~Restare

di Brooke Davis24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I ***
Capitolo 2: *** Atto II ***
Capitolo 3: *** Atto III ***
Capitolo 4: *** Atto IV ***
Capitolo 5: *** Atto V ***



Capitolo 1
*** Atto I ***


Atto I
http://www.youtube.com/watch?NR=1&v=JF8BRvqGCNs&feature=endscreen
 
Stanca. Era così che si sentiva da diversi giorni a quella parte e, benché si fosse impegnata a rinvigorire tanto i propri muscoli quanto il proprio spirito, il risultato era parso un miraggio, lontano e astratto quanto può essere la visione di un lago del bel mezzo del deserto.
Il sole era alto, quel giorno, e splendeva radioso, facendosi beffe delle fatiche, dei cattivi umori, dei dolori degli uomini. Emma rise brevemente, distogliendo lo sguardo dal folto della foresta e osservando le proprie braccia incrociate sul petto. Istintivamente, sbuffò e scosse il capo, consapevole delle parole che le avrebbe rivolto sua madre se l’avesse vista; con la dolcezza di cui la sapeva capace, le avrebbe sorriso e le avrebbe chiesto di aprirsi, di non relegarsi nell’abitudine al silenzio e alla solitudine cui aveva fatto affidamento per così tanto tempo.
Lei non capiva. Emma lo sapeva e non gliene faceva una colpa, perché sentiva non sarebbe stato possibile renderli partecipi di una vita che, in fondo, temevano di scorgere nella sua interezza. Negli anni che aveva trascorso lontana da loro, negli anni in cui la sua personalità si era temprata, si nascondevano talmente tanti dolori e frustrazioni e delusioni che prenderne coscienza avrebbe probabilmente funestato le loro notti e confuso i loro pensieri, rendendogli difficile il sonno e la quiete. Sebbene una parte di lei, il lato oscuro che ancora non era riuscita a debellare, anelasse alla vendetta, il suo cuore e la sua mente amavano così profondamente i suoi genitori da renderla consapevole del fatto che, se li avesse feriti, avrebbe fatto del male a se stessa. A cosa sarebbe servito, del resto? Nessuna lacrima, nessun insulto, nessuna fuga le avrebbe restituito i trent’anni che aveva dovuto trascorrere lontana dalla sua famiglia. E, se il fine al quale aveva sempre mirato erano loro, che senso avrebbe avuto prendere le distanze? Nessuno. Non era quello che voleva.
Chiudendo gli occhi, inspirò ed espirò a lungo, rimproverando mentalmente l’Emma più dura e rancorosa; con un sorriso lieve, bonario, la picchiò sul sedere e la spinse via, costringendola ad una reclusione che sperava l’avrebbe ammorbidita un po’. Ma quella parte di sé era più testarda di quanto non si fosse mai aspettata e, ad onor del vero, era più sincera di quanto non fosse stata lei negli ultimi tempi.
Turbata, aprì gli occhi e, in una reazione involontaria, le sue sopracciglia s’inarcarono e la fronte si aggrottò, consapevole di aver perso per l’ennesima volta contro l’Emma ferrea che viveva nella parte più profonda del suo io. Aveva ragione lei, lo sapeva, sotto tanti di quegli aspetti che accettarlo, in quel momento, le costò una gran fatica. Aveva ragione a pensare che non appartenessero a quel luogo, ad osservare la Foresta Incantata e il castello nel suo fulgore e a non sentirli più familiari di quanto non lo fossero state le case delle famiglie affidatarie presso le quali aveva vissuto. Aveva ragione ad urlare il suo disappunto, quando venivano costrette ad indossare uno sfarzoso abito da cerimonia e passicchiare per l’enorme sala con una finta espressione di giubilo, in verità alla ricerca di una bottiglia di alcool che potesse lenire le sue frustrazioni. Aveva ragione a dire che sentivano la mancanza di lui. Entrambe. Lei e l’Emma dura e rancorosa.
Erano trascorsi mesi dall’ultima volta che l’aveva visto e istintivamente, al cospetto di quell’ammissione, il suo cuore mancò un battito: non si concedeva spesso il lusso di pensare a quel passato recente, perché, tutte le volte che accadeva, bruciava la consapevolezza di aver commesso un errore del quale, a distanza di tempo, si pentiva amaramente. La sua mente, infida, le fece ripercorrere ancora e ancora le immagini dell’avventura presso l’Isola che non c’è, quando, alla ricerca di Henry, erano partiti a bordo della sua nave e, preso il largo, avevano lottato fianco a fianco, bene e male uniti sullo stesso fronte per amore di un’unica persona.
Bene e male. Era davvero corretto parlare in quei termini? Lei era il bene e lui era il male? Aveva sul serio una così alta opinione di sé? No, si disse, non era questo che pensava quando si guardava allo specchio, né l’aveva mai pensato. Neppure quando Henry si era accanito per farle capire la veridicità delle sue parole in merito alla maledizione e a Storybrooke aveva creduto di essere la Salvatrice; neppure quando aveva spezzato la maledizione e salvato tutti gli abitanti della Foresta Incantata dal destino più crudele che si potesse imporre a qualunque essere umano, neppure allora si era sentita speciale.
Era semplicemente Emma, la ragazza guardinga e scrupolosa che non si permetteva di fantasticare su sogni troppo grandi, benché ne stesse vivendo uno. Era semplicemente una madre che amava suo figlio e che conviveva, giorno per giorno, col senso di colpa per averlo dato via. Era semplicemente una donna ferita, che aveva amato tanto e ingenuamente e ne aveva subito le conseguenze. Le stava subendo ancora, a dire il vero.
Con un sorriso più ampio, mosse la mano per salutare Henry e il suo cuore recuperò il battito perduto poco prima. Henry le dava pace; era l’unica persona che si concedesse di amare senza remore, senza protezioni e, probabilmente, la stessa che riusciva a carpire ogni suo stato d’animo come appartenesse anche a lui. Dall’alta finestra della torre presso la quale le capitava di rifugiarsi spesso, Emma seppe che suo figlio stesse percependo il suo disagio e ne fosse dispiaciuto: una parte di lui, lo sentiva, avrebbe voluto che i sentimenti provati per Neal a suo tempo risorgessero e tornassero in auge più tuonanti che mai, che sua madre e suo padre formassero la famiglia che, per un frangente, tutti avevano pensato si sarebbe creata, Neal compreso. Ma l’altra parte di lui voleva semplicemente che fosse felice, che smettesse di trincerarsi dietro il muro di bugie e falsi sorrisi eretto a protezione della parte più profonda di sé e corresse incontro alla persona che tanto le stava a cuore.
«Emma?» La voce di suo padre, seguita da due galanti tocchi sulla superficie della porta, la ridestò dalle sue riflessioni e, voltandosi, gli regalò il sorriso più spontaneo che le sue intime tribolazioni le consentirono di riprodurre.
«Mi cercavi? Qualcosa non va?» chiese e, mentre lo osservava avanzare verso di lei, la tensione cedette il posto al sollievo e il suo corpo si rilassò. Si sentiva protetta e capita, quando era in sua compagnia, e, con un po’ di imbarazzo, amava godere di quella connessione non del tutto conosciuta tra padre e figlia che aveva da poco sperimentato.
«Ti ho vista dal giardino» rispose lui, affiancandola ed indicandole il punto dal quale doveva averla scorta. «e ho pensato di salire da te. Comincio a pensare che questa torre, fredda e spoglia, ti piaccia più della tua camera!»
«In effetti, è così. E’ essenziale. Come me.» fece e non si curò di apparire ilare o spensierata, perché non desiderava fingere, non in quel momento, non nella torre in cui aveva alacremente intessuto i fili delle sue elucubrazioni. «Henry adora questa casa.» disse e un sorriso sincero le increspò le labbra.
«E tu?»
«Suppongo sia un bel posto in cui vivere. Devo solo abituarmi a tutto questo.» gli spiegò e fu sincera. Il problema non era il luogo; il problema erano lei e la sua ostilità ai cambiamenti. Persino accettare che non amasse più Neal le era costato fatica e ancora si chiedeva se non stesse commettendo un errore a lasciare che quella sensazione del tutto istintuale la sopraffacesse. L’Emma dura le tirò una gomitata, intimandole di non farlo ancora una volta, di non reprimere i suoi sentimenti fino a sentirsi soffocare.
«E’ da quando siamo tornati nella Foresta Incantata che tento di capire cosa non vada, cosa ti renda tanto triste.» s’interruppe un attimo, come a raccogliere i pensieri per dar loro una successione logica coerente. «All’inizio, ho pensato si trattasse del passato, che fossi spaventata e arrabbiata e rifiutassi di andare avanti, di lasciarci entrare nella tua vita dopo quello che ti avevamo fatto; ho pensato che potesse mancarti il mondo in cui eri cresciuta.» Lentamente, si voltò verso di lei e attese che Emma facesse altrettanto; aveva bisogno di guardarla negli occhi mentre la rendeva partecipe delle conclusioni che aveva tratto per capire quanto si fosse avvicinato alla realtà. «Ma non ha a che fare con noi, non a che fare con nulla di tutto ciò. E’ per lui, vero?»
Bingo, si disse. Nulla nella postura di sua figlia era cambiato, non un muscolo si era mosso, non un sospiro era uscito dalle sue labbra, non un accenno di sorpresa. Una sola cosa l’aveva tradita, un piccolo, quasi impercettibile battito delle ciglia fuori tempo come se i pensieri di lei fossero inciampati, una volta che David aveva aperto il sipario e li aveva esposti al suo sguardo vigile; l’aveva preso da Snow.
«Non capisco. Di chi stai parlando?»
Tipico di Emma. Se le avessero chiesto di impugnare un’arma e combattere contro una fitta schiera di troll piuttosto che fronteggiare i suoi sentimenti e accettarli così com’erano, avrebbe impugnato l’arco e si sarebbe gettata nella mischia senza esitazioni, scoccando una dopo l’altra le frecce con le quali avrebbe voluto trafiggere le sue emozioni fino al perimento.
«Dello spaccone con l’eyeliner in grado di capirti più di quanto io o tua madre siamo capaci di fare, lo stesso che il mio pugno ha salutato più e più volte.» le disse ed Emma rise, ripensando a quante volte Killian fosse stato sul punto di dar vita ad una rissa con suo padre. «Anche se me lo chiedo e vorrei saperlo, non ti chiedo cosa ti piaccia di lui, ma perché tu lo abbia lasciato andare senza dargli una ragione per restare.»
«Non ne vedevo e non ne vedo ragione. E’ un pirata, il mare è la sua casa ed era normale che andasse per la sua strada. Non capisco cos’avrei dovuto fare, secondo te.» fece lei e, se non l’avesse conosciuta bene come presumeva, avrebbe potuto credere a quella recita magistrale.
«Non hai detto che non ti piace, vedo…»
«No. Non giocare con le mie parole. Ho risposto a quello che mi hai chiesto, niente di più.» gli fece notare, ricamando sulla premessa che David aveva fatto poc’anzi. Un sorriso furbo e soddisfatto le increspò le labbra dinanzi all’espressione indispettita di lui; lo aveva fregato, o, almeno, così le sembrava.
«Quindi…» iniziò e lentamente s’incamminò verso la porta, intenzionato ad uscire. «… se ti dicessi che corrono voci di una nave ormeggiata nei pressi della spiaggia e di una… Come l’ha definita Granny? Ah, sì! Schifosissima feccia di pirati accampata nei dintorni, ebbene non t’importerebbe nulla?» Ancora una volta, i pensieri di lei inciamparono e le ciglia batterono più velocemente. Ma, come poco prima, si tratto di un attimo, fugace e destinato a cessare.
«Ovviamente.»
«Fossi in te, andrei a dare un’occhiata.» la rimbeccò e ridacchiò, osservandola mentre incrociava le braccia al petto. Agile, tornò sui suoi passi e, quando l’ebbe raggiunta, le cinse il volto con le mani e l’accostò a sé, fin quando le sue labbra non toccarono la fronte di lei. Dolcemente, le lasciò un bacio sulla pelle diafana e, quando i loro occhi si incontrarono, le sorrise: se Hook avrebbe avuto bisogno di una ragione per restare, in quel momento Emma ne aveva bisogno di una per andare. «Sei comunque lo sceriffo, no?»


