With you, forever.

di brokethefixed
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 
{ A tutte le persone che nella vita significano molto per me,
                                        senza le quali non sarei niente.}

 
 
CHER’S POV
 
 
Università.
Solo al pensiero di quella parola, Mi sento lo stomaco contorcere. So che non sono pronta. Eppure è solo domani, e passerò tutto il giorno nell’ansia.
 
Domenica mattina. Seduta sul letto della mia camera, avevo scarabocchiato svogliatamente quelle due frasi sul mio diario.
Dopo averlo chiuso,  lo gettai per terra, vicino alla confusione che si trovava sul pavimento, non altro che un insieme di vestiti portati i giorni prima, alcuni paia di scarpe sparsi per la stanza, riviste con le pagine mezze strappate, fogli, …
Non avevo nessuna intenzione di sistemare. Ero apatica.
Lo ero da tre mesi a questa parte, ma oggi lo ero particolarmente. Non avevo voglia di fare niente che non fosse mangiare, dormire, piangere, stare su internet, usare il cellulare e ascoltare la musica.
Figuriamoci come avevo voglia, di svegliarmi alle sei, e iniziare una scuola, nuova, grande, sconosciuta e con nessuno che conosca.

E quella domenica, ero innervosita dall’ansia, che, come avevo scritto pochi minuti prima nel diario, avrebbe accompagnato tutta la mia giornata. Un’ansia mischiata alla paura, ma unite così bene da non riuscir più a distinguere dove inizia l’una e dove finisce l’altra.
 
Avrei iniziato da capo, avrei voltato pagina. Ma non volevo sbagliare, perché non significava solo iniziare in modo sbagliato, ma continuare in modo sbagliato e finire in modo sbagliato.
Avrei tentato come sempre di sistemare tutto, ma avrei peggiorato maggiormente la situazione, rendendola irreparabile.
Irreparabile solo perché io la vedevo così. Solo perché non ne trovavo una via d’uscita.

Ero una persona razionale, ma quello che mi suggeriva la coscienza, raramente lo facevo. 
Forse perché quello che pensavo non lo capivo nemmeno io. 
Ma cosa mi spingeva allora a fare le azioni che compievo?
 
Non c’era niente che mi spingeva. 
Eseguivo solo quello che secondo me non poteva portarmi alcun rischio.
Questo perché avevo paura.
Di tutto.
 
Di trovare un ostacolo, in fondo alla strada che sceglievo e così non procedevo, credendo di non riuscire a superarlo.
Di sbagliare strada, convincendomi di non poter più tornare indietro.
Ero una persona che si arrendeva facilmente. Per paura di lottare.
 
Ma la vita è una grande e lunga battaglia, se non si lotta, non si ottiene niente.
 
 
Avevo paura persino di svegliarmi e pensare di passare una brutta giornata, delle cose negative che potessero  accadere.
E non mi sforzavo mai per provare a migliorarla.
 
Il punto è che avevo paura di soffrire e star male.
 
 
La vita è fatta di alti e bassi.
Quella frase, passava sempre nella mia mente.
Sapevo che era la verità, ma non riuscivo ad accettarlo.
Forse perché avevo paura anche di questo.

Eppure tutto questo era combattuto da una specie di necessità di provare dolore.
Forse il male non si prova, come azione naturale e inevitabile, ma lo si vuole.
Dopotutto il male e il bene sono collegati e si trovano dentro di noi.
Non possiamo farne a meno di entrambi.
E io lo sapevo bene.
 
Tutte le paure, le racchiudevo dietro un sorriso appena accennato e uno sguardo vuoto, assente e sfuggente, non guardavo quasi mai nessuno negli occhi, in quanto avrei fatto trasparire qualcosa e io non volevo e non potevo.
La maschera dietro la quale mi rifugiavo, era come un muro invalicabile.
Spesso faceva pensare che oltre essa non ci sarebbe stato niente.
Spesso parevo insensibile.
Ma non era così.
Provavo ogni tipo di emozione, la maggior parte delle volte confuse, dentro di me niente era ordinato.
Dal fuori invece si. I capelli scuri e lunghi, seppure  fossero ricci, sempre pettinati; il trucco e la manicure impeccabili. I vestiti semplici, ma ben abbinati.
La Cher interiore e la Cher esteriore era come se fossero due persone diverse.
Quest’ultima era lo scudo con la quale si proteggeva l’altra.
Tendevo a essere perfetta, per nascondere i difetti che avevo dentro.
 
 
E poi non parlavo quasi mai, mi limitavo a fare cenni con il capo, avevo paura anche di questo: di dire qualcosa di errato, che avrebbe portato ad allontanarmi dagli altri.
Ero abituata a stare sola e quella parola di quattro lettere non mi spaventava.

C’è differenza tra ‘essere allontanata dagli altri’ ed essere sola. La seconda è la conseguenza della prima, se sei escluso, ti ritrovi solo. Ma puoi farlo anche per scelta di essere solo. Perché si sta meglio da soli che con le persone sbagliate. E poi non c’è cosa peggiore di vedere gli altri che ti allontanano e ti isolano.

Stavo sola per scelta perché non c’era nessuno disposto a capirmi, e ad accettarmi come ero, con tutti i difetti che avevo. E ne avevo tantissimi.
 
Non sono poche, le volte che pensavo che vorrei essere diversa, lo desideravo con tutta me stessa.
Non per cambiare l’aspetto fisico. Non mi piacevo affatto, tanto da non potermi guardare allo specchio, ma per me non contava. Perché cosa significa cambiare l’esterno, sei poi dentro si è sempre gli stessi?
Volevo solo essere più forte.
Saper affrontare la vita.
 
Adesso c’era anche un altro motivo per cui avevo scelto di stare sola.
Perché una volta, e una sola nella mia vita mi ero lasciata andare, avevo trovato quel coraggio che mi mancava e avevo messo da parte i timori.
Ma quella volta era bastata.
E le conseguenze che aveva portato erano state devastanti, come un uragano in un villaggio di case costruite in legno, che arriva all’improvviso.
 
Ci sono quelle persone che il destino, te le fa incontrare.
Succede, magari, in uno dei momenti meno opportuni o quando non hai né età, né esperienza per capirlo.
 
 
La vita ci presenta davanti, tantissime persone.
Ognuna diversa dall’altra.
Con caratteri fisici, idee, pensieri, emozioni, origini, lingue differenti.
 
In qualsiasi luogo: la scuola, il lavoro, un corso sportivo, in un luogo di vacanza, o andando a passeggiare per le vie della città, alla fermata dell’autobus, a una visita medica, ..
Spesso non le notiamo.
Per la fretta, in quanto non si ha tempo per guardare nessuno.
per la confusione, tra moltissime persone, non ci preoccupiamo di osservare gli altri.
 
Oppure perché non prestiamo attenzione.
Troppo impegnati, spesso, a inviare messaggi con il cellulare d’ultima generazione, o stare sui social network.
A vagare con la testa altrove.
O a parlare ed ascoltare qualcuno che è con noi, in quel momento.
 
Anche io ero tra questi.
 
Poi c’è lui, una di quelle persone che le noti e basta.
C’è qualcosa in lui che te lo fa rimanere impresso nella mente.
 
Non riesci a capire cosa sia, l’unica cosa di cui sei certo è che,  non sarà solo “una comparsa”, uno dei tanti individui a cui non dai considerazione.
 
Questo ti spaventa, ti preoccupa, ma allo stesso tempo ti incuriosisce.
 
Così, inizi a parlarci, o inizia lui, senti per la prima volta la sua voce, il modo in cui dice le cose.
Le parole che usa.
 
Cominci a captare qualsiasi gesto, qualsiasi azione, qualsiasi parola, qualsiasi espressione del viso, qualsiasi cosa.
 
Spesso il primo incontro non è il migliore.
Ma, in seguito, tutto cambia.
 
Gli poni domande, per sapere di lui, e gli parli di te.
Cerchi di arrivare a fondo, vorresti conoscere tutto; più scendi, più cominci a sentire che le sue caratteristiche diventano parte di te.
 
Realizzi che non saprai mai tutto, ti sembra un pozzo senza fondo.
E credi che lui abbia saputo tutto di te, ma invece non è così.
Ci sono cose dentro noi stessi che non scopriremo mai, o in parte, dopo un po’ di tempo. Oppure sono gli altri a farcele scoprire.
 
Lui, si infiltra nei tuoi pensieri, senza permesso.
 Lui è diventato parte di te.
 
E, ti ci sei affezionata, forse anche troppo.
Ma lo capisci troppo tardi, lo capisci solo quando ogni giorno sei tormentata dal timore di perderlo, che in ogni secondo possa abbandonarti o possa esserti strappato da te, rapidamente, come una pianta che sradicata bruscamente dalla terra, non ha più vita. Parte delle radici, rimangono nel terreno, sono la parte vitale, quella che porta il nutrimento, e così una parte di me, quella più importante, rimase a lui.
 
Ti ritrovi a soffrire per qualsiasi cosa, persino quando sei con lui. Tuttavia, cerchi di cogliere la bellezza di ogni momento, in tutte le sue piccolezze, un po’ come quando si ha paura di stare per morire.
 
Chiamatele pure preoccupazioni, fissazioni, paranoie, o qualsiasi altra cosa frutto dell’immaginazione…  
Anche io le chiamai così.
 
Però dopo è successo veramente, vieni riportato duramente alla realtà, vieni risvegliato dal sogno.
E che si accetti o no, non si può cambiare. Resta così.
Dopo questo, ti senti vulnerabile, esposto a qualsiasi tipo di pericolo.
 
E adesso, io, mi chiudevo in me stessa, per impedire che accadesse nuovamente.
Non lo avrei potuto sopportare, non avrei resistito.
Anche se, probabilmente, non avrei mai trovato nessuno a cui avrei tenuto così tanto.
 
Per me, lui, era quello che le colonne, sono per un tempio.
I muri, per la casa.
Ed era anche il pezzo che serviva per completare il puzzle, l’unico che può completarlo.
 
Era l’anima.
Senza la quale, il corpo è solo materia.
Era il sole.
Che solo vedendolo, rallegra le giornate.
E senza sole, vengono considerate ‘brutte giornate’.
 
Era l’ossigeno.
Del quale non si può fare a meno.
Era la gioia, ed anche la tristezza, era la notte, ed era il giorno, era l’estate ed era l’inverno.
 
Era tutto, ed anche di più.
 
Ma soprattutto era il mio migliore amico.
Quella persona che conoscevo da esattamente 15 anni.
Da quando ci eravamo conosciuti per la prima volta all’asilo.

 
-Ciao, io sono Harry. –
Alzai la testa, per vedere chi aveva parlato.
Vidi, in piedi davanti a me, un bambino.  Lo squadrai dalla testa ai piedi. Era poco più alto di me, aveva i capelli lisci che gli arrivavano quasi a coprire gli occhi, verdi e grandi. Indossava un maglione blu di lana, con dei pantaloni blu sportivi, e portava delle scarpe da tennis.
 
Passavo i miei giorni in un angolino, da sola.  Non andavo all’asilo volentieri, tantomeno volevo altre scocciature d’intorno a peggiorare quelle ore infernali, in quella stanza con le pareti bianche vuota, insignificante.
Sarei stata moltissime volte meglio a casa, a dormire fino all’ora di pranzo oppure a passare l’intera mattinata a giocare con i miei genitori. Ero attaccatissima a loro.
 
Ogni mattina, qualsiasi persona che mi si avvicinasse la respingevo.  Ma, quella mattina, non respinsi quel bambino.
Non seppi il perché. Fu l’istinto, o forse furono le sue parole diverse dal solito ’vuoi giocare con me?’  degli altri. Odiavo quella domanda. Io non volevo giocare con nessuno.

Quindi decisi di rispondergli , presentandomi.
-Ciao, io.. sono..Cher. -
Tentennai un po’, era strano presentarsi a qualcuno. Non lo avevo mai fatto.
 
Lui non battè ciglio.
Non mi strinse la mano come facevano i grandi.
Rimase in silenzio alcuni secondi, probabilmente incerto su cosa dire, i suoi occhi si soffermarono sulle sue scarpe, bianche e pulite, presumibilmente nuove.

I suoi occhi tornarono a posarsi sui i miei.
-Vuoi giocare con me?-

Ok, avevo parlato troppo presto.
 
Tuttavia, fu di nuovo l’istinto a suggerirmi di fare diversamente.
Forse, ero curiosa di sapere cosa mi avrebbe detto dopo, visto che avevo sempre interrotto tutte le conversazioni precedenti in quel punto.
 
Fui ancora gentile.
Feci di sì con un cenno del capo.
-Giochiamo con le macchinine!-  propose, entusiasta.
-No. Io voglio giocare con le bambole!-
Lo dissi come un’imposizione, senza accorgermene.
Dopotutto, mi riusciva assai difficile essere cortese, quando mi trovavo in posti indesiderati.

-Allora tu non giochi con me. –  ribatté lui, con sorrisetto beffardo. Non era rimasto offeso dalla mia risposta, anzi, appariva divertito.

Ma io no, non mi divertivo affatto.
Stavo per scoppiare a piangere. Tirai in su con il naso, per trattenere le lacrime.

-No tu che ti piaccia o no giocherai a bambole con me! -
Dopo averglielo detto, mi si riempirono gli occhi di lacrime. Abbassai lo sguardo, per evitare che lui se ne accorgesse. Tirai in su con il naso nuovamente.

Poi, rialzai la testa, tesi la mano verso di lui, porgendogli una bambola di pezza, abbastanza grande con i capelli di lana biondi raccolti in due trecce, e gli occhi azzurri fatti con due bottoni. Si chiamava Emily. Era la mia preferita. Me l’aveva regalata la mamma per il mio ultimo compleanno.
La portavo sempre con me.

Lui la prese in mano, lo guardai stupita, non credevo ai miei occhi che avesse cambiato idea, e quindi avesse accettato la mia proposta, o meglio la mia imposizione.
Mi accorsi, anche stavolta, di averlo detto troppo presto, quando lo vidi gettare Emily per terra. E di nuovo con quel sorriso beffardo stampato sul volto.
Io, non ero riuscita a trattenere le lacrime stavolta.  La rabbia che provavo nei suoi confronti, crebbe.
Non sopportavo il fatto di esser trattata male.
Sentendomi impotente, non sapendo che fare, urlai:  - Mammaaaaa! -
Harry stava ridendo.
La maestra dell’asilo corse allarmata verso di me, pensando fossi caduta o mi fossi fatta male.
-Che succede Cher? -
-Harry mi ha tirato la bambola per terra! –
Singhiozzai e mi cinsi alla vita della maestra piangendo.
Harry stava guardando la scena e stava ancora ridendo.
Io lo fulminai con lo sguardo.
La maestra, raccolse la bambola da terra.
-    Guarda, non le è successo niente  – pose Emily sotto i miei occhi. – ora sta' tranquilla, è tutto apposto. – parlò con tono rassicurante.
Mi convinsi che aveva ragione.
 Lui rideva ancora. Non riuscivo a capire a cosa fosse dovuta tale comicità.

