Eroine ed eroi-l'altra voce del mito

di Ramiza
(/viewuser.php?uid=39264)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Isotta ***
Capitolo 2: *** Didone ***
Capitolo 3: *** Ginevra- La mort Artu ***
Capitolo 4: *** La difesa di Ginevra ***
Capitolo 5: *** La dipatita di Merlino da questo mondo ***
Capitolo 6: *** Tutta la vita - la vita - di Morgana ***
Capitolo 7: *** Ajace e l'Olimpo ***
Capitolo 8: *** Storie di una Tavola rotonda ***
Capitolo 9: *** Lancillotto, il miglior cavaliere del mondo ***
Capitolo 10: *** I cavalieri - gli altri ***
Capitolo 11: *** Artù, il re ***
Capitolo 12: *** Bedivere, lo sconosciuto ***
Capitolo 13: *** Nimueh, la figlia del lago ***
Capitolo 14: *** Il viaggio di Alessandro il Grande ***
Capitolo 15: *** Il viaggio di Efestione ***
Capitolo 16: *** Il sorriso d'Achille ***
Capitolo 17: *** La schiena di Lancillotto ***
Capitolo 18: *** L'epifania di Ginevra ***



Capitolo 1
*** Isotta ***


Il lai di dama Isotta

Il lai di dama Isotta

 

Assai mi piace e ben lo voglio

non di quel lai del Caprifoglio[2]

ma d'un altro ormai scordato

c'hanno i Bretoni obliato,

narrarvi e dirvi la natura

come racconta l'avventura[3].

Di dama Isotta il lai vi canto

che per amore soffrì tanto

lei lo fece e lo inviò

a Tristano che un tempo amò...

Ti scrivo seduta allo scrittoio della mia camera nuziale.

Marco non è ancora rientrato dalla caccia ed è quasi sera, una sera pallida e delicata che scende soffusa a cullare la Cornovaglia, e la fa rassomigliare alle terre d'Irlanda, così lontane.

Alla luce della sera, come in un limbo, tutti i luoghi si confondono e si assomigliano di più.

La Cornovaglia che conobbi già ragazza, dove tu mi portasti per sposare un uomo mai visto, e l'Irlanda a cui mi strappasti, terra della mia infanzia, di giorni felici e spensierati nei quali l'amore non era che un desiderio e il dolore solo una nuvola nel cielo estivo, hanno lo stesso volto in questa sera d'autunno, si sovrappongono nella mia mente e io non so più riconoscere, tra i ricordi, cosa appartiene all'una e cosa all'altra.

Così forse brilla della stessa luce la Bretagna dove consumi il tuo esilio, sposato a una donna che non ami e a cui non ti vuoi concedere, una donna dalle mani bianche che porta il mio stesso nome e ti ama d'un amore forse più vero del mio.

Tre terre che racchiudono la nostra storia e il nostro destino, come conchiglie.

Ma oggi, Tristano, oggi sono stanca di parlare di destino.

Oggi voglio stringere tra le mani la mia vita come posso stringere questa penna e decidere cosa scrivere.

Ero una bambina quando ti incontrai per la prima volta, tu, l'eroe che aveva sconfitto e ucciso il Moroldo, fratello di mio padre, tu, il cavaliere perfetto, dalla bellezza divina...no Tristano, non mi ispirasti alcuna simpatia, allora. Perché avresti dovuto?

Arrivasti ferito, ma eri superbo ed altero, tronfio della tua perfezione.

E mi guardasti come tutti mi guardavano, colmo di desiderio, traboccante di voglia. Non avevi mai visto una donna più bella e ti folgorò il pensiero che io sola sarei stata degna di te.

Non me ne preoccupai molto. Eri soltanto uno tra i tanti. Più bello forse. Più galante. Più forte. Ma in fondo solo l'ennesimo spasimante alla corte di Elena. Aspettavo ancora il mio Menelao. Aspettavo qualcuno che giungesse inaspettato, umilmente e senza clamore, che mi amasse d'un amore dolce, che scrivesse per me una favola e mi accompagnasse per mano a conoscerla.

Non volevo cavalieri.

Non volevo eroi.

Isotta, principessa d'Irlanda, maga e guaritrice, voleva allora soltanto un uomo.

Sposerai il re di Cornovaglia, mi disse mia madre.

Così finirono dei sogni, finirono le speranze bruscamente ricondotte alla gravità dei miei principeschi doveri.

Mi imbarcai con te su quella nave, il filtro che conoscendomi troppo bene mia madre aveva preparato per farmi innamorare di Marco lo bevemmo noi, mentre giocando a scacchi ci stavamo sfidando e studiando l'un l'altra, e il resto, nostro malgrado, è storia nota.

E' la storia del terribile errore che commisi sacrificando Brangania, la sola amica che avessi, alla mia felicità...ed ebbe bene il diritto di odiarmi! Oh se potessi averla accanto, adesso, che mai un'ancella più fedele e più nobile è vissuta!

E' la storia della nostra follia, dei nostri inganni, degli infiniti stratagemmi che inventammo.

Da allora non ho più rivisto l'Irlanda.

Da allora sono cresciuta.

Quella passione ci ha consumato e mi ha cambiato.

Ho lasciato tutto per seguire te, per vivere nel peccato e nella povertà. Io, spergiura come sempre, alla fede data ho presto fatto ingiuria, prigioniera della mia malafede, un vizio antico, mi disse Brangania offesa e tradita.

Aveva ragione.

Tu, Tristano, mi hai strappato ai miei cari, alla mia terra, ma nulla mi importava al di fuori di te.

Bel dolce amico, ti chiamavo allora, mio signore.

Ma quando l'effetto del filtro dopo tre anni è finito, quando sono tornata padrona di me stessa e mi sono trovata sporca e mal vestita in una foresta popolata di belve, allora, improvvisamente, ho capito.

Tu eri ancora quello che mi aveva portato via dall'Irlanda, eri ancora il cavaliere perfetto che tutti ammiravano, a cui i ragazzi volevano assomigliare.

Tristano che aveva osato sfidare il re. Tristano che aveva sconfitto tutti, per amore. Tristano, braccato come un animale, perseguitato...Eri un ramingo, un fuggiasco, ma ancora un eroe.

Mentre io, io non ero più nessuno. La mia bellezza si era consumata nelle privazioni quotidiane, le mie mani si erano rovinate, il mio cervello così acuto e pronto, che aveva saputo ingannare persino Dio, si era irrigidito nella mancanza di stimoli.

Tu cacciavi tendendo l'arco che-non-fallisce[4], io ti attendevo nell'ozio e la mia vita si consumava nello spettro di un'abulia quotidiana e terribile.

Il silenzio mi divorava come una malattia e tu mi privasti persino della voce d'Husdent. Ci farà scoprire, dicesti, non abbiamo alcun bisogno di un cane. Ma era il tuo cane, quello, il tuo cane fedele che ti amava, e tu non capivi, non capivi il mio bisogno di compagnia. Non ucciderlo, ti supplicai. A patto che taccia, dicesti. E tacque. Si, tacque. Perché Tristano, il perfetto, sa piegare al suo volere persino la natura.

E la gente parlava di me. Isotta...Isotta, la traditrice. Isotta falsa e bugiarda, una meretrice.

Le loro voci giungevano alle mie orecchie come presagi, come profezie d’un futuro di disperazione.

Ebbi paura, paura di vedere la mia vita sfiorirmi lentamente tra le mani, di incontrare la vecchiaia e di sorprendermi ancora in quella desolata apatia. Tu non mi bastasti più.

Ero regina, pensai, ma ho perduto quel nome per una pozione bevuta in mare.

Voglio tornare, ti dissi.

Forse tu non capisti. Mi assecondasti, ma forse non capisti davvero.

Come avresti potuto, Tristano? Sentimenti così umani e meschini non ti sono mai appartenuti, in ben altri cieli volano da sempre il tuo cuore e il tuo spirito.

Marco mi riaccolse come una regina e mi restituì tutto, compreso il suo amore. Amica cara, mi chiamò ancora.

Allora lo guardai per la prima volta.

Allora mi chiesi chi fosse quest'uomo a cui per due anni avevo dormito accanto, senza conoscerlo davvero. Non avevo mai desiderato farlo. Lo avevo ignorato, come si ignora un dettaglio, una parentesi, qualcosa di superfluo.

Marco era mio marito ma per me non era mai stato niente di più che l'inevitabile ostacolo al nostro amore predestinato. Perché in fondo, aveva ragione chi lo disse[5], noi non ci amavamo, noi agivamo come se avessimo capito che tutto ciò che si opponeva all'amore lo garantiva e lo consacrava, esaltandolo all'infinito.

Non esistevo se non in te.

Non odiavo Marco. Non lo amavo. Mi era indifferente, come una necessità.

Ma quel giorno lo guardai per la prima volta.