Spazio dell'autrice:
Ringrazio chi è arrivato fino alla fine e non ha trovato il nostro bel pirata. Immagino sia una gran bella delusione! Per me, lo sarebbe. Ma prometto che arriverà prestissimo, se varrà la pena continuare e se l'ispirazione sarà dalla mia parte. Spero il capitolo sia stato di vostro gradimento e mi auguro che la canzone vi abbia aiutati a calarvi di più nella scena. :)
Per chi se lo fosse chiesto, ho volutamente mantenuto i nomi in inglese per mio gusto personale. :)

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Capitolo 2
*** Atto II ***


Atto II
Un rumore di rami spezzati e di foglie secche calpestate con furore annunciarono agli abitanti della foresta che qualcuno dall’andatura non troppo aggraziata stesse attraversando i sentieri boschivi. Gli occhi curiosi di uno scoiattolo scrutarono a lungo la figura longilinea che, a passo di marcia, procedette silenziosamente tra gli alberi e, spinto da un moto puramente istintivo, la seguì per un po’, saltando di ramo in ramo e nascondendosi tra le foglie quando le sue movenze non troppo caute sembravano destare sospetti nella giovane. Era piccolo e inesperiente e non aveva avuto molte occasioni per avvicinarsi agli umani!
Emma, benché guardinga per natura, non si curò troppo dei sospetti che la sua visita avrebbe potuto destare tra gli abitanti della foresta e, persa nelle sue riflessioni, rimase sconcertata quando, nel tentativo di riprendere fiato, l’impressione di essere osservata avuta fino ad allora si trasformò in certezza: uccelli, piccoli roditori, lepri e conigli erano tutt’intorno a lei e, per quanto strano potesse apparire, la stavano fissando.
«Ma che diavolo..?» fece e, più rapidamente di quanto non si potesse aspettare, la sua mente trovò una spiegazione plausibile ad una situazione che di plausibile non aveva nulla. Era nella Foresta Incantata, sua madre era Biancaneve, lei era la figlia del Principe Azzurro; qualcosa le diceva che sua madre sapesse parlare con gli animali e che ognuno di essi sapeva chi fosse e si aspettasse qualcosa. Ma cosa? Avrebbe dovuto presentarsi, forse? Avrebbe dovuto stringer loro la zampa? In un moto d’isterica ilarità, scoppiò a ridere e lentamente prese posto su una roccia non troppo distante. «Non posso farcela!» si disse, ma una parte di lei sorrise e si sentì sollevata da quel pensiero, razionalmente meno turbata dalla conversazione col padre.
Non troppo distanti, i rumori del villaggio si accompagnavano l’un l’altro a testimoniare la vivacità del paesino ed Emma seppe di aver fatto la scelta giusta, quando, congedatasi da David, aveva lasciato che il suo istinto la guidasse nel tentativo di smaltire la rabbia e il nervosismo che aveva accumulato. Aveva il vago sentore di aver dato un’impressione sbagliata, presa dai sentimentalismi com’era, e di aver lasciato credere che provasse per Uncino un trasporto che, in realtà, non era nemmeno vagamente rintracciabile nell’ambito delle emozioni. Se proprio avesse dovuto dargli una definizione, si sarebbe trattato di sensazione.
Era qualcosa di strano, una mescolanza di gratitudine ed empatia che non riusciva a spiegarsi e che la confondeva nella sua intensità. C’erano stati momenti, durante in viaggio presso l’Isola che non c’è, in cui si era sentita così profondamente legata a lui che il suo corpo era stato sospinto nella direzione dell’uomo con una facilità che non aveva creduto possibile. Un filo immaginario era parso correre tra loro con lo scopo di farli ritrovare ogni qualvolta erano stati sul punto di perdersi, non solo emotivamente ma anche materialmente: se Emma avesse dovuto versare una monetina per tutte le volte in cui Uncino era apparso al suo fianco dal nulla, quando aveva pensato che fosse arrivata la sua ora e non avrebbe mai più rivisto Henry, sarebbe riuscita ad offrire da bere ad una taverna stipata di gente.
Non era amore, il loro. Non era quello che provava, non poteva esserlo. Emma sapeva, sentiva che i contorni di quello che li accomunava erano ben lontani dal sentimento di completo trasporto e di assoluta appartenenza che aveva provato per Neal e che probabilmente, a sua volta, Uncino aveva provato per Milah. Era qualcosa d’indefinito, di ancora non svelato e, ad onor del vero, non era certa di essere pronta a darvi una definizione: se si fosse trattata di una mera attrazione, sarebbe stato difficile debellarla e non soggiacere all’assenza di razionalità che la coglieva impreparata in sua presenza; se fosse stato qualcosa di più, l’unica alternativa che le si profilava all’orizzonte era quella di fuggire lontano. O, forse, scavarsi una buca e rimanervi per qualche tempo. Non poteva darla vinta a quello sporco, vanitoso pirata e ai suoi “Non potrai resistermi a lungo, Swan”! Istintivamente, si guardò intorno e, meditando un istante o due sulla possibilità di dar vita ad una fossa in grado di contenerla, si disse che avrebbe avuto bisogno di una canna di bambù per evitare che morisse asfissiata. Ma, nel mondo delle favole, esistevano le canne di bambù?
«Mi sei mancata, tesoro!» le sussurrò una voce all’orecchio, troppo vicina perché potesse non coglierla di sorpresa. Fu un istante e, voltandosi, tirò un pugno allo sfortunato che, con cotanta sfacciataggine e altrettanta circospezione, era riuscito ad avvicinarla senza destare i suoi sospetti. Ma chi avrebbe mai potuto muoversi in maniera così silente e rivolgerlesi con la stessa confidenza, se non lui?
«Hook!»
«Dannazione, donna!» esclamò, inumidendo la porzione di labbra che Emma aveva colpito e lavando via il sangue con l’atteggiamento spavaldo e ammiccante di cui lo sapeva capace. «Tu e tuo padre avete intenzione di rovinarmi? Con questo bel faccino e con qualcos’altro, mi sono costruito una gran bella reputazione, sai?»
«Che ci fai qui?» chiese d’istinto e i suoi lineamenti s’indurirono, com’era solita fare in presenza dell’altro. La metteva in agitazione quel suo modo di fare.
«La tua ospitalità e riconoscenza mi commuovono, dolcezza.» si prese gioco di lei e, nel farlo, si concesse il lusso di una lunga, attenta ispezione. Amava di lei il fatto che non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di coglierla impreparata e il fatto che non si sarebbe mai permessa di mostrarsi palesemente a disagio! «Comunque, volevo vedere come se la passava il mio candido, mansueto cigno reale.» proseguì e, nel farlo, accompagnò le sue parole con un inchino di scherno. Quando si alzò, la trovò con le braccia incrociate e l’espressione di chi poco ha gradito il sarcasmo.
«Se hai finito con la commedia, io andrei.»
Insopportabile. Era dannatamente insopportabile. Odiava quel suo modo di fare ostentatamente baldanzoso, quasi si aspettasse che ogni essere di sesso femminile cadesse svenevole al suo passaggio. Qualunque proposito precedente svanì dalla mente di Emma e, improvvisamente, ricordò la ragione per la quale si era sentita sollevata, quando lo aveva visto salpare alla volta della prossima terra: la irritava e, quando si sentiva irritata, tutto il suo corpo rimaneva in tensione, i suoi nervi cedevano e l’Emma più dura e rancorosa, la stessa che poca familiarità aveva con la riconoscenza, prendeva il sopravvento.
«Andiamo, Swan…» fece lui e cominciò ad avanzare lentamente, prodigo di quel fascino che lo rendeva, a tutti gli effetti, un uomo appetibile come pochi altri. «Non ti sono mancato nemmeno un po’? Mi sembravi parecchio sconsolata, seduta su quel masso!»
«E cosa ti fa pensare che dipendesse da te il mio stato d’animo?» Piano piano, l’Emma dura e spavalda forse quanto Uncino si fece largo e, quando il pirata l’ebbe raggiunta, lo guardò con quell’espressione a metà tra l’irritato e il disinteressato.
«Nulla, ma mi piace immaginarlo.»
Bam, si disse. L’aveva fatto di nuovo, quel dannato, dannatissimo pirata! Era sempre la stessa storia, sempre lo stesso canovaccio: la stuzzicava, flirtava con lei costantemente, si prendeva gioco di lei e, quando sentiva che Emma si sarebbe aspettata una risposta sarcastica delle sue, la bastonava con la verità, senza nascondersi dietro alcuna battuta di spirito. La trovava bella? Glielo rendeva presente senza mezzi termini. Si sentiva attratto da lei? Non vedeva motivo per ometterlo. Voleva che lei provasse qualcosa per lui? Lo dichiarava con la sottile insinuazione di provare, a sua volta, qualcosa nei suoi confronti. Aveva già detto che lo trovava insopportabile?
«Non hai ancora risposto alla mia domanda. Che ci fai qui?» ripropose lo stesso quesito e si maledisse internamente per non aver trovato niente di meglio da dire, nel momento in cui un sorriso vittorioso inclinò ulteriormente le labbra del bel pirata.
«Il fatto che tu non creda alle mie parole non solo mi ferisce, ma vorrei farti notare che non implica che io non ti abbia risposto. Sono qui per vedere te, Swan.»
Bam. Di nuovo.Con un grosso sospiro, Emma inclinò appena il capo e osservò con attenzione il blu dei suoi occhi, con la consapevolezza che i suoi superpoteri non avrebbero fatto altro che confermare ciò che era evidente: non stava mentendo. In un moto di disperazione, percorse la radura con lo sguardo solo per avere conferma che, no, non c’era nessuna maledettissima canna di bambù in circolazione.
«E che cosa vorresti da me di preciso?» domandò e, prima ancora di aver terminato la frase, seppe di essersi data la zappa sui piedi. Dove diavolo era finita la pronta loquacità dell’Emma dura e rancorosa? Entrambi, tuttavia, sapevano di avere un conto in sospeso e, a pagare, doveva essere Emma, quella volta.
«Beh…» fece e si umetto le labbra con la lingua. Le occorse un immane sforzo di volontà per non guardare in quella direzione e mantenere l’attenzione fissa negli occhi dell’altro. «Ci sono un paio di cose che potrei volere da te…» ridacchiò di un suono roco ed erotico, lo stesso che, si disse, aveva usato più volte mesi fa e che doveva riservare a qualunque donna desiderasse conquistare. «Tutto dipende da cosa tu sei disposta a concedermi!»
«Ma non ti stanchi mai, Hook?» chiese, fintamente esasperata, e una parte di lei ammise di trovarlo divertente. Sapeva essere snervante, ma c’era un non so che di esilarante in quel suo modo di fare tanto civettuolo.
«Mai!» rispose e le sorrise più ampiamente.
«Se fossi stato una donna, saresti stato una gran bella puttana, lo sai?» lo prese in giro e, per la prima volta da che l’aveva incontrato, si concesse il lusso di un sorriso appena accennato.
«E tu, se lo volessi, saresti un demonio di pirata!» la rimbeccò, strizzandole l’occhio. In brevis, le stava avanzando nuovamente la proposta di prendere parte alla sua ciurma e seguirlo in giro per il mare: come in passato, una parte di lei fu allettata, l’altra la mise in guardia. Cauto e lento, Uncino fece un passo avanti, restringendo la distanza tra loro, ed Emma lesse a chiare lettere quale fosse il suo intento. Pronta a farsi indietro, ridacchiò quando non fu necessario prendere alcuna precauzione.
«Capitano?»  La voce di un mozzo interruppe l’avanzata del bellimbusto vestito in pelle e un chiaro sentimento di disapprovazione si dipinse sul suo volto.
«Che c’è?» chiese e fu brusco, mentre gli si avvicinava con fare intimidatorio, l’uncino in bella vista a mo’ di minaccia.
«S-Scusatemi! Volevo f-farvi sapere che abbiamo caricato le provviste e che…» Deglutendo, si zittì d’improvviso, quando l’uncino appuntito del capitano fu così vicino ai suoi occhi da fargli mancare la voce. L’uomo di fronte a lui non era esattamente conosciuto per avere un buon temperamento.
«Tutto qui? Tu sei venuto per dirmi questo?» chiese, un tremolio costante della mandibola a sottolineare il suo disappunto.
«E-E…» fece il mozzo, ma ancora una volta dovette fermarsi.
«Sta’ zitto! Non tentare nemmeno di giustificarti e sparisci dalla mia vista.» ordinò e quasi perse completamente le staffe, quando vide le labbra dell’uomo muoversi nel tentativo di parlare ancora. Come osava disobbedirgli e sfidare la sua pazienza in quel modo?
«A-A costo d-di farmi u-uccidere, d-devo dirvi c-che la Swan s-se la sta dando a g-gambe dietro di voi, c-capitano.»
«Cosa?» si voltò e tutto quello che vide fu una testolina bionda in lontananza. «Dannazione!» esclamò e, quando il mozzo fece per fermarlo, lo scaraventò in terra senza pietà alcuna. «Levati di torno, topo di mare!»
Detto questo, con uno slancio fece per inseguirla, consapevole che la sua agilità e forza gli avrebbero consentito di ridurre presto le distanze, ma non tutto andò per il verso giusto. Prima ancora che potesse muovere il primo passo, qualcosa si oppose al movimento delle sue gambe e, perso l’equilibrio, ruzzolò in terra.
«Stavo t-tentando d-di dirvi che la r-ragazza v-vi aveva legato le g-gambe come a un vitello, c-capitano.» commentò il mozzo e, benché il riso premesse per uscire, si tenne pronto ad imitare la giovane per sfuggire all’ira dell’uomo. Persino mentre la ragazza gli avvolgeva la corda attorno alle caviglie aveva dovuto faticare per non lasciarsi andare ad una risata isterica, sotto pressione com’era per il divertimento e il timore.
«Sta’ zitto!» urlò Uncino, mentre rompeva la corda e si alzava sulle sue gambe. Quando l’ebbe fatto, scorse in lontananza la sagoma paffuta del mozzo correre in direzione del villaggio. Nulla rimaneva di Emma, che aveva preso la direzione opposta.
Salderai il conto, Swan. Che ti piaccia o meno!, si disse e prese ad inseguirla.


