Schadenfreude di Chimera in blue jeans (/viewuser.php?uid=33722)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 1 *** Prima parte ***
Note:
Schadenfreude è una parola tedesca utilizzata
internazionalmente; il significato è spiegato nel corso
della fic. Originariamente era una one-shot, ma l’ho divisa
in due capitoli per la lunghezza.
Una buona parte della storia è immersa nel passato, fra
flashback e ricordi riesumati da particolari situazioni.
Altre note: L’izakaya è un locale tipicamente
giapponese, riconducibile a una birreria adibita anche a ristorante, in
cui si vende una gran varietà di sakè.
Prologo
.
Schadenfreude.
Tutti la provano.
Molti la amano.
Canini, pelo, unghie.
Spizzichi di gioia perversa, bocconi di dolce amarezza.
Il minimo di animale che è rimasto in ogni uomo.
[Quando vede il compagno
crollare sotto le zanne del più forte e rimane in disparte
ad assistere]
E la prova, quella gioia segreta.
Una gioia insita, l’essere al sicuro mentre la vittima di
turno paga col suo sangue.
Una gioia oscura.
[Quando ride
dell’amico che viene umiliato dinanzi alla folla]
Codardia?
No.
Cattiveria?
In parte.
Istinto, lotta per la sopravvivenza.
Questo sì.
[Quando nota con
divertimento che la fortuna riprende a girare e che anche i migliori,
finalmente, soccombono]
Schadenfreude
Che impera.
Schadenfreude
Che carbura il mondo.
Schadenfreude
Dentro ognuno di noi.
E’ un piacere colpevole.
E’ l’amarezza di subirla.
E’ la difficoltà nell’ammetterne
l’esistenza.
E’ la forza che muove il delinquente, che fa strisciare il
disgraziato, che fa godere il perverso.
Schadenfreude
E’ il piacere provocato dalla sofferenza altrui.
*
Capitolo 1
La cameriera scalciò.
Dopo un rapido, apprensivo controllo all’integrità
degli appariscenti collant viola, si allontanò borbottando
dal tavolino; i grandi occhi azzurri si rivolsero al barista, in una
smorfia di pura accusa.
“Quella bestia mi ha messo le mani addosso!”
pigolò, indicando con un cenno ben evidente
l’avventore che la fissava famelico, inginocchiato sul suo
tatami.
“Allora vai a dire a mia madre che ti dimetti”.
Quando il barista si limitò a sollevare le spalle con poche,
graffianti parole, incassando fra di esse la testa dalla bizzarra
pettinatura, Ino fece scattare preziosamente in alto il naso affilato,
dirigendosi sulle lunghe gambe da stambecco verso la cucina del locale.
Il ragazzo sospirò, osservandola sparire oltre la tendina
composta da sottili strisce di bambù.
Cosa si aspettava?
Un izakaya malfamato di periferia, frequentato dalle peggiori razze di
delinquenti, un vestiario che metteva in evidenza il fisico perfetto,
lunghi e lucidi capelli biondi; elementi che per la diciottenne
determinavano l’indubbia inclinazione al pericolo, lavorando
la sera nel locale dei Nara.
Raggiustandosi il codino di capelli mori, il barista tese le braccia
sul bancone, abbandonandosi ad una apatica ammirazione del suo regno,
momentaneamente quieto.
Nel suo splendore di insospettabile fallito si mostrava così
Shikamaru Nara, vent’anni. Promessa scolastica ritiratasi dal
liceo per eccessiva pigrizia, finito a lavorare nell’izakaya
di famiglia.
Non che la sua vita fosse migliorata da quando i suoi genitori,
profondamente delusi, l’avevano piazzato dietro il bancone,
ad occuparsi della sezione bar.
No.
Semplicemente un vero
inferno.
Il vociare soffuso dell’area ristorante condiva la luce
notturna del locale di calda familiarità, investendo
dolcemente i numerosi avventori seduti ai tavolini. Rumore di boccali
sbattuti sul legno, di risate folli, di sottile, ambiguo degrado.
Falliti frequentavano il locale. Uomini e donne senza lavoro, senza
compagno, senza famiglia.
Disgraziati frequentavano il locale. Immigrati, miseri individui
viventi sotto un tetto precario o del tutto assente.
Mafiosi frequentavano il locale. Membri della Yakuza, celeberrima
organizzazione mafiosa giapponese. Più clan, fra
rivalità e alleanze, si presentavano ogni sera a bere un
sorso, a discutere, a puntare vittime…
A controllare il locale.
