni della mia gioventù a farti la corte: come posso dimenticare il viso che ho tanto sognato? Sei cambiata molto, sei cresciuta ma… sei ancora tu»
«La racchietta della porta affianco?», scherzai e lui rise.
«Ah, non eri una racchia!». Alzai un sopracciglio e lo guardai in segno di sfida. «Okay, te lo dicevo, ma avresti dovuto sapere che scherzavo!», aggiunse dopo aver ceduto al mio sguardo. Risi ancora e ripresi ad abbracciarlo.
«Come stai?»
«Di tutte le domande che avrei voluto farti, questa è la meno importante, Elle», disse amaro. Diedi un’occhiata alla mia auto.
«Allora?»
«Direi che è proprio andata», sospirò, pulendosi le mani con uno straccio sporco che aveva estratto dai suoi jeans strappati.
«Perfetto», borbottai sarcastica.
«Andavi in qualche posto di importante? Posso darti un passaggio io…», accennò, richiudendo lo sportello del cofano. Le parole mi morirono in gola. “Sai, ti ricordi quel tipo che odiavi anche se non aveva mai conosciuto di persona? Ecco, sì, l’ho incontrato di nuovo e ora siamo in un rapporto confusionale… ti dispiacerebbe accompagnarmi da lui?”. Scossi il capo, abolendo l’idea di pronunciare davvero quelle parole.
«Nessun posto in particolare, ero di passaggio…»
«Le coincidenze della vita, eh?», sorrise lui, estraendo le chiavi dalla tasca. «Vieni, ti rapisco per un po’». Risi, salendo su un furgone azzurrino sbiadito. Okay, stavo permettendo che Matt mi portasse dalla parte opposta rispetto a dove mi stavo dirigendo. Okay, avevo appena detto che non andavo in nessun posto di così importante. Avevo appena detto che Johnny non era nulla in particolare. Oh Dio, viva la sincerità, viva i sensi di colpa che mi sarebbero venuti di lì a un’ora, quando Johnny inizierà a chiamarmi preoccupato perché non mi vedrà arrivare.
«Sei tornata da molto?»
«Da meno di un mese»
«E come mai?»
«Nostalgia dei tempi vecchi», borbottai, facendo spallucce. Lui sorrise, guardandomi attraverso lo specchietto.
«Oppure nostalgia delle vecchie fiamme?», mi punzecchiò, facendomi l’occhiolino. Alzai gli occhi al cielo.
«Smettila!», risi, osservando l’insegna “Da Bob” di un locale che non avevo mai visto prima d’ora. Entrammo e un uomo ci venne incontro.
«Ehi, Matt, come va?»
«Benissimo Bob, c’è un posto per noi?»
«Te ne libero subito uno», sorrise gentilmente, facendoci strada e passando un panno umido sul tavolino libero. «Vi porto qualcosa?»
«No-»
«Due menù del giorno», sorrise Matt, ignorandomi e beccandosi una mia occhiataccia.
«Grazie per la considerazione», dissi sarcastica.
«Non c’è di che», disse indifferentemente, sistemandosi spavaldamente sulla sedia di legno. «Allora… raccontami un po’ di te: vivi ancora in quella casetta in stile Biancaneve?»
«Sì!», risi io.
«E zia Betty? Come sta? Dio, è da una vita che non la vedo!»
«Sta benissimo. Magari vieni a farci un salto: sarebbe felicissima di rivederti». Matt sorseggiò dell’acqua. «E zio Sam?», aggiunsi. Lui sospirò.
«Purtroppo è morto un paio di anni fa…», accennò con un tono strano di voce. Sgranai gli occhi e il fiato mi morì in gola mentre mi portavo le mani alla bocca. «Sto scherzando, piccoletta», aggiunse ridendo.
«Vaffanculo Matt!», ringhiai, sospirando. «Non scherzare su queste cose»
«Zio Sam è più in forma di me: è diventato un vecchietto arzillo»
«Magari dopo mi accompagni da lui», sorrisi, osservando il presunto Bob portarci il pranzo. «Grazie». Matt infilzò subito un paio di pennette e se le portò alla bocca.
«E tuo padre invece?», disse infine. Lo guardai in modo strano.
«Mio padre cosa?», borbottai.
«Hai avuto più sue notizie?». Scossi il capo.
«No e non m’interessa». Dopo una breve pausa lui sospirò.
«Scusami»
«Non fa nulla», sorrisi amara. Dopotutto, ero andata via parecchie volte: la prima volta che ero andata via da Owensboro avevo dovuto dire addio a Johnny, la seconda volta avevo salutato Matt. Non sapeva alla perfezione cos’era successo, non c’era stato modo di spiegare.
«Cos’hai fatto per tutto questo tempo?», sorrisi, masticando lentamente.
«Ah, la solita vita… non credo ti sia persa molte cose, a parte la crescita sproporzionata dei miei muscoli». Lo ignorai, accennando una risatina. «E tu?»
«Mmh… ho proseguito anche io per la mia strada. Mi sono presa un diploma che in realtà non mi è servito molto e ho studiato medicina per qualche anno, prima di prendermi una pausa»
«C’era una tua amica che studiava medicina… come si chiamava…»
«Sarah?»
«Sì! Lei!»
«Ora è un dottore», sorrisi. Matt fece una smorfia che significava qualcosa tipo “niente male!” e continuò a fissarmi, dopo aver finito il suo piatto.
«E… in campo sentimentale? C’è stato o c’è qualcuno?», mi punzecchiò.
«Nessuna storia importante», risposi prontamente e lui mi scrutò perplesso. «Ho incontrato di nuovo Johnny quando sono tornata…», aggiunsi e lo vidi fare una smorfia.
«Quel Johnny?»
«Sì, lui». Abbassò lo sguardo e parve desideroso di fuggire via, quindi cambiò rapidamente argomento.
«E tu invece come hai fatto a riconoscermi prima?», sorrise curioso.
«Dal tatuaggio: appena l’ho visto mi sei comparso in mente. Poi ti ho osservato mentre ficcavi le mai nel mio motore e… beh, mi sono detta “cavolo, questo deve essere assolutamente lui!”». Rise. «Lo sapevo che un giorno ti sarebbe piaciuto!»
«Non ho detto che mi piace»
«Non ho detto che quel giorno sia arrivato», replicò ancora, punzecchiandomi. Stavo per aprire bocca quando il cellulare squillò.
«Scusami un attimo», farfugliai, alzandomi ed allontanandomi leggermente. «Pronto?»
«Eleonore? Che fine hai fatto?». La voce di Johnny mi fece trasalire e trattenni il fiato.
«Oh… io… ho avuto un contrattempo. Stavo venendo da te e mi si è fermata l’auto e…». Mi bloccai e restai a fissare Matt, seduto al tavolino mentre giocherellava con la forchetta con aria distratta. Dovevo dirlo a Johnny? «…e sono rimasta ferma per un bel po’», conclusi sospirando. «Sei ancora ferma? Ti vengo a prendere?»
«Oh no, no! Una persona gentile mi ha aiutata a ritornare a casa. Mi dispiace averti dato buca in questo modo», mormorai, distogliendo lo sguardo da Matt che aveva iniziato ad osservarmi curioso. «Non preoccuparti! Rimanderemo l’appuntamento a questa sera: ti va?»
«Oh, io…», farfugliai, tornando a fissare Matt. In teoria, ero impegnata. In teoria, sarei dovuta andare con Matt da zio Sam.
«Devi accettare: è il minimo che tu possa fare per farti perdonare»
«Hai ragione», risi io. «A stasera allora»
«Al lago, come sempre?»
«C-certo»
«Ciao». Staccò la chiamata e rimasi qualche secondo l impalata con il cellulare in mano. Perché mi sentivo così strana e a disagio? Era come se avessi un grosso macigno sullo stomaco. Ma certo, stavo continuando a mentire a Johnny, accumulavo le bugie una sull’altra come i pezzi delle costruzioni. Tirai un altro sospiro e misi il cellulare in tasca, rientrando e sfoderando un enorme sorriso per scusarmi. Matt, in tutta risposta, mi scrutò perplesso.
«Che c’è?», mormorai, buttando giù un bicchiere d’acqua tutto in un sorso per l’agitazione.
«Sei diventata rossa pomodoro e stai andando in iperventilazione: era lui?»
«Eh?», squittii sorpresa, distogliendo lo sguardo per la mia incapacità di sostenere qualcosa di così pesante mentre tentavo di mentire.
«Ti conosco», replicò. Mi morsi il labbro.
«Credo di non poter venire da zio Sam: ti dispiace se ci passo un altro giorno?», dissi imbarazzata. «Fai pure, noi siamo sempre lì: non siamo tra quelli che vanno via all’improvviso», disse in un tono di voce strano.
«E con questo cosa vorresti dire?», borbottai.
«Sai, con gli anni sei diventata terribilmente noiosa, piccoletta: hai perso tutto il senso dell’umorismo», scoppiò a ridere.
«E non trovi sia ora di crescere, Peter Pan?»
«Non ne vedo il motivo», sorrise malizioso. Uscimmo dal locale e Matt gentilmente mi riaccompagnò a casa.
«Vedo che si può fare per la tua auto e ti faccio sapere quando puoi passarla a prendere: il tuo numero è sempre quello?»
«Sì, certo, grazie», sorrisi e gli stampai un bacio affettuoso sulla guancia.
«È stato un piacere ritrovarti», disse, prima di sfrecciare via. Restai a fissare la strada vuota, con un sorriso amaro sulle labbra. Anche a me aveva fatto piacere ritrovarlo.
Quell’incontro mi lasciò intorpidita per quasi tutto il giorno senza sapere nemmeno il perché. Incrociare la strada di Matt dopo tutto quel tempo era stato inaspettato e tutto era successo talmente velocemente come se in un mese fossi ritornata indietro nel tempo, a quella gioventù vissuta e dimenticata, però dopotutto era piacevole riportare alla luce i fantasmi del passato. Johnny e Matt erano state il punto focale della mia infanzia, la parola chiave con cui riaffioravo i ricordi passati,in memoria dei bei vecchi tempi.
Il letto era il luogo in cui riuscivo a pensar meglio, a riflettere su ciò che dovevo dar luce, alle passioni nascoste... ed ero li, con uno strano magone allo stomaco causato dalle continue bugie con cui continuavo a sfinire Johnny riempiendolo di una falsa me. L’ennesima bugia, l’ennesima menzogna: forse sarebbe stato meglio chiudere gli occhi e rivelargli tutte quelle verità che consapevolmente avevo mutato in falsità. Il ticchettio dell’orologio mi fece ritornare alla realtà. La lancetta indicava perfettamente le 7 in punto e tra un ora avrei rivisto Johnny nel nostro nido d’amore. Avvampai improvvisamente al suono dei miei stessi pensieri e mi diressi di corsa in bagno per annegare le mie emozioni. A tre quarti dalle 8 fui pronta: con un vestito attillato e floreale ad avvolgere il mio corpo e i capelli che ricadevano morbidamente sulle mie spalle nude.
«Dove vai?», chiese ad un certo punto una vocina che attribuì a mia madre che entrò dalla porta, spaventandomi.
«Mamma! Per l’amore del cielo… quante volte ti avrò detto di bussare?» proferì cercando il cuore sotto il letto. La vidi sorridere e indicare con un cenno della testa la porta aperta alle sue spalle.
«Era socchiusa e mi sono detta ‘’perché non entrare e controllare quella sperduta di mia figlia?’’ ma dove stai andando?». Emh … mentire o dire la verità? Mi guardai le dite dei piedi cercando qualche possibile mezza verità, pensando che magari sarebbe rimasta in apprensione tutta la sera sapendomi sola con Johnny,quindi la mia bugia era una legge dettata a fin di bene no?
«Emh… beh, da Sarah! Abbiamo deciso di cenare insieme in memoria dei bei vecchi tempi. Se per te non ci sono problemi ovviamente». Mi guardò strano come se non si fosse bevuta la storia ma socchiuse gli occhi e si avvicinò a me stampandomi un bacio amorevole sulla fronte.
«Non fare tardi! Ricordati che non sei stata affatto bene in questi giorni e salutami tanto Jo… Sarah! E magari invitala da noi qualche volta, almeno posso tenerti maggiormente sottocontrollo!», proferì uscendo dalla porta, richiudendosela alle spalle. Sorrisi ma in quel momento mi resi conto di stare per affogare nelle mie stesse bugie, come se per me mentire fosse diventato una cosa naturale, talmente tanto che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei incominciato a mentire anche a me stessa. Uscii frettolosamente di casa, dirigendomi verso il lago dell’Incantatrice, dove incatenati si trovavano i miei sogni.
La sua macchina era già posteggiata come di consuetudine sotto l’albero di pesco. Lo stesso da cui provenivano profumi intensi, così belli da venir voglia di tuffarsi dentro. Parcheggiai nella parte opposta e dopo essere scesa cominciai a discendere il dirupo fiorito che mi avrebbe portato a quel luogo incantato. Da lontano scorsi una fonte luminosa -che capì solo dopo essermi avvicinata- che si trattavano di candele profumate che con la loro luce, rischiaravano ogni angolo di quel luogo meraviglioso.
«Rosa», sussurrai annusando la candela. Sorrisi, quando le ritrovai anche sulla scalinata che portava alla casetta e in una di essa ritrovai un pezzo di stoffa e un messaggio con su scritto :

Le piccole gioie della vita non si vedono con gli occhi ma con il cuore…
indossalo e corri da me!


Sorrisi e con il cuore in gola salii le scale. Arrivata all’uscio della porta indossai il pezzettino di stoffa, coprendomi così gli occhi ed entrai. E se in quel momento fossi inciampata? Su Johnny non sarebbe stato male però!
«Johnny?», accennai titubante, muovendomi come uno zombie e cercando di scorgere qualcosa davanti a me quando improvvisamente sentì una presenza alle mie spalle. Avvertì uno strano solletico sul collo e qualcosa stringermi il ventre.
«Non ti muovere! Non ti verrà fatto alcun male!»
Ma cosa?! Non era la voce di Johnny! Chi cavolo era?
Rimasi pietrificata, immobile, mentre avvertivo quella presenza farsi sempre più vicina e il suo corpo sempre più a contatto con il mio. Non avevo la forza nemmeno di dire una parola, in quel momento non capì più nulla.
«Segui attentamente le mie parole: girati e dammi entro stasera ottanta mila… baci!», mi sentì strattonare e nel giro di pochi secondi mi ritrovai avvolta tra delle braccia che riconobbi subito, soprattutto quando le sue labbra si appoggiarono lentamente alle mie, racchiudendo i nostri respiri in un bacio. Mi levai la benda con una mano, ritrovandomi davanti Johnny Depp: sarebbe stato in cima alle liste delle necrologie questa settimana!
«Piaciuto lo scherzetto?», sorrise beffardo indicando lo stereo appoggiato in un bancone.
«Tu sei completamente pazzo! Mi stavi facendo venire seriamente un infarto!», risposi spingendolo leggermente mentre lui se la rideva alla bella meglio.
«Ehi! Amore se ti fai venire infarti con così poco non oso immaginare cosa possa succedere ogni volta che ti bacio». sussurrò con uno sguardo malizioso. Mi fermai di scatto, pietrificandomi all’istante.
«Amore?», ripetei confusa.
«Non ti piace Eleonore? Hai visto? Così smetti di blaterare». Scoppiai a ridere. E si! Johnny sapeva trovare qualsiasi modo per zittirmi. Si allontanò lentamente avvicinandosi in silenzio verso un piccolo pezzo di legno che giorni fa avevamo trasformato in una sottospecie di tavolo basso dove prese una bottiglia di spumante e due bicchieri di cristallo. Mi guardai intorno: era tutto illuminato dalle candele profumate che avevano illuminato poco fa il prato e tutto era molto più bello di come me lo ricordassi. Johnny si avvicinò a me e mi tese la mano.
«Permetti?», mi sussurrò dolcemente. Presi la sua mano e lo seguì in silenzio fuori dalla casetta.
«Joh dove andiamo?»
«Ti porto su una stella…», sorrisi e si fermò guardandomi con i suoi occhi scuri e penetranti che ti potevano entrare dentro l’anima. «Ti fidi di me?». Non sapevo se lo stava facendo a posta, oppure gli era uscito spontaneo questo “stile Titanic”!
«Spero solo che la stella abbia intenzioni che comprendono confort perché questi tacchi mi stanno uccidendo!». Trattenne una risata e insieme andammo verso il fiume, dove poco lontano dalle rive si trovava un piccolo tavolo circolare con due sedie. Immersi nell’oscurità vi erano due uomini in giacca e cravatta, uno con una chitarra in mano e l’altro con il violino che al nostro arrivo cominciò a suonare musiche dolci e romantiche, mentre un terzo uomo sistemò la sedia, facendomi segno di accomodarmi. Le candele circondavano il tavolo e un bellissimo odore di pino e pesco profumavano l’ambiente. Guardai sbigottita Johnny che, guardandomi, rise divertito.
«La scorsa volta avevi detto che ti aspettavi musica e candele e…»
«Non dovresti prendermi così tanto alla lettera», proferii, costatando che in quel momento mi ci sarebbe avrei avuto bisogno di un dizionario per riacquistare l’uso della parola.
«Ma ti piace?»
«E’ splendido». Mi prese per mano e ci avvicinammo al tavolino dove mi aiutò a sedermi, dopodiché si posizionò di fronte a me. Arrivò subito il cameriere con la prima porzione mentre “l’orchestra’’ continuava la sua melodia. Johnny mi sorrise,prese un bicchiere di vino e me lo servì «Brindiamo?»
«A cosa? » sussurrai prendendo il bicchiere,mentre lui prese il suo.
«A te… a me… a noi, Eleonore… e a tutte le gioie che la vita ci offre giorno dopo giorno»
«A noi allora», conclusi facendo tintinnare i bicchieri.
La serata continuò splendidamente: Johnny era favoloso come il suo sorriso, i suoi occhi, favoloso come la perfezione con la quale conviveva.
«Come vanno le riprese?», chiesi ripulendomi gli angoli della bocca con un tovagliolo.
«Mmh, bene grazie. Te ne avevo accennato: si tratta di un film autobiografico. Mi hanno contattato dicendo di avere una “brillante idea” e mai immaginavo che volessero fare un film che parlasse di me. Non sarà facile dover percorrere le fasi più “buie” della mia vita ma sarà sicuramente un esperienza nuova…». Rimasi li, ferma come una stupida a guardarlo mentre parlava e nel frattempo mi chiedevo se provassi veramente qualcosa per lui. Johnny aveva la capacità di farmi sognare in ogni parola, ogni sguardo. Avrei potuto sentirlo parlare per tutta la vita.
«Ti sto annoiando?», chiese dandomi un leggero buffetto nella guancia. Sorrisi imbarazzata tornando alla realtà.
«Assolutamente! Stavo solo pensando che beh… Johnny, tu sei perfetto!». Lui spalancò gli occhi sorpreso, anche se in realtà doveva sentirselo dire probabilmente ogni giorno.
 «Perfetto io? Ti sbagli, Eleonore… io sono l’opposto della perfezione: io mento? Mento quando faccio un film interpretando qualcuno che non sono e questa non può essere definita… perfezione! E anche per questo che ho accettato l’idea di questo nuovo film, perché per una sola volta posso essere “perfetto” come dico io, posso interpretare me stesso senza fingere o studiare la parte. Posso vivere, vivere come potrei fare solo io…». Quelle parole mi piombarono addosso come una meteora. Johnny aveva fottutamente ragione: mentendo stavo smettendo di vivere a modo mio. Johnny sorrise, si alzò e mi venne vicino porgendo nuovamente la mano che non esitai ad afferrare.
«Mi concede questo ballo, signorina?»
«No! non so ballare». Mi ignorò e si avvicinò lentamente a me, avvolgendo le sue mani ai miei fianchi.
«Ti guiderò io… sarò le tue gambe quando non avrai voglia di camminare, i tuoi occhi quando non vorrai vedere il mondo, le tue labbra quando vorrai assaggiarne i sapori», mi sussurrò soffiando sulle mie labbra. Sorrisi e sentì come un macigno sullo stomaco quando si avvicinò a me, guardandomi con i suoi occhi intensi. A mia volta ricambiai lo sguardo e chiusi gli occhi quando si avvicinò a me, unendo le nostre labbra in un bacio.
«Non vorrei mai sbagliare con te, come ho fatto in passato. Non me lo potrei mai perdonare»
«Tu sei il mio film, Johnny… la mia autobiografia».
Caro Johnny… queste sono le parole che hai usato tu per dirti che sei il mio tutto…
Dopo un po’, la musica cessò e solo allora mi accorsi che i tre uomini erano volatilizzati ed eravamo rimasti solo noi due…
«Perché non mi suoni qualcosa con la chitarra?», lo invitai curiosa. Sorrise e prese quell’oggetto, prendendomi la mano, portandomi così vicino le rive le fiume. Si sedette sull’erba, mentre le acque si avvicinavano a noi tremolanti. Mi sedetti al suo fianco e da li cominciò a suonare una canzone che conoscevo bene e che mi cantava quando eravamo piccoli.
«C’è una cosa che devo dirti… e che cerco di farlo dalla prima volta che ti ho incontrata … non importa che è troppo presto, quando sono con te… il tempo è solo una breccia del passato». In quel momento, con le note di quella canzone, sperai con tutta la mia forza che mi dicesse di aver capito la mia vera identità, che quelle note non le stava suonando per caso ma per farmi capire che aveva capito.
«Cosa?!», squittii avvicinandomi di più a lui. Si voltò,guardandomi mentre la luna illuminava i suoi occhi intensi e bellissimi.
«I … LOVE …YOU». Non so cosa mi successe in quel momento ma i miei occhi si velarono dalle lacrime e cercai di trattenerle. Non sarebbe dovuta andare così: doveva innamorarsi di Elle, non di questa sconosciuta Eleonore! Sbagliò la nota e rimase fermo a fissarmi, forse rimasto scosso della mia reazione. Mi portò una mano sul viso, accarezzandomi.
«Scusa non volevo! Forse tu non provi lo stesso per…»
«I love you too, Johhny…», sorrisi, ignorando i miei sensi di colpa e affondando la testa tra l’incavo del collo e la spalla mentre lui mi strinse forte.
«Fa che non sia un sogno», sussurrai, poggiando la fronte contro la sua. «Sì invece… questo è il nostro sogno…». Mi sentii vibrare una coscia dove svevo infilato il telefonino. Mi allontanai da lui quel tanto da poter leggere il messaggio:

è arrivato il risultato… mi dispiace ma non sarà una passeggiata…
domani alle 8 in clinica
Sarah 



Salve a tutti!! :)
Eh beh il nostro ritardo ormai è diventata un'abitudine, non è così facile tirare fuori questi capitoli così u.u
In compenso, il capitolo è un po' più lungo! e speriamo davvero che vi sia piaciuto: ce l'abbiamo messa tutta e cercheremo di fare sempre meglio!!
Siete in tante a seguire la storia e vi ringraziamo per il vostro supporto e le vostre belle parole: è nato tutto per scherzo, era un "esperimento" e invece è saltato fuori che vi piace ^^
a presto :*
A & P <3

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Capitolo 9
*** capitolo 7 ***


«Elle, ciao!». Entrai in quell’ambulatorio dalle pareti bianche tipiche degli ospedali, richiudendomi la porta alle spalle quando entrai nello studio, mentre Sarah mi salutò con un grosso abbraccio. «Accomodati pure, tesoro», continuò con il suo tono cordiale, facendomi cenno verso la sedia adiacente alla scrivania quasi interamente ricoperta di scartoffie.
Le sorrisi e mi sedetti sulla sedia di legno in attesa del grande giudizio. L’avevo sempre ritenuta abbastanza comoda, ma ora che ero così agitata mi sembrava di sedere sulle spine,mentre dei diavoletti mi punzecchiavano con delle lance infuocate.
Mi guardai le mani, mentre mi torturavo le dita ansiosa, intanto che lei prese i suoi occhiali che le conferivano un’aria professionale, appoggiandoseli sulla punta del naso e cominciando a guardare quel grosso pezzo di carta che ambiva da referto. Il mio referto.
«Come mai tutta questa fretta? È qualcosa di grave?», chiesi con nonchalance, facendole distogliere l’attenzione da quel foglio in bianco e nero e buttandoci l’occhio nella speranza di poter ricavare qualche indizio. Contrasse la mascella e mi guardò in modo ambiguo, come faceva sempre quando non sapeva da che parte incominciare.
Si sedette lentamente sulla comoda poltroncina di pelle aderendo le spalle allo schienale e incrociò le mani sotto al mento così da sorreggersi il capo, spostando lo sguardo da me al referto e viceversa. Questa sua esitazione era snervante. Che cosa aveva da indugiare? In quel momento la mia mente ipotizzò qualche probabile fine del mondo. Cosa poteva mai essere? Okay, nulla di così catastrofico immagino, secondo la mia classifica di catastrofi naturali: niente fine del mondo, esplosione nucleare, tsunami o eruzioni vulcaniche nelle vicinanze. Ma dopotutto come poteva essere qualcosa di alquanto grave … no? Forse era colpa mia, non riuscivo a pensare e credere fino in fondo che potesse essere veramente qualcosa di grave, soprattutto se riguardava la mia persona.
«Sarah ti prego! Se hai qualcosa da dire fallo è basta!», tagliai corto, facendole abbassare lo sguardo mortificata. Ispirò e si levò gli occhiali poggiando la sua mano sulla mia.
«Avevo visto giusto e il dottor Martini ha confermato la mia tesi: abbiamo rilevato un incremento anomalo dei globuli bianchi e un abbassamento rilevante delle piastrine e l’emoglobina che si trova all’interno dei globuli rossi», disse ad un fiato con un tono freddo di voce. Sospirai cercando di rimanere calma e comprendere a poco a poco tutte quelle parolone che sopraggiungevano una sopra l’altra. Sbattei confusa le ciglia, ma lei non continuò per chiarirmi meglio cosa aveva appena detto.
«Sarah, diamine, COSA HO?!», ringhiai a denti stretti, con il cuore che palpitava dentro al petto. Di certo non un’allergia o qualcosa del genere, altrimenti me l’avrebbe detto con il suo bel sorriso stampato in viso e l’espressione tranquilla. Lei socchiuse gli occhi e quando li riaprì osservai che erano lucidi e intravidi una contrazione maggiore del viso che cercava con tutta se stessa di non far fuoriuscire le lacrime.
<«Leucemia, Elle! Sei affetta da leucemia».
Quando ti si dicono certe cose all’improvviso avresti voglia di strapparti le orecchie o metterti a cantare talmente forte da farti venire un’emicrania. Ma invece si è stati costretti a sentire e a comprendere, e il mondo per la prima volta, ti crolla veramente addosso travolgendoti con il suo enorme peso,logorandoti l’anima o tutto ciò che ne rimane
Paura. Forse non si può provare una sensazione più forte di questa: il terrore, la speranza di aver capito male, il desiderio che fosse soltanto un brutto sogno. Mi sentii un peso allo stomaco e una fitta al cuore mentre i miei polmoni erano in fiamme, cercando disperatamente di alimentarsi con altro ossigeno. Ma per la prima volta mi sembrò di annegare nel mio stesso stato di apnea,di non riuscire più ad inalare aria a sufficienza per continuare a vivere o forse,non ne potevo avere mai abbastanza
«Le-leucemia?».
Inclinò la testa in segno di affermazione e da quel momento non poté più reprimere le lacrime che cominciarono a scendere vertiginosamente dai suoi occhi languidi, mentre cercava di frenarle convulsivamente.
«Leucemia linfatica cronica…», concluse con i singhiozzi. Non capii più nulla, nemmeno le parole che ripeté dopo. Mi sentii la testa girare e la mia vita andare a rotoli. Non potevo più stare lì… Mi alzai di botto con la mente piena di cattivi pensieri che mi fecero perdere il controllo di me stessa.
«Scusa! Non ce la faccio!», farfugliai con le parole smorzate dall’angoscia, prima di scappare via, mentre sentivo un forte peso sugli occhi che si fecero umidi. Non poteva essere! Non poteva trattarsi di … leucemia. Non ci voleva una laurea in medicina per sapere che con il tumore del sangue si andava incontro a morte certa. C’erano poche possibilità di sopravvivere e io non … non volevo morire, cavolo!
Arrivai in mezzo alla strada, correndo fino a perdifiato. Una macchina fu costretta a sterzare bruscamente andando quasi a finire contro un palo della luce pur di evitare che m’investisse, ma continuai a correre, non sapendo neppure dove mi sarei fermata.
Il mondo attorno a me stava perdendo completamente le sue sfumature ,ogni colore, e non aveva più un filo logico, non aveva un benché minimo significato.
Avevo voglia di urlare, così forte da rimanere senza voce e portavo così tanti pensieri in testa da non capire più nulla,da non percepire più la realtà da un incubo bastardo e maledetto «Elle!». Sentii qualcuno chiamarmi ma non gli diedi retta, avanzando verso il vialetto di casa senza però entrarci. «Elle, fermati!». La voce si era fatta più vicina quando avanzai, superando la mia casa e poi quella di zia Betty.
Sentii un rumore di motore e una macchina mi si parò davanti, frenando bruscamente. Trattenni il fiato e vidi Matt uscire fuori,sbattendo lo sportello in modo violento e impetuoso.
«Elle!», esclamò ancora una volta, con il fiato corto e il volto pallido per lo spavento. Lo guardai tremante e lui mi corse immediatamente incontro, abbracciandomi.
«Cosa ti è successo?», mormorò preoccupato,cominciando a guardarmi allarmato,cercando di scorgere il perché del mio stato avanzato di shock.
«Voglio andare via», farfugliai fuori di me, cercando di divincolarmi dalle sue braccia per scappare ancora. Ma Matt mi tratteneva, stringendomi i polsi.
«No! Tu non te ne vai finché non mi spieghi perché stai piangendo», disse deciso. Abbassai lo sguardo, cercando di svincolarmi dalla sua presa ferrea, ma si fece più forte e con un movimento lineare si avvicinò a me, obbligandomi a guardarlo negli occhi.
«Mi stai facendo preoccupare, cazzo!». Cominciai a sbiascicare qualcosa, non riuscendo nemmeno a pronunciare qualcosa di sensato. Trovai conforto tra le sue braccia e cominciai a piangere come una bambina. Ma mi sentii al sicuro mentre mi stringevo a lui, intanto che mi teneva ben salda tra le sue braccia calde e sicure. Chi l’avrebbe mai immaginato che sopra quel gabbiano ci avrei versato delle lacrime, un giorno?
Sentii la terra mancarmi sotto i piedi e non ebbi più percezione del tempo e dello spazio. Tanti piccoli pallini biancastri apparivano davanti agli occhi mentre tutto diventata più scuro e le gambe si fecero pesanti. Matt mi guardava ancora, parlando, dandomi degli scossoni,ma ci fu un momento in cui non percepì più nulla e il mondo in cui vivevo diventò una immagine lontana e sfocata
«Ehi! Elle … ehi … guardami». Mi schiaffeggiò due o tre volte il viso cercando di farmi rinvenire e spalancai gli occhi, incosciente di essere svenuta solamente per pochi secondi. «Dimmi qualcosa! Parlami … okay! Ti porto in ospedale!»
«NO!», urlai, discostandomi da lui. «Tutto, ti prego, ma non in ospedale!». Lui mi guardò scettico ma sussurrò un flebile “va bene”.
«Almeno sali in macchina: ti distendi e mi racconti cosa ti è successo!», mi sussurrò.
Non ricordavo che fosse così premuroso.

«Non posso crederci … ».
La sua reazione era più sensata che mai, simile a quella che avevo appena avuto io e che non avevo ancora ben assimilato. Socchiusi gli occhi, cercando di trovare la forza per smettere di piangere. Era passato ancora troppo poco tempo perché potessi farmene una ragione. Nulla quel giorno era sensato e probabilmente la mia vita non lo sarebbe mai più stata.
«Neanch’io! ma devo invece …». Ora tutto mi sembrava privo di senso, o forse lo era sempre stato ma era la mia determinazione a farmi andare avanti. La vita con me era stata sempre troppo crudele, non riuscendo a farmi trovare nemmeno un attimo di pace. Forse la pace sarebbe sopraggiunta con l’eternità.
Matt mi stava accanto nel posto del passeggero. Guardava di fronte a se, cercando il coraggio di trovare parole giuste: apriva la bocca richiudendola qualche istante dopo. Ma non gliene davo a male, non potevo!Che cosa si poteva dire in queste circostanze? “Mi dispiace molto, Elle, se presto non vedrai più il sole?” Sbatté il pugno sul cruscotto della macchina facendomi sussultare,mentre cominciò a imprecare in lingue sconosciute
«Matt! Io non voglio morire …». Sussurrai con le lacrime che cominciarono a rigarmi il viso. Si voltò guardandomi in un modo che non riuscii a interpretare. Mi prese dalle spalle stringendomi di più a se.
«Non pronunciare quelle parole nemmeno per scherzo! Non lo permetterò». Le sue braccia mi cingevano le spalle. Appoggiai la testa tra l’incavo del collo e la spalla, godendomi le sue carezze ai capelli mentre continuavo a piangere e ad affogare le mie pene tra i singhiozzi.
«Eleonore ?!». Fuori dal finestrino udii una voce familiare e che avevo già sentito altre volte. Mi discostai da Matt quel poco da poter veder …
«Johnny!», spalancai gli occhi e Matt si distolse da me, voltandosi verso Johnny che se ne stava impalato guardandomi con tanto d’occhi.
Che pasticcio …!
Con fare nervoso si avvicinò al finestrino,poggiando una mano sul vetro,mentre vidi Matt irrigidirsi e fulminarlo con lo sguardo
«Che cazzo ci fai qua?!», disse sorpreso anche se non poteva nascondere l’irritazione. Matt si innervosì e aprì lo sportello dalla macchina mentre guardavo la scena sconcertata, senza sapere bene cosa fare.
Semplicemente per quanto mi riguardava non riuscivo nemmeno ad alzare un muscolo, nemmeno lo sguardo. Matt scese dalla macchina mettendosi davanti a Johnny,che fu costretto ad indietreggiare ma non abbassò nemmeno di un secondo lo sguardo. Mi sentì morire un’altra volta,mentre vedevo quei due pronti a picchiarsi pur di non lasciare la vittoria all’altro.
«Tu che ci fai qua», sussurrò minaccioso,ringhiando. Joh parve innervosirsi e si guardarono reciprocamente con uno sguardo che non ammetteva repliche come a voler definire il proprio territorio. Sarebbero partiti i pugni da un momento all’altro. Joh distolse lo sguardo, voltandosi verso di me.
«Eleonore, potresti scendere un attimo dalla macchina? Dovresti darmi qualche spiegazione». Matt si voltò verso di me, guardandomi confuso, forse non aveva capito il perché mi avesse chiamato in quel modo. Si avvicinò a Johnny mettendosi tra me e lui mentre io stavo scendendo dall’auto.
«Elle non deve darti nessuna spiegazione», ringhiò possessivo, allargando i suoi pomposi pettorali,mettendoli in risalto«Questo lo faremo decidere a lei!», borbottò Johnny e si voltarono entrambi verso di me, aspettando una mia risposta. Non sapevo cosa dire e in quel momento era l’ultimo dei miei problemi. A dir la verità non avevo voglia di parlare con Johnny: sarebbe stato troppo pesante perfino guardarlo in faccia. Non ci sarei riuscita a guardarlo negli occhi,mentendo ulteriormente. Non ci sarei riuscita a guardarlo negli occhi e dirgli che stavo morendo. Un senso di malinconia mi pervase e fui costretta a serrare la mascella ed ad abbassare il capo,cercando di non piangere.
«Scusami Joh … non c’è la faccio …», sussurrai scoppiando in lacrime. Joh rimase spiazzato da quella mia reazione, fermo immobile, credo che avesse smesso anche di respirare. «Portami via, Matt… ti prego…». Lui venne subito in mio soccorso,mi poggiandomi una mano dietro la schiena per farmi tornare in auto e si sedette al posto guida. Diede un ultimo sguardo di chi la sapeva lunga al poveretto e in fine premette il piede sull’acceleratore, ignorando Johnny che era rimasto lì in mezzo alla strada con l’aria smarrita e furiosa. Sapevo che probabilmente non mi avrebbe mai perdonato ma avrei cercato in tutti i modi di chiarire questa situazione. Ero troppo innamorata da permettermi di lasciarlo andare di nuovo. Avrei fatto guerra e fuoco per riaverlo ma al momento … mi sentivo così piccola …
«Mia madre torna stasera», mormorai, tirando su col naso quando Matt entrò in casa e si guardò attorno in cerca di qualcosa. Doveva trovare tutto diverso, forse perché lo era rispetto all’ultima volta che c’era stato.
«Elle, credo che qualche spiegazione dovresti darla anche a me… a meno che tu non abbia cambiato nome all’anagrafe», mi disse deciso, guardandomi quasi in segno di rimprovero. Deglutii e battei la mano sul cuscino del divano, invitandolo a sedersi accanto a me.
«Vuoi sapere tutto dall’inizio?»
«Comincia da dove ti pare». Sospirai.
«Mia madre ha insistito tanto per ritornare qui a Owensboro e così ci siamo trasferite… ho incontrato per caso Johnny: la casa dei suoi è a due isolati da qui… credevo che mi avrebbe riconosciuta! Non mi vede dall’età di otto anni o poco più ma non pensavo di essere cambiata così tanto: ancora non riesco a capacitarmi del fatto che lui non veda la bambina con la quale giocava da ragazzo». Afferrai la tazza di the fumante che Matt mi porse e bevvi un sorso. « Johnny è perfetto! Hai presente quando incontri qualcuno e li rivedi tutta la tua vita? Senti che potresti affidargli il tuo mondo,che lui possa diventarlo e con Johnny … beh mi sento così! Mi sono innamorata di lui per la seconda volta ma il problema è che non ho avuto il coraggio di dirgli che Elle non è l’abbreviativo di Eleonore ma beh che sono la bambina di tanti anni fa con cui passava le sue giornate da ragazzino! Ebbene si! Sono una codarda: ho avuto paura che potesse farsi degli scrupoli e che continuasse a vedere in me la bambina di un tempo e non più come la donna che sono diventata. Ho voluto una seconda possibilità,immedesimandomi in un’altra vita …» gli confessai tutto ad un fiato, scoppiando di nuovo a piangere.
«Ma è … assurdo …!»
«Lo so!», esclamai, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano. «Ma ho raccontato talmente tante bugie da non distinguere io stessa la verità dalle menzogne. Mi sono cacciata in un guaio superiore anche a me stessa e sono sicura che se lo venisse a sapere mi mollerebbe in due secondi senza nemmeno fermarsi a pensare», mormorai. Matt, sorpreso, restava a fissarmi rigidamente,senza emettere sentenze
«E allora lascialo perdere, no?»
«Non posso», mormorai. «Io lo amo». Matt si alzò di scatto, fingendosi indifferente.
«Forse, se davvero ti ama, capirà. Infondo, cosa gliene importa di qual è il tuo vero nome?», borbottò. Sospirai, scuotendo il capo incerta. «Lo so, non sono il massimo nelle questioni d’amore», aggiunse imbarazzato, grattandosi la nuca. Risi.
«Stai facendo già tanto restando qui ad ascoltare le mie lagne»
«Ti darò anche pessimi consigli, però una cosa è certa: a me non importerebbe nulla del tuo nome o delle tue piccole bugie perché mi sarei già innamorato di te. E tu sei sempre stata te stessa, Elle o Eleonore, la ragazza dolce e perfetta che conosco da quando ero ragazzino», mormorò, inclinandosi a me e annientando la distanza che ci separava. Trattenni il fiato, osservandolo a pochi centimetri dal mio viso con aria interrogativa e confusa. «Cioè, se fossi in Johnny ovviamente», aggiunse allarmato, tossendo imbarazzato,alzandosi per frugare nella dispensa. Gli sorrisi. «Ehi, hai finito il the?»
«Cavolo, l’ho dimenticato!»
«Mi sa che te ne servirà una bella scorta in questi giorni …», sorrise sarcastico, afferrando una giacca.
«Dove vai?»
«A comprartelo»
«Ti faccio compagnia?»
«No, torno subito», mi sorrise, sparendo dietro la porta. Sorrisi amara. Forse Matt mi era stato mandato dal destino come angelo custode, forse era la cosa più bella che la vita aveva da offrirmi da ora in poi. Se l’avessi conosciuto prima di Johnny o in un’altra vita in cui avrei avuto ancora settant’anni da vivere e un futuro da progettare … forse l’avrei scelto.
«Dov’è che avete il the?», chiese Matt perplesso, osservando gli scaffali zeppi di tutta quella roba che erano già venti minuti che cercava disperatamente un misero, microscopico pacchettino verde e giallo. «In fondo a destra», fece la donna con la divisa con il logo del supermercato, indicando la strada con un dito. Matt farfugliò un “grazie”, svoltando a destra e trovandosi faccia a faccia con … Johnny.
«Ancora tu?!», borbottò Matt, sbuffando. Johnny alzò un sopracciglio.
«Chi non muore si rivede eh?Hai un secondo?»
«No, Elle mi sta aspettando», fece lui canzonatorio, sbattendo volontariamente contro la sua spalla .superandolo per afferrare il pacco di the. Johnny gli si parò davanti.
«Solo un secondo», insistette, afferrando un pacchetto verde e rosa e porgendoglielo. Matt scosse il capo.
«Ad Elle non piace alla pesca. Dovresti saperlo, visto che sei … eri … il suo ragazzo», lo punzecchiò, prendendo la scatola giusta. In realtà ad Elle piaceva più alla pesca che al limone, ma Matt in quel momento trovò inevitabile punzecchiarlo.
«Che cazzo vuoi dire?», sbottò lui, dandogli una leggera spinta sul petto. Matt lo guardò con gli occhi fumanti dalla rabbia.
«Dobbiamo metterci a fare un casino qua dentro?», ringhiò.
«Usciamo». Il tono di Johnny non ammise repliche, quindi Matt pagò alla cassa velocemente e uscì dietro Johnny.
«Allora? Cosa diavolo vuoi?»
«Sono preoccupato per Eleonore», sospirò, mettendosi le mani in tasca. Matt alzò gli occhi al cielo.
«Ti aspetti una chiacchierata tra migliori amici?», gli chiese sarcastico, ridendo.
«Mi aspetto che mi spieghi cos’ha lei che non va ma soprattutto chi cazzo sei tu!». Matt lo fronteggiò.
«Sai, Johnny o come cavolo ti chiami, questo non è il momento più adatto. Elle sta affrontando una brutta giornata e probabilmente le giornate successive faranno ancora più schifo, quindi farai meglio a levarti di torno e starle lontano qualche chilometro. Il tuo problema è che spunti sempre nel momento sbagliato,peccato che non abbia una bacchetta magica,altrimenti puff! Ti avrei già volatilizzato», lo minacciò, allontanandosi poi da lui per dirigersi alla sua auto.
«Oh, quasi dimenticavo!», esclamò, tornando sui suoi passi. «Chi cazzo sono? Il suo nuovo ragazzo,colui che sa quando è il momento di ricordarsi del passato! perciò stalle alla larga», aggiunse in un sussurro, puntandogli l’indice contro il petto. Si allontanò di nuovo, anche se sarebbe voluto restare lì per ore ad osservare il suo volto sconvolto, colpito, deluso.
Ora Matt aveva la possibilità di conquistare Elle: si era già fatto scappare tempo fa l’occasione, non avrebbe lasciato che un’idiota che non sa neanche riconoscerla gliel’avrebbe portata via.
Dopotutto, Matt l’aveva riconosciuta. Johnny no.
Matt l’avrebbe conquistata anche al costo della sua stessa vita


ed eccoci qui con un nuovissimo capitolo ^^
ecco che le cose si fanno più interessanti: Elle è effetta da leucemia! che cosa succederà?
e la falsa rivelazione di Matt ... Johnny come la prenderà?
per saperlo basta continuare a seguirci e recensite...recensite ... recensite XD
vogliamo ringraziare tutti coloro che hanno seguito la nostra storia e vi vogliamo dire GRAZIE per tutti i complimenti bellissimi che ci riservate!
quindi a presto!
A & P <3

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Capitolo 10
*** Capitolo 8 ***


«Mmh, credo di non aver mai conosciuto qualcuno capace di fare una cosa così buona», farfugliò Matt a bocca piena, addentando una fetta di torta al cioccolato. La mamma rise, sciacquando le ultime scodelle che aveva utilizzato per prepararla.
«Porta una fetta anche a Sam, può darsi che quel vecchio borbottone ci venga a trovare la prossima volta!». Mia madre quando aveva rivisto Matt dopo tutto quel tempo gli era balzata addosso nel vero senso della parola: continuava a stringerlo, lasciargli pizzicotti sulle guancie, ripetendo che era incredibile quanto fosse cresciuto, tastando i suoi bicipiti perché non riusciva a credere che fossero davvero i suoi. Per uno come lui, che era sempre stato parte della famiglia, non si poteva non festeggiare ed essere felici.
Mamma in realtà aveva avuto anche lei qualche giorno di sbandamento, quando Sarah era venuta a trovarci e con occhi lucidi ci spiegava meglio a cosa saremmo andate incontro. Era tutto surreale: Matt le urlava di smetterla perché tanto non mi sarebbe successo niente, Sarah replicava con tono professionale che dovevo sapere, mia madre era entrata in uno stato confusionale e continuava a versare lacrime ed io… restavo lì, immobile, guardandomi intorno come se nulla mi toccasse veramente il cuore, come se nulla mi riguardasse personalmente.
Dopo quella terribile giornata, avevo fatto promettere che nessuno avrebbe più pronunciato le parole “malattia” o “leucemia” o “morte”. Avevo fatto promettere a tutti che ci saremmo comportati come se nulla fosse. In effetti, non volevo passare il tempo che mi restava a piangermi addosso. Anche se tentavo di nasconderlo agli altri e sembrare felice,o quantomeno serena ed aver appreso tenuamente le gravose notizie sulle mie condizioni di salute, però, nessuno sapeva che la sera non riuscivo a chiudere occhio e passavo intere notti in bianco, fino ad addormentarmi con gli occhi gonfi per le lacrime: era più forte di me, non riuscivo a non pensarci. Quel pensiero se ne stava lì, al centro della mia mente, e non voleva saperne di andare via: chiedeva, anzi, pretendeva tutta la mia attenzione ed era faticoso conviverci.