Spazio dell'autrice:
Non mi aspettavo nemmeno vagamente che la storia potesse avere un simile successo e di questo vi ringrazio. E' stato divertente scrivere il capitolo, pensare all'evoluzione della storia e lo è stato altrettanto immaginare le vostre possibili reazioni. Quindi, vi ringrazio tutti di cuore e mi scuso per eventuali errori di distrazione! Non ho molto tempo per scrivere come si deve, data l'imminenza degli esami universitari. =)
Un ringraziamento speciale va a Jarmione (Spero che l'apparizione del pirata ti sia piaciuta! E grazie infinite per aver commentato. :D),
summers001 (Il motivo per cui Uncino è andato via lo spiegherò presto, anche se penso possa essere facilmente compreso attenendoci alla storia di OUAT. Anche il mio Hook è solito combattere per quello che vuole, te lo prometto! A prescindere, grazie ancora di cuore. :)),
lilyhachi (Sei stata gentilissima. Grazie, grazie, grazie! :) )
Yoan Seiyryu (Sono lieta di sapere che ti sia piaciuto lo stile introspettivo. E' una cosa del mio modo di scrivere che non riesco ad eliminare e, a volte, temo possa non piacere. Grazie ancora per il commento. Sei stata un tesoro. :) )
GRAZIE!

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Capitolo 3
*** Atto III ***


Atto III

 
E’ normale sentirsi in pace con se stessi, ma avere la consapevolezza che quella quiete altri non è che una finzione, che una tenda per nascondere ai propri occhi e a quelli altrui l’imperversare di una battaglia di proporzioni indicibili? Probabilmente sì. Probabilmente lo è per qualunque persona. Non esiste umano che non sia in grado di fingere, non esiste umano che non menta, che non racconti e non si racconti bugie. Per Emma Swan, però, non c’era nulla di normale in quella condizione, che non le rendeva più semplice il sonno, né alleviava i suoi affanni.
 
Emma odiava le bugie, le odiava e le evitava come la peste. Emma smascherava le bugie, le denudava, poneva su un piedistallo e distruggeva, perché amava la verità e perché Dio solo sapeva quanti guai le avevano causato nel corso della sua vita. Benché possedesse la magia e potesse farne uso, era il suo super-potere quello a cui si affidava maggiormente: era brava, sapeva di esserlo, e, al di là del fatto che molti fossero dubbiosi in merito, Emma aveva la piena certezza dei suggerimenti del suo istinto. E c’era qualcuno che credeva nelle sue potenzialità!
 
Due nomi sovvennero spontaneamente alla sua bocca e, pur mantenendo le labbra serrate, si concesse il lusso di un sorriso spontaneo e dolce quanto la sua mente le suggerì l’immagine di Henry. Lui aveva sempre avuto fiducia in Emma, persino quando lei stessa aveva faticato a vedersi speciale, ed aveva fatto dipendere proprio dalla donna che lo aveva partorito e poi dato in adozione le sorti di un’intera città, senza mai vacillare, senza consentire che la testardaggine e la cecità di sua madre lo fiaccassero. Con un brivido, rivisse la scena nella cucina di Mary Margaret, lo rivide mordere lo sformato di mele avvelenato e collassare sul pavimento. “Potrai anche non credere alla maledizione o a me, ma io credo in te” le aveva detto, rischiando la propria vita con l’infallibile certezza che Emma ce l’avrebbe fatta. C’era qualcosa di terrificante nel modo incondizionato in cui l’aveva amata prima ancora di conoscerla, lo stesso che aveva portato la dura, diffidente ventottenne solitaria a ricambiarlo con un’intensità addirittura maggiore. Se quella non era magia, cos’altro avrebbe potuto essere?
 
Ma Henry non era l’unico a confidare nel suo super-potere. Pur con ritrosia, Emma si costrinse ad ammettere che Uncino non aveva mai dubitato della sua capacità di giudizio e che, se possibile, ne era rimasto impressionato. Ricordava ancora l’ammirazione nei suoi occhi blu, nascosta dietro quel sorriso civettuolo e divertito, quando le aveva posizionato il contro-incantesimo al polso per scalare la pianta di fagioli e, con tutta la nonchalance del dongiovanni, le aveva detto “Speravo fossi tu!”. In maniera tanto contorta quanto lo era lui, gli era piaciuto che lo avesse smascherato, che non si fosse bevuta le sue fandonie e lo avesse costretto ad ammettere la disfatta senza mezzi termini. Uncino era cosi: perverso. Prendere o lasciare!
 
Non si era trattato di un caso isolato, tuttavia: l’Isola che non c’è li aveva sottoposti ad una serie di prove sconcertanti, alle quali avevano saputo rispondete talvolta con zelo, talvolta con minor prontezza. Il bel pirata l’aveva consultata spesso, si era preso gioco di lei, aveva ovviamente colto al volo ogni occasione per flirtare e più di una volta le aveva confessato di aver avuto bisogno del suo parere per ragionare più lucidamente. Com’era possibile che, laddove neppure i suoi genitori e l’uomo che si supponeva essere il grande amore della sua vita erano arrivati, Uncino fosse riuscito?
 