 - cattivo! – gridai.
Avrei voluto urlargli un bel vaffanculo. O prenderlo a schiaffi.
Il coraggio non mi sarebbe mancato, solo non mi sembrava il luogo più consono.
 
Sentii nascere dentro di me odio nei suoi confronti.
sarebbe stato meglio se lo avessi evitato come avevo fatto con tutti gli altri..
ma lui mi era sembrato così diverso ..
credevo fosse un amico.
Pazienza, mi ero sbagliata.
Rammentai dentro di me di aver perso tempo in quel modo. E soprattutto con una persona così.

Ad un tratto, Harry si girò verso di me, i suoi occhi verdi incrociarono nuovamente i miei, mi guardò per un po’, e  disse : - scusami Cher. Non lo faccio più –
Sembrava veramente dispiaciuto.
Mi aveva sorpreso. Non me lo aspettavo affatto.

In quel momento fu come se tutto l’odio e la rabbia, provato cinque minuti prima si fosse dissolto nel nulla.
Mi sentii stupida per quello che avevo pensato di lui in precedenza.
Non gli dissi nulla, gli feci solo il segno con il pollice rivolto in alto, che usavamo all’asilo per dire di essere amici.
Lui rifece il segno.
E non mi accorsi che avevo smesso di piangere.
 
Invece, in questo momento, stava accadendo tutto il contrario. Gli occhi si erano ingranditi, e riempiti di lacrime, queste erano fuoriuscite, e scendevano sulle guance, fino sul collo.
Era stato naturale, non potevo impedirlo. Così come non si può impedire di far fuoriuscire il sangue dopo una ferita.
E così come non avevo impedito che lui se ne andasse.

Era la sua vita, erano le sue scelte, che doveva fare lui, non io al posto suo. Aveva scelto quella strada. Non  mi restava che accettarlo.

‘non potevi fare nulla Cher.. non potevi fare nulla Cher.. non potevi fare nulla Cher..’

Me lo ripetevo sempre dentro.  Sapevo che era vero.
Anche se spesso mi sentivo travolgere da una sensazione di infelicità, rimpiangendo di non averlo fermato. Come se avessi avuto la possibilità di fare qualcosa, e invece me ne fossi restata lì, immobile, e mi fossi rassegnata.

O forse non ci avevo riflettuto sopra abbastanza.
O forse era successo tutto così in fretta che non avevo ragionato.
O forse non ci avevo pensato.
O forse, come al solito, non mi ero minimamente impegnata a trovare una soluzione, una via alternativa.

O forse..
o forse..
o forse..

Tutti forse e nessuna certezza. Che fosse una certezza positiva o negativa non mi importava.
Volevo qualcosa di cui essere sicura, come una luce in quella confusione paragonabile a una serata di nebbia.
 La sera buia come sempre, la nebbia offusca, rendendo tutto meno visibile;  la luce, rischiara debolmente, l’essenziale per muoversi.
Così era la mia mente, piena di contrasti, di incertezze e di paure.  Non esistevano differenze fra giusto e sbagliato.
Senza quella luce, restavo ferma.  
Ero apatica.
Eravamo così piccoli quando ci eravamo conosciuti..
Così innocenti e inconsapevoli.. di quello che ci avrebbe riservato il futuro, di come avrebbe potuto unirci e poi allontanarci, come un muro, che dopo essere creato, viene distrutto.
Avevo nostalgia di quei tempi.
Non c’erano la paura, le preoccupazioni, la tristezza, ..
Ero spensierata, dicevo tutto quello che pensavo, e facevo tutto quello che volevo.
Ero sempre felice.
Se piangevo era solo perché mi facevo male fisicamente. Mai, per il vero dolore; quello che ti distrugge prima dentro e poi fuori.
Era così bella la vita.
Ma quella non è la vita. È solo un mondo inesistente tutto rose e fiori creato dalla nostra mente.
 
Il duro impatto con la realtà che ebbi con la crescita, mi mostrò questo.

Comunque, era sempre stata una situazione piuttosto stabile, fino a prima di tre mesi fa.
 
Tutti i timori, erano dovuti a quell’allontanamento forzato. Inutile cercare altri pretesti, l’unica ragione era quella.
 
Era come se non fossi stata più me stessa.
Mi sentivo morire, e allo stesso tempo, morta.
Almeno c’è la consolazione che dopo aver perso tutto ormai non c’è più nulla da perdere.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 
{A tutte le persone che dovrebbero essere insieme,
eppure sono separate dalla distanza.}
 
CHER’S POV
La mia mente stava passando lentamente per tutte le sue vie e i suoi angoli, anche quelli più in profondità. Ricordi, idee, emozioni, timori... tutto mi passava davanti agli occhi, come se stessi vedendo un film—di quelli visti e rivisti un infinità di volte. Di quelli in cui le scene si conoscono quasi a memoria.
Ero seduta, immobile, le spalle a contatto con la testiera fredda del letto.
Con lo sguardo vuoto, fissavo un punto indistinto della mia camera, sulle pareti rosa antico. Non sapevo su cosa i miei occhi si fossero posati, ma non mi importava. Era uno dei tanti momenti in cui mi chiudevo in me stessa, lasciavo prevalere le azioni della mente e ignoravo tutto il resto.
Ad un tratto, mi parve di vedere con la coda dell’occhio destro una luce che si accese, e mi girai di scatto in quella direzione.
Scorsi una luce bianca provenire da sotto il pigiama a righe blu e bianche, lasciato con trascuratezza sul comodino.
Tesi la mano lentamente verso di esso, spostando il pigiama.
Realizzai che quella luce non era altro che il display del mio iPhone che si era illuminato.
Anche cose così stupide erano finite per spaventarmi e farmi stare in ansia.
Sporsi il torace in avanti per vedere meglio il cellulare. Mi balzò agli occhi l’orario, scritto a caratteri grandi e bianchi sullo sfondo nero: ‘ 10:49’.
Ero sveglia dalle 9:00, anche se non avevo dormito un granché. Era parecchio che non dormivo, ma a quello  avevo fatto l’abitudine.
Non credevo fossero passate quasi due ore.
Di solito, le ore passano velocemente quando si sta bene, e, invece, quando si sta male, ogni secondo sembra eterno. Ma quel giorno, alla vigilia dell’inizio dell’università, ero talmente in uno stato di trance che non mi accorgevo nemmeno dello scorrere del tempo.
La classica finestra nera, che appare sugli iPhone appena si riceve un messaggio, era comparsa sullo schermo del mio cellulare. Il messaggio era di Joshua, mio fratello.
Non volevo leggerlo, non mi andava proprio.
Volevo restare da sola, qua nella mia stanza. Quelle pareti sembravano proteggermi, quella porta chiusa mi rassicurava. Era una stanza piccola, al secondo piano della casa modesta in cui vivevamo.
E poi mio fratello, non mi cercava mai per una motivazione seria. Ed ero sicura che anche quella volta fosse così.
 
Rassicurata, ritornai alla mia posizione precedente, ed adagiai la testa sulla testiera.
Il messaggio aveva interrotto quel flusso confuso di pensieri che pareva durare fino all’infinito.
Meglio così.
Le guance erano rigate dalle lacrime, le quali, ora, sostavano a pochi centimetri dall’occhio, e poi scendevano lentamente, impiegando vari secondi per percorrere il tratto dall’occhio alla fine della guancia.
Decisi di calmarmi, definitivamente.
 
Inspirai ed espirai lentamente, alzando e abbassando il diaframma.
Lo feci per alcune volte, quelle necessarie.
Era una tecnica di yoga, l’avevo vista in tv, anche se non ricordo di preciso su che canale. All’inizio l’avevo considerata superflua, poi col tempo si era rivelata utile.
Ultimamente lo facevo spesso, nei momenti che erano più facili da gestire, bastava farlo per cinque volte, in quelli peggiori, come questo, venti.
Mentre facevo i respiri, dovevo cercare di liberare la mente da qualsiasi cosa. Dovevo concentrarmi sull’aria, che entrava dentro ed usciva.  Dovevo tenere i muscoli rilassati.
 
Ero riuscita ancora una volta a controllarmi. Nell’ultimo periodo ce la facevo sempre, o quasi.
Ricordo come, nei primi periodi, fossi intrattabile. Attimi di depressione assoluta si alternavano ad alcuni in cui sfogavo su mio fratello, su mia sorella Rosie e sui miei genitori tutta la rabbia che avevo dentro. Per fortuna, in quel periodo, non ero circondata da altre persone, altrimenti me la sarei presa ingiustamente anche con esse. Oltre ad essere ingiusto, era privo di senso.
Perché credere che il problema siano gli altri, quando invece il vero e unico problema è solo me stessa?
Io non facevo altro che scaraventare dolore e sofferenze addosso agli altri. E gli altri subivano.
E me ne ero accorta dopo delle settimane, forse un mese. E così, con le energie rimaste, mi ero creata una maschera, che avrei portato per sempre, persino con i miei familiari. Mi ero rassegnata da tempo alle dure conclusioni.
Non volevo più far star male nessuno, quindi dovevo fingere di star bene, fingere che fosse tutto apposto.
E, così, sorridere era una delle tante sfide che dovevo affrontare, e riuscivo a farcela. Anche se erano solo falsi sorrisi, mi sentivo vincitrice. Avevo iniziato ad apprezzare tutte queste piccole vittorie—perché avrei potuto raggiungere quell’obiettivo che da quel 20 giugno 2013 mi ero preposta.
Avevo  provato ad autocontrollarmi. Era stato più difficile che domare un leone che si rifiuta di essere usato per il circo; il leone almeno ha qualcuno che lo doma, io avevo solo me stessa.
E io non mi servivo a niente.
Non servivo a niente e basta.
 
Ma dovevo continuare ad affidarmi a me stessa, non volevo coinvolgere nessuno.
 
 
Quel pianto disperato si era arrestato.
Avevo già sofferto abbastanza. Adesso dovevo solo stare tranquilla.
 
Non riuscivo a capire tutte quelle persone che consideravano inutile piangere, per me era tutto il contrario. Piangere era uno dei moltissimi modi di farsi male, per me, ma era soprattutto uno sfogo. Soffrendo in quel modo riuscivo a tirar fuori una piccola parte del dolore che si trovava dentro di me. Quella parte era la quantità necessaria che serviva a non renderlo insopportabile.
Quel dolore che non riuscirà mai a uscire definitivamente, in quanto era come un virus che ogni giorno si espande sempre di più.
Mi sentii sollevata ed un poco, anche se pochissimo, rasserenata.
Vidi nuovamente lo schermo del mio cellulare illuminarsi, questa volta lo afferrai con la mano destra, e tenendolo anche con la sinistra, me lo posi davanti agli occhi.
Era nuovamente Joshua.
Sbuffai.  
Non mi lasciava pace.
Spensi il cellulare, sapevo benissimo che  mi avrebbe tempestato di altri messaggi fino a che non gli avrei risposto.
E poi sarebbe passato alle chiamate. Avevo dimenticato quanto fosse insistente.
Spensi velocemente il cellulare, e lo rimisi sul comodino.
Allungai la mano verso il pavimento e raccolsi il diario.
Lo aprii nuovamente, sfogliando l’infinità di pagine scritte. In questi tre mesi, avevo iniziato a scrivervi. In esso immaginavo una persona, una che mi comprendeva e che si dedicava ad ascoltarmi, una come quella persona che non era qua, con me, da tre mesi ad oggi.
Ma immaginare qualcuno come lui era impossibile, nessuno era come lui. Immaginavo qualcuno che non esisteva.
Trovata la pagina lasciata a metà, continuai a scrivere. Scrivevo tutto, non avevo nulla da nascondergli.
 
Rieccomi. Scusami dell’assenza. Ho appena finito di piangere, mi sono ripresa. Adesso sto meglio. Ho appena spento il cellulare, non voglio parlare con mio fratello.
Ieri sera non ho dormito molto, spero sia per domani, per l’ansia, e non per il solito motivo.
 
E ci ero ritornata sopra.
Non riuscivo a capire quale ideologia portasse la mia mente a tornare a scavare su quella ferita, causandomi sempre più male, impedendo ad essa di formare una crosta.
Ma stavo mentendo a me stessa.
 
-Per favore, promettimi che non starai male per me, tu non dipendi da me. Se pensi che in quel modo mi dimenticherai, stai sbagliando. Ti chiedo solo di camminare a testa alta, sorridere e vivere la tua vita.-
- Te lo prometto. Lo farò per te.-
 
Ma io dipendevo da lui.
E non avevo mantenuto quello che gli avevo promesso, quello che mi aveva chiesto con occhi supplicanti, quelle che erano state le sue ultime parole prima che partisse e se ne stesse perennemente a un‘ora d’aereo da me.
Che poi era stato l’obiettivo che mi ero posta e che, convinta di farcela, avrei raggiunto.
E l’avrei fatto per lui. Per il quale, avrei fatto di tutto.
Ma non credevo affatto che senza di lui potessi condurre una vita felice.
Il fatto di aver deluso anche lui, mi fece sentire ancora più colpevole.  Colpevole di continuare a fare del male agli altri, mentre lo meritavo io. Colpevole di aver fatto affezionare delle persone meravigliose a me, mentre non meritavo affetto da nessuno. E colpevole di un’altra infinità di motivi che mi facevano capire di essere sbagliata, un errore.
Non avevo ereditato tutto questo da nessuno della famiglia, non ero come loro, persone ottimiste, allegre, forti, e che accettano tutto, anche le cose peggiori. Io ero tutto il contrario. Ero l’anello debole della catena.
Cercai di liberarmi anche da questi pensieri, i quali avrei dovuto raccogliere, e di ricompormi da sola. A volte non si ha altra scelta che salvarsi da soli.
 
