Schadenfreude

di Chimera in blue jeans
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


Note: Schadenfreude è una parola tedesca utilizzata internazionalmente; il significato è spiegato nel corso della fic. Originariamente era una one-shot, ma l’ho divisa in due capitoli per la lunghezza.
Una buona parte della storia è immersa nel passato, fra flashback e ricordi riesumati da particolari situazioni.
Altre note: L’izakaya è un locale tipicamente giapponese, riconducibile a una birreria adibita anche a ristorante, in cui si vende una gran varietà di sakè.




Prologo
.

Schadenfreude.
Tutti la provano.
Molti la amano.

Canini, pelo, unghie.
Spizzichi di gioia perversa, bocconi di dolce amarezza.
Il minimo di animale che è rimasto in ogni uomo.

[Quando vede il compagno crollare sotto le zanne del più forte e rimane in disparte ad assistere]

E la prova, quella gioia segreta.
Una gioia insita, l’essere al sicuro mentre la vittima di turno paga col suo sangue.
Una gioia oscura.

[Quando ride dell’amico che viene umiliato dinanzi alla folla]

Codardia?
No.
Cattiveria?
In parte.
Istinto, lotta per la sopravvivenza.
Questo sì.

[Quando nota con divertimento che la fortuna riprende a girare e che anche i migliori, finalmente, soccombono]

Schadenfreude
Che impera.
Schadenfreude
Che carbura il mondo.
Schadenfreude
Dentro ognuno di noi.

E’ un piacere colpevole.
E’ l’amarezza di subirla.
E’ la difficoltà nell’ammetterne l’esistenza.
E’ la forza che muove il delinquente, che fa strisciare il disgraziato, che fa godere il perverso.

Schadenfreude
E’ il piacere provocato dalla sofferenza altrui.

*

Capitolo 1


La cameriera scalciò.
Dopo un rapido, apprensivo controllo all’integrità degli appariscenti collant viola, si allontanò borbottando dal tavolino; i grandi occhi azzurri si rivolsero al barista, in una smorfia di pura accusa.
“Quella bestia mi ha messo le mani addosso!” pigolò, indicando con un cenno ben evidente l’avventore che la fissava famelico, inginocchiato sul suo tatami.
“Allora vai a dire a mia madre che ti dimetti”.
Quando il barista si limitò a sollevare le spalle con poche, graffianti parole, incassando fra di esse la testa dalla bizzarra pettinatura, Ino fece scattare preziosamente in alto il naso affilato, dirigendosi sulle lunghe gambe da stambecco verso la cucina del locale.
Il ragazzo sospirò, osservandola sparire oltre la tendina composta da sottili strisce di bambù.
Cosa si aspettava?
Un izakaya malfamato di periferia, frequentato dalle peggiori razze di delinquenti, un vestiario che metteva in evidenza il fisico perfetto, lunghi e lucidi capelli biondi; elementi che per la diciottenne determinavano l’indubbia inclinazione al pericolo, lavorando la sera nel locale dei Nara.
Raggiustandosi il codino di capelli mori, il barista tese le braccia sul bancone, abbandonandosi ad una apatica ammirazione del suo regno, momentaneamente quieto.
Nel suo splendore di insospettabile fallito si mostrava così Shikamaru Nara, vent’anni. Promessa scolastica ritiratasi dal liceo per eccessiva pigrizia, finito a lavorare nell’izakaya di famiglia.
Non che la sua vita fosse migliorata da quando i suoi genitori, profondamente delusi, l’avevano piazzato dietro il bancone, ad occuparsi della sezione bar.
No.
Semplicemente un vero inferno.
Il vociare soffuso dell’area ristorante condiva la luce notturna del locale di calda familiarità, investendo dolcemente i numerosi avventori seduti ai tavolini. Rumore di boccali sbattuti sul legno, di risate folli, di sottile, ambiguo degrado.
Falliti frequentavano il locale. Uomini e donne senza lavoro, senza compagno, senza famiglia.
Disgraziati frequentavano il locale. Immigrati, miseri individui viventi sotto un tetto precario o del tutto assente.
Mafiosi frequentavano il locale. Membri della Yakuza, celeberrima organizzazione mafiosa giapponese. Più clan, fra rivalità e alleanze, si presentavano ogni sera a bere un sorso, a discutere, a puntare vittime…
A controllare il locale.
Shikamaru represse uno sbadiglio, abbandonando stancamente i gomiti sul bancone. Persino i piedi terribilmente indolenziti furono accantonati dal suo pensiero, mentre tre uomini tatuati facevano il loro puntuale ingresso nel locale.
Il vociare s’interruppe per un momento. L’uomo che li guidava, dai lunghi capelli corvini scalati sul volto pallido, sembrava aver premuto il tasto di pausa di un telecomando al suo mostrarsi oltre la soglia. Le chiacchiere ripresero, frenetiche, mentre Sasuke Uchiha sedeva coi suoi compagni a un tavolo libero. Shikamaru sbuffò, avvertendo un brivido correre lungo la schiena.
Yakuza.
Chi per mestiere, chi per dovere, chi per piacere.
Schadenfreude.
L’indubbio piacere di imporre il proprio dominio, manifestato da parte di tutti i mafiosi tramite gli inconfondibili tatuaggi che ne ricoprivano il corpo.
Uchiha richiamò la cameriera con un cenno imperioso, assecondato all’istante; le iridi scure luccicarono, confuse fra la giungla di arabeschi neri che si diramavano per buona metà del suo volto inequivocabilmente attraente.
Gli occhi di Shikamaru si ravvivarono appena all’irruzione di un ragazzo corpulento, che lo raggiunse al bancone portandosi dietro l’umida aria fredda della statale. Un sorriso gli solcava il volto paffuto mentre piantava i piccoli occhi in quelli del barista, l’aria concitata.
“Il Lupo è in gabbia” elargì senza preamboli, trionfante.
Il ragazzo dovette apportare un cambiamento al pigro programma che caratterizzava il suo regolare approccio con Choji.
“Hanno preso Inuzuka?” chiese, moderando l’interesse nella voce. L’amico annuì freneticamente , facendo ondeggiare le scarmigliate ciocche castano chiaro.
“La polizia ha beccato alcuni spacciatori alla stazione” ansimò, sopraffatto dall’entusiasmo. “Ci sono stati degli intrallazzi, non so dirti esattamente ma… pare che l’abbiano consegnato quelli dell’Akatsuki”.
“Il clan di Pain e quello di Inuzuka sono alleati” borbottò il moro, scoccando un’occhiata seccata a un avventore che si avvicinava al bancone, pronto ad ordinare.
“Infatti credo che all’Akatsuki non la perdoneranno, questa” ghignò Choji. “Hanno consegnato un uomo del clan Konoha per salvare il culo ad uno del loro. Furbi, no?”
Shikamaru non s’informò sul come e sul perché.
“Sakè della casa” ordinò l’uomo al bancone, digrignando i denti su una sigaretta spenta. Scoccato un fiacco sguardo d’assenso a Choji, il barista si voltò verso le mensole stipate di bottiglie, gli occhi stanchi velati da una sottile malinconia.
Non riusciva a sentirsi entusiasta per la notizia.
Forse, semplicemente, aveva sperato in qualcos’altro che riguardasse l’Akatsuki.
Forse, semplicemente, una patina opaca si stendeva sul suo sguardo mentre ricordava un altro momento in cui si era ritrovato a cianciare di mafiosi con Choji.
Quella volta però, oltre bancone c’era una donna.

“Kirin grande anche per me”
Armata di vestito cremisi tanto succinto quanto pericoloso, la bionda sedette bruscamente sull’alto sgabello. Le forme generose, fasciate di sgargiante seta rossa, scesero invitanti con lei a portata d’occhi del barista.
“Vedo che ci vai pesante” biascicò, riaggiustandosi con forzata indifferenza il codino erto.
Un piede penzoloni e l’altro premuto contro il bancone, Choji ghignava scomposto, osservando l’amico allontanarsi per riempire di liquido ambrato due sostanziosi boccali.
La schiuma traboccò, accompagnata dal sordo battere dei boccali sul bancone; con un esperto, noncurante movimento di polso, Shikamaru li indirizzò ai due clienti, facendoli slittare rapidi sul piano bisunto.
Choji si avventò sulla birra, avido.
“Una volta nella vita potresti scomodarti a portare i boccali fin qui” sbottò la donna, generando l’involontario agitarsi dei quattro eccentrici codini. L’interpellato s’immobilizzò, lo sguardo puntato oltre la spalla abbronzata di lei.
“Nara” Le sopracciglia arcuate scattarono in alto, mettendo in evidenza due verdi occhi felini. “Perché quella faccia?”
Shikamaru perse presto interesse per la porta del locale, tornando a puntare i gomiti sul bancone con indolenza. Choji dispiegò le labbra con aria sorniona e spostò grossolanamente il suo sgabello, ravvicinandolo a quello della ragazza.
“Stava guardando i tizi appena entrati” suggerì, suscitando lo sguardo interrogativo di lei.
“Yakuza” fu l’eloquente spiegazione.
“Cosa?” La ragazza si voltò di scatto, incurante del gesto palese.
“Mafia, Temari. Mafiosi” ghignò il corpulento ragazzo, tracannando un sorso di birra da soffocamento. Una vaga irritazione si diffuse bruciando per la gola di Shikamaru, provocandogli uno sbuffo contrariato.
Lo sguardo di Temari vagò accigliato sui tatami illuminati di luce fioca e ambrata. Immersi nella penombra, tre giovani sedevano in un angolo, sigarette fra i denti e occhio provocatorio.
Il barista si strofinò le mani nel grembiule con malcelato nervosismo.
“Non girarti così, Mendekouze”.
Ma l’attenzione di Temari rimase inesorabilmente concentrata sui tre ceffi, alternandosi tra la croce uncinata sulla fronte del più alto, i tondi occhiali scuri dello Yakuza che gli sedeva accanto e la prorompente zampa artigliata che svettava sullo sterno del terzo.
La mente di Shikamaru corse a rimembranze poco piacevoli mentre il giovane si sbottonava ulteriormente la camicia, esibendo per intero l’eccentrico tatuaggio di un segugio infernale, valorizzato dal ghigno tronfio del suo proprietario.