«Bha!» mugugnò, cominciando a camminare in circolo ed ignorando lo sguardo curioso di Brontolo che, seduto su un masso, mangiava svogliatamente una pesca mentre osservava tutte le sue mosse. Quando aveva raggiunto la casa dei nani millantando la scusa di una visita, la sua espressione colpevole e il suo affanno dovevano averla tradita, ma, benché alcuni di essi si fossero accigliati, avevano evitato di fare alcuna domanda. Avevano imparato a conoscere Emma e sapevano che insistere avrebbe prodotto l’effetto contrario a quello sperato. Un po’ come con la giovane, testarda, impavida Biancaneve.
 
«Una visita piuttosto taciturna, la tua.» le disse ed Emma distolse immediatamente lo sguardo, consapevole dell’indagine alla quale la stessero sottoponendo gli occhi dell’altro.
 
«Le parole sono sopravvalutate.» rispose, tanto rilassata quanto lo era stata la prima volta che aveva fronteggiato un orco.
 
«E le bugie? Non sarai Pinocchio e il tuo naso non si allungherà, ma non sai mentire bene quanto credi, Emma Swan.» Un sorriso furbo increspò i lineamenti del viso del nano ed Emma, gettando un’occhiata verso la radura, si assicurò di aver seminato Uncino. «Dunque, da chi stai fuggendo?» domandò, stiracchiando gambe e braccia e lasciandosi andare ad un grugnito soddisfatto. «Oh, ho capito!» fece senza darle il tempo di proferire parola e lasciando che le parole le morissero in gola. La mano tozza del mezz’uomo si strinse attorno al manico del piccone e la perplessità di Emma crebbe senza modo d’arrestarsi, quando lo vide superarla e puntare a passo di carica la figura in pelle che si aggirava guardinga ad una decina di metri di distanza.
 
«Fermo!!!»
Con un placcaggio degno del più violento giocatore di rugby, Emma si gettò contro l’omuncolo e lo costrinse contro il pavimento al di là delle siepi, non senza strappargli qualche gemito di dolore. La mano della donna premette ferma contro le labbra di Brontolo e stentò a dargli retta, quando tentò di farle capire che la sua mano avesse coperto un’area ben più ampia della bocca e, chiudendogli le narici, lo stesse soffocando.
 
«Scusami! Non volevo farlo, ma non avevo scelta.» sussurrò, porgendogli un braccio ed aiutandolo ad alzarsi, per quanto ritroso fosse nell’accettare il suo sostegno dopo l’assalto che aveva subito. «Non voglio averci a che fare e mi dà ai nervi, ma questo non significa che devi prenderlo a picconate.»
 
«La verità è che voi Charming» e cominciò ad avanzare verso di lei, muovendo pericolosamente il piccone e costringendola ad indietreggiare. «siete delle maledettissime…» e mosse un passo dopo l’altro, finché Emma non poté far altro che appiattirsi contro la parete della roccia dalla quale era stata ricavata la casa dei nani. «…teste di rapa
 
Col mento in avanti e gli occhi stretti in due fessure, la osservò per qualche secondo ed Emma ebbe l’impressione che stesse scandagliando ogni sua più piccola emozione, al diavolo i perbenismi e la discrezione. La donna deglutì e si esibì in un sorriso tirato nel tentativo di porre fine a quell’osservazione, ma Brontolo parve volersi avvalere di quel trucchetto per metterla a disagio e andò avanti ancora per qualche minuto. Quando si ritenne soddisfatto, sbuffò con la stessa grazia di un cavallo infastidito dalle mosche e dal caldo e, voltandole le spalle, oltrepassò l’uscio di casa.
«Far parte della famiglia reale ha molto significato da queste parte, vedo.» commentò sovrappensiero, dimentica, per un attimo, che il pirata potesse essere stato attratto dai rumori.
 
Strisciando contro la parete con circospezione, si immise nuovamente nel folto della foresta e, complice l’adrenalina, non adottò le stesse precauzioni di cui si era servita quando, poco prima, aveva tentato di seminare Uncino. Confidava nella sua buona stella e intimamente si disse che la Salvatrice non poteva essere del tutto sprovvista di un po’ di fortuna. Non chiedeva molto, del resto: voleva semplicemente fare ritorno a palazzo, andare da Henry e godersi il resto della giornata in compagnia della sua famiglia. Era una persona di poche pretese e le persone di poche pretese, solitamente, avevano il benestare del Fato dalla loro.
 
Ma Emma aveva dimenticato un piccolo dettaglio: l’unica stella che ricordava nella sua vita era stata il distintivo da sceriffo appuntato alla cintola. Come diavolo poteva ancora credere nella buona sorte, dopo tutto quello che aveva passato? Era nata il giorno in cui la maledizione aveva colpito i suoi cari, era sbucata fuori da un albero, era cresciuta tra l’orfanotrofio e una serie di disdicevoli famiglie affidatarie, era sopravvissuta come una piccola mascalzona, l’uomo al quale aveva aperto il suo cuore, rigorosamente dopo averla messa incinta, se l’era data a gambe addossandole tutta la colpa di un furto che non aveva commesso… Quale altra dimostrazione le serviva per capire che, se mai una buona stella si fosse interessata al suo destino, si sarebbe trattato come minimo di un asteroide che avrebbe sterminato tutte le persone che amava, lasciandola in mutande nel bel mezzo di una tormenta di neve sulla versione fiabesca del K2?
 
«Eccoti!» sussurrò una voce poco distante, mentre qualcosa di metallico sfiorava la pelle del suo collo e, con un’unica e decisa trazione, Uncino l’avvicinava a sé. La distanza tra loro si ridusse ed Emma lo osservò mirare deliberatamente alle sue labbra; qualcosa, negli occhi del pirata, mutò e lei ebbe l’impressione che una pericolosa miscela di caparbietà e lussuria si stesse sciogliendo nel nero di quelle pupille. «Per un attimo, ho creduto che stessi davvero scappando. Ma Emma Swan paga sempre i suoi debiti, non è così?»
 
http://www.youtube.com/watch?v=P8hKRJyeiyY  
Una notte silenziosa, più di quanto non lo fossero state le ultime da quando erano arrivati all’Isola che non c’è, era stata la ragione della sua insonnia. Una delle tante ragioni. Quella quiete aveva avuto il potere di provocarle un dolore persino più acuto dell’assenza di risultati di quegli ultimi giorni, perché stridente con il frastuono dei suoi pensieri, col trambusto dettato dalla sua preoccupazione. L’aria fresca, salmastra e salubre come nessuna del suo mondo lo era mai stata da che aveva memoria, aveva lenito pian piano il suo malessere e la Jolly Roger, più premurosa di quanto non si fosse aspettata, si era presa cura di lei, cullandola come mai nessuno aveva fatto quando era stata bambina. Si era presa cura di lei un po’ come faceva Uncino, con la stessa discrezione, in maniera altrettanto sottile e, come il suo capitano, aveva aspettato che Emma fosse pronta ad ammettere di averne bisogno, di necessitare di quelle premure.
 
Un sorriso a metà tra l’irritato ed il sollevato aveva inclinato le sue labbra, quando aveva udito la voce del pirata blaterare una canzone che, ovviamente, non conosceva, e si era stupita ancora una volta: aveva una bella voce; era calda, umile, limpida come lo erano i suoi occhi blu, che parevano aver assorbito tutta la bellezza del mare in un muto accordo di condivisione. Aveva odiato lasciarsi andare a simili considerazioni, ma non avrebbe fatto altro che mentire, tacendo quanto bello lo trovasse; al di là del vago sentore di dannazione che emanava, Emma aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa di arcano e di incredibilmente semplice in tutta quella bellezza. Guardandolo, nessuno era in grado di scorgerne la mutilazione, nessuno guardava alla mano mancante. Erano i suoi occhi a sconcertare, perché parlavano, raccontavano storie che, con ottime probabilità, non avevano mai sfiorato le labbra del bel capitano.
 
Silenziosamente, si era fatta strada fino ad un barile e vi si era seduta sopra. Gentile, la luna l’aveva investita e, allungando una mano quasi a volerla afferrare, Emma aveva chiuso un occhio, osservando con fare intento i fasci di luce argentea filtrare tra le sue dita. Lenti, i passi di Uncino si erano fatti più distinti e lei aveva saputo che, di lì a breve, sarebbe stato al suo fianco. Lui la raggiungeva sempre.
 
«Quella è una delle poche cose che non posso darti. Le stelle…» si era interrotto, una risata durata il momento di un respiro. «Bhe, quelle potrei fartele vedere!» aveva concluso, gettandole un’occhiata di traverso ed incontrando l’espressione esasperata di Emma. «Dicevo tanto per dire!» si era giustificato, nascondendo in malo modo il divertimento tra una parola e l’altra.
 
«Ti aspetti davvero che ti creda?» gli aveva chiesto e la sua bocca aveva riprodotto una piccola smorfia, vagamente rassomigliante ad un sorriso.
«No, ma mi aspetto di vedere quel sorriso che tenti di nascondere. Quello, mi aspetto di vederlo ogni giorno.» Era stato disarmante, quella sera più delle altre, e, per quanto scocciata Emma si fosse ripetuta di essere, aveva dovuto tacere ogni protesta, quando la parte più sincera di sé le aveva chiesto la ragione di quell’uscita serale e la ragione, la vera ragione per la quale aveva evitato le scale per sedersi a riflettere. Era stato Uncino a chiederglielo; una delle sere precedenti,le aveva chiesto di non sedersi al buio, di lasciare che la guardasse per ricordare cosa l’avesse spinto, dopo tre secoli, a mettere da parte la sete di vendetta. Chi l’avesse convinto.
 
«Cosa cantavi?» aveva cambiato discorso, a disagio.
«Una vecchia canzone… Era di tuo gradimento?» Emma aveva annuito.
«Di che parla?»
«Di una donna e di un uomo, due sconosciuti alla fine di un lungo percorso durato anni. Chiedono a loro stessi se vogliono lasciarsi il passato alle spalle o meno. Prima che lei decida, lui la prende per mano…» Qualcosa, nell’intimità del momento e nella serietà della voce di lui, l’aveva scossa visibilmente, ma nessuno dei due aveva avanzato nessun commento in merito.
 
«Lui le sta chiedendo di andare avanti insieme…» aveva completato Emma, lo sguardo fisso laddove la luce della luna incontrava le insondabili oscurità marine, tuffandovisi senza alcun timore.
 
«No. Lui la lascia andare. Va avanti da solo.» l’aveva corretta lui ed Emma, a quel punto, si era voltata per guardarlo. Il profilo di lui, alla luce della sera, era parso perfetto, dipinto contro il cielo nero trapunto di stelle.
 
