The Music of the Night

di ErikaDanielle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo-It's over now the music of the night ***
Capitolo 2: *** I Fantasmi del Passato ***
Capitolo 3: *** Il Ritorno del Fantasma dell'Opera ***



Capitolo 1
*** Prologo-It's over now the music of the night ***


The Music

of

The Night





 

Prologo
It’s over now the Music of the Night

 
 
“Take the boat
leave me here
never to tell
the secret you know
of the angel in hell...”

 


I mille frammenti degli specchi precipitavano al suolo in una cascata lucente, illuminando la Dimora sul Lago di dardeggianti riverberi.
Lontano, oltre le acque increspate, si sentivano le urla dei gendarmi, i rimbombi delle pistole e il sibilo del fuoco che divorava l’Opèra Populaire.
Ma tutto questo era solo un sussurro inesistente, privo di valore, perché nella mente di Erik continuava ad agitarsi senza sosta l’immagine di Christine che gli rendeva l’anello, che si voltava per l’ultima volta, che se ne andava per sempre con quell’insolente ragazzino...
Che fossero maledetti entrambi!
Il damerino biondo e Christine.
L’aveva abbandonato, tradito, rinnegato. Lui. Lui che le aveva dato tutto, che le aveva insegnato a cantare, che era stato la sua guida per così tanti anni, che le aveva offerto la sua stessa anima.
E ora cos’era rimasto? Cosa?!
Aveva messo a rischio tutto per lei, aveva toccato l’apice della felicità, anche se solo per un istante. Ora non gli restava più niente, nemmeno la dignità.
Che fosse maledetto per aver creduto di poter uscire da quell’oscurità!
Quell’oscurità che era la sua condanna, la sua eterna prigione e che ora sembrava esserglisi avvinghiata ancora più addosso.
A quel pensiero colpì con maggiore forza la lastra scintillante dello specchio.
Le schegge di vetro caddero a terra e si infilzarono come aghi nella sua carne.
Non gli importava.
Anzi, una parte di lui sperava ardentemente che quelle lame taglienti incidessero più a fondo, che gli dilaniassero quel corpo.
Quel dannato corpo!
In fondo era solo colpa sua, colpa di quella mostruosità che si ritrovava addosso. Se solo fosse stato uguale agli altri, se solo avesse potuto mostrarsi agli uomini senza quella maschera, allora avrebbe dimostrato al mondo chi era veramente.
Invece no!
Lui era il mostro, il reietto, il deforme. E chi avrebbe mai potuto amare quell’orrore?
Aveva voglia di urlare, di risorgere dalle tenebre e mostrare al mondo intero la sua disperazione, le sue sofferenze.
Ma a cosa sarebbe servito? Nessuno poteva sentirlo. L’avrebbero deriso, umiliato, disprezzato. Ancora una volta.
Colpì di nuovo lo specchio, con maggiore forza, con tutta la rabbia che gli bruciava dentro, finché non rimase che la cornice dorata e lo sfondo di legno, e poi si accasciò a terra con un singhiozzo soffocato.
Forse era ora di farla finita con quella miserabile vita. In fondo non c’era più nulla che lo tenesse ancora legato al mondo. Niente e nessuno.
Mentre respirava affannosamente si ritrovò a pensare quasi con sollievo all’ignoto della morte, all’annullamento di ogni singolo ricordo.
Non aveva mai creduto in Dio – e come avrebbe potuto farlo – ma forse era meglio così. In questo modo di lui non sarebbe rimasto più nulla, lo avrebbero...
Ma a quel punto i suoi pensieri si bloccarono.
Lontano, oltre le acque del Lago, sentì ancora i passi e le voci agitate dei gendarmi. Si stavano avvicinando, presto lo avrebbero trovato. E ucciso.
Ma no, no! Non poteva morire così, non ora.
Le mani gli tremarono dalla furia e dall’agitazione e come se una forza invisibile si fosse impossessata di lui spalancò gli occhi chiari e balzò in piedi.
Non aveva perso tutto, no, restava ancora una soddisfazione, un compito da portare a termine prima di farla veramente finita.
“Vendetta...” pronunciò quella parola come se si trattasse di un profumo inebriante e subito dopo gli angoli della sua bocca si piegarono in un ghigno diabolico.
Si sarebbe vendicato.
Non c’era nulla di malvagio in quella decisione, in fondo si trattava solamente di restituire ciò che il mondo gli aveva gentilmente donato.
Barcollò in avanti, come ubriaco, e si inoltrò a fatica nello stretto corridoio buio che lo avrebbe portato fuori da quell’odiosa catacomba, da quel teatro in fiamme, finché i suoi passi si estinsero nell’oscurità e la sua stessa ombra venne ingoiata dal cunicolo.
Quel giorno la musica della notte era sparita per sempre, l’Angelo della Musica era morto.
Ma il Fantasma...
Oh, il Fantasma non era mai stato più vivo di allora.
 

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Capitolo 2
*** I Fantasmi del Passato ***