“Passane un po’ anche a me, Shika”
Il bancone tornò quieto, animato solo dalle sparute chiacchiere di Choji.
Sguardi furtivi saettavano attraversavano la sala di tanto in tanto, la gran parte dei quali era indirizzata all’appetibile cameriera e ai silenziosi Yakuza.
Certo, fra i pezzi da novanta c’erano anche banconote false.
Stazza bovina, tatuaggi tribali che serpeggiavano affilati su avambracci e collo, arrivando alle sottili sopracciglia brune, Sabaku no Kankuro sedeva vicino alla porta, ululando il suo brillo umore con un compagno di bevute immerso nella penombra.
Shikamaru sapeva che Kankuro non era uno Yakuza, contrariamente a quanto si sarebbe potuto dedurre dagli estesi tatuaggi. Non era che un coraggioso ribelle, un alternativo sfuggito alle redini della sua famiglia per ostentare sfacciataggine e violenza.
Il barista osservava, captava, immancabilmente ascoltava. Veniva a conoscenza dei fatti di tutti quei clienti che frequentavano abitualmente l’izakaya, convincendosi ogni giorno di più che ognuno portasse in petto un segreto oscuro.
Sapeva che Rock Lee era un disoccupato degenerato dall’alcol, conosceva ogni risvolto del suo pessimo trascorso. Sapeva che Karin, spesso in compagnia degli uomini di Sasuke, batteva la notte.
Sapeva che Sabaku no Kankuro aveva una sorella…
Stop. Quella era una storia proibita alla sua stessa memoria, facente parte della categoria ‘errori’. Si costrinse ad escluderla dalla propria mente affollata.
Conosceva dettagli e segreti di molti, troppi altri clienti abituali, talvolta beandosi inconsciamente delle loro disgrazie.
Schadenfreude.
Ma aveva la spiacevole sensazione di sentirsi imbattuto.
Osservò Choji scolare il suo bicchiere, lasciandosi invadere dai riflussi della mente.

Choji si ticchettò una guancia con le dita callose, sorridendo.
“Guarda come si sente caldo stasera In-”
“Inuzuka, sì” tagliò corto il moro. Le sue labbra si incrinarono in una smorfia di disgusto, specchio dei suoi pessimi pensieri.
“Yakuza, dite?” Le dita di Temari si serrarono sul manico del boccale in un movimento che di femminile aveva ben poco. “A me sembrano più come quell’idiota di mio fratello. Wannabe… ridicole imitazioni di gangster”.
Shikamaru e Choji si rivolsero un rapido sguardo prima di scoppiare in una risata roca. La giovane si strinse imbronciata nelle spalle, mettendo in evidenza le morbide curve.
“Le donne sono una razza sveglia, lo dico sempre” ghignò sarcastico il moro, allontanandosi per ascoltare l’ordinazione di un oscillante impiegato.
“La vedi quella cosa sulla fronte di Hyuga?” proferì burbero Choji, indicando l’uomo in questione con un cenno del capo ispido.
La donna si voltò accigliata verso gli Yakuza, discretamente seguita dalla coda dell’occhio di Shikamaru. Il ragazzo filò verso i boccali, senza però perdere di vista la traiettoria seguita da quei magnetici occhi verdi.
Neji Hyuga, scuotendo la lunga chioma corvina, stava ammonendo con uno sguardo di puro gelo il compagno dai capelli castani, la cui mano più simile a un’irsuta zampa di licantropo aveva sfiorato la gamba svettante della cameriera.
“Be’? E’ una svastica” osservò Temari con indifferenza, mentre Ino si allontanava indispettita dal tavolino dei tre uomini, un vassoio d’alluminio stretto fra le unghie smaltate.
“Sì, e una svastica non si tatua per gioco” borbottò Choji in risposta, serio.
Le iridi smeraldine di lei si soffermarono sulle impugnature di quelle che erano inequivocabilmente mitragliette, sporgenti senza alcuna discrezione dalle cinture dei tre.
Le labbra carnose si inclinarono sotto il debole morso degli incisivi, forse non tanto alla vista delle letali Wz63, quanto per la constatazione di avere nettamente torto.
Quelli erano veramente Yakuza.
E lei era veramente, sfacciatamente sexy.
Il forte odore della birra penetrò nelle narici di Shikamaru mentre il liquido scivolava sulle sue dita, traboccato dal boccale già pieno.
Imprecò. Chiuse bruscamente la manopola del distributore e schiaffò il boccale ricolmo di fronte all’avventore, ciondolante in attesa.
E come se non bastasse, al suo ritorno di fronte ai due clienti notò con disappunto che erano molto, troppo vicini. I loro sguardi erano rivolti all’unanimità verso il mafioso dalle imperscrutabili lenti scure, presi da una fitta conversazione.
“Davvero, non sai quel che dici” stava ridacchiando Choji, sventolandole una mano di fronte al naso. “Lo sai come lo chiamano, a quello?”
“Spara” buttò lì Temari, affondando nel suo boccale di Kirin.
“La mantide di Osaka” rivelò l’Akimichi, facendo schioccare le labbra nel sommo compiacimento delle proprie conoscenze. Il tono sfumò sibilante, conferendo al titolo dello Yakuza un tocco di inquietante mistero.
“Mantide? E perché mai?” borbottò Temari, scrutando rabbuiata il fondo spesso del boccale.
Shikamaru si allungò placidamente sul bancone, la mano a sostenere il mento, un sorriso sghembo a ravvivare l’espressione ironica.
“Non sai che cos’è una mantide, Sabaku?”
“Oh, certo che lo so” Abbaiò la bionda, le labbra scarlatte disegnate in una smorfia d’irritazione. “Ma non vedo cosa c’entri con quel… coso”
Un robusto braccio villoso le passò attorno al collo, seguito dall’odore delle parole di Choji. Vacillanti e pregne d’alcool.
“Ti consiglio di non urlarlo, Temari” sogghignò, le ispide ciocche ramate contro il viso di lei. “Le mantidi sbranano il compagno dopo averlo usato… si dice che Aburame abbia sulla coscienza la pelle di parecchie donne di strada”.
Shikamaru estrasse uno straccio malridotto e si dedicò alla pulizia del rigido piano, reso opaco da gocce di varia e sconosciuta natura. Un grugnito d’irritazione gli incupì la gola.
Un grugnito di gelosia; i suoi occhi ricadevano a intermittenza su di lei.

Shikamaru allontanò le mani dal bancone, posando lo sguardo su quello rabbuiato di Choji.
Stava pensando.
Succedeva a tutti, presto o tardi, trovandosi di fronte ad un bicchiere di sakè.
Scrutando in religioso silenzio il liquido scuro, si contemplavano il proprio passato, i propri errori, il proprio oscuro segreto decantato sul fondo di vetro.
Quello di Shikamaru era che pagava il pizzo.
Distolse bruscamente lo sguardo, ritirandosi nella cucina. Le bianche mura, i vetri, i tavolini.
Si sentiva stranamente attaccato a quello squallore, ben sapendo che l’integrità dell’intero locale dipendeva dai suoi pagamenti.
Gli Yakuza non erano soltanto mafia.
Erano le sue catene. Il legittimo proprietario del locale, suo padre, non sapeva nulla di ciò. Si limitava a fissare quegli eccentrici uomini tatuati con sguardo critico, ignaro del ricatto che suo figlio subiva.
Uno Shikamaru ormai inespressivo osservò sua madre gettare in una padella della cipolla appena tagliata, presa dall’affanno del suo compito di cuoca.
Che umiliazione.
L’Akatsuki aveva semplicemente capito che lui, Shikamaru Nara, non avrebbe mai confessato del pizzo alla sua famiglia, che non l’avrebbe mai messa in pericolo. Non era l’uomo ‘cazzuto’ che tutti consideravano suo padre, mai sarebbe stato in grado di uscire dal racket delle estorsioni con una denuncia.
La codardia gliel’avevano letta negli occhi.