Marco era un re ma non sarebbe mai asceso al cielo degli eroi, la Storia non lo avrebbe ricordato con lodi e canzoni. Lo osservai nella sua quotidianità. Marco sbagliava, faceva talvolta sciocchezze enormi, si infuriava e sapeva perdonare. Ma soprattutto Marco amava come un uomo, non come un eroe, con quella delicatezza, quella sgraziata passione, quell'infantile slancio che avevo sognato quando era bambina.

E amava me, al di sopra di ogni cosa.

Avrei dovuto capirlo prima.

Avrei dovuto capirlo quando ci trovò nella foresta ed ebbe pietà di noi e lasciò il suo guanto a riparare il sole che mi feriva il volto.

Ero cieca, allora.

Ma adesso, Tristano, adesso vedo.

Dal nostro amore bellissimo e perfetto, dal nostro amore fatale, ineluttabile, dal nostro amore disperato, adesso, chiedo pace.

Ho migrato per mille cieli come una rondine, ma il mio orizzonte non è stato altro che infelicità, una nave triste, vele nere e morte.

No. Voglio stringere la mia vita e decidere per me, finalmente. Basta con i filtri, basta con il destino!

Tu abbraccia la tua donna e amala, se lo merita come lo merita il mio sposo.

Non lasciare che quell'amore ti sfugga, come per troppo tempo ho fatto io.

Vivi Tristano, e sii felice. Riscopri le gioie d'una vita semplice e sconosciuta, di un'unione che non entrerà mai nella leggenda ma che ti darà forse, finalmente, un po' di serenità.

E non preoccuparti. La Storia non si dimenticherà di te. Tu rimarrai Tristano, l'eroe, Tristano che aveva rinunciato a tutto, per amore, tradito dalla sua Isotta per una vita di agi e di comodità.

Sarà il mio nome a cadere nell'oblio, lo so bene.

Morire per amore mi avrebbe concesso quella fama che una vita serena non mi darà mai.

E un giorno...un giorno qualcuno nominerà Tristano chiedendosi chi fosse il suo grande amore.

Quel giorno, credimi, sarò felice.

Isotta

 

 

 

[1] Il titolo viene dal Roman de Renart. È la volpe stessa che, travestita, dice al lupo Isengrino di conoscere “le lai dam Iset”. Come è tipico dei lais i versi successivi sono in ottosillabi a rima baciata, con rime maschili e femminili. Nel testo ci sono alcune citazioni dal Tristan di Thomas e dal Tristan di Béroul, parafrasate o tradotte letteralmente.

[2] Il lai du Chievrefoil, di Maria di Francia, racconta di un incontro tra i due amanti poi messo in musica dallo stesso Tristano.

[3] Utilizzo la parola avventura nel senso dell’antico francese aventure.

[4] Traduco letteralmente Arc-qui-ne-faut, nome proprio dell’arco magico posseduto da Tristano.

[5] Denis De Rougemont.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Didone ***


A Lilithkyubi. Non so se altrimenti avrei scritto questo capitolo.


DIDONE


Non ti aspettavi questa lettera, lo so.

Forse hai creduto che io fossi morta, vedendo il fumo che si levava da Cartagine.

Forse hai creduto di incontrarmi nell'ade, sdegnosa e silente.

Non ero io, Enea, era quel poco d'umanità che ti resta, a te, figlio degli dei, destinato a fondare Roma, alla grandezza, alla gloria imperitura, quel poco d'umanità che ti resta e la tua coscienza che rimordeva a figurarti la mia immagine.

Virgilio dovrà cercare un'altra eroina votata al dolore, Dante dovrà pianificare per me un girone diverso da quello dei lussuriosi.

Didone non intende morire.

Morire per te, per farti più bello il mondo, morire per farti più eroe...non se ne parla.

La pira era pronta, mi aspettava, mi chiamava. La tua vita è finita, Didone, mi diceva. Non hai più nulla. Hai perduto la dignità e hai perduto l'amore.

Ero lì.

Stavo quasi per farlo.

Poi ho capito.

L'amore è vero, lo ho perduto. Ma è stato molto tempo fa, quando Sicheo si è spento, che ho perduto l'amore. E se io ti ho amato è stato uno sbaglio, uno scherzo della vita, una trappola degli dei.

Ma la dignità, quella no.

Sono stata sciocca, ho creduto alle tue promesse, ho creduto alle tue parole e ai tuoi gesti. Sono stata ingenua ma non ho perduto la dignità.

E se qualcuno ho tradito, se qualcuno ha il diritto di lamentarsi con me e di rimproverarmi, non è altri che Sicheo.

A lui solo devo chiedere perdono.

E non per non avergli prestato fede, promessa avventata, fatta in un'età troppo giovane e quando il dolore atroce della sua scomparsa non si era ancora lenito. No.

È per aver confuso la grandezza di ciò che noi abbiamo avuto, del nostro amore nobile, gentile, profondo come il cielo della notte, luminoso come il sole che riscalda il giorno, con questa passione disperata, che mi ha lacerato l'anima e che mi ha corroso il cuore.

Per essermi data a te pensando “ma prima, allora, prima non non sono vissuta, non ho mai saputo cosa fosse l'amor vero”. Di questo, sì, devo chiedergli perdono.

Ma tu, Enea, tu non puoi capire.

Tu hai abbandonato tua moglie a Troia. L'hai dimenticata nello spazio di pochi istanti, seppellendola sotto il peso dell'inevitabile. E hai abbandonato me quando ti avevo dato tutto. Avevo messo nelle tua mani Cartagine e la mia vita.

Adesso, nei lidi che vedranno sorgere Roma stringi tra le tue braccia la bella principessa rubata a Turno e sei convinto che ti amerà.

Perché gli dei lo hanno scritto.

Perché tu sei Enea e diversamente non potrà andare.

Poco importa se le hai rubato il sogno di una vita. Poco importa se hai ucciso il suo uomo e adesso le imponi le nozze.

Poco importa se qui, a Cartagine, una donna che hai detto di amare ha perduto il sonno e la gioia per te. Poco importa se Pigmalione brucerà le mie mura, se Jarba mi porterà in Getulia schiava.

Non ti riguarda tutto questo.

Il tuo destino, Enea, è scritto nelle stelle e non importa chi dovrai sacrificare perché si compia.


Ma nelle stelle di Cartagine è scritto altro.

Nelle stelle di Cartagine è scritto il nome di Elissa.

Non abbandonerò il mio popolo che ha fiducia in me per sfuggire alla vergogna di esserti stata accanto. Si dica me ciò che si vuole. Mi si denigri. Mi si derida. Si dica pure che sono una puttana.

Ma sono io, Elissa, regina di Cartagine, quella che mille uomini hanno desiderato, io da sola ho fondato la mia città, io da sola ho innalzato il mio nome. Non avevo dei accanto. Non avevo più un uomo.

No, Enea, nelle stelle sopra è Cartagine è scritto altro che gli immortali versi di una maledizione.

L'inimicizia tra Cartagine e Roma...sì, sarà.

E davvero sorgerà dalle mie ceneri un vendicatore che terrorizzerà Roma, ma non adesso. Adesso no.

È ancora il tempo di vivere.

Di crescere.

Di amare.

Non lascerò Anna immersa in questo dolore che non merita.

Non lascerò il mio popolo.

Non lascerò me stessa.

No.

Di morientis Elissae1, un altro giorno invocherò il vostro nome.

Sarà difficile.

Sarà doloroso.

Ma non mi spaventano il dolore e le difficoltà. No Enea. Non mi sono tolta la vita quando morì mio marito, speso perfetto e meraviglioso, non lo farò adesso per te.


Poi, all'improvviso, in mezzo a tutta questa sofferenza, mentre sto cercando dentro di me la forza, penso a Jarba e rido. È incredibile ma rido.

Immagino lui, un uomo del deserto, fatto di carne di rabbia, cresciuto al sole atroce che ti prosciuga le forze e la vita, cosa possa aver pensato di te, principino di Troia, scappato dalla sua città mentre andava a fuoco, mentre gli altri restavano a morire, di te, pelle bianca, mani nobili che non hanno mai lavorato, mitra meonia legata al mento, chioma profumata...figlio di Afrodite...immagine dell'amore.

Oh Enea, riesci ad immaginarlo?

Come potrei non ridere?

Così la preoccupazione lentamente svanisce. Jarba sarà furioso, sì, ma non faticherà a credere che sia stata la tua stessa madre ad ingannarmi e si beerà nel sentirmi parlare male di te. Mi perdonerà, perché mi desidera e vorrà credermi, vorrà credere che solo per un tale motivo ho potuto preferirlo a te.

Cosa accadrà dopo? Non lo so.

Lo sposerò? Chissà. Perché no, dopotutto, ma ciò che il futuro mi riserva lo scoprirò domani. Sì, lo scoprirò vivendo.