Capitolo 1

I Fantasmi del Passato
Quattro anni dopo
 
 
Quell’anno l’inverno era giunto in fretta, più di quanto chiunque si aspettasse. Per giorni Parigi era stata sommersa da un vento gelido. L’acqua si era ghiacciata, le carrozze erano arrancate con fatica sotto le sferzate d’aria fredda e i Parigini erano stati costretti ad imbottirsi in enormi pellicce e scialli di pregiata lana.
Nessuno, neppure la giovane e allegra Meg e sua madre, era preparato ad un clima tanto insolito. A quel cielo nero che da innumerevoli giorni oscurava il sole e a quel vento secco, impetuoso e spietato, che alzava le gonne e portava via i cappelli degli incauti che si arrischiavano ad uscire anche solo per una passeggiata.
Nonostante il tempo pessimo, infatti, sembrava che Parigi non avesse mai conosciuto un traffico tanto intenso come quello che si verificava in quei giorni. Era un via vai continuo di persone, mezzi, cavalli, gendarmi che dispensavano consigli inutili ai cittadini e operai che tentavano di riparare i danni causati dal vento.
A tutta questa gente, poi, si aggiungeva anche la moltitudine impressionante di aristocratici, borghesi, musicisti e amanti d’arte che intendevano partecipare all’inaugurazione dell’Opèra Populaire della settimana successiva.
Richard Firmin e Gilles Andrè, infatti, avevano finalmente ultimato la ristrutturazione della loro Opèra e dopo quattro anni di abbandono e disfacimento la grandiosa Accademia della Musica sarebbe di nuovo tornata a splendere.
O almeno questo era ciò che Firmin aveva proclamato durante una festa in suo onore tenuta proprio qualche giorno prima in Rue Auber.
Quella sera, tuttavia, al contrario delle precedenti, non c’era nessuno in giro per Parigi e il vento freddo che aveva soffiato per tutto il giorno si era acquietato, lasciando il posto ad una insidiosa brezza invernale.
Dalla volta bianchissima del cielo cominciavano a cadere lenti fiocchi di neve che volteggiavano e planavano sulle strade deserte.
La ragazza avvolta nel pesante mantello nero come la notte camminava piano, quasi quanto la soffice neve e a tratti si guardava preoccupata alle spalle come se temesse di scorgere qualcuno. Ma quella notte non c’era anima viva in tutta Parigi e la città francese giaceva sepolta sotto l’attutito silenzio della prima nevicata dell’anno.
Lei, invece, ancora non riusciva a credere di essere arrivata tanto in fretta nella grande capitale e i suoi occhi continuavano a spostarsi da un palazzo signorile all’altro, pieni di meraviglia e sbigottimento.
Nell’ultima stalla abbandonata in cui si era rifugiata aveva pensato di avere davanti a sé  almeno un’altra settimana di viaggio prima di raggiungere la meta. Poi, però, era giunto l’inatteso e quanto mai straordinario colpo di fortuna. Se così lo si poteva chiamare, visto che inizialmente l’aveva considerato l’ennesima brutta sorpresa del destino.
Era appena uscita dalla stalla che costituiva il suo fortuito riparo e stava già raccogliendo le poche cose che possedeva per riprendere il viaggio, quando aveva sentito un gran trambusto, seguito da urla e dal nitrire spaventato di un cavallo.
Di solito non amava immischiarsi nelle zuffe o nei litigi in generale, perché aveva imparato a proprie spese che questo comportava solo altri guai, ma in quell’istante si era sentita colta così di sorpresa da non poter evitare di precipitarsi sulla strada.
Quello che aveva visto, però, le aveva fatto rimpiangere la sua avventatezza.
Una carrozza era ferma a qualche metro di distanza, sul ciglio del sentiero, ma non si poteva certo dire che si trattasse di una sosta programmata. I due giovani e apparentemente ricchi viaggiatori, un uomo e una donna, erano stati legati insieme al cocchiere alle ruote della diligenza e quattro banditi dal viso coperto discutevano animatamente su cosa rubare e cosa lasciare ai malcapitati.
Non era di certo una bella situazione e lei non aveva alcuna intenzione di piombarci dentro. Perciò indietreggiò lentamente, soppesando fra sé le strade alternative per raggiungere Parigi, ma ancor prima che avesse compiuto qualche passo uno dei due nobili assaliti la vide e lanciò uno strillo spaventato.
“Dannazione” pensò fra sé serrando i denti.
Non era la prima volta che qualcuno la scambiava per una malintenzionata e il mantello color pece che le copriva il volto non contribuiva certo a dare agli altri un’idea migliore di sé. Ma quella semplice esclamazione l’aveva appena gettata in un incubo. L’ennesimo scherzo del destino.
Vide i briganti voltarsi contemporaneamente verso di lei e trattenne a stento un’imprecazione. Non sarebbe stata di certo la mossa migliore nella sua situazione.
Intanto la sua mente tentava disperatamente di elaborare una via di fuga. Ma anche se avesse cominciato a correre in quell’esatto istante non sarebbe mai riuscita a scappare da quegli uomini agili e scattanti, abituati all’inseguimento, e la possibilità che la lasciassero in pace sembrava quanto mai remota.
Non aveva via di scampo.
- Che ci fai qui, Denise? È accaduto qualcosa al campo? – le domandò all’improvviso uno dei briganti, scrutandola perplesso.
Ma lei era ancora più confusa dell’uomo.
Denise? Si riferiva a lei il brigante?
L’aveva sicuramente scambiata per qualcun’altro, e non era certa che fosse un male.
Avrebbe potuto stare al gioco, rassicurarlo e andarsene lentamente, oppure aiutarli nel loro saccheggio per chiedere qualcosa in cambio. Era quello che faceva di solito. La vita le aveva insegnato in fretta a pensare prima di tutto a sé stessa, anche se l’egoismo era uno di quegli atteggiamenti che detestava maggiormente negli altri. Ma qui non si trattava solo di ego, era la legge dura della vita, i più forti vincevano, i più deboli soccombevano e lei non poteva permettersi di fare l’altruista.
Qualcosa, però, la fece tentennare dal suo proposito, e gettò un rapido sguardo ai viaggiatori imbavagliati alla vettura e subito dopo al brigante che attendeva una sua risposta.
Agì d’istinto, senza sapere neppure lei cosa stesse veramente facendo.
- Stanno arrivando i gendarmi! – singhiozzò recitando la sua parte di “Denise” in un modo che avrebbe fatto invidia anche ad un’attrice dell’Opéra – Sono arrivata fin qui di corsa, ma loro avevano anche i cavalli. Saranno qui a minuti... – continuò, e per dare credibilità alla sua voce aggiunse un respiro affrettato come se avesse effettivamente il fiatone.
I briganti rimasero zitti un lunghissimo istante, tanto che lei temette di essersi tradita da sola, poi la voce dell’uomo che le aveva rivolto la parola tuonò da sopra la carrozza.
- Avete sentito, imbecilli? Lasciate tutto, andiamocene!
E obbedendo a quello che doveva essere il loro capo i briganti si sparpagliarono nella campagna circostante fino a scomparire del tutto.
Lei sospirò di sollievo e avvicinandosi al cocchiere lo slegò con un gesto teatrale, sotto gli occhi allibiti e sospettosi dei due nobili.
- Siete liberi, signori. Quei briganti devono avermi scambiato per qualcuno della loro compagnia...
La giovane donna, che doveva essere la moglie dell’uomo biondo al suo fianco, la scrutò sorpresa e forse anche sollevata.
- Non siete un brigante? – le chiese con una voce soave mentre il marito l’aiutava ad alzarsi.
Lei scosse la testa.
- No, Madame. Sono solo una viandante capitata qui per caso e...
- E per nostra fortuna! – esclamò il giovane sorridendole – Altrimenti ce la saremo vista molto brutta...
- Se permettete un parere Monsieur – cominciò lei incoraggiata da quella gentilezza – La gente di queste campagne è ancora scossa da gli ultimi disordini politici e molte persone sono state costrette dall’eccessiva povertà a commettere...
- Oh, sì certo! – la interruppe il nobile sbrigativo – Ma voi meritate di essere ricompensata per il vostro provvidenziale aiuto. Vi darò del denaro, o dei gioielli, quello che voi preferite!
Improvvisamente la simpatia che aveva nutrito per quei due giovani scomparve e d’istinto cercò di nascondere ulteriormente il volto nel cappuccio nero che indossava.
Quell’uomo pensava davvero che lei avrebbe anche solo accettato di sentir parlare di carità? Che potesse avere una totale mancanza di dignità personale?
Lei che in tutta la sua vita si era sempre guadagnata ciò di cui aveva bisogno, che non si era mai abbassata al livello di chiedere soldi alla gente? E quel damerino cucito nel suo abito elegante osava farle l’elemosina?
Non l’avrebbe permesso. Mai. Aveva ancora abbastanza orgoglio da rifiutare una simile proposta che, a suo parere, era praticamente un’offesa personale.
- Non ho bisogno di niente, Monsieur – sibilò con quanta più educazione riusciva ad esprimere – Vi auguro una buona giornata.
E con un lieve cenno del capo fece per allontanarsi, ma la donna dalla voce soave la trattenne per un braccio.
- Aspettate – le disse in un modo tanto premuroso da sembrare ansiosa – non volevamo arrecarvi offesa in alcun modo e se lo abbiamo fatto vi prego di accettare le nostre più sentite scuse: Cercavamo soltanto di ricompensarvi in qualche maniera.
- Non ho bisogno della carità, Madame. – esclamò lei piccata.
Cosa faceva ancora là? Doveva riprendere subito il viaggio, altrimenti avrebbe sprecato un intero giorno di cammino e non avrebbe trovato alcun rifugio per la notte.
- Avete assolutamente ragione! Ci siamo sbagliati e vi rinnoviamo le nostre scuse. Ma se potessimo aiutarvi in un qualche modo... Ci avete salvato la vita dopotutto e sembrate molto sola... Se avete bisogno di qualcosa, di qualunque cosa, non esitate a dircelo, perché saremo estremamente lieti di farvi del bene...
C’era una nota incredibilmente premurosa nella voce della giovane e nel suo modo di scusarsi e offrirle il suo aiuto. Come se le stesse veramente a cuore la sua felicità e si sentisse impaziente di alleviare i suoi turbamenti, per quanto le fosse possibile.
Infondo aveva detto “qualsiasi cosa” e a lei avrebbe fatto comodo un passaggio in carrozza.
I suoi piedi erano doloranti per il continuo camminare degli ultimi giorni e la sua testa sfinita dalle numerose ore insonni. Non era poi così semplice dormire su un suolo ghiacciato dal gelo, senza una coperta e un tetto meno precario di una stalla.
Inoltre era da parecchio che non metteva niente di consistente sotto i denti e la fame cominciava a farsi sentire.
Almeno per quella volta era il caso di mettere da parte il suo ingombrante orgoglio e decidersi a chiedere aiuto a quei giovani viaggiatori, che infondo sembravano non aspettare altro che darle una mano.
- Una cosa ci sarebbe forse – mormorò vergognandosi immensamente per la richiesta e promettendosi di chiedere solo il minimo indispensabile – Io sto andando a Parigi e...
Ma prima che potesse esporre il suo problema la ragazza la interruppe con una esclamazione di gioia.
- A Parigi?! Hai sentito, Raul?! Anche noi stiamo andando lì. Che fortunata coincidenza! – esclamò, di colpo estremamente allegra.
Aveva avuto un cambiamento di espressione così improvviso che lei abbozzò qualche passo indietro, più confusa che intimorita.
- Potete venire con noi. – continuò quella – Vero che può venire con noi? – domandò al giovane battendo le mani, entusiasta come una bambina.
Suo marito sorrise ad entrambe e poi si rivolse a lei, che era rimasta immobile a guardarli.
- Ma certo, Mademoiselle... come vi chiamate?
Lei fece uno strano sorriso a quella domanda e inclinò la testa.
- Potete chiamarmi Sarah.
 


Il sole era da poco calato all’orizzonte e il vento freddo trasportava raffiche di neve bianca sulle strade e sui palazzi dall’aspetto antico e solenne.
Quella neve soffice, fredda, che si scioglieva non appena toccava il suolo e sembrava illuminare la notte di un chiarore accecante le ricordava altri momenti, altri luoghi, altre emozioni che aveva da tempo celato dentro di sé. Eppure le era bastato rivedere la facciata di Parigi, respirare di nuovo quell’aria satura di energia e mondanità per vedere gli argini che si era fissata nella mente crollare in pezzi e la marea dei ricordi travolgerla come un’onda.
Aveva cercato inutilmente di dimenticare, ma non era servito a nulla. Anzi, aveva l’impressione che più tentava di farlo e più quelle immagini si scolpivano nella sua testa. Così alla fine aveva smesso di provarci e il suo cuore aveva capito che quel passato sarebbe vissuto per sempre dentro di lei. E l’aveva accettato, forse proprio perché ormai faceva parte di lei.
E per quanto la sua mente continuasse a rifuggirne non aveva potuto rifiutare a Raul di tornare a Parigi. Infondo era lì che si trovava la famiglia di suo marito, ed era lì che lui aveva la sua reputazione e la sua vita sociale.
Quando era divenuta la viscontessa De Chagny aveva inconsapevolmente accettato tutto questo, compresi quei vincoli che la sua nuova posizione le imponeva e che lei detestava con tutta sé stessa. Come quello di non cantare. Mai più.
Eppure ora era così vicina a quella che era stata la sua casa per così tanto tempo, tanto vicina che dal balcone dell’albergo in cui alloggiavano lei e Raul poteva vederne la sommità. Certo, era leggermente diversa da quella che aveva conosciuto, perché la ricostruzione aveva necessitato anche alcune modifiche, ma lei l’avrebbe riconosciuta fra mille.
L’Opèra Populaire. In tutta la sua imponente grandezza.
Non poteva negare che spesso i suoi sogni avevano indugiato su quel luogo, che non era stato solo teatro di orribili vicende, ma anche l’amabile culla in cui per anni era cresciuta.
E ora era così vicina, così a portata di mano...
Sarebbe stata davvero una grave colpa andarci un’ultima volta? Anche soltanto per dire addio ai suoi amati ambienti?
No, non lo era. E se avesse prestato particolare attenzione Raul non se ne sarebbe mai accorto. Forse poteva chiedere aiuto a Meg...
Le sembrava un piano così allettante e innocuo...
Sì, lo avrebbe fatto. E finalmente avrebbe potuto liberarsi da quei ricordi che la assillavano da tanto tempo e vivere senza rimpianti la vita che aveva così ardentemente desiderato.
Christine Daée avrebbe affrontato i fantasmi del suo passato una volta per tutte.
 