*

“Ancora sakè, piccola?”
La donna storse il naso in una smorfia involontaria, roteando il contenuto del bicchiere sul fondo di vetro. Si ritrasse contro lo schienale dello scomodo divanetto squadrato, rivolgendo uno sguardo astioso al biondo stravaccato dall’altra parte della sala.
Un volto ghignante si avvicinò al suo, illuminato dalle psichedeliche luci laser.
“No, grazie” urlò oltre i forti battiti vibranti di musica, costringendosi a distogliere lo sguardo dalle numerose scostumate che si prodigavano contro i pali da lap dance.
Li fissò invece sulla chioma albina dell’uomo che le sedeva accanto, meticolosamente allisciata contro la nuca da un’abbondante dose di gel.
Hidan la osservò al di sopra del bicchiere, un sorriso obliquo dischiuso sui denti perfetti.
“Sembri a disagio… Temari” La sua lingua dardeggiò vogliosa nel pronunciare il suo nome, quasi gustandolo.
“Non mi piacciono i locali” replicò lei, indifferente.
Mi ricordano pessime esperienze.
L’uomo scoppiò a ridere, osservando con moderato interesse una ragazza appena maggiorenne dare inizio a un provocante strip-tease.
“Tranquilla, dolcezza. Siamo solo di passaggio” le sibilò nell’orecchio, avido. “Giusto il tempo di far parlare Sasori col nostro amico, qui… Pain. Questioni d’affari”.
“Pain… qui?” la bionda si sistemò bruscamente un ribelle codino biondo, storcendo le labbra carnose al ricordo dell’uomo devastato da piercing. Fortunatamente, aveva avuto l’onore di incontrarlo poche volte insieme agli altri della gang.
“Oh, è il proprietario di questo Night Club. Non te l’avevo detto?” Le iridi ametista di Hidan luccicarono d’interesse, vive. Temari sfiorò con lo sguardo il muscoloso braccio che le passava attorno alle spalle, tatuato –come del resto gran parte del corpo- a rappresentare fedelmente lo scheletro dell’uomo, invisibile sotto la cute lattea.
Tacquero a lungo, osservando con distacco i corpi sinuosi muoversi a ritmo del martellante rumore. Nel lasso di tempo in cui attesero il ritorno di Sasori, numerose ragazze appena maggiorenni sparirono dalla pista in favore di luoghi più appartati, accompagnate da uomini più o meno giovani.
Anche Deidara era sparito, accompagnato da due o tre figure lampeggianti vestite di pizzo.
Spazzatura.
Il braccio di Hidan attorno al collo le risultò stretto, mentre l’ennesima sfilata di ombre percorreva il suo volto abbronzato.
Temari detestava quel degrado, quell’abbandono totale al lato più animale e sporco dell’essere umano. Aveva sempre disprezzato quelle puttane, quelle bestie, quegli sfruttatori.
Ma dopo che anche la fazione ‘perbene’ del mondo le aveva voltato le spalle, cosa le rimaneva? La spazzatura. La vita in adattamento, trastullata dalla compagnia degli amici di suo fratello.
L’uomo dai capelli rossi li raggiunse, provocando una forte pressione delle unghie di Hidan contro la sua spalla. La bestia era ansiosa, bramava.
Temari si sottrasse impercettibilmente al contatto.
La pallida cute come sempre solcata da tatuaggi permanenti, Sasori sistemò distrattamente un sacchetto in una borsa a tracolla, puntando i fiochi occhi fulvi su Hidan. Così vicino all’albino, a diretto confronto, era davvero difficile stabilire quale dei tatuaggi dei due uomini fosse di gusto peggiore.
“Andiamo?” Hidan si sollevò dal divano in un fluido, sensuale movimento.
“Andiamo” rispose Temari, schioccando la lingua al sapore acre del vino di riso. Pose il bicchiere su un tavolino e li seguì all’esterno.
L’uomo dai capelli rossi attraversò la pista senza dire una parola, etereo e impassibile fra la folla di femminile carne vivente.
Le labbra scarlatte della donna si spalancarono a contatto con l’aria esterna, frizzante, strappando un sorriso ibrido di malizia e compassione a Hidan, che alto ed elegante al suo fianco, la osservava morbosamente.
Mantenendo sguardo lontano e silenzio serrato, Temari scortò i due uomini verso la Mercedes grigio metallizzato, godendo della libertà appena guadagnata.
Bar, taverne, izakaya, night club; quali che fossero, detestava fieramente i locali.
Con tutto il cuore.

Prima di realizzare che Kankuro era perfettamente in grado di badare a sé stesso -tanto da non aver bisogno del suo costante controllo-, prima di ammettere a sé stessa che se continuava a tornarci ogni sera il movente non era certo suo fratello, Temari detestava dover passare la serata nell’izakaya dei Nara.
A questo ripensava mentre, sventolando con fiera indifferenza un ventaglio di gusto tipicamente giapponese, sedeva di fronte ai due uomini, le gambe accavallate.
A destra sedeva suo fratello, i tatuaggi tribali ben visibili sulla linea della mascella e sulle braccia poderose. Mentre l’altro…
Capelli rossi, di un cremisi tanto bruciante da sembrare sintetici.
Anelli sofisticati alle dita affusolate, occhi di un rosso fulvo e un pessimo tatuaggio full-body, che ritraeva sul corpo proporzionato numerose giunture lignee; ben delineate e diffuse, lo facevano assomigliare ad un’inquietante marionetta fuori misura.
Sì, decisamente l’astio per l’izakaya dei Nara ritornava a vociare quando suo fratello gli presentava gente del genere.
“Questo è Sasori, Tem” biascicò Kankuro, battendo un pugno sul tavolino.
“Piacere” esordì fredda, gettando indietro la chioma biondo miele. Lo sconosciuto tese pacatamente una mano, che lei strinse con diffidenza. Quegli occhi fermi, rossi ma inerti come tizzoni morenti, brillavano di una luce che non le piaceva. Affatto.
“Viene spesso qui dai Nara e mi ha fatto conoscere i suoi amici… gente tosta” proseguì Kankuro ridacchiando, gli occhi torbidi socchiusi.
“Pensavo di presentarteli tutti, girano da queste parti stasera, eh Sasori?”
L’uomo si limitò ad assentire, ignorando composto la gomitata nelle costole appena ricevuta dall’amico. Le labbra di Temari si storsero in una smorfia appena percettibile.
Voltò una rapida occhiata al barista. Testa ad ananas stagliata contro le mensole stipate di bottiglie, Shikamaru stava fissando Sasori con espressione indefinibile.
Preoccupata, forse. Oppure… gelosa.
“Va bene, Kankuro” esclamò la donna, il tono inutilmente elevato. “Fammi conoscere gli amici di… Sasori, giusto? Saranno sicuramente molto interessanti”.
Gli occhi felini balenarono ancora un istante verso il bancone, in un luccichio di caldo compiacimento.

I palazzi decadenti di un’Osaka periferica filavano cupi oltre il ciglio della strada.
Un gioco iniziato per seduzione, per suscitare stupida, infantile gelosia.
E così si ritrovava in macchina con questi ‘amici di Kankuro’, tatuati dalla testa ai piedi. Con un fratello simile in casa ci aveva pur fatto l’abitudine.
Il motore rombava ovattato, accompagnato dai discorsi dei due uomini, sempre così incomprensibili alle sue orecchie. Ticchettava le unghie contro il cruscotto, ritmicamente.
“Lo stai strizzando troppo, quel Nara”.
Temari sollevò lo sguardo, rivolgendolo verso Hidan. Seduto sul sedile posteriore, l’albino ghignava sornione, rivolgendosi a Sasori.
Nulla da stupirsi. La donna scosse la testa, facendo ondeggiare le lunghe ciocche dorate. Frequentavano tutti l’izakaya dei Nara, inutile sorprendersi del fatto che conoscessero quella famiglia di…
“Quando torni dal ragazzo a riscuotere?” proseguì l’uomo, un noncurante divertimento a insaporire il timbro inconfondibile della voce viscida. “Shikamaru, giusto?”
Gli occhi felini di Temari si spalancarono, accompagnando un insano interessamento.
Il suo orgoglio di donna lo urlava: non avrebbe dovuto neanche ascoltare. Ma…
Riscuotere cosa?
“Sì, Shikamaru” fu la lapidaria risposta del rosso. Sasori fissava la strada, le accecanti luci notturne riflesse sulle lenti convesse dei costosi Ray Ban. “Passo sempre a fine mese. Ancora undici giorni”.
“Ah!” Hidan gettò la testa indietro, abbandonandosi a una risata appagata. Temari aggrottò la fronte. “Tanin no fukou wa mitsu no aji, come si suol dire” commentò, languido.
Un brivido corse lungo la schiena della donna nell’udire il proverbio.
‘I mali altrui hanno il sapore del miele’.
“Deidara ha avuto occhio” proseguì, la lingua fra i denti. “E’ decisamente il moccioso che non ha le palle di denunciare. Succhi da una preda perfetta, Sasori”.
Un colpo, una fucilata in petto. La bionda voltò lentamente il capo sul poggiatesta, improvvisamente confusa.
“Denunciare… cosa?”
“Il pizzo, cara!” Sasori sorrise appena alla dichiarazione estasiata di Hidan. “Shikamaru Nara deve pagare il pizzo per evitare che noi della Yakuza gli bruciamo il locale”.
Inconfondibile, viscida…
Schadenfreude.
Fraintese lo sguardo di Temari, pietrificato.
“Avanti, non dirmi che non lo sapevi! Lo sa tutta la città… tranne i suoi genitori” spiegò, un ghigno a fior di labbra.
“Voi… voi Yakuza?”
Per un momento, l’unico suono ad animare l’abitacolo fu il sibilo dell’aria contro i vetri scuri. La Mercedes si arrestò al semaforo, silenziosa.
“Cristo” osservò Sasori, tranquillo.
“Infatti” ringhiò l’albino, divertito. “Kankuro non ti ha raccontato nulla di noi, Temari?”
No.
Kankuro non le aveva mai detto che aveva a che fare con dei mafiosi.
Kankuro non le aveva mai detto che Shikamaru Nara veniva ricattato.
Un baratro di prospettive le si spalancò sotto i piedi, convergendo in un’esplosione frenetica di terrore.
“Questa è estorsione!” gridò, voltandosi furente verso i due uomini. “Voi…” Smise di pensare, sentendo il sangue salire alla testa come il magma si prepara a traboccare dal vulcano.
Si scagliò contro lo sportello, spalancandolo di slancio sotto lo sguardo allibito di Sasori.
“Ehi, bambola!” Il ruggito di Hidan la raggiunse, seguito dalla sua mano prepotente.
“Mollami!” sbottò, divincolandosi dall’impietosa stretta al braccio. “Mollami, stronzo!”
“Che succede, quando scopri che i giocatori sono sporchi ti ritiri?” rise, sprezzante, trascinandola dentro. Temari si liberò dell’uomo con uno strattone, maledicendosi per essere stata così ingenua.
Sapeva che non avrebbero mai osato torcere un capello a lei, ma…
Il suo pensiero corse dove non doveva.
Lui l’aveva abbandonata, proferendo la fine di una storia a cui non era più interessato. Non poteva, non doveva considerarlo ancora parte della sua vita.
La strada bruciava via, slittando rapida sotto i suoi piedi. Mai l’asfalto era stato tanto effimero mentre lo divorava a passo veloce, i capelli dorati che morivano in scintille nel buio della notte.
Doveva parlare con Kankuro, al più presto possibile.