Questa esperienza mi ha insegnato qualcosa di fondamentale.

Quando si cade così in basso si può solo provare a risalire.

E io risalirò, Enea, puoi giurarci. Non importa come. Troverò un sistema.

La storia forse continuerà a dire che sono morta per te, per il tuo amore, per il tuo abbandono. Che lo dica. Non mi importa.

Tu saprai che non è vero.

E mi vedrai, mi vedrai grande, senza di te e soffrirai ripensando a quello che avresti potuto avere e che hai buttato via, soffrirai quando sarai con lei e la troverai tra le tue braccia rassegnata ed indifferente ad un amore che le hai imposto, incapace persino di odiarti per ciò che le hai fatto. Allora mi penserai. Ripenserai a me, alla mia passione, al mio amore.

Ma io sarò lontana e sarà tardi.

Sarà con Lavinia che ti alzerai ogni mattina, sarà il suo volto pallido e inespressivo, così bello quando lo vedesti la prima volta, che guarderai ogni giorno, invecchiando, spegnendoti...perché nemmeno tu potrai evitarlo. Ripenserai alla tua giovinezza, a quando eri forte e bello, a quando la vita ti stava davanti e si chiudeva tra le tue mani come una rosa.

Quando a te solo pensavi e gli altri non erano che comparse sulla tua strada illustre. Ti generò da duri macigni l'orrendo Caucaso e tigri ircane t'offrirono le mammelle, dissi allora. Così eri da giovane. Ma da vecchio, Enea, sarai un uomo come gli altri, anzi, privo dell'unico conforto che la vecchiaia può donare, sarai più meschino, più piccolo, più solo.

Ripenserai a tutto ciò, Enea, e piangerai sul nome d'Elissa.

Nec mortae nec inultae2.

No. Non chiedo più la vendetta della tua morte insepolta.

Io vendicherò me stessa e lo farò nel modo più semplice. Vivrò e sarò felice.

Mentre tu, glorioso fondatore di Roma, sconterai i tuoi giorni nell'abulia di una sorte che ti sei scelto, imputandola agli dei. Allora saprai che avresti potuto rifiutare. Allora saprai che avresti potuto fermare le tue navi e che non fu l'obbedienza pia a farti partire, ma il desiderio di scrivere il tuo nome tra i grandi, di scrivere anche il tuo nome, codardo di Troia, accanto a quelli di Achille, Ettore, Patroclo e Ulisse.

Ma allora la fama e la gloria non saranno abbastanza...ti girerai nel letto bramoso d'amore e ti parrà di avermi ancora accanto.

Poi, di giorno, la fama di porterà alle orecchie nome di Elissa e la sua felicità, tuae secum ferans omina mortis3.





Nella lettera ci sono diverse citazioni dall'Eneide (canto IV, per esempio dal discorso di Jarba, uno dei miei passi preferiti-divertentissimo, dove il re definisce Enea “Paride con un codazzo effeminato”. Segnalo e traduco solo quelle in latino. Per quanto riguarda la storia immagino che tutti la conoscono, perciò faccio solo alcune precisazioni (mi perdoni chi già sa): Elissa è l'altro nome di Didone, Sicheo è suo marito e Jarba il re che la donato la terra su cui costruire Cartagine e che lei ha rifiutato di sposare Secondo dante Didone è all'inferno, nel girone dei lussuriosi colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo”. In vendicatore che sorgerà dalle sue ceneri è Annibale. Infine secondo Virgilio Enea incontra nuovamente Didone nel suo viaggio nell'Ade, la chiama, la invoca ma lei lo ignora sdegnosa e si rifugia vicino a Sicheo che “ne eguaglia l'amore” (uno dei più bei passi dell'Eneide, canto VI, vv. 450 ss.).


Grazie a chi ha letto e soprattutto a chi ha recensito.

Shark Attack: Tristano e Isotta è, a mio avviso, uno dei più dei miti in assoluto, è ricco, coinvolgente, dettagliato...è vero, a volte il modo in cui certe cose vengono studiate le rovina, privandole della loro intrinseca vitalità Sono contenta che tu abbia apprezzato.

Sophonisba: sono d'accordo su quasi tutto (purtroppo Ettore non l'ho mai sopportato). Ma basta con le eroine morte per amore. Giulietta...ci avevo pensato in effetti. Figurati, leggere la tua storia è stato piacere (e recensirla un dovere, ehhe).

Lilithkyubi: al di là di ciò che ti ho detto all'inizio ti confesserò che anch'io sono femminista, o meglio, mi ci fa diventare il mondo femminista, sia quello reale che quello della letteratura, con il suo “canone” imposto ed infrangibile. Isotta, comunque, sia in questa versione rivisitata che in quella originale è uno dei più bei simboli di emancipazione che io conosca. E' una dona straordinaria, di intelligenza fuori dal comune. E poi riesce ad ingannare persino dio, nell'ordalia (hai presente?). E di Didone che ne pensi? Lei, a dire il vero, mi ha sempre fatto un po' arrabbiare. Ho sempre odiato Enea. Un bacio e grazie di nuovo e sempre.




1“Dei d'Elissa che muore”, li invoca Didone prima di morire.

2“Né morte né invendicate”, parafrasi di “moriemur inultae, sed moriamur” (moriamo invendicate, ma moriamo).

3“Portanti con sé i presagi della tua morte”. Ho parafrasato le ultimissime parole di Didone: “nostrae secum ferat omina mortis”.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ginevra- La mort Artu ***


La mort Artu


Adesso che mi stai perdendo mi rimpiangi.

Lo so amore mio, lo so. So che adesso che conosci la verità io ti sembro la sola cosa mai stata importante.

Ritornano prepotenti i ricordi e li vedi più dolci e ci vedi più felici. Cancelli la distanza che ci separava le rare volte in cui pranzavamo insieme, dimentichi i dinieghi e le risposte fredde, rallegri la tristezza che mi leggevi negli occhi al mattino, prima di alzarti e scomparire nelle tue stanze, e che ignoravi assorbito dai tuoi doveri, dicendoti forse “domani”.

Immagini che quel domani sia arrivato davvero, e con esso il chiarimento e il ritorno di una felicità soltanto intravista.

La nostra unione non ti appare più come una lenta corsa verso la fine.

Gli imperdonabili errori ti sembrano piccole mancanze, le discussioni aspre tra due persone che non si conoscono più, solo tafferugli tra innamorati.

Ripeti che sì, ci siamo amati fino alla fine. Intensamente, con passione, talvolta con rabbia.

Della nostra felicità intravista e troppo presto fuggita via fai un sentiero infinito e non capisci come sia potuto accadere.

Non ricordi la tua indifferenza e la tua arroganza.

Non ricordi le infinite volte in cui hai ripetuto “io sono re Artù”, ricordandomi che dal nulla che ero mi avevi reso regina.

Non ricordi le tue mani esigenti e i tuoi pensieri sempre distanti e la mia voce che vibrava di rancore e di sdegno.


Rivivo la mia scelta, quasi con indifferenza.

Lui che mi sorrideva, bello come un sogno e mi amava senza esitazioni o freni.

Mi amava più di se stesso, più del suo onore, più del suo re.

Si inginocchiava davanti a me e chinava il volto. Era il più grande cavaliere del mondo eppure si umiliava per il mio amore.

Così cominciava tutto.

Amore mio, non c'è assoluzione per quello che ho fatto.

Non me la conceranno gli uomini, né i poeti, né certamente me la concederò io.

Tu solo mi perdonerai reclinando il capo, in nome dell'amore che mi hai sempre portato e che così raramente hai saputo dimostrarmi.

Io conosco bene la grandezza del tuo amore, la conosco, la so. L'ho sempre saputa, ma saperla non mi bastava più.

Consumata nella tua assenza ho covato il mio rancore inconsapevole, ho odiato i sudditi con cui dovevo dividerti, i cavalieri a cui appartenevi, il regno che rivendicava il tuo nome.

Amore mio, non c'è assoluzione per quello che hai fatto.

Te la concederanno gli uomini e ti perdoneranno i poeti, ma certamente non te la conederò io.

Perché tu, Artù, mi hai amato al di sopra di ogni altra cosa ad eccezione della tua leggenda e la tua leggenda si è fatta ogni giorno più grande fino a consumarti. Fino a consumarci entrambi.

Artù, re di Camelot, signore della Tavola Rotonda. Chi mai è stato più grande al mondo? Su chi mai si è cantato di più? Con parole più belle e più fulgenti?

Brilla, amore mio, la tua leggenda.

Ma più ancora splende la sua. La sua leggenda.

Tuttavia lui non l'ama e volentieri la rinnegherebbe per me. Lui è l'uomo che è salito nel carretto coi lebbrosi, è l'uomo che ha attraversato il ponte sottile come un capello e tagliente come una spada, è il cavaliere che ha ha tradito il suo re.