Meg Giry attraversò di corsa l’incrocio fra le due strade principali e superò un passante infagottato nel suo mantello nero mentre la neve cominciava a cadere e l’oscurità piombava sopra la città come una scure.
Non era bene per una ragazza della sua età passeggiare da sola per Parigi di notte, ma lei non aveva molta scelta.
Da quando era stata annunciata la riapertura dell’Opèra le prove per ballerine, cantanti e attori si erano intensificate, e visto che non potevano ancora esercitarsi nel teatro stesso Monsieur Firmin aveva affittato un palazzo decadente dall’altro lato della città che sarebbe servito allo scopo.
Si trattava di un edificio piccolo e angusto, troppo vicino a Montmartre per i suoi gusti e decisamente lontano dalla casa in cui abitava.
Ma non poteva farci nulla. Se voleva continuare la sua carriera di ballerina dell’Opèra doveva necessariamente partecipare alle prove e prepararsi al meglio per l’imminente rappresentazione.
“Ormai non manca molto”, si disse mentre passava davanti alla famigliare facciata dell’Accademia della Musica.
Ed era vero. Mancava soltanto una settimana alla riapertura dell’Opèra Populaire di Parigi e nell’atrio immenso del teatro campeggiavano già le locandine del “Faust” per il venerdì successivo. A quanto aveva sentito dire dalle altre ballerine i biglietti per lo spettacolo erano andati a ruba e tutti, in città, sembravano ansiosi di rimettere piede all’Opèra.
Cosa che invece lei trovava incomprensibile. Detestava l’Accademia della Musica con tutta sé stessa, e se non fosse stata per la sua passione in fatto di danza l’avrebbe abbandonata già da un pezzo.
Sentiva, e a quanto ricordasse aveva sempre sentito, che c’era qualcosa di incredibilmente malvagio e doloroso in quella struttura marmorea, oscura e insidiosa come un labirinto. E dopo ciò che era accaduto alle persone che le erano più care non poteva dire di essersi sbagliata. La notte di appena quattro anni fa aveva visto il suo mondo di ragazzina crollarle addosso e si era ritrovata costretta a fare il passo successivo, a diventare un’adulta con tutte le responsabilità e i doveri che questa situazione comportava.
E non si trattava solo del fatto che Christine fosse fuggita insieme al giovane visconte e che da ormai quattro anni non avesse più sue notizie. C’era anche la storia di sua madre.
Madame Giry era sempre stata una donna forte, con la testa sulle spalle e la capacità di gestire con fermezza anche le situazioni più critiche. Ma dal giorno della tragedia anche quello era cambiato.
Improvvisamente era diventata incapace di fare qualsiasi cosa, e da quando aveva lasciato il posto di insegnante di danza a quella  ingenua e sciocca ragazza che era Mademoiselle Sorelli passava le sue giornate a fissare il paesaggio da una finestra del palazzo dove abitavano lei e la figlia.
Nessuno sapeva dire cosa le fosse capitato. Né i medici incipriati, né le domestiche fin troppo premurose, e Meg, che era l’unica ad averne una mezza idea, si era vista bene dal dirla in giro e aveva accettato passivamente la situazione.
D’altronde, la leggenda del Fantasma dell’Opèra non era qualcosa che si potesse raccontare a chiunque, e pure lei, che aveva vissuto la vicenda di tre anni prima come protagonista, faticava a crederci.
Non era semplicemente possibile che il fantasma delle storie che le avevano narrato fin da quando era bambina esistesse seriamente. Sarebbe stato come ammettere che anche i personaggi delle fiabe e dei detti popolari fossero reali.
Eppure aveva visto con i suoi stessi occhi l’essere che si nascondeva nei sotterranei dell’Opèra, e aveva visto anche il lago, l’organo sulla riva, gli specchi rotti e la maschera. Ci doveva pur essere un motivo se sua madre si era ridotta in quello stato catatonico.
E il motivo lo conosceva bene.
Sua madre sapeva. Questa era la verità. Madame Giry aveva sempre saputo del fantasma e di quello che era successo a Christine. Meg era l’unica che per anni era rimasta all’oscuro di tutto, e anche ora, anni dopo la tremenda vicenda, ne sapeva poco più di prima.
Ma non osava chiedere nulla a sua madre. L’ultima volta che aveva menzionato Christine e la tragedia,  la donna aveva avuto un attacco di isteria che non si sarebbe mai scordata. E poi, in fin dei conti, si era anche rassegnata a quell’ignoranza.
Allora perché ora tutti quei dubbi e ricordi avevano ripreso ad assillarla?
Forse era semplicemente il fatto che presto avrebbe dovuto rimettere piede in quel labirinto che era l’Opèra Populaire. O forse, invece, era una sensazione strana e allarmante, una voce che continuava a sussurrarle che la vicenda del fantasma non era per nulla conclusa. Anzi, era solo al prologo.
 


Quando Meg giunse a casa trovò Charlotte, la badante di sua madre, che la aspettava con ansia all’ingresso.
- Charlotte! – la salutò entrando nell’atrio e togliendosi velocemente il soprabito – Perché sei qui?
La vecchia donna si torse le mani con fare nervoso – Mademoiselle io...
Un terribile presentimento serrò la gola della ragazza.
- Parla Charlotte, cos’è accaduto? Qualcosa a maman, vero?
La badante annuì con fare colpevole e Meg sentì il cuore balzarle nel petto.
- Madame se ne stava tranquilla nella sua stanza come il solito, e io ho pensato di scendere a farle quella tisana ai gelsomini che le piace tanto...Ma quando sono salita di nuovo...
- Cosa? – mormorò Meg senza voce dalla tensione che le serrava lo stomaco.
-...non so cosa sia accaduto, Mademoiselle...ma ora, ecco...Madame chiede di voi urgentemente.
Cosa? Aveva sentito bene? Sua madre chiedeva di lei dopo anni di totale silenzio?
- Oh – balbettò irrequieta – vado subito da lei...
Corse più veloce che poteva su per le scale e socchiuse la porta alla sua destra.
Maman era lì, seduta sulla vecchia poltrona di suo padre, la testa rivolta verso la finestra spalancata, le cui ante sbattevano al vento e alla neve.
Avrebbe dovuto sgridare Charlotte per l’ennesima volta. Perché, nonostante le sue raccomandazioni, aveva lasciato di nuovo la finestra aperta?
Si avvicinò alle ante di vetro e spiò di sottecchi l’espressione di sua madre.
- Chiudo le imposte, Maman, avrai freddo.
- Fai pure – mormorò Madame Giry in tono vago, come se ritenesse le sue parole qualcosa di irrilevante – Tanto lui è già uscito.
Meg lasciò perdere all’istante le finestre e per poco non inciampò sui suoi stessi piedi.
- Uscito, Maman?? Chi è uscito? – balbettò confusa e spaventata.
Ma l’espressione di Madame Giry era tornata quella di un tempo, quella enigmatica e incomprensibile che conosceva anche troppo bene.
- Vai a prendermi il mantello e il bastone, Meg. Devo fare una visita ai nostri cari impresari dell’Opèra...ora.
 