La stanza che prima mi aveva infuso sicurezza, adesso mi parve un nemico. In essa avevo gettato il dolore che mi ero strappata da dentro, in essa racchiudevo le mie debolezze e i miei sentimenti.
Tutti i demoni parevano uscire dal proprio rifugio e avvicinarsi sempre più a me, tentando di aggredirmi. Questo me l’ero causato io, nemmeno la mia stanza sopportava più tutto il mio dolore.
Nessuno mi sopportava più.
Rigettai il diario a terra.
Dal cassetto del comodino estrassi un fazzoletto e me lo passai sotto gli occhi e sulle guance.
Aprii l’armadio e presi le prime cose che trovai, una camicia a quadri rossa, e dei pantaloni della tuta grigi.
E in piedi, un paio di nike bianche.
Lanciai uno sguardo, alla scrivania e a quel foglio, sopra, con quelle righe verticali.
Ogni sera tracciavo, con il pennarello nero indelebile, una di quelle righe. Ad ognuna corrispondeva un giorno. Un giorno senza te. Le righe oggi erano ottanta. Ottanta giorni di una vita senza te. Sempre se questa possa essere chiamata vita, pensai.
Ogni sera, portavo a termine una prova.
Ogni sera terminavo un altro giorno inutile, vuoto, che, nonostante ciò, avrei continuato a sprecare in quel modo.
Quel foglio non lo appendevo al muro perché non volevo vederlo sempre. Ma avevo bisogno di tracciare le righe come chi vince una gara e ha bisogno di tenere il proprio premio.
 
Aprii la porta della camera, che lasciai richiudere pesantemente dietro alle mie spalle.
Entrai in bagno.
Impiegai circa una mezz’ora per ricostruire la maschera.
Mi truccai, usando fondotinta e correttori vari per coprire al meglio tutto quello che si era manifestato e non doveva più manifestarsi. Tracciai una riga di eyeliner sulle palpebre. Dentro l’occhio, matita nera, ripassata un paio di volte. Sulle ciglia, un filo di mascara. Tinsi le labbra con un rossetto rosso, acceso. Il mio preferito.
Mi legai in una coda alta i capelli, usando un elastico che mi ero dimenticata di avere al polso.
Mi guardai allo specchio, sforzandomi in un sorriso, e notando se esso dall’esterno poteva apparire abbastanza convincente. Lo riprovai varie volte.
Soddisfatta, uscii dal bagno, lasciando la porta aperta.
Scesi le tre rampe di scale e uscii di casa. Avevo bisogno di uscire.
 
L’aria fredda mi entrò dentro e mi invase i polmoni. La stessa aria che mi carezzava il viso, e mi scompigliava le piccole ciocche di capelli rimaste fuori dalla coda.
 
Percorsi il sentiero di mattoni grigi di forme irregolari e uscii dal cancello in ferro, che, cigolando, si richiuse.
Il cielo era stranamente limpido, ed al posto delle solite nuvole grigie, c’erano poche nuvole bianche.
Sapevo con esattezza dove andare; nonostante fossero passati ottanta  giorni dall’ultima volta che c’ero stata.
 A dritto, a sinistra, a destra, la seconda sulla destra.
Non pensavo di essere così lucida da ricordarmene.
 
Ed eccolo là.
Agli occhi di chiunque sarebbe apparso come uno spazio vuoto, con solo una panchina di legno logorata dal tempo e un albero, spoglio accanto, segno dell’autunno, arrivato in anticipo quell’anno.
 Guardando meglio l’albero, notai che solo una foglia era rimasta su uno dei rami, era piccola, ingiallita, e alcune chiazze color rame si notavano sul lobo inferiore.
La leggera brezza la faceva oscillare a destra e a sinistra.
Pareva quasi tremare. Anche lei sarebbe caduta, anche lei, come tutte le altre foglie.
Anche io mi sentivo così. Non sapevo quanto ancora avrei resistito. Io, a differenza della foglia, ogni volta che cadevo mi rialzavo, anche se con difficoltà. Andando avanti la difficoltà aumentava.
Ma ci sarebbe stato un momento in cui sarei rimasta a terra, un momento in cui i pezzi sarebbero stati così tanti da non poter essere raccolti. E sarei rimasta a terra, per sempre.
 
Quello era il nostro posto. Mio e di Harry.
Era un posto come tanti, e sicuramente nessuno lo avrebbe notato.
Nessuno si dirigeva da quelle parti, non c’era nessun luogo di attrattiva, negozi, bar, ristoranti…Non c’era niente.
Un posto insignificante, non conforme agli interessi di questa società.
E forse nessuno ne sapeva l’esistenza.
 
Per me era come se ci fosse un’atmosfera magica. Qua erano intrappolati la maggior parte dei nostri ricordi.
Mi sedetti sulla panchina. Mi sedetti a destra. Solito posto.
 Le sbarre di legno, non erano ricoperte dalle solite scritte sull’amore, ‘io+te 4ever’ , ‘ti amo’, o quelle volgari a cui preferisco non pensare.
No, la nostra panchina non era rovinata in quel modo. Malgrado fosse poco stabile e fragile, a me non sembrava sciupata. Non è il passare del tempo che rovina.
In lontananza, si scorgeva l’entrata di un bosco, a meno di un chilometro da qua.
E cantai.
Cantare mi aveva sempre affascinato, amavo l’armonia che si creava tra voce e parole, tra musica e ritmo.
Cantai una canzone, di quelle che girano spesso sulle radio.
Di quelle lente e tristi.
Di quelle dove nel video c’è una ragazza che piange e sta male.
Di quelle che parlano di qualcuno che adesso non è qui con te.
Di quelle in cui ti perdi e allo stesso tempo ti ritrovi, ti ritrovi nelle parole che sembrano le tue, che parlano al posto tuo.
 
 
 
And I remember all those crazy things you said
You left the running through my head
You’re always there, you’re everywhere
But right now I wish you were here.
All those crazy things we did
Didn’t think about it just went with it
You’re always there, you’re everywhere
But right now I wish you were here.
 
 
(E mi ricordo tutte quelle cose pazze che hai detto
Le hai lasciate correre nella mia testa
Tu sei sempre lì, sei ovunque
Ma ora vorrei tu fossi qui
Tutte quelle cose folli che abbiamo fatto
Non ci ho mai pensato, le ho fatte e basta
Tu sei sempre lì, sei ovunque
Ma ora vorrei tu fossi qui )*
 
 
 
 
 
HARRY’S POV
 
‘Gli occhiali da sole li ho presi,’
‘Il caricabatteria l’ho preso.’
‘Gli auricolari li ho presi.’
La mia voce rimbombava nella casa vuota. Con la biro, tracciai una riga sugli ultimi nomi della mia lista.
Avevo preso tutto il necessario, e forse anche di più. Meglio troppo che poco.
Strappai il foglio dal block notes e, dopo averlo piegato in due, lo riposi nella tasca dei pantaloni.
Su un altro foglio -che non staccai- scrissi due frasi, semplici, chiare.
 
Mamma, papà, Gemma, sono uscito di casa verso le 9:30. Adesso vado all’aeroporto. Starò la’ solo un giorno, non preoccupatevi.
- Harry  x
 
Avevo optato per lo stampatello, l’unico modo per rendere più leggibile la mia calligrafia. La stessa da quando avevo sei anni ad oggi. Orrenda e illeggibile.
Percorsi velocemente tutta la casa, controllando di aver spento tutte le luci e di non aver lasciato nulla attaccato alla corrente.
Il rumore dei miei passi rapidi era l’unica cosa a rompere quel silenzio pesante.
Amavo il silenzio, mi rendeva sereno. Mi rilassava. Mi faceva riflettere e ragionare.
Lasciai il blocco sul tavolo della cucina.
 
Avevo aspettato tanto quel momento.
Quello era stato l’unico anno in cui non vedevo l’ora che l’estate finisse.
Adesso era finita. Finalmente.
Non mi spaventava affatto che domani sarebbe iniziata l’università. Non ci pensavo e non mi interessava.
L’unico pensiero che mi passava per la mente era la giornata di oggi; che tutto andasse come pianificato. Ci pensavo da quando ero venuto qua, ad oggi.
Non mi interessava di nient’altro, né di nessun altro. Quando avevo un piano o un obiettivo, diventavo quasi egoista, solo per paura che qualcosa andasse storto.
Io ero ottimista, credevo nel bicchiere mezzo pieno. Avevo paura del finire negativo delle cose, solo nel caso esse fossero davvero importanti. Ed oggi lo erano.
Scacciai dalla mia testa ogni pensiero, non dovevo pensare, altrimenti avrei fatto tardi.
Mi accorsi che stavo dimenticando la cosa più importante, e, se la avessi dimenticata,  le mie paure si sarebbero realizzate.
Entrai velocemente nella biblioteca. Era una stanza abbastanza grande, diversa delle classiche biblioteche in stile antico.
Stile moderno e con colori caldi e sgargianti, le sedie in plastica, il tavolo geometrico.
Era l’unica stanza che, dopo aver affittato quel monolocale, era rimasta vuota. Speravo di poterla usare interamente come una stanza mia, dove stare nei momenti in cui cercavo la solitudine e il silenzio, dove potevo tenere le mie cose. O forse dove avrei passato la maggior parte del mio tempo.
Invece quella stanza era stata usata per costudire una centinaia di volumi che i miei genitori si erano portati da Londra fin quaggiù, a Parigi, e ai quali se ne sarebbero aggiunti il doppio, o forse il triplo e perché no il quadruplo, in lingua francese. Erano dei patiti della lettura.
E così fui costretto a stare in una stanza già piccola di suo, e che dovetti condividere con mia sorella, Gemma.  Non mi dava fastidio lei, ma detestavo il fatto di avere qualcuno d’intorno nei momenti in cui non richiedevo la compagnia di nessuno.
Io e mia sorella  eravamo diversi dai soliti fratello e sorella, da quelli che litigano dal giorno alla notte, quelli che si picchiano da quando erano piccoli, quelli che non si parlano quasi mai, che non si dicono mai nulla, che si nascondono le cose; e che le uniche volte che si cercano sono solo i momenti di bisogno.
 
Era stato proprio quello a spingermi a voler lasciar perdere i litigi e i dispetti inevitabili durante l’infanzia mia e di mia sorella. A capire che lei era un dono, non una scocciatura come poteva sembrare.
E eravamo  diventati molto uniti. Ci dicevamo tutto, tutti i segreti, io a lei dicevo tutto quello che mi passava per la testa, e forse anche troppo. Lei lo faceva con me. E, ne ero certo, la conoscevo troppo bene.
Era la sorella maggiore, quella che aveva esperienza, quella che dava consigli.
Quella che mi aiutava con le ragazze, e che io aiutavo con i ragazzi.
 
Quella che era l’unica che poteva aiutarmi a chiarire quella “cosa” che non mi era ancora chiara, che si ripercuoteva nella vita quotidiana e nei sogni. Quella che non sapevo identificare, di cui non sapevo usare un termine per descriverla, quella che stava in bilico tra due parole—e non riuscivo a capire quali dei due usare. O forse avevo solo paura di utilizzarne una. Mi spaventava, era qualcosa di troppo grande, troppo immenso, che poteva cadermi addosso di colpo e ci stendermi a terra.
Ero sicuro che un giorno avrei capito cosa fosse quella cosa. Per ora non mi restava che sperare fosse la prima.
Altrimenti tutto si sarebbe complicato.
 
Presi una sedia di plastica rossa e ci montai sopra. Nemmeno la mia altezza bastava per arrivare al quinto scaffale della biblioteca. Mi domandai cosa fosse saltato in mente ai miei genitori quando avevano collocato quel mobile così in alto.
Cercai con gli occhi ‘Il Paradiso’ della Divina Commedia di Dante Alighieri.
Lo estrassi dallo scaffale, facendo attenzione a non far cadere nessun altro libro, in quanto gli spazi tra questo e gli altri erano limitati.
Sfogliai le pagine, facendo sollevare nell’aria un po’ di polvere.
‘pagina 0809’
La data di oggi. Sorrisi al pensiero di aver fatto bene i calcoli, malgrado si trattasse di tre mesi fa.
Presi la busta, tastandola con le mani per accertarmi del contenuto.
La misi dentro lo zaino rosso della Eastpack, nonché quello che avevo usato per il liceo.
Dopo aver riposto il libro, mi misi lo zaino in spalla e uscii di casa.
Non faceva freddo. Mancò poco che finissi con gli stivaletti in una pozzanghera, emisi un sospiro di sollievo per essermene accorto in tempo.  Erano nuovi, li avevo portati solo due volte.
Aveva piovuto. E non era stato molto tempo fa, visto che stavano cadendo ancora - anche se poche - goccioline, che si posavano sull’acqua delle pozzanghere disegnando dei cerchi concentrici, che si dissolvevano nel nulla in pochi secondi.
Il cielo era grigio, non c’era uno spazio che non fosse coperto da nuvole. Guardandolo, incontrai con lo sguardo la torre Eiffel. Non c’era un angolo di Parigi in cui non si vedesse quella struttura metallica. In tutto quel tempo, non ero mai andato a vederla.
 
In meno di cinque minuti fui alla fermata del bus. La panchina era piena, così rimasi in piedi, appoggiato al muro.
Mi infilai una mano in tasca, estraendo  il cellulare. Mi soffermai a guardare l’immagine di sblocco, e tra me e me dissi: presto sarò da te.
Il bus, era arrivato. Mi sedetti in fondo, al primo piano, per evitare di avere qualcuno accanto.
L’aeroporto era a circa quindici minuti.
 
Arrivato, entrai dentro. Guardai sui fogli le informazioni riguardo all’imbarco.
Per tutto il quarto d’ora di tragitto fino a lì, avevo pensato che effetto avrebbe fatto ritornare laggiù, nello stesso aeroporto in cui tre mesi prima ero atterrato, arrivando lì, a Parigi, annullando tutti i progetti della mia estate.
Non c’era nessuno in coda per il check in.  
Una ragazza giovane, massimo sulla trentina d’anni, mi dette il buongiorno in francese.
Lo odiavo. Credevo che non mi potesse esser fatto dispetto peggiore di portarmi qua.
Era quella materia che, durante le lezioni, mi causava un sonno tremendo, e dovevo sforzarmi a non cedere. Ricordo che non erano state poche le volte in cui mi ero addormentato, ma per mia grande fortuna, nessuno l’aveva mai comunicato ai miei, che anzi ricevevano apprezzamenti su di me da parte della professoressa di francese. Cosa che si era rivelata ora una sfortuna. Io non volevo avere nessun futuro in Francia.
Le chiesi se poteva parlare inglese, non perché non sapessi parlare il francese – avevo raggiunto il DALF C2 **- ma sempre a causa del solito motivo.
Ma non era solo la lingua che non andava, c’era dell’altro.
La prima, la distanza. I Inghilterra avevo lasciato tutto. Il resto era tutto collegato a quello.
- Hai qualche valigia? -  Mi chiese con un inglese impeccabile, ma con l’accento della sua lingua madre che era incancellabile.
-  No, ho solo questo zaino. - Me lo tolsi dalle spalle e lo detti alla ragazza, la quale lo passò nell’apparecchio di sicurezza.
- Perfetto, adesso ho bisogno dei tuoi documenti. -
Li sfilai dalla tasca del giubbotto e glieli passai. Aspettando che finissero tutti quei controlli, mi guardai intorno.
Gente che partiva, per chissà dove, e gente che tornava.
Gli aeroporti mi erano sempre piaciuti, erano un mezzo per combattere la distanza.
- Fatto. - la voce della ragazza, mi fece voltare verso di lei.  – Il tuo cancello d’imbarco è il numero 22, è al secondo piano. –
- Grazie mille. Arrivederci.-
Ricambiò il saluto.
Entrai nell’ascensore. Arrivato al secondo piano non trovai difficoltà a trovare il mio punto d’imbarco, era davanti ai miei occhi. Mi sedetti su una delle panchine vicine. Su una stavano due persone, a cui non badai minimamente, avevo scelto la panchina più lontana da loro.
Il mio volo era alle 10. Non mancava moltissimo.
 