«Non pensa ne valga la pena!» aveva detto lei e, a quel punto, Uncino l’aveva guardata con un sorriso canzonatorio, lo stesso che, a volte, le era capitato di assumere con Henry dinanzi ai suoi errori infantili, dettati dall’innocenza.
«No, Emma. E’ lei a credere non ne valga la pena. Lui vuole evitarle il dolore di dirlo a voce alta.» Era stata lì dinanzi a lei, quella sera, la bellezza semplice e disarmante che aveva intravisto di tanto in tanto. «Se lei volesse, potrebbe stringergli la mano.»
 
«O l’uncino…» aveva sussurrato Emma, quasi impercettibilmente, le parole del tutto fuori dal controllo della ragione, del buonsenso.
«Come hai detto?» l’aveva incalzata lui.
 
«Nulla!» Scrollando le spalle e fingendo una noncuranza che non le era familiare in quel momento, era scesa giù dal barile e, quando Uncino si era voltato per fronteggiarla, la donna aveva sentito il bisogno di darsela a gambe prima che fosse troppo tardi. Con un movimento repentino, il pirata l’aveva preceduta, però: prendendole il mento, si era avvicinato a lei e, delicato come non lo aveva mai creduto possibile, l’aveva baciata. Una frazione di secondo e l’aveva sconvolta.
 
«Buona notte, Emma.»
Serio, l’aveva guardata intensamente negli occhi con la sicurezza di un uomo che sapeva quello che voleva; divertito, le aveva sorriso e, con gentilezza, aveva sfiorato il suo labbro inferiore col pollice, quasi a voler lavar via il segno che la sua bocca aveva lasciato. Emma aveva avuto la certezza che, in altre circostanza, con un’altra donna, capitan Uncino non si sarebbe fermato ad un contatto sì superficiale, non avrebbe lasciato nessuna via di fuga, nessuno spazio di movimento o di pensiero; con un’altra donna, i suoi movimenti sarebbero stati meno cauti, le sue parole meno calibrate, i suoi tocchi meno furtivi, i suoi occhi meno attenti. Ma lei era Emma Swan e, per una ragione che le appariva ancora sconosciuta, Uncino era un uomo diverso in sua presenza. In sua presenza, Uncino era la parte migliore di sé.
Voltandole le spalle, si era diretto verso le scale e, una volta salite, aveva raggiunto il timone… Sulle labbra, ancora quella canzone.

Spazio dell'autrice:
Innanzitutto, mi scuso per il ritardo, ma la vita universitaria mi toglie più tempo di quanto non voglia ammettere a volte e, spesso, anche le energie, tant'è che l'ispirazione latita. Ma, per fortuna, video, immagini, canzoni e filmini mentali aiutano parecchio a farla tornare. Spero solo non vi deluda.
Ringrazio indistintamente chiunque mi abbia letta e abbia dedicato un po' di attenzione alle mie idee: è un piacere e un onore. Giusto per chiarezza - E rispondo anche a summers001 con la scusa! -, il fatto che vediate l'alternarsi di Uncino e Hook non è un errore: per questioni di pazzia mia, preferisco parlare del nostro bel capitano in termini di Uncino nella parte narrata, mentre in termini di Hook nella parte dialogata. Spero non vi dia troppa noia! ^_^
Ah, e un altro chiarimento: la parte in corsivo è un ricordo dei vari che Emma possiede di Neverland, non è ancora la spiegazione del "conto in sospeso". E' un primo passo, diciamo. ;)
Lilyhachi , sì, ho presente la scena di Shrek e l'adoro. Scrivere questa con Emma come protagonista, è stato semplice: tutte le volte che l'ho vista e ho pensato a lei nella Foresta Incantata, ripensavo alle sue facce strane quando, all'inizio, si è dovuta approcciare al mondo delle favole. Immagino che, andando avanti, ci saranno cose ancora più sconcertanti per lei. Per il resto, ti ringrazio tanto per i complimenti. Sei un tesoro e spero possa piacerti anche il resto! ^_^
Summers001, io AMO le recensioni chilometriche e, in questo caso, le tue sono MERAVIGLIOSE. Mi permetti di capire quali sono i punti di forza della storia e, lo ammetto, quella delle canne di bambù è stata una delle botte d'ispirazione migliori che abbia mai avuto. E' venuto da ridere persino a me nel partorirla!xD
Per il resto, Hook non potrebbe essere meno sexy di quanto già non è e io un Hook che non ammicca e fa battutine a sfondo sessuale non riesco più a concepirlo. L'altro giorno, ho rivisto "Peter Pan" della Disney e ho subito lo shock inverso: quando si parlava dell'apparizione di Hook in OUAT, mi aspettavo un tipo imbranato, divertente e cattivo da morire; riguardando il cartone, mi sono ritrovata ad attendere l'arrivo di uno gnocco in pelle nera con occhi blu da togliere il fiato. Immagina la delusione! :(
Per finire, GRAZIE INFINITE per la recensione e per i complimenti. E' un piacere scrivere di loro e per voi! :)
Olimp0202, ma grrrrrrrrrrrrrrrrrazie! Dopo quello che mi hai detto, l'unico modo per ringraziarti che ho trovato è stato quello di muovermi a buttare giù il capitolo terzo e mi auguro ti sia piaciuto. Anch'io penso che Hook sia uno dei personaggi più riusciti dello show, soprattutto perché è stato sorprendente in tutte le sue dinamiche, tant'è vero che il pubblico si è trovato ad amarlo quasi senza accorgersene... Un po' come Emma! U,U
Grazie ancora per la gentilezza e mi auguro gli esami di maturità siano andati stra-stra-stra bene. :D 

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Capitolo 4
*** Atto IV ***


Atto IV

La vita è inopportuna. Le persone con i loro pensieri sono inopportune. Il tempismo è inopportuno. Lei era inopportuna.
 
Fu tutto quello che Emma riuscì a pensare, mentre le labbra di Uncino si muovevano a formare quesiti retorici ai quali non avrebbe dovuto rispondere. O forse sì? Non lo sapeva ancora. Emma non era mai stata un tipo da convenzioni, non aveva mai seguito le regole e le aveva odiate con tutta se stessa. Non riteneva fosse corretta l’idea che qualcuno potesse imporre un obbligo, un divieto, un modello di comportamento ad altri esseri umani, arrogandosi il diritto d’influenzarne l’esistenza più profondamente di quanto non fosse concesso. Quale principio supremo poteva avere l’ardire di negare l’amore di due persone solo per il fatto che non fossero di sesso opposto? Quale regola logica in grado di strappare un figlio ad un padre poteva essere fatta valere al fine di alimentare l’odio tra due persone che avevano smesso di amarsi, facendo ricadere le conseguenze di quella condizione sull’unica persona che avrebbe dovuto essere preservata? Cosa c’era di giusto nel rinchiudere anziani e bambini in case di riposo ed orfanotrofi, dando vita ad un sistema che distruggeva le opportunità di chi vi era immesso? Chi aveva il diritto di darle dell’eroina e pretendere che salvasse il mondo?
 
Emma aveva subito, visto e combattuto più ingiustizie di quante non avrebbe dovuto e, probabilmente, era per quello che amava infrangere le regole. Le era sempre piaciuto. Era come se una parte di sé, quella abbandonata e in cerca di attenzioni, si sentisse continuamente in dovere di ricordare alla Emma più tenera e fragile cos’avessero dovuto affrontare, quali brutture quegli occhi verdi avessero colto, quante carezze avesse aspettato inutilmente a lenire il rossore dei ceffoni che le sue guance avevano ricevuto, quante esperienze l’avessero incattivita. E s’incattiviva ogni volta, ogni qualvolta ci si aspettava che seguisse la strada più giusta, la più travagliata ma quella considerata moralmente corretta. Non aveva annaspato abbastanza per una vita intera? Non meritava di affrontare il resto dei suoi giorni con un biglietto di prima classe tra le dita?
 
Immobile, ascoltò il rumore del suo respiro e il fruscio creato dal vento che, come il più ardito amatore, corteggiava e seduceva alberi e foglie, rami e steli d’erba, fiori e animali. Le venne quasi da ridere – Ma non lo fece! -, quando si rese conto di star vivendo quella scena a rallentatore, e si sentì la protagonista di uno di quei film che aveva sempre guardato con una nota di profondo scetticismo. Si era chiesta spesso come gli autori potessero pensare di far immedesimare gli spettatori in quel modo: non era possibile formulare tutti quei pensieri in una manciata di secondi, non era possibile che un istante di esitazione si trasformasse in un arco di tempo dalla durata indeterminata. E, invece, eccola lì, Emma Swan, principessa nonché figlia di Biancaneve e del Principe Azzurro, in tutto il suo splendore ad arrovellarsi su questioni che nemmeno il Dalai Lama avrebbe potuto avere a cuore in una situazione simile.
 
Ma perché stupirsi, in fondo? Non era soltanto Emma Swan, la figlia di Biancaneve e del Principe Azzurro, la Salvatrice. Era anche e soprattutto Emma Swan, la giovane donna che mentiva, che sviava, che fuggiva, che si trincerava dietro mura di cinismo così fitte che i cinesi e la loro Muraglia sarebbero impalliditi al loro cospetto. Era quello che aveva sempre fatto, era quello che la vita l’aveva abituata a fare: scappare. E non intendeva darsela a gambe nel solo senso fisico del termine! Quando parlava di sé come una fuggiasca, intendeva ricomprendere in quella definizione un numero quanto più svariato di accezioni e, tra di esse, era ricompresa anche la fuga col pensiero. Dinanzi ad un Uncino bello come non mai, inchiodata alla corteccia di un albero da quegli occhi blu come il mare, tutto quello che riuscì a fare fu cercare una via di scampo e la trovò; con la mente, tornò all’Isola che non c’è.
Come ho già detto, Emma era inopportuna.


http://www.youtube.com/watch?v=rtOvBOTyX00

Non si era ancora abituata a tutto quel trambusto, non ne aveva avuto il tempo e una parte di lei aveva creduto sin dall’inizio che non avrebbe mai smesso di stupirsi dinanzi a quelle stramberie. Erano trascorse poche ore dal momento in cui Uncino e Tremotino avevano condotto la nave attraverso gli ambigui sentieri magici del portale, consentendo a tutti loro un (almeno per il momento) sicuro approdo sull’Isola che non c’è, tra le onde di un mare illuminato dal chiarore argenteo dei fasci lunari, ed Emma aveva faticato a convincersi che tutto quello fosse vero. Nemmeno da bambina si era concessa un lusso così grande da figurarsi un’avventura con alcuni dei personaggi più amati, temuti, odiati da grandi e piccini e, se non si fosse trovata nella situazione di temere per la vita di suo figlio, avrebbe affrontato quegli stessi avvenimenti con una disposizione d’animo molto diversa, certamente più cinica.
 