Shikamaru represse uno sbadiglio, abbandonando stancamente i gomiti sul
bancone. Persino i piedi terribilmente indolenziti furono accantonati
dal suo pensiero, mentre tre uomini tatuati facevano il loro puntuale
ingresso nel locale.
Il vociare s’interruppe per un momento. L’uomo che
li guidava, dai lunghi capelli corvini scalati sul volto pallido,
sembrava aver premuto il tasto di pausa di un telecomando al suo
mostrarsi oltre la soglia. Le chiacchiere ripresero, frenetiche, mentre
Sasuke Uchiha sedeva coi suoi compagni a un tavolo libero. Shikamaru
sbuffò, avvertendo un brivido correre lungo la schiena.
Yakuza.
Chi per mestiere, chi per dovere, chi per piacere.
Schadenfreude.
L’indubbio piacere di imporre il proprio dominio, manifestato
da parte di tutti i mafiosi tramite gli inconfondibili tatuaggi che ne
ricoprivano il corpo.
Uchiha richiamò la cameriera con un cenno imperioso,
assecondato all’istante; le iridi scure luccicarono, confuse
fra la giungla di arabeschi neri che si diramavano per buona
metà del suo volto inequivocabilmente attraente.
Gli occhi di Shikamaru si ravvivarono appena all’irruzione di
un ragazzo corpulento, che lo raggiunse al bancone portandosi dietro
l’umida aria fredda della statale. Un sorriso gli solcava il
volto paffuto mentre piantava i piccoli occhi in quelli del barista,
l’aria concitata.
“Il Lupo è in gabbia” elargì
senza preamboli, trionfante.
Il ragazzo dovette apportare un cambiamento al pigro programma che
caratterizzava il suo regolare approccio con Choji.
“Hanno preso Inuzuka?” chiese, moderando
l’interesse nella voce. L’amico annuì
freneticamente , facendo ondeggiare le scarmigliate ciocche castano
chiaro.
“La polizia ha beccato alcuni spacciatori alla
stazione” ansimò, sopraffatto
dall’entusiasmo. “Ci sono stati degli intrallazzi,
non so dirti esattamente ma… pare che l’abbiano
consegnato quelli dell’Akatsuki”.
“Il clan di Pain e quello di Inuzuka sono alleati”
borbottò il moro, scoccando un’occhiata seccata a
un avventore che si avvicinava al bancone, pronto ad ordinare.
“Infatti credo che all’Akatsuki non la
perdoneranno, questa” ghignò Choji.
“Hanno consegnato un uomo del clan Konoha per salvare il culo
ad uno del loro. Furbi, no?”
Shikamaru non s’informò sul come e sul
perché.
“Sakè della casa” ordinò
l’uomo al bancone, digrignando i denti su una sigaretta
spenta. Scoccato un fiacco sguardo d’assenso a Choji, il
barista si voltò verso le mensole stipate di bottiglie, gli
occhi stanchi velati da una sottile malinconia.
Non riusciva a sentirsi entusiasta per la notizia.
Forse, semplicemente, aveva sperato in qualcos’altro che
riguardasse l’Akatsuki.
Forse, semplicemente, una patina opaca si stendeva sul suo sguardo
mentre ricordava un altro momento in cui si era ritrovato a cianciare
di mafiosi con Choji.
Quella volta però, oltre bancone c’era una donna.
“Kirin grande
anche per me”
Armata di vestito
cremisi tanto succinto quanto pericoloso, la bionda sedette bruscamente
sull’alto sgabello. Le forme generose, fasciate di sgargiante
seta rossa, scesero invitanti con lei a portata d’occhi del
barista.
“Vedo che ci
vai pesante” biascicò, riaggiustandosi con forzata
indifferenza il codino erto.
Un piede penzoloni e
l’altro premuto contro il bancone, Choji ghignava scomposto,
osservando l’amico allontanarsi per riempire di liquido
ambrato due sostanziosi boccali.
La schiuma
traboccò, accompagnata dal sordo battere dei boccali sul
bancone; con un esperto, noncurante movimento di polso, Shikamaru li
indirizzò ai due clienti, facendoli slittare rapidi sul
piano bisunto.
Choji si
avventò sulla birra, avido.
“Una volta
nella vita potresti scomodarti a portare i boccali fin qui”
sbottò la donna, generando l’involontario agitarsi
dei quattro eccentrici codini. L’interpellato
s’immobilizzò, lo sguardo puntato oltre la spalla
abbronzata di lei.
“Nara”
Le sopracciglia arcuate scattarono in alto, mettendo in evidenza due
verdi occhi felini. “Perché quella
faccia?”