Era estate, erano passati gli esami.
Finalmente avrei avuto un po’ di tempo da passare con lei. Erano alcuni mesi che non ci vedevamo più come prima, lo studio occupava la maggior parte delle nostre giornate. Avevamo studiato poco tutto l’anno entrambi, ogni giorno facevamo proprio il minimo indispensabile per finire presto e vederci. Dedicavamo solo al massimo un’ ora e mezzo ai compiti.
In quei mesi la situazione era cambiata, le ore di studio si erano triplicate, e quando finivamo eravamo talmente stanchi che non ce la facevamo nemmeno a uscire.
La maggior parte delle volte ci sentivamo per messaggio, sulle varie App per inviare messaggi gratuiti online e messaggi audio, o facevamo videochiamate con Facetime o Skype.
Ci vedevamo solo nelle ore scolastiche, che era poco, pochissimo.
Ma da quel giorno sarebbe cambiato. Ci saremmo visti tutti i giorni, dalla mattina fino alla sera, e forse saremmo restati spesso insieme anche la notte, a casa dell’uno o dell’altro.
Il mare, la città, le conversazioni nel nostro posto, le giornate a casa mia o a casa sua... tutto quello e altro era nei progetti delle mie vacanze. Le avrei passate per la maggior parte con lei.
Rebecca, la mia ex, mi aveva lasciato poche settimane prima, e dalle relazioni amorose mi volevo prendere una tregua.
Adesso  mi interessava solo l’amicizia, quella tra me e Cher.
Ci eravamo dati appuntamento al solito posto, ero sicura che lei sarebbe arrivata prima di me. Avrei ritardato come al solito, lei ormai non ci faceva più caso.
Solo il pensiero di vederla, e passarci dopo tanto tempo una giornata intera, mi portò l’umore alle stelle. A parte che solo il pensare a lei mi rendeva felice.
Ero pronto ad uscire, stavo per aprire la porta, quando mi sentii chiamare: - Harry.-
Era mia madre.
- Mamma esco con Cher. - Le dissi senza nemmeno voltarmi.
Feci per compiere un passo, quello che mi avrebbe fatto oltrepassare la soglia della porta, e mia madre mi richiamò. Stavolta con un tono più serio della voce.


- Mamma mi avevi detto che se mi impegnavo in questi ultimi mesi, io.. - La visione del suo voto serio e cupo, come quello di chi sta per darti una notizia che a te non piacerà, mi fece morire le parole in gola.
Stetti per chiederle cosa accadesse, se avessi fatto o detto qualcosa di sbagliato, ma nuovamente fu lei a interrompere il realizzare delle mie intenzioni.
- Harry, vieni un attimo in camera tua. Devo parlarti. -
Di nuovo quel tono serio. Dal suo volto, riuscii a percepire che quello che stava per dirmi, sarebbe stato solo negativo per me, che su di lei non aveva avuto lo stesso effetto. Percepii anche la sua preoccupazione nel dirmelo, ma era sorpassata da quella che provavo io, maggiore.
Non fiatai, attraversai il corridoio, aprii la porta della camera, feci entrare mia mamma e poi entrai io richiudendola.
Accesi la luce.
Mi sedetti sul letto e lei si sedette accanto a me, prendendomi la mano e stringendola tra le sue.
Voleva rassicurarmi con quel gesto, invece non fece che aumentare la mia preoccupazione. Alcuni secondi di silenzio, mi guardò negli occhi emettendo un debole sorriso, altro tentativo per volermi far stare tranquillo. Sorriso che a me, apparve forzato. Credo che sapesse già che non l’avrei presa nei migliori dei modi.
- Harry, beh te lo dico solo ora... -
Finalmente parlò. Mi dette quasi sollievo, odiavo aspettare. Preferivo sapere subito tutte le cose, anche le peggiori, faceva meno male. Perché l’attesa era già un dolore di suo, se almeno quello potevamo evitarlo era meglio.
Continuò, il suo sguardo fisso sul mio. Uno sguardo forte, fermo incontrò il mio, incerto e tremante.
- .. Io e papà.. -
Mia madre, con queste pause, mi metteva un’ansia tremenda. Quando si fermava, mi faceva un debole sorriso. Compassione. Quel sentimento che mi hanno insegnato ad odiare.
Il fatto di iniziare parlando anche di mio padre, non fu la cosa migliore, riportò alla mente ricordi che volevo dimenticare.
- Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. -
Dopo un’ultima pausa, aveva sputato tutto d’un fiato.
Un calcio dritto nello stomaco.
Lo sguardo sempre puntato addosso. Abbassai la testa, con la speranza che , questo, non fosse più posato su di me, ma fu vano.
Era evidente che aspettava una risposta. Ma come dovevo risponderle? Dovevo mentire dicendole di essere felice? Assolutamente no.
Dovevo dirle tutto quello che stavo provando adesso?  No, neanche questo. Non sarebbe mutata la situazione.
Trovai il lato positivo, avrei avuto tre mesi per fare tutti i miei progetti, nessuno poteva impedirmi questo. Dovevo solo sperare che il tempo non passasse troppo velocemente.
Novanta giorni. Molto tempo per permettere a qualcosa di cambiare. E chissà, potrei anche esser stato felice di andare a Parigi, avrei trovato il tempo per farmela piacere.
Oppure, magari, saremmo stati là solo nel periodo scolastico, e nelle vacanze saremmo ritornati a Londra.
Sotto questa luce, anche se con difficoltà, sarei riuscito ad accettare il mio destino, destino che non ero stato io a scegliere.
Così le posi una semplice domanda, con un po’ di calma e tranquillità, trovata chissà dove.

- Mamma ma ci trasferiremo là? -
- Si, partiamo domani.-
Ok, adesso no.  Avevo sentito troppo. Esageratamente troppo. Questa situazione non l’avrei mai accettata. Non mi ero mai trovato ostacoli così grandi davanti. Solitamente io ero colui che aiutava gli altri in difficoltà, che trovava sempre una soluzione per loro, che risolveva i loro problemi.
Ma quello ad avere bisogno di aiuto, più di tutti, ero io. E soprattutto in quel momento. Chi poteva aiutarmi? Solo lei.
Lei, che soffriva già troppo da se. Lei a cui avrei spezzato il cuore. Non volevo distruggere le persone, non lo facevo neanche con gli oggetti.
Però, lo avevo già fatto con ogni mia ragazza, ognuna che mi ero illuso di amare.  E adesso lo avrei fatto con la mia migliore amica.
Non volevo dire altro. Mi alzai e da testa bassa uscii. Lasciai la porta aperta.
 
Appena arrivato fuori piansi. E molto. Non sapevo bene cosa si provava, quella era la seconda volta dopo il divorzio dei miei genitori che piangevo.
Non c’erano stati solo quelli di momenti in cui stavo male.
Ogni giorno, potevo trovare una ragione per star male, ma non ci badavo, ero quel ragazzo che non si preoccupava troppo, che voleva vivere la vita al meglio.
 Ma fu difficile non soffrire. E piangere fu facile, estremamente facile.
Volevo essere forte, ma sotto, anche io ero debole.
Anche le persone più forti crollano.
 
____________________________________________________________________
 
 
 
* Parte del testo di Wish You Were Here di Avril Lavigne
** Livello che si ottiene attraverso specifici esami sulla materia francese, necessario per frequentare la Sorbonne Nouvelle.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


{Per chi non ha perso la speranza e non si abbatte.
Per chi non smette di credere, mai.
Per chi ha fiducia nel destino, nonostante quello che accada.
E anche per chi non ha più le forze,
chi non riesce più ad affrontare delle sfide,
 chi si arrende.
 
Nessuna delle due vie è sbagliata.}


 
HARRY’S POV
 


Anche sull’aereo avevo avuto la fortuna di trovare un posto libero.  Era uno nella parte posteriore nel settore di destra, vicino al finestrino.
Mi agganciai la cintura, come avevo sentito ordinare dalla voce all’altoparlante.

Ero sorpreso che mia madre non mi avesse fermato, e mi avesse lasciato andare via. Prima o poi, però avrebbe voluto parlarmi nuovamente. Le parole sentite prima si ripetevano nella mia mente.
 - Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. –
- Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. –
- Abbiamo deciso.. che quest’anno, tu frequenterai l’università Sorbonne Nouvelle a Parigi. –
-  Sì, partiamo domani.-
-  Sì, partiamo domani.-
-  Sì, partiamo domani.-
 
Delle fitte alla testa mi riscuotevano da quel continuo pronunciare di parole. Avrei preferito sentire sempre quelle fitte, piuttosto di quel tormento di parole.
Ma dovevo smetterla, stavo pensando troppo. E se continuavo così, il mal di testa sarebbe stato insopportabile.
Quella che seguì, fu la parte peggiore del giorno.
Avrei visto Cher comunque, stavolta con l’umore opposto a quello in precedenza. Sperai di riuscire ad essere forte, come lo ero sempre stato. Io ero quello che la sorreggeva, la sosteneva e l’aiutava a non cadere, lei era quella debole che aveva bisogno che io facessi questo per lei. Sei io fossi stato debole, non avrei potuto aiutarla questa volta. E se non l’aiutavo stavolta, non l’aiutavo più. Non sapevo che ce l’avrei fatta a rivederla.
Ma io l’avrei rivista, lo stesso, anche se di tempo ne sarebbe passato molto.  Senza di lei, non avrei potuto continuare. Poteva sembrare strano, ma lei mi dava forza. Si, proprio così.
Guardai il cellulare, per sapere se mi avesse inviato qualche messaggio. Un messaggio c’era, ma non il suo.
‘Harry, non mi hai lasciato spiegare tutto. Perché te ne sei andato?’
Perché me ne ero andato? Non credevo che ci volesse chissà cosa per capirlo. E per quanto mi riguardava, non avevo bisogno di nessun’altra spiegazione. Mi era già tutto abbastanza chiaro.
Non risposi, così come feci con quelli seguenti, che non aprii nemmeno.
Inviai un messaggio a Cher, chiedendole se fosse già laggiù. La risposta fu affermativa.
Andai nel panico.
La immaginavo là, bellissima come sempre, con uno dei suoi sorrisi più belli sul volto, sorriso che avrei spento.
La immaginavo felice, era raro vederla provare quel  sentimento, e invece gliene avrei privato.
La immaginavo con gli occhi che brillavano, luce che le avrei strappato.
La immaginavo vivere una vita felice, perché lo meritava, più di qualsiasi altra persona e gliel’avrei rovinata.
La immaginavo aspettare solo me, di stare con me, ma l’avrei lasciata da sola.
La immaginavo con me per sempre, ma non sarebbe stato così.
Sarei stata io, questa volta, una delle ragioni per cui soffriva.
 
Trovare le parole da dirle, quella mattina di Giugno, fu un’impresa ardua. Non perché non sapessi cosa dirle, il problema era il modo in cui farlo, dovevo cercare quello che la facesse soffrire il meno possibile. Fu il mio tormento principale per tutto il percorso, che parve interminabile, fino al nostro posto, quello con la panchina quasi a pezzi. Tormento, affiancato da un’immagine, che parve già nitida e quasi reale, del modo in cui l’avrei ferita, in cui l’avrei distrutta. L’avevo aiutata a ricomporsi, a ricostruirsi, a fortificarsi sempre di più; e ora, proprio io la facevo crollare, io, io e solamente io.
Quello che lei chiamava migliore amico. Che adesso non era più degno di essere chiamato così, perché non ero ‘migliore’ di nessuno, e nemmeno un ‘amico’.
 
Nuvole grandi e bianche si stagliavano fuori dal finestrino.  Ancora 45 minuti alla fine del volo.
- Signore, vorrebbe qualcosa?-  Una voce di donna, sicuramente di un’hostess.
- No grazie.- Non mi voltai nemmeno, non era necessaria la gentilezza.
Rumore di tacchi, stessa domanda ripetuta altre volte ad altre persone.
 