*

La mano sudata scivolò oltre la guancia, sull’orecchio, nei capelli ormai arruffati dal nervoso passaggio delle dita inquiete. Storse la bocca, sentendo la cute rigarsi sotto le unghie ormai spezzate.
Faceva freddo, schifosamente e incessantemente freddo.
Il tempo passava; troppo lento, troppo veloce.
Non avrebbe saputo dirlo. Semplicemente, mentre sedeva scomposta in cucina, ripeteva a sé stessa che avrebbe ammazzato Kankuro non appena avesse rimesso piede in casa.
Le sue gambe sembravano rifiutarsi di rimanere ferme, i muscoli contratti dalla tensione le provocavano mugolii di dolore repressi. Abbandonò la testa sul tavolo, percependo con un brivido il freddo legno sulla guancia.
Il degrado e l’abbandono facevano bella mostra ovunque nella gelida stanza; dalle maioliche scalzate del pavimento alle decine di oggetti abbandonati su mensole e ripiani, un vuoto silenzioso dilagava percettibilmente per tutto l’appartamento.
Un organo vitale in meno, un pezzo di famiglia decaduto, da quando Gaara se n’era andato. Da quando aveva intrapreso la lunga strada già battuta dal padre per diventare avvocato, guidato da una cieca ambizione, disconoscendo Kankuro come suo fratello. Un indegno, un delinquente di strada, sostenuto da quell’uomo mancato di sua sorella; forte di giudizi cinici e incapacità di provare rimorsi, il più giovane dei Sabaku si era discostato dalla sua famiglia, sorridendo di gelida soddisfazione per la propria carriera ben spianata all’orizzonte, contrapposta ai fallimenti universitari di Kankuro.
Schadenfreude.
Sempre lei.
E così Gaara aveva preso il volo. Primo abbandono, seguito da una serie di altri non meno dolorosi. Le dita di Temari si serrarono convulsamente sui palmi. A lungo i suoi occhi, brucianti, si posarono scivolando sulla cucina ampia e spoglia, senza realmente vederla.
Poi, finalmente, il suono del campanello arrivò. Sollevò immediatamente la bionda testa sfatta, sentendo la guancia appiccicata al piano ligneo distaccarsene dolorosamente; il cuore che le martellava in petto, corse per il corridoio e spalancò la porta d’ingresso, di slancio.
Una folata di gelido vento invase l’ingresso, inducendola a socchiudere gli occhi.
Storse il naso. Se non avesse avuto qualcosa di molto importante da riferire al fratello, gli occhi li avrebbe chiusi direttamente. Kankuro barcollò.
Fradicio. Ubriaco fradicio. Come sempre, d’altronde.
Le braccia tatuate pendevano inerti lungo i fianchi, seguendo il febbrile spostamento che effettuava alla ricerca dell’equilibrio; gli occhi di un verde cupo erano vacui, arrossati, la bocca dischiusa in una smorfia inebetita.
Reprimendo le lacrime con un ringhio, Temari lo afferrò per un braccio e lo trascinò dentro, suscitando colorite proteste nel ragazzone.
“Piano, cazz… ehi!” La ragazza lo strinse con maggior vigore, sino a sentire la pelle robusta congelarsi nella sua morsa d’acciaio. Si arrestò in cucina, dopo averlo spinto malamente a sedere.
Lasciò che le sue ispide ciocche castane si spargessero sul muro, che gli occhi stanchi si rivolgessero al soffitto nel gettare la testa indietro; poi, afferrandogli le spalle con forza, lo costrinse a guardarla in faccia.
“Perché non mi hai detto niente?” urlò, priva di controllo. Lo sguardo di Kankuro vagò per il suo volto paonazzo, annebbiato. Dalle labbra secche sgorgò un biascichio confuso:
“Che… sei fuori di testa?”
“Tu lo sapevi!” continuò Temari, una luce ancor più disperata negli occhi. “Tu sapevi che Sasori e gli altri sono mafiosi! Per quale cazzo di motivo non mi hai detto nulla?”
La mano del fratello si strinse impietosa sul suo polso, bloccandole i movimenti. Con un solo, fermo sguardo irrazionale la mise a tacere, ringhiante. “Lasciami…”
La ragazza indietreggiò, la frangia umida che ricadeva scomposta sugli occhi sbarrati. Kankuro reagì come una bestia minacciata, la percezione distorta dall’alcol; la spinse via con forza, mandandola a cozzare di fianco contro il lavandino con un solo, disperato colpo di mano.
Temari filò fuori dalla stanza, gli occhi umidi, inorridita e spaventata. Frustrata, oltre ogni dire.
Non poteva far nulla per lui, né lui poteva esserle di alcun aiuto. Aveva imparato a gestire le sbronze di suo fratello con la reclusione, di lui o di sé stessa.
Si chiuse la porta alle spalle, ruotò la chiave nella toppa e crollò riversa sul letto disfatto, esausta.
La sua mente aprì le porte a pensieri di ogni genere, che si affollarono impazziti per la sua testa martoriata. Primo fra tutti, un lume accecante, doloroso.
Ricattato dalla Yakuza. E non me l’ha mai detto.
Si coprì gli occhi con un braccio, respirando affannosamente.
Forse non si fidava veramente di lei.
Forse aveva soltanto avuto paura.
Ad ogni modo, le aveva nascosto la verità; e ciò non era che una variante del comune termine ‘mentire’.
Bugiardo.
Shikamaru era stato un bugiardo.
Un codardo che si rifugiava dietro una maschera pur di sfuggire ai problemi.
Temari si maledisse ancora, per non aver colto i piccoli segnali, per non essere stata in grado di comprendere dalle esperienze apparentemente più insignificanti. Digrignò i denti, lasciando che le immagini le invadessero la mente, correnti in un dirompente flusso di ricordi.

“Bugiardo”
Le sopracciglia di Shikamaru si aggrottarono, interrogative.
“Che c’è ora?”
“Bugiardo” ripeté, la voce che sgorgava a fatica dalla schiera di denti poco finemente digrignati.
Il ragazzo non indietreggiò neppure quando lei sollevò bruscamente un braccio, fasciato nella larga camicia da notte. Continuava a ostentare quell’odiosa espressione annoiata, da schiaffi.
“C’è che mi hai detto… che avresti avuto il turno fino a tardi all’izakaya”sbottò, quasi boccheggiando, i codini che danzavano furiosi attorno al viso arrossato. “E che non saresti potuto venire a cena con me stasera!”
Shikamaru roteò gli occhi, un pesante sbuffo a fior di labbra. Temari sedette bruscamente sulla lavastoviglie, le gambe nude che spuntavano oltre l’orlo fiorato della veste.
“Avanti, Tem… non potevo mica dirti che c’era la partita” buttò lì, con tutta l’aria di un padre razionale che tenta di far ragionare la figlia isterica. “Mi avresti sbranato se ti avessi detto che per stasera ti avrei piantato per vedere partita con Cho-”
“Ma l’hai fatto!” strepitò la bionda, piombando a piedi scalzi sul pavimento. “E’ questo il punto, l’hai fatto!”
“Avanti, seccatura… sono passato qui per stare con te, non ti ho mica dimenticata” sospirò lui, ficcandosi le mani in tasca con aria profondamente spossata.
Non si preoccupò neppure di chiederle come avesse scoperto che l’izakaya era in realtà chiuso, come avesse capito che era da Choji a vedere la partita. Menefreghista al massimo.
Temari gli diede la schiena, dirigendosi verso la camera da letto; pochi passi e lui la raggiunse, cingendole la vita con delicata lentezza.
Labbra calde le sfiorarono il collo, facendola rabbrividire.
“Dai, seccatura… mi perdoni se ti faccio compagnia stanotte?”
Le sfuggì un sorriso morbido, che represse con efficacia. Non si addiceva né a lei, né alla situazione.
“Non è questione di perdono, Shika” mormorò sciogliendosi dall’abbraccio, più quieta. “E’ che se mi racconti bugie per cose così piccole, posso davvero fidarmi di te?”
Si voltò, i loro sguardi s’incontrarono.
“Chi mi dice” proseguì, piano “che tu non mi nascondi anche cose più grandi?”
Un’ombra passò sul volto di Shikamaru.
In distaccato silenzio, distolse lo sguardo dal suo.

Il retrogusto amaro del sakè pervadeva ancora la sua bocca. Affondò il viso nel cuscino, sentendo il viscido contatto della stoffa bagnata impregnarsi di mascara.
Una lunga serie di colpi risuonò alla porta, ritmica; si rannicchiò su un fianco e attese che Kankuro terminasse di bussare, ignorandolo. Quando i passi del fratello si affievolirono, strascicando finalmente oltre la porta della sua stanza, Temari si morse con violenza il labbro inferiore. Serrò le palpebre.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Avrebbe potuto denunciare, conoscendo i nomi degli Yakuza.
Avrebbe potuto… non fare. Perché sudare? Per chi, per lui?
Avrebbe potuto lasciarlo marcire, guardarlo morire lentamente, logorato dal racket.
E sarebbe stata meravigliosa, giustissima…
Schadenfreude.
O forse no.
Dormì un sonno inquieto, disturbato, contaminato. Spaccato in due.
Il suo orgoglio sanguinava da più parti.