Ti ha amato come un fratello, ti è stato devoto come un servo, ma non ha saputo rinunciare a me.

Vive lacerato dal suo dolore, distrutto da una colpa che lo danna ancora vivo, ti ama e tuttavia mi ama di più e si crocifigge al suo tormento.


Lo so, Artù. Adesso che mi stai perdendo ti sembro bella e dolce come forse non sono mai stata. Mi perdoneresti ogni errore, compreso il tradimento, mi tenderesti la mano e rinunceresti per me ad ogni cosa.

Forse persino alla tua corona.

Lo so, Artù, perché provo le stesse cose.

Il dolore di ieri mi sembra piccolo e distante, le tue odiose assenze solo attese dolci del ritorno, l'amore che ho giurato a Lancillotto solo una ripicca sciocca.

Rivedo tuoi occhi, i tuoi sorrisi, le tue carezze e le amo come non le ho mai amate.

Tu solo sei importante.

Ricordo parole tenere e affettuose, baci appassionati e violenti, mani desiderose e mai sazie.

Ricordo quando svestivi i panni del re e tra le mie braccia ritornavi bambino, ti lasciavi stringere cullare e dicevi che nessuna era più bella di me.

I poeti mi chiameranno putain, scriveranno su di me sordide storie di tradimento.


Ma tu, amore mio, saprai.

Almeno questo, almeno poco, ma saprai.


Oggi muore con te la tua Ginevra, e i giorni futuri non vedranno altro che il simulacro della sua esistenza.

Muore oggi con te, con la sua colpa e il perdono che non può concederti, egoista fino all'ultimo istante, ma da te perdonata, e con il sorriso sul volto.


Il resto saranno i nostri nomi consegnati alla storia, luminosi come stelle.


Nell'ultimo istante non ti dono perdono, ma amore. Amore ti dono e tu prendilo, e con esso spegniti, attendendo a Mongibello tua sorella. Quando la strega verrà per te, io non ci sarò più.

Ma il mio amore, che ti consegno infine, vivrà per sempre e t'accompagnerà lungo il morire dei giorni, maledizione o benedizione su di te e ultimo bacio della tua Ginevra.




Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La difesa di Ginevra ***


Non so dire se questo capitolo sia il seguito del precedente, o se metta in scena una Ginevra diversa.

Credo che siua la stessa, in ogni modo, sempre lei, questa volta in un colloquio post mortem un po' sui generis...ancora impegnata a riflettere su di sé.









La difesa di Ginevra



Mi chiedete di difendermi, ma da cosa, signori miei?

Dal tradimento o piuttosto dalla morte che rifiutai?

Non vi è bastato il monastero dove mi sono rinchiusa, per obbligarmi a una castità che non ho mai praticato – né cercato, come ammetto?

Temo di no, perché so che voi volevate di più.

Chiedevate il mio sangue, lo acclamavate a gran voce.

Non prendetevi gioco di me, tuttavia: ciò che cercavate non era la purificazione della mia colpa, ma solo la possibilità di avermi sotto controllo.

Invece mi trovate viva, sfuggita a quel controllo, e ve ne rammaricate chiedendomene giustificazione.

Voi avete stabilito le regole, io le ho infrante.

Da ciò dunque devo difendermi e da ciò mi difenderò, in questo tribunale della coscienza che avete costituito, davanti a questa giuria di cui voi stessi fate parte, giudici e giuria nel contempo.

Vi conosco uno per uno.

Siete gli uomini che ci imposero le regole e le donne che non ebbero il coraggio di ribellarvisi.

Io, al contrario, vissi sempre sul filo della lama, stabilii le mie regole e le infransi a mia volta, completamente insoddisfatta di me, attirandomi il biasimo della mia corte e dei miei cavalieri.

Mi biasimarono per le menzogne e per il tradimento, perché per mia colpa morirono in tanti e forse, per mia colpa, si spense il sogno di Camelot.

Io sono la Ginevra di Camelot, la moglie di re Artù. Sono la Ginevra che fu amante di Lancillotto.

Sono io e non ne provo vergogna.


Ma tacete adesso, smettete di mormorare tra voi come comari e ascoltate la difesa che mi avete chiesto.


Sapete immaginare come trascorrono le giornate di una regina?

Mentre i cavalieri e il re, mio marito, duellavano con le spade e con le parole, io combattevo ogni ora una guerra silenziosa e inosservata, di cui nessuno ha mai parlato: quella contro il tempo che scorreva implacabile segnando il mio volto stanco.

La guerra che combattevo per apparire ogni giorno più bella, cosicché i bardi potessero dedicarmi canzoni e lodi.

Potete biasimarmi per la noia che mi divorava dentro?

La bellezza, a onor del vero, è stata sempre una grande fatica, perché essere all'altezza delle aspettative non era affatto facile.

Carina lo sono sempre stata, ma non è certo sufficiente per essere regina.

Avete forse mai sentito dire “la regina era graziosa” o “in molte erano più belle di lei”, o ancora “aveva dei begli occhi, ma tutto sommato non era niente di speciale”?.

Mai, direi.

Sempre “non v'era in tutta la corte una fanciulla più bella e nobile”, o “era così bella che pareva una fata”; dunque bisognava ingegnarsi, vestirsi, sistemarsi, agghindarsi, ma sempre in modo da sembrare naturale: è così che mi tenevo occupata. Lasciavo crescere i capelli, cosicché le mie ancelle impiegassero più tempo a pettinarli, e conoscevo a memoria ogni centimetro della mia pelle bianchissima – mai prenderci un po' di sole, per carità.

Alla lunga la cosa mi ha stancato.

Al di là di questo c'era Artù.

Che marito credete sia mai stato?

Immaginate un uomo comprensivo e pieno d'amore che con gli ultimi sospiri mi ha perdonato per la mia infamia.

Sì, questo è esatto.

Immaginate un uomo saggio e giusto, che ha guidato Camelot a diventare il centro del mondo e che è stato tradito dalle persone che amava di più.

Vero anche questo.

Ma da qui a essere un buon marito, correva in mezzo il mare che separa la Bretagna dall'Inghilterra.

Non è che bastino due paroline dolci buttate qua e là per poter essere considerato tale.

Ci vuole tempo e fatica e quelli Artù li ha sempre impiegati per altro.

Per Camelot e per la Tavola Rotonda, per esempio.

Ma si può dividere un marito con una Tavola, per quando rotonda sia?

Eppure credetemi, l'amava molto più di quanto non amasse me. Non c'era proprio paragone, in effetti; qualche volta sussurrava il suo nome e la chiamava di notte, mentre dormiva.

Così avevo sempre la sensazione che a lei fossero dedicati i suoi sospiri migliori: era una femmina, non a caso, una Tavola, non un Tavolo.

Non gliel'avessi mai portata in dote!

E a ulteriore conferma di ciò, se mai ve ne fosse bisogno, vi dico che, quando Lancillotto mi ha portata via per sottrarmi alla morte a cui, colpevole di tradimento, mi aveva condannata, Artù ha pianto i suoi cavalieri assai più di quanto non abbia pianto me, perché la loro morte o il loro abbandono aveva decretato, senza possibilità di ritorno, la fine della Tavola rotonda.


Adesso voi mi biasimate per essermi donata a Lancillotto, il giorno in cui Galeotto lo condusse nella mia stanza e mi pregò di concedergli un bacio, mi biasimate per aver mentito a mio marito, per aver spergiurato su Dio e sul mio onore, e tuttavia, se foste più onesti, direste che non è questo ciò che più vi disturba.

Purché avessi deciso di morire per Lancillotto voi me lo avreste perdonato, proprio come perdonaste Isotta.

Ma Ginevra non scelse la morte, si rinchiuse piuttosto ad Almesbury e lì decise di attendere la fine, vivendo come una monaca.

Ginevra rifiutò di seguire il suo amante, giunto a portarla via, e fu lei, con la sua scelta, a costringerlo a ritirarsi dal mondo.

Ecco dunque la storia di un'amante imperfetta, voi dite.

Ma cosa credete mi abbia spinto a quella decisione? Ve lo siete mai chiesti, signori e signore giudici, signori e signore della giuria?


Non fu il senso di colpa che mi consumava, né il dolore per quella perdita.

Quello fu ciò che dissi, perché sapevo che nessuno avrebbe mai potuto comprendere le mie ragioni, né ritenevo di doverle dare – la sincerità non è mai stata tra i miei pregi o tra i miei difetti.

Adesso, tuttavia, calato finalmente l'oblio, non c'è più nulla che mi trattenga dal parlare: a farmi intraprendere quella strada semplicemente la consapevolezza che, perduto Artù, niente avrebbe più avuto un senso.