Ero arrivato là, da lontano, vidi la panchina e una sagoma umana difficilmente distinguibile. Non ebbi dubbi che fosse lei.
Mi chiesi se potesse avermi già visto, oppure non stesse guardando avanti. Purtroppo, ero più sicuro che fosse stata la prima. Tutte le volte che mi aspettava, aveva sempre lo sguardo rivolto in quella direzione, aspettando di vedere me.
In quel momento desiderai che il percorso fosse ancora più lungo, infinitamente lungo. Più lungo di come mi era sembrato prima.
Ma prima o poi avrei dovuto affrontare questa situazione. E non era ne prima, ne poi; era ora.
Non c’era un piano B, non c’era un’altra via, era una strada a senso unico.
Mi feci forza, e feci quella ventina di passi che mi portò davanti a lei.
E la vidi, proprio come l’avevo immaginata, sorrideva ed era un sorriso pieno di gioia. Portò a sorridere anche me, ma sorrisi a testa bassa, come faceva lei quando era imbarazzata, anche se il mio aveva una motivazione pienamente differente dalla sua. Non sapevo se sarei riuscito a guardare nuovamente quegli occhi marroni che, tra tutti quelli degli altri, cercavo sempre, che mi perdevo a guardare, che era difficile distogliercene lo sguardo. Non volevo vedere quelle due stelle morire, perché le stelle quando muoiono, si riaccendono, ma quelle due stelle, le più belle, probabilmente non si sarebbero più accese.
Non avrei più visto lei, come la stavo vedendo ora, o forse non avrei più visto lei e basta. Adesso, la sicurezza era ormai perduta, adesso, c’erano le incertezze.
Ora ero vicino, non potei fare a meno di guardarla, in quell’abito di pizzo beige senza spalline, che scopriva la sua carnagione chiara, leggermente arrossata dai primi raggi di sole.
E in un istante mi fu addosso, le sue braccia mi circondarono il collo, gioia incontrò delusione, speranza incontrò resa, tranquillità incontrò l’ansia e la paura.
Con le braccia, le circondai i fianchi, e l’avvicinai di più a me, ma fu uno sforzo, fu come recitare una parte che non riuscivo a interpretare, in cui non mi sentivo a mio agio. Sentii il mio corpo inchiodato, quasi come paralizzato.
E se ne accorse, perché anche uno stupido ce l’avrebbe fatta.
E mi colse impreparato, mi colse quando stavo guardando in alto per tirare indietro quelle lacrime che volevano tanto uscire. Quelle lacrime ch, non sapevo come reprimere. Quelle lacrime che fino a poco tempo prima credevo non fossero più uscite.
Il sorriso andò via ma non la luce nei suoi occhi, luce che vidi diversa da quella solita, luce che erano i suoi occhi che si stavano riempendo d’acqua.
Così, colto alla sprovvista, l’abbracciai. Fu un abbraccio diverso dal solito, fu un abbraccio di quelli che si danno prima di andar via, fu un abbraccio che rilasciò dolore e mi distrusse, che cercò di trasmettere tutta la poca forza che mi era rimasta a lei.
Fu un abbraccio che trasmise molto di più delle parole, e forse molto di più di quello che avrei voluto dirle.
Sentii i nostri cuori battere sincronizzati, in cui non solo in nostri corpi erano uniti, ma anche le nostre anime.
 Fu un abbraccio di quelli che non si possono dimenticare, di quelli che ti lasciano il segno sulla pelle.
Sentii lei, come parte di me, e io come parte di lei.
Fu come se avessi potuto fermare il tempo, farlo davvero, e stare con lei fino all’infinito.
Ma no, il tempo non si era fermato, e in seguito sembrò andare tutto più veloce, troppo veloce. Parole taglienti come una lama, parole pesanti come un’incudine.
Parole, che non avrei potuto evitare di dire, che il destino non mi permetteva di evitare.
- Harry¸… mi dispiace. –
Fui sorpreso che rispose, che le lacrime resistessero ancora un po’ prima di scendere, fui sorpreso che fu più forte di quanto immaginassi.
Ma fu peggio, il volto era come vuoto, privato di tutto, era ferma, non traspariva nessun’emozione.
Era ovvio che le dispiaceva. Anche se non lo vedevo, non provavo nemmeno a immaginare cosa provasse dentro. Avevo quasi paura di saperlo.  
Lei aveva indossato una maschera, per me.
Io ero quello che le permetteva di uscire da quel guscio, senza farsi troppi problemi, che non la giudicava. Quello con cui si apriva e diceva tutto, fino in fondo.
E adesso non lo ero più. Adesso ero uno come tanti, che le aveva fatto del male.
Allora parlai, dissi tutto quello che volevo dirle. La guardai negli occhi, smarriti, che feci ritrovare ancora una volta nel mio sguardo.
- Cher, io non ne sapevo nulla. L’ho saputo mentre stavo per  venire da te. –
- Harry non mi devi delle spiegazioni, davvero.-
La testa bassa, lo sguardo anche.
- Cher ti ho fatto del male anch’io. –  Una nota di dolore evidente, in quella frase detta da me.
Mentre le parlavo, la stavo fissando, cercando di cogliere qualsiasi movimento, qualsiasi emozione che trasparisse.  Ma niente di tutto questo. La maschera c’era, e si vedeva.
- No, Harry.-
 Alzò lo sguardo ora. Gli occhi ancora lucidi. Non era ancora ceduta, ma sentivo con il contatto della sua pelle tremante, che il momento non era lontano.
- Si invece. Lo vedo Cher, lo vedo. Stai tenendo tutto dentro, prima con me non lo facevi. Ti ho rovinato la vita. Ero l’unica persona di cui ti fidavi, a cui ti eri affezionata e ora anche io ti ho ferito.-
La vidi spezzarsi e distruggersi davanti ai miei occhi. Vidi le lacrime uscire veloci, sentii i singhiozzi.
E la abbracciai, di nuovo. Quest’abbraccio trasmetteva altre scuse, ma anche frasi come ‘io ci sarò sempre per te’ e altre come ‘la distanza non potrà separarci’. Poi, dopo un minuto anche affetto, quell’abbraccio trasmetteva di più, di un semplice ti voglio bene.
Credo che i nostri abbracci avessero un linguaggio, insomma, una sorta di ‘linguaggio degli abbracci’.
Essi parlavano là  dove le parole non si trovavano, là dove avevamo paura di dire qualcosa. Ma allo stesso tempo, facevano meno male delle parole. Facevano male, ma curavano anche.
Fu un abbraccio lungo.
 
Era crollata, era a pezzi. Era già successo prima, ma l’aveva coperto con quella maschera, ed ero riuscito a  distruggere anche quella.
Era così semplice distruggere le persone, ma riuscire a ricostruirle era l’opposto.
Le accarezzai la guancia, bagnata, asciugandole ogni lacrima che scendeva.
Da ognuna e da ogni suo singhiozzo, uscì dolore, dolore che ricadde su di me, distruggendomi.
- Perché il destino ci ha fatto questo? –
La sua voce debole, spezzata da singhiozzi e ostacolata da quel pianto.
Distolsi lo sguardo da lei, voltandomi nella direzione opposta, e anche io piansi, di nuovo. Per lei potevo essere così, per lei ne valeva la pena, se lei mi avesse fatto soffrire, io l’avrei fatto.
Ma no, Harry, lei non lo farebbe mai, sei tu che lo hai fatto, pensai.
Per lei tutto. Avrei dato anche la vita.
- Se solo potessimo ricominciare tutto da capo…- Quelle parole, mi erano uscite di bocca con lo stesso tono usato da lei.
- Rifarei tutto Harry.-  Stavolta, un tono deciso. E poi sentii la sua mano sul volto, e mi girai verso di lei. Lacrime che mi appannavano la vista e impossibili da nascondere, ora non ce l’avrei più fatta. Ora no. Ora era finito tutto, una serie di sogni costruiti e distrutti prima di realizzarsi. Ora non c’era più niente.
- Tra tutte le persone del mondo avrei sempre scelto te.- Glielo dissi, guardandola negli occhi, e asciugandomi le lacrime.
Ed era vero, non l’avrei cambiata con nessuno, nessuno che non avesse i suoi problemi, nessuno che non avesse quelli che lei chiamava difetti, che io non riuscivo a trovare. Nessuno che non avesse bisogno di aiuto, nessuno che non avessi dovuto salvare.
Io la volevo, perché era lei, e potevo caricarmi addosso tutto quello, perché non aveva importanza.
- Anche io, Harry.- La sua voce era simile ad un sussurro.
E quello che seguì, furono un oceano che non riusciva più a contenere tutte quelle lacrime versate, un mondo che non riusciva più a sostenere quel dolore. Nessuna parola, solo abbracci, abbracci che comunicavano di voler andare via di qua, abbracci che volevano che fosse solo un sogno, abbracci che volevano fermare il tempo, che passava sempre più in fretta.
In seguito, tre sagome in lontananza, che riconobbi subito, mia madre, mio padre e Gemma. Lontananza che si tramutò subito in vicinanza.
- Harry, andiamo a casa, ora. Devo finire di parlarti e devi fare le valigie. – Di nuovo la voce di mia madre, era stufa.
Impotenza. Non credevo di poter provare anche questo. Non credevo di arrivare al punto di rassegnarmi a una sola scelta.
Protestare e opporsi  sarebbe stato inutile, anzi peggiore.
Mi voltai verso quelle tre figure, quelle che benché fossero la mia famiglia, adesso non volevo nel mio futuro. Non quelle che mi avevano fatto questo, non quelle che avevano collaborato alla mia distruzione e a quella di Cher.
Adesso sapevo cosa si provava a cadere a pezzi. Adesso sapevo come ci si sentiva. Non era semplice da descrivere. Mi sentii vuoto, e sconvolto. Mi sentii privo di sensi, confuso. Non riuscivo a capire, era una sensazione nuova.
Capii, quanto dovesse essere difficile per Cher, che si sentiva così sempre.
- Andiamo, su Harry.- Ora la voce autoritaria di mio padre.
Adesso il mio sguardo cercò Gemma, speravo che lei non lo avesse saputo prima di me, che non me lo avesse nascosto. Ma quando incrociai il suo volto, mi vergognai quasi di quello che avevo pensato. Lei stava sentendo una parte delle mie sensazioni, a lei dispiaceva, e anche molto. Lei mi avrebbe aiutato. Mi voleva trasmettere speranza. Lei era l’unica persona, oltre a Cher, che riuscivo a capire anche senza le parole. Le persone che non volevo nella mia vita erano due, non tre. Magari le cose sarebbero state migliori là in Francia, visto che ci sarebbe stata Gemma.
- Harry, non fartelo ripetere più, lasciale la mano e andiamo.- Mia madre, adesso parlava carica di rabbia.
Non mi ero accorto di tenerla per mano, e ora la strinsi di più.
- Un momento, le dico l’ultima cosa e poi vi prometto che vengo.- Era stato automatico, era il cuore ad aver parlato. E fu di nuovo lui, per la frase seguente.
-Per favore, promettimi che non starai male per me, tu non dipendi da me. Se pensi che in quel modo mi dimenticherai, stai sbagliando. Ti chiedo solo di camminare a testa alta, sorridere e vivere la tua vita.-
La mia mano grande, incastrata perfettamente nella sua, piccola.
Gli occhi puntati sui suoi, anche dopo la fine di quelle parole. Gli occhi che volevo guardare bene, coglierne tutte le sfumature di marrone dell’iride, per non voler dimenticare. Gli occhi che volevo ricordare; quelli che mi avevano guardato, quelli che mi guardavano, e che non mi avrebbero più guardato.
- Te lo prometto. Lo farò per te.- Aveva dimostrato forza, di nuovo, la voce era diversa da quella carica di debolezza. Forza dovuta alla rassegnazione, all’accettare di un destino ingiusto, forza che non era forza, ma bensì altro, decisione, forse. Decisione di rendermi felice, decisione di voler realizzare quello che le avevo chiesto. Decisione di accettare di compiere quello che poteva essere uno sforzo o un semplice passo.
Era l’unica cosa che potevo chiederle, che non avevo nemmeno pensato, che il cuore aveva detto.
Ma lo stesso cuore che diceva che ero io a dipendere da lei.
I Greci credevano che le emozioni, i sentimenti e l’intelligenza risiedessero nei precordi, delle zone intorno al cuore. Anche secondo me era così, tutto dipendeva dal cuore, non dalla mente.
 
E poi un abbraccio, che stavolta comunicava addio, e nell’ultimo secondo, avvertì che non sarebbe stato un addio definitivo.
La speranza era solo un’illusione. La speranza causava altro male.
Me ne andai, seguendo quelle tre figure.
- Non saluti?- Mia madre era calma adesso. Era chiaro che ora avendo fatto quello che voleva fosse tranquilla, e cercasse di trasmetterlo anche a me. Ma io no, adesso ero agitato. Agitazione per non sapere cosa fare. Agitazione per non poter fare niente.
E poi, quando sarei tornato a casa, una predica di un’ora come minimo.
Vedevo già la scena. Di nuovo in camera mia, seduti sul letto. Di nuovo la compassione, quello sguardo che cercava di rassicurarmi, e di nuovo speranza,  quella che non  volevo più.
Ma questa volta anche un tono dispiaciuto, una marea di stronzate a cui avrei dovuto credere, della serie ‘ti servirà per il futuro’, ‘Harry è per il tuo bene’. Stronzate a cui non credeva nemmeno mia madre.
- Ho già salutato. - Risposi, duro.
Ruotai la testa, in direzione della panchina.
‘Scusami ancora.’
Lo dissi piano, quasi nemmeno io l’avevo sentito. Non serviva dirlo forte, dopo aver fatto un danno, non si può rimediare, tantomeno con scusarsi nuovamente.
 
 
Ero sceso dall’aereo. Il rombo del motore risuonava ancora nelle mie orecchie.
Ero a Londra. A casa.  Respirando nuovamente quell’aria, mi sentii nuovamente a mio agio, dopo tanto tempo. Non credevo che avrei camminato nuovamente su quella terra,  né di vedere nuovamente i giardini all’inglese, tutti i grandi negozi, i bus double decker, le mie conoscenze qua, e Cher, soprattutto.
Quando avevo pensato a Londra, non c’era mai una volta in cui non avessi pensato a lei. Perché a me, di lei mancava tutto. E anche molto.
Mancava svegliarsi la mattina, col pensiero inviarle il messaggio del buongiorno. E dopo pochi minuti, andare sotto casa sua, davanti alla finestra di camera; vederla affacciare alla finestra sorridente, con i capelli ancora spettinati dopo la dormita, e gli occhi semichiusi per la luce.
Mancava il quarto d’ora che aspettavo fuori, aspettando che si sistemasse, mancava l’abbraccio che ci scambiavamo appena apriva la porta.
Mancavano le colazioni all’Old Street Bar, con la cioccolata calda e i cornetti.
Mancavano le conversazioni nei minuti prima di entrare a scuola, anzi mancavano tutte le conversazioni in generale. Felici, tristi, non importa. Mancava persino soffrire vedendola star male.
Mancavano i suoi: ‘sono bruttissima’, - ‘faccio schifo’ – , - Harry ma mi hai visto? - , la faccia scontenta davanti agli specchi, quando la riempivo di complimenti, e lei abbassava la testa, guardando per terra e, le guance si tingevano di un rosa leggero.  Inizialmente gli angoli delle labbra, tinte di rosa acceso o di rosso, si curvavano, accennando un sorriso, io continuavo ad adularla, e mostrava un vero e proprio sorriso.
Mancavano le risate, le cose stupide fatte insieme.  Gli errori fatti insieme. Mancava tutto il resto, che adesso non c’era e che adesso mi faceva sentire vuoto, incompleto.
Era inutile negarlo, il motivo principale per cui ero là, era proprio lei. Si, dovevo tornare per questo. Io avevo bisogno di lei, chissà se lei invece non ne avesse avuto più di me.
In parte sarebbe stato positivo, aveva mantenuto quello che le avevo promesso con il cuore.
Lei non mi aveva dimenticato; i messaggi, le chiamate, le videochiamate – anche se quest’ultime molto rare- ne erano la prova.
Mi sorgeva una domanda, a cui tra poco avrei trovato una risposta: ‘Cosa sono io per lei adesso?’
L’altra faccia della medaglia, infatti, mostrava che il rapporto tra me e lei sarebbe cambiato, non sarebbe più stato quello di prima. Magari lei era felice adesso, magari stava meglio che prima. Non mi sentivo usato, sentivo che lo meritavo.
 
Senza di lei, ero come il cielo senza gli astri. Ero privo di qualcosa.
Il mare senza l’acqua. Non potevo esistere.
Un lucchetto senza la chiave. Inutile.
Senza di lei ero solo la metà di un cuore. * Incompleto.
 