«Come va?», sospirò Sarah, afferrandomi una mano e stringendomela delicatamente,come per paura che potessi rompermi da un momento all’altro. Chinai la testa,tenendo lo sguardo fisso sul display del mio cellulare.
«Sono più di tre giorni che non si fa sentire… forse ho esagerato», sospirai, scagliando il telefono sul letto e sdraiandomi di schiena fino a fissare il soffitto. Perché doveva essere tutto così maledettamente difficile? Sembrava che i periodi bui si riservassero, tenendosi nascosti dietro un angolo per poi incombere prepotentemente nella vita di noi poveri esseri umani.
«Chiamalo tu e spiegaglielo, no?»
«Come no! E cosa gli dico? Come gli spiego tutta la questione di Matt e…»
«La verità, Elle, potresti dirgli la verità per una buona volta!», esclamò lei esterrefatta, accasciandosi sulla sedia. «E Matt è solo un tuo caro amico d’infanzia: non hai nulla da spiegargli».
Mi tirai su con i gomiti, guardandola come se avesse appena bestemmiato.
«Quindi dovrei dirgli anche…»
«..sì», sussurrò, annuendo. Incrociai il suo sguardo. Okay, avrei potuto anche dirgli chi ero realmente, che mi dispiaceva avergli mentito, che Matt mi ronzava attorno da quando eravamo dei ragazzini, ma non potevo confessargli che di lì a un anno forse non ci sarei stata più. No, non potevo fargli sapere prima che la sua piccola Elle era tornata e poi che stava per andarsene di nuovo. A zia Betty sarebbe venuto un infarto: non volevo che soffrissero a causa mia. Sarah mi porse il cellulare, guardandomi con insistenza.
«Su, forza! Devi trovare la forza… la forza per continuare a vivere». Presi il cellulare, cominciando a girarmelo tra le mani, indecisa sul da farsi. «Io vado, ci vediamo stasera. Decidi tu cosa dirgli».
Mi stampò un bacio sulla guancia e mi lasciò sola. Sola tra i miei pensieri, tra l’enormità della mia mente che in quel periodo era inondata solo da brutti presagi. Avevo paura di stare sola, di rimanere sola con me stessa, anche se ormai mi sentivo distaccata dal resto del mondo anche in un posto pieno di gente.
«Chiamalo», aggiunse decisa, puntandomi un dito contro mentre faceva nuovamente capolino nella mia stanza, così da distogliermi dai miei brutti pensieri.
Tirai un sospiro per prendere coraggio e composi il numero dopo aver fissato lo schermo per qualche istante. Squillò per un paio di volte a vuoto.
Quel momento mi sembrava un tempo lunghissimo, era l’attesa che mi stava distruggendo e…
«Hello?». La sua voce fu un tuffo al cuore: il mio respiro mi si fermò in gola e quasi non ebbi fiato per parlare. «Chi parla?», continuò, quando non avevo ancora aperto bocca.
«Sono io», mormorai infine, con la voce tremante e il cuore sul punto di scoppiarmi dal petto.
Tremavo come una foglia scostata dal vento. Sentire la sua voce era… strano! Mi sembrava strano tutta la situazione in genere e sapevo benissimo di non saperla gestire, avevo tremendamente paura di una sua probabile risposta, di un suo rifiuto.
«Oh, ciao», mi disse placido, senza nemmeno una nota di emozione nella voce . Restai perplessa a fissare il vuoto davanti a me, immobile.
Di tutte le reazione che avrebbe potuto avere, questa era quella che mi aspettavo di meno. Avrei capito se si fosse incazzato e mi avesse insultato, o se mi avesse attaccato il telefono in faccia, o se avesse deciso di perdonarmi e mi avesse sussurrato dolcemente qualcosa ma invece si limitò ad utilizzare un tono neutro se non freddo e distaccato.
«Come stai?». La cosa più idiota che avessi potuto dire, ma in quel momento mi venne in mente solo quello e pensai che forse non era così male averglielo chiesto. Dopotutto era la frase che avrei preferito sentirmi dire: come sto? Sto male ,tremendamente male e senza di lui mi sembra che il mondo vada a rotoli.
«Ho avuto tempi migliori», continuò con il suo tono secco,tendente al tagliente. «Tu?»
«Bene». Ecco, l’avevo rifatto. Gli avevo appena mentito di nuovo. Ero tutto, fuorché “bene”.
Il suo silenzio mi fece capire che attendeva le mie parole: com’era possibile che non avesse nulla da dirmi?
«Devo dirti delle cose, ti va di vederci?»
«Ho parecchio lavoro», tagliò corto. Sospirai con un grosso peso sullo stomaco. Forse era arrabbiato come mi aspettavo e non potevo dargli tutti i torti. Dovevo fare qualcosa, non potevo perderlo dopotutto quel tempo che c’era voluto per averlo.
«Beh, o-okay, allora parlo qui… Joh … io… volevo scusarmi per il modo in cui mi sono comportata l’altro giorno. Non ero in me e non lo sono tutt’ora e quindi ti prego di perdonarmi. Il ragazzo con cui mi hai vista l’altro giorno non è nessuno in particolare o di cui tu debba preoccuparti. Matt è soltanto un amico d’infanzia e …»
«Non mi interessa, Eleonore», tagliò corto non facendomi finire di parlare. «Non devi darmi nessuna spiegazione e credo di non avertele chieste. E’ palese ciò che è successo l’altro giorno e quindi è inutile che neghi l’evidenza. Mi è stato tutto chiaramente riferito ed enunciato. Quindi perché continuare? Si,abbiamo scherzato e ci siamo anche divertiti ma credo che siamo andati troppo oltre e che tu l’abbia presa troppo sul personale. Perché, sinceramente, non m’importa cosa tu faccia o con chi tu stia né mi frega di chi cazzo sia questo Matt. Non mi importa e… beh, credo che non me ne sia mai importato».
Le sue parole, erano terribilmente cattive. Se fosse venuto qui a darmi dieci cazzotti nello stomaco mi avrebbe fatto meno male. Così cattive come non mai, mi fecero male più di quelle di Sarah nel momento in cui mi aveva riferito della mia sfortuna. Come poteva dire quelle cose orribili?
«Ma cosa …», sussurrai confusa, ma lui non mi lasciò parlare ancora una volta.
«Non richiamarmi, non voglio saperne nulla di te. Cerca di farti una vita»
«Che significa?! Non puoi scomparire senza spiegazioni»
«Sei tu che l’hai fatto per prima. Ora mi dispiace…»
«Senti, capisco che tu sia arrabbiato ma-»
«Ti sembro arrabbiato, geloso, ferito o quant’altro?», scoppiò a ridere e la sua risata mi provocò dei geloni per tutto il corpo. «Non me ne frega, ecco tutto»
«Mi stai lasciando?», mormorai, trattenendo le lacrime, con le gambe che cercavano di darmi la stabilità, invano.
«Non c’è mai stato nulla tra noi». Sgranai gli occhi e a quel punto sentii la rabbia ribollire nelle mie vene.
«Pensavo mi amassi», replicai con voce strozzata perché cercavo di reprimere l’ira e mantenere il controllo di me stessa.
«Ti sei sbagliata. Anzi, forse sono io ad averti illusa ed è l’unica cosa per la quale devo scusarmi: hai visto qualcosa che non esiste e che non poteva mai esserci. Guarda in faccia la realtà: io sono un attore di fama internazionale, come potevo stare con una come te? Una bambina che non sa quello che vuole dalla vita? Solo tu hai pensato che ci fosse qualcosa di serio tra di noi»
«Quindi mi hai usata soltanto come un divertimento?!»
«Prendila come vuoi». Staccò la chiamata, ancora prima che potessi urlargli contro tutta la mia rabbia. Restai a fissare il cellulare allibita.
Cosa voleva dire? Che se non ci fosse stato l’episodio dell’altro giorno avrebbe continuato a prendermi in giro? Mi sentii come una bambola di pezza e mi sentii sporca e inadeguata anche dentro la mia stessa pelle. Non potevo credere a ciò che le mie orecchie avevano appena udito. Io, che credevo fosse il tenero Johnny di sempre, io che mi ero appena sentita dire che non ero abbastanza per una persona “importante” quanto lui. Scagliai il cellulare contro il muro dalla rabbia e non potetti fare a meno di piangere, da bambina immatura come mi aveva definito lui. Non riuscivo a frenarle queste lacrime stupide, non riuscivo più a dare un senso alla mia vita.
Questo non era il Johnny di cui ero innamorata da bambina, quello che fino a qualche giorno fa avrei voluto tenere accanto per sempre: lui era dolce, gentile, premuroso, simpatico. O forse anche lui, dopotutto, mi aveva sempre mentito e non mi aveva permesso di conoscerlo fino a fondo?
«Oddio che stupida», ringhiai rabbiosa. Stupida ad essere cascata di nuovo negli stessi sbagli. Stupida ad aver dato troppo alle persone che non meritano nulla. Presi di nuovo il cellulare e composi un numero.
«Servizio di segreteria telefonica. Lasciare un messaggio dopo il bip…». Staccai. Grazie, Sarah, sempre quando ho bisogno di te!
Composi un altro numero che ultimamente ero riuscita ad imparare a memoria. Un numero che sapevo di trovare colui che mi stava dando tanto, tanta sicurezza o qualsiasi cosa avessi veramente bisogno.
«Dolcezza!»
«Ciao Matt», mormorai trattenendo le lacrime. «Sei occupato?»
«Aiutavo zio Sam con dei vecchi motori… ti serve qualcosa?»
«Ho bisogno di …». Scoppiai in lacrime, non riuscendo più a trattenermi. Bisogno di cosa? Non lo sapevo neanch’io. Forse avevo bisogno semplicemente di lui,di una spalla su cui piangere e su cui svelare tutte le mie paure e tutte le mie insicurezze che giorno dopo giorno mi annebbiavano l’anima.
«Ok, arrivo», disse precipitoso, staccando la chiamata. Matt era una di quelle persone che forse ci sarebbero state per sempre, ancora più di Johnny. Ho bisogno di …di svago, forse ho bisogno solo di dimenticare tutto, di rimuovere i due terzi dell’ultima settimana.

«Ehi», sussurrò entrando nella stanza, facendo scricchiolare l’anta della porta mentre avanzava delicatamente in modo quasi da non voler infrangere la barriera del silenzio che si era formato al suo interno.
Non avevo nemmeno la forza di alzarmi dal pavimento, non avevo voglia neanche di vedere quel che mi si mostrava davanti. Mi sentivo morire dentro, come se stessi avendo una reazione allergica con il resto del mondo. Non riuscivo a non pensare alle parole di Johnny e in quel momento mi sembravano così assurde, anche se fino a poco tempo prima le vedevo in modo fin troppo reale.
Matt avanzò lentamente e fu a quel punto che alzai lo sguardo posandolo sul suo dolce viso che in quell’istante mi sembrava la mia unica certezza. Mi si piazzò di fronte, sembrava quasi che avesse smesso anche di respirare anche lui e aveva lo sguardo ben piantato su di me. Lo guardai straziata. Non sapevo più cosa fare e in quel momento qualunque parola sarebbe stata superflua.
«Vieni qui», proferì,vendendomi vicino. Si inginocchiò e cominciando ad accarezzarmi il viso con le sue mani ruvide per il suo lavoro, mentre il suo fiato mi solleticava il viso. Il calore delle sue mani sul volto fu quasi un respiro dopo una vita di apnea.
Mi sentii rinascere, rincuorata e non più sola. Perché era così che mi sentivo, come se fossi precipitata in un deserto o in un buco nero, mi sentivo sola anche se intorno a me c’erano delle persone che mi amavano e mi volevano bene, mi sentivo sola anche quando era con me stessa, non mi sentivo nemmeno più padrona del mio corpo ma una forza maggiore mi guidava e tormentava.
«Che succede, piccola?», mi sussurrò ad un soffio dal viso, usando un tono di voce flebile come se stesse parlando ad un bambino. Ecco, forse Johnny aveva ragione a chiamarmi “bambina”.
Mi strinsi a lui, cercando di frenare i miei istinti, cercando la forza che mi spingeva giorno dopo giorno ad andare avanti. Ma ormai non avevo niente per cui valesse la pena rischiare, mettersi in gioco: il gioco non valeva la candela.
Mi sorrise dolcemente, avvolgendomi con le sue braccia forti, stringendomi in un caloroso abbraccio. Forse era questo quello di cui avevo bisogno: sentirmi dire che sarebbe andato tutto bene anche se era evidente che non era così, sentirmi rincuorata, sicura e protetta come mi sentivo fra le braccia di Matt che in quel periodo si era dimostrato la mia ancora di salvezza, forse l’unica per cui valeva la pena vivere. Ed ora mi ritrovavo a singhiozzare tra le sue braccia come avrei voluto fare con Johnny, implorandolo di non lasciarmi, poiché ora come ora avevo bisogno di lui. Ma in quel momento non era Johnny con me ma Matt. Tra quelle braccia ci sarei rimasta per sempre.
«Elle… lo sai che con me puoi confidarti! Allora che succede?». Mi distolsi piano tenendo lo sguardo ben piantato sul pavimento. Mi sentivo una stupida e sapevo anche di esserlo. Lo ero stata con Johnny a credere nel nostro amore.
«Succede che per la prima volta tutto aveva un senso e che finalmente stava andando tutto come volevo! Forse ero troppo sicura di avere un lieto fine ma, dannazione, dovrebbero mettere una scritta così grande sui libri di fiabe che dice “attenzione, bambine, il lieto fine è solo nelle favole”!», ringhiai. «Ho perso tutto Matt: ho perso la condizione del tempo,il senso della vita e … ho perso Johnny»
«Io so cosa hai bisogno», mi disse prontamente. Mi alzai guardandolo fisso negli occhi e mi sorrise, distogliendosi da me quel poco senza abbandonare la visuale dai miei occhi e cominciando a massaggiarmi il viso con i suoi polpastrelli.
«Una benedizione?», farfugliai tra i singhiozzi,ridendo della sciocchezza che avevo appena enunciato. Represse una risata amara.
«Di divertirti! Sai… quella cosa che non fai più da tempo! Ora ti sistemi e insieme andiamo in una discoteca a fare baldoria e beviamo fino allo stordimento come accade nei film, finché la realtà diventa solo un ricordo»
«Non credo sia una buona idea», proferii titubante, strofinandomi gli occhi con la mano, non sapendo se ridere o piangere prima.
«Ti fidi di me? Dammi due ore e ti faccio toccare il paradiso con un dito… emh… scusa!», disse imbarazzato. Forse non era poi una cattiva idea. In fondo poteva giovarmi distogliermi dalla quotidianità. Poter finalmente non pensare a niente per qualche ora, potevo lasciare l’emozioni, le sensazioni e le paure dietro un angolino ad aspettarmi.
«Lasciando perdere l’ultima frase… dai, mi hai convinto!». Mi prese per mano,aiutandomi ad alzarmi. «Ti lascio sola qualche minuto per prepararti e… stasera si fa baldoria!»

Non avevo ben capito inizialmente il senso di ‘’baldoria’’ ma lo intuii quando mi ritrovai davanti ad un enorme fila di gente, accodata per entrare in una discoteca che dal nome non mi suscitava nulla di buono: “Davil’’.
«Ma dove mi hai portata? Ad un ritrovo di drogati e maniaci sessuali?»
«Meglio!», gridò, cercando di farsi sentire poiché la musica che usciva dalla discoteca superava anche la barriera del suono. Stavamo cercando parcheggio da svariati minuti e la fila non cessava a diminuire di un solo passo.
«Ma di questo passo non entreremo più!»
«Gioia, io in questa discoteca ci sono nato!». Matt scese dalla macchina e aprì lo sportello, facendo scendere anche me. Lo guardai scettica quando-tutto spavaldo- si avvicinò al buttafuori, dandogli una manata affettuosa sulle spalle.
«Matt Dovonal! Chi non muore si rivede!», proferì il bestione salutandolo con un sorriso a trentadue denti. Matt si avvicinò a me, avvolgendomi un braccio intorno alla schiena, stringendomi a lui. Quando sentì il suo tocco sulla schiena mi sembrò di avvertire un brivido salirmi in tutta la spina dorsale.
«Ehi, Nick, che ne diresti di far entrare me e la mia ragazza?». Mi voltai verso di lui sussurrando a labiale “ragazza?”. Nick gli rivolse un occhiata un po’ seccata ma si discostò e ci lasciò passare.
«La tua ragazza?»
«Altrimenti non ci avrebbe fatto entrare! Non guardarmi così…», mi sorrise dolcemente, spingendomi verso il fondo del locale affollato. Ci sedemmo in due sedie vicino al bancone e Matt ordinò due drink mentre parlottava con il barman che intuì si chiamasse Larry. C’era una folla immensa, la musica era da spaccare i timpani e la variazione della luce era da far girare la testa ma in tutto ciò mi sentivo perdutamente sola. Mi mancava qualcosa e mi sentivo un nodo sullo stomaco. Mi sentivo strana come se mi mancasse qualcosa o meglio … qualcuno. Sapevo benissimo chi era:ed il suo nome era Johnny.
«Elle torna al pianeta terra! Mi stai ascoltando si o no?!». Mi scomposi ritornando con i piedi per terra. Matt aveva un bicchiere in mano e mi guardava stranito, forse stava aspettando da me una risposta.
«Io? Beh… cioè… scusa, ero sovrappensiero»
«Promettimi una cosa, stasera: spegnerai tutti i tuoi pensieri e darai un po’ di pace a questa tua testolina», scherzò, picchiettando sul mio capo. Risi, annuendo. «Io conosco un modo per scacciarli via i pensieri…», sorrise indicando il drink sul bancone.
«Alla salute», mi fece l’occhiolino, prendendo il bicchiere e portandolo alle labbra.
Una cosa di cui ero perfettamente cosciente era che non ero molto brava a tenere l’alcol, potevo ubriacarmi con una quantità minima ma quella sera non mi importava. Avevo voglia di non pensare a nulla, di vivere per una volta senza freni. Di “dare un po’ di pace alla mia testolina”, come aveva detto Matt.
«Un altro giro?»
«C’è bisogno di chiederlo?», sorrisi sorniona, allungando il braccio con il bicchiere vuoto verso di lui che sorreggeva la bottiglia.
«Sei già ubriaca?», mi chiese giustamente Matt, vedendomi con uno sguardo perso nel vuoto e in stato confusionale mentre cercavo di capire in quale parte del globo terrestre fossi. Mi girava fortissimo la testa e non capivo nulla, quello che volevo era solo ballare e divertirmi come non mai!
«Chi? Io? Ma roba da non crederci … ma tu guarda se io posso essere ubriaca e solo… che beh… sono diversamente sobria ahahahaah»
«Sei completamente andata! Ma sai posso cogliere questo tuo stato di semi – incoscienza per farti un paio di domande: beh … allora, sei innamorata di Johnny?».
Lo guardai negli occhi e mi sembrò infinitamente serio. Rielaborai i miei pensieri: dopo qualche bicchiere di troppo era difficile rispondere a domande così complesse e dopo quella domanda mi ci sarebbero serviti altri sei bicchieri per riprendermi, ma sapevo cosa rispondere… o almeno credevo.
«Ti ricordi quando tempo fa mi chiedesti dove si trovava il cuore? Se stava sempre a sinistra o si muoveva?». Lui annuì anche se dalla faccia sembrava non trovare il nesso con la sua domanda.
«Bene! Io ti risposi che non lo sapevo ma ora so la risposta. Il cuore non sta sempre nella stessa parte: ti arriva in gola quando sei emozionato e nello stomaco quando c’è qualcosa che non va. Lo avrai nelle mani quando sarai pronto a donarlo ad un altro e a volte ti ritornerà indietro un po’ ammaccato ma comunque sarà sempre bellissimo, o forse di più! Ed è così che ti rispondo Matt… quando ho visto Johnny per la prima volta il cuore mi è salito in gola e poi mi è uscito dal petto e… quel cuore ho deciso di donarlo a lui e anche se ora è più ammaccato e fragile che mai apparterrà sempre e solo a lui! Quindi sì, Matt… sono innamorata di Johnny anche se mi ha spezzato il cuore». Matt cambiò improvvisamente colore anche se non afferrai immediatamente il motivo. Beh, sapevo che Matt aveva una piccola cotta per me sin da bambini ma dopotutto erano i miei sentimenti e non potevo nasconderli o eliminarli da un giorno all’altro e anche se avessi voluto non ci sarei riuscita. «Vado un secondo alla toilette».
Mi alzai dalla sedia per la prima volta da quando ero arrivata lì ma sentii la testa volteggiare e non avvertii più il contatto con il pavimento. Che cosa mi stava accadendo?
«Elle? stai bene?!». Matt si alzò immediatamente afferrandomi per un braccio in modo da non farmi cadere e mi accorsi di vedere la sua immagine sfocata. Forse avevo proprio esagerato.
«Vieni, ti porto alle stanze al piano di sopra, così ti distendi per un po’!». Non ebbi nemmeno il tempo di aprir bocca che mi prese un braccio mettendoselo intorno al collo e cominciò a salire le scale. Scoppiai a ridere come una deficiente mentre mi immaginavo stesa per terra come un sacco di patate e Matt mi guardò preoccupato.
«Sei andata», constatò prima di aprire la porta della stanza.
Era enorme e perfettamente arredata di soprammobili antichi e con un enorme letto che prendeva gran parte dello spazio della stanza. Matt mi poggiò sul letto, aiutandomi a distendermi e andò a chiudere la porta. Mi sentivo come se il mondo avesse accelerato il suo moto e mi accorsi di non essere in piene facoltà mentali.
«hai bisogno di qualcosa -che non contenga tasso alcolico- o stai bene?», mi chiese, sedendosi di fianco a me, accarezzandomi le labbra con i polpastrelli. Sorrisi e cominciai a guardarlo in tutta la sua perfezione: Matt non era più un ragazzino da allora erano passati anni, quasi stentavo a riconoscerlo e dovevo proprio ammetterlo: era diventato un bel ragazzo.
«Se non fosse per via del mondo che gira in maniera spaventosa attorno a me… si, sto bene», farfugliai. Si avvicinò a me, mangiando la distanza che ci separava e si avvicinò al mio orecchio, non ostentando il contatto visivo. Se fossi stata meno ubriaca mi sarei già allontanata, porgendogli cinque dita sulla faccia ma non ero nelle facoltà per riuscirci.
«Non sai quanta voglia ho di levarti quell’orribile camicetta e di saltarti addosso…». Risi di botto senza aver capito veramente il senso della sua frase o meglio non credevo dicesse la verità, ma ebbi la conferma quando poggiò le sue labbra sulle mie. Erano morbide e deliziose e il suo respiro accentuato sul mio viso mi fece andare in estasi. La mia mente era troppo oppressa per capire veramente quel che stava accadendo in quel momento ma non mi importava!
Non mi interessavano le sue mani sui miei fianchi e la sua bocca incollata alla mia, non mi importava la sua lingua che si destreggiava per farsi spazio e cercare la mia. Non riuscivo a frenarlo e non lo avrei fatto. Avvolsi le braccia intorno al suo collo e lui si sollevò per togliersi la maglietta, buttandola in qualche parte della stanza del tutto irrilevante, per poi aiutare anche me a spogliarmi. Quando fummo finalmente nudi cominciò a toccarmi dappertutto, incominciando dai miei seni ai miei glutei. Mi mordeva con le labbra i lobi delle orecchie mentre con le mani mi prese le gambe immettendosi al loro interno, tormentandomi in modo assiduo e costante. Divaricai le gambe e inarcai la schiena in modo da sentirlo più mio. I nostri sospiro si fusero in un unico e grande respiro finché nella stanza non si sentirono altro che la variazione dei nostri fiati. Gemetti quando finalmente mi penetrò con forza e desiderio irrefrenabile che un uomo come lui poteva avere. Le sue spinte andarono ad aumentare fino a farmi arrivare in un grande momento di piacere e con grande gioia raggiunse l’orgasmo insieme a me, godendo in attimi di piacere intenso ed equivocabile.
«Non sai da quanto tempo ti desidero… devi sapere che ti ho sempre amata», sussurrò gemendo mentre con le mani mi toccava il viso sudato e accaldato. Le sue braccia mi stringevano a se come a non volermi lasciare andare e forse neanch’ io lo avrei mai più fatto… o semplicemente ero troppo ubriaca per capire il vero senso di quella notte che in realtà un senso non ce l’aveva.

Una forte luce mi abbaiò il viso e quando aprii gli occhi fui costretta a sbattere più volte le palpebre.
Dov’ero? La testa mi stava scoppiando e non riuscivo a ricordarmi come fossi arrivata in quella stanza e perché… ma perché ero nuda?! Mi sollevai con il busto, coprendomi il seno con il lenzuolo. Quando diamine ci ero arrivata qui?!
Mi sollevai lentamente fino a mettermi a sedere e osservai le lenzuola stracciate accanto a me: il letto era vuoto. Una porta nella stanza –probabilmente il bagno- si aprì.
«Ehy, tesoro, finalmente ti sei svegliata…», sorrise a trentadue denti, asciugandosi i capelli con un asciugamano e con addosso soltanto dei boxer blu scuro. Sgranai gli occhi sorpresa e sul punto di morire.
«Matt?!?»


Per perdonare il nostro ritardo abbiamo pubblicato questo mega-capitolo xD Siete sorprese per il "finale"? Speriamo di non avervi turbato troppo u.u
Vi ringraziamo tantissimo per essere sempre più numerose!
A presto, A & P <3

P.S Tra una settimana esatta è il compleanno di Johnny *-* quanto siete entusiaste? :3

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Capitolo 11
*** capitolo 9 ***


capitolo 9





Avrei voluto tanto sprofondare al centro della terra mentre cercavo con tutte le mie forze di mantenere la calma e la mente fredda, con Matt di fronte a me con solo un asciugamano attorno alla vita.
«Cosa cazzo ti è venuto in mente?!», urlai sconvolta, afferrando le lenzuola furiosamente per coprirmi alla bello meglio mentre portavo le ginocchia al petto. Avevo il viso in fiamme, mi sentivo in imbarazzo e terribilmente nuda... completamente nuda.
«Guarda che non ti ho mica violentata!», esclamò lui di botto, esasperato, fissandomi mentre mi dimenavo in cerca dei miei vestiti senza riuscire a trovarli. «E poi non c’è bisogno che ti senti come un peccatore in chiesa: ti ho già vista più nuda di così».
Come ci ero finita in quel letto, nuda, con Matt?! L’ultima cosa che ricordavo era quella di essere stata in quel locale ieri sera… ah, si! avevo anche bevuto un po’… ma poi?
«Cos’è successo?», farfugliai, passandomi una mano nei capelli mentre il mal di testa mi stava uccidendo. Mi sentivo terribilmente confusa e cercavo con tutta me stessa di ricordare qualcosa riguardante quella notte, ma più ci provavo più mi sentivo sconnessa.
 «Non ricordi niente?», sussurrò lui, forse un po’ deluso. Alzai lo sguardo e incrociai i suoi occhi chiari e probabilmente dovette capire dalla mia espressione smarrita che… diavolo, no che non ricordavo niente! Sospirò e prese i box e i pantaloni,cominciando a rivestirsi. Mi sentii il viso bruciare e fui costretta a tapparmi gli occhi con una mano mentre avvertivo il suo sguardo su di me. «Hai bevuto un po’ troppo ieri», confessò infine come se non ci potessi arrivare da sola.
«Mi sono ubriacata», lo corressi puntigliosa, incrociando le braccia al petto. Lui ridacchiò divertito. «Sì, forse è così»
«Forse!E poi?!»
«E poi ti ho portata qui!». Prese la maglietta indossando anche quella, mentre noncurante lo continuavo a fissare in cerca di risposte. «Che c’è?», mi fece lui, fissandomi interrogativo. Lo guardai duramente, aspettando che continuasse.
«E poi?», ringhiai minacciosa.
«Poi ti ho baciata», fece lui, abbassando gradualmente il tono di voce fino a finire in un sussurro. «E poi?», insistetti  sempre più furiosa, sorvolando sul fatto che mi aveva baciata ed io, di quel bacio, ricordavo molto vagamente il sapore delle sue labbra.
«Poi abbiamo giocato a carte, Elle!», esclamò infine ironico, sbuffando mentre tornava a chiudersi in quella stanza.
«Come hai potuto portarmi a letto, sapendo che ero ubriaca?!» urlai furiosa, alzandomi per andargli dietro e approfittarne per cercare per la stanza gli abiti.
«Dai, non farla tanto lunga, ci siamo divertiti», sorrise lui malizioso, sciacquandosi con l’acqua la faccia. Lo osservai meglio e cercai di ricordare. Ebbi un fremito improvviso e sussultai quando l’immagine di Matt nudo sopra di me mi comparve davanti agli occhi e sentii quasi di nuovo le sue mani sul mio corpo. 
«Io non… non lo ricordo», balbettai disorientata. Lui si voltò verso di me e fui costretta ad abbassare gli occhi per paura di essere diventata rossa come un peperone. In quel momento mi sentì come se fossi stata violentata anche solo con lo sguardo.
«Non ti credo», rise, tornando nella stanza. Mi stava facendo letteralmente girare gli occhi e la testa. E anche qualche altra cosa, ma è meglio non essere volgari. Si abbassò sotto il letto e afferrò i suoi scarponi. «Era questa che cercavi?», aggiunse, sventolando le mie mutandine azzurre. Gliele strappai da mano imprecando, avvertendo un incredibile calore alle gote.
«Ti sei approfittato di me», lo accusai, guardandolo in cagnesco e incrociando le braccia al petto, alzando il lenzuolo che era l’unica cosa a coprire il mio corpo ormai nudo.
«Potevi anche rifiutarmi, ma non l’hai fatto…»
«Sai com’è, ero un po’ brilla per capire quel che facevo e poi… non sono più me stessa in questo periodo, ma tu! Tu non ti sei tirato indietro e hai preso la palla in balzo senza tener conto di tutto questo e ti sei approfittato di me senza alcun pudore!», replicai testardamente, afferrando i pantaloni che finalmente ero riuscita a ritrovare: era una caccia al tesoro porca miseria!
«Scusami, okay, ti chiedo perdono! Ora la smetti?!»
«No, Matt, non la smetto! Riportami a casa»
«Non ci provare Elle con me non attacca! Tu hai una paura tremenda di ammettere quel che provi. Non riesci a metterti nella giusta posizione con i tuoi sentimenti: non ammetteresti mai che ti è piaciuto e non ammetterai mai che ti piaccio anch’io!», disse lui deciso, avvicinandosi a grossi passi a me e afferrandomi per le spalle.
«Tu sei pazzo, sai?», sussurrai tremando, sentendo il suo fiato sul viso. Lui sorrise ma rimase fermo, accorciando la distanza che ci separava.
«Non ti ricordi nulla di cosa ti ho detto ieri sera?». Lo guardai interrogativa, fissando ad un palmo dal mio naso i suoi occhi scintillare dall’emozione.
«No? Te lo dico io: ti amo, ti ho detto che ti amo», sussurrò prendendomi poi il mento con una mano mentre il mio cuore mi salì in gola e lo guardai sorpresa e senza parole. «Avrei voluto dirti di più, Elle, ma tanto non avresti comunque ricordato nulla», sussurrò quando era ormai ad un soffio dalle mie labbra. E, chissà perché, desideravo che si avvicinasse ancora. Potevo sentire il cuore scalpellarmi dal petto ma no! non potevo …
«No, Matt», dissi infine, staccandomi da lui quando mi sfiorò le labbra. mi guardò confuso e forse anche deluso. «Lo sai cosa sto passando»
«Per via di Johnny?». Non gli risposi, abbassai lo sguardo e mi morsi il labbro senza fiatare. «Lo sapevo, è per colpa sua. Ma cazzo, Elle, devi andare avanti: ti ha detto che non ti vuole! Io invece ti voglio», ricominciò, afferrandomi i polsi senza sapere che mi stava facendo male con le sue parole, riaccendendo la fiamma di dolore nel mio petto.
«Non solo per Johnny! In generale Matt… non potresti avere un futuro con me capisci? Ho chiuso ieri la mia storia con Johnny e non mi sento pronta mentalmente per ricominciarne una nuova oggi» «E non incominceremo niente allora», sorrise lui, accarezzandomi. «Ma permettimi di starti vicino… di dimostrarti quanto sei importante per me. Niente storie, niente alcool, niente nottate di sesso! Sempre se non sei tu a chiederlo»
«Non lo so, Matt! Mi prendi troppo alla sprovvista e…» non riuscivo a capire niente, mi sentivo troppo male per realizzare quel che realmente bramavo o di capire solo i miei sentimenti. Matt sbuffò ma non si arrese.
«Tu hai detto che hai paura del domani, no? Ma se hai paura di vivere morirai ogni giorno! Elle devi uscire dal muro di pietra che ti sei creata tu stessa, è come se avessi messo una barriera tra te e il mondo. Non puoi continuare così… tu potrai contare su di me, quindi ti prego: dammi una possibilità»
«Senza impegni?»
«Senza impegni», ripeté e mi parve convincente. In fondo… dovevo voltare pagina e accettare che con Johnny non ci fossero possibilità: forse dovevo dare un’occasione anche a Matt, sebbene mi sembrasse strano essere con lui ora.


«Elle, si può sapere dove sei stata?! Ho provato a chiamarti tutta la notte e…». La mamma si bloccò quando vide che dietro di me era entrato in casa anche Matt che, imbarazzato, si portava una mano dietro la nuca strofinandosi il collo.
«Ciao! Ehm… Scusami, è stata colpa mia», sorrise lui impacciato, suscitando l’espressione sorpresa e interrogativa della mamma che mi lanciò un’occhiataccia. Che imbarazzo!
«Va bene! Per oggi basta così… Ci vediamo, Matt», intervenni, deglutendo mentre lo spingevo con le mani sul suo petto per farlo indietreggiare fino a quando non fu fuori dalla porta di casa. Mimò un “okay” con le labbra prima che richiudessi la porta e mi trovassi mia madre davanti  e con i piedi ben saldi a terra, le mani sui fianchi e con un espressione nel viso fin troppo confusa. Alzai gli occhi al cielo, aspettandomi già la sua valanga di domande. Quindi decisi di precederla mentre avanzavo lungo il corridoio con lei che mi veniva dietro come la mia ombra.
«Ti rendi conto dell’ansia che ho avuto tutta la notte? Stavo per chiamare la polizia!». Mi voltai di scatto ritrovandomi il suo viso infuriato di fronte al mio.
«Lo so, mamma, e mi dispiace! Ma l’importante è che sono qui e che sto bene, no? Quindi ti prego torna a ricamare!», esclamai, prima di richiudere la porta della cameretta alle mie spalle. Non ebbi il tempo di respirare perché Sarah, davanti a me, mi guardava confusa e perplessa.
«Dove sei stata tutta la notte? Tua madre è stata in pena per te! Non hai combinato nulla di grave spero»
«Ho passato tutta la notte fuori con Matt… mi sono ubriacata e abbiamo fatto l’amore e io non mi ricordo niente! Ho solo un buco enorme che mi sta perforando il cervello! Ma no… nulla di grave… credo». Sarah restò immobile e senza fiatare con la mascella che sfiorava il pavimento. Ci guardammo per un secondo negli occhi, immobili, poi sospirai e mi gettai sul letto, mormorando qualcosa che non riuscii a comprendere neanche io.
«Mi sono persa a “tutta la notte fuori con Matt”… ti dispiacerebbe ripetere?!», squittì isterica, venendomi vicino e sedendosi sul letto. Mi tirai a sedere, abbracciando il mio cuscino e stringendolo al petto.
«Ho fatto una stronzata lo so e me ne rendo perfettamente conto! Ma sai una cosa? Non me ne sono pentita! »mormorai, mordendomi le labbra. Lei continuò a fissarmi. «Lo so cosa stai pensando! Ma non ti so spiegare il perché ma poi ero ubriaca fradicia e non è che mi ricordi poi molto», aggiunsi. «E Matt?»
«Lui si ricorda tutto benissimo!», aggiunsi infine con sarcasmo e le scoppiò a ridere,contagiando anche me.
«Seriamente Elle!»
«Mi ha chiesto di dargli una possibilità. Come mio ragazzo, intendo…», dissi con un filo di voce, leggermente imbarazzata. Sarah parve sempre più sorpresa.
«Matt è il tuo nuovo ragazzo?»
«No! O meglio, non ancora…. Mi serve del tempo. Tempo che Matt è disposto a concedermi: nel frattempo, ci conosceremo meglio», tentai di spiegare, anche se mi sentivo come se insegnassi l’arabo ad un cinese. Non capivo nemmeno io in realtà! Sarah abbassò il capo.
«E… Johnny?»
«“Io sono un attore di fama internazionale, come potevo stare con una come te? Una bambina che non sa quello che vuole dalla vita?”», feci io, camuffando la mia voce per imitarlo mentre recitavo le sue stesse parole, lettere che mi avevano colpito così tanto da rimanere impresse una ad una nella mia testa.
«Che stronzo!», esclamò, spalancando la sua bocca mentre allargava le braccia. Feci una risatina amara.
«Già»
«Hai fatto bene», disse infine subito dopo di me, anche se sembrava fosse una frase uscita come risultato di intere ore di riflessione.
«Cosa?»
«A fregartene, uscire con Matt, ubriacarti e farci sesso. Hai fatto molto bene», aggiunse annuendo saggiamente. Feci un sorriso forzato.
«Non è che non me ne frega… voglio solo cercare di voltare pagina e, se è necessario, cambiare proprio libro! Anche se sento che è la cosa più difficile di tutta la mia vita, come se dovessi cominciare a vivere di nuovo. È difficile ma cercherò di farcela», fece spallucce e mi sorrise compiaciuta e orgogliosa.
«E Matt può essere paragonato a “Cinquanta sfumature di grigio?”», fece maliziosa, dandomi una spallata. «Allora? A letto è come Christian Grey?», continuò ridacchiando, lei che se li era letti tutti e tre i libri della James. La guardai prima disorientata per il modo in cui aveva rapidamente cambiato discorso ma poi scoppiai a ridere.
«Da quello che riesco a ricordare, non è male»
«Che stronza», sussurrò lei scuotendo il capo. «Lo sapevi che Matt era il mio sogno erotico!», aggiunse scherzosa, riferendosi alla sua cotterella adolescenziale per il “ragazzo di campagna”.
«Comunque, che ci facevi a casa mia alle otto e mezza del mattino?», chiesi curiosa guardando l’orologio nel comodino adiacente al letto. Lei sgranò gli occhi e si mise una mano in testa. 
«Me ne ero proprio dimenticata! Ero venuta per prelevare un campione del tuo sangue da analizzare», fece lei, alzandosi dal letto per afferrare il borsone di pelle scura che utilizzava di solito per le visite a domicilio. Restai a guardarla mentre apriva la zip velocemente. «E’ un esame molto pratico: tra cinque giorni ti preleverò un secondo campioncino e vedrò come la malattia si evolve», proferì, prelevando dalla borsa una siringa con un ago da far venire voglia di buttarsi dalla finestra. «E a cosa ti serviranno le analisi?»
«Il dottor Martini è stato così gentile ad interessarsi del suo caso e vuole esaminare meglio la tua situazione», disse con disinvoltura mentre tastava il braccio in cerca di una vena da “punzecchiare”. La guardavo mentre sforzava un sorrisetto e mi venne da sorridere di rimando: avrei dovuto ringraziarla a vita per tutto quello che stava facendo, per la sua forza nel fingere un sorriso quando in questa situazione di merda era l’unica cosa che non veniva fuori spontaneamente. Sapevo che fingeva che tutto stesse andando alla grande ma alla fine tutti quei sorrisi un po’ mi facevano sentire meglio. «Ti prescriverò anche alcune pastiglie che non devi assolutamente dimenticare di prendere: mi raccomando è di vitale importanza», sospirò una volta trovato il punto giusto in cui introdurre l’ago.
«No, evidentemente mi prosciugherai, ed è di vitale importanza che tu non lo faccia!»