Che senso può avere farsi un amante quando non si ha più un marito?

Ecco dunque che improvvisamente Lancillotto perse tutto il suo fascino e in me sbiadì ogni interesse per lui: non volli nemmeno baciarlo quando venne a salutarmi per l'ultima volta – e dire che, come voi ben sapete, non avevo mai brillato per castità.

Il gioco era improvvisamente concluso.

Storcete la bocca nel sentirmelo dire, ma è la sola verità che posso offrirvi: vendicarmi per le poco attenzioni di mio marito, legare a me il cavaliere che tutte amavano e desideravano, ma che io sola potevo avere – oh quanto ne godevo, dentro di me -, e tuttavia essere sicura che, alla fine, avrei avuto il perdono: tutto questo era stato un gioco.


Non ho mai smesso di amare Artù. Avevamo condiviso troppe cose, troppi desideri, troppi sogni, troppe paure, e in fondo avevamo costruito insieme un regno – per quanto il mio nome non figurasse che in qualche appendice senza importanza.

Se ho ricambiato l'amore di Lancillotto, d'altra parte, non è stato nemmeno per pura vanità. Ero abbastanza saggia da sapere che la bellezza non è che un dono effimero e che il suo amore incondizionato mi avrebbe procurato più guai che piaceri.

Alla noia, tuttavia, non sapevo porre rimedio.

So bene che vi scandalizza sentirlo dire, ma dovete rassegnarvi all'evidenza dei fatti.

Fu un in fondo la stessa noia che condusse Merlino a farsi imbrogliare da Nimue – sebbene voi non l'abbiate mai capito o cerchiate ancora spiegazioni diverse e più rassicuranti.

Certo, una tale noia voi non l'avete mai sperimentata (né voi, né mio marito, né Lancillotto) e dunque forse non potete comprenderla davvero. Le vostre vite avventurose erano votate alla gloria e ne traevate infinito piacere, eccitandovi per la paura della morte in un duello.

Ma la mia vita era ben diversa, se i momenti più intensi li ricordo quando, per dimostrare la mia innocenza davanti a Dio, dovevo affidarmi alla spada di un cavaliere che combattesse per me.

Potete dunque biasimarmi davvero per questo piccolo diversivo, per quanto funesto nelle sue conseguenze?

Per aver cercato, voglio dire, la passione, la gelosia, la rabbia, il tradimento?

Per aver scritto nelle pagine della storia il mio nome che altrimenti sarebbe stato dimenticato, confuso nell'espressione vaga “la moglie di Artù”.

Adesso invece mi chiamate con molti nomi, non sempre lusinghieri.

Adesso invece vi ricordate di me e vi faccio paura perché scelsi sempre e non mi volli uccidere, e più paura ancora perché nella solitudine di Almesbury, senza ormai nulla da perdere, rifiutai Lancillotto e la sua compagnia.


Lo feci perché non avrebbe avuto senso andare, e perché la noia non mi spaventava più. Ormai avevo abbastanza storie e abbastanza ricordi da colmare gli anni che rimanevano, sola finalmente con me stessa.

Niente più cavalieri, spade, tornei e soprattutto basta Tavole rotonde.

Nella mia piccola cella feci portare un piccolo tavolino quadrato e gli parlai qualche volta ridendo tra me e me, chiedendogli come avesse potuto, mio marito, preferirmi una Tavola, per quanto rotonda fosse.

Non mi rispose mai, ma quel monologo silenzioso consolò i miei ultimi anni assai più di quanto non fecero le voci squittenti di giovani ancelle impegnate a compiacermi o la consacrazione a madre badessa, che mi vide in qualche modo tornare a essere regina – posizione che non è mai dispiaciuta, devo ammetterlo, poiché sono sempre stata una donna ambiziosa.

Poi, quando la vecchiaia giunse a velarmi occhi, quando ormai nessun orpello e nessuna ancella poteva più richiamare indietro i residui dell'antica bellezza, scelsi di essere sepolta accanto a mio marito. Non mi importava più nulla di Lancillotto e dell'amore che probabilmente mi portava ancora, né di ciò che avrebbero detto di me.

Era quella la sola conclusione possibile: con Artù avevo vissuto, avevo amato, avevo odiato, avevo peccato, riso e pianto, avevo tradito ed ero stata persino condannata a morte.

Non vi era un altro posto che avrebbe potuto accogliermi e lì sdraiai senza più parole, accanto a lui, nel silenzio che non mi avrebbe mai più arrecato noia, finalmente senza dover lottare, finalmente conclusa quella guerra silenziosa e inosservata che era stata la mia esistenza.





Grazie a chi ha letto e ai miei adorati recensori!

Altovoltaggio: grazie come sempre per il sostegno che non mi fai mai mancare. Ginevra, quella delle leggende arturiane, è un personaggio meraviglioso ma purtroppo ppena accennato. In generale la materia bretone tende a rilegarla sullo sfondo delle vicende, di cui pure fa da motore.

Chiara_96: che dire? Grazie mille per i complimenti, spero che tu abbia avuto modo di leggere anche questo capitolo e magari, perché no, di apprezzarlo!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La dipatita di Merlino da questo mondo ***


La dipartita di Merlino da questo mondo.


Non è che fosse stanco della vita,

come in molti avevano detto,

cercando scuse per colmare l'improvviso baratro

creato dallo sgretolarsi della sua grandezza,

ma era vero che aveva capito.


Non la fine di Camelot o la vanità della Queste, no -

per quello sarebbe bastata poca magia,

un decimo della sua arte divinatoria -

né aveva ovviamente trovato un senso all'effimera vanità del tutto.


Semplicemente, dopo una vita trascorsa a inseguire parole,

a scovarle nei luoghi più arcani,

a impararle col sudore e col sangue,

a pronunciarle con cadenza perfetta e sublime,

insomma, ad amarle ad una una come se fossero figlie,

aveva scoperto il gusto -

se non ancora il senso -

il gusto, sì, di un gesto e di uno sguardo.


E allora aveva scelto:

pochi minuti come un vecchio qualunque

- barba bianca e rughe sul volto,

instupidito dai suoi begli occhi -

di lasciarsi fregare col sorriso sulle labbra

- e aveva goduto, oh se aveva goduto!


Ma neppure così lo lasciarono in pace.

Non ci fu nessuno, per esempio, ch'ebbe il coraggio di dire

«è un vecchio scemo!»

- troppi, ancora, il timore e la venerazione -,

continuarono a invocarlo o a inventare giustificazioni,

incapaci di lasciargli quell'istante di normalità,

incapaci di lasciarlo andare come aveva scelto,

come non aveva mai vissuto

come un uomo qualunque.






Spazio autrice:

qualche delucidazione, nel caso in cui a qualunque servisse.

Secondo la vulgata del ciclo arturiano, Merlino si innamora di Nimué, una delle damigelle della Dama del Lago (spesso la figura di Nimué è sovrapposta a quella di Morgana o alla stessa Dama del Lago) e decide di insegnarle l'arte magica.

A causa delle sue continue profferte amorose, Nimué si stanca di lui e lo rinchiude in una caverna meravigliosa sfruttando l'arte che lui stesso le ha insegnato.

Ovviamente Merlino aveva previsto tutto, e lo aveva rivelato ad Artù, ma non ha fatto nulla per impedire che accadesse, perché il destino, a suo avviso, è già scritto, o semplicemente perché così avrebbe dovuto essere.

Nel mondo, naturalmente, lo rimpiangono non poco e continuano a invocarlo, specialmente Artù.

Questa è la mia personale interpretazione dei fatti.

Un bacio a tutti e grazie a:


Cabol: eh, la documentazione, diciamo, si trova nel backround lavorativo della sottoscritta...insomma, il ciclo bretone è materia all'ordine del giorno. Che ne pensi? Il capitolo è un po' diverso dai precedenti, ma lo esigeva il tipo di idea che mi piaceva dare...

Altovoltaggio:grazie grazie...mi piacerebbe scrivere su Anna Bolena, ma non ho approfondito abbastanza l'argomento, magari in futuro...mi piacerebbe. Sono più ferrata sulla mitologia in generale, se hai qualche richiesta sarò felicissima di accontentarti, compatibilmente con la mia ispirazione. A presto!


Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Tutta la vita - la vita - di Morgana ***


Tutta la vita – la vita – di Morgana


Era lei, la strega -

si sa che gli uomini hanno bisogno di averne una

per poter inveire contro alla femminilità -

e non le dispiaceva, tutto sommato.

Almeno le permetteva di distinguersi da quel tipo di donna,

quella che si strugge per amore

e alla fine – inevitabilmente – muore -

si uccide, insomma.


Non che non amasse, questo no.

Amava -

eccome se amava!

ma quel tipo di donna non la poteva soffrire.