***

Angolo dell’autrice:
Ok, questo è stato il mio primo concorso. Ho lavorato un mese e mezzo su una trama, poi… blocco creativo e cambio di programma. Ho sviluppato un’altra idea (questa) e l’ho elaborata durante un viaggio che sono stata costretta a fare. Quindi, negli ultimi quattro giorni di tempo rimasti, ho scritto come una pazza frenetica.
-Ho dovuto segare un giorno di scuola per fare in tempo a consegnare
-Ho praticamente avuto una crisi isterica per fare in tempo a consegnare
-Stressss… =_=
Alla fine non ero neppure così soddisfatta del risultato, ho trovato la fic… frammentaria. Ho elaborato la trama e le varie parti in giorni e giorni, ma in il risultato non mi soddisfaceva ugualmente. Morale della favola, mi sono letteralmente ammazzata.
Per questo la mia sconfinata gratitudine va ai due giudici del concorso bambi88 e arwen5786. *occhioni enormi* Sapere che tutto questo casino (sì, ho anche creato qualche problema con la casella e-mail perché non inviava la fic! Yay ^^) è stato apprezzato al punto di meritare il primo posto mi fa sentire… sì felice. Ci tenevo tanto a questo concorso, davvero.
Grazie.
Che altro dire? ^^
Spero che leggendo apprezzerete questa fic. Fatemi conoscere i vostri pareri! ** Posto il secondo capitolo.. uhm.. Mercoledì. Sì, Mercoledì.
Un bacio enorme a tutti, soprattutto ai nostri giudici e a tutte le partecipanti al concorso!
Chime

EDIT: Piccola aggiunta, sarò breve: per favore, non aggiungere questa fic ai preferiti se non avete intenzione di recensire . Ve lo chiedo come cortesia. Molte persone lo fanno, e ti lasciano quel senso come di... "Non saprò mai cosa le abbia spinte ad aggiungere ai preferiti la mia fic. Sarà piaciuta? Ci sarà finita per caso? Boh!"; per questo ho preso l'abitudine di ringraziare via e-mail queste persone, chiedendo la gentilezza di scrivermi il motivo per cui hanno apprezzato la fic, per e-mail o per recensione che sia.
Grazie in anticipo e a presto!

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Capitolo 2
*** Seconda parte ***



Nota: Lo dico per scrupolo, in caso qualcuno se lo sia chiesto… i tatuaggi che ho tanto menzionato, facendo collegamenti con i tratti caratteristici dei personaggi del manga (la svastica di Neji, le ossa di Hidan, ecc), sono un tratto caratteristico e realmente esistente degli Yakuza: in Giappone sono poche le persone che osano tatuarsi, per il semplice timore di essere presi per mafiosi. Questo tende a sottolineare il carattere ribelle e provocatorio di Kankuro, che ho “tatuato” nella storia con i segni che porta sempre in volto durante la serie, nonostante lui non sia parte della Yakuza ^^.
Ed ora, buona lettura della seconda parte!


Capitolo 2



Infilò la chiave nella toppa, producendo un cupo raschiare.
Alle loro spalle la luce acquistava consistenza sull’asfalto, nella scalata del sole lungo il buio pendio del cielo; un sibilo sordo sul pavimento polveroso e la porta si aprì lenta, rivelando l’interno addormentato del locale.
Mattino. E la città si destava, svogliata.
Mossero pochi passi verso l’interno, gustando silenziosi l’amaro in bocca della levataccia. Ino spalancò le finestre, lasciando che una fresca brezza luminosa invadesse l’izakaya.
Shikamaru la osservò muoversi freneticamente al di là della mano premuta sulla tempia, in un gesto di debole sconforto.
“Su, Shika” La lunga coda biondo platino della ragazza spuntò ondeggiando dalla cucina, sovrastata da un rigido manico di scopa. “Ti ho promesso che ti avrei aiutato a ripulire, ma non pensare che ora faccia tutto io”.
Il ragazzo socchiuse gli occhi, infastidito dal trillo della voce di Ino; lentamente, sconfiggendo la stanchezza pian piano, si arrese al dovere e scese dal tavolino su cui era seduto, facendo leva sulle gambe foderate di denim sdrucito. Si trascinò in un angolo polveroso, afferrando al volo uno scopettone passatole prontamente dalla ragazza.
“ ’azie”
Iniziò a spazzare con scarso vigore, rimuovendo patine di polvere per poi accatastarle più in là.
Com’era triste, il locale. Così immerso nel suo sonno di materia morta, polveroso, spento. I residui della scanzonata serata precedente ingombravano impercettibilmente il tutto, urla e risate ebbre svanivano nel nulla del silenzio.
Forse era solo molto stanco.
Di lavorare, di doversi piegare sia al proprio dovere che al loro divertimento.
Di fare finta di aver fatto la cosa giusta.
Di vivere senza di lei.
Prima di poterlo realizzare, le sue braccia si fermarono. Poggiarono sul davanzale, fondendosi nel riflesso del vetro incrostato sotto il suo stesso sguardo vacuo.
Le nuvole erano spesse, intermittenti. Come quella volta in cui…
Ma era notte, quella volta.
E lui era insieme a lei.

Temari schioccò la lingua.
Il polso ruotò fluido sul manubrio, aizzando l’acceleratore. S’innalzò in risposta un ruggito feroce, che scosse col suo eco vibrante due animi silenziosamente euforici.
Shikamaru affondò le mani nei suoi fianchi torniti, allarmato.
“Che c’è?”sbottò la bionda, curva contro la strada.
La moto rallentò e giunse a fermarsi, rimanendo in bilico sulle due ruote per qualche secondo, prima che due tacchi di stivali in cuoio stabilizzassero l’equilibrio. Affondarono nello sterrato della deserta strada di periferia, offuscando la lucida pelle di una patina di polvere.

Uno straccio atterrò sul tavolino accanto a lui, distogliendolo dai suoi pensieri.
Si voltò appena, incontrando lo sguardo accigliato della ragazza, intenta a controllare che lo smalto sulle lunghe unghie non si fosse scheggiato. Sollevò la testa bionda, rivolgendogli i grandi occhi azzurri.
“Aah” Ino sospirò, un gran sorriso sulle labbra imperlate di rosa opalescente. “Quando guardi le nuvole con lo scopettone morto in mano, significa che sei malinconico come poche volte. Ho indovinato?”
Shikamaru le restituì uno sguardo cupo, facendole scivolare via il sorriso dal volto come acqua saponata su un piatto. Ino calò al pavimento le due pozze cerulee.
Col pretesto di riguadagnarsi lo straccio lanciato via in un accesso d’impazienza, si avvicinò al ragazzo, gestendo precise falcate sui tacchi alti. Lo raggiunse, sedette pacata sul tavolino, la pezza stracciata in grembo.
Il ragazzo sentì lo sguardo preoccupato di lei sfiorarlo per un momento ancora, fuggevole.
Poi, con un tono che voleva suonare neutro, pronunciò la domanda che probabilmente voleva esporre da minuti:
“Quanto manca?”
“A cosa?” La risposta di Shikamaru fu quasi brusca. La voce di Ino si fece, se possibile, ancor più cauta.
“Quanto manca a quando… dovrai pagarli?”
“Dieci giorni” soffiò, atono.
Gli parve di vedere le due iridi rossastre di Sasori restituirgli lo sguardo, avide.
La ragazza tacque, lasciando che la mente di lui si disperdesse nel cielo azzurro, macchiato da nuvole libere.
Libere. Perché era questo in fondo il suo desiderio più grande.
Era incatenato al ricatto che lo logorava lentamente. Era prigioniero.
Ma anche Temari, come le nuvole, era libera.
Forse era anche per questo che l’aveva lasciata… lei, così viva, sciolta da vincoli mortali. Forse, oltre al desiderio di tenerla lontana dalla sua situazione di pericolo, aveva preferito allontanarla per rivalsa.
Perché lei era libera, e lui no.
Forse era stato quasi piacevole sentirsi per un momento libero di scegliere, utilizzando tale libertà per allontanare lei e la sua maledetta fortuna.
Schadenfreude?
E le nuvole scorrevano, silenti.

“Vai piano…”ammonì, la linea delle labbra incerta.
Per tutta risposta, la ragazza sollevò al cielo le iridi smeraldine. La sella foderata in pelle tremò furente sotto di loro mentre ripartivano bruscamente. Forse un po’ troppo.
Il ragazzo si aggrappò disperatamente alla schiena di lei, sospinto indietro dalla forza di gravità. La voce ruggente di quella che avrebbe dovuto essere una delicata ragazza gli solleticò l’udito, macchiata dall’interferenza delle raffiche ghiacciate.
“Si vive una volta sola!”
“Appunto” Shikamaru rabbrividì nel giubbotto militare “Cerchiamo di farla durare”.
Una risata di scherno in risposta.
La mano della gravità premeva sul suo petto, togliendogli il respiro.
O forse era il peso. Il peso nello stomaco.
Tentava di scalzarlo dalla sella.
Quei vent’anni di vita asettica lo annoiavano, svuotandolo di gioia e iniziativa. Come sperare di passarne altri sessanta, in tale pigra passività?
Fili di morbido miele danzavano impazziti contro la sua fronte, sfuggiti al casco della loro proprietaria. Poteva quasi sentire la carica elettrica di quella donna dipanarsi lungo le fibre intessute d’oro, contaminare il suo inerte silenzio.
Buffo.
L’apatia lo rendeva attaccato a una vita di per sé apatica.
Ma anche se non l’avrebbe mai ammesso, quelle corse sfrenate, vissute dietro la schiena di un demonio scatenato, gli avevano donato qualcosa: la capacità di sorprendersi, di non dar più nulla per già visto, per scontato.
Shikamaru l’aveva persa fin dall’adolescenza.
Quell’angelo dalla natura demoniaca era riuscito a fargli riscoprire lo stupore per ogni piccola cosa che, con la sua indolenza, lui non notava, giudicandola insignificante.
La brezza, così mansueta e dolce nel sereno.
Shikamaru non avrebbe mai immaginato quanto brutale potesse divenire, nell’impatto contro corpi lanciati a tale velocità. Era rimasto sorpreso.
E la noia, la passività che lo caratterizzavano, avevano per un istante lasciato scoperto un barlume di vitalità. Solo in quel contrasto con la Luce si era accorto di come quelle limitazioni rendessero opaca la sua vita.
Temari era vento, era una folata di cambiamento, d’aria fresca, che divorava quella ormai stagnante del suo pigro trascorrere. Ma lui aveva un ruolo da giocare, una maschera a cui restare leale. E in quanto a questo, era fortemente, stupidamente orgoglioso.
“Manca tanto?”gridò, la corrente aggressiva che gli strappava le parole di bocca.
Temari rise, maliziosa.
“Sì, Nara. Siamo ancora tanto, tanto lontani da casa…”
La sua voce si perse nel vento, contro il vuoto della visiera.
Senza catene, senza limiti. Libera.
Filarono per un’ampia sopraelevata, che curvava su sé stessa sino a connettersi al raccordo. Le luci filavano basse ai loro fianchi, anime sopite fra le mura immerse nel buio.
Una notte eterea.
Temari gettò la testa indietro, in preda all’ebbrezza della velocità.
“Respira, avanti!”
Rallentò svoltando in una strada secondaria, finché le loro parole furono udibili oltre il rombo scemante della moto. Per quanto consentito, la ragazza si affacciò al di sopra della propria spalla, sulle labbra vermiglie un sorriso ebbro, selvaggio.
“E’ aria di libertà. La senti?”
“Sa di smog” osservò Shikamaru, piatto.
Un’ombra strisciò sul volto della ragazza, celata dalla visiera del casco. Si voltò.
Tacque a lungo mentre un lontano semaforo si avvicinava sfrecciando.
“Non sai guardare oltre la punta del tuo naso, Nara”.
Era un suo limite. Era vero.
E mentre la spinta sull’acceleratore sfumava, la sua voce si freddò quanto il motore.