Shikamaru perse presto
interesse per la porta del locale, tornando a puntare i gomiti sul
bancone con indolenza. Choji dispiegò le labbra con aria
sorniona e spostò grossolanamente il suo sgabello,
ravvicinandolo a quello della ragazza.
“Stava
guardando i tizi appena entrati” suggerì,
suscitando lo sguardo interrogativo di lei.
“Yakuza”
fu l’eloquente spiegazione.
“Cosa?”
La ragazza si voltò di scatto, incurante del gesto palese.
“Mafia,
Temari. Mafiosi” ghignò il corpulento ragazzo,
tracannando un sorso di birra da soffocamento. Una vaga irritazione si
diffuse bruciando per la gola di Shikamaru, provocandogli uno sbuffo
contrariato.
Lo sguardo di Temari
vagò accigliato sui tatami illuminati di luce fioca e
ambrata. Immersi nella penombra, tre giovani sedevano in un angolo,
sigarette fra i denti e occhio provocatorio.
Il barista si
strofinò le mani nel grembiule con malcelato nervosismo.
“Non girarti
così, Mendekouze”.
Ma
l’attenzione di Temari rimase inesorabilmente concentrata sui
tre ceffi, alternandosi tra la croce uncinata sulla fronte del
più alto, i tondi occhiali scuri dello Yakuza che gli sedeva
accanto e la prorompente zampa artigliata che svettava sullo sterno del
terzo.
La mente di Shikamaru
corse a rimembranze poco piacevoli mentre il giovane si sbottonava
ulteriormente la camicia, esibendo per intero l’eccentrico
tatuaggio di un segugio infernale, valorizzato dal ghigno tronfio del
suo proprietario.
“Passane un po’ anche a me, Shika”
Il bancone tornò quieto, animato solo dalle sparute
chiacchiere di Choji.
Sguardi furtivi saettavano attraversavano la sala di tanto in tanto, la
gran parte dei quali era indirizzata all’appetibile cameriera
e ai silenziosi Yakuza.
Certo, fra i pezzi da novanta c’erano anche banconote false.
Stazza bovina, tatuaggi tribali che serpeggiavano affilati su
avambracci e collo, arrivando alle sottili sopracciglia brune, Sabaku
no Kankuro sedeva vicino alla porta, ululando il suo brillo umore con
un compagno di bevute immerso nella penombra.
Shikamaru sapeva che Kankuro non era uno Yakuza, contrariamente a
quanto si sarebbe potuto dedurre dagli estesi tatuaggi. Non era che un
coraggioso ribelle, un alternativo sfuggito alle redini della sua
famiglia per ostentare sfacciataggine e violenza.
Il barista osservava, captava, immancabilmente ascoltava. Veniva a
conoscenza dei fatti di tutti quei clienti che frequentavano
abitualmente l’izakaya, convincendosi ogni giorno di
più che ognuno portasse in petto un segreto oscuro.
Sapeva che Rock Lee era un disoccupato degenerato dall’alcol,
conosceva ogni risvolto del suo pessimo trascorso. Sapeva che Karin,
spesso in compagnia degli uomini di Sasuke, batteva la notte.
Sapeva che Sabaku no Kankuro aveva una sorella…
Stop.
Quella era una storia proibita alla sua stessa memoria, facente parte
della categoria ‘errori’. Si costrinse ad
escluderla dalla propria mente affollata.
Conosceva dettagli e segreti di molti, troppi altri clienti abituali,
talvolta beandosi inconsciamente delle loro disgrazie.
Schadenfreude.
Ma aveva la spiacevole sensazione di sentirsi imbattuto.
Osservò Choji scolare il suo bicchiere, lasciandosi invadere
dai riflussi della mente.
Choji si
ticchettò una guancia con le dita callose, sorridendo.
“Guarda come
si sente caldo stasera In-”
“Inuzuka,
sì” tagliò corto il moro. Le sue labbra
si incrinarono in una smorfia di disgusto, specchio dei suoi pessimi
pensieri.
“Yakuza,
dite?” Le dita di Temari si serrarono sul manico del boccale
in un movimento che di femminile aveva ben poco. “A me
sembrano più come quell’idiota di mio fratello.
Wannabe… ridicole imitazioni di gangster”.
Shikamaru e Choji si
rivolsero un rapido sguardo prima di scoppiare in una risata roca. La
giovane si strinse imbronciata nelle spalle, mettendo in evidenza le
morbide curve.