«Posso?». Aprii timidamente la porta dello studio, trovandomi davanti Sarah con i capelli arruffati come al solito e tutta indaffarata davanti al suo enorme computer tutt’altro che tecnologico, mentre elaborava qualcosa di losco.
«Elle! Sì, accomodati pure e scusa per il disordine: ho avuto parecchio lavoro da fare questa mattina». Erano passati già cinque giorni da quando mi aveva prelevato il campione di sangue e oggi mi toccava la seconda visita di controllo. Veramente non sapevo cosa ci facessi lì ma ormai mi fidavo ciecamente di lei!
«Siediti, così ti dico con calma tutto quello che faremo», mi disse, facendomi cenno di sedermi di fronte a lei, togliendosi gli enormi occhiali e cominciando a guardarmi fisso negli occhi, come a voler scorgermi dentro l’anima.
«Ho sentito anche il dottor Martini e le pillole di cui ti parlavo sono un’ottima soluzione anche secondo lui. Le pillole che ti ho prescritto sono una specie di chemioterapia, così da rallentare il flusso della malattia. Con l’esame istologico che ti ho fatto -ma che non ho avuto tempo di riguardare- vedremo a che punto è la malattia e come agire. Di solito si “guarisce” con la chemio oppure con un trapianto al midollo nei casi più gravi. Ma tu non devi assolutamente pensare al peggio mia cara, non sei sola e quindi forza e coraggio!». Strinse la sua mano con la mia mentre cercavo di assimilare tutte le cose che mi aveva appena detto. Annuì lentamente, cercando di mantenere la lucidità e reggere il peso di quell’enorme fardello. Sentivo intanto il cuore farsi più leggero e un piccolo sorriso allargarsi sul mio viso. Sentivo la speranza fare a pugno con la mia tristezza, mentre pensavo veramente che forse un modo per sopravvivere c’era. Forse avrei dovuto prendere per tutto il resto della mia vita quelle pillole, ma almeno ci sarei stata. Mi sorrise e prese un’altra siringa.
«Questo è il secondo campione:lo metto subito in corrispondenza con il primo e ti saprò dare una risposta»
«Me lo dirai ora?». Lei annuì e in quel momento mi sentì travolta dalla mia stessa angoscia. Avevo una paura tremenda di scoprire il verdetto finale e di entrare in contatto con la realtà con cui mi sarei imboccata da lì a poco. Lei sorrise quasi a volermi confortare «Prima sapremo e prima potremo intervenire». Chiusi gli occhi nell’istante in cui mi infilzò la pelle con l’ago, facendomi avvertire il morso di un ape assatanata. Prese il sangue e lo versò su un campioncino di metallo, aspettando la scannerizzazione, mentre con un piccolo sbilanciamento recuperò una cartella, prendendo un piccolo foglio bianco e cominciando a leggerne tra le righe.
«Quante possibilità ci sono che tu  e il dottor… coso… abbiate sbagliato?»
«Dottor Martini… E comunque abbiamo ripetuto le analisi per ben tre volte e non credo che… ma cos?». Sarah aggrottò la fronte, soffermandosi su una scritta a piè di pagina. Accese frettolosamente il computer confrontando i due campioni di sangue. 
«Sarah che succede?!», chiesi con il cuore in gola mentre la sua espressione diventava sempre più esterrefatta. Mi sentii morire e in quel momento immaginai il peggio. Che cosa stava succedendo? «Sarah diamine! Parla che succede?!». Mi guardò sbalordita e con la bocca aperta come se volesse parlare ma come se non ci riuscisse.
«Siediti immediatamente su quella poltrona!!». Obbedii, sdraiandomi su una poltrona con una specie di televisione accanto. Mi voltai verso Sarah, indaffarata, mentre cercava di recuperare qualche oggetto metallico. Non riuscivo a respirare e nemmeno a muovermi dal nervosismo.
«Elle hai avvertito più i sintomi iniziali? Come perdita di sangue, nausea e vomito color del sangue?»
«beh… no, mi sembra di no! perché sono guarita?». In quel momento un barlume di speranza si impossessò di me e in quel momento mi sentì quasi rinascere. Sarah, quasi come se fosse in trans o in stato di shock cominciò a tastarmi l’addome e a palparmi il seno, per poi accedere la televisione e cominciando a spalmare sulla pancia uno strano liquido.
«Non ci posso credere!», sussurrò a un mormorio mentre io ci capivo sempre meno, poi il suo volto s’incupì improvvisamente e sgranò gli occhi. «Elle… non possiamo assolutamente sospendere la cura!», esclamò mettendosi una mano sul viso. Aveva le lacrime agli occhi e io avevo quasi paura a farle qualsiasi altra domanda.
«Perché che hai visto?», domandai con voce tremante e sentendomi quasi morire. Lei si voltò guardandomi con lo sguardo perso nel vuoto.
«C’è battito!»
«Come? In che senso?», chiesi, non riuscendo a comprendere le sue parole. Lei sospirò e inalò aria prima di buttarmi addosso il risultato di un orrenda colpa.
«Elle… sei incinta…». E in quel momento mi sembrò di morire sul serio…




Salve a tutte con un nuovo e intricato capitolo ^^
sorprese? ebbeni si! la nostra cara Elle deve mandare giù un altro rospo: è incinta! :)
questo è un bel problema ... più di uno veramente ^^''
comunque ringraziamo tutti coloro che si stanno appassionando alla nostra storia e che l'hanno messa tra le seguite/ricordate e preferite!! e devo dire che siete veramente molti!! ^^
un grazie enorme per coloro che hanno recensito e che hanno usato parole bellissime! *_* siete tutte dolcissime ... :)
un grazie ancora e ... Alla prossima!!! A & P <3

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Capitolo 12
*** Capitolo 10 ***


Aprii gli occhi di scatto, con le palpebre umide e la bocca secca e impastata dal sonno. Mi trovavo distesa su un pavimento freddo e dalle piastrelle bianchissime e lucidissime come se fossero nuove, immacolate e candide.
Mi sollevai quel tanto da notare meglio i particolari della stanza che sembrava non avere un soffitto e dalle pareti era bianche come le piastrelle: non vi erano finestre e quindi non vi addentrava né luce né aria per respirare. Non sapevo cosa fare e mi assalì l’ansia, vedendomi intrappolata tra quelle quattro mura, senza una minima via di uscita, senza una apertura o un uscio che mi avrebbe consentito di non morire soffocata.
Mi sollevai, girando un paio di volte su me stessa, cercando una via di uscita e all’improvviso mi comparvero di fronte tre porte una affiancata all’altra, di un legno scuro e torbido. Indecisa su quale delle tre aprire per prima mi diressi d’istinto sulla prima porta. Aveva sopra di esse una spia rossa accesa con su scritto ‘’emergenza’’.
Presi la serratura che faticò ad aprirsi e venni accecata da una luce blu intensa. Entrai,sentendo delle piccole voci in lontananza che si fecero sempre più vicine ma non c’era nessuno, credevo infatti di essere sola ma quelle voci si intensificavano sempre di più e capì di non essere affatto sola. Feci pochi passi in avanti, stando ben attenta a dove mettessi i piedi e all’improvviso la porta dietro di me si chiuse, emanando un rumore sordo. Mi voltai di scatto e quando mi rigirai vidi due figure di spalle e sbilanciate in avanti, come se stessero facendo qualche cosa. Distinsi Sarah dai suoi capelli biondi legati in una coda improvvisata, con indosso il suo grembiule bianco e una figura dai capelli grigi e brizzolati al suo fianco. Mi avvicinai lentamente, badando a non disturbare, cercando di non far rumore e quando fui abbastanza vicina, vidi una figura familiare distesa ad occhi chiusi e un macchinario al suo fianco che stava ad indicare il battito cardiaco della giovane. Buttai un urlo ma il fiato mi morì in gola quando notai che la donna era uguale a me. Ma che dico: quella donna ero io!
«Elle!», esclamò Sarah girandosi. Vidi il suo sguardo allarmarsi e puntandomi un dito cominciò ad urlare a perdifiato.
«Presto, prendila! Sta scappando!», aggiunse, rivolta verso l’uomo accanto a lei che iniziò a inseguirmi.
Cominciai a correre verso la porta che in quel momento mi sembrò farsi più lontana, mentre sentivo da lontano il macchinario aumentare gradualmente il suo ‘’bip’’ come se il mio cuore in quel momento stesse per scoppiare. Dietro di me la voce di Sarah si faceva più nitida e potevo avvertire la figura dell’uomo avvicinarsi sempre più a me.
Quando raggiunsi la porta l’aprii di scatto, ritrovandomi al punto di partenza e prima di poter riprender fiato cercai rifugio in ciò che si nascondeva dietro alla seconda porta. Venni di nuovo abbagliata da una luce biancastra e solo quando aprii gli occhi realizzai che erano dei flash di macchine fotografiche che stavano scattando foto ad un uomo dal sorriso conosciuto, composto da tantissimi denti d’oro e nascosto sotto dei piccoli baffi sul punto di crescere. Il cuore mi salì in gola quando riconobbi in quell’uomo colui che bramavo più della mia stessa vita e spinta dall’emozione e dall’impeto gli corsi incontro felice di poterlo riabbracciare. Non mi importava nulla in quel momento, nulla poteva essere paragonato a quelle braccia forti e muscolose. Nulla aveva senso quando lui era con me…
«Johnny!», esclamai felice, accarezzandogli spasmodicamente il volto e guardando ogni centimetro del suo viso perfetto mentre le lacrime scendevano furtive dal mio. «Sono io, sono Elle! Sono sempre stata Elle».
Lui mi guardò e il suo viso sembrò freddo come il marmo poi la maschera si sciolse e lui scoppiò a ridere. Quelle risate mi squillavano nella mente e a quelle di Joh seguirono quelle dei giornalisti e telecronisti. Mi sentii morire…
«Io sono un attore di fama internazionale, come potevo stare con una come te? Una bambina che non sa quello che vuole dalla vita? Non ti conosco: io sto con Eleonore». A sentire quelle parole che tanto mi tormentavano, gli occhi mi si riempirono nuovamente di lacrime e mi sentì spingere dalla folla.
«Sono io, Eleonore! Siamo la stessa persona!!». Vidi una figura bellissima avvicinarsi a Johnny e avvolgerlo in un abbraccio, stampando nelle sue labbra un bacio appassionato. Rimasi immobile e in quel momento il cuore si fermò. Corsi via quando quella donna si voltò verso di me: ero io! O meglio, era Eleonore…
Cominciai a correre a perdifiato dirigendomi verso la terza porta.
Niente luce abbagliante, né rumore di macchinari ospedalieri o della folla, solo una pace e un silenzio che mi lasciò quasi intontita. L’unica cosa che avvertivo erano delle vibrazioni e un piccolo e flebile tonfo.
Mi voltai trovandomi davanti una sagoma con un piccolo cuore pulsante e vibrante. Solo quello era il rumore che emanava quella stanza. La quiete sembrava quasi surreale e mi sentì in pace e protetta. Quel luogo di pace mi suscitava un senso di calma e mi sentii al caldo, riscaldata e protetta da tutti i mali del mondo. All’improvviso quella sagoma scomparve, così come la pulsazione di quel cuore e al suo posto si sentì una musichetta di un carillon di sottofondo e i versi di un bambino. Scrutai la figura dinanzi a me, quella di un tizio che mi dava le spalle, chino su qualcosa, intento a farfugliare qualche parola. Mi sentì arrivare e si voltò.
«Matt?», mormorai quando lui mi sorrise, stringendo amorevolmente tra le sue braccia una bimbo avvolto in una copertina rosa.
«Elle!», sorrise lui. «Hai visto che la mamma è arrivata?», aggiunse alla piccoletta tra le braccia. Scossi il capo più volte, sgranando gli occhi incredula
. «Non sono sua madre», ringhiai, indietreggiando.
«Ma come? Dai, tienila! Ti assomiglia molto», sorrise ancora, mettendomela prepotentemente tra le braccia. La bambina cominciò a dimenarsi, guardandomi con sguardo duro e amaro, poi smise di frignare e si addormentò. Non sentii il calore della sua pelle perché quando abbassai lo sguardo vidi che era morta. Urlai sconvolta, ridandola a Matt, mentre mi allontanavo sempre di più.
«Hai ucciso la nostra bambina!», urlò Matt furioso, mostrandomi la bimba senza vita ancora avvolta nelle fasce.
«Non è mia figlia! Non voglio un bambino!», piansi, scappando via anche da quella porta.
Sobbalzai e aprii di scatto gli occhi, ritrovandomi seduta in mezzo al letto a fissare un punto nel vuoto. Rimasi alcuni secondi col fiato sospeso e la bocca spalancata,cominciando ad ansimare e a guardarmi intorno nell’oscurità, cercando di capire dove fossi o come fossi arrivata li. Dalla finestra aperta entrava un venticello fresco e si intravedeva la luna, nascosta tra delle nuvole scure. Ogni tanto faceva capolino ma la sua luce era fioca, dopotutto che era ancora notte fonda. Guardai la sveglia segnare le quattro e mezza e mi passai una mano sulla fronte bagnata di sudore.
Mi alzai velocemente dal letto e andai in cucina per rinfrescarmi con un bicchiere d’acqua fredda. Dire che ero sconvolta per quell’incubo era poco: non riuscivo neanche ad emettere un suono, spaventata com’ero che non fosse stato soltanto un brutto sogno. Quando poggiai il bicchiere sul tavolo mi accorsi che le mani mi tremavano e cercai con tutte le forze di rimanere in equilibrio su me stessa.
Afferrai il cellulare e composi il numero di Matt ma poi mi ricordai che erano solo le quattro: non potevo chiamare proprio nessuno! Tornai in camera mia anche se ero consapevole del fatto che non sarei stata capace di chiudere occhio: l’immagine di Matt con quella bambina morta tra le braccia, poi Sarah che mi stava operando e lo sguardo di Johnny con Eleonore erano una cosa frustrante e sicuramente per quella notte non sarei riuscita a ritornare nel mondo dei sogni.

«Ti avevo detto di passare in clinica», mi ammonì Sarah, entrando in casa e venendomi vicino. Io, spaparanzata sul divano davanti alla tv, la guardai in malo modo, senza scompormi di un millimetro.
«Non mi andava»
«Elle…»
«Per favore, Sarah, oggi non sono in vena di rimproveri!», sbottai, tornando con lo sguardo fisso sullo schermo della tv che trasmetteva una di quelle soap opera di trecento puntate che non avrei mai guardato. Sarah rimase immobile per qualche secondo, sorpresa dalla mia risposta.
«Capisco che tu sia stressata ma non è un buon motivo per trascurarti. O per aggredirmi», replicò acidamente, mettendosi le mani sui fianchi. Fissai lo schermo della tv, anche se riuscivo a vedere il suo riflesso.
«Stressata? Sognare il proprio ragazzo con in braccio tua figlia e un’amica che ti corre appresso per farti chissà cosa si chiama stess?!», esclamai e a quel punto si mise tra me e la televisione, impedendomi di guardare. Mi strappò il telecomando dalle mani e spense la tv rapidamente, poi tornò a fissarmi severamente.
«Che ne dici di parlarne? Ieri ti ho dato una notizia e tu non hai reagito minimamente… come se non si trattasse di te», sussurrò sorpresa.
«Quale notizia?»
«Quella del bambino» «Ah», feci io, con indifferenza, procurandomi un’altra occhiataccia incredula.
«Cosa vuol dire “ah”?!»
«“Ah, non ho niente da dire”»
«Continuo a non capire». La guardai a lungo, prima di sospirare e farmi da parte per farla sedere.
«Non ci riesco… non voglio pensare a niente perché se comincio a pensare rischio di affogare nel mio stesso dolore e comunque non riuscirei comunque ad avere un figlio, con la mia malattia», mormorai a testa bassa e a confermarmi la mia ipotesi era il fatto che Sarah non aveva detto nulla che affermasse il contrario. «E poi, non voglio avere un figlio! Non posso avere un bambino e… di Matt, tra l’altro! Sarebbe ridicolo… insomma, l’abbiamo fatto mezza volta ed ero pure ubriaca, non stiamo nemmeno insieme e non posso andare da lui e dirgli che aspetto nostro figlio!», continuai.
Sarah annuì pensierosa. «Forse reagirà in modo diverso… infondo lui ti ama»
«Ha pur sempre ventitré anni. Chi vorrebbe un figlio a ventitré anni?!». Non disse nulla, rigirandosi nervosamente i pollici.
«Dobbiamo decidere cosa fare. Non ho ancora detto nulla al dottor Martini ma come me ti dirà di scegliere»
«Tra cosa?»
«Se continuare le cure e perdere il bambino o sospendere le cure, salvare il bambino e perdere te», mi disse tutto ad un fiato come una doccia gelata. Sarah aveva sempre saputo che ero una ragazza forte, soprattutto dopo aver visto come avevo reagito di fronte alla malattia, quindi ultimamente mi diceva chiaramente le cose come stavano ed io apprezzavo questo suo gesto di non nascondermi le cose. Feci una risatina amara.
«Quasi quasi mi suicido», la buttai sullo scherzo ma evidentemente lei non la prese allo stesso modo.
«Non ci pensare nemmeno!», esclamò allarmata, scattando all’in piedi. «Lo sai che ce la faremo insieme», aggiunse.
Sorrisi, annuendo. «Già», farfugliai, anche se non ne ero convinta.
«Credo tu abbia bisogno di tempo per decidere… nel frattempo, vieni lo stesso in clinica appena puoi, così controlliamo meglio la situazione e… il bambino », mi disse dolcemente, afferrando la sua borsa. Scossi il capo manco mi avesse detto di lanciarmi da un aereo.
«No, non voglio saperne nulla del bambino»
«Ma…»
«Non m’interessa, Sarah! Voglio continuare ad essere come prima senza altri problemi! Voglio continuare a ridere e scherzare senza pensare a quel giorno in cui non potrò più farlo e non voglio mettere al mondo un bambino sapendo che questo è un mondo crudele e lui non potrebbe farcela da solo»
«Ma lui…»
«”Lui” non esiste», dissi io, riaccendendo la tv. Sarah stava per dire qualcosa ma si fermò dopo aver preso aria.
«Ci sentiamo», mi disse a metà tra l’essere arrabbiata e addolorata, uscendo di casa. Restai a fissare il riflesso della donna nello schermo della tv: una donna che aveva perso tutto in pochi mesi o forse in tutta la vita. Mi raccolsi le gambe al petto, cercando di trattenere a stento le lacrime.
Non avrebbe avuto senso andare a controllo: dovevo abortire, cosa importava se stava male o bene? Non ci pensavo nemmeno a mettere al mondo un figlio senza padre e con una madre malata di leucemia: non sarebbe stato giusto per lui, per me, per Matt, per tutti. Sì, avrei fatto finta di nulla, avrei finto che tutto stava andando alla grande, avrei continuato a prendere le mie pillole e non avrei aperto bocca con nessuno sull’argomento. Com’era uscito dalla mia vita Johnny così avrebbe fatto anche lui. Il resto sarebbe venuto da sé…
Il cellulare squillò e apparve sullo schermo l’icona del messaggio.

Tesoro ti va un gelato?

No, Matt, scusami ma non mi sento in vena…

Sospirai, posando il cellulare e stendendomi meglio sul divano. Forse in realtà avevo voglia di vedere Matt ma non avrei lo stesso potuto dirgli niente. Forse in realtà la persona che avrei voluto vedere era Johnny, ma sapevo che era solo un sogno oramai e poi… non sarei più riuscita a guardarlo in faccia, dopo quel sogno che poi era quasi vero.
Quelle parole non le avrei mai e poi mai digerite, neanche se sarebbe tornato.
La risposta di Matt fu quasi immediata.

Cinque minuti e sono da te :*

Sorrisi incredula quando lessi il messaggio, scuotendo il capo. Quel ragazzo accettava molto i no, eh?
Forse però uscire da queste quattro mura mi avrebbe fatto bene.
Il citofono squillò dopo una decina di minuti come se Matt fosse già per strada quando mi aveva invitata ad uscire. Vidi mia madre sgattaiolare per il corridoio, dirigendosi verso l’ingresso per aprire la porta. Rimasi in attenti in modo da capire se fosse Matt in versione Clark Kent in opzione ‘’velocità supersonica’’.
«Ciao zia!», sentii da lontano Matt con la sua solita voce tonante.
«Ciao Matty! Su entra… ti chiamo Elle!».
Scesi le scale, neanche il tempo di aspettare la chiamata. Non sapevo nemmeno io il perché avessi così fretta di rivederlo e probabilmente Matt doveva essere l’ultima persona con cui sarei dovuta uscire ma non mi importata: avevo bisogno di una spalla amica e lui era l’unico capace di capirmi davvero.
Appena Matt mi vide i suoi occhi cominciarono a brillare e avvertì una strana tensione nell’aria che probabilmente percepì anche la mamma che con la testa china se ne ritornò in cucina, dichiarando che aveva dimenticato il gas acceso e che se non lo avesse spento saremmo saltati tutti in aria come popcorn.
«Non hai una bella cera», scherzò Matt, mostrando un mazzo di rose rosse. Rimasi sbigottita da quel gesto inaspettato ma sorrisi educatamente, apprezzando il suo bel segno e la sua voglia di farsi perdonare per quella notte che non sapeva avesse provocato più danni del previsto. Mi sentii amata come neanch’io sapevo amare me stessa e gli buttai le mani al collo, avvertendo un urgente bisogno di stringerlo e fargli sentire il mio calore. Lo sentii sorridere, mentre mi stringeva con ancora tra le mani le rose. Da fuori sembravamo il prototipo di fidanzati. Oppure due migliori amici che si confortavano a vicenda.
«Sono bellissime… grazie», sorrisi, mettendole in un vaso che riempii d’acqua mentre Matt restò sull’uscio della porta con un sorriso a trentadue denti stampati in faccia, sicuro di aver fatto colpo e centro.
«Allora, dove mi porti?», chiesi mettendomi una giacchetta, pur sapendo che fuori vi erano trenta gradi stampati all’ombra. Sapevo anche che Matt aveva una gran percezione dei particolare e magari avrebbe notato del piccolo dislivello della mia pancia. Lui aggrottò le sopracciglia ma ringraziando al cielo lasciò perdere: per fortuna era questione di pochi centimetri. Mi prese per mano e arrivati alla sua auto mi aprì lo sportello, facendomi accomodare sul suo macchinone altamente modificato.
«Allora?»
«Te l’ho detto! Andiamo a prendere un gelato! Almeno un po’ di sole ti fa bene e ti farà riacquistare un po’ di colorito. Sei troppo pallida…». Non risposi, restando incatenata trai miei pensieri.
Avevo già notato che stavo dimagrendo a vista d’occhio, che non avevo più fame e che mi sentivo sazia anche dopo una giornata che non avevo toccato cibo. I miei occhi erano spenti, avvolti nelle occhiaie e le labbra erano continuamente secche. Nemmeno l’acqua mi dissetava più. Non avevo parlato a Sarah di tutto questo, avrebbe preso qualche decisione al posto mio e io avevo deciso di seppellire la mia malattia. Non avevo niente, era solo il frutto della loro immaginazione.
Dopo una mezz’ora di strada, arrivammo in spiaggia. Matt uscì dalla macchina, aiutando anche me e quando misi il naso fuori il sole cominciò a baciare la mia pelle con i suoi raggi intensi ed energici e con la mente vagai lontano al tempo in cui Johnny mi portò in un ristorante vicino al mare… e li che ci baciammo la prima volta. Tornarci con Matt faceva uno strano effetto.
«E allora? Mi stai ascoltando o pure no?!»
«Uh? Ah beh si oh… emh… scusa, Matt, puoi ripetere?»
«Ti stavo dicendo che vado a prendere il gelato e che ti puoi distendere su quella tovaglia! Arrivo subito!», si allontanò, avvicinandosi ad una bancarella dei gelati e voltai lo sguardo, cercando un’ipotetica tovaglia. La trovai adagiata sulla spiaggia, circondata da tantissimi fiori di qualsiasi tipo.
«Ti piace?», mi soffiò sul collo, facendomi letteralmente rabbrividire.
Mi voltai lentamente, trovandomi ad un soffio dal suo viso e dai suoi occhi. Soffocai una risata quando avvertii la sua tensione. Credevo di poter sentire il suo cuore martellargli nel petto.
«Sì Matt! È carino da parte tua…». Mi distanziai da lui così da permettergli di riprendere a respirare.
Mi sentivo come con Johnny, ma in quel caso le scene erano ribaltate. In quel caso ero io quella tesa come una corda di violino. Mi porse il gelato e cominciai ad assaggiarlo guadagnandomi qualche sguardo sfuggente di Matt che cominciò a parlare e ringraziai il cielo perché grazie a tutte quelle parole poste l’una dietro l’altra riuscivo a non pensare a nulla, lasciando i problemi al di là di quell’orizzonte allineato nell’immensità del mare.
«Ti sei sporcato di gelato! » dissi cercando di non ridere, mentre aveva tutta la faccia sporca di gelato al cioccolato.
«Dove? Dai levalo che io non ci riesco!», farfugliò, cacciando la lingua e cercando di pulirsi da solo. Risi, presi un tovagliolo e mi misi in ginocchio di fronte a lui, cominciando a pulirgli la bocca dai residui di gelato: sembrava quasi che l’avesse fatto apposta!
«Così sei sistemato, bambinone». Rimase li fisso a guardarmi negli occhi e in quel momento mi sentii nuda di fronte a lui. Cominciò ad accarezzarmi il viso con la sua mano, soffermandosi sulle mie labbra. Avvertii dei piccoli scossoni su tutta la spina dorsale e mi mancò il fiato. Tutto stava cambiando e dovevo accettare che chi avevo di fronte non era Johnny ma Matt, il padre di mio figlio. Ritornai alla realtà quando realizzai che Matt era fin troppo vicino e che stava oltrepassando il limite consentito. Chiusi gli occhi, aspettando di assaggiare le sue labbra che ricordavo fin troppo bene.
«Ho cercato di contenermi», mi sussurrò sulle labbra. «Dimmi di no e mi tolgo subito! Ma ti prego non farlo…»
«Sssh» sussurrai premendo le mie labbra contro le sue. Volevo baciarlo, volevo sentire cosa si provava, vedere se riuscivo a provare qualche emozione positiva anche con lui: Johnny dovevo scordarmelo. Rimase immobile, non sapendo probabilmente cosa fare. Gli misi un braccio intorno al collo avvicinandolo più a me, mentre riacquistò il controllo di se stesso e cominciò a muoversi in modo più disinvolto, baciandomi dolcemente e mordendomi con voracità le labbra.
«Non sai quanto ti ho aspettata…»
«E adesso sono qui…». Mi distolsi da lui e mi sorrise dolcemente, dandomi un fugace bacio sulla fronte. Mi misi più comodamente, appoggiando il capo sul suo petto. Non mi sentivo innamorata come una ragazzina, non come mi ero sentita con Johnny, ma ci stavo bene, tra le sue braccia mi sentivo al sicuro. Forse era per colpa della malattia, forse a causa dei miei pensieri che non mi avrebbero più concesso di essere pienamente felice, ma era un buon inizio se non mi sentivo soffocare dal suo abbraccio.
«Elle?»
«Uhm? » si abbassò leggermente sussurrandomi qualcosa all’orecchio.
«Dimmi di si»
«A cosa?»
«Vuoi stare insieme a me?». Rimasi di sasso, incerta sul da farsi o probabilmente non mi aspettavo quella richiesta buttata li sul momento. Ma la risposta mi era chiara, disposta e adagiata su un piatto d’argento. Come avevo detto prima, dovevo scordarmi di Johnny e cercare di provare nuove emozioni, quindi… perché non tentare?
«Sì, Matt! Sì che voglio essere la tua ragazza», sorrisi, con lo sguardo fisso sull’orizzonte e le sue dita trai capelli, avvertendo il cuore farsi più leggero perché ero consapevole di aver fatto la scelta giusta almeno questa volta.
«Vorresti avere un figlio?», chiesi all’improvviso e lo sentii fare spallucce.
«No», disse infine. «Cioè… di sicuro non ora! Non voglio rovinarmi questi anni, magari dopo i trenta… perché me lo chiedi?».
Deglutii il sapore amaro che avevo in bocca: se prima avevo un piccolo dubbio ora ogni mia insicurezza era svanita ed ero certa che non avrei messo al mondo l’errore che portavo dentro di me.


Pov Matt

«E quando diremo alla zia che sono diventato suo cognato?», scherzai, con il telefono tra la spalla e l’orecchio destro mentre con le mani sceglievo distrattamente che giornale acquistare. Elle, dall’altra parte del telefono rise.
«Dici che le devo prima parlare?»
«No, meglio sparare la notizia: come una doccia gelata»
«Povera mamma, morirà d’infarto…», la sentii sospirare, mentre leggevo il titolo della rivista che avevo deciso di comprare.
«Ehi, cosa vorresti dire? Non hai mica portato un drogato a casa!», dissi ironico.
«Peggio, Matt, peggio», mi canzonò lei, ridendo. «Ma dove sei?»
«Dal tabaccaio: devo comprare un giornale»
«Mmh, comprami la cioccolata!»
«Inizi ad approfittare della mia gentilezza, tesoro! Hai le voglie come una donna incinta!», la ripresi dolcemente, anche se in realtà non vedevo l’ora di farla felice e vederla sorridere quando le avrei dato la cioccolata. Dall’altra parte del telefono non la sentii più parlare e fissai lo schermo per vedere se fosse caduta la linea.
«Ci sei?», la richiamai.
«Sì, devo andare, ci sentiamo», mormorò improvvisamente con un tono diverso di voce.
«Ok», farfugliai perplesso, staccando la chiamata e infilando il telefono in tasca. Andai alla cassa con il mio giornale sotto il braccio e mi diressi allo stand di cioccolata, facendo scivolare lo sguardo sulle varietà di gusti, indeciso su quale avesse preferito. Ne presi di diversi gusti.
Quando mi voltai e alzai lo sguardo, vidi che anche un’altra persona girò i tacchi appena mi vide.
Era lui. Era quello coglione di Johnny, ricoperto di tatuaggi da drogato, vestito sempre in modo così strano, con i suoi occhialini azzurri da fighetto e il cappello da bambino che gioca a fare la rockstar, che gironzolava ancora per Owensboro chissà per quale motivo.
Non poteva andare via perché non aveva ancora pagato le sigarette, quindi si costrinse a restare lì, a pochi passi da me, mentre attendeva la ragazza che stava spicciando una fila di tre persone all’altra cassa. Deglutii, avvicinandomi anch’io alla cassa e ringraziai il cielo per essermi trovato accanto a lui con le mani già piene: per quanto avesse fatto lo stronzo con Elle, non ero sicuro che sarebbe stata felice di sapere che l’avevo menato, anche se la voglia era tanta.
«Chi non muore si rivede», dissi provocatorio, facendo un sorriso forzato. Lui si voltò leggermente e ricambiò a sua volta con un sorriso forzato.
«Purtroppo sì», borbottò, facendo spallucce. Ci furono diversi secondi di silenzio in cui lui teneva lo sguardo fisso in avanti anche se riuscivo a percepire che mi stava fissando con la coda dell’occhio mentre io pensavo a qualcosa di intelligente e pungente da dirgli.
«Ad Elle prendo la cioccolata fondente, al latte o alle nocciole?», gli chiesi, sbattendogli in faccia la verità: il ragazzo di campagna si era preso la donzella del “vip di fama internazionale”!
«Mmh», mi scrutò lui. «Posa quello alle nocciole: è allergica. Tra quella al latte e quella fondente preferisce quella fondente», mi consigliò puntando l’indice verso la carta blu scuro, sorridendomi ironico. Serrai le mascelle e andai a posare gli altri due pezzi.
Come faceva a sapere pure che cioccolata preferiva?!
«Sarà che si è abituata ai sapori amari della vita, da quando è tornata ad Owensboro…», lo istigai ancora.
«Eh già, a volte i vecchi amici d’infanzia sono seccanti da rincontrare», replicò prontamente.
«Infatti», sorrisi a mia volta. Sapevo che stava parlando di me, ma la frase che aveva detto andava benissimo anche per lui, che non aveva capito ancora di essere il suo amico d’infanzia. Infatti lui parve confuso dalla mia affermazione e tirò un sospiro di sollievo quando la ragazza gli permise di pagare. Si voltò completamente verso di me, dopo aver infilato le sue sigarette in tasca.
«Non ti dico arrivederci perché spero di non incontrarti più. Stammi bene», fece lui disprezzante, facendomi un cenno col cappello prima di allontanarsi.
«Ti posso spedire l’invito del nostro matrimonio?», gli urlai dietro.
«Certamente, se riuscite a trovare l’indirizzo di una delle mie migliaia di abitazioni!», rise lui, pavoneggiandosi. Sentivo di essere diventato rosso come un pomodoro maturo e fumante dalla rabbia come un toro infuriato.
Come poteva una creatura così dolce, mite, sensibile come Elle stare con un cafone, arrogante, presuntuoso, stronzo come Johnny?
Ora capivo perché si erano lasciati: poteva anche conoscere qual era la sua cioccolata preferita ma faceva schifo ad avere a che fare con la gente.
«Allora? Deve pagare?», mi richiama la ragazza.
«A te come ti pare?!», ringhiai, sbattendo una banconota sul bancone e andando via senza prendere il resto. “Che tipo…”, la sentii dire, ma non m’importava. Sperai che Johnny fosse ancora lì, così magari potevo gonfiarlo di botte.

«Eccomi», sorrisi, quando Elle mi aprì la porta.
«Ce ne hai messo di tempo!», esclamò raggiante, stampandomi un bacio sulle labbra. Le porsi la cioccolata mentre entravamo in casa e lei aggrottò la fronte.
«Non sai nemmeno che tipo di cioccolata preferisco!», mi ammonì scherzosa. La guardai perplesso.
«Scusa ma non ti piaceva la cioccolata fondente?», farfugliai. Lei sorrise, scartando la cioccolata e addentandola.
«Preferisco quella a latte, ma non fa nulla. Non si disprezza la cioccolata», sorrise con i denti tutti neri per il cacao.
Feci un sorriso forzato perché in quel momento stavo già ripesando al sorrisetto ironico di Johnny mentre mi diceva che preferiva la cioccolata fondente.
L’avevo fatto apposta quel bastardo.
Dio, quanto lo odio.


Eccoci tornate! L'estate ormai si sta facendo sentire e abbiamo aspettato un po' prima di aggiornare perché la sezione sembrava deserta :O
Senza dilungarci troppo, ci auguriamo che il capitolo vi sia piaciuto e che non abbiate cambiato opinione sui personaggi visto come li abbiamo presentati oggi... (?)
Speriamo di sentirvi presto!
P.S: Quante di voi oggi andranno a vedere il nuovo film di Johnny "The lone ranger"? *----*
Un bacio, A & P <3

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Capitolo 13
*** Capitolo 11 ***


«È un po’ strano che voi due stiate insieme ma… beh, non ho nulla in contrario. Sei un bravo ragazzo, Matt, e sono sicura che riuscirai a starle accanto nel migliore dei modi», sorrise alla fine la mamma facendogli una piccola carezza, dopo aver appreso la notizia che Matt ed io avevamo deciso di iniziare una storia.
Ci aveva guardato un po’ sorpresa ma non quanto ci aspettavamo: Matt ultimamente passava più tempo a casa mia che a casa sua e una volta ci aveva beccato pure mentre mangiucchiavamo caramelle accoccolati sul divano: aveva già capito tutto, non era mica scema!
«Fiùù», sorrise Matt cacciando aria con un sospiro, sgonfiandosi come un palloncino. Lei rise, osservando il suo viso rilassarsi, poi afferrò la sua borsa.
«Io vado a fare la spesa… non combinate guai», disse puntandoci un dito contro, ammiccando maliziosamente. Matt rise.
«Oh, no, no! Sto andando via anch’io, ho dei lavoretti da sbrigare…»
«Rimani da sola a casa?», mi fa lei preoccupata.
«Certo che no! Ho un appuntamento con Sarah: andiamo a fare una passeggiata al centro commerciale». Lei annuisce poco convinta e dopo averci squadrati per qualche altro lungo secondo afferra i suoi occhiali enormi da vip e esce di casa sventolando le chiavi dell’auto. Matt ed io restiamo a guardarla ridendo, poi lui si rivolge verso di me.
«L’hai detto solo per non farla preoccupare?»
«No, devo uscire sul serio con lei… sono così apatica che non ci credete se esco dalla mia tana?», risi mentre lui mi accarezzava i capelli. Si poggiò sull’uscio della porta, avvicinandosi di più al mio viso.
«Possiamo anche rinunciare ai nostri impegni e rimanere a casa insieme…», sussurrò lui provocante, stampandomi un tenero e sensuale bacio mentre con una mano giocherellava con una bretella del mio reggiseno. Risi, poggiando le mani al petto e spingendolo via.
«Vai a lavorare, và!»
«Quanto sei crudele», sbuffò lui scherzoso e io gli stampai un altro bacio prima di rinchiudermi di nuovo in casa.
Guardai l’orologio: mancava ancora un’ora e un quarto all’appuntamento con Sarah così indossai dei jeans e una camicia fresca e mi diressi nella libreria del centro per comprare un nuovo libro. Adoravo quella libreria: aveva l’aria così antica e saggia, era tappezzata di rosso, interamente arredata in legno e illuminata da lampadine di un giallino caldo che rendevano l’ambiente confortevole.
Aprii la porta e mi arrivò alle orecchie il suono dei piccoli cristalli che il vecchio signor Broker, proprietario da anni di quella baracca, teneva sempre appeso. Sentii immediatamente il profumo della carta fresca, di tutte quelle pagine stampate e catalogate in libri sugli scaffali.
«Buonasera, Elle!», esclamò Tom Broker, un vecchietto mingherlino dai capelli bianchi e con un paio di occhiali spessi da topo di biblioteca, agitando la mano da dietro il suo bancone.
«Salve, signor Broker», ricambiai educatamente, prima di finire con la testa nei thriller. Di solito leggevo quelli perché mi piaceva immedesimarmi in un poliziotto che doveva entrare nella mente contorta del serial killer per comprendere il suo piano e stanarlo ma mi accorsi che alla lunga anche i polizieschi stancano: mi ritrovai a sbuffare dopo aver letto l’ennesima trama che pareva uguale alle altre tre precedenti.
Mi addentrai così in una parte a me sconosciuta della libreria, quella dei libri introspettivi, quelli che hanno un certo rilievo dal punto di vista psicologico, gli “analizzatori di coscienza” come li chiamava sempre Sarah.
Mi feci spazio tra le due signore ferme a chiacchierare di tutt’altro al di fuori dei libri e il mio sguardo cadde su uno dei tanti titoli.
Non feci caso a chi ci fosse intorno a me, né cosa mi circondasse: guardai solo la scritta in bianco “La paura di amare” e, con una fitta allo stomaco, mi chinai, allungando istintivamente la mano verso il libro.
Sfiorai qualcosa di caldo e, no, non poteva essere di sicuro il libro. Ignorai la mano che aveva appena afferrato il libro un secondo prima di me e alzai il viso: lo stesso fece la persona che mi stava davanti e che ora, a pochi centimetri dal mio volto, mi scrutava. Io ero già morta perché, in quell’istante, quando meno me lo aspettavo, quando meno lo desideravo, c’era Johnny dinanzi a me.
Tra tutti quei scaffali, in mezzo a tutti quei volumi e tra tutte le copie di quel libro in particolare, avevamo scelto lo stesso.
Affondare nuovamente nei suoi occhi caldi color cioccolato fu come correre una maratona e arrivare a pochi metri dal traguardo senza fiato: immobile, ero incapace di pensare, incapace di ragionare, di muovermi o fare qualunque altra qualcosa. Qualsiasi cosa mi sarebbe andata bene in quel momento, avrei fatto di tutto per staccare lo sguardo dal suo.
Ma invece anche lui era rimasto immobile dinanzi a me, anche lui pareva a metà tra l’essere sconvolto e sorpreso, anche lui non riusciva a staccare gli occhi da me, né a muovere un solo muscolo del suo viso. Furono secondi interminabili, momenti in cui le farfalle nel mio stomaco mi erano arrivate al cervello e il cuore era rotolato fuori dal petto.
Era da quando ci eravamo lasciati che non lo sentivo, era da quando mi aveva vista con Matt che non lo vedevo.
Immaginavo sempre come sarebbe stato rivederlo, riavere il profumo del suo dopobarba proprio sotto il mio naso e ipotizzavo che probabilmente gli sarei saltata addosso e invece ora non ce la facevo ad abbracciarlo; il solo pensiero di averlo sfiorato mi dava i brividi. Non ce la facevo a vederlo di nuovo dopo aver udito quelle terribili parole che mi aveva detto, dopo che mi aveva urlato contro che ero stata una scema a crederci, dopo aver sognato come si godeva l’abbraccio di una donna che non ero io.
Chissà cosa passava per la sua mente, mentre ora tirava di scatto la mano lasciando che il libro ricadesse sulle pile delle stesse identiche copie e deglutiva, probabilmente per mandare giù quel groppo alla gola che stava soffocando anche me.
«Ciao», lo sentii dire riluttante con un filo di voce. Non riuscii a trattenere un’occhiata sprezzante.
«Ciao», ricambiai poco convinta, senza staccare lo sguardo dal suo volto teso, tormentandomi le dita dal nervosismo. Si passò la lingua sulle labbra per inumidirle, tipico di quando era teso e accennò un sorriso forzato, porgendomi il libro che avevo intenzione di vedere e probabilmente di acquistare.
«La paura di amare», mi disse lui esitante, come se non conoscessi il titolo del libro. Guardai la sua mano tatuata, tesa, tremante, che mi porgeva il libro.
«Non volevo comprarlo», mentii freddamente, voltandomi di scatto prima che potessi dargli la soddisfazione di vedere il mio volto in lacrime. Mi morsi il labbro, attraversando a grossi passi il corridoio, avvertendo come i suoi occhi dietro di me si facessero sempre più pesanti.
«Eleonore!». La sua voce che pronunciava il mio nome suonava ancora così meravigliosamente bene. Mi fermai di scatto e mi voltai, vedendo che mi veniva incontro correndo. In quel momento chissà cosa mi passò per la testa perché sorrisi lievemente.
«Sì?», sussurrai speranzosa. Lui rallentò per avvicinarsi di nuovo a me e mi porse di nuovo la mano piena.
«Ti è caduto il portafogli», fece infine con indifferenza. Chiusi gli occhi e serrai le mascelle, dandomi della stupida per aver creduto anche solo per un istante che potesse dirmi qualcosa riguardo al “noi” che c’era stato, che potesse iniziare ad urlare che aveva mentito quando diceva di non amarmi, che potesse baciarmi come solo nei film accadeva.
«Grazie», lo liquidai, dopo aver afferrato l’oggetto di stoffa, e mi voltai di nuovo sperando di lasciare presto quel posto.
Afferrò di scatto la mia mano e l’impatto fu così forte che si sentì il rumore. Trattenni il fiato, voltandomi di nuovo verso di lui e attraverso il suo contatto sentii come una scossa elettrica attraversarmi il corpo.
«Vado di fretta», ringhiai, chiudendo la mano che lui mi stringeva al polso in un pugno.
«Dobbiamo parlare», mi fece lui deciso e giurai di vedere i suoi occhi brillare, come se fossero lucidi. Restai a fissarlo nuovamente speranzosa, con il fiato sospeso e lo stomaco che mi si contorceva dall’agitazione.
«E di cosa?», sussurrai, con lo sguardo fisso su di lui che mi stringeva ancora la mano fermamente, anche se la presa era diventata più morbida. Stava per aprire bocca ma qualcuno non lo fece parlare.
«Joh?! Hai comprato il libro?». Si avvicinò a noi una donna alta, dai capelli biondi che teneva sciolti sulle spalle e occhi chiari contornati da matita nera, le gambe da modella messe ben in mostra dai suoi shorts scuri di jeans e un fisico asciutto sotto la sua magliettina blu seminascosta da una giacchetta striminzita di pelle nera.
Si fece peso su una sola gamba e mise una mano sul fianco, guardando Johnny con un sopracciglio alzato e l’espressione interrogativa in volto. La guardai e riconobbi il viso di Kate Moss che avevo già visto molte volte sui giornali di gossip e le riviste di moda. In realtà Johnny e Kate avevano già avuto una relazione, ma ormai era finita: i due si erano lasciati ed ora… me li ritrovo insieme davanti ai miei occhi.
Trasalii assieme a Johnny e il nodo che avevo alla gola si sciolse all’istante: avevo la realtà sbattuta in faccia.
«Sì, eccomi», fece lui spaesato, lasciando la mia mano velocemente. Già, perché non valeva la pena ora avere i nodi alla gola per l’agitazione, visto che Johnny era già impegnato con qualcun’altra.
Lui era un vip di fama internazionale. Lei pure. Io invece ero una comune borghese immatura.
Mi guardò profondamente negli occhi prima di andare via con lei ed io, con rabbia, uscii da quella libreria a mani vuote. Con i pugni chiusi lungo i fianchi, non potevo ancora crederci di averlo incontrato.
Quando arrivai alla mia auto, sentii nuovamente dei passi dietro di me e quando mi voltai lo vidi di nuovo correre per venirmi incontro. Senza dirmi nulla, si fermò dinanzi a me con il fiatone e boccheggiò, porgendomi poi il libro.
«Ti prego, prendilo», mi fece lui, implorandomi con gli occhi. “La paura di amare” se ne stava comodo tra le sue mani, entrambe rivolte verso di me per porgermelo. Lo afferrai titubante, trovando non so dove ancora la forza per articolare le braccia.
Restammo per svariati minuti in silenzio, lo stesso che mi stava logorando e mandando tutte le mie certezze in frantumi. lo misi sul sediolino accanto a me e senza dire nulla entrai in macchina. Prima di mettere in moto mi voltai di nuovo a guardarlo e lui continuò a fissare me.
Avete presente quegli sguardi che valgono più di mille parole, quelli che vorrebbero dire tanto rimanendo in silenzio? Erano così quei momenti: c’era silenzio ma entrambi stavamo urlando le nostre ragioni. Solo che parlavamo due lingue diverse e non ci capivamo.
«Eleonore?», ripeté a bassa voce ma lo sentii ugualmente. Rimasi svariati minuti in attesa che continuasse a parlare ma apriva la bocca e la richiudeva subito dopo. Sapevo che era difficile ma non avevo voglia di ascoltarlo. Per me rivederlo era già abbastanza.
Socchiusi gli occhi e abbassai il capo,coprendomi il volto con i capelli che mi erano ricaduti davanti. Non dovevo piangere davanti a lui, non me lo sarei mai perdonata.
«Addio», sussurrai rivolgendogli un ultimo sguardo prima di mettere in moto e andai via, dirigendomi verso Sarah. Mi sentii morire e ripensai che forse quell’addio era definitivo. Forse era meglio non pensarci.
Avevo ritardato di quasi mezz’ora l’appuntamento con Sarah ma, una volta spiegato tutto, avrebbe di sicuro capito. Il traffico era intenso e, mentre aspettavo che il semaforo passasse da rosso a verde, diedi una rapida occhiata al libro sul sediolino che mi aveva regalato Johnny. Perché me l’aveva regalato? Cosa significava? Assorta dai miei pensieri lo presi e lessi a caso qualche riga.

La rabbia che proviamo per quelle persone è direttamente proporzionale all’importanza che abbiamo dato a quella persona. G.Romano

Increspai le labbra: era pienamente vero. Non sarei così arrabbiata con Johnny se non m’importasse nulla di lui, altrimenti non me ne sarebbe fregato del fatto che mi aveva sostituita. Aprii un’altra pagina a caso.

Non andrai mai molto lontano se fuggi da qualcosa che hai dentro. W.Shakespeare

Era un libro di aforismi. Johnny in libreria non mi aveva dato neanche il tempo di sfogliare, quindi credevo fosse uno di quegli scrittori che ti fanno l’analisi interiore di coscienza e affermano che sei malata d’amore e invece… era una raccolta di frasi, magari sulla paura d’amare. Trasalii quando sentii dei clacson bussare e mi accorsi che il semaforo era diventato verde.
Buttai di nuovo il libro sul sediolino e premetti il piede sull’acceleratore. Arrivai al parcheggio del centro commerciale e, prima di scendere, decisi di dedicare qualche altro minuto al libro. Aprii nuovamente a caso.

Tutti tornano, sai? Chi per ribadirti semplicemente che se n’è andato dalla tua vita, chi per riconsumarti ancora un po’ il cuore e poi riandarsene, chi per rubarti un ultimo sorriso o un’ultima lacrima, chi per dirti che ti ha amato ma che ora non ti ama più… chi tornerà da te per un ultimo abbraccio, perché ha capito che quel calore che emani lo emani solo tu, chi per insultarti e tu con l’indifferenza di sempre incasserai senza problemi… chi tornerà da te per chiedere perdono, per chiederti di riaprirgli di nuovo le porte del tuo cuore, che senza di te la vita è nuvolosa… Ma tu, allora, che farai?” Fabio Volo.

Mi ritrovai a piangere come una cretina, bagnando quelle pagine e sentendo un’enorme confusione nella mia testa.
Sì, tutti ritornano, ma Johnny perché era tornato? Forse, come diceva in questa frase questo “Fabio Volo” era tornato solamente per prendersi ancora il mio cuore e andare di nuovo via, forse prima voleva parlarmi per dirmi che era davvero finita tra noi. O forse perché voleva davvero chiedermi scusa, perché aveva capito che nessuna poteva amarlo come me. Ma no, altrimenti Kate Moss non sarebbe stata ancora accanto a lui. Sì, forse era tornato e basta, forse voleva solo assicurarsi di essere ancora nella mia vita, forse mi voleva insultare. ed io, facendo finta di nulla, incassavo ogni colpo facendomi male… Perché la vita continuava ad essere così ingiusta con me? Mi ero fatta i castelli in aria, avevo detto di sì a Matt, alle cure di Sarah, a buttare quei maglioni orribili della zia e invece... rivedere Johnny mi aveva fatto crollare tutte le certezze: avevo capito di non essere sicura di amare sul serio Matt come avevo amato lui, mi aveva fatto capire che forse quel bambino avrei potuto tenerlo così da poter avere qualcuno che mi amasse, mi aveva sbattuto in faccia la mia paura di amare.
Come se quel libro l’avesse scritto qualcuno che fosse già a conoscenza del mio destino.