Sarah camminava lenta in mezzo al brulicare incessante di neve e scrutava sorpresa e intimorita l’ampio viale di palazzi signorili. Non aveva mai visto nulla di simile. Anzi, in realtà non era mai stata in una città tanto grande e moderna in vita sua. Tanto meno a Parigi. Qui ogni cosa sembrava gigante, solenne e austera. Le finestre sigillate dei palazzi, la strada larga e dritta che stava percorrendo, perfino il vento che aveva ripreso a soffiare.
L’unica cosa che l’aveva lasciata sbalordita era la totale assenza di persone. Aveva sempre sentito descrivere Parigi come il centro degli incontri mondati e della gente, ma ora dove erano tutti?
Subito dopo, però, si diede la risposta da sola.
I nobili non andavano di certo a passeggio in una tormenta di neve, come invece stava facendo lei.
L’unica persona che aveva incontrato era stata una giovane ragazza bionda che le era passata di fianco, imbottita nel suo soprabito caldo e confortante.
A quel pensiero cercò di stringersi ulteriormente nella mantella nera, ma senza risultati. Le sembrava che il freddo le fosse entrato nella carne come un ago e che ora scavasse sotto pelle.
Ma era solo una stupida impressione, e mentre una raffica di vento travolgeva il viale e il suo corpo, affrettò il cammino, passandosi la lingua sulle labbra viola.
Tuttavia  non fece in tempo a fare molti passi che vide una carrozza di gendarmi venirle incontro, trainata da due grossi cavalli neri.
Si nascose in fretta nell’ombra di un palazzo vecchio e attese immobile fin quando la vettura scomparve in mezzo alla neve e all’oscurità.
Non c’era motivo per il quale avrebbe dovuto essere tanto preoccupata che la vedessero, ma era passato solo un anno dagli ultimi disordini e probabilmente la polizia sarebbe stata più sospettosa del solito.
E lei non aveva intenzione di rispondere a domande sul suo conto.
Si passò una mano sul viso cercando di risvegliarsi e decise di allontanarsi dalla strada principale, dove chiunque avrebbe potuto accorgersi della sua presenza.
Il vicolo che aveva imboccato era stretto  e umido, fra le pareti gocciolanti di due edifici enormi e riusciva a malapena a scorgere la striscia di cielo sopra la sua testa.
Per un attimo fu tentata di tornare indietro. Perché diavolo si era infilata in quel buco tetro e isolato? Poteva esserci qualche malintenzionato che...
Ma prima che potesse girare sui tacchi e andarsene intravide qualcosa  di grosso che ostruiva il passaggio davanti a lei.
L’oscurità era talmente fitta che ci mise qualche istante a mettere a fuoco l’oggetto, e di colpo la voglia di fuggire scomparve.
Era una giovane donna vestita di stracci con una bambina piccola fra le braccia. Sembrava che entrambe stessero morendo di freddo e Sarah sentì un nodo di commozione e pietà serrarle la gola.
Si avvicinò cautamente per evitare di spaventarle e quando fu a qualche passo vide la donna sollevare la testa e sorridere stancamente.
- Ehi, Marie – mormorò la donna alla bambina – guarda chi è venuto a trovarci...
- State bene? – le domandò Sarah avvicinandosi ulteriormente. La risposta era ovvia. Non stavano affatto bene e la bambina non piangeva neppure più.
“È un brutto segno” pensò la ragazza grazie a quel poco che sapeva sui bambini.
La donna, però, scosse le spalle con un sorriso mesto.
- Stiamo come possiamo permetterci. Cioè come tutti qui...
Sarah continuò a scrutarla e di colpo si rese conto che doveva fare qualcosa per loro, anche se poco, anche se non sarebbe servito a niente.
- Volete che vi dia il mio mantello? – domandò cautamente, cercando di non far sembrare quel gesto un atto di carità – Forse non basterà per proteggere entrambe, ma riparerà la bambina dal freddo.
La donna alzò gli occhi di scatto e la  guardò perplessa.
- E voi? – chiese – Se rinunciate al mantello morirete anche voi...
- Oh no... – mormorò lei in risposta con un sorriso – Ne ho un altro nella sacca, mi basterà quello.
La donna ora la guardava di nuovo, ma questa volta Sarah intravide solo lacrime di gratitudine.
- Grazie, grazie...- mormorò infatti stringendo la bambina a sé.
Lei si tolse la mantella lentamente e la porse con gentilezza alla donna, ma come si aspettava lei era rimasta a fissarle il volto con gli occhi spalancati.
Sapeva esattamente perché la donna la stesse guardando il quel modo e non l’avrebbe biasimata se avesse deciso di rifiutare il suo dono.
Al contrario di quello che pensava, però, la donna afferrò la stoffa calda del mantello e vi avvolse la piccola.
- Grazie... – mormorò ancora nella sua direzione.
- Di nulla. – sussurrò Sarah indietreggiando nel buio e allontanandosi lentamente, con le braccia che le tremavano dal freddo – Mi sapete dire dove si trova l’Opèra Populaire?
La donna annuì e le indicò la strada davanti a loro.
- Girate a destra e poi andate sempre dritto. Vi ritroverete proprio sotto la facciata principale del teatro.
Sarah la ringraziò con un cenno del capo e le voltò le spalle, ma nell’esatto istante in cui lo fece sentì la bambina svegliarsi e chiedere qualcosa alla madre.
- Chi è quella signora, maman? – domandò la sua vocina impacciata e curiosa.
Lei affrettò il passo e girò l’angolo, desiderando con tutta sé stessa di non sentire la risposta, ma mentre lo faceva la voce della donna le giunse alle orecchie trasportata dal vento.
- Un angelo, Marie. Un bellissimo angelo venuto ad aiutarci...
Sorrise mestamente a quelle parole, ma subito dopo pensò di essersele solo immaginate.
Parigi sembrava un deserto bianco e l’unico rumore attorno a lei era il sussurro della neve che planava ovunque.
Si mosse in quell’oscurità, seguendo la strada che la giovane le aveva indicato e rabbrividì ancora di freddo. La notte ora sembrava più buia e all’improvviso ci fu uno sfarfallio sfocato dietro di lei.
Una figura nera sbucò dalla voragine scura che era la strada e la sorpassò di corsa, sbattendole contro e svanendo più avanti nell’ombra di alcuni palazzi bianchi.
Prima che potesse accorgersi di ciò che era accaduto, però, la sagoma era già scomparsa e l’unica cosa che era riuscita a scorgere era un volto che la fissava sorpreso e qualcosa di bianco, sulla parte destra di quel volto.
Si guardò attorno perplessa e spaventata, ma ora c’era di nuovo soltanto la neve e la notte e lei riprese a camminare, guardandosi ogni tanto alle spalle.
La sua mente elaborò perplessa ciò che aveva visto.
Cos’era? Un uomo?  Sì, le era sembrato un uomo. E la cosa bianca che aveva intravisto?
Ma prima che potesse rispondere alle sue stesse domande il vicolo terminò e lei si immobilizzò quando vide ciò che c’era oltre.
L’Opèra Populaire, in tutto il suo enorme splendore.
Colonne su colonne, con gigantesche locandine colorate e il fregio di marmo simile a quello dei templi romani.
Era molto più grande di quanto si fosse immaginata. E straordinariamente più bella.
Trattenne il fiato e si avvicinò lentamente per assaporare ogni minuscolo particolare.
Sull’ingresso principale accanto alla pubblicità del “Faust” c’era un enorme cartello dove si avvisava che la riapertura era prevista per la prossima settimana e guardando molto più in alto scorse le famose parole in rilievo nel marmo:
ACCADEMIA NAZIONALE DELLA MUSICA
“Ci sono Maman, ce l’ho fatta...” pensò con le lacrime agli occhi dalla gioia stringendo il ciondolo che portava al collo.
Allo stesso tempo però, una pressante agitazione le stava crescendo in petto. Ora che aveva raggiunto la sua meta doveva trovare un posto dove riposare in pace.
Dormire all’aperto  in quella tormenta di neve era impensabile, così aggirò la facciata principale dell’Opèra e si incamminò in una strada stretta che costeggiava le pareti laterali dell’edificio.
“Rue  Scribe” lesse in alto e procedette con lentezza osservando con attenzione la facciata del teatro.
Doveva pur esserci un’entrata posteriore o qualcosa del genere.
Infatti, qualche metro più avanti, distinse una vetrata al piano terra, che cigolava da sola. Si avvicinò e la socchiuse guardando dentro. Era una piccola cappella tetra, probabilmente a disposizione del personale dell’Opèra, ma a giudicare dalle ragnatele nessuno vi metteva piede da un paio d’anni.
Scivolò all’interno e scrutò quasi con timore la gigantesca vetrata di un angelo davanti a lei. C’era qualcosa di severo e intransigente nel volto del celeste raffigurato tanto bene. Ma lei era stanca, e pensò che dopotutto l’angelo non le avrebbe impedito di dormire là per una notte soltanto.
Si accasciò in un angolo e tirò fuori con fatica dalla sua sacca un pezzo di pane vecchio e la mantella color vermiglio.
Era appartenuta a sua madre, ed era vecchia e sfrangiata ormai, ma se l’avvolse lo stesso attorno al corpo e immediatamente si sentì meglio.
Percepiva  ancora il vento e la neve, oltre la finestra e chiuse gli occhi cullata da quei suoni diventati familiari.
Da qualche parte nell’Accademia della Musica ci fu uno sciabordio di acqua, lo squittio irritato di un topo, ancora il suono del vento e lei si addormentò di colpo, senza neppure accorgersene.
Era giunta a Parigi, aveva trovato l’Opèra Populaire, il resto non contava. Le cose si sarebbero sistemate in qualche modo e i fantasmi del suo passato sarebbero scomparsi per sempre. In mezzo al mormorio nebuloso della neve.

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Capitolo 3
*** Il Ritorno del Fantasma dell'Opera ***


Capitolo 2

Il ritorno del Fantasma dell’Opèra
 
 
 
Sarah sognava un ricordo ormai dimenticato. Disperso nel sovrapporsi incessante di migliaia di altri ricordi che appartenevano al passato e che ora venivano vomitati in superficie dalla mente assetata di sogni.