“Le donne sono
una razza sveglia, lo dico sempre” ghignò
sarcastico il moro, allontanandosi per ascoltare
l’ordinazione di un oscillante impiegato.
“La vedi
quella cosa sulla fronte di Hyuga?” proferì
burbero Choji, indicando l’uomo in questione con un cenno del
capo ispido.
La donna si
voltò accigliata verso gli Yakuza, discretamente seguita
dalla coda dell’occhio di Shikamaru. Il ragazzo
filò verso i boccali, senza però perdere di vista
la traiettoria seguita da quei magnetici occhi verdi.
Neji Hyuga, scuotendo la
lunga chioma corvina, stava ammonendo con uno sguardo di puro gelo il
compagno dai capelli castani, la cui mano più simile a
un’irsuta zampa di licantropo aveva sfiorato la gamba
svettante della cameriera.
“Be’?
E’ una svastica” osservò Temari con
indifferenza, mentre Ino si allontanava indispettita dal tavolino dei
tre uomini, un vassoio d’alluminio stretto fra le unghie
smaltate.
“Sì,
e una svastica non si tatua per gioco” borbottò
Choji in risposta, serio.
Le iridi smeraldine di
lei si soffermarono sulle impugnature di quelle che erano
inequivocabilmente mitragliette, sporgenti senza alcuna discrezione
dalle cinture dei tre.
Le labbra carnose si
inclinarono sotto il debole morso degli incisivi, forse non tanto alla
vista delle letali Wz63, quanto per la constatazione di avere
nettamente torto.
Quelli erano veramente
Yakuza.
E lei era veramente,
sfacciatamente sexy.
Il forte odore della
birra penetrò nelle narici di Shikamaru mentre il liquido
scivolava sulle sue dita, traboccato dal boccale già pieno.
Imprecò.
Chiuse bruscamente la manopola del distributore e schiaffò
il boccale ricolmo di fronte all’avventore, ciondolante in
attesa.
E come se non bastasse,
al suo ritorno di fronte ai due clienti notò con disappunto
che erano molto, troppo vicini. I loro sguardi erano rivolti
all’unanimità verso il mafioso dalle
imperscrutabili lenti scure, presi da una fitta conversazione.
“Davvero, non
sai quel che dici” stava ridacchiando Choji, sventolandole
una mano di fronte al naso. “Lo sai come lo chiamano, a
quello?”
“Spara”
buttò lì Temari, affondando nel suo boccale di
Kirin.
“La mantide di
Osaka” rivelò l’Akimichi, facendo
schioccare le labbra nel sommo compiacimento delle proprie conoscenze.
Il tono sfumò sibilante, conferendo al titolo dello Yakuza
un tocco di inquietante mistero.
“Mantide? E
perché mai?” borbottò Temari, scrutando
rabbuiata il fondo spesso del boccale.
Shikamaru si
allungò placidamente sul bancone, la mano a sostenere il
mento, un sorriso sghembo a ravvivare l’espressione ironica.
“Non sai che
cos’è una mantide, Sabaku?”
“Oh, certo che
lo so” Abbaiò la bionda, le labbra scarlatte
disegnate in una smorfia d’irritazione.
“Ma non vedo cosa c’entri con quel…
coso”
Un robusto braccio
villoso le passò attorno al collo, seguito
dall’odore delle parole di Choji. Vacillanti e pregne
d’alcool.
“Ti consiglio
di non urlarlo, Temari” sogghignò, le ispide
ciocche ramate contro il viso di lei. “Le mantidi sbranano il
compagno dopo averlo usato… si dice che Aburame abbia sulla
coscienza la pelle di parecchie donne di strada”.
Shikamaru estrasse uno
straccio malridotto e si dedicò alla pulizia del rigido
piano, reso opaco da gocce di varia e sconosciuta natura. Un grugnito
d’irritazione gli incupì la gola.
Un grugnito di gelosia;
i suoi occhi ricadevano a intermittenza su di lei.
Shikamaru allontanò le mani dal bancone, posando lo sguardo
su quello rabbuiato di Choji.
Stava pensando.
Succedeva a tutti, presto o tardi, trovandosi di fronte ad un bicchiere
di sakè.
Scrutando in religioso silenzio il liquido scuro, si contemplavano il
proprio passato, i propri errori, il proprio oscuro segreto decantato
sul fondo di vetro.
Quello di Shikamaru era che pagava il pizzo.
Distolse bruscamente lo sguardo, ritirandosi nella cucina. Le bianche
mura, i vetri, i tavolini.
Si sentiva stranamente attaccato a quello squallore, ben sapendo che
l’integrità dell’intero locale dipendeva
dai suoi pagamenti.