Cercai in tutto il tragitto per il centro commerciale una scappatoia ai pensieri, un modo per smettere di pensare ma con tutto ciò, non ne riuscii a trovare uno.
Cercai con tutte le forze di rimuovere la sua immagine davanti agli occhi: il suo volto perfetto e bello forse di più di quanto ricordassi, paragonabile a quello di un Adone in tutta la sua assolutezza; i suoi occhi languidi ed estenuati e talmente penetranti da poterti togliere il respiro al solo sguardo e alle ipotetiche parole che avrebbe potuto, che avrebbe voluto dire ma che anche lui come me, non trovava la forza per pronunciare, al mio “addio” mormorato e sussurrato dal cuore che solo Dio sapeva quanto vero potesse essere e cosa potesse significare. Ma tutto ciò non importava più o probabilmente non lo era mai stato ma volevo solo una cosa: volevo solo smettere di soffrire così tanto, volevo solo placare le urla che mi bruciavano dall’interno come un fuoco.
Con le mani tenevo saldamente il manubrio dell’auto ma ero troppo instabile per soffermarmi sulla strada e tremavo, talmente tanto che avevo quasi voglia di staccarle e lasciarmi andare. Gli occhi erano lucidi e inumiditi dalle lacrime che cercavano di fuoriuscire: avevo solo bisogno di socchiuderli, anche solo per un attimo, e tutto sarebbe passato.
Avvertii il sapore della lacrima quando mi morì in bocca, aveva il gusto dei ricordi amari e quelli che non valeva la pena ricordare.
Mi sentivo terribilmente sola anche se avevo il resto del mondo attorno. Mi ero sempre sentita distaccata e quel senso di solitudine si intensificava a ogni schiocco delle lancette dell’orologio del tempo.
Arrivai alla vasta area del centro commerciale, cercando di evitare la lunga fila di automobile. Vi era chi cercava l’accesso e un modo per entrare più velocemente cercando di non perdere tempo, sapendo di non averne mai abbastanza e chi cercava invece un modo per scappare via ed uscire da quell’inferno. Cercai un posto più vicino all’uscita dove sostare e ne trovai uno dopo svariati giri e circonvoluzioni, ringraziando quella povera anima che aveva deciso di andarsene e ritornare a casa. Non sapevo se ringraziarla o meno, chissà se l’avrei mai incontrata o se sarei mai riuscita a rivolgergli la parola. Non sapevo il motivo ma questi pensieri stavano diventando così importanti… Forse dovevo godermi più il tempo rimasto e farne buon uso, finché la sabbia nella mia clessidra non avrebbe attecchito al suolo.
Istintivamente presi il cellulare cercando di contattare la povera Sarah,trovando quattro chiamate perse da parte sua. Cercai di chiamarla ma non rispondeva e il cellulare sembrava squillare a vuoto, probabilmente era andata via da un pezzo a causa del mio folle ritardo. Cosa alquanto giustificabile.
Probabilmente era arrabbiata con me senza saperne il vero motivo.
Buttai il telefono sul sedile accanto al mio e aprii il finestrino in modo da far entrare qualche spiffero d’aria, che in quel periodo sembrava più asciutta che mai. Fu li che cominciai a pensare a quel che ne sarebbe stato di me e del mio futuro se mai ne avessi avuto uno.
Quel che mi premeva non era la paura di morire ma di quello che mi sarei persa e lasciata indietro: a quello che avrei potuto fare vivendo, alle persone che avrei potuto conoscere e che sarebbero diventate parte della mia vita, quelle di cui mi sarei follemente innamorata, perché a ventiquattro anni non sai mai cosa può riservarti il destino. Avrei volentieri ripensato a Johnny… e sperare di avere una seconda chance ma come potevo avere una seconda possibilità se aspettavo anche un figlio e non suo? E forse un giorno avrei potuto pensare a farmi una… famiglia! Mi sentivo sporca io stessa, poiché non sarei mai diventata degna del ruolo di madre se ero pronta a sacrificare la vita del bambino che portavo in grembo per salvarmi la vita: una piccola vita stava crescendo dentro di me e io egoisticamente le asportavo l’opportunità di vivere. La stessa cosa che la vita aveva fatto con me.
Sentii delle voci poco lontano da me e girandomi notai una famigliola felice con una piccola bambina dai capelli biondissimi giocare con il suo papà e la sua mamma,una giovane donna sui trent’anni con un enorme pancione. In quella famiglia rividi la mia gioventù, prima che mio padre andasse via e la mia famiglia si rovinasse. Notai gli occhi di quella giovane donna e vidi un senso di tranquillità e benessere, quello che io non avevo e provai quasi un senso d’invidia.
Non aveva paura? Non aveva paura dei cambiamenti, delle trasformazioni che avrebbe assunto la sua vita una volta dato alla luce il suo bambino? Io si! Io avevo paura… una paura tremenda di tutto quello che sarebbe potuto succedere e si! Ero un egoista… ma il mio egoismo era dettato dalla paura. La paura d’amare… la paura di non potere mai più amare.
Un ticchettio mi fece desistere dai miei melodrammi e voltandomi di scatto,vidi Sarah accovacciata al finestrino della mia auto e con mezzo sorriso sul suo giovane volto . Aprii lo sportello, pensando alla miriade di scuse che avrei dovuto dirle ma che in quel momento non sembravano importanti.
«Ma che fine hai fatto? Mi hai fatto morire e non hai risposto nemmeno alle mie chiamate!». Non sembrava arrabbiata, anzi, il suo tono di voce era placido e pacato, come se non fosse realmente lei. La giovane donna senza neanche un briciolo di autocontrollo sulla sua vita e sugli altri. Una giovane donna che cerca sempre di avere tutto sotto controllo ma una GRANDE amica, la migliore che potessi desiderare.
La guardai languidamente con occhi stanchi e lei mi guardò dolcemente mentre sulle sue labbra spuntò un sorriso amare. Dopodiché mi prese dolcemente dalle spalle e mi abbracciò forte. Avevo bisogno di questo adesso.
«Ho… rivisto Johnny». Sussurrai mentre cercavo di non dar a vedere il mio tormento. Mi sentii morire e la fitta al cuore non smetteva di pulsare e causare dolore. Lei mi strinse ancora più forte, consapevole del mio ipotetico stato mentale. Si distolse da me, rimanendo in silenzio e accarezzandomi la guancia.
Mi sentivo come una bambina troppo cresciuta. Sarah non aveva l’obbligo di farmi da madre, mi sentivo in colpa a rovinarle la vita, neanche sembrava vivere più: pensava solo a me.
«Passerà! Sei forte Elle e quindi cosa c’è che non va?», sorrise, «intendo, come ti senti? Come ti senti… dentro». Spostai lo sguardo,guardando prima davanti a me la pioggerellina che si imbatteva nel vetro della mia auto per poi, esaminare le mani che mi stavo a poco a poco torturando dal suo ingresso nell’auto.
«Tutto non va Sarah… non so nemmeno io come… ma perché mi sento così?». Cercò la forza di restare lucida, provando dentro di se di mantenere il suo ruolo e la sua professionalità ma avvertivo benissimo il senso di malessere che continuava a tormentarla. Mi passò una mano sul viso dolcemente e in quel momento capì che mi era mancata una presenza fraterna.
«E’ normale: le medicine che stai prendendo ti stanno scombussolando e amplificano le tue sensazioni… perché non scendi e andiamo a fare due passi?». Sospirai e chiusi frettolosamente l’auto, entrando nel grosso centro commerciale.
«Cos’è quel libro che hai tra le mani?», mi chiese infine, scrutando la mia copertina.
«Me l’ha regalato Johnny»
«Johnny ti ha regalato un libro?», ripeté lei perplessa. Lui, effettivamente, era sempre stato bravo a lasciare le persone perplesse e sorprese.
«Lo stavo comprando io e contemporaneamente l’ha preso anche lui… ha voluto darmelo per forza», mormorai a testa bassa, facendo scivolare distrattamente lo sguardo sulle vetrine. Non volevo parlare di Johnny, non più ora.
Non mi rendevo contro del senso di angoscia che provavo sussurrando il suo nome. Era una sensazione strana ma non riuscii a capire l’annessione.
Probabilmente solo scoprendo quella sensazione avrei superato la paura di amare…



Ciao a tutte! Ci auguriamo davvero che il capitolo vi sia piaciuto ^^
Volevamo precisare che il libro "la paura di amare" non vuole alludere a nessun'opera attualmente in vendita: è frutto della nostra invenzione ma poi per curiosità abbiamo scoperto che esistono veramente libri con questo titolo xD
C'è anche un "questo Fabio Volo" che ovviamente lascia dedurre che Elle non lo conosce. Non è lo stesso per noi, anzi, gli rendiamo omaggio! *^*
Ovviamente un pensiero va alla bellissima Kate Moss, una delle fortunate ad aver avuto Johnny almeno per un po'!
Abbiamo notato che le recensioni sono calate quindi speriamo davvero che la storia non vi stia annoiando: se c'è qualcosa che non va, vi preghiamo di dirlo!! Il prossimo capitolo sarà importantissimo per Elle e per la sua vita quindi non perdetelo!
un bacio, A & P <3

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Capitolo 14
*** capitolo 12 ***





Guardai perplessa Johnny mentre accendeva smaniosamente una sigaretta, portandosela alle labbra tremanti e socchiudendo gli occhi quando inalava il fumo.
«Perché è andata via?», chiesi io ingenuamente, accostandomi a lui e tirandolo per il polsino della camicia per avere la sua attenzione. Mi riferivo alla ragazza che poco fa era scappata via in lacrime dalla casa di Johnny: l’avevo vista già altre volte, zia Betty diceva che era la sua “fidanzatina”.
A me quella lì non mi era mai andata a genio, sinceramente. 
«Perché abbiamo litigato», rispose freddamente, accasciandosi sulla sdraio nel giardino. Reclinò il capo e chiuse gli occhi, avvolto nella sua nuvoletta di fumo grigiastro.
«Perché?»
«Mi ha raccontato un sacco di cazzate», rispose prontamente. Si voltò e mi guardò negli occhi, avvicinandosi di più a me tanto da farmi tossire per la puzza fastidiosa del fumo.
«Cosa sono le cazzate?», gli chiesi di nuovo perplessa, accomodandomi meglio accanto a lui. Rise.
«Non ripeterlo: tua madre ti uccide. Anzi, uccide prima me…», fece lui con una smorfia. «… e comunque, sono le bugie»
«Che bugie ti ha raccontato?», insistetti. Lui sospirò, gettando via il mozzicone.
«Non puoi capire le cose dei grandi», mi liquidò, anche se alla fine mi raccontava sempre tutto come se avessi la sua età. Era strabiliante la nostra affinità, il modo in cui l’uno si confidava con l’altro. Non si sapeva se ero io troppo matura per la mia età o lui troppo bambino per la sua.
«Non dire mai le bugie, Elle, perché la verità viene sempre a galla e tu ti ritrovi improvvisamente in un mare di guai. Mentire è un’arte sporca, è… è da schifo», sbuffò, passandosi una mano per i capelli. Da quello che avevo capito, Johnny l’aveva lasciata perché gli aveva detto delle bugie… Lo guardai con la faccia da cane bastonato e l’aria da colpevole.
«Johnny…», mormorai a capo chino. Lui si voltò per guardarmi. «Ti devo confessare una cosa»
«Ti ascolto». Incrociai i suoi occhi scuri, nascosti da qualche ciuffo di capello gelatinato messo fuori posto dal vento e cercai di trovare la forza di parlare: la paura di perderlo era tanta.
«Anche io ti ho detto una bugia», sussurrai rossa in viso, vergognandomi come una ladra. «Non è vero che ho sedici anni», aggiunsi, mordicchiandomi il labbro come facevo sempre. Non lo sentii parlare e quando alzai il viso verso il suo mi rise in faccia.
«Ah, no?». Scossi il capo. «Peccato, altrimenti ci avrei potuto provare con te», continuò divertito, battendo dolcemente il palmo della mano sul mio capo.
«Non sei arrabbiato?»
«No», mi sorrise. «Ma non mentirmi più sulla tua età!», continuò in tono melodrammatico. Ovviamente io non potevo capirlo che mi stava prendendo in giro e sorrisi, giurandoglielo con la mano sul petto:
«Non ti dirò mai più una bugia!», esclamai.


Fissai Matt dormire profondamente senza muoversi di un millimetro mentre io mi rigiravo nervosamente nel letto per l’ennesima volta. Mi misi di lato, dandogli le spalle, e abbracciai il cuscino nella speranza di poter acquistare un po’ di sonno.
La notte era la parte della giornata che un tempo amavo mentre ora è quella che mi faceva più paura. Perché di notte si spengono le luci, vieni proiettata in un modo parallelo che la tua mente crea e vieni invasa da sapori e profumi che hai già visto: I ricordi.

«Mi hai mentito, Elle, un’altra volta…», urlava Johnny anche se non potevo vedere il suo volto. Mi girai intorno, cercando di capire dov’ero e dove fosse lui.
«Era una bugia a fin di bene! Lo sai che non ho mai voluto mentirti!», urlai con le lacrime agli occhi e la testa che mi girava forte.
«Come hai potuto tenere nascosta la tua identità?»
«Stavo per dirtelo!»
«Hai mentito anche a Matt? Gli hai detto che aspetti un bambino da lui?», ringhiò, sputandomi addosso quelle parole con rabbia.
«Come fai a saperlo?!», esitai, cercandolo in ogni angolo di quella stanza buia e senza fine.
«Non puoi tenere nascosto tutto per sempre. Ti meriti di restare sola», tuonò. Continuavo a piangere copiosamente, stringendomi le braccia al petto perché avevo improvvisamente freddo, cercando una via di fuga da quel caos che mi circondava.

«No!», urlai, annaspando in cerca di ossigeno che non c’era.
Sola… la sua voce mi rimbombava nelle mie orecchie, nella mia testa, confondendomi, mischiandosi assieme al pianto di un bambino che si trovava chissà dove. Forse era il mio.
Ti meriti di restare sola… sola… sola…
«No!». Aprii rapidamente gli occhi e mi ritrovai a fissare la parete dinanzi a me, col fiato corto e la testa che mi girava, ancora mezza stordita, con la bocca secca, il volto sudato, avvolta nell’oscurità. Il tocco di Matt, che dormiva accanto a me ma che ora si era svegliato, mi fece trasalire e mi rannicchiai dall’altra parte del letto, terrorizzata e tremante.
«Amore? Stai bene?», mi sussurrò lui, avvolgendomi in un caldo abbraccio. Venni investita dal calore del suo petto nudo e il profumo della sua pelle.
«Non voglio restare da sola, Matt», mi lagnai, singhiozzando mentre lo stringevo.
«Non sei sola», mi rassicurò lui, accarezzandomi i capelli. «Hai tua madre, Sarah, me»
«Ma non ho lui», replicai con tono straziato.
«Lui chi?». Non risposi, non potevo, non avrebbe capito. Ovviamente non mi aspettavo che capisse. Mi staccai da lui riluttante e mi sollevai dal letto, ciondolando come uno zombie verso la porta.
«Dove vai?»
«In bagno». Aprii la porta del bagno e accesi la luce biancastra che mi accecò per diversi secondi, poi avanzai e rimasi a fissare la mia immagine nello specchio.
Eleonore, Elle, qual era la grossa differenza?
La differenza era Elle non poteva avere lui, Johnny, mentre Eleonore non aveva problemi. Peccato solo che Eleonore non esista e che sia stata sostituita da una sexy Kate Moss.
Cosa mi restava di Johnny? Niente. Soltanto un mucchio di ricordi che avrei volentieri chiuso in una scatola da gettare in fondo all’armadio e numerosi incubi che mi tormentavano la notte.
Indietreggiai e fissai il mio profilo riflesso, sollevandomi la maglia del pigiama e scrutando il rigonfiamento quasi invisibile del mio ventre. Quant’era passato? Un mese? Quaranta giorni? Oh Dio, cosa dovevo farne di quell’essere che mi stava crescendo dentro?
Ripensai alle sue urla stridule che si mescolavano alla voce di Johnny nel mio incubo di prima, alla mia disperata ricerca in quella stanza circolare senza angoli, a come mi girava la testa in quel mondo sottosopra… e la testa mi girò veramente, assieme allo stomaco, e vomitai fino all’anima tutti quei dolori che mi stavano opprimendo.
Mi risciacquai, spensi la luce e tornai a letto.
«Tutto ok?»
«Sì, Matt, torna a dormire», farfugliai, poggiando la testa sul cuscino. Lo sentii muoversi e venire più vicino a me. Mi lasciò un bacio sulla spalla.
«Non sarai mai sola», sussurrò. Matt non capiva che la presenza fisica non era sufficiente, che ci si poteva sentire da soli anche in mezzo alla folla.
 
«Vorrei davvero che ci fosse un’altra scelta, Elle», sospirò Sarah, mentre mi accomodavo sul suo lettino con la testa che mi girava leggermente.
«Sai che sono contro l’aborto, ma in questo caso è necessario. È meglio non metterlo al mondo questo bambino: quando la malattia mi avrà tolta da mezzo chi baderà a lui?». Sarah non rispose di nuovo, era di poche parole oggi. In realtà sembrava essersi scocciata di fare la gola secca con le parole, le avevo prosciugato tutte le forze.
«Dovrai aspettare il dottor Martini per l’aborto. Non mi sento in grado di farlo», mi disse, afferrando una siringa e prelevandomi del sangue. Deglutii.
«Quanto?»
«Un mese»
«Un mese?!», ripetei incredula, saltando dal lettino e facendole quasi cadere la provetta col sangue a terra. Mi fulminò con lo sguardo.
«Qualcosa di più, qualcosa in meno…», disse posando il campione. «Stai prendendo le pillole?»
«No», dissi secca. Sarah si voltò di scatto, guardandomi allarmata.
«Elle! Sai che sono di vitale importanza quelle pillole: non puoi sospendere la cura! Ma lo vuoi o no questo bambino?!»
«No!»
«E allora perché non prendi le pillole?», sussurrò. Abbassai il capo.
«Mi erano finite. Devo ricomprarle», mormorai. La vidi rovistare nell’armadietto e venirmi poi vicino.
«Pessima scusa», bofonchiò, mettendomi con forza in mano un pacco nuovo. Senza dire nulla scesi dal lettino.
«Hai avuto sintomi? Tipo nausea, vertigini, vomito…»
«Ho avuto un incubo stanotte. E ho vomitato»
«Mmh», mormorò lei.
«Oggi mi sento uno schifo, ho la testa che mi gira e le gambe pesanti … La malattia sta andando avanti, vero?», azzardai con un filo di voce, temendo io stessa la risposta. La vidi sospirare e depositare la fiala in un campioncino di vetro sotto un enorme microscopio nel tavolino di quercia bianca a pochi metri dalla scrivania principale, accanto a tutti gli altri suoi attrezzi di lavoro, tipici di un medico attento e accurato come lo era lei. Prese un batuffolo di cotone e lo intinse in un liquido rossastro, tamponandomi il braccio.
«La malattia è veloce come un fulmine ma no… non credo… la nausea e il vomito possono essere legati all’ embrione: nei primi mesi è una routine continua! E per quanto riguarda l’aborto chiamerò oggi stesso il dottor Martini per informarlo della tua decisione ma prima di un mese non credo che  potremo far nulla poiché è impegnato in degli esami importanti a Roma, sempre se non vuoi che chiami un altro dottor…»
«No! Nessun’altro deve sapere di lui», gridai a gran voce per poi finire per abbassarne gradualmente il timbro. Nessuno doveva sapere di quell’enorme sbaglio che portavo dentro di me. Si era uno sbaglio. Che cosa sennò? Un qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, almeno non adesso! Non ero pronta per avere un figlio e non volevo averne. Ero forse troppo egoista da voler continuare a vivere la mia vita? Forse avrei potuto averne una se lui non avesse messo radici dentro di me.
«Però è meglio finirla il prima possibile…», sospirai a denti stretti e avvertii una stretta al cuore e le lacrime inumidirmi gli occhi.
«Sì, ma devi continuare a prendere quelle medicine! Altrimenti finirai tu! E tutto questo non sarà servito a niente…», proferì con un tono deciso, di chi non ammetteva repliche. «Ora va a casa e prendi quelle medicine!!». Le sorrisi e mi alzai faticosamente prendendo la borsetta e la giacca. Sarah sorrise.
«La tua siluette è un po’ deformata, eh?». La guardai e mi venne di sorridere di rimando.
 «Sì, non immaginavo si potesse già vedere». Mi accarezzai l’addome, come se fosse qualcosa di normale, soffermandomi sulla piccola rotondità che si intravedeva sotto la mia maglia bianca e legata da una cintura posta sul ventre, così da nasconderla alla meglio. «Meglio che vada»
«Appena esci prenditi qualcosa che contiene zuccheri! C’è caldo fuori e tu sei senza energie, soprattutto  dopo che ti ho dissanguata», scherzò e risi dolcemente. Le sorrisi e uscii, richiudendomi la porta alle spalle.
Percorsi la strada principale nel modo più velocemente possibile. Avevo lasciato la macchina a qualche isolato dallo studio di Sarah per non risultare sospettosa: ultimamente passavo sempre più tempo alla clinica. Era da un po’ che li notavo… gli sguardi sospettosi della gente che mi guardavano con la loro aria accusatrice. Sapevano forse qualcosa? Anche i bambini mi guardavano dubbiosi e bisbigliavano qualcosa ogni volta che vi passavo davanti. Ma come potevano sospettare qualcosa?
Quel giorno faceva un caldo enorme e cominciai a sudare, anche se sentivo freddo e avevo la pelle d’oca, cosa alquanto insolita dopo i 30 gradi all’ombra o forse poco più. Cercavo di camminare nel modo più veloce possibile ma sentivo le gambe farsi molli e pesanti. Cercai di asciugarmi il volto bagnato e provai a levarmi davanti al volto i capelli inumiditi dal sudore. Che cosa mi stava accadendo? Mi sentivo la testa girare come una trottola e mi accasciai al primo muro fresco che mi offrì il suo appoggio
«Signora si sente bene?», farfugliò qualcuno che mi si avvicinò,toccandomi con la mano fredda la spalla. La guardai senza vederla veramente.
«Benissimo!», tagliai corto, ma prima che potessi sentire l’uomo allontanarsi mi si annebbiò la vista e da lì… il buio
 
Mi risvegliai in un posto buio, l’unica fonte di luce proveniva da una finestra al fondo della stanza. Mi guardai intorno, cercando di capacitarmi su dove potessi essere.
Ero adagiata su un lettino simile a quello che aveva Sarah nel suo studio e avevo una televisione vicino a me. Cercai di alzarmi ma sentii un pizzico nel braccio e la testa continuarmi a girare vertiginosamente. Mi guardai il braccio, notando un ago conficcato nella mia vena, legato ad un filo che portava in una sacca con un liquido giallastro dentro.
«Ma cos…?»
«Finalmente si è svegliata! No! Non si muova… la prego». Un senso di panico mi assalì e il cuore mi salì in gola. Cercai di divincolarmi ma l’uomo mi fermò. Alzai istintivamente lo sguardo, scrutando i suoi occhi chiari. Non sembrava avere cattive intenzione e il suo viso dolce parve volermi aiutare. Doveva avere una cinquantina d’anni e un gran passato alle spalle. Aveva una barbetta bianca a contornargli il viso magro e due occhiali rotondi gli nascondevano gli occhi blu, dolci e rassicuranti
«Cosa è successo? Ricordo solo di essere per strada e poi… che mal di testa». Mi strinsi il capo con entrambi le mani, pungendomi di nuovo con quel dannato ago che sembrava perseguitarmi.
«Ha avuto un abbassamento di pressione ed è svenuta. Un buon uomo l’ha portata da me. Io sono il dottor Gregory Hans e lei è…?». Mi dovevo fidare di quell’uomo? La cosa che avevo imparato in questo periodo era che dovevo fidarmi solo di me stessa
«… El… eonore! Eleonore Evans…». Mi tese la mano e io la strinsi delicatamente, come se avessi paura che da quella mano potesse uscire fuoco. Sì, avevo mentito anche a lui. Ormai questa “Eleonore” mi perseguitava.
«Miss Evans è andata forse a farsi un prelievo di sangue? Sa che nelle sue condizioni dovrebbe stare più attenta? Soprattutto per quanto riguarda il caldo». Quelle parole mi sembrarono come uno schiaffo in pieno volto. Era come se ciò che avevo cercato di nascondere per tutto questo tempo stesse venendo a galla. Non doveva essere così!
«Condizioni? Quali condizioni? Non capisco a cosa si riferisce…». Mentii, facendo la finta tonta e lui rimase perplesso a guardarmi. Aggrottò le sopracciglia
«Signorina… lei non sa di essere in dolce attesa?»
«Cosa?». Balzai dal lettino e cercai di fare un tono più allarmato possibile anche se non mi riuscì bene come speravo e sperai che non se ne fosse accorto.
«Sì, Eleonore! Hai dentro di te una piccola vita che sta crescendo giorno dopo giorno!». Le sue parole mi fecero più male del previsto. Eppure lo sapevo già. Lui rimase un minuto a guardarmi e in un momento i suoi occhi si illuminarono. Mi prese le mani e le strinse dolcemente.
«Posso farti vedere il tuo piccolo miracolo?». Avrei voluto scuotere il capo, strapparmi l’ago dal braccio e scappare via, ma il suo volto rassicurante, le sue parole, la speranza che mi avrebbe detto di più del bambino che portavo dentro mi costrinsero ad abbassare il capo in senso di assenso.
Ero ancora in tempo a rifiutare.
Non lo avevo mai visto, forse per paura e terrore,  ma in quel momento avevo la curiosità di conoscere.
Prese un piccolo gel e me lo spalmò sulla pancia, dopodiché vi appoggiò un piccolo macchinario.
Sentii un enorme tonfo, simile al rumore del mare agitato e mi voltai di scatto.
Fu quel momento che lo vidi per la prima volta…
In quell’insulsa televisione c’era la piccola immagine del mio bambino: si stavano formando due piccole braccine e due gambine che muoveva velocemente. Sembrava ballare a passo di musica, smosso dall’acqua che lo attorniava. Quello doveva essere il famoso liquido amniotico.
La sua testolina era piccolissima e sembrava quasi sorridere.
«Si muove tantissimo, anche se non lo senti perché è ancora troppo piccolo», mi spiegò sorridente, come se anche lui avesse visto per la prima volta una cosa simile. Il dottore mi fece segno di ascoltare e in quel momento sentii i suoi battiti.Sentii il suo cuoricino battere ad un velocità assurda, come se fosse emozionato, felice.
Fu in quel momento che mi sentii nuda, spogliata di tutte le mie convinzioni che scapparono via. Ero stata orgogliosa, testarda, presuntuosa a voler sapere quale fosse la scelta più giusta e invece mi stavo sbagliando: era bellissimo, era stupendo vedere come muoveva delicatamente i suoi piedini ed era stravolgente sentire i battiti di quel cuoricino, che nonostante fosse così piccolo batteva così forte.
«Molti lo chiamano ‘’embrione’’ non sapendo che è già un bambino in carne ed ossa. Alla 40 esima settimana il suo cuore comincia a battere e da allora inizia a vivere anche se esiste già al momento del concepimento», mi spiegò mentre restavo con lo sguardo catturato e ammaliato sulla figura in bianco. «Grida a gran voce il suo nome, ma lei non può sentirlo. È per questo che si chiama l’urlo sordo», continuò sorridente. Posai delicatamente una mano sul ventre e sembrò quasi scalciare di gioia.
«E’ bellissimo…». Sussurrai con le lacrime agli occhi. Sorrisi e non riuscii a smettere nemmeno per un secondo. «Bellissimo», sussurrai tra le lacrime.
«ci doveva essere un motivo sul perché lo chiamino ‘’miracolo della vita’’ », sussurrò dolcemente quasi a non volermi distogliere dal mio momento… dal nostro momento …
«E quel miracolo, Eleonore, molti lo buttano via non sapendo di procurargli un dolore lancinante», sospirò scuotendo il capo. Si alzò dalla sedia e attirò la mia attenzione. Prese alcuni aggeggi dall’armadietto poi si voltò indietro per tornare a fissarmi.
«Vuole sapere come fanno? Alle prime settimane lo minacciano con una specie di aspirapolvere e lo distruggono strappandolo alla vita. Mentre nella seconda triade gli iniettano un medicinale, facendolo bruciare dall’interno. Dio, spero di non dover mai fare una simile meschinità: è una cosa da codardi!», sospirò, fissando amareggiato il vuoto. «E’ da egoisti proibire a un bambino di vivere!». Mi tornò a sorridere amaramente, accorgendosi dell’espressione sconvolta che avevo in volto. Accennò una risata.
«Ma non voglio demoralizzarti. Facciamo una stampa di queste immagini?». Annuii all’istante: per niente al mondo avrei voluto perdere quelle foto. Ci mise diversi minuti, poi chiuse l’ecografia in una cartellina.
«Vado a timbrare alcuni documenti. Ti lascio qualche minuto da godere con tuo figlio», mi disse dolcemente uscendo dalla stanza di quello che doveva essere un ospedale.
Mi accarezzai il ventre, cercando di memorizzare quella immagine di lui… del mio lui.
Lo immaginai sorridere, sussurrare “mamma”, stringermi un dito con la sua piccola manina. Pensai alle parole del dottor Hans sull’aborto. Il solo pensiero che avessi potuto fare una cosa del genere al mio bambino ora mi faceva arrabbiare.
«Dio, mi dispiace solo di aver pensato di buttarti via!», sussurrai al mio bambino con un senso di colpa che ero consapevole non sarebbe mai più andato via. «Da oggi saremo io e te… insieme …»
Lui forse era davvero un miracolo, un regalo di Dio dopo tutto quello che era successo… Da quel giorno il mio bambino sarebbe stato il mio piccolo miracolo! Per la prima volta mi sentii più viva….
E adesso eravamo noi… io e il mio bambino.


Pov Johnny

Respiro l’aria del mattino: profuma di caffè.
Sui libri gocce di rugiada mi parlano di te.
E l’orologio marca il tempo che scorre lento e indifferente al mormorio della mia mente…


Il ticchettio dell’orologio rimbombava tra le quattro pareti della stanza, riempiendo quell’assurdo silenzio che esercitava quasi un peso fisico sul mio petto e mi opprimeva, facendomi respirare a fatica.
Steso sul letto, con le caviglie incrociate e il braccio destro penzolante, osservavo il soffitto bianco, chiedendomi come mai un uomo come me dovesse ridursi a quell’inerzia, ispirando pigramente fumo dalla sigaretta che pendeva all’angolo della bocca.
Nella stanza vagava un leggero aroma di caffè che avevo bevuto in precedenza e, a sentire il fischiettio della macchinetta, mamma ne stava preparando di sicuro un altro.
Posai il mio sguardo sul comodino accanto a me e lessi il titolo di quel libro che non avrei voluto comprare per niente al mondo.
La paura di amare.
Non era per niente un libro adatto a me: io le mie decisioni amorose le sapevo prendere, cazzo! Non avevo bisogno di uno stupido libro di frasi da scopiazzare su un biglietto da mandare a San Valentino con un mazzo di rose. Sì, nonostante tutto l’avevo aperto e letto qualche pagina e sapevo che era una raccolta di aforismi.
La paura di amare. Chi darebbe mai un titolo del genere ad un libro? Fa accapponare la pelle solo al primo sguardo e io ce l’avevo sotto gli occhi per la maggior parte della giornata. Senza aprirlo più. Non mi serviva.
Perché sono sempre stato disponibile a fare un passo avanti verso la persona che mi piaceva. Il problema è quando quella persona ne fa tre indietro: in quel momento non puoi più dare la colpa a te stesso, sfondarti di film depressi e litri di alcolici per ammazzare il fegato, ma soltanto accettare il fatto che lei è voluta andare via. O forse sì, forse alla fine la colpa ti ricade addosso comunque. “Avrei dovuto sussurrarle più parole dolci”, “avrei dovuto dimostrarle che l’amavo tanto”, “non avrei dovuto permettere che andasse via con un altro”.
Alla fine mi sentivo io l’unico responsabile di quel momento in cui Elle era tra le braccia di Matt.

Pesa la tua immagine con lui, piega la mia volontà di non arrendermi per te…

Nonostante io fossi dalla parte della ragione e lei del torto, mi sentivo in colpa perché non avevo saputo reggere il suo sguardo l’altro giorno, come se fossi veramente colpevole di qualcosa.
Un libro. Le avevo regalato uno stupido libro di aforismi d’amore e chissà cosa avrà pensato…

Resta il dubbio che mi fa tremare, tra la paura di volare oppure amarti nel silenzio.

In realtà avrei dovuto avere le palle di non lasciare andare quella mano che mi ero trovato a sfiorare per caso, avrei dovuto infischiarmene di Kate alle mie spalle e sputare tutto il veleno che avevo dentro.
Ecco. Ancora con tutti questi “dovrei”: sto parlando come se fosse colpa mia se la nostra storia è finita.
Solo Dio sa quanto sono stato bene con lei e quante altre giornate avrei voluto condividere assieme al suo profumo, eppure me la sono lasciata sfuggire. Ho fatto il coglione. L’ho insultata al telefono. L’ho ignorata in libreria. Mi sono fatto vedere insieme ad un’altra.
Forse sì, forse è veramente colpa mia se le cose sono rimaste a metà tra noi: non ho avuto il coraggio di chiederle cosa farne della nostra storia, mi è mancata la forza di ragionare davanti ad un caffè e chiederle perché avesse preferito Matt a me.
Volevo solo sapere dove avevo sbagliato, tutto qui. Perché, cavolo, avevo ancora una voglia matta di stringerla a me.

Mentre fuori si alza lieve il vento, mi abbandono e maledico il giorno che ho incontrato te…

Sentii qualcuno bussare alla porta e non mi scomposi quando la chioma bionda di mia madre catturò la mia attenzione per qualche istante.
«Ti senti bene?», mi chiese perplessa, entrando in camera con in mano una tazzina blu fumante. «Ti ho portato il caffè». Mi tirai su a sedere e sospirai, afferrando la tazza.
«Sì, sto bene. Stavo solo pensando», mormorai, gustando l’aroma del caffè amaro, la mia droga preferita. Lei restò qualche istante immobile dinanzi a me, come a voler analizzare ogni contrazione dei miei muscoli o catturare possibili significati nei miei occhi. Non glielo permisi, tenendo lo sguardo basso, restando fermo seduto sul mio letto: non volevo che capisse. Poi lei si mosse, raccogliendo una maglietta che avevo distrattamente appoggiato sul bordo della sedia e piegandomela ai piedi del letto.
«Non hai ancora saputo chi ha preso la villetta due isolati accanto?», mi chiese lei, guardandomi interrogativa e un po’ delusa. Distolgo gli occhi dal liquido scuro per fissarla, scuotendo il capo. Lei incamera aria ma poi si trattiene dal parlare. «Non posso dirtelo! Oh, quando lo scoprirai…». Se ne andò ancora parlottando tra sé e sé e non le diedi poi così tanta retta. Posai la tazzina accanto al cellulare dal display illuminato per l’ultimo messaggio. Lessi il numero, lo riconobbi, e sbuffai senza visualizzarlo. Avrei utilizzato al scusa di non essermi accorto dell’arrivo dell’sms se Kate me l’avesse chiesto.
Già, Kate. Niente a che vedere con Eleonore. La nostra storia dovrebbe essere finita da un pezzo e invece, da codardo, ho riaperto una vecchia ferita che non riesce più a sanare. Prima di conoscere Eleonore l’amavo, sentivo che mi piaceva da impazzire e stavo bene con lei, ma poi tutto è svanito e io le avevo già detto che non potevamo più continuare.
Ci lasciammo. Solo qualche settimana fa la rincontrai e, tra un caffè e quattro chiacchiere, decidemmo di riprovarci. Kate mi sembrava entusiasta, io invece ero solo speranzoso di riuscire a dimenticare Eleonore grazie a lei.

Perché tu fai male, anche quando fai l’amore tu il tuo viso prendi e te ne vai.
Perché sei la sola che ogni notte vorrei accanto ma quando poi ti cerco non ci sei…


Da allora vivo l’inferno, perché ogni volta che accarezzo i suoi capelli biondi m’immagino quelli di Eleonore, così setosi e morbidi tra le dita. E ogni volta che mi guarda con così tanto amore, in lei rivedo lo stesso fervore che un tempo avevo individuato nello sguardo di Eleonore.

Non mi basti mai: la tua pelle, la tua voce, tu sei tutto quello che vorrei…

Non potevo continuare così, in questo stato di confusione, tra cielo e terra, bianco e nero, fuoco e ghiaccio: dovevo dare una sistemata alla mia vita.
Avrei iniziato con l’eliminare le cose inutili. Sì, avrei fatto a meno di Kate, di quel libro demenziale, la maglia blu che è diventata troppo stretta, il cellulare passato di moda.
Avrei iniziato con il sistemare tutte le cose in sospeso, a partire da una bella chiacchierata con lei: le avrei detto quanto mi ero sentito ferito quando l’avevo vista con Matt, quanto mi sono pentito di averle detto quelle orribili parole che non penso affatto, come mi era tornato a battere veloce il cuore quando l’avevo rivista in biblioteca, quanto vorrei che le cose si potessero ancora aggiustare prima che sia troppo tardi.
Forse l’unica cosa di buono che avevo fatto, regalandole quel libro che all’inizio non aveva accettato, era stata di averle lasciato quel messaggio.
Chissà se l’avrà letto o se lo leggerà, a pagina 303, quel post-it giallo scribacchiato in gran fretta con una biro nera.

Non ho risposte né certezze ma ci voglio credere.
E ringrazio il cielo che mi ha dato il coraggio di volare e non restare più in silenzio…


Il cellulare squillò e stavolta sobbalzai, rivolgendo uno sguardo assassino verso il suono squillante di quella scatolina. Forse, prima di Kate, mi sarei disfatto del mio vecchio Nokia.
Mi distesi sul letto e lo afferrai, rispondendo. «Hello?»
«Johnny?»
«Oh, Kate», tossii, rimettendomi seduto con espressione allarmata.
«Non hai letto il messaggio?»
«Quale messaggio?»
«Ok, ho capito», rise, «c’era scritto che dovevi essere da me tra un’ora, che ora è diventata mezz’ora»
«E perché?»
«Mia madre ha organizzato una “rimpatriata”… sai, era dispiaciuta della nostra rottura e voleva che ricominciassimo tutto daccapo». Il grugnito che mi uscì tradì la mia farsa. Pessima mossa per un attore. Mi passai frustrato una mano tra i capelli, sospirando, desiderando che la voce di Kate non fosse così tanto entusiasta e allegra.
«Dobbiamo parlare, Kate». Forza, Johnny, liberati delle cose inutili! «Vediamoci al solito posto tra venti minuti»
«Oh». Il suo tono di voce la dice lunga. Per una che ha già affrontato con me l’argomento una volta e sospira una sillaba in quel modo ha già capito tutto, lo so. E un po’ lo spero.



note delle autrici:
eccoci qui con un nuovo capitolo! abbiamo fatto in fretta questa volta non trovate? :)
speriamo come al solito che il capitolo sia stato di vostro gradimento e ringraziamo calorosamente tutti coloro che hanno recensito la nostra storia e che si sono appassionati come noi del resto:)
se avete dei desideri non dimenticate di dirlo! xD
La canzone che fa da sottofondo al pov Johnny è "Il mio respiro" Degli Studio 3: ascoltarla fa pensare quasi che sia stata composta per la storia d'amore di Elle e Joh, vi consigliamo di ascoltarla!!
ci vediamo al prossimo capitolo! numerosi mi raccomando :3
un bacio A & P <3

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Capitolo 15
*** Capitolo 13 ***


Mi rigirai più volte tra le mani quelle piccole fotografie in bianco e nero, cercando il modo di individuare le giuste proporzioni e gli abbozzi delle piccole gambe e delle braccia del bambino.
Quella notte non ero riuscita a chiudere occhio, ancora trepidante dall’emozione per ciò che era accaduto il giorno precedente.
Soltanto ora i miei occhi erano aperti e potevo finalmente vedere la luce e accorgermi dell’enorme sbaglio che stavo per compiere. Il mio era stato un atto di negazione dell’idea di una vita che mi stava crescendo dentro a ritmo smisurato. Avevo nascosto tutto, anche a me stessa, e ora non desideravo altro che vedere quel bambino e stringerlo tra le mie braccia. Avevo voglia di viverlo e amarlo.
Non potevo di certo negare di avere una paura matta di come avrei vissuto questa gravidanza, paura di non poterlo vedere crescere, innamorarsi e vivere. Avrei dato la vita per il mio piccolo e avrei combattuto a lungo affinché anche lui potesse averne una.
Ero sdraiata comodamente sul mio soffice letto, con la finestra socchiusa e le lenzuola fresche sotto di me.
Ero rimasta tutto il giorno nella mia stanza, travolta dalla paura di affrontare il mondo.
Ma dopotutto era arrivata l’ora di gridare all’universo la mia felicità: Matt aveva il diritto di sapere che presto anche la sua vita sarebbe cambiata, che sarebbe diventato il padre di nostro figlio.
Chissà invece se mia madre avrebbe accettato l’idea di diventare nonna e se Sarah sarebbe stata felice per la mia decisione. Ora toccava a lei scoprire un modo per curarmi in modo da non annientare la vita di mio figlio.
Una piccola luce seguita da una vibrazione mi distrasse dai miei pensieri e il telefonino cominciò ad agitarsi. lo presi dal comò e guardai il display dove lampeggiava l’icona di un messaggio. Era Matt.

Buongiorno amore.
Perché non ti sei fatta sentire? Ti è successo qualcosa?
Passerò oggi pomeriggio. Richiamami.