“Tieni, dai”
Ino gli porse nuovamente la scopa, spingendolo a proseguire il lavoro. Si riscosse, promettendosi ingenuamente di non cadere mai più nella trappola delle nuvole.
Riprese obbedientemente a rassettare il locale per la serata, il volto distorto di tanto in tanto da cupe interferenze. Faticava a respirare, e non era certo colpa dell’allergia alla polvere.
Perché Temari era vento.
Era assuefatto all’ossigeno, ed ora, da stupido eroe suicida, boccheggiava in astinenza.


*

“Prego”
Con un’espressione che non avrebbe potuto essere più annoiata, si voltò verso l’avventore.
“Birra” gracchiò l’uomo.
“Asahi, Sapporo, Kirin…” elencò, piatto.
“Asahi”
Shikamaru annuì, inespressivo, voltandosi verso i boccali stipati in ordine su una mensola di legno levigato. Sbuffando per il caldo, colmò il boccale e lo schiaffò sulla liscia superficie, per poi abbracciare ostilmente con lo sguardo l’arrivo al bancone di un ragazzo mingherlino e l’incedere rapido di una donna, diretta anch’essa verso di lui.
Ancora clienti. Non gli stavano dando tregua.
“Shikamaru, vieni un attimo a portarmi quella cassa di gamberi!” La voce di sua madre giunse strepitando dalla cucina, oltre la tendina di canne di bambù; si ficcò una mano fra i capelli, disfacendo all’istante il precario codino alto.
“Un attimo mamma, un secondo!” boccheggiò, disperato. Lunghe ciocche di capelli scuri gli si appiattirono sul volto, liberi. Al diavolo.
“Sto facendo la schiuma!” sbottò, la voce lamentosa. Gli occhi del ragazzo in attesa erano percettibilmente piantati su di lui, mentre con gesti stizzosi e insolitamente rapidi si sfilava la maglia di cotone.
Tirò un sospiro di sollievo, sentendo la pelle freddarsi al contatto con l’aria; solo una leggera maglietta a mezze maniche, attillata, ricopriva ora il suo torace, lasciando intravedere le fattezze del suo corpo atletico ma accaldato.
Si voltò nuovamente verso il bancone, un sorrisetto soddisfatto sulle labbra.
Un sorrisetto che si congelò all’istante.
La donna che prima si stava avvicinando era arrivata al bancone. E lo fissava con occhi penetranti.
Lei.
Era lì.
Ebbe una misera, fulminante frazione di secondo per realizzare. Il motivo gli era oscuro, ma i quattro biondi codini non lasciavano dubbi su chi fosse.
Oltre il bancone, bella e altezzosa come la prima volta che l’aveva vista.
Il calore avvampò nuovamente sulla sua pelle, proprio come era accaduto solo alcuni minuti prima.
Proprio come era avvenuto solo alcuni mesi prima.

“…e un goccio del leggendario Sakè di Yoshino per la mia nii-san, che stasera è venuta a farmi da balia” soggiunse l’energumeno, strizzando l’occhio.
“Arriva, arriva” Shikamaru represse uno sbuffo divertito, passandosi sbrigativamente un braccio sulla fronte lucida di sudore.
‘Chissà che nii-san di classe avrà Sabaku no Kankuro’ pensò sardonico, disponendo svariati boccali sul bancone. Per un fugace istante immaginò il ragazzone coperto di tribali affiancato da una robusta, tipica lanciatrice di giavellotto, di stazza analoga a quella del fratello. Magari con le stesse braccia scimmiesche e i capelli ispidi, lanosi.
Sì, i piccoli filmini mentali, le stupide fantasticherie che sollevano gli angoli della bocca addolcendo la giornata.
Peccato che quando si voltò verso l’avventore, il viso stravolto nella pura immagine dello stress, la seccata sorella maggiore in questione fosse approdata al bancone con irruenza, poggiandovi i gomiti piuttosto rudemente.
Peccato che non somigliasse per nulla a una lanciatrice di giavellotto.
Peccato che in quei due occhi verdi da pantera si rispecchiassero i suoi, spalancati, che quelle labbra imporporate di vermiglio fossero improvvisamente così a portata di bocca, che le dita curate ticchettassero ritmicamente sul bancone.
Sì, le piccole sorprese della vita che spalancano a forza la bocca in espressioni improbabili, rendendo piccante la serata.
“Sicuro che il barista sia di questo pianeta, Kankuro?” chiese la donna in tono quasi casuale, lo sguardo indifferente fisso sul volto immobile di Shikamaru.
Il barista si diede un contegno, ricambiando lo sguardo distaccato con un broncio; lei inarcò le sopracciglia, il seno prosperoso schiacciato contro le braccia ripiegate sul bancone.
“Hai sentito, testa ad ananas? Un sakè per me, su” bofonchiò, strafottente. “Puoi farcela”.
“Che seccatura…” si sorprese a borbottare il ragazzo mentre, trascinandosi in direzione della cucina, seguiva passivamente l’essenziale regola ‘Il cliente ha sempre ragione’.
“Hai detto qualcosa?” Un latrato polemico gli giunse alle orecchie, gonfiandogli le guance di un insulto trattenuto a viva forza. Era una donna, diamine, non poteva permettersi di suggerirle efficaci soluzioni quale “Se ti rode, grattatelo”.
Uno dei tanti, buoni motivi per etichettare le donne come seccature su due zampe.
Prima di immergersi nel regno di sua madre, Shikamaru drizzò le orecchie, captando qualcosa di incredibilmente interessante per essere provenuto dalla gran bocca di Kankuro:
“Ehi, ehi Temari! Vacci piano, Shikamaru non è mica abituato alle mangiatrici di uomini!” Il barista occluse i canali recettivi in nome di un accattivante pensiero.
Dunque, la leonessa si chiamava Temari.
‘Sabaku no Temari’. Suonava bene.
Sorella di Sabaku no Kankuro, grezza quasi quanto il fratello stesso. E nonostante ciò, indiscutibilmente attraente, dotata di una bellezza selvaggia, singolare.
L’inaspettato in persona aveva i capelli biondi, divisi in quattro eccentrici codini.

Le dita della donna corsero ai folti capelli biondi, nel vano tentativo di domare i lunghi fili di frangia dorata. I vivaci occhi felini tenuti razionalmente a bada, inclinò appena la testa.
“Ciao” esordì.
Un tono curioso, più simile a una domanda. Tono che si guadagnò uno sguardo piatto, scoccato da due occhi troppo vacui, stagliati su un volto troppo inespressivo.
Shikamaru non si mosse. I muscoli immobili, paralizzati.
Sabaku no Temari.
Evidentemente, voleva giocare al suo gioco.
E fosse. Shikamaru recitò passivamente la sua parte, il tono formale e inespressivo.
“In cosa posso servirla?”


“Shikamaru!”
Fuori pioveva.
S’intravedeva dalla minuscola finestra socchiusa accanto alla porta d’ingresso, unica via di fuga del momento. Non si curò di rispondere a sua madre, né del ragazzo smilzo che attendeva più in là, con la pazienza che solo un avventore ancora lucido poteva avere. Rimase a osservarla, in attesa.
Non era rilassato. Non ci voleva un genio per notarlo.
Stabilì che se non si fosse decisa a parlare, se ne sarebbe semplicemente tornato alle sue occupazioni. Oltre la frangia bionda, nulla si mosse.
“Aspetta” borbottò, piano.
Temari inarcò le sopracciglia.
“Devo aiutare un attimo mia madre”
“Non c’è problema” replicò prontamente lei, calpestandogli la voce con la sua, insolitamente acuta. “Devo solo farti due domande sul locale. Posso aspettare, ho tutta la serata” soggiunse, un punta di amarezza nel tono secco.
Pessimo segno che lei fosse lì; ancor peggiore l’accenno al locale.
Shikamaru girò sui tacchi e condusse passi rapidi in cucina, facendo per afferrare una cassetta ricolma di pesce abbandonata nel grande freezer. La sua espressione, già granitica, si irrigidì maggiormente nel notare che era sparita.
“L’ho portata io a tua madre” borbottò una voce annoiata, così simile alla sua.
Si voltò di scatto, per incontrare gli occhi fondi del padre, i lineamenti orientali illuminati dalla luce azzurrina della cucina. Shikaku aggrottò la fronte.
“Che ti prende? Sei pallido” osservò l’uomo.
“Papà, servi tu al bancone, mi serve… mi servono dieci minuti, ecco. C’è Temari”
Senza curarsi di ascoltare la risposta, Shikamaru uscì dalla cucina a passi rapidi, rendendosi conto solo al ritorno nella sala di star sudando freddo.
“Bene… vieni fuori..?” buttò lì senza preamboli, evitando di incrociare il suo sguardo. La ragazza annuì, impassibile.
Il senso di colpa, i rimorsi, i rimpianti. Si morse le labbra, precedendola verso la porta posteriore del locale.