Per questo ce l'aveva tanto con Ginevra,

tanto davvero,

abbastanza da distruggerle la vita, almeno,

e aspettare che lo facesse lei quel gesto patetico e disperato.

Gli altri -

tutti -

credevano che la odiasse per via di Guigamor -

ed era vero in parte,

(era stata lei a ostacolare la sua storia),

ma, andiamo, era Morgana, lei!

Lo avrebbe avuto comunque, alla fine, quando sarebbero stati soli,

loro due, nell'Avalon.

Il punto era diverso, dunque -

Il punto - qual era il punto? - il punto era l'altro,

era che Ginevra rappresentava tutto quello che lei odiava,

in una donna.


Ma alla fine si era sbagliata. Ginevra non si era tolta la vita -

non era quel tipo di donna, allora -

nemmeno quando Artù era morto,

né era tornata con Lancillotto, quando lui l'aveva cercata, pazzo d'amore.

Aveva scelto, Ginevra, la solitudine.


Perciò, perciò...


Ma Morgana era felice.


Aveva la necromanzia, un uomo, un figlio -

ma era sola, forse -

sola, ma come tutti sono soli, in fondo.


Alla fine però era andata anche a riprendersi Artù,

l'Avalon era abbastanza grande, dopotutto,

o troppo grande -

inutile farsi troppe domande.


Le rimaneva il rimpianto di non essere stata lei a imprigionare Merlino -

a sconfiggerlo, insomma -

ma non era neppure sicura che ce l'avrebbe fatta, a voler essere onesta.

Forse alla fine si sarebbe fermata, per un ultimo scrupolo,

perché un tale mago -

il suo maestro -

non avrebbe potuto finire così,

o forse perché conosceva la verità -

la verità -

quella di Merlino, della sua storia, della sua vita,

e la sua,

quella di Morgana, della sua storia, della sua vita,

e di Artù, persino.

Tutti grandissimi, e soli -

ma la solitudine non era così male, in fondo,

quando si poteva viverla insieme.


E poi gli uomini avevano bisogno di avere una strega,

non avrebbero saputo farne a meno,

e lei,

lei,

era solo l'altra faccia di Melusina,

la fata.


L'Avalon era abbastanza grande per tutti.










Spazio autrice.

In questo caso non credo servano delucidazioni. L'unica, forse, riguarda la storia tra Guigamor e Morgana che Ginevra ostacola convincendo Guigamor (suo nipote, secondo alcune fonti) a lasciare la maga. Guigamor diverrà in seguito signore dell'Avalon.

Celebre e assai noto il fatto che Morgana andrà a prendere Artù (suo fratellastro e in alcune fonti padre incestuoso di suo figlio) per portarlo nell'Avalon, un attimo prima della sua morte.

Ah, secondo molti studiosi, Morgana e Melusina sono le due facce della femminilità: la strega e la fata.


Cabol: grazie davvero...mi hai dato lo spunto per scrivere anche questa. Stesso stile, altro personaggio. Ah, hai visto che ho cambiato il titolo della storia fantasy? Ora si chiama I figli del re, mi raccomando, ci tengo al tuo parere... Un abbraccio.


Un bacio a tutti.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Ajace e l'Olimpo ***


Ajace e l'Olimpo



Non furono la vergogna o il senso di tradimento,

no.

Dei buoi non gli importava poi molto, in fondo,

e dagli dei non si poteva aspettare niente di diverso,

era la loro natura

il delirio di quella quasi onnipotenza –

ci sarebbe stato quasi da riderne...

 

E non era poi stanco della vita, dopotutto!

Certamente, almeno, non avrebbe disdegnato

- prima –

di avere un'occasione

per fargliela pagare.

 

Oh certo, in parte la trovò così:

privando di un eroe l'esercito del glorioso Agamennone -

che poi, a volersela dire tutta, lui era proprio l'unico rimasto,

in quel corteo di eunuchi effeminati,

a saper menare le mani,

l'unico, dopo la dipartita dell'Eroe -

ma non sarebbe bastato -

probabilmente.

 

Da morto non gli sarebbe importato molto

nemmeno delle celesti armi di Achille-

che in fondo, adesso finalmente poteva dirlo,

a essere quasi immortali e semi divini

è sin troppo facile diventare eroi.

 

Gli altri, poi, l'avrebbero invocato, rimpianto,

ma anche le loro voci gli sarebbero soffiate accanto

simili al vento di quest'ultimo giorno, così soffuso e disperato -

persino la voce di Odisseo,

oh sì, la voce di Odisseo – l'astuto, il falso, l'ingannatore -

perché la guerra sarebbe durata assai più a lungo, senza di lui -

dieci anni di orrore e lontananza, su per giù.

 

Ajace, oh Ajace,

gli avrebbero detto, -

in coro -

ma Ajace sarebbe stato altrove,

indifferente a tutto,

ma consapevole infine – almeno infine – di aver scritto qualcosa,

la sua morte se non proprio la sua vita.

 

Lui.

 

Alla faccia degli dei, insomma.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Storie di una Tavola rotonda ***


Storie di una Tavola Rotonda


Era rotonda -

oh se era rotonda -

rotonda e perfetta come i fianchi di una bella donna

e così ammiccante

che non si poteva fare a meno d'amarla.


Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Lancillotto, il miglior cavaliere del mondo ***


Non era mai stato facile essere il miglior cavaliere del mondo -

un fardello, più che una benedizione -

poi aveva incontrato Artù

e la sua Tavola,

così perfettamente rotonda

e si era sentito, come dire, liberato.


Non era mai stato facile essere il miglior cavaliere del mondo -

nemmeno a dividerlo con Tristano, quel peso -

ma era stato bello, questo doveva ammetterlo.


Tutti che ti guardavano sempre

attendendo vittorie

e tu a ubriacartici di quelle vittorie, ad ammirarle

una per una, bicchieri di sidro

o perle infilate in una collana

e i tuoi nemici a tremare come foglie d'autunno

al solo sentir pronunciare il tuo nome.


Ci voleva lei per farti a pezzi,

per toglierti il sonno,

strapparti l'onore

lei per lacerarti lo spirito come un coltello piantato nella carne viva.


Puoi dirlo adesso, Lancillotto,

che lei era l'ultima,

l'ultima prova,

l'ultima sfida.


E se ne andò dal mondo – il secolare -

senza nemmeno la gloria di una battaglia,

sconfitto, lui, il miglior cavaliere del mondo

dalle labbra increspate di una donna

che nemmeno volle baciarlo

quando la raggiunse per l'ultimo saluto.


Poi gli parve d'udire qualcosa,

come una risata ironica soffocata tra i baffi,

ma fu solo il rumore lieve del vento -

probabilmente.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** I cavalieri - gli altri ***


I Cavalieri – gli altri.


Ridevano

eccome se ridevano,

così felici da sembrare ubriachi,

come se fossero stati ancora intorno a quella Tavola,

come se Camelot fosse improvvisamente tornata,

dopo una lunga, lunghissima assenza -.


Forse qualcuno nascondeva il riso sotto ai baffi

dandosi un'aria composta e indifferente

mentre gli occhi gli si facevano lucidi e il volto arrossava,

o improvvisava una smorfia ridicola -

labbra tese, palpebre sgranate -

per cercare di soffocarselo dentro

come un singhiozzo.


Qualcun'altro, invece, se la ghignava senza ritegno,

ed era già tanto che non si rotolasse per terra

colpendo coi pugni il pavimento, al colmo delle lacrime,

fino a farsi scoppiare la pancia.


Qualcuno, forse, ci sarebbe perfino morto -

e volentieri -

di quella risata così liberatoria.


Ridevano -

eccome se ridevano -

i vivi,

i morti,

gli sconfitti

sorte che li accomunava tutti-,

gl'uccisi

e quelli che magnanimamente aveva risparmiato.


Assordati dalla sua leggenda, abbagliati dalla sua stella,

oh che piacere che provavano!.


E se qualcuno gli avesse fatto notare

che non erano un bello spettacolo, da vedere -

così ridotti non brillavano certo per cortesia -

vinto il primo momentaneo stupore

lo avrebbero guardato con aria compassionevole

e gli avrebbero detto

«Forse voi non lo sapete, ma la regina non lo ha nemmeno baciato

quando l'ha raggiunta per l'ultimo saluto»

e se non avesse riso, allora non ci avrebbero niente.


Poi, in ogni caso, avrebbero ricominciato -

ciascuno a suo modo, ma tutti così felici

come se Camelot fosse improvvisamente tornata

dopo una lunga, lunghissima assenza.


Ma senza il miglior cavaliere del mondo, questa volta.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Artù, il re ***


Artù, il re


Com'era rotonda, quella Tavola -

rotonda e perfetta come i fianchi di una bella donna -

e come l'amava – Dio, se l'amava!