Buttai il cellulare sul letto e mi alzai decisa ad andare da Sarah per spiegarle la nuova situazione. Matt avrebbe aspettato ancora un po’: avevo altri sette mesi, non c’era fretta di dirglielo.
Indossai un maglia comoda e scesi frettolosamente le scale, intravedendo mia madre indaffarata a lucidare la vecchia argenteria. Non le era mai piaciuta un granché, ma era un ricordo di sua nonna e le piangeva il cuore doverla buttare: anche lei non riusciva a staccarsi del tutto dal passato e ogni tanto le piaceva vivere di ricordi.
«Alla buon’ora», disse mamma asciugandosi la fronte con il palmo della mano. I capelli erano raccolti in una coda improvvisata e numerosi ciuffi uscivano, scompigliandosi per via del vento che entrava dalla finestra aperta.
«Buongiorno mamma! Ci vediamo più tardi». Le arrivai vicino schioccandole un grosso bacio sulla fronte. Rimase interdetta e restò per qualche minuto a fissarmi stralunata.
«Sei di buon umore a quanto vedo! Vai da Matt?»
«No, devo parlare con Sarah… Matt passerà qui più tardi». Uscii dalla porta richiudendomela alle spalle. Decisi di andare a piedi, una camminata non mi avrebbe di certo fatto male, soprattutto per la stupenda giornata di sole neanche troppo calda.
Arrivai nello studio di Sarah circa mezz’ora dopo, con i piedi doloranti per la lunga salita che mi sembrava non avere fine. Mi ero pentita amaramente per la mia scelta di fare jogging, di certo un incidente con la macchina sarebbe stato un trauma minore!
Entrai nell’appartamento, mi sedetti comodamente aspettando il mio turno e non mi accorsi neanche del tempo che passava. Ad un certo punto la porta del suo studio si aprì e uscì Sarah con un enorme cartella clinica e dietro di lei si fece spazio una signora scarnita e con uno sguardo talmente spento da sembrare privo di vita.
«Il prossim… Elle! Che ci fai tu qui?». Strabuzzò gli occhi e sorrisi divertita. Si guardò intorno e mi fece segno di entrare. «Ti è successo qualcosa?». Mi chiese chiudendo la porta a chiave. Mi voltai lentamente verso di lei, sorridendole dolcemente. Non vedevo l’ora di dirgli che finalmente poteva chiamarmi mamma e che presto avrei dato alla luce il mio primogenito.
«In verità si… devo parlarti». Si sedette nella sua scrivania con le gambe accavallate, facendomi segno di accomodarmi. Teneva le mani davanti a se e gli occhiali sulla punta del naso, pronta ad ascoltarmi e reagire in ogni situazione.
«Dimmi».
Tirai un lungo respiro indecisa su dove incominciare. Lungo la strada mi ero fatta una scaletta da seguire in caso di smarrimento e un discorso che ormai sembrava sciocco anche a me. Sarah mi guardò perplessa e cercò di spingermi a parlare con un gesto della mano accompagnato da un cenno del capo.
«Ieri sono svenuta». Mi diedi della stupida io stessa e avrei desiderato prendermi a schiaffi da sola. Sarah sgranò gli occhi e rimase esasperata, aprendo e chiudendo la bocca due o tre volte. «No, ho cominciato male! Farmi riformulare la frase: ieri dopo essere uscita da qui ho avuto un… malore e mi hanno portato in ospedale da un certo dottor Hans… lui si è accorto del mio stato gravido». Mi fermai indecisa su come continuare, incerta se mi avesse veramente seguita. Lei mi guardò senza fiatare e allora continuai il mio quasi monologo incessante. «Mi ha fatto vedere l’immagine del bambino. Sarah, ho visto mio figlio ed è stato bellissimo, dovevi vederlo! Aveva una testolina così piccola, il cuore gli batteva forte e …»
«Non dirmi quello che stai per dire! Non ti saresti messa in testa di tenerlo », sussurrò terrorizzata, scrutando i miei occhi lucidi per l’emozione mentre lo raccontavo. Sorrisi d’istinto mentre lei cambiò completamente espressione.
«Io… sento di amarlo, Sarah, è mio figlio». Si alzò di scatto ed io sussultai, alzando il capo per fissarla.
«Non devi nemmeno pensare a una cosa simile, Elle! Forse ancora non ti sei resa conto della situazione: sei malata di leucemia! Devi curarti, prendendo le pillole che ti ho dato e che il feto non sopporterà». Le guance le si erano arrossate dal nervosismo e sentii lo stesso calore salire su per le mie gote. Non so cosa provai in quel momento ma scattai dalla rabbia. Forse mi aspettavo qualcosa di diverso come un sorriso dolce, un abbraccio, un incoraggiamento. Forse mi aspettavo che la mia migliore amica mi avesse sostenuta nelle mie scelte.
«Allora smetterò di prenderle! Evidentemente non sto così male… non ho avuto nessun sintomo», risposi tagliente. Mi stava rimproverando per una mia decisione. Lei non stava vivendo la malattia in prima persona e quindi non doveva immischiarsi nella mia vita e nelle mie scelte.
«Elle, probabilmente non sei perfettamente lucida. Anzi, non lo sei per niente! Non hai sintomi perché le pillole che stai prendendo sono una chemio… se smetterai di prenderle dopo un paio di giorni cominceranno le prime nausee, le forze ti verranno a mancare e ti verrà difficile anche alzarti dal letto! Sputerai sangue e probabilmente morirai prima che il bambino venga al mondo. Non c’è motivo che metta a rischio la tua vita per tuo figlio se anche lui ha poche probabilità di esistere». Le sue parole soltanto bastarono a farmi morire. Perché doveva essere proprio tutto difficile?
«Ci sarà qualcosa per mantenerlo in forze!»
«C’è», sussurrò esasperata ricadendo sulla sedia. Si mise le mani nei capelli e si nascose il viso. «Ci sono integratori, valori che potrebbero mantenerlo in vita ma le probabilità sono troppo scarse e non avrebbe senso se morissi tu!». Annuii consapevolmente. Non mi interessava nulla di quello che mi sarebbe successo, di quello che avrei dovuto patire… l’unica cosa era salvare il mio bambino. «E non te lo lascerò fare, Elle. Non sarò io la causa della tua morte e mi dispiace solo di non averci già pensato! Dovevo toglierlo di mezzo molto prima, così che tutto questo casino non succedesse. Io non voglio nemmeno guardarlo negli occhi quando nascerà se sua madre non avrà più un cuore pulsante nel petto. Non voglio perderti, mi dispiace…».
Serrò le mascelle e mi guardò decisa con un tono che non ammetteva repliche. Rimasi a guardarla scioccata, probabilmente non sapevo cosa risponderle realmente e le sue parole mi fecero troppo male. Mi alzai, guadagnandomi il suo sguardo commiserevole e i suoi occhi erano pieni di lacrime. La guardai superficialmente e con una profonda delusione che proveniva dal cuore.
«Allora non sarai tu a farlo. Il dottor Hans è molto bravo, mi aiuterò di sicuro. Non puoi parlare così del mio bambino. Ciao Sarah». Senza neanche darle il tempo di rispondere, uscii dalla porta e infine dal suo studio. Scossi il capo, sbuffando per il nervosismo. Non volevo perdere mio figlio, diamine!
Mi accarezzai il ventre, dolcemente, e con un amore che solo una madre sa di poter avere. Mi ero anche pentita di aver messo una maglia larga a nasconderlo: da oggi in poi avrei mostrato a tutti com’ero realmente. Non l’avrei più nascosto, una volta detto a Matt e alla mamma, perché non c’era nulla da nascondere, nulla di sbagliato. Anzi, dovevo esserne fiera, mostrare a tutti che ero stata graziata dalla fortuna. E Tutti avrebbero guardato ammaliati la mia pancia crescere.
Arrivai a casa esausta e desiderosa di infilarmi nella mia stanza ed uscire solo dopo avere partorito. Aprii la serratura ed entrai in casa, trovando la luce spenta. A quanto pare mamma era uscita senza lasciare tracce di sé! Salii al piano di sopra, diretta verso la mia stanza. Entrai e richiusi la porta alle spalle.
«Finalmente». Mi voltai immediatamente con il cuore in gola, trovando Matt seduto sul mio letto e con lo sguardo perso nel vuoto. Teneva stretto tra le mani un qualcosa che non riuscì a identificare nel buio. Accesi la luce.
«Matt mi hai spaventata! Ma cosa ci fai qui?». Si voltò verso di me, alzandosi con una lentezza sovraumana, venendomi incontro.
«Che cos’è questa, Elle?». Mi mostrò la foto del bambino e in quel momento mi sentii morire. Cercai frettolosamente un modo per spiegargli la situazione senza turbarlo. Non era così che doveva venirlo a sapere, io non avevo ancora scelto il modo migliore per dirglielo e non mi ero preparata con le parole giuste.
«Beh… lui è…»
«Perché non me lo hai detto?!». Mi venne vicino, facendomi aderire con la schiena al freddo muro e sbattendo le mani vicino alle mie orecchie. Il suo sguardo divampava rabbia e mi fece quasi paura. Non lo avevo mai visto così adirato e il respiro mi morì in gola.
«Posso spiegarti tutto», mugolai. Si allontanò così da lasciarmi respirare e si voltò di spalle, non permettendomi di guardargli il volto.
«E allora fallo, cazzo!», ringhiò. «Da quanto lo sai?», aggiunse con tono più pacato. Gli andai vicino cautamente, posando la mano sulla sua spalla.
«Da un po’… non ti ho detto niente perché l’ho nascosto anche a me stessa, Matt! Non potevo pensare ad avere un figlio ma adesso è diverso…»
«Diverso? Elle, sei incinta, niente sarà più lo stesso». Si voltò verso di me, posizionandosi di fronte a qualche centimetro dal mio viso. Gli accarezzai il volto, guardando il suo viso e i suoi occhi spaventati, adirati, ansiosi. In quel momento era un misto di emozioni. Una bomba ad orologeria pronta a scoppiare. «No… è qui che ti sbagli Matt…»
«Ma com’è successo?». Si appoggiò alla mia fronte, abbracciandomi con tutto se stesso, come se fosse un bambino bisognoso di sicurezze. Avrei cresciuto due bambini.
«Lo sai come…», feci io sorridente.
«Non intendevo quello», tagliò corto lui. Deglutii.
«Sai benissimo anche l’altra risposta allora. E’ successo proprio quella notte… e ora aspetto nostro figlio e… è bellissimo, Matt», sussurrai con la voce tremante, afferrandogli le mani e portandomele al cuore.
«Ma come potrai prendere le medicine con lui?» mi chiese con un filo di voce. Tremava impaurito come una foglia scostata dal vento. Era terrorizzato e potevo perfettamente capirlo, anche io avevo paura ma nulla mi avrebbe distolto dal mio sogno.
«Non le prenderò». Si distolse, guardandomi sbalordito. Aprì la bocca richiudendola poco dopo e capii che il momento magico di tranquillità era svanito.
«Stai scherzando, vero? Non puoi non prendere le medicine… morirai»
«Sarà per una giusta causa, Matt! Sarà per nostro figlio», insistetti con gli occhi lucidi, accarezzandogli le guance e immobilizzandolo affinché non distogliesse lo sguardo.
«E se io non lo volessi? Se scegliessi te anziché lui?», mormorò. Le parole belle che avevo serbato per l’ultima frase, quelle che parlavano dell’eco sordo di cui parlava il dottor Hans, mi morirono in gola. In quel momento non riconobbi più quegli occhi chiari come gli occhi di Matt e quelle mani calde che stringevo non sembravano più quelle dell’uomo con il quale avrei voluto condividere la mia vita.
Sentii avvampare la rabbia, il dolore, la delusione, il rifiuto. Non verso di me, ma verso quello che stavo portando in grembo. In quel momento, stava offendendo il mio bambino.
«Non è una scelta che devi fare tu», risposi freddamente, serrando le mascelle e chiudendo gli occhi per trattenere le lacrime, mentre indietreggiavo sempre di più per allontanarmi da lui.
«L’abbiamo fatto insieme, no? E quindi dobbiamo decidere insieme cosa farne», insistette. Desiderai essere sorda, non volevo sentirlo, non volevo vederlo, non volevo farmi male. «Lo so che è difficile, che hai bisogno di qualcuno che ti stia accanto, ma in questo momento nulla è più importante di te. Cerchiamo prima una cura alla malattia, poi magari più in là potremmo provare a costruirci una famiglia e…»
«Se volevo compagnia compravo un cane, Matt!», esclamai adirata, guardandolo dritto negli occhi.
«Ti ucciderà dall’interno! Non puoi tenerlo!». Sì, le sue parole facevano troppo male. Scossi il capo, desiderosa di tapparmi le orecchie.
«Come puoi parlare così di lui?», mormorai, sfiorandomi il ventre. «Vieni con me almeno una volta dal medico, lascia che ti mostri quant’è fantastico», sorrisi debolmente, con un filo di speranza che mi stringeva il cuore. Scosse il capo.
«Non voglio saperne niente di lui»
«Tu non capisci»
«No, Elle, sinceramente, non lo capisco». Si fermò a fissarmi con i pugni chiusi lungo i fianchi, seduta sul letto con le ginocchia al petto mentre singhiozzavo.
«Vai via, Matt», mormorai, senza avere il coraggio di alzare lo sguardo per guardarlo.
«Dio, quanto sei stupida», ringhiò, lasciandomi sola nella stanza. Lo sentii uscire di casa quando sbatté violentemente la porta d’ingresso e partì facendo slittare le gomme della sua auto sull’asfalto del viale.
Avevo forse preteso troppo da Sarah, da Matt?
Era forse troppo pretendere di essere appoggiata in una scelta così difficile? Perché tutti continuavano a vedere questo bambino come un’enorme sbaglio, una disavventura, mentre solo io lo percepivo come un dono?
Sapevo che alla fine mi sarei ritrovata da sola. Come si dice? Gli amici veri si vedono nel momento del bisogno.
E Sarah si era rifiutata di curare il mio bambino.
E Matt si era rifiutato di accettare il suo bambino.
Avevo lasciato Johnny per Matt, avevo accettato di dargli una possibilità nella speranza che mi avesse reso la vita migliore e invece… “La paura di amare” cadde dal bordo del letto e si aprì a caso in una pagina. La frase era in alto, padroneggiante dell’intero foglio:

Bisogna innamorarsi quando si è pronti, non quando si è soli.

Era stato forse questo il mio errore? Avevo offerto la mia intera vita ad uno sconosciuto?

Masticavo lentamente, con la schiena china sul piatto di pasta al sugo, osservando silenziosamente mia madre che mi dava le spalle mentre lavava le pentole che aveva utilizzato per cucinare.
La mia mente però viaggiava lontano da qui, forse chilometri o forse anni luce poiché era diretta in un altro pianeta. Stavo pensando a come dirlo alla mamma, non avrei sopportato di perdere anche lei che era l’unica persona che mi era rimasta.
Ero quasi sicura che mi avrebbe capita. Come ogni volta mi avrebbe detto che le scelte che si fanno con il cuore sono sempre scelte giuste, mi avrebbe sorriso, stretto la mano e se ne sarebbe uscita con una frase tipo “lo sai che ieri ho incontrato il vecchio Bob?” cambiando argomento.
Ma in fondo, ero sicura anche che Sarah mi conoscesse da una vita e che condividesse le mie scelte, che Matt mi amasse così tanto da voler costruire con me una famiglia. E mi sbagliavo.
«Come mai sei così silenziosa?». Si voltò e mi scrutò a lungo, facendo gocciolare l’acqua e la schiuma lungo il braccio fino ad arrivare sul pavimento. Feci spallucce, mi alzai e posai il piatto accanto al lavandino, poggiandomi sul bordo della cucina per fiancheggiarla.
«Posso farti una domanda… strana ?», azzardai, catturando la sua attenzione.
«Dimmi»,sbiascicò lavando le altre pentole per poi metterle ad asciugare.
«Se tu dovessi… ecco… decidere tra la tua vita e quella di una persona a te cara… tu che faresti?», feci enigmatica. Prese il mio piatto e lo immerse nell’acqua, insaponandolo con attenzione mentre pensava ad una risposta.
«Beh, dipende…», fece lei, risciacquando il piatto.
«Da cosa?»
«Da quanto è importante questa persona, da quanto mi ha saputo dare, da cosa mi suscita ogni qual volta che mi è vicina… se per esempio dovessi scegliere tra la mia vita e la tua, sceglierei sempre te. Ma perché me lo chiedi?», continuò dubbiosa. Tirai un sospiro carico di tensione.
Ora. Questo è il momento giusto, Elle.
Abbassai gli occhi sul pavimento, cominciando a massacrarmi le mani, indecisa su come iniziare quella frase che avrebbe sconvolto la vita di mia madre. Avevo una paura enorme di perdere anche lei. E se non avesse capito?
«Mamma… beh io… io ti devo parlare», sbiascicai con un filo di voce. Mamma si voltò, guardandomi dolcemente e mi accarezzò il viso con il dorso della mano, cercando di tranquillizzarmi.
«Cosa c’è che non va, Elle? Sembri terrorizzata e mi fai domane al dir poco assurde! Stai male? Mi devo preoccupare? »
«No! Non sono mai stata meglio in vita mia, mamma! Ma ho una paura matta di dirti una cosa! Perché dal momento che tu saprai la verità le nostre vite cambieranno per sempre… e, mamma, Non posso perdere anche te». Si avvicinò e vidi i suoi occhi immersi dalle lacrime.
«Non mi perderai, tesoro… ma ti prego dimmi cosa ti preoccupa».
Tirai un lungo sospiro e cercai di stare calma così da smettere di tremare. Chiusi gli occhi flebilmente per poi aprirli un attimo dopo.
«Ho scoperto di essere incinta»,confessai con il cuore che mi martellava nel petto. Il piatto che aveva tra le mani le scivolò e andò in frantumi e sgranò gli occhi come se le avessi lacerato la pelle con un coltello da cucina. Si portò una mano alla bocca e il suo viso trasudò sorpresa e un misto di emozioni indefinibili.
Potevo notare perfino quell’ombra di paura che si riversò nei suoi occhi, lo stesso terrore che aveva attraversato lo sguardo di Sarah e poi quello di Matt. Sperai che non stessero per uscire le stesse parole dalla sua bocca. Le stesse che mi avevano ferita così tanto, le stesse che mi avevano fatto capire che da quel giorno in poi avrei potuto contare solo su me stessa e sulla forza della mia schiena.
«Mio Dio…», sussurrò con un filo di voce. Il suo sguardo era perso nel vuoto e ci fu un momento che lo trovai assente.
«Mi dispiace… mi dispiace». Cominciai a piangere come una bambina e portai una mano alla bocca, lei mi strinse a sé cominciando a versare lacrime. In quel momento avrei preferito buttarmi dall’ultimo piano di un palazzo anziché provare quel senso di vergogna che mi stava avvalendo . Dirlo alla mamma era stata la cosa più difficile che avessi mai fatto in tutta la mia vita. Probabilmente la morte sarebbe stata meno dolorosa. Sapere di far soffrire qualcuno che ami, essere una delusione per questa persona era la cosa più brutta che potesse succedere.
«Nessuno riesce a capirmi», feci io a testa china,nascondendomi sulle sue spalle, mentre lei rimase in silenzio, come per non farmi pesare che neanche lei era proprio entusiasta.
Mi fece male vederla in quelle condizioni, come se non bastasse il fatto che avesse paura di non potermi più stringermi. Non fiatò e passarono diversi minuti che a me sembrarono interminabili. Avrei preferito un suo gesto o qualcosa che mi facesse capire che non mi avrebbe spedito fuori di casa e che accettava, a suo malgrado, la mia condizione.
Si distaccò da me ed evitò il mio sguardo. Le presi le mani, mettendole sul mio ventre.
«Lo so che è un grande rospo da mandar giù e so anche che forse ti servirà del tempo… ma so anche che dentro di me sta crescendo una vita, e quindi qualunque sia la tua decisione la mia è irremovibile, quindi ti prego, mamma… dimmi di si, dimmi che accetterai le mie decisioni e che mi capirai». Sorrise anche se quello era un sorriso amaro. Sapevo che stava trattenendo le lacrime e sapevo anche che non era facile accettarlo, come non lo era stato facile per me. Ma era mia madre è dovevo capirla. Si asciugò il viso con il dorso della mano.
«Lo so Elle e ti prego di scusarmi», farfugliò scossa e fece un segno verso la sedia, invitandomi a sedere.
«Raccontami tutto».
Mi sedetti sulla sedia e le mi si posizionò di fronte. Aveva un fazzoletto tra le mani e non smetteva di strapparlo e ridurlo in brandelli.
«Sono circa due mesi ormai ed è di Matt come puoi ben capire. Quando io e Sarah l’abbiamo scoperto ero sicura di non volerlo… come potevo far nascere un bambino se tra poco non sarei riuscita neanche a reggermi in piedi? Ma poi l’ho visto… era così piccolo e così fragile che si muoveva nella mia pancia, e il cuore mi è scoppiato dal petto. Mi capisci, mamma? Mi sono accorta di amarlo più di me stessa! Di amarlo come credevo non si potesse mai amare nessuno ma è così», sussurrai con le lacrime agli occhi, stringendo forte la sua mano, che avevo prontamente preso. Lei mi sorrise amaramente, annuendo comprensiva.
«Certo che lo capisco». Del resto, anche lei era stata madre per due volte. Lei poteva capirmi a differenza di Sarah o di Matt. Lei che aveva perso suo figlio e che la vita glielo aveva strappato via poteva capirmi più di qualunque altro e conoscendola, potevo ben capire i sentimenti che la stavano divorando l’anima. Non potevo darle torto. Cercai di spiegarle il tutto in modo più genuino possibile, cercando di non ripercuotere la ferita e di raggirare l’ostacolo.
«Purtroppo le medicine che sto prendendo fanno male al bambino, quindi ho smesso. Sarah si rifiuta di cercare una cura alternativa e vuole che abortisca perché io possa riprendere la cura. Matt non vuole saperne nulla del mio bambino e vorrebbe anche lui che io abortisca», continuai a spiegarle. «Ma io non voglio perderlo, mamma, non posso. Per me è una benedizione, non avrei mai il coraggio di rifiutarlo».
Rimase in silenzio, stringendomi le mani e strizzando gli occhi, cercando di trattenere le lacrime.
«Lo so, Elle, lo so cosa provi», sussurrò lei, venendomi vicino e stringendomi, facendomi affondare nel suo petto materno e rassicurante. Grazie al cielo lei non si era arrabbiata, anche se era rimasta di poche parole.
«Temevo che anche tu mi urlassi di rinunciare a lui»
«Non potrei», sospirò. «Anche se ti mentirei se ti dicessi che ne sono entusiasta, Elle», aggiunse. Si staccò da me e mi fissò, accarezzandomi il volto.
«Capisco solo perché anche io sono stata madre prima di te, so perfettamente com’è quell’amore unico che ti lega a tuo figlio, quell’amore indiscutibile che ancora oggi mi lega a te. Non ti direi mai di rifiutarlo perché so che è impossibile. Ma so anche che probabilmente potrei perdere te e, sì, farei volentieri a meno di questo», mi confessò, continuando a passarmi le mani tra i capelli mentre le lacrime facevano scintillare i suoi occhi già gonfi.
«Tu cosa faresti al mio posto?», mormorai a stento. Le parole mi uscivano flebilmente e avevo la voce rauca.
«Se avessi dovuto scegliere tra la mia vita e la tua, già sai che avrei scelto te. Se fossi al tuo posto farei sicuramente la tua stessa scelta, Elle… Ti ho sempre spinto ad andare incontro ai tuoi sogni ma in questo momento preferirei tutt’altro ma non te lo chiederò». Si morse il labbro. «Sceglierei te anche altre mille volte», continuò.
La abbracciai di nuovo, affondando nei suoi capelli crespi.
«Speravo davvero che tu mi capissi», sospirai.
«Hai la stessa tenacia e determinazione di tuo padre! È questo che ti contraddistingue: sei forte, sai perfettamente cosa vuoi dalla vita, anche se ciò che brami ti farà del male. Ti aiuterò io. Insieme cercheremo un modo per far stare bene entrambi», mi sorrise.
La mamma: la cosa più vera, più bella del mondo. L’unica persona che mai ti abbandonerà.
Prendi appunti, piccolo mio, perché questa è la tua prima lezione di vita e non la scorderai mai.


Ciao a tutte! Ogni tanto ci facciamo vive xD
Il capitolo come aveste visto è pieno di “nuvoloni neri” e le cose non sembrano andare per il verso giusto… Elle si trova così senza Matt, senza Sarah, senza una spalla destra sulla quale contare, oltre alla carissima mamma. Quante di noi hanno provato quest’esperienza, la sensazione di essere da soli al mondo e non essere capiti da nessuno?
Ma non disperatevi, le cose andranno meglio per la nostra Elle e poi non dobbiamo scordarci che c’è ancora Johnny :P
Vi vediamo poco attive ultimamente, ci farebbe davvero piacere ricevere vostre notizie (?)
Baci, A&P <3

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Capitolo 16
*** Capitolo 14 ***


Tre settimane dopo…

«Potrei passare in tarda mattinata allora. La ringrazio dottore». Staccai la chiamata e poggiai il cellulare sul bordo della lavatrice, chinandomi sulla cesta di panni sporchi per infilarli nella grossa scatola che mi avrebbe risparmiato un sacco di fatica. Il dottor Hans aveva deciso di seguirmi subito dopo la prima visita, una volta messo al corrente anche della mia malattia. Si era rivelato un uomo straordinario ed estremamente gentile e mi aveva messo anche tanta speranza nel cuore: continuava a ripetermi che esisteva una cura che avrei potuto prendere che non facesse male al bambino, contattava centinaia di medici di ogni parte del mondo, organizzava incontri, cercava in tutti i modi di starmi vicino come se quel figlio fosse suo. Da quando Matt e Sarah non c’erano più avevo iniziato anche ad aprirmi con lui, trovando anche un confidente, un amico con cui condividere i miei pensieri che non fosse mia madre.
Dallo stereo i Blues cantavano. Il gruppo andava alla grande un po’ di tempo fa, quando mia madre era ancora una ragazzina pazza di loro, ma le canzoni erano comunque bellissime. Il dottore mi aveva consigliato di far ascoltare tanta musica al bambino perché faceva bene.
«Elle, sei in cucina?». La voce di mia madre echeggiò nel corridoio.
«Sto facendo la lavatrice! Mi porteresti il flacone di detersivo?», urlai, coprendo per qualche secondo l’acuto del cantante nella radio. Due minuti dopo il flacone blu penzolava dalle mani di mia madre. Alzai lo sguardo per guardarla e restai ferma a fissare Sarah che mi sorrideva timidamente mentre mi porgeva il contenitore di plastica.
Con gli occhi sgranati restai a fissarla incredula come se fosse un miraggio, poi mi alzai lentamente e spensi la radio che stava diventando insopportabile alle mie orecchie. Quando mi rivoltai verso di lei la vidi mettersi le mani nelle tasche e guardarsi attorno con imbarazzo.
«Ciao», farfugli, guardandomi mentre si mordicchiava il labbro inferiore.
«Ciao», risposi confusa. Non mi aspettavo di vederla qui, sebbene lo sperassi da tanto tempo. «Come stai?». Il suo sguardo scivolò in fretta sulla curva del mio ventre e allungò la mano per sfiorarlo.«Wow, è cresciuto parecchio dall’ultima volta», fece accennando una risatina. Io intanto non riuscivo a distogliere lo sguardo da lei per cercare di interpretare le sue mosse e i motivi che l’avevano spinta a venire da me.
«Perché sei qui?», le chiesi senza mezze misure, osservandola stringersi la molla del codino appoggiandosi sul muro per temporeggiare. Fece spallucce, facendo scivolare lo sguardo ovunque nella stanza fino a me. Restò a fissarmi con aria da funerale prima di schiudere le labbra in un grosso sorriso.
«Perché non ce la faccio più senza di te e mi sento terribilmente in colpa», sparò ad un fiato, guardandomi con un paio di occhi dolci pronti a farmi sciogliere il cuore. Restai sulla difensiva a scrutarla perplessa, come se le chiedessi di continuare a parlare, continuare a spiegare perché ancora non capivo. Lei intuì le mie emozioni.
«Ho anche parlato con tua madre e… forse non è tutto perduto. Sono stata una stupida a gettare la spugna e anche una pessima amica ad abbandonarti». Si alzò di scatto dal letto e mi venne vicino, afferrando le mie mani e stringendole tra le sue. «Voglio riprendere a controllare te e il tuo bambino, cercare un modo alternativo per curarvi, ma soprattutto voglio tornare ad essere tua amica, Elle». I suoi occhi lucidi per poco non fecero lacrimare anche i miei.
«Se sei venuta per persuadermi a cambiare idea, è inutile»
«No, no! Sono qui solo per sostenerti! Indipendentemente dalle tue scelte», disse con convinzione. Guardai i suoi occhi chiari, vivaci, le sue guance colorate, le sue labbra sempre pronte con un sorriso, le sue mani che mi avevano sempre sostenuto. «Allora?», mi incalzò lei.
«Sono felice che tu abbia cambiato idea», sospirai infine, abbattendo il muro di rigidezza e sciogliendomi in un abbraccio affettuoso.
«Aah! Ti voglio bene!», squittì, stringendomi forte. E poi, come se nulla fosse successo,andammo in cucina a prepararci una tazza di caffè e iniziammo a parlare. Gli raccontai più nei dettagli del mio stato, di come il dottore mi stava seguendo e della sua speranza nella nuova cura, poi passai a confessargli la mia paura più grande: quello di farlo crescere senza un padre. Ci ero già passata io e la sensazione non era gradevole.
«Lo so quello che è successo tra te e Matt», sospirò Sarah, disegnando con le dita tanti piccoli cerchietti invisibili sul tavolo. Aggrottai la fronte, scrutandola.
«E come lo sai?»
«Matt ed io ci siamo sentiti, ultimamente…», accennò a disagio. Per poco non le sputai il caffè in faccia.
«EH?!», squittii tossendo e lei scoppiò a ridere.
«Non in quel senso!», si affrettò a dire mentre gesticolava furiosamente. Aspettò che riprendessi fiato prima di continuare a parlare. «Non sapeva ancora del nostro litigio. Si è sfogato un po’ con me… ti ama ancora, Elle», concluse dolcemente. Feci una risatina amara.
«E come mai non è accanto a me ad amare suo figlio?», feci sarcastica, alzando gli occhi al cielo con aria irritata. Sarah scosse il capo.
«Matt è soltanto orgoglioso, forse impiegherà più tempo di quanto ce ne ho messo io a ritornare…»
«Beh, a volte bisogna mettere da parte il proprio orgoglio e svolgere i propri doveri», ringhiai.
«Mi chiede di continuo di te, vuole sapere come stai, che stai facendo, cosa pensi di lui, se hai bisogno di qualcosa… era struggente non potergli rispondere», ammise. La guardai scioccata.
«Davvero ti ha chiesto di me?», sussurrai.
«Ogni giorno»
«Come se gli importasse ancora qualcosa…», accennai, afferrando nervosamente il pacchetto di sigarette che la mamma aveva lasciato incustodito nel centrotavola di vetro soffiato.
«Ti dico che gli importa. E, Dio mi strappi la lingua dopo avertelo detto perché avevo promesso di non farlo, Matt è in contatto anche con il dottor Hans», sputò, strappandomi il pacchetto di sigarette tra le mani mentre mi lanciava un’occhiataccia di rimprovero. Sgranai gli occhi e mi uscì dalla bocca un sussurro stridulo. Lei annuì. «Si è presentato come il padre del bambino. Il dottore lo conosceva già, aveva detto che gli avevi raccontato di lui, così ha acconsentito a tenerlo informato sui tuoi progressi senza fartelo venire a sapere»
«Che bastardo», mi uscì dalle labbra, scuotendo il capo mentre vagavo con lo sguardo perso nel vuoto. Sarah sorrise.
«Te l’avevo detto che ci teneva a te… a voi»
«Non so che pensare, Sarah», mormorai confusa, passandomi una mano tra i capelli prima di accasciarmi sulla sedia accanto a lei.
«Pensa al fatto che Matt ritornerà, Elle. Forse più presto di quanto credi»
«Se saprai qualcosa me lo verrai a dire, vero?». Le rivolsi un’occhiata implorante e lei si trattenne dal sorridere con una smorfia strana, roteando gli occhi.
«Se devo passare per quella che non sa tenere la bocca chiusa, allora voglio esserci dentro con tutte le scarpe!», esclamò infine ridendo, prima di propormi di andare al cinema e festeggiare la nostra pace.

Il suono della sveglia mi fece rinunciare alla speranza di sognare qualcosa di allegro, distruggendo quel sogno che stavo vivendo ma che probabilmente nel giro di qualche ora avrei dimenticato. Mi rigirai nel letto, cercando di spegnere con la mano quell’apparecchio infernale che non smetteva la sua opera di distruzione dei miei poveri timpani, decidendo alla fine che spiaccicarla nel muro sarebbe stato l’unico modo per non essere ulteriormente disturbata.
All’improvviso sentì come la gola diventare arsa e prudermi, come se avessi dentro tantissimi aghi infuocati e cominciai a tossire come se non avessi più forza nei polmoni, avvertendo un gran dolore al centro del petto.
«Amore va tutto bene?!». Mamma piombò nella stanza, svegliata probabilmente dal frastuono che avevo appena provocato. Cercai di riprendermi ma era come se non riuscissi a respirare. Appena mi vide in quelle condizioni si piombò subito su di me, cercando di assistermi nel migliore dei modi.
«Va meglio?», mi chiese accarezzandomi dolcemente le gote leggermente velate di rosso mentre mi poggiavo sul mio cuscino che in quel momento mi sembrava fin troppo basso e scomodo. Le sorrisi dolcemente per tranquillizzarla.
«Stiamo bene» sussurrai con un filo di voce, cercando di sembrare più serena possibile mentre accarezzavo il mio piccolo. Ricambiò il sorriso ma si alzò ugualmente in direzione del mio cassetto dove tenevo tutti i medicinali possibili ed immaginabili.
«Penso ti sia venuta la febbre, tesoro. Sei troppo calda per i miei gusti». Neanche due minuti dopo, avevamo la conferma che avesse ragione.
«Hai trentasette e qualche decimi … credi sia il caso di chiamare Sarah? Nelle tue condizioni non c’è da scherzare!»
«No, mamma, mi passerà. Sta’ tranquilla», sospirai.
«Rimani a letto. Vado a prepararti qualcosa di caldo». Detto ciò, uscì dalla stanza così com’era entrata. Con una smorfia di fatica afferrai un secondo cuscino e lo misi dietro la mia nuca per poter stare più comoda su quel letto che sembrava essere fatto di spine. Mi allungai quel tanto da poter prendere dal comodino La paura di amare e lo aprii cominciando a sfogliarne le pagine profumate per via dell’inchiostro ancora nuovo: adoravo il profumo che avevano i libri, soprattutto se erano appena comprati.
Cominciai a leggere tra le righe che avevo lasciato a metà: non ero riuscita a leggerlo perché mi sembrava quasi mettere il dito in una piaga troppo profonda, riaffiorare nei ricordi che non avevo affatto dimenticato ma che avevo paura di riportare a galla.
Era quasi ridicolo, io mi sentivo ridicola, ma quel libro lo avevo utilizzato come se fosse la mia medicina personal , lo utilizzavo come intermediario tra me e Johnny, come se mi potesse riportare da lui: ogni frase, ogni parola mi ricordava di lui e stringere di nuovo quel pezzo di carta tra le mani mi faceva illudere che potessi stringerlo di nuovo tra le mia braccia, come se non lo avessi mai lasciato andare.
Sì, forse era veramente strano e ridicolo, se pensavo a tutti gli anni in cui avevo fatto a meno di lui quando andai via da Owensboro per la prima volta: con il passare degli anni Johnny era diventata una figura sempre più assente, che faceva sempre meno male, che diventava gradualmente meno importante. Era lì, era un attore, aveva condiviso con me centinaia momenti e altri mille erano stati rimossi dalla mia testa, eppure guardavo soddisfatta l’uomo che era diventato, lo ammiravo come tutte le altre sue fan anche se in confronto a loro avevo avuto la fortuna di stringerlo. Ma me ne facevo una ragione, non mi chiedevo perché lui fosse lì mentre io ero dall’altra parte del mondo: semplicemente le nostre strade si erano divise.
Ora invece non riuscivo a seguire quella logica di ragionamento: non riuscivo a capacitarmi dell’idea che non stessimo ancora insieme, non riuscivo a fare finta che fosse solo un altro ricordo. E forse era per questo che speravo di sentirlo vicino: non volevo che col tempo gli anni avessero logorato tutte le belle sensazioni che lui mi aveva regalato e, perché no, anche quelle brutte. Mi serviva un legame, qualcosa che mi facesse ricordare, il dito da rigirare nella piaga affinché la ferita non risanasse.
Sfogliai ancora di un paio di pagine e notai un piccolo foglio che non avevo mai visto, giallo, attaccato alla pagina 303. Non riconobbi la scrittura e in primo momento pensai che forse era mio e che tempo fa avessi appuntato una frase da non dimenticare: lo facevo spesso, quando non volevo perdere di vista le parole-chiave dell’intero libro. Lessi curiosa.

Sorry, but I still love you.

Non so cosa provai in quel momento e probabilmente non provai nulla, colpita da una miriade di pensieri che cercavano prepotentemente di insinuarsi nella mia testa. Quella S con la zampetta finale prolungata di un paio di centimetri verso il basso la conoscevo bene, forse fin troppo.
Mi portai simultaneamente le mani alla bocca, con gli occhi ancora sgranati e le lacrime che annebbiavano la mia vista. Accarezzai con un gesto naturale quelle parole scribacchiate in inchiostro nero con dolcezza, come se fossero un pezzo della sua pelle, come se stessi accarezzando uno di quei tatuaggi che simboleggiavano la sua vita. Ma il messaggio non era finito, guardai in basso dove vi erano una serie di numeri che andavano a comporre un numero di telefono, probabilmente il suo. Chissà per quanto tempo restai immobile, avendo smesso di piangere e forse anche di respirare, con il cuore in gola e il petto martellante, fissando ora il biglietto adesivo ora il mio cellulare.
Una sola domanda occorreva nei momenti di indecisione e, se la risposta sarebbe stata convincente, avrei deciso cosa fare: Perché?
Perché avrei dovuto richiamarlo per sentire di nuovo quella voce che non mi avrebbe fatto altro che male?
Non aveva alcun senso ritornare viva dopo che lui mi aveva cacciata dalla sua vita. Ma forse lui voleva che ci ritornassi: infondo, mi aveva lasciato un biglietto che diceva “scusa, ma ti amo ancora” con il suo numero di telefono, probabilmente l’aveva scritto velocemente prima di regalarmelo, forse quel libro era un pretesto per dirmi quello che la sua bocca non sapeva dire. Ti amo: questo gli era difficile ammettere.
Dio Santo, Elle, non ti è chiaro perché ti tremano le mani? La risposta già la sai: perché anche tu lo ami ancora.
Sì, la risposta era convincente. Era la verità e, se con quel messaggio Johnny l’aveva ammesso a se stesso, io con quella chiamata l’avrei ammesso a me stessa. Composi il numero, con il coraggio di un leone e la decisione che non avevo mai avuto prima d’ora. Squillò tre volte e, ad ogni “ttuuu” di attesa, la mia fermezza dimezzava. E se mi avesse riso in faccia? Se mi avesse detto che era troppo tardi perché quel libro e quel messaggio mi erano stati donati in un suo momento di debolezza?
E se si fosse già trovato un’altra strada per essere felice? Tutte quelle mie domande furono lasciate a metà perché quel rumore d’attesa cessò e sentii quasi il calore della sua voce dall’altra parte del telefono.
«Hello?». Deglutii, mi accorsi che le mani mi tremavano più del normale, i miei occhi avevano preso a lacrimare e le farfalle nello stomaco ballavano un strana danza che mi dava la nausea. Sarebbero potuti passare anni ma la sua voce sarebbe rimasta la stessa per sempre e, per sempre, mi avrebbe fatto lo stesso effetto.
«Chi è?», insistette pazientemente. Anch’io avevo cambiato numero di telefono, non mi sorpresi del fatto che non mi riconobbe. Cercai di capire dalla sua voce se era felice: magari avrei potuto fare a meno di rovinargli il fine settimana. «Perché non parli?», continuò stavolta meno calmo. Il fatto è che in quel momento avrei dato il mio braccio destro per dare voce alle mie emozioni, per ordinare alle mie corde vocali di emettere un suono. Anche dall’altra parte si sentì silenzio tombale e mi chiesi se avesse riattaccato. Non riuscì a sopportare quell’enorme peso e decisi che sarebbe stato meglio uscire per sempre dalla sua vita,di non intromettermi più e che ad essere felici ci sta un giorno o forse due ma che la vita ti ricambia il favore,facendoti provare il doppio di quello che hai provato. Io non meritavo di esser felice.
«Sei tu?». Mi immobilizzai di colpo, strabuzzando gli occhi e rimasi senza fiato. Il suo tono di voce era cambiato improvvisamente diventando all’improvviso più rauco, quasi sofferente. «Ti prego, dimmi che sei tu», aggiunse sospirando. In quel momento quel “tu” poteva essere chiunque: c’era anche il rischio che, dopo aver parlato, lui mi dicesse ironico che non era me che desiderava sentire. Ma c’era qualcosa nella sua voce, mi aveva parlato con quel tono confidenziale che sentivo avesse solo con me e nessun altro che quasi non avevo dubbi che avesse capito che ero io.
«Potrei essere chiunque», dissi infine in un sussurro, torcendomi tra le mani il laccio della mia tuta.
«Ma sei tu», disse quasi sollevato e lo immaginai anche sorridere e per la prima volta sorrisi anch’io.
«Ho trovato il numero su quel biglietto…perché lo hai fatto? »
«Perché speravo che mi chiamassi»
«La speranza è l’ultima a morire», dissi accennando una risatina e dall’altra parte sentii un mormorio consapevole.
«E tu, perché mi hai richiamato? Non ci speravo quasi più»
«L’ho letto solo ora», mi affrettai a dire, come se mi sentissi colpevole, come se ci tenessi a non passare per quella che l’aveva ignorato o era stata troppo indaffarata o codarda da non chiamarlo.
«Sono ancora in tempo per chiederti di vederci?», mi chiese infine, dopo qualche istante di silenzio daambedue le parti. Non risposi. «Voglio solo parlarti»
«Dove?»
«Sulla “x” che abbiamo dipinto insieme. Te la ricordi?», mi chiese ancora. Sembrava una domanda retorica e forse lo era, perché ricordavo ogni singolo istante che avevo passato con lui. E, sì, la ricordavo la x della casa sull’albero, giù al lago dell’incantatrice, che segnava il posto in cui avevamo fatto l’amore.
«La ricordo», feci timidamente, senza lasciare quel velo di amarezza. «Tra mezz’ora va bene?»
«Perfetto»
«Ciao». Dovetti controllare il respiro e fare diversi tentativi prima di riuscire a premere il tasto rosso per terminare la chiamata, tanto forte era l’emozione che non mi faceva smettere di tremare e agitarmi.
Sentii il cuore divampare perché avevo la speranza di una seconda possibilità. E non l’avrei sprecata: basta con le paure, con gli interrogativi, con le preoccupazioni inutili. Gli avrei parlato senza quello stupido nodo alla gola e avrei iniziato da me… da noi.
Mi affrettai a vestirmi scegliendo la prima cosa che mi capitasse davanti e cercai di sistemarmi in modo da coprire quelle occhiaie vertiginose che trasmetteva a tutti un ‘’sono un cadavere ambulante’’.
Guardai di sotto, dalla finestra, mia madre occupata ad innaffiare i gerani colorati: da quando eravamo arrivati, ce l’aveva messa tutta per riportare in vita il giardino come due decenni fa.
Ne approfittai per uscire dalla porta sul retro senza che potesse vedermi e mi intrufolai velocemente in macchina.
Per tutto il tragitto verso il lago dell’Incantatrice non riuscivo a non immaginare a cosa gli avrei detto e come mi sarei sentita non appena l’avrei rivisto: solo il pensiero mi faceva morire dall’agitazione.
Sentivo le mani sudate e il sapore del sangue sulla bocca. Chissà come sarebbe stato rivederlo, parlargli, sentire semplicemente il suono della sua voce. Forse sarei rinata da lì a poco.
Mi sentii davvero male quando vidi la sua auto scura già parcheggiata sulla riva e per un fugace istante pensai di scappare. Ma no, avevo un’occasione d’oro che non sarebbe più tornata e mi ero già ripromessa di non scappare di fronte alle difficoltà. Scesi dall’auto e mi guardai attorno: di Johnny non c’era l’ombra.
Avanzai fino ad arrivare ai piedi del grosso albero che sosteneva da anni la casetta di legno e ipotizzai che fosse ad aspettarmi lì sulla nostra X. Forse mi aveva anche già sentito arrivare.
Avanzai fino ad arrivare ai piedi della nostra casetta che un tempo rispecchiava il nostro nido d’amore…
«Johnny?», lo chiamai a gran voce e lui spuntò dalla piccola porta.
«Mmh?». Incrociò il mio sguardo e, manco a dirlo, come sempre mi lasciò senza fiato, senza parole, senza battito. Tutti quei giorni di assenza si azzerarono perché lui non era cambiato nemmeno di una virgola, perché mi guardava ancora così dolcemente come prima, perché mi stava appena sorridendo come se nulla fosse successo.
«Arrivo!» sussurrò con un bellissimo sorriso sincero, scendendo velocemente grazie alla scala. Con un balzo mi fu di fronte e, forse perché eravamo più vicini, anche lui parve rimanere senza fiato per qualche minuto mentre sentivamo l’una il respiro smorzato dell’altro. Smisi di respirare per qualche secondo mentre cercavo qualche probabile cosa da dire.
«Grazie», disse infine, chiudendo le mani in due pugni, continuando a guardarmi come se lo stesse facendo per la prima volta.
«Per cosa?», chiesi confusa.
«Per essere venuta. Per avermi chiamato», fece spallucce, infilando poi le mani in tasca, non sapendo dove mettersele. Di certo, sarebbero state perfette sui miei fianchi o sulle mie spalle, o a sfiorare le mie guance.
«Ho trascorso tutti questi mesi a ripetermi quanto ero stata stupida a costruirmi una realtà che non esisteva: ti ho chiamato per mettere in chiaro tutto ciò che era rimasto in sospeso tra di noi, Johnny».
La mia decisione, la mia convinzione era talmente forte che davvero non avevo groppi alla gola o erano talmente insignificanti che riuscivo a parlare senza respiri mozzati. Tanto l’avevo già perso, restava solo da chiarire. Lui mi fissò confuso ma in parte consapevole.
«Anch’io ho da dirti tante cose», annuì. «Ti ho persa e neanche riuscivo a capire perché, Eleonore, cercavo risposte dentro di me quando in realtà dovevo chiederlo a te», sussurrò deciso e con lo stesso vigore che avevo messo io. Distolse per un attimo lo sguardo e quando li poggiò di nuovo su di me mi sentii improvvisamente nuda, spogliata di me stessa. Quegli occhi erano troppo anche per me. Ci avrei fatto l’amore solo a guardarli.
Serrai le mascelle e sentii le guance accaldarsi alla pronuncia di quel nome, di quella Eleonore che era diventato un mito da sfatare, una persona quasi esistente che si era preso tutto ciò che di buono mi era capitato, aveva incantato Johnny con le sue bugie e l’aveva allontanato da me, da ciò che sono realmente. Si era presa la mia vita e ora toccava a me riprendermela.
«Johnny io non so dove cominciare e ho paura da morire, perché so che qualunque cosa io dica farà male ad entrambi e mi sentirò in colpa per questo. Perché noi, Johnny, ci facciamo del male»
«Allora smettiamola», sussurrò entusiasmato avvicinandosi di più a me, così tanto da togliermi il respiro. «Smettiamola di farci del male perché sappiamo entrambi che ci stiamo infliggendo una punizione».
Sentii un peso al cuore e per la prima volta mi sentii veramente felice, anche se quel senso di felicità non sarebbe durata a lungo solo perché semplicemente non lo meritavo. Johnny si avvicinò a me, accarezzandomi, e quel tocco mi riportò al passato, al giorno in cui mi ero denudata dei miei pensieri e ci eravamo concessi l’una all’altra, a quel bellissimo giorno che ancora oggi mi faceva emozionare al solo pensiero.
Johnny era una delle mie emozioni preferite.
«Non c’è bisogno che ti dica che la mia vita senza di te non ha senso, no?», aggiunse, avvolgendomi i fianchi e facendomi sussultare anche il cuore. I nostri visi era vicini e riuscì perfino a sentire il suo respiro accelerato e il suo cuore martellargli nel petto. Chiusi gli occhi quando avvertì le sue labbra sulle mie e d’istinto portai una mano sui suoi capelli, mentre assaggiavo il sapore delle sue labbra e mi inebriavo del suo odore che al solo pensiero mi faceva girare la testa. Non potevo farlo…
«Non posso…», sussurrai distogliendomi dal nostro momento magico. Strizzò gli occhi per poi spalancarli incredulo.
«Perché no?!», cercai di allontanarmi e mi distolsi dal suo abbraccio anche se avrei preferito stare per sempre in quelle braccia… ma era come tradirlo.
«Ci sono troppe cose che ti ho tenute segrete Joh e una non posso più tenerla dentro», sussurrai a capo chino mentre lui si avvicinava ancora e ancora. Non ce la facevo a sopportare quel peso.
Mi si piazzò davanti come un attimo prima, prendendomi la testa con entrambi le mani, guardandomi fisso negli occhi e incatenandomi nel suo sguardo infuocato.
«Allora dillo!»
«Io… beh io… sono…»
«…sei?»
«Incinta… sono incinta, Johnny!». Sgranò gli occhi e sbiancò di colpo come se fosse appena morto. Lo vidi trattenere il fiato e mi sembrò quasi che avesse smesso di respirare. Il suo sguardo si posò per la prima volta sul mio piccolo rigonfiamento al quale non aveva fatto caso prima ed io socchiusi gli occhi quando si allontanò da me senza abbandonare quella espressione di frustrazione e avvilimento.
Il peso di quel fardello stava iniziando a scomparire, permettendomi di respirare di nuovo liberamente, ma nel frattempo venivo oppressa da qualcos’altro.
Il volto di Johnny fu un misto di emozioni, un po’ come l’esplosione di tutti i colori di fuochi d’artificio. Mi guardava ad occhi sbarrati e con la bocca socchiusa come se stesse cercando di parlare ma dalla sua bocca fuoriusciva solo aria e leggevo nel suo sguardo come quegli attimi gli stavano passando dinanzi a gli occhi.
«Non ci credo», rise isterico, scuotendo il capo più volte, mettendosi le mani in testa in modo disperato.
«Non so cosa dire», sussurrai, evitando il suo sguardo mentre trattenevo le lacrime. «So solo che non desidero altro che stringerlo tra le braccia e amarlo»
«Ma è di Matt, vero?», sussurrò gelido, guardando indignato quel piccolo rigonfiamento che faceva capolino nel mio ventre. Mi strinsi nelle spalle, accarezzandomi l’addome, fiera di quello che portavo dentro.
«Sì. Ma lui non vuole saperne niente». Rimase qualche minuto in silenzio, senza il coraggio di guardarmi negli occhi.
«Sei innamorata di lui?»
«Non ho mai amato nessuno come amo te», confessai, trovando il coraggio di alzare la testa per poterlo guardare. Annuì pensieroso, facendo scivolare lo sguardo sulla distesa d’acqua avanti a noi.
«Voglio stare con te», disse infine, allungando una mano tremante verso di me. La bloccai a mezz’aria prima che potesse sfiorarmi.
«Non potremo comunque», mormorai, accarezzando la sua mano.
«Perché no?», domandò turbato. «Per me è tutto così strano, ci metterò un po’ ma mi ci abituerò, se tu avrai un po’ di pazienza… Accetterò il fatto che la donna che amo aspetta un bambino, imparerò a volergli bene», disse deciso. Mi staccai da lui spingendo una mano contro il suo petto, scuotendo il capo mentre tentavo di asciugarmi le lacrime che erano tornate a scendere.
«Non ti ho ancora detto tutto, Joh»
«Coraggio, è la volta buona di dirmi tutto», sussurrò, guardandomi negli occhi. Dio, quanto avrei voluto non essere malata, non avere così tanti problemi: a quest’ora avrei potuto tranquillamente annunciare al mondo che Johnny ed io eravamo tornati insieme, visto che aveva accettato il fatto che aspettavo un bambino da un altro.
Ma invece c’era quel muro insormontabile, che non aveva mai una fine, che era alto quanto le proprie ambizioni, un muro di quelli che ti viene il torcicollo a tenere la testa piegata per guardarlo davanti a te.
«Sono malata di leucemia», dissi con un filo di voce, nella speranza che non mi sentisse.
Johnny aveva anche smesso di asciugarmi le lacrime, perché ora a stento riusciva a trattenere le sue.
Forse ero stata cattiva a dirgli tutto d’un fiato, tante cose nello stesso giorno, credendolo tanto forte da poter sopportare tutto quello che io avevo impiegato mesi ad accettare.
«Dimmi che non fai sul serio», sussurrò, afferrandomi per i polsi fino a farmi male. Non risposi, abbassando il capo. «Dimmelo, Eleonore!», urlò, scuotendomi le spalle prima di stringermi con forza al suo petto e iniziare a piangere.
Era la prima volta che vedevo Johnny piangere, se escludiamo quella volta a sei anni in cui lo vidi con gli occhi lucidi per un motivo che non avevo avuto il coraggio di chiedergli. Stavolta però era diverso: sentivo le sue lacrime calde bagnarmi i capelli e alcune scivolavano anche sulla mia pelle, le sentivo che mozzavano il suo respiro, che gli impedivano di parlare, che gli facevano male quanto a me.
«Non è una cosa grave, guarirai», lo sentivo sussurrare mentre la sua presa si faceva sempre più forte. Se era una domanda o un’affermazione non seppi dirlo ma ipotizzai che stava solo cercando di rassicurare se stesso. «Perché non me lo hai detto prima? Perché mi hai impedito di starti accanto?»
«Devo andare, Joh», sospirai, facendomi coraggio, mandando giù la saliva amara.
«Non ti lascio»
«Devi». Al mio tono di voce deciso, si staccò da me per guardarmi negli occhi. I suoi erano arrossati ed umidi, probabilmente come i miei, la sua bocca tirata in una smorfia.
«E dove vorresti andare?»
«Via da te. Il più lontano possibile». Indietreggiai, volgendo lo sguardo alla casetta sull’albero che avevamo ridipinto insieme tempo fa.
Dovevo lasciarlo andare, lo facevo per il suo bene. Non sapevo quanto mi rimaneva da vivere e non potevo rovinare la sua vita. Se lo amavo davvero,dovevo lasciarlo andare… per sempre.
«No…», sussurrò avvicinando prepotentemente ma lo rifiutai.
«Io sono questa. Aspetto un bambino da un altro. Avrò si e no un altro anno di vita. Mi è sempre mancata una figura paterna e per questo non so se sarò in grado di essere una buona madre. Sono incasinata, Johnny, e questa vita non fa per te. Non posso cambiare le cose!», esclamai amara, ripetendo a voce alta di nuovo quei pensieri, ripetendolo con più convinzione a me stessa che ancora faticavo ad accettarlo. «Ma non ti chiedo di cambiare niente, Eleonore! Non m’interessa quanto sarà difficile, ce la caveremo», ribatté testardo, con la voce rotta dall’angoscia. Mi ritirai le mani e, guardandolo, feci un altro passo indietro.
«Sono problemi miei, non tuoi». Incrociai il suo sguardo carico di apprensione e di dolore. Forse era stato uno sbaglio richiamarlo e sconvolgere ogni sua speranza di vivere felicemente il resto della sua vita. «Un giorno Johnny incontrerai qualcuna meno incasinata di me e ti farà ritornare vivo. Ti farà paura ma sarà più bello che mai».
Mi sforzai di sorridere ma con scarsi risultati e quando gli diedi le spalle per allontanarmi da lui stavo già piangendo di nuovo. Corsi più velocemente che potevo, misi in moto e andai via, lasciandolo da solo immobile in mezzo al prato, con le braccia lungo i fianchi, gli occhi arrossati e il cuore a pezzi. Una parte di me se ne stava andando per sempre, un pezzo della mia vita l’avevo appena regalato a lui e ora cercavo un rifugio, una via di scampo.
Era stato un gesto masochista andare da lui per lasciarlo di nuovo, mi ero soltanto procurato un nuovo dolore e altrettanto ne avevo causato a lui ma almeno ora potevo dire che tra me e Johnny era finita, che il destino non ci aveva voluto assieme, che le difficoltà erano troppe.
Ora non c’era più niente in sospeso, ero sicura di averlo perso definitivamente quel pezzo di cuore riservato solo a lui.