Tutto quello che le era dato sapere in quel momento, tuttavia, non aveva avuto a che fare con la razionalità e i suoi interrogativi, né con la parte di sé che chiedeva spiegazioni. L’unica cosa cui la sua mente era riuscita a pensare in tutte quelle ore era Henry e il suo cuore, nel saperlo in pericolo, aveva mancato tanti di quei battiti da averle fatto perdere il conto. Sospirando per l’ennesima volta, aveva chinato lo sguardo verso il basso e si era soffermata sul candore delle sue mani giunte, con la puerile convinzione che potesse bastare a rendere le sue preghiere più squillanti, più facili da udire a chiunque si fosse dato la pena di ascoltare le sue intrinseche urla. Il vento fresco, in un alito persistente, le aveva mosso i capelli, sollevandoli per qualche istante dalle spalle per poi farveli ricadere; e, ogni volta che era accaduto, Emma aveva avuto l’impressione che pesassero sempre di più e che, poco alla volta, la sua schiena s’ingobbisse, il suo respiro si mozzasse e che tutta la luce di cui il signor Gold le aveva parlato, quella che si supponeva fosse dentro di lei, fosse risucchiata dalle tenebre più profonde.
 
«Emma?» l’aveva chiamata una voce e, benché non fosse abituata a sentire il suo nome venir fuori dalle labbra di quella persona, si era voltata in quella direzione; e il suo sguardo doveva aver inviato una richiesta d’aiuto di proporzioni inusitate, perché Uncino le aveva sorriso dolcemente, come provasse una strana, particolare tenerezza per lei, e le si era accostato ancora un poco, guardandola dall’alto. «Vieni con me!» le aveva detto e le aveva porto la sua mano. Una sensazione piacevole e spiacevole al contempo si era impossessata di lei a quel gesto, una sensazione di deja-vu che l’aveva fatta sentire colpevole, in difetto nei confronti dell’altro: la sua mente le aveva nitidamente riproposto l’immagine dell’espressione di lui, quando lo aveva abbandonato sulla pianta di fagioli, dopo averle chiesto di usare il suo super-potere per appurare la sua sincerità; e, ad essa, era seguito il ricordo delle sue parole, quando, chiusa nella cella che un tempo aveva ingabbiato Tremotino, le aveva confessato che, no, lui non l’avrebbe lasciata indietro, non l’avrebbe abbandonata. E aveva mantenuto la promessa! Lo stesso fatto che fosse lì, a qualche passo da lei, ne era stata una dimostrazione.
 
Silenziosamente, aveva riposto la propria mano in quella di lui, si era alzata e, nel fronteggiarlo, per una frazione di secondo, si era chiesta se fosse saggio accondiscendere a quella richiesta. Ma lei non si era sentita saggia in quel momento e, forse spinta dal peso che portava sulle spalle, lo aveva seguito senza protestare, lasciando che la sua mano giacesse in quella calda che, pur estranea, aveva riscaldato la sua in più occasioni. Quando erano giunti a destinazione, Emma non si era quasi accorta di star sorridendo, né di aver scosso il capo divertita; era stato Uncino a farglielo notare e a chiederle spiegazione, mentre si era diretto verso la propria scrivania e si era accomodato su una sedia posta al di là di essa.
 
«Ridevo di David. Ci ha guardati con aria piuttosto contrariata e, una cosa tira l’altra, ho ripensato al gancio che ti ha assestato a Storybrooke.» gli aveva confessato, ignorando deliberatamente in formicolio sparso che aveva avvertito alla mano nel momento in cui Uncino aveva lasciato la presa.
 
«Aye! Ha un temperamento piuttosto aggressivo per essere il Principe Azzurro. Lo immaginavo più…» si era interrotto, versando in due calici il contenuto di una brocca della stessa antica fattura. «… Azzurro, direi!»
 
«Non puoi negare di essertele cercate.» lo aveva rimbeccato Emma, dopo la risata che l’osservazione di lui le aveva suscitato, rimanendo ferma a pochi passi dall’uscio. Non era stata sicura di aver fatto la scelta giusta a seguirlo, perché le era capitato spesso di sentirsi a disagio in sua presenza.
 
«Ho solo fatto quello che andava fatto, donna.» le aveva risposto, tendendo il braccio buono verso di lei, il calice tra le dita in un tacito invito a prenderlo e accomodarsi. Emma aveva accondisceso: qualcosa le aveva suggerito che il contenuto di quel bicchiere fosse più convincente di qualsiasi possibile perplessità e, così, si era seduta.
 
«Ed eccoti qui!»
«Aye.» L’aveva imitata, trangugiando buona parte del contenuto del calice, che aveva nuovamente riempito fino all’orlo poco dopo. Il suo sguardo, fisso nel vuoto, si era incupito e a lungo un silenzio carico di tensione era aleggiato tra loro, non perché non avessero nulla da dirsi, quanto, piuttosto, perché non avevano saputo da quale parte iniziare e come farlo. Alla fine, era stata lei a rompere il ghiaccio.
 
«Immagino non sia facile…» Uncino l’aveva guardata, le sopracciglia espressivamente inarcate come solo lui sapeva fare. «Rumplestilskin, intendo.» aveva aggiunto e, nell’osservare il cruccio su quel bel viso mascolino, Emma si era sentita meno sola. La consapevolezza di non essere l’unica a condividere un tormento l’aveva fatta sentire compresa e, benché avesse avuto piena coscienza della diversa portata delle loro angustie, quello strano modo di condividere che avevano le era stato di giovamento.
 
«Ho passato più tempo di quanto non avrei dovuto nel tentativo di lasciare questo posto per poter uccidere Tremotino…» le aveva detto, portandosi il bicchiere alle labbra con avidità, ed Emma aveva provato una forte empatia per quell’uomo che avrebbe dovuto tenere distante da sé. La sua mente e il suo animo, in uno stato di compartecipazione dettato dalla sofferenza per la condizione in cui si trovava, avevano tentato di figurarsi l’acredine e, insieme, la voglia di redenzione che Uncino doveva provare e, a tutto questo, avevano aggiunto il senso di colpa per non aver reso giustizia alla memoria della donna che Tremotino gli aveva portato via. «Ed eccomi qui ad esplorarne le profondità proprio con lui come ospite d'onore.»
 
I loro occhi si erano incontrati e avevano a lungo sostenuto l’uno lo sguardo dell’altra, in una tacita conversazione che gli stessi Emma e Uncino si erano imposti di non ascoltare: troppi interrogativi, troppe perplessità sarebbero sorti  se solo si fossero concessi quel lusso. Emma avrebbe dovuto fare i conti col fatto che l’uomo fosse tornato per lei e con il possibile significato di quel gesto; e Uncino… Beh, avrebbe dovuto fronteggiare gli stessi interrogativi!
 
«Hai deciso come procedere, come ci muoveremo?» aveva tagliato corto lei, bevendo ancora dal calice ormai quasi del tutto vuoto, mentre il calore e la distensione dei nervi provocata dall’alcool avevano cominciato a fare effetto. Un lieve rossore sparso le aveva colorato guance e labbra e, prima di risponderle, Uncino si era concesso un lungo, ultimo istante per osservarne la bellezza.
 
«Aye. Dobbiamo procedere per tappe e farlo il più velocemente possibile. Domani, ne parleremo in gruppo e decideremo come muoverci.» le aveva detto, una ruga profonda a solcargli la fronte. Emma doveva essersene accorta, perché lo aveva osservata con la stessa, preoccupata intensità, con la stessa ruga sulla fronte. Era un po’ come guardare al suo specchio, uno specchio che gli rimandava indietro la stessa immagine. Le sorrise. «Non è necessario che tu sappia altro, per il momento, tesoro. Non ti renderebbe più facile il sonno.» Il tono della sua voce e tutta la sua espressione avevano tradito l’indirizzo che la conversazione stava per prendere. «A quello, potrei benissimo provvedere io.»
 
«Hook…» l’aveva redarguito lei, il solito atteggiamento difensivo ed esasperato di cui la sapeva capace.
«Ti ho offerto la mia nave e i miei servigi, ricordi? Ti sto offrendo il servizio completo. Non vorrai mica rifiutare!» l’aveva stuzzicata e lei aveva alzato lo sguardo al cielo, dirigendosi verso la porta. Quella bevanda, qualunque cosa fosse, le aveva dato alla testa ed Emma desiderava con tutta se stessa evitare situazioni troppo imbarazzanti. Se per sé o per Uncino, non era ancora dato saperlo! «Emma?» Lei si era voltata, poggiando la mano allo stipite della porta in attesa che Uncino parlasse ancora. «Lo troveremo, te lo prometto!»
 
«Ne sei sicuro?»
Eccola lì, la Emma fragile e insicura in tutto il suo arcano, limpido, implacabile splendore. Con la tempia poggiata al legno della nave, lo aveva guardato come mai aveva fatto da che si conoscevano e, sgomento, l’uomo aveva scorto una versione di Emma che aveva creduto impossibile vedere così presto. Mai aveva pensato che un onore simile gli sarebbe stato concesso. Lentamente, si era alzato e, con passi lenti e calibrati, l’aveva raggiunta; quando i suoi occhi erano stati ad una manciata di centimetri di distanza da quelli verdi e belli che lo osservavano con cotanta innocenza, non aveva potuto fare a meno di prenderle la mano e portarsela alle labbra.
 
«Aye.»
Le labbra si erano schiuse dolci sulla pelle eburnea di Emma e, per tutto il tempo in cui avevano sostato sull’epidermide di lei, gli occhi blu posti su quel volto mascolino non avevano abbandonato i suoi, come a volerle testimoniare quanto profondamente credesse in quelle parole, quanto tenacemente si sarebbe impegnato affinché quei propositi si realizzassero, come a volerle infondere il coraggio che, in quel momento, Emma non riusciva a trovare dentro di sé. Con quella tenerezza che pareva riservasse solo a lei, infine, le aveva sorriso e, perfino quando, ripercorsi all’inverso i corridoi della nave, lei aveva raggiunto i suoi genitori, quel sorriso e quella tenerezza erano rimasti a lungo impressi nella sua mente, lenendo il dolore e gli affanni dati dalla lontananza di Henry.