 
La distesa di betulle e abeti odorosi la circondava in modo familiare, eppure il suo cuore era inquieto.
Il sopraggiungere della notte l’aveva colta alla sprovvista, come un soffio di vento che strappa un cappello di paglia, come l’arrivo improvviso di un temporale.
Avrebbe dovuto avvertire da un pezzo che l’oscurità si stava infittendo, nel declinare implacabile del sole, nella brezza crudele che si era alzata da un poco, nel freddo palpitare delle prime stelle all’orizzonte. Ma cosa ne sapeva lei dell’alternarsi del buio e della luce? Cosa ne sapeva del gelo feroce che le intirizziva la pelle?
Nulla. Era solo una bambina di cinque anni. Viveva alla giornata, spesso rinchiusa al Palazzo, circondata da ragazzi e fanciulle che esigevano sempre qualcosa e si divertivano a tormentarla.
Lei non sapeva nulla di quello che c’era fuori. Di quello che la vecchia Marie definiva il grande inferno.
 Inferno. Anche quella era una parola che non conosceva. L’aveva spesso sentita pronunciare dagli adulti, in riferimento a lei o a sua mamma, ma non ne aveva mai compreso il significato. Era una cosa brutta. Di questo era certa. Tutto quello che dicevano rivolto a lei era brutto, per il semplice fatto che era una bambina brutta. O almeno questo era ciò che Madame le diceva sempre.
Mentre scrutava spaventata il bosco silenzioso e la notte nera senza luna, pensò che anche quel posto era molto brutto.
Le betulle che di giorno le ricordavano leggiadre ballerine ora sembravano solo spettri con gli artigli protesi verso di lei e strani scricchiolii e ululati si sollevavano da dove prima proveniva solo il canto degli uccellini.
Sarah strinse con forza il cestino di vimini pieno di fiori che teneva fra le mani e chiuse gli occhi d’istinto, come se sperasse di veder sparire tutto il paesaggio.
Ma quando li riaprì il bosco brutto e gli scricchiolii spaventosi erano ancora al loro posto e il cestino sembrava ancora più pesante. Le vennero quasi le lacrime agli occhi. Anche i fiori che aveva raccolto con tanta gioia ora erano diventati improvvisamente orribili. Appassiti e pesanti. Le sue braccia piccole e sottili si tesero dallo sforzo di sollevare il cestino, ma Sarah non pensò neanche per un istante di lasciarlo cadere. Se lo avesse fatto Madame le avrebbe di nuovo detto che oltre ad essere brutta era anche cattiva e per punizione l’avrebbero picchiata e rinchiusa nei sotterranei.  Quelli sì che erano brutti. Neri, sporchi, con tutti quei mostriciattoli grigi e pelosi che la terrorizzavano. Topi.
No, non voleva finire di nuovo nei sotterranei, non voleva essere chiamata ancora bambina cattiva, perciò strinse con ancora più forza il cesto pieno di fiori orribili.
Anche cattiva era una parola che non aveva mai capito appieno. Una volta Marie le aveva spiegato che chi commette cose sbagliate e ingiuste, che possono ferire le altre persone è cattivo. Ma Sarah aveva notato che la parola “cattiva” veniva associata solo ad una che era anche “brutta”. I figli di Madame, per quanto male le facessero quando la picchiavano, non venivano mai definiti malvagi, mentre il vecchio cane di famiglia, storpio e cieco, veniva continuamente rimproverato per la sua cattiveria.
Un giorno Madame le aveva gentilmente chiarito la sua perplessità. Il vecchio cane era crudele perché colpevole di essere brutto e di spaventare le persone con la sua deformità.
E lei, in quanto bambina non bella, aveva il terrore di essere definita cattiva. Lasciare cadere il cesto di orridi fiori sarebbe stato un gesto estremamente crudele. Come se avesse  sporcato  l’abitino che la sua sorellastra Genèvre le aveva prestato quella mattina con un sorriso di scherno, raccomandandole di trattarlo con cura.
Ora però era buio, faceva freddo e oltre ad essere stanca Sarah non vedeva dove camminava. Aveva il terrore di inciampare, lasciare cadere il cesto e inzaccherare l’abito di fango. Ma bisognava pur tornare al Palazzo, così la bambina riprese a percorrere il minuscolo sentiero fra i rododendri, mezzo scomparso nell’oscurità.
Pensava ai sotterranei pieni di topi, alla faccia rossa di suo fratello Geremy quando la picchiava, e subito dopo alla torta con le fragole che Marie le avrebbe preparato. Pensava a tutto e a niente scrutando con stanchezza la strada davanti a lei.
Ma non riuscì a percorrere molta di quella strada, perché proprio mentre si stava avviando sentì un fruscio strano alla sua destra e si immobilizzò di colpo. Era come se qualcuno stesse camminando in mezzo al fogliame del sottobosco, e anche se non vedeva niente a causa dell’oscurità, capì che la cosa stava venendo verso di lei. Comprese anche che era un umano. Camminava su due piedi e lei era abituata a riconoscere l’avanzare del vecchio cane da quello dei fratellastri.
- Geremy? – domandò la sua vocina sottile al buio e visto che non otteneva risposta riprovò – Padre?
La spaventava un po’ la possibilità che si trattasse di suo papà, ma cercò di tranquillizzarsi. Forse non voleva scrutarla con rancore come il solito, forse si era accorto della sua assenza ed era venuto a cercarla. Aveva il cesto di fiori in mano e il vestito pulito. Non avrebbe potuto rinchiuderla nei sotterranei.
Ma l’essere che sbucò in mezzo agli abeti non era affatto suo padre e lei gridò con quanto fiato aveva in gola.
Un mostro. Un terribile, orrendo mostro. Di quelli che suo fratello George metteva nei suoi racconti per spaventarla a morte.
Era enorme, bruno, con artigli giganti che brandivano l’aria e il muso affilato che annusava incessantemente. Orso, l’avrebbe chiamato suo padre, gettandole un’occhiata colma di disprezzo.
E l’Orso le stava davanti, avanzando a tentoni verso di lei, le fauci spalancate in un ringhio schiumoso.
Sarah lasciò cadere il cestino e i fiori marci si sparsero per terra, fra lei e la creatura, ma ormai non le importava più. Preferiva i topi all’Orso, preferiva il sotterraneo a quel bosco nero e spaventoso.
Gridò ancora di paura e per un solo istante pensò che qualcuno l’avrebbe sentita, che l’avrebbero salvata. Ma subito dopo l’eco della sua voce si disperse nella notte senza luna, e lei si ritrovò immobilizzata dov’era, incapace di scappare via tanto era il terrore cieco che le invadeva il cuore.
Voleva sua madre. Il suo tenero e caldo abbraccio che ricordava a stento. Invece c’era solo l’Orso, c’era solo il gelo che le schiaffeggiava con crudeltà le guance.
E subito dopo il mostro avanzò ululando, piegò indietro la testa e i suoi enormi artigli fendettero l’aria e precipitarono come pioggia sulla parte sinistra del suo volto, squarciandole la carne morbida.
Sarah urlò con quanto fiato aveva in gola e finalmente le sue gambe si mossero, portandola via da quell’ essere terribile, lontano da quel cesto di vimini che ancora giaceva inerme fra l’erba.
Mentre correva nel buio, la guancia e l’occhio sinistro che bruciavano come un tizzone posato sulla pelle, le lacrime salate che si confondevano con il sangue copioso, sentì i rami rachitici strapparle i vestiti e ciocche dei capelli, e rotolò nell’erba umida che sapeva di orrore.
Poi finalmente il bosco terminò, gli alberi scomparvero e lei si ritrovò a correre nel prato profumato che circondava il Palazzo.
Rovinò a terra, chiudendo gli occhi e piangendo in modo folle, e il dolore la travolse d’un colpo, lasciandola riversa a terra, mezza tramortita dalla paura. L’ultima cosa a cui pensò prima di svenire furono i fiori colorati che ora giacevano nell’oscurità, vicino al mostro, e si sorprese a pensare che quello era il posto giusto per loro.
Brutto e cattivo, esattamente come quegli orribili fiori.
 