Dopo millemila secoli siamo tornate! (?)
Tra l'estate, le vacanze e compagnia bella non abbiamo avuto modo di pubblicare più presto e quindi ci auguriamo che questo capitolo sia un po' il pegno della nostra assenza e che sia bastato per scusarci :3
Elle si è tolta il sassolino dalla scarpa, anzi, direi un paio: oltre ad aver fatto finalmente pace con Sarah, ha trovato il coraggio di raccontare la verità sul suo conto e poi di amarlo a tal punto da lasciarlo andare.
Come si metteranno le cose per lei? E Johnny sarà disposto a lasciarla andare, sapendola in quelle condizioni?
Contiamo di aggiornare presto, baci!
A&P <3

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Capitolo 17
*** Capitolo 15 ***


Ovviamente per scusarci dei nostri ritardi vi pubblichiamo un capitolo bello lungo u.u
Questo perché ci sono tanti pov: la storia stavolta non è narrata solo dal punto di vista di Elle!
Ci sentiamo più sotto, buona lettura!!


«Il bambino sembra star bene, per ora». Il modo in cui il dottor Hans pronunciò quel “per ora” mi fece rabbrividire. Lo seguii con lo sguardo mentre appuntava qualcosa da spillare alla cartellina dell’ecografia e sospirai preoccupata, alzandomi dal lettino per rivestirmi.
«Cosa fai!», esclamò lui allarmato, facendomi sussultare. «Non vuoi sapere il sesso del bambino?», aggiunse con dolcezza sedendosi sul lettino accanto a me.
Rimasi inchiodata sul lettino con il fiato corto e gli occhi sbarrati. Sapere il sesso del bambino? Potevo già sapere se fosse stato un lui o una lei e fantasticare sul suo nome?
Annuii freneticamente mentre lui mi mostrava il ritratto di mio figlio, o di mia figlia.
«È una bellissima femminuccia», disse accarezzandomi il dorso della mano. Gli occhi si velarono di lacrime e mi parve di sentirla, lì dentro, la mia bambina che voleva dirmi qualcosa. L’emozione non mi permise di aprir bocca, presa com’ero dal mio sogno di dipingere le pareti di rosa e di fiorellini colorati.
«Hai già in mente un nome?». Scossi il capo. «Ci sarà tempo per deciderne uno», aggiunse ridendo della mia espressione scombussolata. Si alzò dal lettino per tornare alla scrivania ed io, dietro di lui, gli osservavo le larghe spalle.
«Dirà anche questo a Matt?», mugolai in un sussurro. Vidi la sua schiena irrigidirsi.
«Eh?», farfugliò confuso, volandosi verso di me con l’espressione terrorizzata in volto.
«Mi deve pur lasciare la soddisfazione di dirglielo personalmente, no?», lo stuzzicai senza rabbia. Lui abbassò il capo come se fosse stato colto con la mano nel sacco e i suoi occhi chiari mi chiesero scusa.
«Lo so che sei tutelata dalla legge che prevede la privacy del paziente, Elle. E mi dispiace. Ma ho sentito la tua storia, ho conosciuto Matt e non ho saputo dirgli di no…», confessò, venendomi vicino per stringermi le mani.
«Avrebbe dovuto dirmelo», lo rimproverai guardandolo torva.
«L’avrei fatto», ribatté. Feci scorrere lo sguardo sulle pareti con un sospiro a dirgli “ok, non fa niente”. Saltai giù dal lettino con un piccolo balzo per infilarmi di nuovo la mia maglia e lui per discrezione si voltò, anche se fino a quel momento mi aveva visitato senza quell’indumento.
«Wendy. Matt qualche giorno fa mi disse che se fosse stata femmina gli sarebbe piaciuto chiamarla Wendy», disse infine, come se fino a quel momento quelle parole gli pesassero sul cuore e sulla coscienza, impedendogli di respirare. Rimasi con il fiato sospeso mentre fissavo nuovamente la sua schiena: oggi il caro Gregor non aveva voglia di dirmi le cose in faccia.
«Perché con me non parla?», dissi infine, accasciandomi sulla sedia e iniziando a singhiozzare. Le braccia del dottore furono rapide a stringermi in un confortevole abbraccio.
«Dovete chiarire tutto, Elle. Tu lo ami, lui ama te e anche la bambina. Rimane solo un ultimo passo da fare», mi sussurrò. Mi tirai su con il naso, staccandomi dal suo viso per poterlo guardare.
«Se non vado io da lui, non verrà mai da me?»
«Questo non lo so, cara». Tirò un sospiro, allontanandosi definitivamente da me. Mi alzai dalla sedia, afferrai la borsa e la cartellina con le nuove ecografie.
«Grazie, dottore», sorrisi, aprendo la porta dell’ambulatorio.
«Ci vediamo il mese prossimo, come sempre», mi fece l’occhiolino.
Mi infilai in macchina e presi la strada che portava alla periferia di Owensboro, rimandando a domani tutti i miei impegni.
Mi sorpresi di come la mia mente avesse alcuni particolari: non ricordavo che la casa di zio Sam fosse così lontana dalla mia, di quanta terra da coltivare ci fosse lì intorno ad avvolgerla facendola sembrare quasi una macchia d’inchiostro scuro su una pagina candida. L’asfalto a terra non c’era mai stato e ancora oggi la polvere mista ai sassolini contribuivano a rendere quel posto molto polveroso, dandomi l’impressione di essere nel Far West. Alla mia sinistra c’era un grosso capanno che di sicuro veniva usato per gli attrezzi mentre davanti c’era la casa del vecchio Sam e di Matt.  
Mi avvicinai cautamente, guardandomi intorno, sbirciando all’interno delle finestre nella speranza di scovare dentro la chioma bionda di Matt.
Ancora non potevo spiegare cosa mi avesse spinta a inoltrarmi in questo lato della città per parlare con lui: evidentemente ero solo stufa di vivere la situazione con questo peso sullo stomaco.
Bussai due volte con le nocche del pugno chiuso e restai in attesa: dall’interno sembrò non esserci essere vivente e infatti nessuno venne ad aprirmi. Sentivo però un fischiettio provenire dal grosso capanno degli attrezzi e con il cuore in gola mi avvicinai alla porta.
Matt era lì che mi dava le spalle, accovacciato davanti alla macchina, intento al lucidare il logo di fabbrica sul davanti.
«Posso?», sussurrai titubante e lui scattò in piedi come una molla,forse per lo spavento, voltandosi. Restò spiazzato, fissandomi per diversi istanti con l’espressione sorpresa e smarrita in volto, poi tossì per schiarirsi la gola e si ripulì le mani già pulite con un canovaccio sporco.
«Certo», mugolò. Ricambiai con un sorriso forzato mentre tutta la convinzione con la quale ero venuta fin qui era sparita in un istante con un “puff” con tanto di nuvoletta di polvere magica.
Ora cosa avrei detto a Matt? Mi avrebbe chiesto il motivo della mia visita ed io non avrei saputo rispondere.
Iniziai a guardarmi intorno e rimasi come in attesa che succedesse qualcosa: probabilmente speravo solo che fosse Matt a parlare per primo.
«Andiamo fuori?», mi chiese.
«Sì», mormorai, alzandomi lentamente e seguendolo fino alla veranda. Matt camminò ancora, forse per guadagnare qualche briciola di tempo e riordinare i suoi pensieri, poi si voltò e mi indicò una panchina. Obbedii, sedendomi e aspettando che anche lui facesse lo stesso.
«Non mi aspettavo di trovarti qua», disse infine, poggiando i gomiti sulle ginocchia e fissando dinanzi a sé. Mi sfregai le mani per il nervosismo, intrecciandole e contorcendole più volte.
«Neanch’io avevo previsto di venirci», mormorai.
«E allora…?»
«Potresti fingere di essere almeno un po’ felice di vedermi», scherzai, sorridendo amaramente.
«È che sono sorpreso… ma anche felice», sorrise, prima di afferrare di scatto la mia mano. Incrociai il suo sguardo nuovamente, avvertendo una stretta allo stomaco.
Avevo voglia di chiarire tutto e sentirmi di nuovo protetta e amata tra le sue braccia.
Dovevo dirgli che sapevo tutto delle sue “chiacchierate” con il dottore, che il figlio che aspettavo era una femmina, che “Wendy” faceva schifo come nome.
Avere Matt a qualche centimetro di distanza mi fece uno strano effetto e mi continuavo a domandare se quello era ciò che volevo realmente, se era giusto per me e per il cammino che volevo intraprendere.
L’unica cosa certa che sapevo era che mi sembrava la cosa più giusta da fare per la piccola creatura che portavo in grembo.  
Lei
aveva tutto il diritto di avere quel padre che io non avevo avuto: non avrei mai permesso che la mia bambina non avesse l’affetto di suo padre, non avevo nessun diritto di toglierle un bene così grande.
«Allora, come va… intendo… beh, la gravidanza?». Matt trasudava tensione da tutti pori, soprattutto dal modo in cui mi parlava. Sapevo riconoscere le sue debolezze, il modo in cui non riusciva a guardarmi negli occhi quando era sotto tensione e potevo dire che non era cambiato affatto da quando l’avevo conosciuto: era rimasto solo un ragazzino impaurito dall’idea di rinnegare quel bambino che era in lui, terrorizzato da tutte le cose che sarebbero cambiate con la nascita della nostra bambina.
Tossicchiò un paio di volte, intento a schiarirsi la voce mentre cercai di tranquillizzarmi e trovare le parole giuste anche se dentro di me sentivo l’agitazione divenire sempre più forte. Gli sorrisi dolcemente.
«Beh… oggi sono andata dal dottore e sembrerebbe tutto a posto e… Matt… non puoi nemmeno immaginare quanto sia felice! Non vedo l’ora di tenere tra le braccia la nostra bambina», confessai in un sussurro. Sgranò gli occhi per la sorpresa e mi prese le mani, racchiudendosele nelle sue calde e ruvide.
«Hai detto la nostra bambina?», sussurrò con un tono di voce che divenne sempre più flebile fino a diventare un soffio alla parola “bambina”. Sorrisi e bisbigliai qualcosa simile ad un “si” che fece scattare in lui una scintilla e il suo viso divenne un misto di emozioni che fecero commuovere anche me. Mi sentii gli occhi bruciare e avvampai di colpo al solo pensiero della mia bambina. Era la cosa più bella che mi potesse capitare nella vita, anche se per un attimo mi avvolse la paura di non poterle stare accanto per sempre. Troppe emozioni in un solo giorno che mi provocarono un agitazione e uno svuotamento totale.
Matt mi prese dalle spalle, avvolgendomi in un abbraccio soffocante come a volermi togliere l’aria dai polmoni.
«Mi dispiace così tanto, Elle. Mi dispiace di essermi comportato come un codardo ed essere andato via, lasciandoti da sola a combattere questa battaglia quando invece dovevo rimanere al tuo fianco e combatterla insieme. Ti prometto che non ti lascerò mai più andare: saremo per sempre noi tre … io, tu e la bambina! Saremo una famiglia, una vera… famiglia. La chiameremo Wendy e ce ne andremo per sempre da questa città e lasceremo tutto alle spalle, specialmente i ricordi…». Le sue parole furono piacevoli ma mi sentii soffocare davvero in quell’abbraccio o forse mi sentii soffocare da quelle parole che portavano ad un futuro lontano dalle persone che amavo e come se non bastasse avvertii la bambina fare come una piccola capriola dentro di me o almeno era quella la sensazione di… vuoto.
Cercai di divincolarmi da Matt che sembrava non volermi proprio lasciare andare dalla sua presa ferrea.
«Matt!», sussurrai con un filo di voce strozzato mentre cercavo di allontanarmi. Sentivo che qualcosa non andava, mi sentivo… strana, come se qualcosa fosse cambiato. Non a causa di Matt e del suo abbraccio ma sentivo che qualcosa non era più al suo posto.
Matt si distolse da me, guardandomi allarmato, mentre mi mettevo le mani sul rigonfiamento del mio stomaco, cercando disperatamente di risentire qualche movimento della piccola. Non avevo mai avvertito un movimento così brusco e… e se fosse successo qualcosa?
Come un fulmine al ciel sereno, sentii una dolorosa fitta allo stomaco, un bruciare come se stessi andando completamente a fuoco. Il mio viso si mutò in un espressione di dolore e soffocai un urlo, cercando di reprimere quel senso di squarciamento che stavo avvertendo dentro di me. Mi piegai dal dolore, tenendo le mani ferme sull’addome, boccheggiando. Che cosa mi stava succedendo?
«Elle, cos’hai?! Elle …». Sentii la voce di Matt farsi persistente ed entrarmi della testa quasi fino a scoppiare ma non riuscii a muovermi, incapace anche di piangere per l’enorme dolore.
Stavo per partorire? No, era impossibile, mancavano mesi interi prima che arrivasse quel giorno.
Questo era anche peggio che partorire! Allora c’era qualcosa che stava prendendo una brutta piega.
«Fa male… fa male Matt!», piagnucolai, accovacciata su me stessa, premendo sempre di più sull’addome. Matt Si alzò dalla panchina di scatto, cercando goffamente di aiutarmi non avendo capito cosa esattamente facesse “male”.
«Che posso fare?! Non ne so nulla!», disse allarmato, attraversato da un attimo di panico. Alzai lo sguardo quel poco da potermi specchiare nei suoi occhi.
«Non voglio perdere la bambina», soffiai serrando le mascelle contratte dal dolore e guardando i suoi occhi farsi grandi e sconvolgersi.
«Oddio! Oddio! Ti porto in ospedale», concluse infine dopo essersi guardato intorno come in cerca di qualche miracolo. Mi afferrò saldamente per le gambe mentre mi tratteneva con l’altra mano dietro la schiena ed io mi aggrappai al suo collo con forza mentre cercavo disperatamente di respirare. Matt ricercava da lontano l’auto che aveva parcheggiato davanti casa mentre io pregavo Dio che mia figlia stesse bene.

Pov Sarah
 
Firmai l’ultimo documento che mi era rimasta da compilare e mi stiracchiai pigramente sulla sedia, guardando l’orologio che indicava chiaramente le sei e mezza del pomeriggio.
Un’altra ora e mezza. Perfetto. Mi sentivo già sfinita mentre fuori c’era una lunga coda di clienti che attendeva solo me.
Sentii la squillante suoneria del mio telefono e maledissi il giorno in cui avevo messo quell’assordante ronzio che osavano chiamare “canzone”: l’unica cosa che faceva era solo un gran rumore. Mi alzai controvoglia, dirigendomi verso la borsa e rovistando al suo interno per trovare il telefonino.
«Sono Sarah! Chi parla?». Dall’altra parte del telefono sentii delle urla confuse, dei respiri affannati, rumore di motori e di macchinari vari. Distinsi il fiume in piena di Matt: ultimamente ci sentivamo spesso per parlare di Elle, quindi avevo imparato a riconoscerne la voce. Ed ora sembrava molto preoccupato. «Matt! Matt, calmati, non riesco a capire ciò che dici se parli alla velocità della luce!». Era strano che Matt mi chiamasse al cellulare a quest’ora, solitamente si precipitava dopo l’orario di lavoro per discutere o quantomeno sfogarsi e blaterare su quanto amasse ancora Elle. Ma quella volta era diverso, stava succedendo qualcosa.
«Sarah! Elle ha avuto un malore e siamo in ospedale! Ti prego, raggiungimi, perché la stanno visitando e non so cosa pensare! Si tratta della bambina… ».
Mi sentii morire nel momento in cui collegai le sue parole nella combinazione “Elle – ospedale – bambina”.
«Arrivo». Presi frettolosamente llòpresi borsa e giacca, uscendo dal mio studio, trovandomi davanti  i miei pazienti la mia segretaria che mi guardarono sorpresi.
«Chiudi lo studio e sposta tutti gli appuntamenti! Devo scappare», urlai, cominciando a correre disperata verso la strada senza permettere alla mia segretaria di dire qualsiasi cosa. Scesi sulla strada con il cellulare incastrato tra la spalla e l’orecchio, cercando di capire da Matt cosa realmente fosse successo ad Elle e nell’altra mano le chiavi della macchina, muovendomi a passo svelto nel parcheggio e facendo scivolare lo sguardo sulle vetture in cerca della mia.
«Sicuramente si tratta della bambina, muoviti, Sarah!»
«Matt, calmati, diamine! Sto arrivando!», sbraitai, attaccandogli il cellulare in faccia nell’esatto momento in cui raggiunsi la mia auto. Misi in modo e le gomme slittarono sull’asfalto prima di mettermi in carreggiata.
Bussai il clacson un paio di volte al camion che stava tentando di imboccare la prima traversa, beccandomi il suo dito medio che ricambiai con un “vaffanculo” mentre sentivo il cuore salirmi in gola.
No, non doveva succedere, non ad Elle. Non nelle sue condizioni: non meritava tutto questo, se avesse perso la bambina sarebbe morta dal dolore e aveva già avuto troppe delusioni nell’ultimo periodo. Aveva impiegato mesi prima di accettare il fatto che fosse malata e incinta e non avrebbe retto al dolore di perdere l’unica cosa che le aveva fatto mettere in gioco se stessa. Elle per quel bambino si era messa contro tutti e non avrebbe retto a un  dolore così profondo.
Venti minuti arrivai in ospedale con il cuore che mi martellava nel petto come se avessi fatto tutta la strada a piedi. Mi asciugai una goccia di sudore dovuta alla corsa che avevo fatto dal parcheggio all’edificio e piombai fino alla reception, saltando la coda di gente dicendo “è urgente!”.
«Mi serve un’informazione. Un quarto d’ora fa è stata portata qui una ragazza assieme ad un uomo: è stata visitata di urgenza», dissi ad un fiato, osservando speranzosa il volto abbronzato della donna di mezz’età che, con estrema calma, controllava sullo schermo del computer se quello che le avevo appena detto fosse vero.
«Sarah!». Mi voltai di scatto, vedendo la figura di Matt corrermi incontro.
«Matt!». Gli andai vicino e incrociai il suo volto sbiancato per lo spavento, gli occhi sbarrati per l’agitazione e una brutta smorfia sul viso. «Dov’è Elle? Devo vederla! E poi devo parlare con i medici!»
«Stanno facendo gli ultimi controlli. Ti porto nella sua stanza». Lo seguii frettolosamente per i lunghi corridoi dell’ospedale e arrivammo alla stanza: neanche il tempo di aprire quella porta che uscì un omone alto due spanne più di me, dai capelli neri come il carbone e un camice bianco a dargli l’aria intellettuale. Feci segno a Matt che entrò nella stanza senza batter ciglio, mentre io mi avvicinai a quell’uomo.
«Mi scusi?», mugolai avvicinandomi al dottore che non mi degnò nemmeno di uno sguardo. « E’ lei il dottore che ha visitato la ragazza?»
 «Sì», rispose freddo e pacato come se stesse fosse un robot. Ecco perché avevo deciso di aprirmi uno studio tutto mio e non venire a lavorare in un ospedale: una volta che si entra in un ambiente freddo e chiuso si diviene perfettamente così! Senza sentimenti, senza alcuna emozione.
«E cos’ha avuto? Sta bene?», sussurrai speranzosa. Lui mi scrutò da cima a fondo e scosse il capo senza esitazione.
«Non posso dirle niente, mi dispiace», borbottò.
«La prego», implorai posandogli le mani sulle sue, guardandolo come un cucciolo bastonato.
«Devo conservare la privacy dei miei pazienti»
«Ma ho il consenso del paziente, sono una sua amica!», mi affrettai a dire mentre infilavo una mano dentro una borsa. «E sono anche un medico», aggiunsi mettendogli davanti il mio documento e una serie di scartoffie che testimoniavano la mia carriera medica. Lui la scrutò e sospirò.
«Voglio sapere cos’è successo alla mia amica», dissi infine con tono che non ammetteva repliche. L’uomo fece scorrere i suoi occhi azzurri davanti a noi, poi mi fece cenno col capo di seguirlo. Lo osservai mentre, arrivati nell’atrio, inseriva delle monete in uno dei distributori e pigiava un pulsante.
«Posso offrirle un caffè?», mi chiese cortese. Scossi il capo impaziente e lui mi diede le spalle, aspettando che il caffè fosse pronto, poi si avvicinò alla finestra che dava sul parcheggio e mi fece cenno di avvicinarmi a lui.
«Sapevate del suo stato gravido, non è vero?»
«Sì, certo»
«E della sua condizione…?». Annuii ancora e lui mi guardò sorpreso e smarrito allo stesso tempo e tossì imbarazzato, sorseggiando il liquido scuro. Fece una smorfia e allontanò il bicchiere dalla bocca.
«Ho dimenticato lo zucchero!», esclamò sconfortato, correndo a rimediare al suo errore.
Io gli chiedevo se la mia amica avesse perso il bambino e lui pensava allo zucchero nel caffè: datemi un motivo per restare calma e non fare omicidi.
«Allora?», lo incalzai, inarcando un sopracciglio
«La signora ha avuto un distaccamento di tre millimetri nella parte facciale della placenta. Questo può accadere specialmente ad una donna che prende farmaci controindicativi per il feto… ‘’collega’’», fece lui con l’aria di chi sapeva veramente tutto e perfettamente, prendendomi anche in giro per il modo in cui aveva virgolettato “collega”. Alzai un sopracciglio.
«I farmaci che prende non sono affatto controindicativi per il bambino collega, piuttosto servono per arrestare la malattia in modo che non vada avanti»
«Ma mi faccia il favore, signora!», sbottò presuntuosamente. Strinsi i pugni per resistere all’impulso di piantargli un bel cinque sulla guancia, seguendo con lo sguardo i suoi gesti lenti in attesa che continuasse. «Non esiste una vera e propria cura che non faccia male al bambino ed è colpa della signorina lì dentro. Mi spiego meglio: le medicine che sta prendendo sono una specie di chemio che prosciugano energie… ci metta tantissime emozioni in una sola volta e la sua amica è diventata una bomba ad orologeria! Una routine così sfiancante non è indicata ad una gravidanza, per cui dovrà rimanere sotto controllo per qualche giorno perché c’è il rischio di un emorragia interna o di un aborto spontaneo».
Mi sentii morire dopo aver ascoltato le parole spregevoli che erano uscite dalla sua bocca e scongiurai si trattasse solo di un brutto sogno.
«E’ tutto?», chiesi con un filino di voce strozzato dalle lacrime, sentendomi colpevole io stessa per il male che avevo procurato ad Elle e al suo bambino.
«La sua amica potrebbe lasciarci da un momento all’altro: le sue condizioni non sono certamente ottimali. Non doveva iniziare questo percorso di vita, è stata una cosa avventata ed egoista», se ne uscì lui. Alzai lo guardo per fulminarlo, vedendo la sua immagine sfocata a causa delle lacrime che mi velavano gli occhi e stavolta le mani non riuscii a trattenerle: uno schiaffo sonoro gli arrivò giusto in faccia.
«Il suo lavoro è curare i malati, non di giudicarli», ringhiai puntandogli un dito contro. I suoi occhi chiari quasi quanto quelli di Matt mi guardarono spaesati e sorpresi da quel gesto, ma dovette riconoscere di aver sbagliato perché non disse una parola e se ne andò nella stessa maniera in cui era apparso, lasciandomi sola in quel corridoio che mi sembrò così vuoto.  
 
Pov Elle
 
Dopo che il dottore mi aveva lasciato con un ago conficcato nel braccio e degli antinfiammatori nella flebo, potevo dire che l’enorme dolore che avevo avuto era diminuito anche se mi sentivo estremamente debole. Non avevo ancora sentito la mia piccola bambina muoversi e per di più non sapevo il perché del mio malessere e la cosa che mi faceva stare in pena era il pensiero di perderla. Non potevo, non potevo perdere la mia bambina. Non avrei resistito ad un dolore così grande, perché quella piccola bambina era l’unica cosa che mi restava: non avrei saputo che farne della mia vita senza di lei.
Sentii la porta aprirsi e vidi Matt entrare con una faccia da cane bastonato.
«Ehy…», mi sussurrò accorgendosi che lo stavo guardando.
«Ehy», risposi di rimando, sorridendogli in modo da tranquillizzarlo. Il problema era che non ero tranquilla nemmeno io. Avevo bisogno di sapere, di sapere se la mia piccola ed io stavamo bene.
«Stai meglio?», si avvicinò, sedendosi ai piedi del letto, prendendo le mie mani e attorcigliandosele tra le sue. Guardai quei piccoli gesti che in quel momento mi sembrarono così infinitamente grandi. Matt era li, a due passi da me, talmente preoccupato per la mia vita e per quella della nostra bambina. Forse non era sbagliato ciò che avevo fatto: dire addio a Johnny mi sembrava una cosa talmente irrazionale, non avrei amato mai più come avevo amato lui ma in questo momento credevo che con Matt potesse nascere un altro tipo di amore, un amore profondo, uno di quegli amori che ti fanno guardare negli occhi una persona e pensare “menomale che ci sei”.
«Ora si…», mormorai osservandolo sorridere e avvicinarsi quanto bastava da sfiorare le mie labbra con le sue.
Sentimmo la porta bussare nuovamente e quando si aprì comparve sulla soglia la donna che conoscevo anche meglio di me stessa.
«Sarah!», strillai, cercando di alzarmi e alzai le braccia così da accoglierla in un suo abbraccio.
«Elle», sussurrò, correndo verso di me e stringendomi forte mentre tiravo un sospiro di sollievo. «Sono morta di paura», confessò permettendo che le lacrime uscissero dai suoi occhi chiari. Le sorrisi dolcemente, in segno di ringraziamento: non aveva esitato un attimo ad abbandonare tutto e raggiungermi in ospedale.
«Lo so, ed è stato orribile! Ma hai parlato con i medici? Che cosa mi è successo? Oddio Sarah non voglio che si sia fatta male»
«Allora è una lei», sussurrò dolcemente. Sorrisi entusiasta e con le lacrime agli occhi.
«La chiameremo Wendy», intervenne frettolosamente Matt entusiasta e con gli occhi che gli brillarono dall’emozione.
«Scordatelo», borbottai, disgustata. Wendy mi sembrava il nome di un porcellino!
«Dai, è un nome orribile!», aggiunse Sarah ridendo con me mentre Matt ci guardò deluso e con una faccia da cane bastonato.
Sentii un cellulare squillare e riconobbi la mia suoneria.
«Potresti?», chiesi a Sarah allungando le mani. Lei mi guardò di sbieco e sorrise.
«No no! Ora tu ti riposi e io e Matt usciamo! Tranquilla, rispondo io al cellulare».

Pov  Johnny
 
Fissai il cellulare che stringevo tra le mani con lo sguardo perso nel vuoto e pensieroso.
La chiamo o non la chiamo?
Era passato qualche giorno dopo che mi avesse rivelato tutto e non avevo più avuto la possibilità di parlarle. Non riuscivo minimante ad entrare nell’ottica che fosse malata di una malattia così spaventosa e che non potesse vivere ancora a lungo. Non riuscivo ad immaginarmi un mondo in cui lei non facesse parte.
Mi aveva lasciato andare preferendo un ragazzino. Matt… quanto lo odio quel bastardo! Ne aveva sempre fatto un gioco, una missione per appropriarsi di lei così da averla tutta per sé e l’aveva messa incinta nonostante la malattia.
Ma ormai non si poteva tornare indietro: al massimo potevamo trovare un modo per andare avanti.
Un modo per continuare l’avevo già suggerito a lei, ma alla fine ha preferito rifiutare e continuare a seguire la strada sbagliata che ha scelto di intraprendere con Matt: forse le faceva troppa paura tentare una nuova strada e azzardare un nuovo seguito anche se ero disposto ad accettare il fatto che, tornando con lei, saremmo stati improvvisamente in tre; ero disposto ad accettare il fatto che nella mia famiglia ci sarebbe stato un figlio non mio e avrei fatto di tutto per lei, per vederla felice.
Sbuffai e mi accesi una sigaretta dal pacchetto che avevo in tasca: la chiamo o non la chiamo?
Avrei voluto tanto cancellare il suo numero dalla rubrica e togliermi il dente ma ormai conoscevo il suo numero a memoria e quindi mi toccava torturarmi nel dubbio.
Non la chiamo. Non posso. Lei mi ha chiesto di uscire dalla sua vita.
Io però una vita, senza lei, non ce l’ho più.
Devo riprovarci, devo convincerla.
La chiamo?
Sì, cazzo, la chiamo!

«Pronto?». Una voce squillante mi fece sobbalzare: dopo che ebbe squillato a vuoto per due minuti ci avevo quasi perso la speranza. Ma quella non era la voce di Eleonore, per niente!
«Chi parla?», bofonchiai spiazzato, buttando via il fumo della sigaretta e facendo aria con una mano per far sparire la nuvoletta densa e grigiastra dal mio volto.
«Sono Sarah. Chi è lei?»
«Sono… Johnny, un amico di Eleonore! Lei può parlare?». Si susseguirono svariati minuti di silenzio.
«Eleonore? Oddio… ho capito chi sei!», sussurrò quella donna come se si fosse completamente dimenticata di me e stesse parlando con se stessa.
«Allora posso parlarle?»
«Sei capitato in un brutto momento, Johnny, mi dispiace…», accennò mortificata. Avvertii come un brivido, uno strano presagio che qualcosa di brutto stava accadendo.
«Cosa succede?», le chiesi perplesso e lei restò in silenzio ancora qualche secondo prima di iniziare a parlare.
«El… eonore ha avuto un distaccamento della placenta e si è sentita male. Ora siamo in ospedale, lei sta riposando. Capiscimi se non te la voglio passare, non vorrei darle altre ansie e preoccupazioni …»
«Cosa?!». Balzai in piedi e la sigaretta mi cadde dalle mani, bruciandomi la gamba e sporcandomi il pantalone di cenere. Feci una smorfia di dolore, scrollandomela da dosso, e imprecai nel vedere che si era fatto anche un piccolo buchetto.
«Ora però sta meglio», si affrettò a dire agitata.
«Come si chiama l’ospedale?», tagliai corto frettolosamente mentre iniziavo ad infilarmi le scarpe, tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla.
«Johnny, no, ti prego…»
«Il nome», ribadii insistente. Lei non mi rispose. «Ti prego, Sarah, ho bisogno di vederla», aggiunsi in un sussurro lamentoso. Lei, dopo qualche attimo di riflessione, mi sussurrò l’indirizzo e prima che potesse dire altro staccai la chiamata.
Mi precipitai furiosamente in strada, misi in moto e sfrecciai in direzione dell’ospedale senza badare ai limiti di velocità. Fanculo a tutte le multe del mondo, avrei pagato qualsiasi prezzo per arrivare lì nel giro di cinque minuti.
L’ospedale però era dall’altra parte della città, il traffico non molto scorrevole in alcuni punti e impiegai quasi mezz’ora ad arrivare davanti al bancone della reception.
Okay che odiavo dover sfruttare la mia popolarità, ma in questo caso era proprio necessario: dove dovevo ringraziare solo la mia carriera se ero riuscito ad ottenere il numero della stanza di Eleonore.
Corsi ancora per i corridoi, catturando gli sguardi dei pazienti e dei medici che mi stavano intorno e arrivai alla porta della sua stanza. Con il fiatone rimasi lì, aspettando che riprendessi fiato per poter parlare, mentre iniziavo a ragionare per la prima volta da quando Sarah mi aveva dato la notizia.
Cos’ero diventato? Un pazzo da rinchiudere. Non mi ero neanche preoccupato di cambiarmi il pantalone bucherellato per la bruciatura di sigaretta, né mi ero guardato allo specchio per controllare se fossi presentabile. Al dire il vero, un’ora fa non ero neanche sicuro di volerci parlare con Eleonore, non sapevo che dirle, ed ora mi ritrovavo a farmi la stessa domanda che mi ero già posto: cosa dovevo dirle? Da dove dovevo cominciare?
Mi concentrai sulle voci che provenivano dalla stanza: lei era sveglia, sentivo la sua voce e la cosa mi aveva mandato nel panico ma allo stesso tempo mandato al settimo cielo. C’era soltanto una porta a dividerci.
«Non potevo stare fuori! Dovevo parlarti…», sentii dire da una voce maschile più profonda e ipotizzai dovesse trattarsi di Matt. Un senso di rabbia mi assalì e in quel momento avrei preferito entrare e spaccare la faccia all’uomo che aveva separato le nostre vite con il suo fare infantile. Eleonore non avrebbe mai provato nulla di veramente concreto per lui: lo sapevamo entrambi.
«Allora parla… ti ascolto». Sentire la sua voce mi riportò alla vita. Mi venne d’istinto allungare la mano per aprire la porta ma mi fermai quando risentii la voce di Matt.
«Ci ho riflettuto… io ti amo e sto imparando ad amare anche nostra figlia e non posso vivere senza di te…»
«Matt, così mi fai venire l’ansia!»
«Vuoi sposarmi, Elle?». Mi irrigidii di colpo proprio mentre stringevo la maniglia della porta per spingerla giù, ma nel sentire quella voce e il successivo sussulto di lei i miei muscoli si arrestarono e il mio cervello si disconnesse, impendendomi di muovermi.
Stavo semplicemente aspettando la mia fine: ero lì, immobile, con le orecchie tese in attesa di una risposta da parte di Eleonore e la stavo solo invitando a prendersi gioco di me.
Entra dentro, coglione, fallo finché sei in tempo. Interrompi il discorso, corri verso di lei, stringila e baciala come accade solo nei film. Sbattitene di Matt e di tutto il resto!
«Sì, lo voglio».
Capii in quel momento che nulla era più importante. Mi resi conto di essere di troppo, di essere in più, lì impalato dietro alla porta ad ascoltare la storia della loro vita.
Non ero altro che un semplice spettatore della vita di Eleonore e forse avevo preteso troppo a desiderare di esserne attore protagonista. Restavo soltanto una cornice, non il pittore della sua vita.
Gli occhi mi pizzicarono e le gambe sembrarono voler cedere, come se tutto ad un tratto fosse diventato impossibile sostenere il peso di tutta quell’aria sopra la mia testa. Feci scivolare lentamente la mano tremante dalla maniglia, racimolando quel barlume di lucidità che mi restava.
«Johnny?». Mi voltai e vidi una ragazza dai capelli biondi e gli occhi chiari venirmi incontro in tutta fretta, con addosso una maglia di almeno una taglia più grande e dei jeans chiari.
«Sono Sarah. Elle è qui, vieni», sorrise, poggiando la mano sulla maniglia.
«No», tagliai corto con voce rauca. Indietreggiai di qualche passo, evitando di incrociare il suo sguardo. «Non dirle che sono passato», aggiunsi, prima di voltarmi e andare via a passi grandi e veloci.
Fuori venni investito con violenza da una folata di vento gelido che parve congelare le lacrime che mi scendevano giù senza che avessi ordinato loro di farlo.
L’avevo persa, l’avevo persa per sempre.
 