Spazio dell'Autrice:

Mi scuso infinitamente per l'assenza e il conseguente ritardo, ma una serie di ragioni mi hanno impedito di continuare la storia, alla quale ho comunque ripensato intensamente. Spero di avervi ripagato dell'attesa almeno un pochino e di non avervi deluso, se ancora qualcuno legge. Grazie, grazie di cuore.
Summer, posso solo dirti che AMO, AMO, AMO le tue recensioni, la loro lunghezza, il modo in cui esprimi e mi rendi partecipe dei tuoi sentimenti nel corso della lettura. E' un onore e un privilegio poter suscitare in te questi sentimenti ed è un onore e un privilegio conoscegli. Quindi, ancora, ti ringrazio dal profondo del cuore!
Annachiara, il tuo commento non mi ha assolutamente turbata o infastidita, mi ha, anzi, molto lusingata. Essere letta dai sostenitori della coppia è infinitamente bello, ma essere letta e anche apprezzata da chi i Captain Swan non li digerisce, beh, oltre che un miracolo è un regalo fin troppo grande. Ti ringrazio per esserti soffermata a scrivere quattro parole e per aver letto la mia storia, soprattutto, nonostante i tuoi gusti si indirizzino verso tutt'altre preferenze.

P.S. Spero non ci siano troppi errori, ma è troppo tardi per correggere. Ci ritornerò ovviamente domani. ;)

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Capitolo 5
*** Atto V ***


Questo capitolo lo dedico a Fanny93 e a Summer001 in particolar modo, per aver recensito, per seguire la mia storia, per tenerla sempre presente e per dirmi sempre cosa ne pensate. Senza di voi, non sono sicura che avrei continuato. E, poi, la dedico a tutti i CS come me, che fino a Marzo non ci arrivano, se continuano ad uscire spoiler su baci e abbracci.
Buona lettura!

P.S. Chiedo scusa per eventuali errori, ma non ho il tempo di ricorreggere adesso. Prometto di ricontrollarla entro stanotte; quindi, prendetevi la libertà di posticipare la lettura a fra qualche ora o domani.



Atto V


Aveva fatto freddo, quel giorno, a New York, più freddo di quanto Emma non si fosse aspettata. Le era servita una buona decina di minuti per comprendere come fosse possibile tanta insofferenza al freddo, nonostante avesse vissuto nella metropoli per più tempo di quanto lei stessa non si fosse aspettata: erano trascorsi pochissimi giorni dall'ultima volta in cui la Jolly Roger aveva solcato le torbide acque dell'Isola che non c'è e la temperatura cui erano stati abituati negli anfratti più profondi del luogo preferito dai bambini aveva raggiunto vette tropicali, che mal si adattavano alla capacità di sopportazione al freddo di qualsiasi persona, persino Emma. 

Spossata, aveva sospirato pesantemente e si era guardata attorno, scandagliando con lo sguardo l'aspetto trascurato del pub nel quale aveva deciso di avventurarsi per concedersi il lusso di una pausa. Quel giorno più che mai, aveva avuto percezione di quanto assurda fosse diventata la sua vita a dispetto delle sue più rosee aspettative. Non era trascorso che un anno dal giorno in cui Henry aveva fatto ingresso nella sua vita ed Emma, prima di vederselo piombare nel salotto di casa, non aveva avuto dubbi su cosa avrebbe fatto e su come l'avrebbe fatto. Era stata un garante per cauzione, sagace, brillante, brava nel suo lavoro e più avvezza ai rifiuti di quanto i suoi colleghi non lo fossero stati. I suoi genitori non l'avevano mai voluta e l'unico uomo che avesse mai amato si era servito di lei per scampare alla galera  (O, almeno, quello era ciò che per lungo tempo aveva pensato, prima che si rincontrassero e le fossero date le spiegazioni che per dieci lunghi anni aveva profondamente desiderato, mente e cuore)... Quanto più spiacevole avrebbe potuto essere sentirsi dire no, più o meno garbatamente, dalle persone cui aveva dato la caccia, dopo tutto ciò che aveva passato?

New York era uno di quei posti che aveva avuto il potere di risvegliare in lei la parte più razionale del suo essere, la più schiva, perfino la più dura e rancorosa, come la definiva lei. Seduta al tavolo di quel pub, aveva avuto più di un serio minuto di tentennamento a convincersi che quanto le era accaduto fosse stato reale e, se i suoi occhi non si fossero alzati all'indirizzo del pirata vestito in pelle alla cui presenza si era oramai abituata, le probabilità che potesse chiedere l'aiuto di una psichiatra non sarebbero state poi così remote. Aveva sorriso e sbuffato al contempo, concentrando la propria attenzione sullo smalto nero che aveva indossato qualche giorno dopo l'arrivo a Storybrooke, prima che l'ennesima avventura avesse inizio, prima che l'ennessima disgrazia si abbattesse su di loro come un'onda anomala sulla terraferma. La sua mente era corsa alla scenetta cui aveva assistito qualche minuto prima, quando, in disparte con Neal, era stata costretta a distogliere la propria attenzione dalle incombenze che gravavano su di loro per concentrarla su suo figlio e Uncino.

«Sei proprio strano, ragazzino!» aveva detto l'uomo rivolto a Henry.
«Io sarei strano? Sei tu il pirata che gira vestito in pelle e truccato più di entrambe le mie madri.» aveva ribattuto il ragazzino, un sorriso divertito sulle labbra mentre pizzicava Uncino deliberatamente. Neal aveva ridacchiato, attratto tanto quanto Emma dalla conversazione che si stava svolgendo a qualche metro da loro.

«Oh-Oh! Non sono io di certo quello ad avere per nonno l'Oscuro.» lo aveva pungolato a sua volta l'altro.
«Che, ci terrei a precisare, tu hai quasi ucciso prima ancora che lo scoprissi con il veleno mortale di una pianta.» aveva detto Henry. «Senza contare il fatto che hai sparato a Belle, preso a pugni mio nonno e che ci provi senza pudore con mia madre in mia presenza.» Emma si era sentita arrossire, intimamente imbarazzata dal fatto che il figlio si fosse accorto delle attenzioni che Uncino aveva dimostrato per lei. Sia lei che Neal, a quelle parole, avevano visto il pirata chinarsi verso Henry con un sorriso sornione sulle labbra, uno di quelli che Emma gli aveva visto fare più e più volte, prima di capire quanto altro si celasse oltre la maschera dello spavaldo e spietato seduttore.
«Non sono io quello che si è strappato il cuore...» e aveva accostato l'indice al petto di Henry. «... E lo ha volontariamente conficcato nel petto di un altro!» 

La reazione che era seguita Neal ed Emma non avrebbero potuto aspettarsela nemmeno volendolo: il ragazzino era scoppiato a ridere come mai avevano avuto modo di sentirlo ridere prima d'allora e il sorriso di Uncino si era fatto più ampio, mentre accarezzava la barba ben curata con la mano buona. Quando Neal aveva spostato lo sguardo sulla donna che amava e che avrebbe desiderato poter amare ancora, meglio di quanto non avesse fatto in passato nella promessa di non commettere gli stessi errori, i suoi occhi avevano scorto sulle labbra di lei e in tutto il suo volto una tenerezza che non aveva avuto solo i contorni dell'amore materno; una parte di quella tenerezza era indirizzata ad Uncino e i margini di quell'affezione gli erano improvvisamente parsi molto più marcati di quanto non si fosse mai accorto fino a quel momento.

Quando l'arrivo del cameriere l'aveva riportata alla realtà, i suoi occhi avevano incontrato quelli blu dell'uomo, intensamente fissi su di lei come desiderassero abbattere le mura dietro le quali gli capitava di vederla trincerarsi al fine di fornirle il suo aiuto. Un po' com'era stato da quando si erano conosciuti. Prendendo il bicchiere di birra tra le mani, Emma aveva finto indifferenza e, accennando al suo indirizzo con la bevanda, aveva bevuto una buona sorsata del liquido ambrato col solo desiderio di nascondersi alla prepotenza di quello sguardo che pareva distruggere qualunque stratagemma difensivo lei tentasse di porre sulla strada che conduceva alla parte più intima e fragile di sé, quella che non le capitava di lasciare intravedere spesso neppure a se stessa. 

Silenziosa, lo osservò imitare le sue mosse e trangugiare una buona porzione di birra. Alzando il bicchiere come a voler osservare meglio la consistenza di ciò che aveva mandato giù, Emma lo aveva visto piegare le labbra in una smorfia a metà tra il soddisfatto e l'insoddisfatto, come il suo corpo gli chiedesse qualcosa di più forte ma, nonostante tutto, le sue aspettative non fossero state disattese più di tanto. E la donna aveva fatto fatica a soffermarsi su quella bocca e non pensare al bacio che si erano scambiati sull'Isola che non c'è in un impeto di gratitudine che aveva avuto i contorni di una passione troppo a lungo rimasta latente, una passione che li aveva logorati entrambi dall'interno. Quando aveva alzato lo sguardo ad incontrare quello di Uncino, aveva saputo di essere stata colta in fallo.

«A cosa stai pensando?» le aveva chiesto, sebbene i suoi occhi le stessero trasmettendo le stesse immagini che la sua mente aveva tentato di debellare con scarsi risultati.

«Henry...» aveva risposto e, benché stesse mentendo, la reazione del suo volto era apparsa credibile e lo sarebbe stata per chiunque l'avesse osservata. Chiunque non fosse stato lui. «Meriterebbe un po' di tranquillità, dopo tutto quello che ha passato.» aveva continuato, ricordando l'espressione addolorata del figlio quando la maledizione era arrivata nella favolistica cittadina del Maine, portando via con sé alcune delle persone che amavano di più, Regina compresa.

«Merita di avere accanto te e tanto basta perché stia bene.» Aveva finto di credere alle sue parole; non che non fossero state vere, che non vi avesse pensato intensamente quasi ogni singolo minuto degli ultimi giorni, ma non era quello l'indirizzo che le sue riflessioni avevano seguito quando le aveva chiesto cosa le passasse per la testa. «Sai, ha qualcosa negli occhi...» Sulle labbra di Uncino era apparso uno di quei radi, timidi sorrisi  che si concedeva di tanto in tanto, simile a quello che Emma aveva visto quando lui aveva tentato di starle vicino a modo suo nella caverna di Neal e lei lo aveva respinto senza prestare ascolto alle sue parole, senza credere che qualcosa avesse potuto spingere Killian Jones a diventare Capitan Uncino e qualcos'altro avrebbe potuto spingere Capitan Uncino a tornare Killian Jones. A volte, si diceva che una parte di lei si era rifiutata a lungo di accettare la verità per paura delle conseguenze che ne sarebbero derivate. «... Quando sei con lui, ha questa luce negli occhi, la stessa luce vedo nei tuoi quando lo guardi.» lo aveva detto come soltanto lui avrebbe saputo dirlo, guardandola  per attribuire un certo peso e significato a quelle parole; era stato lo stesso modo con cui le aveva confessato di credere in lei, nel fatto che avrebbe salvato Henry e che li avrebbe condotti a Storybrooke, prendendo per le redini il controllo della sua vita e manovrandola al fine di raggiungere i suoi obiettivi. Aveva dovuto bere più a lungo di quanto non avesse voluto per ricacciare indietro la commozione che si era annodata nella sua gola.