Ma sapeva bene, il re, che l'amore e l'odio

sono solo due facce della stessa medaglia (quella della vita, avrebbe detto),

e così di notte, talvolta,

quando sentiva sua moglie scivolare sempre più lontano,

e di giorno poi,

quando scopriva che un re non nasce mai per la pace,

talvolta, la odiava nello stesso tempo.


I suoi cavalieri, tutti lì a cercare la verità,

e Ginevra che gli sfuggiva lentamente di mano,

e il Graal – benedetto pezzo di legno! - che non si trovava mai,

e poi quel chiodo fisso,

quello, soprattutto, piantato sulla fronte, appena sotto alla sua corona:

non essere degno di Excalibur.


Allora si estraniava un istante - uno solo -

non gli serviva neppure chiudere gli occhi,

e ritornava uno scudiero come tanti

e aveva solo pochi anni d'inesperienza e nessun tradimento da dover gestire

e suo padre e suo fratello

e tornei e un regno ancora da aspettare.


Ma Camelot lo reclamava sempre, ingombrante e rotonda -

aveva il volto radioso di Ginevra e guardava con gli occhi tristi di Lancillotto,

incantava con le mani affusolate di Morgana e la voce raffinata di Galvano -

e allora – che altro avrebbe potuto fare? -

tornava

e guardava la sua Tavola

e l'amava

perché sapeva – lui solo -

che quella Tavola

era l'unica possibilità d'amore.


Adesso, finalmente, a Mongibello non ha più fretta.

Siede in riva al mare, spettinato dal vento gonfio di sale che gli impiastra il volto,

guarda l'orizzonte fin dove l'occhio può arrivare

e confonde l'Avalon e la Trinacria, e talvolta perfino la sua Bretagna,

sovrappone Morgana e Ginevra e Mordred e Lancillotto,

e quant'altro ancora, e aspetta.


Aspetta qualcosa che non saprebbe dire

e spera, col volto così impiastrato di sale e i capelli spettinati dal vento,

che non arrivi mai.

Che rimanga solo quello. Un'attesa, una speranza, un vago desiderio di pace.


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Bedivere, lo sconosciuto ***


Bedivere, lo sconosciuto


Chi conosce Sir Bedivere, cavaliere della Tavola Rotonda?

Penseremmo a uno scherzo -

o a una domanda trabocchetto, al limite -

se qualcuno ce lo chiedesse.


Nemmeno una riga, una parola sulle sue imprese -

quali imprese compì mai, in fondo? -

e quando parlavano di lui lo chiamavano sempre

«il fratello del nobilissimo duca Ser Lucano».


A lui stava bene, dopotutto.

Osservava con attenzione -

ne aveva il tempo, poiché la gloria non l'assediava -

e aveva capito assai meglio di altri che la fama si nutre di dolore.

Era preferibile la sua sorte, allora, e la coltivava con cura.


Qualche principessa minore salvata in silenzio,

nei tornei perdeva sempre con dignità all'ora del vespro,

un paio di draghetti di poco conto, uccisi sul far della sera, quando nessuno poteva vederlo,

e un amore ogni tanto: servette, prima, e forse una dama ignota d'un paese lontano -

bella senza eccessi, se pure a lui doveva essere sembrata una fata -,

che nessuna leggenda avrebbe mai ricordato.


Insomma, un cavaliere come tanti,

nobile e coraggioso quel tanto che bastava per sedere intorno a quella Tavola,

e non un tantino di più,

e a lui stava bene così.


Poi, però, per ironia della sorte, gli toccò di sorreggere Artù negli ultimi istanti

e di gettare la gloriosa Excalibur tra le onde del mare.

Tre volte vi dovette andare prima di trovare il coraggio per farlo -

ma non aveva mai paventato eccelso coraggio, lui -

e fu forse quella sua amorevole esitazione -

non era stato certo per il valore d'una spada se aveva scambiato l'ordine per un delirio -

a uccidere il re,

che lo lasciò dicendogli solo «su di me non potrete più fare alcun affidamento»

e «pregate per la mia anima».


E lui, che non era il miglior cavaliere del mondo, ma era uomo di parola e affetto,

pregò davvero,

e fino all'ultimo giorno della sua vita

facendosi eremita presso Glastonbury

ed esaudendo quell'ultimo desiderio del suo sovrano,

pronunciato magari per dovere di cronaca.


Poi il suo nome fu nuovamente dimenticato -

nessun corteo di angeli, visioni, sogni né pianti disperati ad accompagnarne la dipartita -

ma qualcuno, più informato di altri, sussurra senza dare troppo nell'occhio

che nessuna storia ci sarebbe stata, se lui non l'avesse narrata,

perché quel cavaliere anonimo e semi sconosciuto

fu l'unico a conoscerne la fine

e a vivere abbastanza per poterla narrare.


Lui, Sir Bedivere, non commenta affatto,

attendendo che quella voce si spenga naturalmente,

e sempre convinto che il silenzio sia preferibile alla gloria, in fondo.






Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Nimueh, la figlia del lago ***


Nimueh, la figlia del lago


Non è che si sia mai pentita, no -

davvero non riusciva più a sopportarlo -

e gli scrupoli di coscienza, l'etica, la morale

sono cose troppo terrene per lei che è creatura di lago.


Eppure, talvolta, quando la notte si spegne e s'affaccia in lontananza il primo sole,

quando si solleva alla riva e un calore lieve le riscalda la pelle chiara,

talvolta, in quei momenti,

un'immagine sfocata le bussa alla mente

e le pare di ricordarlo sorridere -

il volto di Merlino s'affaccia al suo ricordo, di Merlino imprigionato e beffato,

di Merlino circuito e sfruttato,

ma sorridente prima che lo lasciasse per sempre.

Allora non riesce più a capire,

si sente confusa -

e umana -

sensazione che le piace assai poco, deve ammetterlo.

Si chiede se per caso avesse in mente qualcosa, l'uomo diavolo,

e cerca l'impercettibile dettaglio che deve esserle sfuggito.

Lo cerca a lungo, tra i fili sottili della sua vita

confusa nella Leggenda.


Ma non può trovarlo, Nimueh.


Lo cerca nel posto sbagliato, lei fata, lei strega, damigella e signora, necromante.

Dovrebbe forse guardare tra le vite altrui -

quella di Merlino, quella di Morgana,

più fragili, più umane di quanto la sua sia mai stata,

più terrene, forse,

poiché non le generò l'acqua di un lago,

poiché entrambi nacquero da un intrigo,

da un tradimento,

da una scintilla di sentimento.


Non può trovarlo, Nimueh,

e quel sorriso rimane un'ombra,

un dubbio, un tarlo,

una goccia che cade incessante sulla pietra

della sua esistenza

priva d'amore.



Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Il viaggio di Alessandro il Grande ***


 

Il viaggio d'Alessandro il Grande

 

Sollevò il vino, e lo guardarono.

Qualcuno indovinò che già sapesse, che avesse capito,

intuito, già visto,

come fanno gli dei.

Qualcuno si limitò ad osservarne l'eleganza,

attonito, ancora una volta,

quasi stordito da quella perfezione.

Qualcun altro attese trepidante e ansioso,

ma colmo di paura, in fondo,

inconsapevole di ciò che sarebbe accaduto,

quando il suo astro fulgente fosse tornato al cielo.


Ma a lui di tutto questo non importava più.


Sui loro volti non scorgeva che fantasmi,

ricordi d'una felicità lontana,

nomi antichi d'un passato già andato.

Non aveva più valore la gloria,

aveva perduto quel sapore d'eterno

adesso che si trovava a gustarla da solo.


Gli avrebbe lasciato molto di cui parlare,

domande da porsi,

dubbi irrisolti,

e così tanta frustrazione,

orfani del proprio dio.


In lui, solo il cuore che batteva

come un adolescente al primo amore,

solo la fretta, adesso che tutto era stato approntato:

la sua statua che lo guardava

e l'ultima imperitura conquista a glorificare la sua memoria.

Andava di fretta, Alessandro il Grande,

come sempre aveva fatto nella vita.


Solo, non vi erano immaginari confini questa volta,

né mondi nuovi per le sue Alessandrie.

Questa volta conosceva la meta del viaggio

e chi l'attendeva dall'altra parte,

e vi andava come un uomo, questa volta,

a passo svelto, emozionato, sicuro d'essersi già attardato troppo.


Là, dovunque fosse, lo avrebbe trovato

con le sue mani calde, il suo sorriso, le sue cosce persino,

la sola cosa che lo avesse mai vinto.


E non desiderava che perdere, adesso.

 

 


Spazio autrice.

Lascio il ciclo arturiano per un ritorno indietro, ad Alessandro ed Efestione. Il primo, l'uomo che ha saputo diventare mito, il secondo, l'uomo che gli ha permesso di farlo. Così vedo la morte di Alessandro, a così pochi mesi da quella di Efestione.