Ed eccoci qui: vi abbiamo dato un pov Sarah e anche Johnny! Speravate che entrasse in stanza e risolvesse tutto? ehehe, purtroppo siamo cattive v.v
Ci abbiamo messo un sacco di fatica, impegno e tempo per scrivere questo capitolo così come tanti altri e sarebbe davvero carino ricevere qualche parere in più, giusto per sapere se la storia vi sta piacendo, se apprezzate, se vi fa schifo, per avere qualche consiglio... siete scomparse tutte? Perché abbiamo l'impressione che la storia non vi stia piacendo più, quindi non sappiamo se smetterla e cancellare tutto o continuare. Ci serve il vostro supporto!!
Ringraziamo chi invece ci segue assiduamente da sempre, siete fantastiche! <3
Continuiamo a 5 recensioni u.u A presto!!
A&P

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Capitolo 18
*** Capitolo 16 ***


Pov Johnny

«Johnny!», sentii urlare e nel voltarmi vidi Sarah che correva verso di me con l’aria allarmata. Restai immobile e impassibile ad aspettarla mentre con il fiatone mi accostava. Fissò i miei occhi arrossati dalle lacrime e attese qualche secondo per riprendere fiato, poi si sistemò una ciocca bionda di capelli dietro l’orecchio. «Perché sei scappato così?», sussurrò. Serrai le mascelle, infilando la chiave nella portiera per entrare in auto.
«Non avevo motivo di restare», mi limitai a dire con la gola serrata in una morsa che m’impediva anche di parlare. Feci per richiudere la portiera, desiderando solo di andare via da quel posto e immergermi il più possibile nel lavoro che mi aspettava al mio ritorno. Lei però bloccò violentemente la portiera con una mano, riaprendola.
«Ma sei stato tu a voler venire», insistette, senza staccare lo sguardo dal mio viso che invece cercava in tutti i modi di evitare i suoi occhi chiari. Sarah era senza dubbio una bella donna e mi chiesi se fosse come Eleonore l’aveva sempre descritta: una combattiva, un’amica fedele che non si arrende dinanzi a nulla e ti sprona a lottare. «Cosa è successo?».
Fissai il quadrante illuminato dell’auto e sentii le lacrime risalirmi fino agli occhi, tanto che dovetti chiuderli per qualche secondo per ricacciarle. Pensare a tutto quello che mi accadeva soltanto per un capriccio di Matt mi faceva andare in bestia.
«D’accordo», ringhiai, riaprendo gli occhi per fissare i suoi spaventanti mentre uscivo di nuovo dall’auto e sbattevo la portiera. «Lì dentro non c’è più posto per me. Sono di troppo!», esclamai furioso. Sarah indietreggiò di due passi, senza smettere di fissarmi, e il suo volto si contrasse in una smorfia.
«Lo sai che non sei mai stato di troppo per lei», mormorò con tono di voce sottomesso.
«A quanto pare mi sbagliavo. Perché, cazzo, lei aspettava un figlio da un altro, poteva morire e neanche aveva pensato di dirmelo prima!», sbraitai con un dito che indicava ripetutamente l’edificio davanti a me, senza curarmi che il mio tono di voce era così alto da aver attirato l’attenzione di alcuni passanti che si dirigevano verso l’ospedale. Sarah fece vagare il suo sguardo lungo il perimetro del parcheggio come a voler cercare dal cielo un suggerimento su cosa dire.
«La vostra storia era finita, Elle non voleva darti ulteriori preoccupazioni», la difese con impeto,cercando di mantenere il sangue freddo 
«È finita perché lei voleva che finisse», precisai con stizza.
«Ma smettila! Non le sei stato accanto né prima né adesso che sta male, come pretendi che lei creda ancora in te?!», esclamò nervosa, alzando il tono di voce mentre impuntava i piedi a terra. Gli occhi ora pizzicavano, bruciavano, facevano male quelle lacrime salate.
«Accanto a lei ora c’è qualcun altro», feci con voce rotta.
«…qualcun altro che ha trovato un vuoto e quindi ha cercato di riempirlo con la sua presenza. Muovi quel culo e vai nella sua stanza, Johnny», mi minacciò puntandomi un dito contro.
«Adesso c’è Matt», le ricordai ad occhi bassi,ricordando con stizza quell’uomo dai capelli biondi che tanto odiavo e che in questo momento avrei riempito di botte se me lo fossi ritrovato di fronte
«Lo so», mi fece notare con tono più pacato e sobrio di quello che aveva utilizzato un attimo prima ma pur sempre pieno zeppo di emozione.
«Hanno avuto un figlio», aggiunsi.
«Lo so», ripeté con più convinzione.
«Stanno per… sposarsi», dissi infine, chinando il capo per nascondere il viso e impedire che vedesse il dolore che mi attraversava. Prese fiato come se volesse dire per l’ennesima volta “lo so” ma poi si bloccò e sgranò gli occhi.
«Cosa?! Sei pazzo!», esclamò isterica con gli occhi da cucciolo impaurito. I piedi mi facevano male e quindi mi poggiai all’auto,cercando la forza di continuare a parlare.
«Li ho sentiti parlare prima che potessi entrare. Matt le ha chiesto di sposarlo», le spiegai brontolando.
«Forse non hai sentito bene … non hai sentito tutto, sei scappato prima che potessi sentire il rifiuto di Elle», insistette speranzosa, scuotendo il capo come se fosse una cosa talmente assurda che lei e Matt potessero veramente sposarsi.
«Eleonore ha accettato. Saranno loro due e il bambino: io sono di più, capisci?», sussurrai e le mie labbra tremarono violentemente. Me le morsicai, cercando disperatamente una sigaretta nella tasca dei pantaloni come se potesse in qualche modo farmi scordare lei e tutto quello che riguardava noi due.
Sarah era rimasta immobile con lo sguardo perso nel vuoto e l’aria veramente scossa e mi sorpresi anch’io che non avesse saputo niente. Era stata una cosa così improvvisa? Una decisione avventata?
«È una stupida. Sta buttando all’aria la sua vita», sospirò a bassa voce come se stesse parlando con se stessa, facendo una giravolta su se stessa come se fosse stata tentata dall’andare da lei mentre con una mano si toccava la fronte, lasciando che la sua frangia ricadesse di lato e sulle sue dita. Mi godetti la sensazione del fumo che riempiva i miei polmoni e che, in una nuvoletta grigia, celava il mio viso debole alla vista di quella donna senz’altro forte come Eleonore l’aveva descritta.
«Quel ragazzino mi ha portato via tutto», mormorai infine, stringendo la sigaretta e tirando fumo come se quel sottile pezzo di catrame e nicotina fosse Matt. Sarah si voltò, come se l’avessi distratta dai suoi pensieri, e restò a fissarmi come in attesa che continuassi a parlare. «Avevo tutto, Sarah, e l’ho persa per colpa sua», aggiunsi. Sentii la sua mano delicata e piccola poggiarsi su una gamba e i suoi occhi spalancati che cercavano di confortarmi in qualche modo, seppur in modo impacciato.
«L’ho incontrata mentre andavo a lavoro e per un poco non la investivo con la macchina e lei mi  ha da subito preso a cattive parole», feci io e una risatina uscì dalle mie labbra se ricordavo la prima volta in cui il destino ci aveva fatti incontrare, decidendo quello che sarebbe stato di noi per i prossimi mesi. «Ci sono cascato come un ragazzino, non c’era una cosa di lei che non mi piacesse,che non mi attirasse: i suoi occhi, la sua risata, i suoi gesti, il modo in cui arrossiva quando era in imbarazzo, il suo corpo. Mi ha sempre fatto sentire a casa, come se avesse un non so ché di familiare». Sarah mi sorrideva come se stesse ascoltando una bella storia d’amore raccontata davanti ad un caminetto e una cioccolata calda ed io mi chiesi perché le stavo dicendo tutto, perché mi confessavo con la migliore amica della donna colpevole della mia sofferenza. Era come se avessi bisogno di cacciare tutto, di sfogarmi, di liberarmi da quelle sensazioni… come se parlarne bastasse ad anestetizzare per un po’ il dolore.
«Era tutto così dannatamente perfetto! Fin troppo direi, perché da un momento all’altro è arrivato lui. Ha iniziato a portarsi via un pezzo di lei man mano che passavano i giorni: la sua amicizia, il suo tempo, la sua fiducia. E io ho iniziato ad essere terribilmente geloso». I miei pugni si strinsero istintivamente e mi accorsi che la sigaretta era già finita da un pezzo: con uno scatto robotico mi portai la mano alla tasca per cacciarne fuori un’altra e metterla di nuovo tra le labbra.
«Non avevi motivo di esserlo, Elle ti amava più di ogni altra cosa», mi confessò Sarah.
Già. Peccato che in quel momento io non ne ero consapevole.
«Lo so di aver sbagliato. Ma sono fatto così: quando qualcuno mette le mani sulle mie cose, divento una furia». Lanciai un’occhiata alla coppia che si dirigeva verso l’auto parcheggiata accanto alla mia e, assieme a Sarah, li guardammo con insistenza come a voler dire “muoviti ad andare via”.
«E alla fine ci siamo persi. Quando poi la ritrovo, lei mi dice che una cazzo di malattia la sta consumando e che rischia il triplo perché quel deficiente l’ha messa pure incinta», ringhiai, trattenendomi dall’istinto di prendere a pugni la portiera fino a spaccarmi le ossa. Sarah sospirò e la sua mano andò a finire sulla mia, che stava già cercando un’altra sigaretta da rimpiazzare alla seconda già quasi finita. Mi tolse il mozzicone da bocca e lo gettò lontano.
«Non puoi ammazzarti di fumo o pensare di andarti ad ubriacare», mi ammonì e in quel momento mi venne da dire “ma chi ti conosce?”. Faccio a modo mio: probabilmente sarei andato a casa e mi sarei ubriacato fino a non ricordare più il mio nome ma questo a lei non doveva importare.
«Eleonore quella sera che è rimasta incinta era ubriaca perché tu l’avevi trattata male, insultandola al telefono. Si è messa con Matt perché si è sentita sola e impaurita, con un bambino che avrebbe dovuto crescere da sola, e probabilmente è per questo che ha accettato di sposarlo: sa che tu non ci sei e deve accontentarsi», spiegò con un filo di voce talmente suadente da penetrarmi fin dentro le ossa e darmi i brividi.
«Le avevo proposto di tornare con me, le avevo detto che avrei accettato il figlio di quel bastardo come se fosse mio. L’avrei sposata io e saremmo stati una famiglia. Se lei ha scelto di accontentarsi non è una mia colpa. E ora, scusa, ma voglio sfondarmi di alcool», borbottai tetro, aprendo di scatto la portiera. Sarah sussultò, tirandosi indietro le mani, e non fece una sola mossa per impedirmi di accendere il motore e andare via di lì.
Forse un giorno, quando tutto mi sarà passato, l’avrei ringraziata per aver ascoltato le parole di un uomo ferito e deluso.

Pov Elle

Dei rumori mi distrassero dai miei pensieri e quando vidi una sagoma alla porta pensai si trattasse di nuovo di Matt che era già tornato dal bar. Invece, ad aprire la porta ed entrare furiosamente, fu Sarah e sussultai nel vederla in quello stato.
«Tu!», esclamò puntandomi un dito contro mentre mi veniva vicino. «Cosa cazzo stai combinando?!», aggiunse isterica, mettendo le mani sui fianchi. La guardai perplessa e sorpresa, senza nascondere un po’ di spavento per la sua improvvisa reazione, mentre mi tiravo a sedere e continuavo a fissarla confusa.
«Cosa ti prende?», farfugliai,sgranando gli occhi,cercando di capirci qualcosa
«Cosa prende a te! Ma sei impazzita? Un matrimonio addirittura!», esclamò e il cuore in quel momento si fermò alla gola per strozzarmi con la mia stessa aria. «Voglio sentire tutte le ragione per le quali hai accettato di sposare Matt, Elle», aggiunse con l’aria severa mentre afferrava una sedia per lo schienale e la strusciava rumorosamente sul pavimento portandola accanto al mio letto. La guardai sedersi.
«Beh… non lo so, mi ha chiesto di sposarmi e ho pensato che fosse la cosa più giusta da fare per noi», mormorai, riferendomi anche alla mia bambina che ora speravo stesse meglio.
Quando Matt me l’aveva chiesto non ci avevo creduto neanche io e un po’ speravo che fosse solo un’allucinazione dovuta agli anestetici, ma lui era lì che mi fissava con un bel sorriso e gli occhi speranzosi, aspettando quel “si” che gli avevo dato per concedere un futuro alla piccola.
«Dovresti pensare a te, non alla bambina, Elle. Lei starà bene indipendentemente dalle scelte che tu fai», sospirò scuotendo il capo. «E non mi sembra che tu stia facendo le scelte giuste, ad essere sincera».
La guardai sorpresa. Eccola lì, di nuovo a giudicarmi come quando avevo deciso di tenere mia figlia e non abortire. Perché una donna single senza conoscenze materne si ostinava a volermi dare consigli come se avesse più esperienza di tutte le donne di questo mondo?! Essere un medico non include essere mamme.
«Cosa c’è di sbagliato nel volere una famiglia? Sto cercando solo di essere felice, ok?», feci stizzita, mentre le lacrime iniziavano a minacciare di scendere giù senza possibilità di fermarle.
«E sei sicura che sarai felice dopo aver sposato Matt?», sussurrò, scrutandomi con i suoi occhi profondi che parvero volermi scavare nell’anima. Un interrogativo si fece spazio nella mia mente.
«Come hai fatto a saperlo? Non eri qui quando me l’ha chiesto», le chiesi titubante, ipotizzando che forse Matt ne aveva prima parlato con lei oppure le aveva annunciato la bella notizia per i corridoi e lei poi era venuta da me di corsa.
«Vuoi veramente sapere chi me l’ha detto, Elle?», fece tetra con un non so ché di teatrale e melodrammatico. Annuii, fissandola curiosa e dubbiosa. Si alzò dalla sedia e stavolta la sollevò per non fare chiasso mentre la rimetteva a posto, poi si voltò per fissarmi nuovamente.
«Al telefono prima era Johnny. Le ho detto come stavi e lui si è precipitato come un pazzo qui per assicurarsi che tu stessi bene: è arrivato fino alla porta ed è tornato indietro con il cuore a pezzi, dopo aver ascoltato la vostra conversazione», spiegò in due minuti, senza pause, gettandomela addosso come acqua fredda, mentre io ero rimasta a “al telefono era Johnny”.
«Cosa?», sussurrai spaventata, mentre tutte le mie emozioni si mescolavano e i pensieri si riordinavano nella mia mente facendomi rendere conto di ciò che era realmente accaduto.
Johnny si era preoccupato per me, era corso subito qui spaventato, nonostante gli avessi chiesto di restare fuori da tutto ciò che mi riguardava. Aveva ascoltato tutto e ora credeva che fossi felice senza di lui e che l’avessi dimenticato, credeva Matt avesse preso il suo posto e che fossi felice a sposarlo e a buttare al vento tutto quello che avevamo condiviso.
«Non può essere», sussurrai, scuotendo il capo mentre me lo immaginavo tutto ansioso di vedermi per poi cambiare espressione dopo aver sentito tutto e tornare indietro con il cuore a pezzi.
«Stai sbagliando tutto, Elle. La cosa migliore che tu possa fare è tornare con Johnny: lui ti ama come nessun altro potrebbe mai amarti, un amore così… bello. Si è sfogato con me, è stato lì a raccontarmi quanto fosse incazzato con il mondo per avergli strappato via tutto e non immagini quant’è stato difficile restare lì, senza poter fare niente! Non ce la faccio a vedervi soffrire così entrambi, come due idioti, mentre continuate ad amarvi in silenzio!», sbraitò, ignorando che così mi faceva ancora più male, che il dottore che a lei stava antipatico ci aveva suggerito di restare il più rilassati possibile, che avrei voluto non provare la verità di quelle parole.
«Devo parlargli», dissi infine, alzandomi di scatto dal lettino. Lei mi si parò davanti.
«Mi dispiace, Elle, ma lui è andato via. Non può esserci per sempre», disse decisa e arrabbiata.
«Cosa avete da urlare?». Matt entrò con in mano un caffè, guardandoci perplesso. Quello lì sarebbe stato mio marito?
«Idiota», gli ringhiò contro Sarah, urtandolo di proposito mentre usciva dalla stanza rabbiosa. Matt la guardò andare via per poi fissarmi interrogativo, chiedendomi con il pensiero cosa fosse successo a Sarah.
E a me, che non potevo fare a meno di piangere e maledire la mia stupidità.
«Amore, ma cosa…»
«lasciami da sola, Matt», lo interruppi, sottraendomi alle sue mani che cercavano di accarezzarmi e stringermi in un tentativo di conforto.
«No che non ti lascio. Cosa le è preso?», insistette preoccupato. «Mica ti è successo qualcosa?»
«Sto bene, voglio solo stare da sola!», esclamai isterica, indicandogli la porta. Matt serrò le mascelle e cambiò espressione, poi poggiò il bicchierino di carta sul tavolo di legno laccato in bianco.
«Ti avevo solo portato il caffè», ringhiò ferito, «posso solo sapere cosa ti prende? Ne ho il diritto visto che presto saremo una cosa sola, non credi?». Lo guardai rabbiosa e con gli occhi arrossati per via delle lacrime che mi stavano rigando il viso, con il cuore a pezzi e con la voglia matta di partire lontano da tutto e da tutti.
«Vuoi sapere cosa non va? Tu vuoi sapere cosa non va?!», ringhiai, puntandogli il dito contro mentre indietreggiava con aria smarrita. «Tutto non va, Matt! La mia vita non sta andando da nessuna parte, si sta solo dirigendo dentro un enorme buco nera! Non ce la faccio più, ecco cosa non va. Vorrei solo che per una volta, una sola volta… tutto andasse per il verso giusto». Mi appoggiai sul letto, afflitta e scossa, toccandomi il ventre sperando solo che finalmente mi lasciasse sola con le mie pene e con la mia vita che non mi dava altro che dispiaceri. Sentivo il suo sguardo addosso, non una parola né un fiato, solo quello sguardo accusatore che mi fece stare peggio. Mi giunse all’orecchio il rumore della porta aprirsi e chiudersi subito dopo, come se in quel momento Matt mi avesse letto nella mente e mi avesse lasciato sola con i miei pensieri e con i miei incubi.
Guardai la porta che si richiudeva e contemporaneamente anche il mio stomaco eseguiva gli stessi movimenti, contraendosi. Scoppiai in lacrime, stringendomi al cuscino, avvertendo un dolore al centro del petto che non avevo mai provato.
Sentivo di aver tradito tutti, di ferire che mi voleva bene, di stare mentendo continuamente a chi mi circondava e soprattutto a me stessa.
Sarah era furibonda perché avevo ferito Johnny e non voleva vedermi perdere le speranze e abbandonarmi alla casualità mentre fingevo di star bene.
Matt era arrabbiato perché nonostante cercasse in tutti i modi di essere gentile e farmi felice non lo ringraziavo mai ma, anzi, trovavo sempre qualcosa per il quale trattarlo male.
Johnny ormai pensava di non contare più nulla per me ed ero sicura che non sarebbe più tornato.
La mia bambina invece se ne stava in disparte nel mio ventre ad assistere alla rovina della sua mamma e della sua famiglia.
E io? Cosa c’era da dire su di me?
Che ero una completa idiota.

Pov Matt

Chiusi quella porta con una violenza sovraumana, cercando di ricercare quella calma che era solita appartenermi ma che in quel momento aveva deciso di andarsi a fare una vacanza alle Bahamas. Che cosa c’era che non andava in quella donna?
Proprio non capivo perché la sua vita non andasse, io che le stavo dando tutto: il mio amore non era abbastanza, forse? Perché non riusciva a capire che l’amavo più di me stesso, più della mia stessa vita e che le avrei donato il mondo se solo me lo avesse chiesto? Avevo fatto i miei sbagli ma purtroppo non si nasce con il libretto d’ istruzioni.
Elle era la mia donna ideale e non c’era niente di sbagliato in lei ma a volte la sentivo così lontana, come se la sua mente fosse orientata verso un’altra orbita, verso un infinito di cui solo lei poteva scorgerne le sfaccettature. Lei era così, non permetteva agli altri di vederla dentro, così determinata da mettere in gioco la sua vita per quella bambina che giaceva dentro di lei, quella stessa bambina che le aveva fatto dubitare di se stessa e della sua risolutezza, la stessa che potrebbe portarla in un baratro da cui è semplicemente impossibile uscire.
Avanzai, andando avanti e indietro per i corridoi, con le braccia dietro la schiena e il pensiero in quella stanza, indeciso sul rientrare o meno. E se l’avessi persa? E se il suo cuore appartenesse ancora a Johnny? Quell’incapace, subdolo, non aveva fatto altro che mettermi il bastone tra le ruote non avendo la benché minima considerazione per il nostro amore e per la piccola creatura che stava per nascere. Non aveva capito che lui non poteva far parte della nostra vita?
Elle aveva scelto me e nessun altro, avrebbe scelto sempre e solo me. Non c’era posto per lui e non ci sarebbe mai stato.
«Mi scusi, signore, ma dovrebbe allontanarsi dal corridoio principale». Una voce mi fece trasalire e mi voltai di scatto, trovandomi a pochi centimetri di distanza un bestione alto due spanne più di me e da dei capelli rossicci. Chi non avrebbe riconosciuto quella capigliatura alla Bob Marley?
«Rosso mal pelo!», scoppiai a ridere e, nel sentire quel soprannome, anche lui sgranò gli occhi e sfoderò un enorme sorriso. C’era solo una persona che poteva chiamarlo “rosso mal pelo” e quella persona ero io: sarebbe stato impossibile non essere riconosciuto.
«Riccioli d’oro!», esclamò di rimando prendendomi in giro, avvicinandosi a me per abbracciarmi.
Il suo vero nome era Christian Seymore ma a causa della sua capigliatura ero solito chiamarlo con quell’appellativo. Oltre alla sua criniera, al liceo era sempre stato contraddistinto per il suo carattere libertino e un po’ depravato: infatti  era il ragazzo più popolare di tutta la scuola e molti insegnanti lo consideravano peggio di una calamità naturale. Era uno spasso totale ma non era cattivo in fondo, era solo uno che ci sapeva fare con le ragazze e che sapeva come divertirsi a discapito degli altri.
«Che ci fai da queste parti un vecchio caprone come te? Dio, è dal liceo che non ti vedo!», esclamò dandomi una pacca sulla spalla. Non era cambiato per niente e mi fece uno strano effetto rivederlo nelle vesti di un dottore. Chi se lo sarebbe mai immaginato che una testa calda come lui potesse rimettersi in riga e laurearsi in medicina? Aveva abbandonato definitivamente la banda dei  ‘’demoni rossi’’ di cui lui era il capo supremo?  Mi guardò con un sorriso sghembo e il suo solito sguardo vivace, mentre cercavo di riconoscerlo e di capire che fine avesse fatto il cuore di piombo del liceo.
«Lì dentro c’è la mia ragazza». Indicai con un cenno del capo la camera al mio fianco e lo vidi sgranare gli occhi sorpreso come se fosse impossibile o lontanamente inimmaginabile che io stessi per diventare padre.
«Non dirmi che… che sei incinto!». Scoppiammo a ridere e mi misi una mano in testa, scostandomi davanti al viso la ciocca ribelle che non stava mai al suo posto e mi ricadeva spasmodicamente sulla faccia. L’avrei tagliata con un decespugliatore un giorno di questi!
«Sì, rosso! Sto per diventare padre»
«Non ci posso credere!», fece ancora, sgranando gli occhi sorpreso con un piccolo risolino in faccia che illuminò il suo volto. Mi venne da sorridere anche a me al solo pensiero anche se non mi sentivo pronto per un impegno del genere e probabilmente non lo sarei mai stato.
«Eh già,mi hanno incastrato!»
«Mmh, sì, ho capito anche chi è la madre! Peccato! E’ una bella ragazza, complimenti amico, anche se da quanto ho potuto vedere non è in una posizione tanto solida», fece una pausa seguita da una smorfia di imbarazzo, evidentemente non sapeva come affrontare la situazione del suo stato di malattia. «A proposito, vieni con me che ti do le analisi e credo che dovremo farti anche un prelievo di controllo. Sai, questo tipo di malattia è facilmente trasmissibile». Annuii, ingoiando un groppo che mi si formò alla gola e cominciai a pregare Dio che la sua fosse solo una supposizione e che si sbagliasse alla grande.
Dopo aver girato qualche corridoio, entrammo in una piccola stanza con una sola finestra e poca luce e mi sentii quasi soffocare. Vi era solo una grande libreria zeppa di tantissimi libri di medicina che andavano dal cuore all’apparato riproduttore.
Christian si sedette su una sedia appoggiandosi all’unica scrivania, piena zeppa di macchinari che non avevo mai visto in vita mia e una serie di fogli sparsi alla rinfusa.
«Siediti e dammi il braccio». Aprì il cassetto prelevando un ago che mi fece salire la pressione a mille. Lo guardai come un cagnolino impaurito. «Avanti, non fare la femminuccia», mi esortò punzecchiandomi.
«Coglione», risi, offrendogli la mia vena, anche se non mi fidavo tanto di lui pur avendo addosso un camice da dottore, immaginandolo ancora che tirava le palline di carta da una cannuccia.
Christian esaminò il mio campione sanguigno e scrisse qualcosa, confrontandolo con altri fogli e continuando a borbottare qualcosa con la fronte accigliata e lo sguardo perplesso come faceva tempo fa davanti ai problemi di matematica “impossibili” da risolvere.
Rimasi a fissarlo con nervosismo, immobile sulla sedia, avvertendo una strana e inspiegabile tensione percorrermi le vene fino a quando lui non sollevò lo sguardo lentamente per incrociare il mio, guardandomi sconvolto.
Non era un buon segno.
«Matt… credo ci sia un problema», mormorò scosso, avendo quasi paura di parlarmene.
«Che tipo di problema?», ripetei confuso.
«Ti aiuterò a risolverlo», mi fece dandomi una pacca sulla spalla.
Ricevere conforti prima della batosta è un brutto, bruttissimo segno.
Credo furono le due ore più terribili della mia vita.

«Allora è tutto a posto ora, no?», gli chiesi, guardandomi intorno mentre uscivamo dal suo studio. Lui mi sorrise e riconobbi in quel sorriso il mio vecchio amico di infanzia. Rosso mal pelo era ancora in lui.
«Tutto perfetto, in ogni minimo particolare! Ora vieni,devo dare le analisi a tua moglie e comunque ancora non ha sentito la bambina muoversi?»
«No,credo di no! Perché? Se c’è qualcosa che non va devi dirmelo»
«Ve lo ha già detto il mio collega quali sono i rischi che Elle può correre: io non posso far altro che sottoscrivere, Matty! Dobbiamo solo aspettare che tua figlia dia segni ma, tranquillo, l’ecografia ha rilevato battito e quindi dobbiamo solo aspettare!», mi rassicurò ancora una volta. Arrivammo davanti alla porta della camera di Elle: sarebbe stata sicuramente felice delle buone notizie riguardo la bambina.
Christian sospirò, stringendo le carte che aveva in mano con impazienza.
«Matt, ovviamente non devi far parola con nessuno di quello che è successo prima in laboratorio. Nemmeno con la tua ragazza. Rischio il posto di lavoro e perfino di finire al fresco», sussurrò con aria estremamente sera che poche volte gli avevo visto, avvicinandosi al mio viso per non farsi sentire da nessun’altro.
«Sta’ tranquillo, rosso, sarà il nostro segreto che ci porteremo fin dentro la tomba. Grazie, sei un amico», gli sorrisi e lui, che non era mai stato portato per i momenti sdolcinati e le smancerie varie, mi diede un’altra pacca sulla spalla di incoraggiamento ed entrò in stanza, esclamando un “salve!” con un sorrido raggiante.  
Per evitare che mi assalissero i sensi di colpa per ciò che avevo appena fatto, continuavo a ripetere che era la cosa più giusta da fare per lei, per me e per la nostra bambina.




Ancora una volta, un capitolo pieno di pov xD Credo che sia il modo migliore di raccontare quello di utilizzare i punti di vista di tutti i personaggi!
Per qanto riguarda il pov Johnny, ci è piaciuta molto l'idea di farlo avvicinare a Sarah che prima di quest'occasione non aveva avuto modo di incontrare e l'abbiamo immaginata un po' come l'eroina della situazione, quella che consola tutti e tutto tranne se stessa.
Il comportamento di Elle invece è più che plausibile: abbiamo capito che ormai sposerà Matt solo perché non vede altre alternative...
Il pov Matt siamo certe che è quello che avete capito di meno: l'incontro con l'amico con è casuale, infatti questo lo aiuta con "qualcosa" di scomodo... ovviamente è voluto da noi due il fatto di non aver specificato cosa fosse successo e cosa Christian avesse fatto per "riparare" il danno così grave, giusto perché vogliamo riservarvi la sorpresa alla fine!
Siamo state felici di ricevere più recensioni e ovviamente ilf atto che la state ancora seguendo ci ha dato la forza di pubblicare ancora un altro captiolo.
Speriamo che non sia l'ultimo, continuate a supportarci!!
Bacioni, A&P <3

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 17 ***


«A un mese dalla nascita va bene, no?». Alzai lo sguardo giusto in tempo per catturare l’occhiata fugace che la mamma aveva lanciato a Matt che se ne stava seduto sul divano accanto a me tutto preso dalla lettura dei giorni sul calendario mentre sul tavolino davanti a noi erano sparsi decine di cataloghi con i modelli degli inviti matrimoniali.
Lei non me la raccontava giusta: conoscevo bene mia madre e quelle occhiatacce significavano “è una cazzata ma è la tua vita e lascio che tu faccia le tue scelte, giuste o sbagliate che siano, per poi imparare a tue spese”. Non si poteva di certo dire che aveva fatto i salti di gioia alla notizia del nostro matrimonio e nemmeno aveva finto la più grande della felicità, anche se aveva emesso un’esclamazione di finta contentezza prima di abbracciarci e accogliere Matt come un membro definitivo della famiglia. Eravamo usciti dall’ospedale da qualche giorno con l’ordine assoluto di stare al riposo il più possibile e non subire danni da fattori esterni. Dovevo cercare di mantenere la calma più assoluta se non volevo che la bambina nascesse con mesi interi di anticipo.
«Matt, non puoi programmare tutto già da ora! Potrei partorire anche con una settimana di anticipo o di ritardo. Quando la bambina sarà nata, fisseremo la data», tagliai corto io e mi chiesi perché lui fosse così ansioso di buttarsi a capofitto nel giro di ordinazioni, prenotazioni e altre cose altamente stressanti e inutili come la scelta degli inviti.
«Altrimenti non ce la faremo a prenotare tutto in un solo mese…»
«…e allora ce ne prenderemo due! Questa tua fretta è insensata», dissi irritata, sistemando con fatica un cuscino dietro la schiena per stare più comoda. Tanto era inutile continuare a discutere con lui: era più cocciuto di un mulo e domani avrebbe ripreso il discorso lasciato in sospeso.
Non mi sembrava neanche di vedere più tutta questa necessità di un matrimonio: dopo il parto, Matt ed io avremmo in ogni caso vissuto sotto lo stesso tetto con o senza una fede nuziale.
«Okay, ho capito, tutti questi preparativi ti stressano. Non voglio metterti in ansia, ne riparleremo domani», sospirò alzandosi dal divano. Si chinò su di me per baciarmi la fronte e accarezzarmi il pancione che ormai era diventato una mongolfiera. Ecco, anche questo suo fare il saputello e fingere di conoscere bene ogni mio umore e sensazione era parecchio irritante.
«Ci sentiamo dopo», gli sorrisi, seguendo con lo sguardo mia madre che lo accompagnava alla porta. Li sentii salutarsi, poi calò un silenzio tombale in casa. Mia mamma spuntò come un fantasma, osservandomi a pochi passi di distanza con una strana espressione in volto e gli occhi da cerbiatto impaurito mentre mi fingevo indifferente facendo zapping tra un canale e l’altro.
«Cosa c’è, mamma?», le chiesi con tono indifferente e quasi lamentoso, senza staccare lo sguardo dallo schermo del televisore piatto.
«Mi preoccupi, Elle. A dir la verità quello che mi preoccupa di più è Matt. Si sta divertendo a fare il paparino della casa: non lo sa che mettere su famiglia non vuol dire scegliere gli inviti e far costruire dal falegname una culla nuova?». Le sue labbra si serrarono fino a diventare una fessura mentre si avvicinava a me e si sedeva sul divano alla mia destra.
Da quando avevamo scoperto della mia malattia e della bimba in arrivo, la mia vita era diventata un continuo  “tu non puoi fare questo e nemmeno quello”. Tutti credevano di sapere quale fosse la cosa migliore, senza contare il fatto che ormai da tempo non potevo pensare solo a ciò che era meglio per me ma dovevo pensare maggiormente alla piccola. Dovevo darle un futuro, delle certezze e a un domani senza paura. Se non avessi visto in Matt una persona responsabile e affidabile, pronto a donarle tutto l’amore possibile, non avrei impiegato due volte a lasciarlo.
«Matt è euforico perché è felice», tentai di difenderlo, alzando le spalle con nonchalance e sistemandomi i capelli dietro l’orecchio, in modo che non mi ricadessero dinanzi agli occhi.
«A me non interessa la felicità di Matt.  È te che voglio felice e, scusami, ma sembra che non t’importi un tubo del matrimonio»
«Ho solo voluto far felice Matt, okay? Sembrava che ci tenesse tanto a sposarmi e visto che avremo un figlio… beh, ho voluto accontentarlo». Quel tono d’indifferenza che usavo dava fastidio perfino a me e non osavo immaginarmi quindi la reazione in mia madre: ultimamente diceva che ero cambiata, che non ero più la stessa, che il mio carattere faceva sempre più schifo. Certo, prima ero più riflessiva e sempre meno indifferente, non prendevo sottogamba situazioni importanti come il matrimonio, non mi limitavo a vedermi scorrere la vita davanti agli occhi restando impassibile mentre ora sembravo totalmente diversa, se non l’opposto.
Ma, come si dice, l’esperienza cambia le persone.
Le delusioni ti fanno chiudere il cuore e aprire un muro davanti agli altri come per difenderti dal resto del mondo. Diventi fredda, cinica e distaccata come per non far vedere all’esterno tutta la tua sofferenza, come per non far trasparire al mondo che sei arrivata al punto di non ritorno.
«E che ne dici della solita frase “non si vive per accontentare gli altri”?», mormorò con tono deluso e nello stesso tempo colmo di rammarico. Sapevo cosa voleva dire. Io che avevo creduto sempre nell’amore e in un domani che adesso mi impauriva più che mai. Sapevo a cosa andavo in contro ma davanti a me vedevo solo un vicolo cieco, e la mia vita si indirizzava sempre più in una strada senza uscita. Sbuffai, innervosita e irritata, come se quella situazione non fosse già abbastanza, come se non ne fossi consapevole, come se fossi ancora una bambina che non aveva ancora imparato niente dalla vita.
«Smettila di fare la filosofa mamma!», borbottai infastidita. «Non lo faccio solo per accontentare Matt. Vi volete rendere conto che non sono più una bambina? E poi cosa cambia se lo sposo o no?! Saremo lo stesso felici e contenti… come in una fiaba»
«Cambia che il matrimonio devi celebrarlo con la persona che ami!», esclamò esterrefatta e prima che potessi aprir bocca mi fermò. «E, no, non raccontarmi la solita balla che ami Matt! Sei un’adulta, lo so! Ma lo sei diventata dal momento in cui tutto il male ti è piombato addosso e sei dovuta crescere così in fretta perché altrimenti saresti rimasta schiacciata. Elle, la bambina non sarà serena se non vedrà te felice per prima, non avrà mai delle basi sul vero significato della vita perché tu in prima persona non lo sai», aggiunse infine, boccheggiando, cercando di trattenere le lacrime. Le tremava la voce, anche se cercava distintamente di nasconderlo.
Non voleva guardare in faccia la realtà, quindi restai in silenzio per paura di peggiorare la situazione. Mi sentivo una stupida, soprattutto sui miei sentimenti, sapere di dover sposare Matt e non provare assolutamente nulla doveva pur dire qualcosa. Probabilmente a mia figlia non sarebbe mai mancato un padre ma non avrebbe mai capito il vero significato della vita. Non avrebbe capito cosa significa amare così tanto da non sentire più i piedi conficcati nel terreno, avere il cuore che batte così forte e baciare lentamente e con il cuore. Non avrebbe capito tutto ciò perché non avrebbe riconosciuto l’amore tra i suoi genitori.
«Non esiste l’amore», farfugliai infine, con le lacrime agli occhi. Tutte le visioni di principi azzurri, cavalli bianchi, principesse rinchiuse in castelli, presero fuoco, bruciando i miei sogni ingenui da bambina. Io, la ragazzina stupida che fino all’anno scorso credeva nel vero amore.
Mi portai le ginocchia al petto quel tanto che il pancione mi permetteva e nascosi il mio viso verso l’interno, ringraziando i capelli che mi scivolarono davanti al viso che non consentivano a mia madre la visuale dei miei occhi arrossati. Le sue mani si poggiarono sulla spalla e il braccio destro, accarezzandomi.
«Non ti sto incolpando di nulla, tesoro, e darti addosso è l’ultima cosa che voglio fare. Mi piacerebbe soltanto che… cazzo, vorrei vedere di nuovo i tuoi occhi brillare dalla felicità. Come quando stavi con Johnny, ecco, l’ho detto».
Ed io che mi ero illusa che le sue parole potessero essermi di conforto…
Scoppiai in lacrime, incapace di reggere quell’enorme fardello che avevo all’altezza del petto. Solo sentire il suo nome mi faceva morire, era troppo da sopportare.
«Doveva esserci lui con me in questa situazione di merda», singhiozzai, coprendomi con i palmi gli occhi e cercando di frenare le lacrime. Quanto volevo che Johnny fosse qui ora. Perché cazzo non era entrato nella mia stanza quel giorno in ospedale? Perché aveva lasciato che Matt facesse la sua proposta e che io acconsentissi?
Se avesse avuto le palle di entrare a quest’ora saremmo tutti in una condizione diversa. Ed io sarei stata felice di poter condividere la mia vita con lui, che per il momento mi era sembrata l’unica incarnazione del famigerato “vero amore”.
«Elle, magari puoi ancora salvare la situazione. Prendi tempo, la bambina starà bene indipendentemente dalle decisioni che tu prenderai». Cercai di mantenere la calma e rimanere più fredda e distaccata: l’unica cosa che volevo era distaccarmi anche solo per poco da tutti quei pensieri che mi stavano giorno dopo giorno logorando l’anima. Mi sentivo una bomba a orologeria pronta a scoppiare in ogni momento, non riuscivo più a mantenere quell’enorme peso che avevo nel cuore.
«Devo prendere una boccata d’aria». Mi alzai di scatto, dirigendomi di scatto verso la porta d’ingresso, sotto gli occhi allarmati di mia madre che era rimasta spiazzata da quel mio gesto improvviso. Avevo solo bisogno di un’ora, una sola ora, senza pensieri. Un’ora soltanto per distaccarmi dal resto del mondo, per rimanere da sola con me stessa e fare breccia nelle mie idee. Ora come ora avevo bisogno di riflettere e decidere sul da farsi.
Avanzai verso la strada, decidendo di non prendere la macchina: camminare mi avrebbe aiutato a schiarire i pensieri. Era tanto che non mi soffermavo a guardare quel che avevo in torno: le lunghe strade che sembravano non avere fine, il verde che ospitava fiori bellissimi e dal colore vivace ed esuberante e il loro profumo che sembrasse rinvigorire l’ambiente. Era tanto che non mettevo il naso fuori casa e mi concedevo al mondo. Molti erano gli sguardi di coloro che mi avevano vista crescere, soffermarsi sul mio enorme pancione. Mi sembrava quasi di non essere più io, di essere il mio ventre gonfio. Ormai io ero quella stessa vita che mi portavo dentro. Fra poco avrei stretto tra le braccia quella piccola bambina e ancora non avevo pensato nemmeno al suo nome.
Non seppi dire per quanto tempo camminai ma mi accorsi solo dopo aver visto la prima caffetteria di essere arrivata in pieno centro, senza nemmeno essermene resa conto.
Mi fermai dinanzi a una vetrina e vidi riflesso il mio sorriso imbambolato e gli occhi sognanti, mentre fissavo tutti quegli adorabili completini da neonato. Gonnelline, pantaloncini, golfini, body con orsacchiotti e pupazzetti vari, tutti così adorabili, così piccoli da farmi venire la voglia di comprarli tutti. Mi facevano così tanta tenerezza e quasi decisi a entrare, almeno per dare un’occhiata a qualche completo che le avrei fatto indossare per i suoi primi giorni di vita. Guardai più attentamente un piccolo pigiamino rosa con qualche fiocchetto sparso e mi avvicinai, appoggiando i palmi delle mani sul vetro, per guardare più distintamente. Una figura mi distrasse e, sempre attraverso il vetro, vidi un altro riflesso.
Il cuore mi salì in gola quando mi resi conto della figura al mio fianco. Come l’apparizione di un angelo, Johnny si piazzò accanto a me e si mise a scrutare la mia stessa vetrina, facendo finta di ignorarmi.
La mia prima reazione fu quella di voltarmi di scatto verso di lui, manco avessi avuto un miraggio, con il cuore che minacciava di balzare fuori dal petto. Sentii anche la bambina scalciare violentemente, come se si sentisse minacciata avendo percepito la mia agitazione.
«Ciao», fece Johnny, accennando un sorriso forzato, mantenendo lo sguardo piantato nella vetrina, anche se vedevo perfettamente che guardava la mia immagine proiettata sul vetro del negozio.
«Ciao», farfugliai confusa, con la bocca già secca per l’emozione, non sapendo che dire.
Rivederlo mi faceva sempre lo stesso effetto. Così bello da morire e il suo fare affascinante. Quel suo profumo che mi entrava sempre dentro l’anima, sempre pieno zeppo di collanine e tatuaggi, bracciali e il suo inseparabile cappello che lo rendevano unico.
Sospirò, facendomi sentire in imbarazzo quando si voltò verso di me, iniziando a scrutarmi a lungo, e si soffermò sul mio ventre rotondo. Guardai il suo viso tirato e le sue mascelle contratte, mentre i suoi grandi occhiali non mi permisero di vedere quello sguardo così carico di tensione. Poggiai una mano sulla mia pancia dura e gonfia, sorridendo imbambolata.
«Come state… come sta lui?», borbottò, facendo un cenno con capo alla mia pancia. Abbassai lo sguardo imbarazzata accennando un sorriso.
«È una lei», precisai, accennando un sorriso sognante.
«Oh», fece lui, alzando lo sguardo sul mio viso, fino a incrociare i miei occhi. Quando mi mancava quei suoi modi di fare, quel modo in cui si preoccupava senza farlo trasparire. Dopotutto faceva anche parte del suo lavoro.
«Matt ne sarà felice», ipotizzò, mettendosi le mani in tasca, chiaramente a disagio. Annuii ancora più imbarazzata, storcendo la bocca al solo pensiero.
«Tutti lo sarebbero al suo posto», la buttai sullo scherzo,cercando di sdrammatizzare e scaricare la tensione accumulata.
«E tu sei felice?», mormorò, scrutandomi ora nell’anima. Trattenni il respiro e restai a fissarlo perplessa, indecisa su cosa rispondergli. La cosa più facile da dire era sì, perché in realtà mi sentivo bene con me stessa sapendo che c’era la mia piccola a tenermi compagnia e che ormai non ero sola perché avevo una vita dentro di me che mi avrebbe amato intensamente.
«Certo!», esclamai con troppa enfasi che sembrò quasi una bugia. «Cioè… sono emozionata», balbettai e la voce mi tremò dall’emozione. Lui sorrise, dolcemente
«Sarai un’ottima madre»
«Tu dici?»
«Dico», annuì, togliendosi il cappello dalla testa e iniziando a rigirarselo tra le mani. «Mi sarebbe piaciuto… », accennò ma la sua frase morì sulle sue labbra e, sgonfiando i suoi polmoni pieni d’aria, cacciò via l’aria con sconforto. Cosa? Cosa gli sarebbe piaciuto? Era così difficile completare la frase? Per me non lo era: mi sarebbe piaciuto stringerti ancora perché non ti ho avuto abbastanza a lungo, mi sarebbe piaciuto presentare TE come mio ragazzo a mia madre, mi sarebbe piaciuto che tu avessi potuto condividere con me la gioia di un figlio… già, perché questa bambina doveva portare il tuo cognome, non quello di Matt.
«…mi sarebbe piaciuto che tra di noi le cose fossero andate diversamente e…». Si fermò di botto, accorgendosi probabilmente di stare mettendo troppa aria ai polmoni. «Non importa ormai, scusa, devo andare… ti faccio i miei auguri per la piccola», si affrettò a dire, sistemandosi nuovamente il cappello sul capo e facendomi un gesto con la mano, prima di voltarsi per andare via.
«Johnny?», lo chiamai, quando si fu allontanato di pochi metri da me. Si voltò e mi guardò interrogativo. «Sarebbe piaciuto anche a me», confessai. Increspò le labbra e mi sembrò quasi vederlo sorridere tra quella barba incolta. Chinò lo sguardo sulla strada e lentamente si voltò di nuovo indietro, andando via.
Non c’era bisogno di continuare quella frase per dire che lui ed io volevamo la stessa identica cosa, che ci sarebbero piaciute le stesse cose. Il suo sguardo era troppo malinconico, troppo devoto ai ricordi dei bei momenti che avevamo passato insieme. Quegli stessi momenti che avrei sigillato per sempre dentro il cuore, dentro la mia anima.
Era questo tipo di amore che avrei dovuto insegnare alla mia bambina. Quell’amore che ti ravviva l’anima e il cuore. Un amore che a noi faceva anche tanto male.