Sarah si risvegliò di soprassalto, il cuore che le batteva all’impazzata nel petto e il freddo che le intirizziva la pelle. Ci mise qualche istante a capire dove si trovava.
Non c’era nessun orso, nessun bosco di betulle, nessun cestino pieno di fiori. Non era a casa. Era a Parigi. All’Opèra Populaire.
Con un sospiro fra il sollievo e il contento si alzò in piedi e fece un giro intorno alla tetra cappella per sgranchirsi le gambe. Alla luce limpida dell’alba la vetrata dell’angelo prendeva strani riflessi che prima non aveva notato e accanto ad essa era posato un vecchio piedistallo pieno di mozziconi di candele spente.
Ma tutto quello, in realtà, non attirava affatto la sua attenzione. Si era alzata solo per smorzare l’inquietudine che le aveva afferrato lo stomaco quando aveva rammentato il sogno. Sempre che si potesse chiamare sogno, visto che di sogno non si trattava.
Ricordo. Ecco cos’era.
E mentre lo pensava rabbrividì e toccò istintivamente la parte sinistra del suo volto. Le cicatrici erano ancora lì, testimoni di ciò che era successo tanti anni addietro. Indelebili segni che le scavavano la tempia e la guancia e scendevano fino al mento. Non erano stati abbastanza profondi da farla diventare cieca, ma le erano valse il soprannome di “bambina brutta e cattiva”, sfregiata e mostro.
Con un moto di stizza la ragazza afferrò la mantella di sua madre e la indossò, premendosi il cappuccio rosso sul capo. Voleva dimenticare tutto. E le rincresceva che quei ricordi detestati fossero emersi proprio ora che si accingeva a ricominciare la sua vita, proprio ora che era giunta a Parigi.
Con un singhiozzo inarticolato si accasciò a terra, ma subito dopo balzò di nuovo in piedi e nella livida atmosfera che precedeva il sorgere del sole, avvertì uno scalpiccio affrettato, un rumore sordo che sembrava provenire dalle pareti stesse, come se qualcuno camminasse dentro un muro.
Per un attimo rimase immobilizzata, senza sapere cosa fare, poi il panico la travolse e afferrate le sue poche cose da terra si precipitò verso la piccola porticina infondo alla cappella e si nascose dietro. Attraverso lo spiraglio della porta poteva ancora vedere l’interno semi illuminato e mentre i passi si avvicinavano lentamente e sembravano echeggiare da ogni lato, tentò disperatamente di mettere a tacere il battito furioso del suo cuore.
Cos’era quel rumore? Da dove veniva? Chi...
Ma prima che potesse formulare l’ennesima domanda, l’intera massiccia vetrata dell’angelo ruotò su sé stessa e davanti ai suoi occhi sgranati una sagoma nera sgusciò fuori da essa.
Aveva fatto appena in tempo a nascondersi. Se fosse rimasta anche solo un altro istante là dentro, la sagoma l’avrebbe trovata e chissà cosa sarebbe successo.
Quel pensiero le gelò le membra e si sorprese a pregare che la figura non la trovasse, che sparisse da dove era giunta.
“Vai via, vai via! Ti prego...”
Attraverso il sottile spiraglio vide l’ombra tentennare e osservare attentamente qualcosa in mezzo ai mozziconi di candela.
Che l’avesse scoperta? Aveva forse lasciato una traccia?
Ma prima che potesse convincersi di quell’ipotesi la sagoma emise un ruggito di rabbia e scagliò l’intero piedistallo con le candele dall’altro capo della cappella.
Sarah sentì il suo cuore accelerare in modo vertiginoso e per un istante pensò che le sarebbe balzato fuori dal petto.
“E a quel punto mi scoprirà, è ovvio.” Pensò mentre gocce di sudore le imperlavano la fronte, ma al contrario di ciò che si era aspettata l’ombra girò sui tacchi e in un frusciare furioso di stoffa scomparve oltre la finestra cigolante, nel biancore della neve e dell’alba.
Il suo cuore rallentò lentamente e quando si convinse che oltre al silenzio non c’era davvero più nessuno lasciò il nascondiglio ed entrò di nuovo nella cappella. Il piedistallo e le candele giacevano a pezzi in un angolo e Sarah cercò di non guardarli rivolgendo la sua attenzione alla vetrata.
Tastò freneticamente attorno al vetro, finché le sue dita si infilarono dietro un’incrinatura e rivelarono la presenza di un minuscolo bottone squadrato, fra la parete e l’immagine dell’angelo. Appena lo premette un gemito cavernoso fuoriuscì da un punto indistinto davanti a lei e con esasperante lentezza la vetrata ruotò su sé stessa, rivelando un cunicolo scuro e denso di umidità.
I suoi occhi si spalancarono e di colpo si rese conto che non solo aveva sospettato da tempo che all’Opèra ci fossero dei passaggi segreti, ma l’aveva addirittura sperato.
“E così l’angelo nascondeva questo...E ora ho un luogo dove stare indisturbata... Ma... quell’ombra nera?”
Già. La sagoma con il mantello era un problema. Ma mentre scrutava il passaggio oscuro davanti a lei e sentiva l’aria umida e fredda uscire da esso e aggredirle il volto, pensò che dopotutto i sotterranei dell’Accademia della Musica dovevano essere enormi e perfino l’Ombra avrebbe avuto difficoltà a trovarla.
Con un sospiro al tempo stesso deciso e spaventato balzò oltre la cornice confortante dell’angelo e scomparve nella voragine buia dell’Opèra.

 
L’ufficio degli impresari era situato al secondo piano del teatro e secondo le direttive  dei due proprietari durante la ristrutturazione era stato dotato di ogni tipo di confort possibile.
C’erano le scrivanie di legno chiaro, importate dall’Inghilterra, le sedie di velluto, tanto belle che sembrava uno spreco anche guardarle, gli scaffali bianchi dove erano allineati molteplici libri che di certo nessuno avrebbe mai letto... E migliaia di oggetti, strumenti, cimeli scientifici o meno che Andrè aveva insistito per comprare a cifre folli. E che lui non aveva la minima idea di come usare. D’altronde quella materia che chiamavano “musica” era qualcosa che lui non aveva mai compreso appieno. Non era come la raccolta di rottami in cui non c’era niente da capire, che funzionava e basta.
Segretamente, però, Richard Firmin era entusiasta, per non dire euforico, dell’aspetto del nuovo ufficio, delle sue belle finestre, e della sua porta elegante. Passare dal riciclare rottami, al gestire un’Opèra, a riciclare di nuovo rottami e gestire nuovamente un’Opèra non era cosa da chiunque e per questo Richard soleva ritenersi fra sé un uomo pienamente realizzato.
Ora tuttavia, l’eleganza del suo nuovo ufficio e la consapevolezza della sua brillante carriera non era esattamente ciò che disturbava i suoi pensieri.
Era stato costretto a svegliarsi all’alba da un Andrè impazzito, che blaterava sciocchezze su una lista di comandi da seguire e su un certo personaggio e una certa signora che sarebbe venuta da loro e ora si ritrovava catapultato nel suo ufficio, assonnato e sospettoso.
Aveva sempre avuto qualche dubbio su ciò che era accaduto negli ultimi due anni. La musica non era mai stato il suo campo forte ma gli affari lo erano eccome e quello che si era presentato a loro era stato fin troppo incredibile.
Un conto era stato avere come mecenate il Visconte De Chagny, che finanziava le loro rappresentazioni e gli aiutava a saldare tutti i debiti. Un conto era, adesso, che un misterioso mecenate ricco sfondato di cui non sapevano l’identità investisse tutto il suo denaro a patto che ricostruissero l’Opèra Populaire.
C’era decisamente qualcosa di sospetto!
E ancora più sospetto, ora, era che la stessa Madame Giry che anni addietro si era licenziata e aveva dichiarato che non avrebbe più rimesso piede là dentro, sostasse all’ingresso del loro ufficio e tendesse una busta voluminosa che a sua detta conteneva i patti fra loro e il Mecenate.
- Ebbene, cos’è tutto questo? – domandò dopo alcuni minuti di indispettito silenzio, visto che né Madame Giry, né tantomeno Andrè sembravano intenzionati a parlare.
- Il nuovo regolamento dell’Opèra, come ho già detto. – mormorò la donna come se ritenesse le sue parole qualcosa di estremamente stupido.
Gli occhi di Richard schizzarono quasi fuori dalle orbite.
- Regolamento? Ho sentito bene? Regolamento!?
Mentre strillava quanto fosse incredulo e indignato da quelle assurde richieste vide Andrè afferrare la busta e aprirla con cautela.
- E si può sapere come si permette questo mecenate di stabilire regole e divieti senza il nostro consenso? Chi è costui? Cos’è questa dannata busta che avete avuto il coraggio di portare? – continuò a gridare furibondo.
Madame Giry sbatté il bastone a terra e lo fissò con irritazione.
- Una lettera da parte del mecenate in cui vengono esposte le leggi della nuova Opèra. – ripeté per l’ennesima volta.
Firmin trattenne a stento un’imprecazione e sentì con chiarezza che i suoi poveri nervi erano ad un passo del saltare.
E questo non andava affatto bene.
L’Opèra non era ancora stata riaperta e già ricominciavano i guai. Aveva pensato che dopo l’esperienza di quattro anni prima ora tutto sarebbe filato liscio come l’olio, invece anche questa misera illusione stava cadendo a pezzi.
Come si permetteva quello sciocco mecenate senza nome di gestire faccende che non lo riguardavano? Cosa c’entrava lui con possibili regole o divieti dell’edificio? Quello semmai era compito di loro impresari.
E anche quella donna, quella Madame Giry, che prima si licenziava e poi pretendeva di svegliarli all’alba per una richiesta assurda del loro mecenate...
Sempre che tutto quello fosse vero e non uno stupido scherzo allestito ai loro danni.
Ma di qualunque cosa si trattasse, vera o falsa che fosse, non sarebbe durata ancora a lungo! No! Lui, Richard Firmin, avrebbe posto termine ad una situazione così insostenibile e l’avrebbe fatto una volta per tutte.
- Esigo spiegazioni! – urlò con il fiato corto per l’agitazione. – Cos’é questa indicibile confusione che state creando Madame?
- Nessuna confusione, Monsieur – mormorò lei imperturbabile mentre faceva ondeggiare la lunga treccia – Si tratta solo di un ordine che sto eseguendo. Il mecenate mi ha pregato di portarvi il nuovo regolamento, che dovrete leggere attentamente e poi firmare tutti e tre accettando si seguire ogni direttiva che esso contiene...
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. A stento si trattenne dallo scagliare un preziosissimo mappamondo in testa a Madame Giry e prese ad urlare come un pazzo, allontanandosi di scatto dagli altri due.
- Firmare e accettare il contratto, avete detto? Non sia mai, preferisco morire che sottostare alle decisioni di un mecenate fuori di senno. Sono indignato, e ve lo ripeto Madame Giry, sono indignato da tutto ciò! E come se non bastasse questo non giova ai miei nervi, Andrè. Anzi, li distrugge! Ho sopportato fin troppo, ora dovrà finire, e non pensate che io...
Gli altri due assistettero allibiti alla sua scenata, ma prima che potesse portarla a compimento Andrè lo interruppe con fare sbrigativo.
- Avete detto che lo firmeremo tutti e tre, Madame? Volete dire che il mecenate ci farà visita all’Opèra?
Firmin si bloccò con gli occhi sgranati e Madame Giry annuì mestamente.
- Bene! – riprese allora lui, ormai fuori controllo – Che venga pure! Così avrò il piacere di spiegargli il significato della parola mecenate, visto che a quanto pare non ne è a conoscenza...
Si voltò verso Andrè per cercare un suo appoggio, ma lui se ne stava immobile, con il volto cadaverico e la fronte madida di sudore, indicandogli un punto preciso nella lettera.
Seguì confuso il suo sguardo e quando realizzò ciò che aveva davanti il respiro gli si mozzò in gola e i suoi occhi si sgranarono ulteriormente.
In mezzo ai molteplici ordini e divieti di cui era costellato il contratto, spiccava la seguente scritta in caratteri rossi:
IL PALCO NUMERO CINQUE DEVE ESSERE LASCIATO LIBERO E TENUTO A DISPOSIZIONE DEL MECENATE QUALORA EGLI VOLESSE PARTECIPARE ALLE RAPPRESENTAZIONI...
Non era possibile... quelle parole, quelle frasi... erano quasi identiche a quelle...
Ma non poteva essere, era impensabile che il mecenate fosse...
La mente di Richard si era inceppata di colpo e la sua coscienza continuava a ripetere le stesse sillabe sospese, che neppure lui capiva pienamente.
Poi un altro pensiero, ancora più terribile, ancora più infame sbloccò i suoi ragionamenti e una rabbia cieca lo fece fremere.
- Che razza di scherzo è mai questo? – cominciò furibondo, ma prima che potesse continuare una voce maschile, profonda e melodica, provenne dalle sue spalle.
- Nessuno scherzo, Monsieur. Soltanto dei piccoli favori che sono certo concederete al vostro mecenate.
Firmin ruotò lentamente su sé stesso, il cuore impazzito dalla sorpresa, e vide ciò che anche gli altri avevano già scorto.
Il fantasma dell’Opèra era là. La mezza maschera bianca che gli copriva il volto e il mantello nero svolazzante.
- Vogliate essere così cortesi da sedervi e ascoltare le mie semplici condizioni. – continuò la sinistra figura con un accento sarcastico.
Richard Firmin inghiottì a vuoto e i suoi occhi saettarono intorno a lui, come in cerca di aiuto.
Ma Andrè, rintanato fra due grossi mobili di mogano, sembrava sul punto di morire e Madame Giry si era ritirata silenziosa in un angolo dello studio.
Niente. Non poteva fare niente, era in trappola.
“ Questo non giova per niente ai miei nervi.” Fu il suo ultimo pensiero prima di essere travolto dal panico.
 