*

La temperatura esterna era umida, fredda, in netto contrasto con quella soffocante dell’izakaya; rabbrividì.
L’odore della pioggia.
Che scroscia a cascate.
Quando tutto si fa bianco, si lascia abbattere inerte della cortina di freddo opaco.
Temari si chiuse la porta alle spalle, raggiungendo Shikamaru nel cortile esterno, sotto un ripido cornicione. Il ragazzo si affrettò a frugare nella tasca, risultando impassibile nell’estrarre un pacchetto di sigarette.
“Una?” chiese, mentre l’accendino tremolava incerto fra le sue mani.
“No, grazie” fu la risposta, forzatamente fredda.
Il barista ripose il pacchetto, aspirando profondamente dalla sigaretta che aveva infilato sbrigativamente fra le labbra. Guardava altrove.
Fingeva, sfuggiva ancora.
Trascorsero diverse boccate prima che Temari si decidesse a parlare, la voce rotta. Lui si voltò a guardarla, per la prima volta da quando si era ritirato in cucina.
“Io non sapevo nulla” Puntò in alto gli occhi verdi, il viso bagnato di bianco. Si sforzò di mantenere un freddo distacco, quasi altezzoso. Shikamaru rimase in silenzio, lo sguardo fisso nel suo.
“Non mi avevi detto nulla…” mormorò “…di Sasori e del suo clan” concluse, alzando la voce per sovrastare quella di lui, probabilmente preparata ad un ingenuo ‘Di cosa?’
Il ragazzo si rabbuiò, le spalle irrigidite poggiate al muro. Si chiuse in un lungo silenzio, che la ragazza rispettò senza fiatare.
Poi, finalmente, un roco “Guardami”.
Temari risollevò gli occhi orientali, incontrando i suoi. Erano torbidi, torbidi come non li aveva mai visti.
“Guardami e giudica tu. Sarei stato l’uomo giusto per te, davvero? Un uomo che paga il pizzo e non sa come uscirne, che ti avrebbe soltanto trascinata nei suoi stessi casini?”
Temari scoppiò a ridere, quasi isterica. Si staccò dal muro, finendo oltre il raggio di protezione del cornicione; fredde stille di pioggia presero a ticchettarle contro, insistenti.
“Si diceva di te che avessi 200 punti di quoziente intellettivo, Nara!” lo schernì.
“Se è alla denuncia che pensi, fai due calcoli e ti renderai conto che non c’è bisogno di troppi neuroni per capire che denunciare avrebbe messo in crisi tutta la mia famiglia” sbottò lui, cupo.
“Ma ti saresti liberato di Sasori!” ringhiò, furiosa.
“Sì. E il resto del clan lo avrebbe vendicato”.
Poche parole che la misero a tacere.
“Io non volevo lasciarti, Temari” soggiunse piano, serio. Nello sguardo si leggeva chiaro che stava mandando al diavolo l’orgoglio. “Ma avrei dovuto dirti tutto, degli Yakuza e il racket, se non l’avessi fatto”.
La donna si voltò di scatto, facendo schizzare in aria gocce ormai riscaldate dalla sua pelle.
“E allora? E quando mi avessi detto che la Yakuza ti sta distruggendo la vita?”
“Sarei stato un codardo per te. E ti avrei immischiato nel mio problema”
Ed ecco Shikamaru che gettava una maschera: quella del menefreghista, del ventenne svagato a cui non importava nulla del giudizio altrui.
“Sei stato un codardo a farmi… soffrire” ammise lei, le mascelle serrate “Pur di non dirmi che avevi un problema!”
“Ero stanco di fingere”
“Avresti dovuto essere sincero!”
Tacquero, entrambi. La pioggia portò via le loro parole, ormai così basse, inutili.
Solo frutti morti, figli di terreni ormai bruciati.
Shikamaru sospirò, estraendo nuovamente il pacchetto di sigarette. Una richiesta di pausa.
“Passamene una, Nara” mormorò Temari, massaggiandosi la fronte stancamente. Il ragazzo gliela porse senza obiezioni, ancora passivamente abbandonato contro il muro del cortile.
I codini, ormai scivolati via dagli elastici, strisciarono lungo le spalle bagnate di lei mentre si chinava verso quella mano asciutta che le tendeva il desiderato bastoncino bianco, intatto.
Shikamaru imprecò distrattamente nel constatare che l’accendino aveva preso acqua; lo fece scattare più volte, fallendo nel tentativo di accendere la sigaretta.
“Sono senza accendino” dichiarò, osservando la sua interlocutrice con espressione piatta.
Le labbra di Temari s’incurvarono appena.
“Ne hai uno proprio nella tua bocca”
Il ragazzo osservò accigliato il mozzicone pendere dalle sue stesse labbra; poi, rivolgendole lo sguardo con un sospiro, lo tenne fermo fra le dita. Lei si avvicinò, gli occhi assottigliati nell’attenzione.
Le due punte bianche giunsero a toccarsi, quella della sigaretta più corta propagando gradualmente il calore nell’altra, spenta.
Le bocche erano vicine.

Le bocche erano vicine.
Le labbra si sfioravano.
-Uno sguardo gettato nel buio, furtivo.
Le loro bocche erano unite.
Le loro labbra che divoravano.
L’ebbrezza del calore. Di lei, di lui.
-Quanto le mani possano essere fredde sulla pelle che scotta…
Il buio era dolce, allontanava il silenzio pressante.
-Quanto la voce contro il collo dell’altro possa essere rotta…
L’appartamento era deserto, un vasto impero soltanto per loro.
Loro, che si sentivano nient’altro che re e regina, vividi nel loro eterno splendore.
Gli occhi erano ciechi, ottenebrati di tenebre e piacere; non cercavano che quelli dell’altro.
Le mani erano sudate, pregne di profumi intensi; non cercavano che la pelle dell’altro.
Erano uniti, erano soli, erano rinchiusi nel loro mondo di segreti inconfessabili, passione, orgoglio ormai dischiuso.
Non sentivano le corde che si serravano ai loro polsi.
Strisciavano sulla pelle.
Come le loro lingue lungo i lobi, lungo la schiena dalla pelle liscia.
Perché, ansimando e urlando, avevano la maledetta sensazione che il Paradiso fosse infinito?

Temari ritrasse la testa, osservando la punta della sigaretta incenerire e bruciare.
Aspirò, vivendo soffusamente quelle sensazioni mai dimenticate.
Soffiò fuori il fumo.
“Potrei chiedere aiuto a mio padre”
Era stanca, debole. Gli occhi di Shikamaru la seguirono stanchi, deboli.
“E’ un avvocato. Credo che la legge abbia soluzioni per una situazione come questa”
“Non ce ne sono” sbuffò lui, atono.
Chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare la schiena dalla pioggia incessante.
“Io pensavo solo che avremmo potuto provare insieme” concluse, vuota di altre parole. “Almeno provare. E che l’avremmo affrontato insieme. Solo questo”.
Forse non sarebbe bastato a risolvere.
Forse sarebbero potuti rimanere invischiati nel ricatto fino alla morte.
Ma per lui, Temari non avrebbe ceduto alla paura.
“Be’, hai fatto la tua scelta. Io la mia parte te l’ho offerta” Gettò la cicca già fradicia a terra, esausta.
Fece per muoversi verso la porta, incapace di definire il suo stesso stato d’animo. Una voce lenta e profonda la raggiunse, come non la sentiva da un pezzo.
Non avrebbe detto che due parole, prima di raggiungerla sotto l’acqua del cielo.
“Vieni qui”
Sì. Assaggiamo insieme quanto salate possano essere le lacrime di coccodrillo.
Salate e amare.
Perché senti anche tu quel loro sapore, lo so.
Aspre e brucianti.
E so che non ti piace, che lo odi…
Le dita affondarono nei suoi capelli bagnati, immobili, in un’unione amara.
… che ti fa provare dolore. Forse più di quanto ne provi io.
Schadenfreude.
No. Stavolta è più che altro masochismo.
Silenzio.
C’erano solo loro, la pioggia e i loro corpi, stretti in un abbraccio.
Ma un abbraccio che aveva il sapore dolce e acerbo di un bocciolo. Nuovo, fiducioso.
Che nasce da un ramo spezzato e vuole tornare all’antico splendore.
Pioveva, su di loro.
Pioveva e non si sciolsero.
Contro la Schadenfreude che impregnava le loro fragili esistenze, la giovane promessa di un fiore sbocciato dal sale.