Ciao a tutte!!
Siamo tornate e ci scusiamo per avervi fatto attendere molto xD E' che siamo entrambe molto impegnate e diventa sempre più difficile "ritrovarsi" e discutere sulla storia ^^
Il capitolo, come voi stesse avrete notato, non presenta chissà quante novità e in realtà era più un capitolo di passaggio, giusto per "riempire" lo spazio di tempo che separa Elle dal suo parto.
L'incontro con Johnny ha sconvolto un po' entrambi e vi assicuriamo che il prossimo capitolo sarà ricchissimo di sorprese e colpi di scena: quindi vogliamo vedervi cariche e in tante!!
La fine si sta quasi avvicinando :(
Scusate se non abbiamo risposto alle recensioni, ci tenevamo ugualmente a ringraziarvi qui per il vostro umile sostegno <3
Baci, A&P <3

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Capitolo 20
*** Capitolo finale ***


Capitolo più lungo, ma è l'ultimo e contiene tutto il "succo" della storia... buon divertimento ahah ;)

Lo sapevo che non dovevo mangiarle quella dannata torta che Sarah aveva portato per l’addio al nubilato. Lo sapevo che non l’avrei digerita, mi sarebbe rimasta sullo stomaco, non mi avrebbe fatto chiudere occhio e mi avrebbe rovinato il matrimonio.
Sì, era proprio quel pastrocchio di cioccolata che si era messo al centro del mio petto.
Ma cosa dici, Elle? Perché vuoi dare la colpa al cibo per la tua ansia?
Ti stai per sposare. Dovrebbe essere normale, no, essere un po’ in ansia? Avere mal di pancia, le gambe molli, il fiato corto e il cuore a mille?
Forse è perché non ti ci sei mai vista in quell’abito bianco… no, non avrei mai immaginato di indossarlo così presto. In realtà avevo paura di non averlo potuto mai indossare…

«Su su! Che ci fai lì impalata?». La mamma irruppe nella stanza tutta allegra, battendo le mani per spronarmi mentre si avvolgeva le spalle nella sua stola rosa pallido.
Finalmente poteva mettere quel vestito rosa che a lei piaceva tanto ma che non aveva mai potuto indossare!
«Stavo riflettendo su…». Con un filo di voce lasciai la frase in sospeso,non avendo nemmeno la forza di esplicitare ciò che avevo dentro.
Su cosa riflettevo? Stavo dando la colpa al cioccolato se non volevo sposarmi?
«Stai avendo dei ripensamenti?», mormorò con un filo di voce che ora era diventato dolce come solo la mamma poteva averlo.
Ripensamenti? Cosa vuol dire questa parola? Di solito si parla di “ripensamento” quando si sceglie fermamente qualcosa e poi si inizia a dubitare su di essa… il fatto è che avevo dubitato fin dall’inizio sulla mia scelta: fino a che punto lo potevo definire “ripensamento”?
«Guarda che sei ancora in tempo per cambiare idea…», aggiunse rincuorandomi, mentre i suoi occhi tornavano ad essere lucidi.
Quella mattina aveva già pianto due volte, la prima quando mi aveva vista con il vestito da sposa, la seconda mentre mi sistemava il velo sul capo: un altro suo crollo non l’avrei retto e mi sarei messa a piangere anch’io, compromettendo il duro lavoro di correttore e mascara dell’estetista.
«Niente ripensamenti. Il mio sogno di avere una famiglia sta per realizzarsi», dissi decisa abbozzando un sorriso, tirando poi un grosso sospiro per tornare a guardarmi dinanzi allo specchio. «E poi, posso sempre scappare alla Julia Roberts», aggiunsi ironica e scoppiammo a ridere.
«Allora inizio a sellare il cavallo», mi fece l’occhiolino. Mi affacciai giù per vedere nel viale l’uomo in smoking che, accanto alla macchina che mi avrebbe portato in chiesa, batteva ansiosamente il piede contro l’asfalto controllando l’orologio. Avrei voluto vederlo in volto, ma aveva un cappello scuro in testa che mi impediva di guardarlo in faccia.
«Scendo subito, il cocchiere qui sotto sembra piuttosto nervoso…», scherzai e la vidi sorridere di nuovo mentre mi lasciava sola in camera.
Sarah mi avrebbe vista in chiesa, le avevo chiesto di non passare per casa perché altrimenti mi avrebbe guardata con il vestito bianco, mi avrebbe ricordato quando da piccole ci avvolgevamo negli asciugamani fingendo che fossero abiti da sposa e mi avrebbe fatto commuovere… quindi no, era già lì dove anche Matt mi aspettava.
Il solo pensiero mi faceva venire i brividi e le fitte allo stomaco. Ma forse l’ultima cosa era dovuta alla bambina che scalciava e si dimenava come una pazza. Di certo era normale,fra poche settimane sarebbe venuta al mondo e quindi già si dibatteva freneticamente per la vita.
Coraggio Elle, ormai hai preso le tue decisioni!
Afferrai il vestito per aiutarmi a camminare con facilità e lasciai che il riflesso nello specchio diventasse sempre più piccolo fino a scomparire. Magari potesse scomparire anche quel magone allo stomaco opprimente…
«Non pensavo potesse fare così caldo qua dentro», sbuffai, facendomi aria con una mano mentre sentivo il vestito appesantirmi sempre di più man mano che scendevo gli scalini.
«Sempre meglio di una giornata di pioggia, no? Bocciolo». Mi immobilizzai e alzai lo sguardo, vedendo l’uomo che aveva appena pronunciato quelle parole poggiato alla macchina, mettersi dritto e togliersi il cappello. Solo una persona mi aveva chiamata “bocciolo’’  ma… non poteva essere…
Ebbi un sussulto al cuore appena riconobbi i suoi occhi più verdi dei miei e dei ricci castani circondargli il suo volto. Le gambe quasi mi cedettero dall’emozione e mi chiesi se fosse reale la figura che avevo davanti a me.
«Jason?», mugolai immobile sulla soglia della porta.
«Ciao, sorellina», mi fece l’occhiolino, allargando le braccia per accogliermi in un abbraccio. Cacciai un urlo di felicità e corsi come se all’improvviso tutti quei strati di velo fossero inconsistenti, buttandomi tra le braccia di mio fratello e stringendomi al suo petto e aggrappandomi con foga alla stoffa della sua divisa. Strizzai gli occhi,cercando di non piangere
«Dio, Jay, da quanto tempo», singhiozzai, stringendomi alle sue grosse spalle da uomo.
«Non sono venuto qui per farti piangere», sorrise lui, stampandomi un bacio sulla fronte.
«Mi sei mancato» sussurrai,guardandolo negli occhi e specchiandomi in quello sguardo cristallino che mi era così tanto mancato.
«Anche tu, Elle, da morire», sussurrò, accarezzandomi prima di asciugarmi una lacrima con il pollice. Ci allontanammo di qualche centimetro per poterci guardare meglio: dopotutto, io ero ancora una bambina quando lo avevo visto l’ultima volta e lui un piccolo teppista con un gran cuore.
Quel ragazzo con meno di vent’anni, dai lineamenti delicati e il corpo esile, si era trasformato in un uomo maturo e dai tratti più decisi, la corporatura più massiccia, le mani più ruvide, anche se conservava lo stesso sguardo vivace che ricordavo.
«Eri soltanto una bambina e ora sei diventata una bellissima donna che si stai sposando…», sospirò malinconico, percorrendo con due dita il profilo del mio viso.
«Perché sei andato via, Jason?», mugolai delusa, abbassando lo sguardo. «Perché sei tornato solo ora?!»
«Ero solo un ragazzino, debole. Volevo allontanarmi da questo posto zeppo di ricordi dolorosi, ma non avrei mai voluto allontanarmi da te...», mi sorrise malinconico. «Non volevo perdermi anche il tuo matrimonio», aggiunse,nascondendo il volto sotto il berretto.
«Come hai fatto a sapere che dovevo sposarmi?»
«La mamma mi ha sempre mandato delle lettere che mi raccontavano di dove vi trasferivate, il nuovo lavoro, i tuoi voti a scuola… non si è mai stancata nonostante in quindici anni non avesse mai ricevuto risposte. Poi ha mandato lettere in cui parlava della tua malattia, del tuo ragazzo, di tua figlia… quelle lettere non le ho mai lette, Elle, prima di ieri sera: mia moglie me le aveva nascoste, forse per paura che potessi correre qui». Si fermò con gli occhi lucidi, deglutì e rivolse lo sguardo al cielo come se stesse aspettando che da lì su scendesse la forza e il coraggio di continuare a parlare.
Jason era anche sposato e io non ne sapevo nulla… chi era quell’uomo che avevo davanti? Uno sconosciuto?
«Se lo avessi saputo prima, sarei venuto. Nostro padre se n’è andato, so che io invece avrei dovuto rimanere da bravo fratello maggiore e prendere il suo posto: non l’ho fatto, sono stato un codardo, e spero che tu possa perdonarmi per tutto questo», disse a capo chino e con i pugni chiusi
Restai a fissarlo immobile per diversi secondi, attimi in cui ripensai a tutto ciò che ci aveva uniti, a tutto quello che invece ci aveva divisi per farci rincontrare solo oggi.
Quante volte avevo sognato il suo ritorno, quante volte avevo immaginato come se la stesse cavando… chissà perché mi ero immaginata che potesse comparire ancora un ragazzino davanti alla porta e avevo quasi l’impressione che dinanzi a me non avessi lo stesso Jason di un tempo. Ma era lui. Era mio fratello. Ed ora era tornato per me.
«Vuoi che ti perdoni dopo tutto quello che mi hai fatto passare? Dopo tutte le notte insonni, i giorni grigi e le lacrime sprecate?», gli chiesi tutto ad un fiato sentendo le lacrime rigarmi il viso. «Allora accompagnami all’altare, Jason», sussurrai con la voce rotta dall’emozione mentre un piccolo sorriso comparve sulle mie labbra.
«Ne sarei onorato», sorrise lui dolcemente, afferrandomi le mani e portandosele al cuore.
 
Pov Sarah
 
«Pronto? Sì, sono io!». Armeggiai con la porchette per infilare dentro tutto ciò che era uscito fuori per estrarre il cellulare, avanzando a passo velocissimo verso l’auto, tenendo l’oggetto stretto tra la spalla e l’orecchio destro mentre cercavo le chiavi.
Perché le cose scompaiono sempre, anche quando la borsa è di venti centimetri quadri?!
E, soprattutto, perché il cellulare squilla sempre nei momenti meno opportuni?!
La voce acuta della mia assistente mi rimbombò nelle orecchie e mi chiese qualcosa, ma io ero troppo indaffarata a cercare le chiavi e avevo il terrore di fare tardi.
Elle non mi avrebbe mai perdonata! Io non mi sarei mai perdonata, se avessi fatto tardi al matrimonio della mia migliore amica!
«Sarah? Mi stai ascoltando?»
«Sì, sì, ascolto», feci innervosita, esultando quando spuntarono attaccate alle cuffiette dell’ipod che avevo scordato di togliere. Le gettai sul sediolino dopo essere entrata in macchina e mi sistemai il mio vestito turchese, quello che avevo comprato l’anno scorso senza mai metterlo, come se l’avessi conservato apposta per quest’occasione…
«E allora cosa devo fare?», insistette la ragazza e riuscii a capire che voleva sapere come fare con alcuni pazienti senza prenotazioni.
«Ma non lo so! Oggi mi sono presa il giorno libero, devo andare al matrimonio di Elle! Sono sicura che te la sai cavare benissimo anche senza di me…»
«Ma…»
«Un bacio!». Attaccai prima che potesse replicare e sbuffai, dando una veloce occhiata alla mia figura nello specchietto retrovisore.
Perfetto. La pettinatura se ne stava già scendendo tutta e sembrava avessi lottato contro una tigre.
Misi in moto e partii di corsa, dritta verso la chiesa: se non c’era traffico, ce l’avrei fatta in tempo.
Ancora non ci credevo che la mia Elle si stava sposando. A dir la verità non volevo credere neanche che stesse per diventare madre, che avesse scelto Matt e che presto sarebbe andata a vivere assieme a lui.
Elle a volte mi sembrava ancora così piccola e indifesa, così bisognosa di attenzioni, e Matt mi sembrava altrettanto bambino: chissà se sarebbe stato abbastanza, se avrebbe retto i ritmi di Elle, se l’avrebbe supportata… a lei serviva un uomo più forte, qualcuno in grado di dirle “oh, non ti permetto di essere triste oggi perché ci sono io!”, uno come Johnny. Continuavo a pensare che sarebbe stato l’uomo perfetto per Elle, ma ormai lui aveva gettato la spugna e non potevo biasimarlo. Quanti legami senza amore e quanto amore senza legami!
Il cellulare osò squillare di nuovo: se è la mia segretaria, giuro che la licenzio.
«Chi parla?», risposi, prima di bussare il clacson ad un camion che voleva tagliarmi la strada.
«Ahò! Ti avevo vista!», sbraitò un uomo che si affacciò dal finestrino.
«Impara a guidare prima di metterti in macchina!», replicai accompagnandolo con un gesto a palmo aperto, prima che potesse sorpassarmi e sfrecciare via a gran velocità. «Stronzo», aggiunsi sottovoce, lanciandogli un’occhiataccia.
«Allora, chi è?», feci per la seconda volta, stavolta più stizzita. Sentii qualcuno schiarirsi la voce con imbarazzo, probabilmente aveva ascoltato il piccolo battibecco.
«Signorina, mi scusi, sono il dottor Lay, la chiamo dall’ospedale Green Hospital…»
«Oh, sì, mi ricordo di lei», feci sorpresa, schiarendomi la voce imbarazzata per la figuraccia che avevo appena fatto. «Segue la mia amica»
«L’ho chiamata proprio per questo. In realtà ho provato a chiamare sia la signora che suo marito ma hanno entrambi la segreteria telefonica e mi restava il suo recapito telefonico…»
«Sì, certo, mi dica», farfugliai preoccupata.
«Riguarda le analisi del sangue di qualche settimana fa. All’inizio era sembrato tutto in norma ma abbiamo effettuato ulteriori controlli e sono emersi dei problemi… dovremmo rifare il test»
«Cosa?», risi isterica, incredula per ciò che avevo appena ascoltato. «Ora non possono, stanno per sposarsi!», aggiunsi in un esclamazione.
«Signorina, credo sia molto più importante del matrimonio. Mi serve la sua presenza, ora». Il suo tono di voce era piuttosto serio e preoccupato, lui che di solito era sempre sorridente e scherzoso e si era occupato di Elle con così tanta comprensione… Lanciai uno sguardo all’orologio analogico e sospirai.
«Arrivo», dissi decisa, staccando la chiamata.
Feci inversione e tornai indietro per dirigermi al Green Hospital. Cos’altro c’era che non andava? Forse avevano rivelato qualche stranezza nel sangue del bambino a causa della malattia?
Dio santo, fa che non sia nulla di irreparabile! Elle mi perdonerà se farò tardi.
 
Pov Elle
 
«Signore, non possiamo celebrare il matrimonio senza il testimone!», replicò testardo il sacerdote, un po’ innervosito per l’insistenza di Matt, mentre tutti avevamo gli occhi fissi sull’orizzonte nella speranza di vederla comparire sulla soglia con il fiatone per la corsa dovuta al suo ritardo.
Alla cerimonia c’erano tutti: mia madre, mio fratello, i miei cugini, zio Sam e molti parenti di Matt che non conoscevo. C’era persino zia Betty che, aveva saputo della notizia del mio matrimonio, non riusciva neanche ad immaginare di non esserci.
Era un paradosso, ma Sarah mi aveva detto che Johnny era a Parigi, quindi non sarebbe venuto per fortuna. Era una semplice cerimonia che mi avrebbe unita per sempre a Matt, non volevo altro.
La testimone però mancava e non era da Sarah mancare alle occasioni importanti.
Ero arrivata in chiesa sotto il braccio di Jason ma non avevo potuto fare il mio ingresso a causa della testimone mancante e non avrei mai permesso a nessuno di cominciare senza di lei. Era quasi passata mezz’ora da quando ero arrivata e anche sotto le implorazioni di mia madre e Jason non mi ero decisa ad andare all’altare. Era una promessa che ci eravamo fatte da piccole e io non l’avrei infranta proprio adesso.
Mi affacciai,guardando la lunga navata dove si trovava Matt con volto preoccupato e perplesso mentre guardava l’orologio e sbuffava spazientito a causa dell’enorme ritardo. Ma dov’era finita?
«Ho paura che le sia successo qualcosa…», sussurrai abbassando lo sguardo, preoccupata come non mai. Non aveva chiamato né fatto avere notizie.
«Magari ha bucato o ha trovato traffico…», mi sussurrò Jason accarezzandomi, tentando maldestramente di confortarmi. Il sacerdote dietro di noi brontolava qualcosa, sicuramente poco carino nei confronti di Sarah. Sospirai rumorosamente, sentendo una piccola fitta a basso ventre, sicuramente la mia tensione faceva innervosire perfino la bambina. Drizzammo le orecchio quando nella sala squillò un telefono e sbirciando nel vestibolo intravidi Matt prendere il telefono e rispondere.
«Christian?», borbottò sorpreso, facendo strillare la sua voce in tutta la sala. Vidi il prete alzare gli occhi e le mani al cielo, mimando con le labbra una preghiera, probabilmente non aveva mai assistito ad una cosa del genere. Sbuffai, raccolsi il mio velo per non calpestarlo e mi sedetti sulla piccola panca, poggiando il mento sui palmi. Mia madre incrociò il mio sguardo e fece una strana faccia.
Forse era un “mi dispiace per te” simile ad un “te l’avevo detto che sarebbe andata a finire male” ma preferii non pensarci.
Già… perché, a pensarci, peggio di così non poteva andare! Non avevo mai visto un matrimonio senza il testimone.
 
Pov Sarah
«Reparto numero otto, reparto numero otto…», continuavo a ripetere a bassa voce, avanzando lungo i corridoi verso il reparto numero otto che mi era stato indicato dalla segretaria dopo che avevo chiesto del dottor Lay.
Il problema degli ospedali, e in particolare del Green Hospital, è che tutti i corridoi sembrano uguali ed è facilissimo perdersi, manco stessi percorrendo un labirinto! Vagai per più di dieci minuti su e giù per la struttura, perché qualcuno mi diceva che il reparto si trovava al terzo piano, qualcuno al secondo, qualcuno di nuovo al terzo ed io stavo uscendo matta: avevo provato anche a chiamarlo, ma non c’era campo e non potevo far altro che vagare in attesa di un’illuminazione.
Passai accanto al reparto numero sette: se era quello vicino all’otto, forse sapeva dove si trovava!
Distinsi anche una voce maschile provenire da dietro la porta e, sbirciando, distinsi la chioma rossastra di Christian, quell’amico di Matt che ci era stato presentato un po’ di tempo fa e che aveva continuato un po’ a seguire Elle durante la sua gravidanza.
Aveva anche tirato un po’ le somme, calcolando il parto per una settimana, massimo due: Elle era andata nel panico più totale al solo pensiero che tra quindi giorni avrebbe dovuto partorire!
«Come sarebbe a dire, Matt?!», esclamò l’uomo adirato, sbattendo i pugni contro la scrivania. «Devi venire subito
Matt? Perché mai stava parlando con Matt? Non doveva essere in chiesa a quest’ora? Oddio forse era successo qualcosa, Elle era scappata, il matrimonio era stato annullato…
«Perché non mi hai detto che ti sposavi proprio oggi?! E comunque devi sospendere la cerimonia e venire», aggiunse innervosito. Avrei pagato oro per ascoltare le parole di Matt, che a me parevano soltanto vuoti silenzi perché ovviamente non riuscivo a sentire.
«Matt, non hai capito un cazzo… hanno fatto delle indagini, sta venendo fuori un casino! Se si scopre cos’abbiamo fatto finiamo nella merda. Io finisco nella merda!». Aderii di più contro la parete sperando che nessuno passasse di lì e mi interrompesse proprio ora che la cosa iniziava a farsi interessante.
«No! Rischio di finire in galera, porca puttana, questo lo sai? E rischi anche tu, perché abbiamo falsificato insieme le analisi! Lo sapevo che sarebbe andata a finire così…!».
Sgranai gli occhi, portandomi istintivamente le mani alla bocca. Sentii il cuore fare un balzo fino a finirmi in gola mentre mi chiedevo se davvero avessi sentito ciò, come quando fai un sogno così realistico che credi sia stato vero e rimani con il dubbio. Mi sentivo così: avevo solo sognato quelle parole o veramente erano state pronunciate? Cosa significava che aveva “falsificato le analisi”?
«Se vieni e dichiari di non saperne nulla ce ne usciamo. Possiamo inventarci qualcosa, magari ammetto di essermi confuso con i campioni perché sbagliare è umano… o non lo so… tu però devi venire. Se arrivano a scoprire chi è il padre biologico avranno una prova contro di noi», sussurrò a più bassa voce, nel timore che qualcuno possa ascoltarlo.
Davvero non avevo più nessuna forza di rimettermi in piedi e andare via, tanto che ero disgustata, sorpresa, delusa dal comportamento infantile e poco corretto di Christian e di Matt.
Aveva davvero falsificato le analisi?! Una persona apparentemente ingenua come Matt, così innamorato di Elle, così voglioso di farla felice avrebbe davvero fatto una cosa simile?
Ma.. un momento! Se Matt non era il padre, chi altro poteva esserlo?
C’era una sola persona, che io sapessi, con la quale Elle era stata insieme. Una sola persona che Elle aveva amato così tanto da essere trascinata dalla passione.
Dovevo impedire che lei sposasse quel mostro. Ma prima di tutto dovevo impedire che quella bambina nascesse senza il suo vero padre: doveva essere lui ad agire ora. E, anche se dubitavo mi avesse creduta, sapevo già da chi andare.
 
Pov Johnny
 
Un ronfo persistente mi fece destare dai miei sogni, costringendomi ad aprire gli occhi e a catapultarmi nella vita reale. Capii solo dopo qualche minuto che qualcuno stava bussando persistentemente alla porta e, se avesse continuato in quel modo, fra qualche minuto me lo sarei ritrovato davanti con la porta a terra. Chi poteva essere? Di certo non era uno sano di mente.
Mi sollevai dal letto controvoglia, facendomi spazio tra le bottiglie di birra di cui avevo malsanamente abusato questa notte. Accesi la luce dell’ abat-jour, strabuzzando gli occhi a causa dell’intensità della luce e cercai con la mano il pacchetto di sigarette quasi finito. Mi portai la sigaretta alla bocca, accendendola con l’accendino che buttai subito dopo sopra il letto.
«Arrivo», urlai, ispirando dalla sigaretta e ricacciando il fumo subito dopo, lasciando che mi si formasse attorno una nuvoletta grigia di fumo. Mi alzai dirigendomi verso la porta, sbattendo più volte contro qualche oggetto lasciato sul pavento trai piedi.
Bussavano ancora in modo persistente.
«Ma mi volete forse rompere la port… ». Strabuzzai gli occhi quando mi ritrovai davanti agli occhi una donna dai capelli chiari e raccolti in una treccia con delle ciocche che le ricadevano disordinatamente sul viso fino. Era strana, visibilmente scossa, le sue spalle si alzavano e abbassavano a causa della folle corsa che aveva fatto per raggiungermi. Era vestita in modo molto elegante, di sicuro andava da qualche parte di importante…
«Johnny! Ti devo parlare e tu devi starmi a sentire», sussurrò a denti stretti e stringendo i pugni. Mi spostai, facendole spazio per entrare indicando l’interno dell’appartamento. «Joh, devi aiutarmi! Devi venire con me al matrimonio!».
La guardai scettico e la prima cosa che feci fu scoppiare a ridere: Eleonore era all’altare con l’uomo sbagliato al suo fianco e io dovevo andare a “salvarla”? No… lei non voleva essere salvata.
«Joh! Non perdere tempo… devi venire con me e fermare quel maledetto matrimonio! Ci sono troppe cos…»
«Sarah, va via, non mi interessa!», tagliai corto adirato, cercando di prendermela con la sigaretta piuttosto che con lei.
«Oh si che t’interessa! Questo locale puzza di alcool e fumo e i tuoi occhi sono visivamente stanchi e questo vuol dire che stanotte non hai chiuso occhio … per lei scommetto».
Ma chi era questa donna per venire a bussare a casa mia, giudicando la mia vita?
Le diedi uno sguardo come ad intimarla ad andarsene ma quella donna era più cocciuta di un mulo e sapevo che non se ne sarebbe andata così facilmente, non era il tipo da intimidazioni.
«Ma chi ti da il diritto di venire qui e dirmi cosa devo fare?! Torna a quello stupido matrimonio e festeggia!». Mi sentì avvolgere la mano e sentì la sua fredda come il ghiaccio. Mi voltai, ritrovandola ad un passo da me con i suoi occhi chiari addosso. Sapevo cosa faceva… quello era un modo professionale per leggermi dentro.
«Johnny, ti prego, non sarei venuta qui se non fosse stato importante... ascoltami ti prego…»
«Non voglio ascoltare nessuno, diamine! Non mi interessa!! Lascia che quei due vivano la loro vita come vogliono, c’è una bambina di mezzo, cazzo!».
Cercai di rimanere impassibile e controllare il mio tono di voce, non potevo permettermi di far riaffiorare le mie emozioni.
«E’ di lei che devo parlarti! Smettila di comportarti come se non t’importasse nulla, quindi te lo ripeterò solo un ultima volta, Johhny… siediti su quella cazzo di sedia e lascia che ti dica che Eleonore o come la chiami tu… non è innamorata di Matt! Lo ha fatto per la sua bambina ma oggi ho scoperto una cosa che…»
«Cosa, Sarah? Cos’hai scoperto, eh?», sbiascicai con rabbia, facendola indietreggiare a malapena, senza che il suo sguardo inferocito facesse una minima piega.
«Johnny… sei tu il padre della bambina…».
Il mio cuore parve arrestarsi di botto e la sigaretta mi cadde dalla bocca, cadendo sul pavimento, lasciando che la cenere si cospargesse sul tappeto. Cercai di leggere lo sguardo indecifrabile di Sarah, comprendere il labiale, ascoltare quelle nuove parole che mi stava urlando.
Cosa stava dicendo? Voleva prendersi gioco di me?
Caddi all’indietro accasciandomi sulla sedia, tenendomi la testa con le mani.
Come poteva essere?! Come potevo essere io il padre di quella bambina? Non era logico, non era calcolato.
Io… il padre di una piccola creatura, accoccolata sul ventre della donna che aveva reso la mia vita un misto tra inferno e paradiso. Lei… l’unica donna che avevo reso la mia esistenza l’unico film che avrei amato più di tutti.
 «Joh, hanno camuffato tutto così da non permettere ad Elle di fare una scelta, di avere una vita insieme al padre della piccola e al suo vero ed unico amore… e quello sei tu Joh… il vostro è un amore epico, di quelli che si leggono nelle fiabe! Quindi ti prego, mettiamo questo lieto fine finché  c’è tempo!».
Sorrisi di malavoglia, boccheggiando, cercando dentro di me la sola risposta, l’unica e vera verità. Mi sollevai quel minimo per vedere i suoi occhi divampare.
«Non posso Sarah… è una cosa così… strana. Non so se crederci o meno. Eleonore poteva anche…»
«Oddio! Piantiamola con questo stupido gioco! Hai il prosciutto davanti agli occhi per non capire che avevi la soluzione ai tuoi problemi davanti a te? Eleonore… non capisci che Eleonore non è altro che Elle? Sì, non fare quella faccia, la bambina della porta accanto con la quale passavi le giornate facendole lezioni di vita, quella bambina che ora è diventata la donna della quale tu ti sei perdutamente innamorato!».
Non so cosa mi passò per la testa in quel momento ma fu un qualcosa non molto lontano dallo svenire.
Chi era quella donna che mi stava riempiendo la testa di stronzate?! Come poteva essere… Elle.
La mia mente venne percorsa da un flash, come quando si dimentica qualcosa e la si ricorda poco dopo: quel ricordo della mia piccola Elle stava diventando ingombrante nei miei pensieri.
Quella bambina dai capelli biondini che rideva sempre, quella che avevo amato come se fosse la mia sorellina… era lei, la donna che ora aspettava un figlio a me.
Cosa cavolo avevo combinato?! Come potevo essere stato così cieco?
Sentii gli occhi farsi pesanti e una morsa allo stomaco che non mi permise di respirare adeguatamente. Per un attimo quasi mi mancò l’aria e desiderai perdere i sensi, mettere fine a questo tumulto che mi faceva girare la testa.
«Lo so… lo so che ora come ora è difficile da capire ma dobbiamo andare! Vuoi sprecare l’ultima occasione per essere felici insieme? Joh! Vieni con me a riprenderti ciò che è tuo di diritto!», esclamò tirandomi di peso dalla sedia. La guardai scosso, battendo le ciglia.
«Ok… ma guida tu. Credo che mi stia venendo un infarto!».
 
Pov Elle
 
«Signorina, non credo potremo ritardare ancora molto», mi sussurrò il prete con la faccia da cane bastonato e una mano posizionata sul cuore in segno di rammarico. Mi voltai verso mia madre che, con il telefono in mano, stava provando ancora a contattare Sarah. Sospirai rumorosamente, portandomi una mano in grembo.
«Andiamo avanti, Elle, sono sicuro che capirà…», sussurrò Jason, cercando di confortarmi. Lo guardai titubante.
«Non posso farlo senza di lei…», sussurrai, più parlando con me stessa che con lui.
Mio fratello si accovacciò a me, posizionando la sua mano sopra la mia, accarezzando la sottospecie di dirigibile che avevo al posto della pancia.
«Sembra quasi che stia per scoppiare», sussurrò e io risi come una bambina, guardandolo con le lacrime agli occhi per quanto era diventato bello. Storse il muso mettendosi la faccia da bimbo dolce, come faceva da piccolo quando ero triste.
«Elle… non credo che Sarah arriverà presto, ti consiglio di proseguire con la cerimonia». I suoi occhi chiari mi guardarono con dispiacere. Mi sembrò il consiglio più dolce e sincero mai esistito. Tirai un sospiro e mi alzai, annuendo.
Strinsi il braccio di mio fratello e l’orchestra diede inizio alla marcia nuziale. Vidi gli ospiti alzarsi e mi salì l’agitazione. Stavo per sposarmi…
Avevo da sempre desiderato questo giorno, da quando ero una piccola bambina e avevo sempre desiderato indossare un bellissimo abito che mi faceva aderenza sul mio corpo e un lunghissimo velo, invece avevo un abito con un enorme rigonfiamento sullo stomaco ma lo stesso che amavo più della mia stessa vita. Camminavo,facendomi trasportare da Jason a causa delle gambe che erano diventate improvvisamente molli, forse a causa dei tacchi che portavo ai piedi…
Percorsi la navata sotto la guida di mio fratello che mi guardava preoccupato, intanto che sentivo la mia bambina scalciare e agitarsi come impazzita. Guardai l’altare, incrociando lo sguardo di Matt che mi osservava colmo di emozione, mentre mi sorrideva con il suo sorriso da bambino. Indossava un abito di lino nero con una rosa posta nel taschino, mentre si torturava le mani a causa della forte emozione che lo stava mangiando vivo, tanto quanto me. Cominciai a tremare,senza avere più sicurezze. Era la cosa più giusta da fare?
Più di una volta mi guardai indietro, cercando una via di fuga e mi sentii in un vicolo cieco senza più uscita. Era troppo tardi per scappare via a gambe levate e di certo i tacchi non lo avrebbero permesso e mi avrebbero preso prima di arrivare sull’uscio della porta ma dopotutto avevo preso una decisione e lo avevo fatto per il bene di quella bambina che scalciava come impazzita nel mio ventre, consapevole che forse era la decisione più sbagliata che sua madre potesse fare.
Quando fummo vicini, Jason mi baciò la fronte, consegnandomi al mio futuro sposo che mi cinse la vita, conducendomi dinanzi all’altare, e il sacerdote iniziò subito la cerimonia come se avesse paura di essere di nuovo interrotto. Le sue parole mi sembravano incomprensibili come se stesse parlando in cinese ed ebbi la stessa sensazione di alcuni mesi prima, quando avevo rischiato di perdere mia figlia e sentii che qualcosa in me era cambiato. Persi la sensibilità delle gambe e mi aggrappai al braccio di Matt con tutte le mie forze, toccandomi il ventre sconvolta. Mia madre si era già allarmata correndomi incontro.
«Elle che ti succede!!!»
«Mi si sono rotte le acque»
 
Pov Johnny
 
«Forza, Sarah, non puoi fare più veloce?». Correvamo spediti come inseguiti dal diavolo in persona in direzione di una piccola chiesetta fuori città, mentre pregavo Dio che potessimo arrivare in tempo per fermare il matrimonio. Sarah stava guidando come una pazza, con una mano nel volante e l’altra sul cellulare, mentre parlava con le forze dell’ordine spiegando il tutto. Chiuse la chiamata per poi digitare un nuovo numero.
«Cazzo, è spento!», proferì, buttando il cellulare sul sedile e concentrarsi sull’acceleratore.
«Comunque merito delle spiegazioni… Sarah». La vidi sospirare rumorosamente, senza distogliere lo sguardo dalla strada, mentre cercai con tutta la forza di rimanere lucido e vigile, cercando di capire il tutto nel modo più veloce possibile. Mi sentivo come in un sogno e adesso mi toccava afferrare ciò che era successo nel tangente in cui avevo dormito.
«Allora… Matt e un altro dottore hanno collaborato in modo da falsificare le carte sulla paternità della bambina, cosa illecita infatti la polizia ha appena aperto un inchiesta… quindi facendo due e più due… se Matt non è il padre arriviamo alla prova che…»
«Che io sarei il padre». Ancora non potevo credere di aver pronunciato quelle parole. «Non credo di farcela, Sarah, a rivederla…», aggiunsi un secondo dopo, andando con la mano sulla maniglia dello sportello come se volessi uscire, in preda al panico.
«Rilassati». Una donna nevrotica che va a duecento all’ora che mi dice di rilassarmi… questa era bella.
«Per tutto questo tempo ho chiamato Elle con un altro nome… perché non me l’ha detto subito?!», feci isterico. Sarah mi riservò un occhiata flebile, sorridendo subito dopo.
«Joh… l’amore fa paura ed Elle ne ha avuta tanta. Dal primo momento che ti ha visto si è sentita catapultata in quel passato che ha cercato per troppo tempo di dimenticare. Ha subito capito che se ti avesse detto chi era tu l’avresti da subito considerata non come la donna che è diventata ma come la bambina che tu ti sei lasciato alle spalle. E dimmi… ti saresti innamorato di una bambina o…»
«Sono stato così… maledettamente cieco…»
«Devi dirglielo Joh! Dobbiamo solo sperare che abbia deciso di aspettarmi o sarà troppo tardi».
Arrivammo dieci minuti dopo alla chiesa in cui Elle avrebbe fatto lo sbaglio più grosso della sua vita. Peccato che lì sembrava non esserci anima viva…
Guardai Sarah e scendemmo dalla macchina, correndo a perdifiato verso la porta.
«Siamo arrivati tardi», sussurrò lei con il fiato corto,vedendo la chiesa vuota e dei petali di fiori sparsi per terra.
Smisi di respirare, sentendo le lacrime scivolare via dai miei occhi.
Allora era la fine. Allora era questo il finale della nostra favola… il principe azzurro che smarrisce il sentiero e non conquista la sua bella. Non poteva essere… non poteva essere finita davvero!
«No! cazzo no!!», ringhiai, sbattendo il pugno contro la porta, facendo un grosso rombo, mentre Sarah si voltò verso di me con gli occhi arrossati.
«Joh no…»
«Santo Dio, che sta accadendo qui?!». Ci voltammo simultaneamente verso un uomo bassino e dai capelli brizzolati, con un lungo abito nero. Quello doveva essere il parroco di questa chiesetta
«Padre! Padre mi dica … è già stato celebrato il matrimonio…?»
«Oh, è lei che abbiamo aspettato per tutto questo tempo», fece ironico, guardando l’orologio.§
«Allora?», lo incalzai spazientito.
«Beh, non c’è stata una celebrazione ufficiale… abbiamo interrotto perché la sposa è dovuta correre in ospedale… le si sono rotte le acque!», esclamò con un sorriso a trentadue denti.
Rimasi senza parole, sconvolto in viso mentre Sarah si voltò verso di me con il terrore e il panico negli occhi,.
No… ti prego no…
«Sai cosa significa?», mormorò. «Oddio dobbiamo andare subito in ospedale!», aggiunse urlando, afferrandomi per la manica della giacca e trascinandomi verso la macchina, mentre io non avevo nemmeno più la forza di muovere un muscolo. Troppe emozioni in un solo giorno, quell’infarto mi sarebbe venuto davvero.
«La vostra bambina è tempestiva in tutto eh?», proferì Sarah con un sorriso che le andava da un lato all’altro della faccia. Sorrisi come un ebete al “vostra bambina”. Già mi piaceva l’idea. Già mi piaceva l’idea di stringere tra le braccia il frutto del nostro amore e di riavere di nuovo vicino la persona a cui ero legato già prima di incontrare.
«Sai già il nome che avevano deciso?».  Sarah storse la faccia, pensandoci su e sorrise, guardandomi mentre i suoi occhi si illuminavano di gioia.
«No, Elle avrebbe deciso nel momento in cui avrebbe visto i suoi occhioni»
«Allora lo decideremo insieme».
La strada sembrava non aver fine e quell’orizzonte sembrava non avere infinito. La mia mente era un oceano di emozioni ma l’unica cosa che volevo era stringere tra le mani la mia bambina e la mia piccola Elle. Elle…
Come avrei mai potuto lontanamente immaginare che la piccola bambina con cui giocavo da piccolo era diventata la persona più importante della mia vita? Era cresciuta così velocemente ed era per questo che mi sembrava di conoscerla al solo sguardo. Eravamo legati da qualcosa più grande di noi stessi  e il destino ci aveva dato una seconda opportunità. Solo che stavolta non l’avrei fatta scappare.
«Diamine, non possiamo passare! Ci sono troppe macchine! Joh, scendi e va da lei!», mi incitò. 
«Vado», sussurrai, scendendo dalla macchina e correndo a perdifiato verso l’ospedale.
Ero la follia fatta persona.
Quando arrivai in ospedale, fu facile farsi indicare la sala parto.
Dinanzi ad essa, riconobbi una testolina bionda che avevo tanto desiderato prendere a calci.
«Tu!», gridò lui, puntandomi un dito contro.
«Matt, se non vuoi ritrovarti un pugno in faccia e venire male nelle foto, fammi entrare».
Lui sorrise, ponendosi davanti alla porta così da non lasciarmi entrare, con le mani conserte e una faccia che prometteva scintille. Dio Santo, me le tirava dallle mani quelle botte! 
«Devi avere il consenso del padre del bambino e… vediamo… No! Lui dice di no!», fece caparbio. Sbuffai a ridere e mi avvicinai a lui, sussurrando flebilmente al suo orecchio, sentendo già l’orgoglio salirmi nelle vene.
Ci aveva fatto troppo male per meritare un minimo di considerazione. Stava per rovinare le nostre vite tenendoci lontani.
«No? Io invece dico di si». Lo vidi sbiancare e si irrigidì di botto, guardandomi con l’aria stralunata e di chi la sapeva lunga. Aveva sicuramente capito a cosa volessi alludere.
Delle urla lancinanti ci fecero sobbalzare di botto. Era lei… era Elle! Dovevo entrare dovevo vederla. Mi voltai nuovamente, cercando di entrare ma come un attimo fa, Matt mi si piazzò davanti, con le braccia allargate ,non permettendomi di entrare.
«Matt! Sappiamo entrambi chi sia il padre di quella bambina, quindi fammi largo e lasciami passare. Se la ami… lasciala libera di scegliere».
I suoi occhi divennero ancora più limpidi. Si allontanò di botto, abbassando le braccia e calando la testa in segno di sconfitta. Matt non era una persona cattiva. Amava troppo ma non sapeva come fare, lo si leggeva dai suoi occhi… forse un giorno sarei riuscito a perdonarlo.
Aprii la porta di scatto, ritrovandomi davanti una sfilza di medici attorno a lei.
«Scusi chi è lei? Deve andarsene non può stare qui!», sbottò infastidito il dottore mentre l’infermiera mi spingeva verso l’uscita.
«Elle», gridai, sperando che mi sentisse e cercai di divincolarmi dalla presa della dottoressa. Elle si voltò di scatto verso di me con gli occhi sbarrati dalla meraviglia, il viso sudato e i capelli bagnati che le coprivano il viso contratto dal dolore.
«Joh…», sussurrò con la voce rotta dall’emozione mentre la sua mano, cercava la mia.
La donna si voltò verso di me e mi lasciò andare permettendomi di correrle incontro. Mi avvicinai a lei, toccando il suo bellissimo viso e baciandola sulla fronte.
L’emozione che provavo in quel momento era indescrivibile. Tra le mie braccia stringevo lei, la mia piccola, la mia Elle.
«Sono qui, tesoro, sono qui… perché ti amo. Mi spiace così tanto di non averlo capito prima», mormorai, cullandola. I suoi occhi si riempirono di lacrime e mi accarezzò il viso con la sua mano.
«Mi hai chiamata Elle…», sorrise lei flebilmente.
La guardai negli occhi e sorrisi.
«Infondo l’ho sempre saputo… ma tu devi sapere che quella che sta per nascere è mia figlia», sussurrai con la voce rotta dall’emozione.
Lei sorrise e strabuzzò gli occhi dal dolore, ulteriore causa delle sue lacrime, increspando le labbra.
«Infondo l’ho sempre saputo», sussurrò sorridendo, prendendomi la mano e stringendola prima di cacciare un urlo.
«Signorina, spinga!!!», urlò il dottore, mentre vidi il suo viso diventare paonazzo come se gli mancasse l’aria. Cominciò a respirare sempre più in modo convulso, agitandosi e dimenandosi in modo straziante.
Stavo per sentirmi male anch’io, nostro figlio stava per nascere, io diventavo padre per la prima volta, Elle stava soffrendo come un cane… quella situazione mi sembrava talmente irreale che quasi mi venne da ridere, se non ci fosse la stretta di Elle che mi avrebbe lasciato di sicuro il livido.
«Non ce la faccio!», urlò inarcando indietro la schiena e stringendo la mia mano con violenza. Mi abbassai, avvicinandomi al suo viso e accarezzandola dolcemente.
«Un ultimo sforzo. Ce la fai. Ci sono io», sussurrai al suo orecchio.
Due secondi dopo il silenzio venne squarciato da una voce strillante che piangeva e, quando alzai lo sguardo, vidi il dottore stringere tra le braccia qualcosa delle dimensioni di un bambolotto.
«Ce l’hai fatta!», esclamai ridendo per la tensione, prima di stringerla a me e baciarla.
«Ti amo», sussurrò lei, abbandonandosi al calore e la protezione che il mio corpo poteva offrirle.
«Scusate…? C’è qualcuno che vi vuole salutare».
La dottoressa ci mise tra le mani una piccola creatura avvolta nelle fasce dalla pelle ancora arrossata e un ciuffo di capelli scuri. Venni pervaso da una scossa e un brivido intenso mentre il cuor minacciava di esplodermi nel petto: non avevo mai visto niente di più bello in vita mia.
Mi sentii fiero di me stesso, come se quella piccola pagnotta fosse anche un mio frutto: di sicuro era la cosa più giusta e vera e bella che avessi potuto fare.
«Sei bellissima», sussurrò Elle con la voce rotta dall’emozione, baciandola e stringendola fieramente come premio per i suoi grossi sacrifici. Mi chinai su di lei, le sfiorai quella sua piccola manina e baciai il capo delicato. La bambina fece un piccolo verso come una risatina.
«E’ nostra figlia», sussurrò Elle sorridente, guardando prima lei poi me.
«Come la chiamiamo?»
«Avevo pensato Sophie», fece lei speranzosa, guardandomi in attesa di un cenno di assenso.
«Ci starebbe anche Alice»
«Sophie Alice?», mi chiese con gli occhi luccicanti dalla felicità.
«Avrà il mio cognome, vero, amore?»
«Ovviamente», sussurrò Elle, stringendosi la piccola al seno. «Sai, è bello sentirti di nuovo dire che mi chiami amore…», aggiunse abbassando il capo.
«Avrei dovuto farlo tanto tempo fa. E non smettere mai», mormorai accarezzando il visino di Sophie che sembrava essersi addormentata. «Quando eri più piccola mi chiedevi se un giorno saremmo mai potuti stare insieme… eri molto testarda ma non pensavo che tu potessi arrivare veramente a realizzare tutti i tuoi obiettivi», aggiunsi ridendo al ricordo.
Lei rise con me, nascondendo il viso nei suoi capelli.
«Ci sono così tante cose che devo dirti…»
«Abbiamo tutto il tempo». Le accarezzai il dorso della mano, risalendo lungo il braccio fino alla spalla e alla guancia. «Elle?»
«Mmh?»
«Scusa, ma ti voglio sposare»


Eccoci arrivati alla fine... Siamo commosse :') Non credevamo di poter arrivare ad un risultato come questo, siamo felicissime di aver provato quest'esperienza ed aver creato una storia che per noi è molto importante...
Il finale potrebbe sembrare un po' "improvvisato" ma l'abbiamo voluto lasciare di proposito un po' in "sospeso" perché ci sarà una seconda storia... sì, avete capito bene, un continuo ahahah e crediamo abbiate capito anche che si chiamerà "scusa ma ti voglio sposare".
Speriamo davvero di avervi appassionate alla nostra scrittura e alla storia.
Speriamo di ricontrarvi la prossima volta!
Bacioni, A&P <3






Cara Aishia, lo so, abbiamo fatto il "patto" di restare anonime nella pubblicazione così come nelle risposte, abbiamo parlato sempre al plurale ma... DOVEVO fare questa cosa. Nulla di particolare, volevo solo ribadirti quello che ogni giorno ti dico: sei importante per me.
E' nato tutto per caso, da una tua recensione e da subito ci siamo trovate in sintonia: beh, sto parlando di quasi due anni fa e adesso arriviamo a parlare contemporaneamente su facebook, whatsapp ed efp, parlando anche di argomenti diversi ahahah >.<
Ora conosci cose di me che nessun'altro sa così come tu mi hai rivelato cose di te che soltanto io so e sono onorata di questo: ti voglio ringraziare per avermi aperto una finestra della tua vita, per avermi aiutata, supportata, sostenuta, diventando un'amica straordinaria.
Questa di una storia a 4 mani è stata la mia prima esperienza e posso dire che confrontarmie  condividere un racconto con te è stata la cosa più bella che avessi mai fatto! E' stato un mix di stress (quando ti ci metti sai essere davvero petulante ù.ù) e confusione, ma anche fonte di soddisfazioni e gioie, miste a risate e tanto divertimento... noi che avremmo potuto progettare la terza guerra mondiale ma che non riuscivamo a trovare un benedetto nome a sta bambina ahaha xD E come dimenticare quando immaginammo la storia in stile The vampire diaries in cui Sarah era una strega, Johnny un vampiro, Elle un lupo mannaro? :')
Sono felice di averti conosciuta e volevo soltanto far sapere a tutti quanto sei meravigliosa! <3
Un abbraccio, Princess <3

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