Il corpo del balletto stava entrando in quel momento nel vasto atrio della nuova Opèra Populaire e le ballerine si affannavano da ogni lato, pronunciandosi in clamorose esclamazioni di delusione, gioia, vittoria e terrore.
D’altronde era la prima volta che vedevano l’interno della costruzione ed esclusivamente a loro era stato permesso l’ingresso una settimana prima dell’apertura per facilitare il corso delle prove. Non c’era da stupirsi, quindi, se nell’ultima settimana  le scommesse sul nuovo foyer fossero divampate più veloci di un incendio.
Dall’atrio continuavano a sollevarsi i sussurri entusiasti o delusi di molteplici ballerine.
“Me lo immaginavo più grande...”
“A me sembra tutto uguale.”
“Devi pagarmi, Celine, ho vinto la scommessa! La scalinata è identica.”
“Io trovo che sia più inquietante del solito..e dove sono gli impresari?”
“Oh, no! Non ho nessuna intenzione di pagarti mia cara!”
“Questa è un’altra storia, Adele. Ho sentito dire da mia madre, ma badate bene di non dirlo a nessuno, che i proprietari sono ora alle prese con un colloquio di estrema importanza insieme al nuovo mecenate...”
“E si può sapere perché non ce l’hai detto subito, Corinne?”
“Dite che sarà bello? Il mecenate?”
“Più bello del visconte? Direi che è improbabile.”
Meg era l’unica a non partecipare ai discorsi delle sue compagne, e a rimanere indietro, osservando pensierosa le lucide colonne e le molteplici porte che si aprivano di corridoio in corridoio.
Si sentiva tremendamente inquieta e l’ambiente silenzioso e poco illuminato non contribuiva a calmarla. I passi e le voci delle ballerine erano gli unici suoni che riusciva a percepire, riecheggiavano fra le pareti e si disperdevano nel chiarore della cupa mattinata.
Per lei la nuova Opèra era fin troppo simile all’originale. Ed era questo ciò che più la spaventava. Ovunque volgesse lo sguardo i ricordi la assillavano penosamente.
Lei e Christine che attraversavano correndo il corridoio, quel nastro bianco che le era caduto e non aveva più ritrovato, il luogo dove la sua amica le aveva raccontato le strane leggende della Svezia, l’ultimo istante in cui le aveva parlato prima della tragedia...
Meg chiuse gli occhi e prese un grande respiro. Basta, non voleva più ricordare nulla. Era davvero troppo, perfino per lei.
Mentre voltava verso sinistra, quasi inciampò su un sacco di calce gettato in mezzo al corridoio e riuscì a stento a rimanere in piedi.
Mademoiselle Sorelli, che la precedeva di qualche passo le gettò un’occhiata, come se si domandasse che diamine stesse combinando e lei si sforzò di continuare a camminare.
Ma non erano solo le sue cupe reminescenze a turbarla. Sua madre era lì, da qualche parte nell’Opèra, e in quel momento stava probabilmente discutendo con gli impresari sulla questione della lettera.
Meg non poteva non sentirsi ansiosa e intimorita al pensiero di Madame Giry. Per quattro lunghissimi anni non aveva parlato neppure con lei, se non per domandarle cose necessarie, e non si era quasi mossa dalla sua stanza e dalla poltrona di suo marito. E ora dopo così tanto tempo, improvvisamente era tornata quella di un tempo, aveva ripreso le redini della casa, aveva preteso che la lasciassero uscire a cercare gli impresari e solo a stento Meg era riuscita a rimandare la sua commissione alla mattina successiva. E tutto questo solo per consegnare una misera lettera.
Ma maman non aveva voluto sentir ragioni.
Inutilmente lei le aveva detto che si sarebbe affaticata troppo, che la sua missiva poteva essere spedita invece che consegnata, che poteva attendere alcuni giorni e intanto riposarsi.
All’alba di quel giorno Madame Giry si era presentata nel salotto di Gilles André, pretendendo la presenza sua e di Firmin all’Opèra.
Ma il motivo per cui l’aveva fatto e il contenuto della lettera restavano un mistero anche per Meg. Sua madre non le aveva voluto dire nulla, di nuovo.
- Ragazze! – la voce di Mademoiselle Sorelli la distolse dalle sue preoccupazioni e dai suoi nefasti ricordi – Andate subito a cambiarvi e venite al foyer della danza. Il maestro e l’orchestra sta già aspettando.
Subito le ballerine corsero verso la camerata dove erano solite radunarsi in passato, alcune decisamente contente di poter distrarre le compagne dai debiti delle scommesse, altre desiderando rifugiarsi al sicuro fra le quattro vecchie pareti conosciute.
Meg le seguì e quando la porta si fu richiusa alle loro spalle, un disordinato chiacchiericcio si sollevò fra le ragazzine.
- Allora, che ne pensate di questa faccenda degli impresari? Parola mia, mi spaventa un po’ l’idea di un mecenate che nessuno ha mai visto in volto! - sussurrò la  piccola Jammes.
Celine, però, che era considerata da tutti il capo delle ragazze più grandi, storse il naso e la guardò pietosamente.
- Suvvia, e che cosa ti dovrebbe mai spaventare? Qui tutti sanno che ti terrorizza ogni cosa...
Jammes sembrò non sentire o non voler sentire quelle critiche e rivolse i suoi occhi spalancati verso Meg.
- Io trovo molto strano che un mecenate debba parlare con gli impresari di una cosa tanto privata da non farsi vedere da anima viva...ma forse è solo una mia impressione, no?
- Ma certo, sciocchina! E comunque fra qualche giorno lo vedrai di sicuro, non potrà certo mancare al Faust di questo venerdì.. – starnazzò con irritazione Celine.
- Magari vogliono discutere di voi-sapete-cosa... – mormorò improvvisamente Corinne facendo voltare Meg – Sì, insomma... del fantasma intendo...
Un coro di “Oh” e di risatine isteriche si sollevò all’unisono dal corpo di ballo e Celine si sentì per l’ennesima volta in dovere di riportare alla ragione le compagne più giovani.
- Sicuro, come no?! – esclamò sopra i commenti superstiziosi delle altre – Il fantasma è morto, lo avete dimenticato? O forse non è mai esistito e basta... sono sempre stata dubbiosa su queste vostre paranoie..
Meg si trattenne a stento dal dire che il fantasma era esistito eccome, che lei l’aveva visto con i suoi occhi, anzi che tutti lo avevano visto la sera del Don Juan, e nella stanza calò un inquietante silenzio.
- Non crederete sul serio a quelle storielle inventate dai macchinisti!? – strillò di nuovo Celine, ma anche lei appariva stranamente agitata.
Le ballerine serrarono le labbra senza rispondere, alcune scuotendo mestamente la testa, altre fingendosi attratte dal colore della moquette.
- Aspetta, Anne, ti aiuto a mettere il corpetto... – mormorò Corinne e il discorso cadde di nuovo in un mormorio confuso e irrilevante.
- Mia madre doveva consegnare una lettera da parte del mecenate questa mattina. – disse improvvisamente Meg, e tutti gli occhi si appuntarono su di lei.
- Come dici? – fece Celine con voce stridula.
- Che mia madre è andata dagli impresari per consegnare una missiva – ripeté lei abbassando notevolmente la voce.
Un coro di commenti esplose tutto attorno.
- Io non ti credo affatto, Meg Giry, chiunque all’Opèra sa che tua madre ormai non si alza più neppure per cenare... Come potrebbe aver consegnato una lettera agli impresari? – sbuffò scettica Celine, e alcune ragazze la imitarono scuotendo la testa.
- Sul serio? – chiese invece Jammes che le si era fatta vicina, come se fosse in procinto di ascoltare una storia.
- Non ne so praticamente niente, ma si è svegliata all’alba questa mattina...
- Oh, avanti! Raccontaci tutto! – fece qualcuna delle più piccole, e Meg prese un grosso respiro.
Conosceva fin troppo bene la curiosità delle ballerine su ogni fatto che avveniva al teatro e sapeva che perfino le più grandi – sì, perfino Celine che si fingeva disinteressata mentre piegava un nastro – non vedevano l’ora di parlare di ciò che avrebbe detto a chiunque avessero incontrato quel giorno, fosse anche un macchinista ubriaco o il cavallo dell’Annibale.
- E allora? Ce la racconti questa storia, o no? – fece infatti Adele squadrandola con irritazione.
- Il nuovo mecenate ha consegnato una busta a maman, ieri, e le ha detto di portarla subito agli impresari. Le ha messo così tanta fretta che mamma voleva quasi andarli a trovare di notte...
- Ma questa busta! Cosa conteneva? – disse Corinne.
- Una lettera. Del mecenate, si intende. Non so per certo cosa vi fosse scritto, ma maman ha borbottato qualcosa su un regolamento.
- Il mecenate ha scritto un regolamento? Questa è proprio bella.. – esclamò con ironia Celine, lasciando immediatamente perdere il nastro, ma prima che potesse continuare la sua voce venne sommersa da tutte le altre.
- Non sei riuscita a leggerla?
- Quanto era lunga?
- Com’era il mecenate?
- Chi mi ha rubato la spazzola?
Meg scosse la testa confusa: - Non ho letto niente e non so come fosse il mecenate. Maman teneva sempre la lettera con sé, poi l’ha chiusa in un cassetto, e io...
- Ma insomma – fece Adele, facendosi largo fra le ballerine – Questo mecenate l’avrai pur visto quando ha consegnato la busta a Madame Giry!
Meg stava per rispondere, ma proprio in quell’istante, la voce irritata della Sorelli, ordinò loro di uscire dalla stanza.
Le ballerine sgomitarono fra loro, sistemandosi come riuscivano e mettendosi gli ultimi nastri, e si dileguarono fuori dalla stanza zampettando sulle loro scarpette rosa.
Anche Meg uscì, e mentre si lisciava la gonna pensò che aveva fatto bene a raccontare quella faccenda alle compagne. Parlare di un segreto al corpo di ballo significava che quel segreto sarebbe presto stato alla portata di tutti, e far girare le voci era proprio quello che voleva.
Attraversò a grandi passi il corridoio che la separava del foyer, ma prima che potesse mettere piede sul palco si sentì un gran trambusto sopra le loro teste, qualcuno gridò, e dall’alto un ammasso di sacchi, corde e calce piombarono in mezzo al palcoscenico, imbiancando le ballerine e seppellendo uno sventurato violinista.
La Sorelli urlò qualcosa di incomprensibile e sembrò accasciarsi a terra priva di sensi mentre un gran baccano si sollevava per tutto il palco.
Chi aveva lanciato quegli oggetti di sotto, rischiando di fare seriamente male a qualcuno?
Alcune teste si sollevarono verso le travi sopra di loro, cercando la causa di quell’incidente, ma non c’era nulla se non l’ombra dei retroscena e un rivolo di gesso che ancora precipitava sul palcoscenico.
- Qualcuno chiami gli impresari! Presto! Che diamine è successo? Crolla tutto!? – fece il maestro, prendendosi il capo fra le mani.
Qualche macchinista scattò verso l’ufficio dei padroni, e mentre le ballerine soccorrevano Mademoiselle Sorelli e il violinista, la voce della piccola Jammes rimbalzò fra le statue e il soffitto dell’Opèra Populaire.
- Io so chi è stato! Il Fantasma dell’Opèra... è tornato!
 