Tolsi dallo zaino la sciarpa di lana verde sottobosco e me l’arrotolai intorno al collo a un giro.
 La prima cosa che volevo fare, qua a casa, era prendermi un caffè, ero stanchissimo, e stare sull’aereo non aveva aiutato.
Non sarei entrato in un bar qualunque, sarei ritornato all’Old Street Bar’ che, come diceva il nome, era parecchio vecchio e si trovava sul lato sinistro di una strada, di cui non si conosceva il nome.
L’insegna ormai scolorita, la facciata grigia, la porta di vetro. Trovandomelo nuovamente davanti, una marea di ricordi mi colse all’improvviso.
 
- E tu come hai dormito ieri sera? – mi chiese, tra un sorso di cioccolata calda e un pezzo di croissant.
- Bene, anche se la mattina mi sono svegliato sdraiato con il cuscino sopra la faccia.- trattenni una risata, per poco, perché lei aveva tirato la testa verso l’alto e stava ridendo fragorosamente. Ridemmo insieme per alcuni secondi. Era così bello. I suoi sorrisi a volte erano così semplici da ottenere. Perché la felicità a volte è semplice da ottenere, o è più corretto dire che la felicità è nelle cose semplici. Non è facile definire cosa sia la felicità, per me sono momenti come questo, di cui ricorderai sempre. Non sempre, sono i regali costosi, come un viaggio, un paio di scarpe firmate,..  a me questo non basta. Per me è superfluo. Io non ne ho bisogno.
- Solo te Harry, solo te.- disse a testa bassa, scuotendo il capo e sorridendo.
- Almeno io prima di dormire non alzo le braccia, le muovo e lo credo rilassante.- Lei allungò la mano, e mi tirò un leggero colpetto sul braccio.
Ridemmo nuovamente insieme.
 
Le ore nel bar erano così, ci dicevamo una marea di cavolate, e ridevamo sempre. Ci prendevamo in giro, scherzando. La maggior parte delle volte ci stavamo più di mezz’ora.
Il ragazzo del bar, Louis – mi pareva si chiamasse così, ma non ricordo il cognome - ormai aveva imparato a conoscerci, ed era come un amico. Aggiungeva sempre una sedia al nostro tavolo e si sedeva,  quando le conversazioni si dilungavano più del dovuto, raccomandandoci di sbrigarci. Spesso rimaneva qualche minuto ad ascoltare le nostre discussioni, e partecipava a queste; poi si allontanava, prendeva lo straccio, ci spruzzava sopra un solvente per le superfici in legno e lo passava sul piano bar. In seguito, con il solito panno, faceva lo stesso per i tavoli. Mentre svolgeva questi lavori, cantava sempre canzoni anni 70’ o 80’ come ‘I Will Survive’, di Gloria Gaynor oppure ‘I Want To Be Free’ dei Queen, e altre che non avevo mai sentito, ma conoscevo alcuni pezzi grazie a lui. Era un tipo bizzarro, non ero ancora riuscito a inquadrarlo del tutto.
Nei momenti i cui si sedeva con noi, ci aveva anche raccontato qualcosa di sé. Era di un paio di anni più grande di noi, aveva lasciato la scuola e non aveva fatto l’università;  presumo per poca voglia di studiare. Era l’unico che lavorasse in quel bar, e quindi si riteneva anche il proprietario. Non aveva da lavorare molto, in quanto l’OSB, non era uno dei locali più cool di Londra, aveva massimo una trentina di clienti alla settimana, con la maggior parte di essi si comportava come con noi. Il bar, aveva una scelta limitata di alcolici, chiudeva sempre verso le sei e mezzo e non si facevano feste.
Ma a me e Cher andava più che bene, non ci interessava bere né fare feste la sera. Ci piaceva la tranquillità, e i posti insoliti e poco conosciuti.
Louis una volta ci aveva pure detto che io e Cher le ricordavamo lui e la sua ragazza con la quale era stato quasi due anni, imbarazzandomi terribilmente.
 
Aprii la porta, ed entrai. Mi sentii sulla pelle una sensazione di familiare, di conosciuto, di abituale, quella che si prova quando si apre la porta di casa e si entra dopo esser uscito da scuola. Avrei creduto che quello di Parigi fosse stato veramente un sogno, e che stessi continuando a vivere la mia vita di sempre, quella che tanto rivolevo, se non fosse stato per l’assenza di Cher.
‘Forse Louis saprà darmi qualche informazione utile su di lei’ mi balzò alla mente quest’idea.  Lo trovai con lo sguardo, era seduto a un tavolo vicino al bancone, impegnato in una discussione animata con una ragazza dai capelli lisci biondo scuro. Non credevo di averla vista prima.
La congedò, lei si diresse verso la porta con gli occhi puntati sul cellulare. Era alta, se gli stivali che portava avessero avuto un tacco abbastanza alto, sarebbe stata più alta di Louis.
- HARREH! – Solo Louis poteva aver storpiato il mio nome in quel modo, con la sua voce limpida, carica del suo accento di Doncaster.
Mi dette una pacca sulla spalla. Gli sorrisi appena.  Addosso aveva una delle solite maglie con stampe o loghi di marche famose, quel giorno, ‘vans off the wall’ scritta di rosso sulla t-shirt bianca; e poi un paio di jeans blu stretti come sempre, con la rovescia alle estremità e un paio delle sue scarpe inguardabili che portava senza calzino.
- Chi è quella tipa? – Gli chiesi maliziosamente, e continuai soffocando una risata. – Raccontami dai.-
- Una nuova cliente. –
La sua risata sonora rimbombò in tutto il bar. Eravamo rimasti soli.
Avrei continuato a insistere, facendogli ammettere che prima ci stava flirtando, ma non ero lì per quello. Così, passai alle domande mirate.
- Sai qualcosa di Cher? –
Mi sforzai per sembrare un po’ disinteressato, come se quella domanda fosse stata fatta perché non avessi saputo cosa dire.
- Certo, certo, viene spesso qua. Harreh, devo pulire queste tazze, mi segui al piano bar? -
- Non ho tempo, sono di fretta. – Accorgendomi di essere stato un po’ arrogante, aggiunsi: - Scusa. –
- Ahh okay. Comunque sì, viene ancora qua. –
Sorrisi involontariamente. Non so se fosse stato a causa di sentir parlare di lei, o perché Louis avesse qualche informazione, oppure non so il perché considerassi positivo il fatto che frequentasse ancora l’Old Street Bar. Forse per la possibilità di poter tornare alla normalità almeno per quella giornata, quella che per me era normalità.
- Cosa mi dici di lei?- Solito tono, più convincente ora.
- Ti manca? –
Mi stava sorridendo, un sorriso di scherno, sembrava quasi mi stesse sfottendo. E anche il suo sguardo, con un sopracciglio leggermente più alzato rispetto all’altro me lo testimoniò.
Questo e la domanda idiota - sperai di aver sentito male - mi obbligò a replicare senza troppe recite.
- Louis, io ti ho fatto una domanda, e non è carino rispondere chiedendomi tutt’altro e ridendo di me. Vabbè, visto che non vuoi rispondermi, vado. Ciao. –
Avevo detto vado, ma non me ne ero ancora andato, e anche il ciao, non era un saluto di addio; prima volevo la sua risposta.
- Sei cambiato. – Adesso era serio, i suoi occhi piccoli, un incrocio tra il colore più bello che potesse assumere il cielo e quello più bello che potesse assumere il mare, piantati sui di me. Alzava e abbassava la testa leggermente, come per confermare quello che aveva detto.

‘Fantastico, questo era proprio la risposta che volevo’ meglio tenerlo per me questo.
Me ne andai.
Non mi era piaciuta la piega che stava per prendere quella conversazione, e poi quella mattina non ero in grado di sostenerne una di quel tipo, da manipolare.
Lo odiavo ma era necessario, se mi fosse sfuggita di mano non saprei come e quando sarebbe potuta terminare. E poi quel ‘sei cambiato’ finale. Non lo avevo inteso per niente, sarà stata un’altra delle sue cose stupide.
Non ci pensai più, ora prima di andare da Cher, dovevo andare a vedere il nostro posto, sedermi là per alcuni minuti e rilassarmi.

Chissà se la panchina sarà andata a pezzi.
Le cose precarie, non resistono a lungo.

Giunto là, realizzai che non ero solo.

 Il mio cuore perse un colpo.

Cosa stai provando Harry, adesso? Cos'è quello che stai provando?

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


{A tutti, perché ognuno di noi ha bisogno di essere felice,
vivendo nella speranza dell’esistenza della gioia.
 
Quindi anche a me,
che scrivendo questo provo a descrivere le emozioni,
eppure è impossibile farlo.
E per ultimo, di nuovo a tutti ma ora insieme a qualcuno,
a tutti i tipi di rapporti e le difficoltà relative.}



 
 