***




Angolo dell’autrice:
Ed ecco il finale. Volevo terminare la fic in modo un po’ agrodolce, ricongiungendo i due ma lasciando aperta la questione Yakuza; nessuno sa come Shikamaru risolverà il problema, ma ad ogni modo… lo affronterà con Temari. E una storia che sembra ormai troncata di netto dalle incertezze di Shikamaru, ritrova un raggio di speranza da cui rinascere grazie alla forza d’animo di Temari. Questo era il mio intento, e spero fortemente di essere riuscita a descrivere bene ciò che avevo in mente nel finale.
Dunque, più di una persona ne ha parlato nelle recensioni: la storia che i due hanno alle spalle non è definita in modo chiaro, lo so. E’ stata una scelta volontaria, ho voluto lasciare nella penombra i particolari del loro passato (questo, per la mia visione, si adatta di più all’atmosfera soffusa dell’izakaya, in cui è ambientata la gran parte della fic ^^).
Quindi non ho descritto esplicitamente l’inizio della loro storia, né la fine; soltanto alcuni sprazzi di esperienze vissute insieme (come la corsa in moto), il loro primo incontro e i loro primi approcci, segnati dalla gelosia. Ed anche un momento di passione e (nello scorso capitolo) il ricordo di una incomprensione e discussione fra i due. Anche qui spero di conoscere il vostro parere; sono riuscita a rendere completa la loro storia di tutti i tipi di esperienza che caratterizzano un rapporto? O risulta troppo confusa e sottointesa? Fatemi sapere, ci tengo moltissimo… ci ho messo l’anima nel rendere spessore a questa fic.
Ah, rinnovo il mio richiamo alle persone che hanno aggiunto la fic ai preferiti senza commentare: spero che vi facciate sentire, non costa davvero nulla :)

Rispondo alle vostre meravigliose recensioni *__*

Un bacio a tutti!
Chime

Arwen5786: Grazie, Cami e Roberta. La vostra recensione da giudici mi ha fatta sentire veramente felice e gratificata del lavoro che ho fatto… nonostante quello che avete scritto sulla forma e lo stile, credo proprio che non sarò mai capace di descrivere bene la mia gioia :-). E non esagero. Che dire? Grazie di cuore!

Stefy90: La tua recensione mi ha veramente emozionata! Ti ringrazio tantissimo, sono contenta che tu l’abbia trovata viva e reale, che i personaggi ti siano sembrati tutti importanti nel loro ruolo. Ho ritardato a pubblicare il seguito per problemi di connessione, nel frattempo credo che ti sarai ripresa, come hai detto tu :-) Spero che questo capitolo riesca a darti i brividi come il precedente; ho provato a distaccare la storia dalla durezza delle vicende della mafia per concentrarla di più sull’intensità del rapporto che c’era tra i due quando erano ancora insieme. Fammi sapere che ne pensi, nel frattempo ti mando un bacione e un ringraziamento!

SangoChan88: Grazie mille! E grazie per i preferiti ^^ Che ne pensi di questa seconda parte, ti è piaciuta? Baci e grazie ancora!

La faina di primavera: “Sorry Nicky, human nature, nothing I can do! It’s… Schadenfreude! Makin’ me feel glad that I’m not you.” Ah, Fainuzza mia. Ricordi quando lessi questo pezzetto dal tuo messaggio e mi innamorai della parola Schadenfreude? E te lo ricopiai nel mio? Tu e i tuoi pazzi musical mi avete fatto superare il blocco dello scrittore (se di scrittrice si può parlare xD). Lo so che sono stata un po’ cretina, ma lo sai che la autostima non è propriamente un elicottero… Grazie soltanto di aver sopportato la mia cocciutaggine e di avermi inconsapevolmente ispirata a scrivere questa fic. E i tuoi commenti via msn mi fanno sempre più commossa **. Un bacio fortissimo, mio pelosissimo animaletto!

Nanami_Kimura: Grazie mille per i complimenti ^///^ Ecco il secondo cap, problemi di linea per cui sono un po’ in ritardo… dimmi che te ne pare di questa seconda parte! Un bacio e grazie ancora!

Lily_90: La tua recensione mi ha lasciata senza parole per diversi motivi. Non mi viene in mente altro che “grazie”, che è la cosa più banale da dire ma anche quella più sincera. Sono davvero contenta che tu ti senta immedesimata nel personaggio di Temari e che la fic sia riuscita a coinvolgerti fino a farti avere i brividi. La tua recensione, così dettagliata, è stata sicuramente fra le più gradite: sai, di quelle che ti fanno capire che allora non scrivi per niente… e poi sai bene quanto mi piaci come scrittrice, come il tuo parere su una ShikaTema sia prezioso come l’acqua ** A proposito, ti è arrivata la mia e-mail? Ti ho inviato la mia recensione a “Just as long as you stand by me, darlin’” e spero che ti sia arrivata >.< Fammi sapere! Ho ancora problemi di connessione, per cui non riesco a postare recensioni. Nel frattempo, spero che questa seconda parte sia stata all’altezza della precedente… dimmi che ne pensi, tengo moltissimo al tuo giudizio! Ancora grazie e un bacione! ^.^

Kaho_chan: Ma salve, collega mosca grigia ^.^ Non preoccuparti della sensatezza della tua recensione, sappi solo che l’ho amata così com’è *___* Ti ringrazio tantissimo, mi rende felice sapere che sono riuscita a rendere le sensazioni e le atmosfere che immaginavo nella mia testa! Ah, in quanto alla Schadenfreude… oddio, a ripensarci ho scoperto questa parola per caso, chiacchierando di canzoni con una mia amica. E’ un sentimento, in pratica, che spazia dal vero e proprio compiacimento per le disgrazie altrui a situazioni minori, come… Uhm, hai presente quando una ragazza insopportabilmente odiosa e oca magari inciampa e cappotta in piena strada? Ti capita mai di sentirtene mooolto contenta? Ecco, se sì, quella che provi è Schadenfreude ** Sono rimasta affascinata dalla parola in sé, perché in fondo è qualcosa che in varie misure proviamo tutti… spesso, poi, è il sentimento che fa andare avanti interi sistemi, come il bullismo.
Sai, la tua recensione mi ha fatto rendere conto di una cosa. Ho rivisto milioni di volte ogni frase, ogni dialogo… ma mi era sfuggito quanto Choji sia sì, un po’ rozzo come me lo immagino, ma decisamente non-puccio, come tutti lo conosciamo o.O E dire che mi piace proprio per la sua bontà d’animo.. Intendiamolo come un prodotto della società allora, povero Choji xD. Spero che ti sia piaciuta Ino e che questo cap sia stato all’altezza del primo… fammi sapere! ^o^ Ah, come ho già detto a Lily, ho problemi ad inviare le recensioni; mi scuso per il ritardo, lascerò la mia recensione al secondo capitolo di “Exausting reruns” non appena avrò risolto il problema. Bacioni!

Valy88: Prima di tutto grazie per aver risposto alla mia mail ^^ Sei stata davvero gentile, e sono contenta che tu mi abbia lasciato un commentino… commentino? Mi hai lasciato una bellissima recensione *.* Ti ringrazio di cuore per ciò che hai detto sulla trama e tutto, come sai è sempre utile per chi scrive conoscere il parere dei lettori! Sì, effettivamente sono un po’ maniaca, ho rivisto praticamente ogni frase prima di darla per buona… ma le recensioni come le tue sono quelle che mi fanno capire che ne è valsa la pena ^^ Prenditi pure il tempo necessario per recensire; quando vuoi e quando puoi, naturalmente. E grazie ancora! Spero che questa seconda parte ti sia piaciuta!

Matta_Mattuz: Gentilissima, ti ringrazio! ^^ Sono contenta che trovi la storia e la caratterizzazione di Shikamaru diverse dalle altre! Un bacio e grazie, spero che la seconda parti ti sia piaciuta quanto la prima! Ah, una cosa che non c’entra nulla, ma che non potevo con dire… il tuo nick è fantastico xD

Talpina_pensierosa: Grazie *___* Spero che ti sia piaciuta questa seconda parte e… scusa per il ritardo d’aggiornamento, so che mi sono fatta un po’ attendere a causa della connessione ^^” Un bacione!

Maobh: Grazie infinite per i tuoi commenti sullo stile, mi hanno fatto un piacere enorme! Per quanto riguarda la storia fra Shikamaru e Temari, ho deciso fin dall’inizio di riportare soltanto alcuni momenti particolarmente significativi della loro storia, ricordi che potessero sorgere grazie a situazioni particolari. Non ho però approfondito, volutamente, sui momenti in cui si sono messi insieme e lasciati; spero di aver reso comunque lo spessore che desideravo al loro rapporto. In questo capitolo si intende anche il motivo esatto del termine della loro storia, ma più che dai flashback lo si deduce dai dialoghi e dai pensieri stessi. Fammi sapere se la cosa rimane ancora troppo sottintesa, e se il modo in cui ho gestito i flashback sulla storia passata ti sia piaciuto: è importantissimo per me, soprattutto se si tratta di rendermi conto di punti che non riesco a rendere abbastanza chiaramente! Grazie ancora, spero di sapere cosa ne pensi.. Baci e a presto!

Tem_93: Grazie, è sempre molto apprezzato il giudizio dei lettori, in particolare, in questo caso, di voi mosche nere ^^ Sono contenta che ti sia piaciuta, e spero che il passato di Shika e Temari risulti più comprensibile leggendo questa seconda parte della storia. Fammi sapere che ne pensi, un bacio e grazie ancora!

Shikatema: Se scrivi queste recensioni, allora posso assicurarti che chiunque vorrebbe un “assillo” così, come ti definisci tu xD. Il crimine affascina anche me (come resistere a certi membri di una certa organizzazione, poi?), e ho cercato ritrarlo nei suoi aspetti più nascosti e angoscianti. Spero che ti sia piaciuta la seconda parte, fammi sapere che ne pensi! Un bacio, e mi scuso per aver fatto attendere un po’ questo secondo cap!

Muppello: Grazie Miki *__* (Posso chiamarti Miki? *w*) Sono contenta che la storia ti sia piaciuta, poi il tuo commento è davvero prezioso considerando che non ami il genere AU. Grazie per i commenti sul modo di scrivere, e a presto! Spero ti sia piaciuta questa seconda parte, un bacione!

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