Un omaggio ai rapporti umani, all'amicizia, all'amore, di qualunque tipo, genere, modo essi siano. Nella convinzione imperitura che siano la sola cosa per cui vale la pena vivere la vita.

Cara Professoressa,


per prima cosa grazie davvero, sia per aver trovato il tempo di scrivere questa lettera, sia per le belle parole che ha usato per me.


Io credo che avrebbe potuto spedire la lettera anche in italiano, in ogni caso ecco la traduzione. Mi sono attenuta il più possibile (problemi di traduzione a parte) all'originale. Ho fatto solo una piccola correzione riguardo alla tesi di laurea che non era ancora un'edizione critica (per quella ho dovuto aspettare il dottorato) ma uno studio preparatorio, focalizzato in particolar modo su un manoscritto trascurato dall'edizione precedente.


Ho aggiunto anche l'intestazione.


Il solo dubbio mi rimane per quanto riguarda la sua qualifica, perché non conosco bene le corrispondenze con l'inglese.


“Former professor” significa "in pensione", ma mi pare più adatto “professor emeritus”, che in inglese viene usato “when a person of importance in a given profession retires and/or hands over the position, so that his former rank can still be used in his title. This is particularly useful when establishing the authority of a person who might comment, lecture or write on a particular subject.”.


Insomma, non ho particolare familiarità con la questione, ma mi sembra decisamente il suo caso.


Deve essere inviata inviare entro le ore 16 di lunedì all'indirizzo mail


lb358@cam.ac.uk


Nel caso in cui possa servirle, le invio l'intestazione della mail che ho inviato anche alla professoressa Capusso:


Dear Louise Balshaw and Committee Members:

As request by the call for a Research Associate on the AHRC-funded project on Medieval French Literary Culture outside of France, I send to you a reference letter about the applicant Francesca Righetti.



Nell'oggetto della mail:


Reference letter (Research Associate on the AHRC-funded project on Medieval French Literary Culture outside of France)


Un caro saluto, sperando di vederla presto, e ancora grazie,


Francesca

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Il viaggio di Efestione ***


Il viaggio d'Efestione

 

Troppo stanco per lottare ancora, chiuse gli occhi.

Lasciava di sé un ricordo che sarebbe soffocato nella sua ombra,

una moglie e un bambino che non sarebbero forse sopravvissuti a lungo,

e la lieve ironia di ciò che stava accadendo.

 

Se ne andava solo, bestemmiando tra i denti

poche imprecazioni rivolte a lui,

- le prime d'una intera vita

obnubilata da quell'adorazione -

e alla sua assenza lancinante come un coltello nel fianco.

 

Ma come mentire a se stessi, Efestione, come mentirsi

nell'ultimo istante?

 

Non era il dolore della propria solitudine

a strappargli bestemmie,

ma l'evidenza del futuro,

i suoi occhi colmi di lacrime, la pazzia che l'avrebbe travolto,

la ferita insanabile di quell'assenza

che non si sarebbe mai perdonato.

 

Così imprecava contro se stesso per non aver saputo aspettare,

contro gli dei per non avergli concesso un altro giorno,

e rivedeva il suo volto, sì, ancora una volta,

riviveva momenti,

ricordava sogni,

mondi costruiti insieme solo per sentirsi più vicini.

 

E amava, Efestione, nell'ultimo come nel primo istante,

servo e padrone del suo amore,

amava come una donna, come un fanciullo,

con più forza e più ardore di quanti ne avesse mai impiegato

in tutte le battaglie della sua vita.

 

E sapeva, Efestione, che non era una lunga attesa

quella che si profilava al suo orizzonte.

Avrebbe voluto dirgli che c'era tempo,

che non doveva aver fretta di raggiungerlo,

che il mondo non era pronto a fare a meno di lui.

 

Non poteva, tuttavia, e se pure avesse potuto

le sue parole si sarebbero perse nel vento.

 

Non c'era altro destino, per loro.

Loro stessi l'avevano creato.

 

 


Spazio autrice.

Speculare alla precedente, uguale il titolo, uguali le motivazioni. Per completare l'omaggio a loro due e all'amore.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Il sorriso d'Achille ***


Sollevò il capo, riaprì a stento gli occhi già chiusi -

strappando un ultimo istante alla sorte

soltanto per poterne ridere -

e su di lui posò quelle fessure taglienti come lame,

occhi morenti, ma occhi d'un dio.

Anche così Paride n'ebbe paura.

Tremando come una foglia al vento -

nemmeno la presenza d'Apollo al suo fianco,

che ancora sosteneva l'arco, poteva rassicurarlo allora -

si acquattò dietro a una colonna attenendo che la vita l'abbandonasse,

ancora temendo la sua vendetta.

 

Ma lì disteso come un cervo in agonia,

scossa dal dolore la divina bellezza,

Achille sorrideva tra sé.

Caduta era infine l'ora del rancore;

spenta nell'ironia del Fato

che aveva sentenziato la sua morte

per mano del più imbelle tra i principi troiani,

ma più ancora oscurata nell'ultimo sollievo.

 

Precipitoso, sorridente, correva verso la fine:

l'Ade, i campi Elisi, un luogo qualunque.

E gli uomini, la guerra, le pire su cui ardevano gli eroi,

quanta poca importanza avevano adesso;

persino l'agognata gloria gli sarebbe parsa poca cosa allora,

se non fosse stato per quel piccolo particolare: perché quella scelta

impulsiva e fatale

permetteva a lui, immortale, di raggiungerlo così presto.

L'attendeva, Patroclo, e l'eroe precipitoso correva.

L'Ade, i campi Elisi, un luogo qualunque:

dovunque egli fosse l'avrebbe trovato, raggiunto

e si sarebbero poi cercati una spiaggia solitaria,

il loro limbo di dimenticanza o d'eterna memoria,

infine soli

infine liberi.

Senza più profezie ad incombere sul capo,

senza più donne – madri, amanti, spose –,

talloni, dei, profezie di trionfo e di morte

e stretti, finalmente, in un destino comune.

 

La sola cosa che li avesse mai separati,

cosa d'un altra vita, adesso.

 

 

 

 



Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** La schiena di Lancillotto ***


La schiena di Lancillotto


Non fu tanto il tradimento di Ginevra,

la dolora certezza di non essere stato abbastanza

frustrazione avvilente che corrode il cuore.

Anche quello, certo, trovarsi improvvisamente accomunato a Marco,

                                                     orecchie equine ,

in un’unica sorte di derisione e sconfitta,

ma avrebbe potuto sopportarlo, in fondo.

 

Ciò che lo uccise fu la schiena di Lancillotto

diretta verso un altro destino,

la sua schiena che lasciava Camelot

i suoi occhi che non si voltarono indietro.

Lo guardò partire come se guardasse abbandonarlo i suoi stessi sogni,

desideri cresciuti come figli;

lo guardò partire come avrebbe guardato un figlio,

o le vele nere d’una nave attesa.

Avvertì la solitudine esplodergli nel petto

e neppure Excalibur che brillava al suo fianco

gli portò consolazione.

 

Fissò quel posto vuoto

come il volto d’un fallimento,

e seppe che nessuno avrebbe mai potuto riempirlo.

Capì allora la sua Tavola stava morendo

e si spense con lei.

 

 


Spazio autrice.

Torno a proporvi Lancillotto e Artù, ma da una prospettiva diversa. Vi racconto il tradimento di Lancillotto che diede il via alla fine di Camelot e il modo in cui Artù potrebbe averlo vissuto. Omaggio, ancora una volta, un capolavoro assoluto della letteratura, decisamente troppo trascurato.



Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** L'epifania di Ginevra ***


L'epifania di Ginevra

 

Non è che avesse smesso d'amarlo -

c'erano gli anni, i desideri, i sogni e un regno costruito insieme -,

no,

né era il tipo di donna che concede troppo alla vanità, la regina .

Era qualcosa di più insidioso,

e di più vero, forse.

 

L'aveva sentito una sera d'autunno,

poco prima dell'ora del sonno,

un'Epifania

che aveva avuto la voce di cavalieri ubriachi

ben poco cortesi così gonfi di vino e di millanterie -.

Alla cena, con i calici levati e già vuoti,

brindando,

Alla moglie d'Artù”, avevano urlato ridendo.

 

Come intontita, li osservava.

 

E nella stanza, poi, mentre le ancelle le pettinavano i capelli lunghissimi e biondi -

il crine d'una regina -

e mentre allo specchio contemplava il proprio volto e le distese dei giorni,

aveva sentito il cuore schiantarsi in petto,

e un nodo alla gola da non poter respirare.

 

Così, quando Galaot l'accompagnò da lei, lasciò che entrasse,

e intrecciò le labbra alle sue,

e seppe che la storia l'avrebbe chiamata per nome.

Tornò a respirare,

Ginevra.

 



Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=229723