«E' ora di andare...» aveva sentenziato, non prima di averlo ringraziato con uno dei suoi sorrisi rapidi, quasi timidi, come a dare l'impressione di non saper fare di più, di non potersi permettere il lusso di sorridere per tutto quello che la vita l'aveva costretta ad affrontare.

Uncino l'aveva vista lasciare dei fogli di un verde sbiadito sul tavolo - "Sono l'equivalente delle tue monete o dobloni, Hook. E' denaro!" gli aveva spiegato - e l'aveva seguita fuori dal locale. Il maggiolino giallo, quell'aggeggio strano e al quale un pirata come lui, che aveva viaggiato a bordo di navi ampie e spaziose, non poteva certo abituarsi dall'oggi al domani, era stato parcheggiato a pochi metri di distanza e, prima che Emma potesse raggiungerlo, Uncino l'aveva presa per il polso, costringendola a voltarsi.

«Che c'è?» gli aveva domandato, lo sguardo curioso e lievemente allarmato.
«So a cosa stessi pensando poco fa e non era Henry.» le aveva detto, gli occhi blu fissi in quelli verdi che lo fissavano in confusione. Le sopracciglia di Emma si erano arcuate e l'aveva osservata mentre faceva fatica a realizzare per qualche secondo.

«Cosa?» L'espressione di lei, a quel punto, era mutata, un rivolo di consapevolezza insinuatosi tra i suoi pensieri.
«Lo so perché è la stessa cosa cui sto pensando io adesso.» le aveva confessato e, rapidi, in un'osservazione che era durata appena il tempo di un battito di ciglia, i suoi occhi avevano puntato alle sue labbra con un'intensità che l'aveva consumata. Poi, come nulla fosse, aveva lasciato la presa sul suo braccio e l'aveva oltrepassata. Inspirando profondamente, Emma aveva stretto i pugni quel tanto che bastava a darle la forza di riprendersi e sussurrare le seguenti parole:

«Sono la Salvatrice, ho spezzato una maledizione, ho ucciso un drago e salvato mio figlio dalla versione adolescenziale di uno psicotico Peter Pan. Ce la posso fare!»


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«Emma, va tutto bene?»
La voce di Uncino la raggiunse così improvvisamente e inaspettatamente che Emma non potè impedirsi di trasalire e prendere un profondo respiro. Quando la sua attenzione tornò a concentrarsi sull'uomo, i dubbi che fosse preoccupato per lei non avrebbero avuto modo di sussistere: una ruga profonda solcava la sua fronte e l'atteggiamento baldanzoso che aveva tenuto da quando si erano incontrati era stato definitivamente rimpiazzato da quel modo di fare protettivo che tanto bene gli si addiceva, lo stesso che aveva tenuto nel corso dell'intera avventura sull'Isola che non c'è. Aveva protetto tutti nei limiti delle sue possibilità, che si fosse trattato di Henry, dei suoi genitori o di lei; non aveva mentito, non li aveva tratti in inganno, non aveva ceduto alle tentazioni che si erano presentate lungo il percorso e che avrebbero potuto spingerlo a tornare al lato oscuro, alle cattive abitudini che a lungo avevano definito la persona che era stata. E non si era risparmiato in nessun modo, fisicamente, mentalmente, sentimentalmente. Prima di addormentarsi, durante un momento di quiete e riflessione, le parole che le aveva sussurrato nella radura avevano assalito Emma con tutto l'impeto di cui avrebbero potuto caricarsi e lei ne era stata sopraffatta.

"Quando conquisterò il tuo cuore, Emma, e lo conquisterò, non sarà per via di alcun trucco, sarà perché tu vuoi me."

Per quanto si fosse impegnata, per quanto arduamente si fosse ripetuta che c'era qualcuno, che doveva esserci qualcuno che, prima di Uncino, avesse combattuto in maniera così strenua e disinteressata per lei, non solo non era riuscita a darsi una risposta plausibile, ma aveva presto realizzato che anche il solo tentativo fosse offensivo. Che senso aveva fingere? Fingere che lui non avesse lasciato perdere un proposito di vendetta durato 300 anni per amor suo; fingere che non le avesse confessato di provare un sentimento che si era impedito di sentire per lunghissimo tempo al solo scopo di permetterle di salvare il padre di suo figlio, l'unico ostacolo che avrebbe potuto recidere le fragili gambe alla loro nascente alchimia; fingere che non avesse affrontato i demoni del suo passato per permetterle di vivere il suo futuro; fingere che saperlo capace di amare tanto profondamente e con una simile devozione non le avesse fatto desiderare di sapere cosa si provasse; fingere che tutto quello non avesse avuto effetto di lei e che lasciarlo andare, vederlo salpare a bordo della Jolly Roger non le avesse spezzato il cuore.

«Sì...» esalò in un sussurro, incapace di proferire una frase di senso compiuto, incapace di fronteggiare le emozioni che aveva testardamente represso e alle quali aveva promesso eterna prigionia. Se non fosse tornato indietro, se non fosse stato lì con lei, se la sua sola presenza non fosse stata sufficiente a sopraffarla, Emma sapeva che sarebbe stata in grado di tenere sbarrate per sempre quelle porte che si era promessa di non riaprire mai a nessun altro che non fosse Henry.

«Henry sta bene? I tuoi genitori? Neal?» domandò, la voce incalzante, il petto che sfiorava quello di lei, negli occhi quell'arcana, semplice, profonda, tormentata bellezza che doveva averla tratta in inganno.

«Sì, va tutto bene. Stanno tutti bene!» rispose, riprendendo il controllo di sé. «Scusami, è che è stato un periodo faticoso.» gli disse, facendo spallucce per minimizzare il periodo di tempo trascorso a riesplorare i sentimenti che aveva provato per Neal nel tentativo di fare felice Henry, di fare quello che tutti si aspettavano facesse. Era quello il motivo per cui, al timone della nave, le aveva detto addio!

"Devi fare chiarezza, Emma. Forse, devi darvi una possibilità come famiglia."

Le aveva spezzato il cuore con quelle parole. Quando avevano raggiunto la Foresta Incantata e Neal, correndo loro incontro, aveva stretto amorevolmente sia lei che il figlio, qualcosa era improvvisamente cambiato: Uncino aveva smesso di combattere, aveva fatto un passo indietro e le era stato lontano per giorni interi, l'aveva evitata e, per l'ennesima volta, Emma aveva avuto l'impressione di non essere voluta, di non essere abbastanza, di aver deluso senza nemmeno accorgersene le aspettative di qualcuno al punto da allontanarlo da sé. E aveva ferito lui, la sera che si era recata sulla Jolly Roger per salutarlo, in gola una rete di parole che, incespicando le une sulle altre, non erano riuscite a venire fuori. Avevano brindato ai vecchi tempi, alla sua ritrovata famiglia, all'imminente viaggio che Uncino avrebbe affrontato, a Henry. Quando era stata sul punto di tornare al castello e scendere la rampa della nave, lui l'aveva fermata e le aveva chiesto perché fosse tanto arrabbiata con lui; c'era voluta una buona dose di autocontrollo per sorridergli e fare spallucce, nelle orecchie il ronzio prepotente creato dal battito frenetico del suo cuore. Per un attimo, aveva temuto che tutto quel pompare non l'avrebbe fatta reggere sulle gambe.

"Addio, Emma."

«E' tutto così nuovo, diverso che...» si fermò, gettando uno sguardo oltre la spalla di lui. «E' solo difficile lasciare andare quello che è stato.»
Uncino sorrise di un sorriso amaro, pensieroso, e, per un attimo, distolse lo sguardo. D'un tratto, su quel volto bello, giovane e mascolino, intravide il peso dei trecento anni trascorsi nel tentativo di vendicare un amore troppo prematuramente perduto.

«Perdonami!» fece e lui tornò a guardarla. La sua mano raggiunse i capelli di Emma, sfiorandone una ciocca bionda, e lo vide sorridere quasi con condiscendenza, come se Emma avesse detto una sciocchezza, l'ennesima dopo tante altre.

«Non è quello che pensi...» la avvisò. Lentamente, le dita di lui si spostarono fino a sfiorarle la guancia. «E' stato difficile provare a lasciarti andare, Emma. Non... Non è possibile lasciarti andare!» le confessò e, com'era sua abitudine, si premurò di sostenere lo sguardo di quegli occhi verdi con il blu intenso dei suoi. 

Con la dolcezza che era solito riservare solo e soltanto a lei, si chinò verso il suo volto e, piano, poggiò le sue labbra sulla bocca di Emma. Non importava cosa le avesse detto, non importava che stesse con Neal o meno, non importava che fosse sconveniente e che potesse ridurgli il cuore in frantumi: tutto ciò di cui aveva bisogno era di sentirla vicina, di saperla sua, di alleviare le sue pene, di stringerla a sé come se il tempo potesse congelarsi e il suo unico desiderio fosse rimanere in quella posizione, con lei tra le sue braccia, per l'eternità. Una parte di lui, quando le labbra di Emma si schiusero per accogliere il suo bacio e contemporaneamente ricambiarlo, si disse che avrebbe speso volentieri altri trecento anni di dolore e perdita se ogni singolo movimento lo avesse portato a lei, che sarebbe nato altre migliaia di volte se ogni singolo momento della sua vita fosse stato proiettato verso l'istante in cui si sarebbero incontrati. 

«Ti amo, Emma.» sussurrò e fu quasi una promessa, la fronte poggiata contro quella di lei, il respiro che s'infrangeva contro le labbra arrossate che avevano tormentato ogni momento delle sue giornate, nel sonno come nella veglia. Con gli zigomi arrossati, cercò lo sguardo di Emma e, quando lo trovarono, vi scorsero qualcosa che non aveva visto prima, una sfumatura che pareva essere sfuggita alle sue attente osservazioni. Era quella la ragione per restare.

«Penso di amarti anch'io...»



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