CHER’S POV
 


Non avevo contato le volte che avevo cantato quella canzone. Sapevo solo che dopo due o tre volte avevo cominciato a cambiare alcune parole, o ad aggiungere delle frasi. Alla fine avevo cambiato tutto, l’unica cosa che restava immutata erano le parole: ‘Now i wish you were here’.
In effetti, tutto era cambiato, anche io stessa, ma volevo sempre che Harry fosse lì con me. Lo avevo sempre voluto, anche quando a separarci erano solo pochi chilometri tra le nostre due case, una nel centro di Londra, l’altra nella periferia.
Quella canzone ora parlava di me. Di noi. Di me e Harry, anzi, perché il ‘noi’ non aveva più senso. Adesso le nostre vite si erano separate, adesso andavano in due direzioni diverse, opposte.
 La mia voce si era fermata.  
Qualcuno stava camminando nella mia direzione. Una sagoma lontana, sfocata, l’unica cosa che distinguevo era il nero della stoffa dei vestiti.
Scattai in piedi, ma qualcosa nella mia mente mi impedì di andarmene e mi fece sedere di nuovo.
Accavallai le gambe, sulla destra, posta sopra, avevo poggiato la stessa mano. Tenevo il palmo fermo, le dita che si alzavano e si abbassavano freneticamente; il cuore che pulsava alla stessa velocità.
La sagoma in lontananza si era avvicinata di qualche passo, la nitidezza non era maggiore. Ora si era fermata, e guardava verso di me.  
Ero sicura stesse guardando me, difficilmente avrebbe potuto provare interesse in altro. E così, trovavo difficoltà a provare pure io l’interesse in qualcos’altro, che non fosse quello sconosciuto. Non volevo abbassare lo sguardo, altrimenti sarei stata al gioco e avrei avuto quegli occhi estranei ancora addosso.
Guardai nuovamente la foglia, una proiezione di me stessa.
 Ma adesso sull’albero non stava più, adesso giaceva a terra.
Sentii che anche il mio momento sarebbe arrivato presto, e avevo il presentimento che sarebbe stato in quella giornata. Quanto avrei avuto ancora?
Purtroppo, avvertivo anche che sarebbe stato molto presto.
Non sarebbe mancato molto.
Di solito mi ponevo domande di questo tipo, e dentro di me sentivo come una voce che mi suggeriva le risposte.  Forse perché dentro di noi abbiamo tutte le risposte necessarie a tutto quello che vogliamo sapere, e ovviamente, nessuno le cerca. Nessuno si spinge fino in profondità negli abissi di sé stesso, con la possibilità magari di trovare uno scrigno contenente qualcosa di bello, di nascosto. Qualcosa che non abbiamo, e siamo entusiasti di trovare. Io avevo paura a scavare dentro di me, avevo paura di quello che avrei potuto trovare. Anche se ero sicura che ai fondali non sarei arrivata, e che non ci sarebbe stato nessuno scrigno; quando mi immergevo dentro me stessa, rimanevo a galla in superficie, e mentre cercavo di andare sotto, invece nuotavo in un’altra direzione. Non ci sarebbe stato nessuno scrigno, solo alghe in superficie, alghe alle quali continuavo ad aggrapparmi, che si strappavano. E allora ne afferravo un’altra, e così via.
Dopo pochi minuti, la sagoma stava avanzando di nuovo. Ora appariva più chiara. Gambe magre dentro dei pantaloni neri stretti, cappotto nero lungo fin sopra il ginocchio.
Adesso non avevo più la concentrazione per pensare a me stessa, solo colui o colei che stava avanzando mi occupava i pensieri.
Non avevo paura, né ero curiosa. Ero una via di mezzo. Di nuovo.
 ‘Ora anche uno sconosciuto deve venire a disturbarmi. È così impossibile stare da sola?’
Pensare a quella frase, mi sorse quasi innaturale. Non era la verità, ma la realtà.
Non sono la stessa cosa, a differenza di quello che molti credono. La verità è ciò che è vero, ciò che non si può modificare, né camuffare. La realtà invece si. Puoi mascherare uno stato d’animo, agli occhi degli altri potrà apparire come realtà, anche se non sarà una realtà ‘vera’. C’è una realtà vera, e una finta. La verità, in quel momento, era che ero infastidita da quello sconosciuto, che volevo rimanere sola. Ma la realtà era il contrario, era che io non volevo essere sola.
 La finta realtà era stata creata con lo scopo di trovare una spiegazione, per classificare. Di solito tendiamo come a attaccare delle etichette su ogni cosa. Lo facciamo anche con le emozioni. Le identifichiamo in: ‘gioia’, ‘tristezza’ ,‘rabbia’, ‘noia’, ‘stanchezza’,.. Su queste etichette, spesso scriviamo cosa ci balza prima alla mente, e mai andiamo oltre per scavare più nel profondo e coglierne gli altri aspetti, le altre tonalità, e accettare questi, malgrado siano differenti parzialmente o totalmente da quelle iniziali. Oppure generalizziamo. In questo caso sappiamo l’esistenza di altre sfaccettature, ma cogliamo sempre quelle che ci arrivano prima alla mente, quelle che ci appaiono in maggior quantità. Che ci appaiono, non che sono. Ci fermiamo all’apparenza. Ci basiamo su pregiudizi. Non andiamo nel profondo nemmeno così. Possiamo anche generalizzare cogliendone solo alcuni, non è una ricerca del tutto finita, ma è più approfondita della precedente. Scegliamo in base a un criterio, ad esempio cosa secondo noi è più interessante. Per riferirmi a ciò, non utilizzavo mai il verbo apparire, perché in quel caso ognuno esprimeva il suo punto di vista. Per esempio, una pietra, maggiormente nera, e con sfumature di altri colori non definibili, per qualcuno poteva essere ‘nera, viola, verde’, per qualcun altro ‘nera, blu, rosa, gialla’. C’è la possibilità anche di ignorare quello presente in maggiore quantità, di ignorare le cose più palesi, in quel caso sarà: ‘viola, verde, rosa, giallo, blu’.
Mischiando il blu e il giallo si ottiene il verde, così avviene anche con le emozioni, che unite possono ottenere un’altra. Qualcuno non vede il risultato finale, e vede le due parti iniziali, altri il contrario.
Alcune volte, ma rare, è una comodità.  Per quanto riguardava me, era un tentativo di provare a comprenderci nel caso in cui non riusciamo a comprendere niente o ben poco di noi stessi, siamo confusi; in altri casi -a me ben noti, ma non passati sulla mia pelle- è per non farsi troppi rigiri, ‘non pensare troppo’.
Forse siamo tutti confusi, chi più, chi meno, proprio per la complessità delle emozioni. È sempre una questione di soffermarsi o no, di evitare o di notare.
Dettagli sempre più visibili, notai che portava una sciarpa verde.
Il mio corpo non ne voleva ancora sapere di muoversi, non per pigrizia. C’era un senso del dover restare, come quando vuoi andartene dalla fermata del treno che non arriva ancora, malgrado tu sia perfettamente in orario. Ti penti dell’impazienza e dici a te stessa di rimanere ad aspettare altri cinque minuti. I quali non sono tali, ma sono il triplo e anche il quadruplo. Non ti muovi lo stesso, e il treno poi arriva.
Ma ero pronta per sostenere di incontrare qualcuno? La maschera era costruita, ma era una maschera per confondersi tra la gente non per essere vista, al massimo solo di sfuggita. Sostenere anche solo un contatto visivo era difficile, perché era già uno sforzo notevole, hai degli occhi su di te, il volto non deve mostrare niente. La maggior parte delle volte, le emozioni di uno sconosciuto sono evidenti, pure io riuscivo a scorgerle. Le più facili da riconoscere sono la tristezza e la rabbia, perché raramente la gente finge di provare uno di questi sentimenti, mentre la maggior parte della gente che appare felice non lo è veramente.
Poi, dopo il contatto visivo, ci sono le parole. Pochi le sanno usare correttamente. Io no.  Allora sceglievo il silenzio, perché con quello non si può sbagliare, non c’è un silenzio giusto e uno sbagliato.  Ma molte volte non è solo una scelta, è un’altra delle reazioni involontarie di me stessa, ma se il cuore è un muscolo involontario non c’è da sorprendersi.
Lo sconosciuto, che non chiamerei più sagoma dato che lo vedevo chiaramente, stava armeggiando con il cellulare, che dopo pochi secondi, ritornò nella tasca. Quell’attività in quel lasso di tempo, impediva di vedere il volto, l’ultimo dettaglio del ritratto. Mi soffermai sui capelli: castano chiaro, tendente al rosso ma anche al biondo; né lunghi, né corti, ciocche piastrate e tirate indietro senza uso del gel, casomai della lacca. La fronte scoperta, ai lati corti e ricci, forse volutamente.
E poi lo vidi il volto, e arrivò la distruzione. Fu una distruzione diversa, non causata dal dolore provocato dal male, dal negativo. Fu diverso, fu un dolore causato dalle cose belle, quelle belle e basta, quelle inspiegabilmente belle, diversamente belle.  Perché in ogni vivente, non vivente, astratto o concreto sono contenuti gli opposti. E’ come usare una malattia per un vaccino, il male porta anche bene e viceversa. Il bene porta anche il male, non accade per la fine di uno e l’inizio dell’altro, anche, ma prima di questo ci accorgiamo di provare entrambe le cose nello stesso momento;  in fondo prevale la peggiore e forse un po’ di bene rimane, per poi svanire.
A distruggermi, inizialmente, fu la sensazione di essermi illusa, di star vivendo un sogno nuovamente. Un sogno iniziato dopo essermi addormentata con gli occhi e il volto bagnato dalle lacrime, un sogno bellissimo, che sembrava reale, ma adesso non più. Un sogno di un desiderio, di una richiesta, di un grido disperato. E poi il risveglio, la parte peggiore. Ritrovarsi con gli occhi difficili da aprire, incollati dalle lacrime, ogni muscolo si rifiuta di agire. Ritrovarsi da sola e stare peggio di prima. Io Harry lo sognavo spesso. E anche prima che accadesse la separazione, non ero mai felice di sognarlo. Non ero quella persona a cui piace stare insieme a chi vuole nei sogni. Io lo volevo nella realtà. Non potevo accontentarmi. Io non volevo sognare, non mi era mai piaciuto.
L’esperienza mi aveva insegnato a essere realistica, già dal fatto che non leggevo né vedevo film fantasy. Cose immaginarie, creature sovrannaturali, magia e lieto fine non facevano per me. Non esiste niente di tutto questo, è solo fantasia come, dice il nome. Servono solo a illudere, illudere e illudere.
Illudere è inutile, non serve a niente far credere in qualcosa di non reale, qualcosa di utopico. E fa del male, del male e basta. Dopotutto qualsiasi cosa a questo mondo può essere un deleterio, possono essere le armi ma anche l’acqua che se bagna un terreno può farci scivolare. Nell’acqua si può affogare. Non sempre le cose scontate generano dolore, anche le cose più naturali, sembrano innocue, ma poi ci fanno male e forse è peggio, forse perché non te lo aspetti, e perché te ne fanno di diversa intensità. Fino a eguagliare quello delle cose scontate o a superarlo.
E la stessa vita ci illude, ci fa credere nel per sempre, e poi tutto termina di colpo. Non c’è nemmeno il tempo di realizzare, non sembra accaduto. Senti ucciderti dentro con le peggiori torture ma ti senti anche esterna.  Mi sentivo come divisa in due parti: una stava guardando l’altra ardere, sotto un fuoco lento. La prima non poteva fare niente, altrimenti sarebbe finita anche lei tra le fiamme, l’altra era un edificio già rovinato dagli eventi succeduti nel tempo, il fuoco era aumentato, l’edificio si consumava e si riduceva in cenere. Adesso ha perso la propria funzione, adesso è inutile, adesso non è più niente. Verrà trasportata da vento chissà dove. Nessuno se ne ricorderà.                                                              
Credevo non ci fosse paragone migliore.
Se non era un sogno, era una visione.
‘Ora ti vedo anche quando non ci sei’.  
Ero arrivata davvero a questo? Ero veramente diventata pazza?
Lui, si era seduto al solito posto.
Io, ero ferma.
Furono i suoi occhi che si posarono nuovamente sui miei a farmi capire che tutto quello stava succedendo davvero?
Oppure fu quando il mio braccio si mosse, riscuotendomi da quella che assomigliava a una paralisi; la mano sfiorò la sua guancia e sentii una scossa che mi fece sentire viva?
Avevo trattenuto il respiro senza accorgermene, quando lo avevo sfiorato. La mia mano liscia, a sfiorare la sua pelle morbida, che non mostrava neppure un accenno di barba. Sembravano fatte di un tessuto identico. Forse anche io e lui eravamo simili. Lo avevo pensato, senza darmene una spiegazione.
 
Adesso ero viva, lo sentivo nelle scosse che ora si stavano diffondendo in tutto il corpo, per poi svanire.
Realizzavo, ma allo stesso tempo non realizzavo. Tutto era chiaro, limpido davanti ai mei occhi, Harry, il mio tutto, era di nuovo qua. Lo avevo rivisto. Avevo visto di nuovo lui. Ogni mio singolo muscolo si rifiutava di ammetterlo, ma li avrei costretti a farlo. Volevo che accadesse il prima possibile.
Sentii quel nodo alla gola formarsi, inconfondibile; e il familiare leggero calore agli occhi causato dalle lacrime bollenti come il fuoco che ne uscirono. Quelle lacrime erano diverse. Che fossero lacrime di gioia? Ma cos’è la gioia?
Il dolore usciva lo stesso, ed era più intenso, bruciava dentro.
Ebbi un leggero giramento di testa, e in seguito, sentii essa farsi pesante, e le lacrime diventare troppe.  Ancora troppe, perché io quella mattina ero sicura di averne tirate fuori abbastanza. Perché credevo che nei miei occhi, non ce ne fossero più.
Affondai la testa tra le mani, spostai tutto il peso sulle ginocchia. Il nodo alla gola era sceso al cuore, poi si era diramato, raggiungendo i polmoni con una velocità imprevedibile come un gas asfissiante. Strinto tutto insieme, in una morsa sciolta solo dal tocco di lui, che mi afferrò, mi spinse a sollevarmi e a sedermi sulle sue ginocchia piegate.
Avrei voluto ribellarmi, non avevo il diritto di scaricargli di nuovo tutto addosso. Non volevo ridurlo a una discarica. L’unica discarica dovevo essere io. In quel momento mi risultò innaturale anche pensare questo, capì che continuando a gettarmi tutto addosso, mi sarei solamente ferita di più, e che sarebbe stato inutile aver tirato tutto fuori per poi rimetterlo dentro. Avevo sbagliato in quei tre mesi. Non provai più compiacimento nel farmi a pezzi, né senso di sollievo.
Mi lasciai abbandonare a lui, ancora una volta a essere comandata da lui; ogni volta mi pareva tutto così giusto e mi parve tale anche quando le sue braccia mi avvolsero e mi avvicinarono al suo petto velocemente ma allo stesso tempo dolcemente. Stingendomi, in una morsa che non aveva niente a vedere con quella che avevo sentito prima dentro. Una morsa, o un abbraccio che questa volta non parlava, questa volta era solamente un abbraccio che dimostrava la sua presenza.
Ne ebbi la conferma.
- Adesso sono qua. – mi era mancata la sua voce roca, bassa, che trovavo immensamente rilassante.
Il mio cuore stava battendo nuovamente insieme al suo, non alla stessa velocità - il mio era esageratamente veloce – ma quando le sue mani, mi carezzarono la schiena, nel suo modo che utilizzava per calmarmi, il mio cuore rallentò; come se anche esso volesse passare al meglio quel momento, come se anche su esso lui avesse il controllo. E come dargli torto.
 
Ero tranquilla ora, era così semplice farsi placare da lui.
‘Non mi sono accorta di aver smesso di piangere’, ripensare quella frase, per la seconda volta in quella giornata mi fece sorridere. Era vero, era l’ennesima volta che accadeva dopo quel giorno all’asilo.
Era assurdo solo pensare di non dipendere da lui. Non potevo spiegarmi come fosse nato quel rapporto, almeno riguardo a me, per Harry il nostro era un semplice rapporto di migliori amici, come tutti gli altri.
Il pensiero solo della parola dipendenza, suscitò in me quel ricordo. Una promessa non mantenuta. La promessa non mantenuta. Era strano, non lo avevo mai fatto. Era strano fossi mancata proprio a quella, era come mancare al proprio spettacolo preferito; con la differenza che a quello avrei potuto rimediare, ma all’altra non potevo essene ugualmente certa. E con un’altra differenza che riguardo al primo avrei creduto fino all’ultimo momento di andarci, mentre alla seconda sapevo da tempo che non sarei riuscita. E un’altra ancora: qualsiasi imprevisto mi avesse fatto saltare quello spettacolo non era colpa mia, mentre riguardo a quella tanto agognata promessa ne ero l’unica responsabile.
Decisi che per quella giornata avrei evitato quell’argomento, lo avrei riposto nella valigia della mia mente anche se avrebbe occupato moltissimo spazio, avrei tentato di chiuderla con la forza; ma quello minacciava in continuazione di uscire, riducendo le forze di resistenza della serratura.
Sperai almeno che non ne parlasse lui, che chiunque oggi mi avesse graziato con l’arrivo di Harry, che era stato come un miracolo, provasse pietà per me nuovamente.
Sperai anche che lui non fosse qui per questo.
- Perché sei qua? – articolai.
- Avevo bisogno di te, mi mancavi. –
Il diaframma si abbassò, la tensione sul mio volto si disfece, ma dopo pochi secondi ricomparse. Premeva ugualmente sullo stesso tasto dolente. Ed era stato sincero, sfortunatamente sincero. Lui non aveva niente da nascondere e niente a cui era mancato.
Sarebbe stato migliore dirglielo? Sarebbe stato migliore confessargli quanto lo avessi necessitato ogni secondo? Che la maggior parte delle notti le avevo passate a stare male per lui mentre gli avevo giurato, vedendolo in quelle condizioni, di fare il contrario? Che prima di iniziare ognuna di quelle 80 notti facevo una croce su un foglio per segnare il termine di ogni giornata vuota senza di lui? E come mi ero ridotta da sola? Si, sola perché non avevo più nessuno e anche perché avevo fatto il “meglio”, la maggior parte da me.
No, non lo sarebbe stato affatto. Certamente, non avrei potuto tenerlo in quella valigia per molto altro
 tempo, avrei controllato quando farlo saltare fuori, con le giuste precauzioni e avvertimenti. Sarebbe stato una delle prossime volte, questa giornata era la prova esemplare che la distanza non avrebbe inciso su noi due, volevo viverla al meglio. Noi, sì perché adesso eravamo di nuovo un ‘noi.’ Poco prima avevo pensato il contrario, era strano cambiare di pensiero così rapidamente. Di nuovo l’influenza di Harry, come quella della luna.
- Anche tu mi sei mancato, e anche io ne avevo bisogno di te. – Peccato che detto da me, sembrasse quasi falso. Sentii ritorcersi tutto dentro, mi ripudiavo quasi.
Lui non mi necessitava nello stesso modo morboso.  Harry era l’unica persona a cui ero riuscita a legarmi, era l’unica roccia a cui mi ero aggrappata saldamente, e alla quale avrei potuto aggrapparmi nuovamente, abbandonando le alghe.
E solo in quella tarda mattinata di quel giorno di settembre, mi accorsi che Harry era l’unica persona che mi facesse provare sia blu e giallo, sia verde; le emozioni singole e allo stesso tempo quella finale, che si intrecciavano, in una treccia lunga e irregolare, ma mai si univano. Ogni tanto, uno di questi fili, usciva dalla treccia, seguitamente rientrava, e così succedeva a un altro. Alla fine si ritrovavano tutti di nuovo legati, per percorrere l’ultimo pezzo di tragitto insieme per terminare definitivamente in un nodo e il restante fuori da esso non ha bisogno di essere tagliato; i fili erano stati tessuti di una misura precisa. Così accadeva ogni volta che il tempo passato con lui terminava, tutte le emozioni provate in precedenza svanivano.
Harry era l’unica persona a cui tenessi veramente, per lui ero quella a cui teneva di più. Il fatto che  fosse l’unica persona importante della mia vita, mi portava a esagerare, a non avere nessun limite. Quando qualcosa accade per la prima volta, ci mostriamo come siamo senza barriere, reagiamo con naturalezza e decisione, è automatico essere impulsivi. Questo avviene anche quando si prova un’emozione nuova, facciamo avere effetto ad essa su di noi, la lasciamo agire in tutte le sue forme, ci facciamo guidare da essa in tutte le nostre azioni. Poi dopo averla conosciuta, possiamo comandarci rispetto ad essa, se reprimerla o lasciarla manifestare, o farla attuare più spesso; nelle volte successive non avverrà con la stessa intensità della prima, la quale era dovuta proprio alla novità della sensazione che sicuramente l’aveva accentuata. Harry oltre a me aveva molti amici e amiche, aveva esperienza, non era il suo problema quello di controllare l’intensità dei propri rapporti.
- Come è andata a Parigi? – Tirai fuori di getto, usufruendo del suo silenzio.
- Una noia mortale. -
 – Raccontami dai, non ci sono mai stata.  – lo incalzai.
- Allora..  I miei hanno affittato là un monolocale, è vicino alla scuola e all’aeroporto, ma non mi è mai interessato sapere il nome della via. Non è tanto male, ci sono le stanze sufficienti. La camera la condivido con Gemma e di solito sto lì. Il tentativo dei miei genitori di mandarmi là per fare nuove conoscenze è andato fallito; potevano evitarmelo facendomi passare una bella estate. Pazienza, ormai quel che è fatto è fatto. –
S’interruppe un istante, con la sua voce aveva scandito lentamente ogni parola, come sempre, come per dare importanza ad ognuna di esse.
 Prese in mano i due lembi della sciarpa, la stava già cercando a tastoni mentre aveva iniziato la sua narrazione, inizio a giocherellarci, lanciando debolmente prima l’uno e poi l’altro e afferrandoli insieme.  Gli occhi dal verde più chiaro della sciarpa rapiti da quel giochetto, assorti e concentrati, mi sembrò di rivedere quel bambino dell’asilo che giocava con le macchinine e mi aveva gettato la mia bambola preferita a terra.
Lo fissai in silenzio, la mia attenzione catturata dal suo racconto, di cui impaziente attendevo il seguito. Catturata non del tutto, una piccola parte era concentrata a formulare qualcosa di credibile sulla mia vita di quel periodo di distanza, che ovviamente non fosse vero.
- È meglio che tu non ci sia mai stata, non è niente di speciale. In famiglia va tutto bene, sono entusiasti del percorso che mi hanno scelto, mi stanno ancora cercando di convincere sulla validità, ma non credo riusciranno nemmeno in questo. E poi niente, solo al pensiero di parlare in francese tutte le mattine… Dovrò trovare qualcuno che mi svegli al posto tuo. Pensa come inizierei bene già il primo giorno addormentandomi. –
Gli sorrisi, un sorriso che non si trasformò in una risata perché non volevo tagliare il suo filo del discorso
così spedito, rischiando di non sentire più niente di quelle parti della sua vita che mi ero persa. Volevo sfruttare quelle smilze possibilità che avevo per recuperarne dei frammenti.
- Queste giornate ho dormito fino a tardi, la sera raramente sono uscito, mi pare solo tre o quattro volte per andare in qualche ristorante con Gemma. Non c’è niente di interessante là fuori.-
Notando che erano due le volte che aveva nominato sua sorella, le chiesi di lei.
- Come sta Gemma? Tutto apposto? Mi manca un po’anche lei, voglio rivederla. –
Quel ‘mi manca’ e soprattutto ‘voglio rivederla’ celavano sotto la voglia di vedere di nuovo lui, erano solo un pretesto. Ero sicura che se avessi rivisto sua sorella, avrei rivisto anche lui; tutte le volte in passato che ero uscita con lei, c’era stato sempre Harry insieme a noi.
- Si si, con lei avevo già parlato da un po’ di ritornare qua, i miei li ho messi al corrente ieri sera, sai com’è a loro piace comunicare le cose all’ultimo minuto, e così ho pensato che gli piacesse anche ricevere le comunicazioni così. –
Nella sua voce era palpabile ancora una punta di rabbia, come se non gli fosse ancora passata da quel dì. Ciò mi fece pensare che del tutto ok gli affari di famiglia non lo erano, ma seguissero  solamente il loro corso ascendente, migliorando.
- Comunque ora che ci penso si dice che la torre Eiffel sia spettacolare la notte. –  cambiai argomento, anche perché avrei toccato un altro tasto dolente, un tasto nero, per metà compreso in uno bianco del mancato compimento della sua richiesta e un altro bianco, che avrei scoperto più avanti. Tasti che erano comuni a entrambi, perché lui era la parte di plastica del tasto, io ero il meccanismo che lo metteva in moto. Lui era una delle persone su questo pianeta, io ciò che attivava il dolore in lui.
- Sul serio? Un giorno l’andrò a vedere allora. Vieni anche tu a Parigi un giorno dai, magari mi farà meno schifo. –
 