I cunicoli sotterranei in cui Sarah camminava sembravano estendersi in un dedalo infinito davanti a lei, intessuti di polvere e di oscurità, si dipanavano come rami contorti in ogni direzione. Alcuni salivano, altri scendevano, qualcuno finiva perfino in un vicolo cieco.
Quando si era inoltrata in quella voragine oltre l’angelo aveva creduto di trovare  passaggi segreti, scorciatoie o vani nascosti, ma non avrebbe mai pensato alla grandezza di quel regno sotterraneo. Sembrava quasi lo specchio stesso dell’Opèra. Solo più contorto e cupo.
I suoi occhi avevano faticato ad ambientarsi a quella oscurità, e solo a stento riusciva a scorgere le curve, le pareti lisce, a tratti viscide d’umidità, in cui stava camminando.
Ad un tratto si era sorpresa a tendere l’orecchio nel buio, come alla ricerca di qualche suono, di qualche passo che le rivelasse una presenza umana, ma era sorda almeno quanto era cieca. L’unico rumore che sentiva era uno strascicato sgocciolio d’acqua corrente, che le faceva accapponare la pelle.
Come era possibile che sotto un teatro ci fosse così tanta umidità? E che si sentisse quello scrosciare? Era forse la Senna quella che sentiva?
Ma aveva abbandonato da tempo quelle domande, quando si era resa conto del problema più importante.
Si era persa.
Come era potuto succedere neppure lei lo sapeva.
Inizialmente aveva tenuto la mano destra sempre appoggiata sulla parete destra, ma man mano che camminava, mentre la roccia diventava viscida come bava e l’umidità pesante come acqua, quando si era accorta che quello che percorreva non era un labirinto, ma un gigantesco oscuro aggrovigliarsi di strade, aveva lasciato la presa.
E adesso non poteva fare altro se non continuare.
Istintivamente prendeva ogni volta il cunicolo in salita e respirava affannosamente, facendo però attenzione a non fare troppo rumore.
Non voleva di certo rischiare di farsi sentire da qualcuno. Magari proprio dalla figura inquietante della cappella.
Anche se, a questo punto, avrebbe fatto di tutto per uscire da quell’oscurità. Le ricordava tremendamente i sotterranei di casa sua, di Roseville, e di  tutte quelle volte che era rimasta là sotto per punizione. Intrappolata in un silenzio infrangibile, fra le grinfie del buio.
Rabbrividì d’istinto a quei ricordi e si mise quasi a correre.
Mio dio, perché si era infilata in quel labirinto?
“Sei la solita incosciente!” pensò, e le vennero le lacrime agli occhi.
Si era già preparata al peggio quando la salita cominciò a curvare e lei sbatté violentemente contro una superficie ruvida.
“Cos’è? Un vicolo cieco? E perché la roccia è non è liscia, qui?”
Le dita di Sarah si tesero davanti a lei, ma quello che toccò non era affatto pietra, era legno.
Come quello con cui costruivano le porte delle cantine.
Il suo cuore cominciò a battere così furiosamente che ci mise diversi minuti a trovare la piccola maniglia metallica.
La spinse con impeto e la luce dell’esternò la abbagliò all’improvviso.
Dopo qualche istante finalmente i contorni riapparvero e quando si accorse di dove realmente era finita, rotolò per terra indietreggiando velocemente.
Non era più al piano terra dell’Opèra, non era più neppure nei sotterranei del teatro.
Sarah si trovava sospesa a parecchi metri d’altezza dal palcoscenico, fra travi pericolanti e stretti ponticelli di legno.
- Non può essere... – sussurrò spiando quello che c’era sotto di lei.
Ma gli accordi dell’orchestra erano troppo forti per fingere di non sentirli e mentre si sporgeva vide tutta l’imponente grandezza della platea e dei palchi distendersi come un’onda rossa.
Cercò di alzarsi e di ritornare dentro i cunicoli, ma mentre si voltava la piccola porta di legno emise un gemito spaventoso e l’anta si richiuse di colpo, sbattendo violentemente e sfasciando i cardini.
Sarah barcollò indietro, urlò un “Chi è?” al nulla e scivolò verso il basso trascinandosi dietro un mare di corde, sacchi e polvere.
Il cuore le balzò in gola e la sua mente parve svuotarsi.
“Cado.” Fu l’unica cosa che riuscì a realizzare, quasi sorpresa, e per un istante pensò fosse la fine.
Poi le sue dita scattarono e le sue mani riuscirono ad aggrapparsi al ponte di legno, che traballò pericolosamente. Si issò a fatica sopra di esso e la paura che le aveva serrato il cervello scoppiò lungo tutto il corpo.
Ce l’aveva fatta, ma solo per un pelo.
E quali sarebbero state le conseguenze?
La risposta a quella domanda parve risalire il palcoscenico e risucchiò tutti gli altri pensieri.
- ...Il fantasma dell’Opèra... è tornato.
 
 


ANGOLO AUTRICE

Buongiorno a tutti! Ecco a voi il secondo capitolo di questa storia. È piuttosto lungo rispetto agli altri, ma dividerlo avrebbe significato perdere il senso del capitolo, perciò ho preferito lasciarlo intero. Spero non risulti troppo noioso! 
Grazie a tutti quelli che hanno recensito e messo la storia tra le seguite, per me è molto importante!
Alla prossima

Erika
 
 

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