 
HARRY’S POV
 


- Sul serio? Un giorno l’andrò a vedere allora. Vieni anche tu a Parigi un giorno dai, magari mi farà meno schifo. –
Fargli quella proposta, dopo la diceria che mi aveva raccontato lei, non era stato casuale. E anche la città dava il proprio contributo.
Ma no Harry, a cosa stai pensando? Cos’era quello che provavi? Si cos’era?
Avrei voluto saperlo. Eppure più ci pensavo e più diventavo dell’idea che fosse veramente la cosa che avevo sempre cercato disperatamente, e ricevevo proprio ora. Come un regalo di Natale con tre mesi di ritardo. Non so se avrei potuto considerarlo un regalo, adesso era solo un fottutissimo problema.
Stando lì, avrei dovuto chiarire. Avrei dovuto mettere fine ai tormenti che per fortuna non sempre mi affollavano la mente.
I piatti della bilancia sui quali erano appoggiati quei due termini, non erano mai stati allineati, quello a me sconveniente era stato sempre più peso; una differenza innocua, alla quale ero sicuro di porre rimedio. Adesso, sul  piatto tanto temuto, era stato aggiunto dell’altro ed era pericolosamente piazzato in basso, mancavano pochi centimetri a sfiorare il suolo.
Fortunatamente c’erano quei centimetri che non mi rendevano impossibile respirare. Non era proprio l’estremo dei casi.
Restava solo aspettare e vedere, la cosa più difficile per me. Non potevo quantificare il tempo che avrei dovuto aspettare, proprio quell’incertezza, che da poco avevo perso, dopo averla ottenuta nuovamente
 senza richiederla, era la parte più temuta.
Ma non sarebbe stato migliore, questa volta, ricevere la risposta più negativa possibile. Assolutamente no. Questa volta, sarebbe stata l’eccezione alla regola. Sarebbe stato scomodo, come un divano chiodato, ma per lei avevo detto che farei anche l’impossibile, no? Quindi, avrei dovuto attendere del tempo. Perché per chiunque non sarebbe stato impossibile, ma per me si.
Mi imbarazzava solo il pensiero da quanto stessi in quell’attesa perenne, prima non mi premeva così tanto, me la lasciavo dietro le spalle, ma ora, ora non c’era più abbastanza spazio per tenerla dietro. Inizialmente me l’ero trovata davanti agli occhi, ora appariva anche in qualsiasi direzione mi voltassi. Ero circondato, ma non del tutto, quei centimetri tra il piatto della bilancia e il suolo lasciavano alcuni spazi vuoti.
 
Eppure non potevo fare nient’altro, in quel modo avrei ritardato il punto sulla linea del tempo della mia vita in cui avrei sbagliato, quello sbaglio che era inevitabile compiere. Quello sbaglio che avrebbe mutato parecchie cose, già dal fatto di nascondere tutto questo fino a quel giorno. Attraverso quello sbaglio avrei distrutto Cher nuovamente, e in modo più acuto, e anche me stesso. Avrei sentito di nuovo in me, quelle emozioni e sensazioni ancora estranee, e forse anche alcune nuove. Perché non si smette mai di provare sempre qualcosa di nuovo, nemmeno alla fine della vita si è provato tutto, in qualsiasi modo si sia condotta.
 
- Mi piacerebbe moltissimo. Se chiedessi ai miei di andare là per tutte le vacanze di Natale? Non la trovi una buona idea? –
A me forse piacerebbe di più. Basta, Harry basta. E se me lo fossi creato io quell’ostacolo? Se il troppo pensarci sopra lo avesse fatto diventare reale?
O se stessi scambiando quella paura per la realtà?  Magari.
- Lo trovo perfetto. E tu cosa hai fatto in questo tempo? – le chiesi, sia perché mi interessava, sia per far riposare la mente o il cuore che fosse, dalla propria attività.
- Niente, mi sono riposata, ero davvero stanca. Sono sempre restata a casa, non ho sentito il bisogno d’uscire. –
Se fossi restato con lei sarebbe stato diverso, non si sarebbe annoiata a morte. Di sicuro non avrebbe potuto dirmelo in faccia che ero stato un coglione, ma lo pensava o non si rendeva conto di farlo, su un muro delle tante strade nella sua testa complessa ero certo ci fosse scritto, a caratteri cubitali lampante e anche sottolineato ed evidenziato.
Solo che lei era troppo, troppo per tutti. Speravo un giorno lo capisse, capisse tutto quello che aveva e non lo sapeva. Anche se ci sarebbe stato il rischio che mi avesse abbandonato, ma l’avrei preferito. Perché lei veniva prima di qualsiasi altra cosa o persona su questo pianeta. Avrei accettato che abbandonasse il bastone sul quale si era appoggiata per gran parte del suo cammino, per iniziare a continuarlo da sola.
La paura che mi avesse abbandonato in questo periodo era scemata, ma non avevo dubbi di averla provata e in ingenti dimensioni.
Ero convinto che i suoi occhi colore della terra, non si degnassero più di bearmi posandosi sui miei, verdi come i prati, lo stelo dei fiori, gli arbusti che senza il terreno non hanno possibilità di vita. I miei verdi come le foglie delle chiome degli alberi, sostenuti da rami rivestiti da una corteccia marrone come essi stessi, allo stesso modo lei si rivestiva di maschere realizzate da se stessa, con la stessa pelle e le stesse sofferenze; e da un tronco dello stesso materiale che porta la chioma verso l’alto e la collega alla terra.  Verdi come una pianta in particolare: il caprifoglio, una rampicante che vive attaccato all’albero del noce, e dal tronco di questo ruba la linfa vitale per la propria sopravvivenza. Il caprifoglio che nuoce al noce, ma l’ultimo necessita esso così come è necessitato dal primo, il noce necessita il male che gli provoca il caprifoglio. Il caprifoglio passa tutta la vita attaccato al noce, perché è l’unico e traumatico modo per poterla passare. Perché a differenza di me, ha solo quella misera possibilità; ma quel caprifoglio ha scelto un noce in particolare, o forse è stato il destino già a farlo per lui scegliendo la sua origine selvaggia in una zona limitrofa a quell’albero. Passa la propria vita avvolto ad esso, così come le mie braccia stavano circondando il corpo sottile di Cher.
- I negozi? Non sei mai stato in nessuno? – se ne uscì lei.
Avevo lasciato a lei la possibilità di selezionare quali domande fare, da dove iniziare, e in alcuni casi avevano coinciso con quelle che avrei voluto farle io. Ovviamente non questa tipicamente femminile.
Sapevo con la massima certezza che entrambi avevamo un oceano di cose da dirci, e i discorsi saltavano da un argomento all’altro con balzi più o meno ampi; per fortuna questo oceano, non era stato nuovamente un oceano di lacrime da non poter contenere. Ero ancora scosso dall’ultima volta che avevo pianto, mi sembrava ieri. Non riesco ancora a immaginare cosa sia piangere tutti i giorni.
 
- In alcuni si, ma non ho comprato moltissimo. Ce ne sono parecchi, se riuscirai a farti portare qua, ti comprerò qualcosa; sennò dimmi cosa vuoi che te lo porto io. -
Farle un regalo era il minimo, con amarezza pensai che sarebbe stato opportuno averglielo portato ora. Ma altrettanto opportuno non era stato discolparsi con ‘dimmi cosa vuoi’, io sapevo benissimo cosa le piacesse. Menomale avevo la busta.
- Verrò, i negozi sono un motivo in più per venirci. –
- E quali sarebbero gli altri? – Non avevo resistito a domandarlo, non ce l’avevo fatta. Mi consolai trovando il lato positivo nel non aver resistito alla domanda, e non ad altro.
- Te, e poi niente. -  Non seppi interpretare il tono della sua voce. Malinconico, nostalgico, dolce, rassegnato, scocciato; fu quello che dedussi, ma non me ne curai. Sorrisi, avevo sentito proprio quello che volevo le sue labbra tinte di rosso pronunciassero; ma i miei occhi, che ero sicuro mi brillassero e forse anche troppo non si poggiarono su di esse, ma sui suoi occhi, nuovamente. E capii che se li avessi guardati prima non sarebbe stata necessaria la domanda. Allora, guardai di nuovo quegli occhi, cercandoci dell’altro richiesto ed evitando di trasmettere io quello che desideravo vedere in lei. Questo evitare, mi stava riuscendo male, così distolsi a malincuore i miei occhi dai suoi e rimediai con un abbraccio, che non era solo per porre una toppa allo strappo che avevo appena fatto, ma esso aveva il medesimo fine della ricerca precedente. Ripresi il controllo più velocemente possibile, evitando di espandere quello strappo o farne altri, e la lasciai seduta su quella panchina, per non fare altri danni.
 
 
 
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Note dell’autrice.
Non sarebbe migliore se ognuno pensasse al male che si fa da se credendo di farlo agli altri?
Dopo essersene causato abbastanza, o troppo, è impossibile non farlo anche agli altri. Tutti sbagliamo o tutti siamo giusti, è solo una scelta di come considerare, non c’è differenza.
Ci sono certe cose che ingigantiamo, e ci facciamo schiacciare da quel peso abnorme.
Il punto è che a volte soffriamo di più con il pensiero di aver fatto qualcosa a qualcuno che vediamo come un martire, ma è proprio questo qualcuno che ci fa essere succubi e che ci farà il male più acuto e penetrante, che uscirà con la stessa durezza con cui è entrato. Uscirà e porterà via con se alcune cose, quando i ladri entrano in una casa non fanno lo stesso?
Ma una rimarrà, perché è impossibile da portare via, come lo è un soffitto. Il soffitto, copre la casa sulla sommità proteggendola dal l’esterno; così lo fa quella cosa impossibile da togliere, quella che Harry ha tanto terrore di provare e crede che col tempo se ne andrà, così la protegge dall’esterno da quello che sono veramente gli altri, coperto da cemento e tegole.

Non significa che questi altri siano delle “persone disastro”, ma non dico altri, voglio essere precisa, altra. Quello che voglio dire significa solamente che in certi frangenti non farebbe male costruire un lucernaio su quel soffitto, giusto per dare un’occhiata.
 

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