Gli Yakuza non erano soltanto mafia.
Erano le sue catene. Il legittimo proprietario del locale, suo padre,
non sapeva nulla di ciò. Si limitava a fissare quegli
eccentrici uomini tatuati con sguardo critico, ignaro del ricatto che
suo figlio subiva.
Uno Shikamaru ormai inespressivo osservò sua madre gettare
in una padella della cipolla appena tagliata, presa
dall’affanno del suo compito di cuoca.
Che umiliazione.
L’Akatsuki aveva semplicemente capito che lui, Shikamaru
Nara, non avrebbe mai confessato del pizzo alla sua famiglia, che non
l’avrebbe mai messa in pericolo. Non era l’uomo
‘cazzuto’ che tutti consideravano suo padre, mai
sarebbe stato in grado di uscire dal racket delle estorsioni con una
denuncia.
La codardia gliel’avevano letta negli occhi.
*
“Ancora sakè, piccola?”
La donna storse il naso in una smorfia involontaria, roteando il
contenuto del bicchiere sul fondo di vetro. Si ritrasse contro lo
schienale dello scomodo divanetto squadrato, rivolgendo uno sguardo
astioso al biondo stravaccato dall’altra parte della sala.
Un volto ghignante si avvicinò al suo, illuminato dalle
psichedeliche luci laser.
“No, grazie” urlò oltre i forti battiti
vibranti di musica, costringendosi a distogliere lo sguardo dalle
numerose scostumate che si prodigavano contro i pali da lap dance.
Li fissò invece sulla chioma albina dell’uomo che
le sedeva accanto, meticolosamente allisciata contro la nuca da
un’abbondante dose di gel.
Hidan la osservò al di sopra del bicchiere, un sorriso
obliquo dischiuso sui denti perfetti.
“Sembri a disagio… Temari”
La sua lingua dardeggiò vogliosa nel pronunciare il suo
nome, quasi gustandolo.
“Non mi piacciono i locali” replicò lei,
indifferente.
Mi ricordano pessime
esperienze.
L’uomo scoppiò a ridere, osservando con moderato
interesse una ragazza appena maggiorenne dare inizio a un provocante
strip-tease.
“Tranquilla, dolcezza. Siamo solo di passaggio” le
sibilò nell’orecchio, avido. “Giusto il
tempo di far parlare Sasori col nostro amico, qui… Pain.
Questioni d’affari”.
“Pain… qui?” la bionda si
sistemò bruscamente un ribelle codino biondo, storcendo le
labbra carnose al ricordo dell’uomo devastato da piercing.
Fortunatamente, aveva avuto l’onore di incontrarlo poche
volte insieme agli altri della gang.
“Oh, è il proprietario di questo Night Club. Non
te l’avevo detto?” Le iridi ametista di Hidan
luccicarono d’interesse, vive. Temari sfiorò con
lo sguardo il muscoloso braccio che le passava attorno alle spalle,
tatuato –come del resto gran parte del corpo- a rappresentare
fedelmente lo scheletro dell’uomo, invisibile sotto la cute
lattea.
Tacquero a lungo, osservando con distacco i corpi sinuosi muoversi a
ritmo del martellante rumore. Nel lasso di tempo in cui attesero il
ritorno di Sasori, numerose ragazze appena maggiorenni sparirono dalla
pista in favore di luoghi più appartati, accompagnate da
uomini più o meno giovani.
Anche Deidara era sparito, accompagnato da due o tre figure
lampeggianti vestite di pizzo.
Spazzatura.
Il braccio di Hidan attorno al collo le risultò stretto,
mentre l’ennesima sfilata di ombre percorreva il suo volto
abbronzato.
Temari detestava quel degrado, quell’abbandono totale al lato
più animale e sporco dell’essere umano. Aveva
sempre disprezzato quelle puttane, quelle bestie, quegli sfruttatori.
Ma dopo che anche la fazione ‘perbene’ del mondo le
aveva voltato le spalle, cosa le rimaneva? La spazzatura. La vita in
adattamento, trastullata dalla compagnia degli amici di suo fratello.
L’uomo dai capelli rossi li raggiunse, provocando una forte
pressione delle unghie di Hidan contro la sua spalla. La bestia era
ansiosa, bramava.
Temari si sottrasse impercettibilmente al contatto.
La pallida cute come sempre solcata da tatuaggi permanenti, Sasori
sistemò distrattamente un sacchetto in una borsa a tracolla,
puntando i fiochi occhi fulvi su Hidan. Così vicino
all’albino, a diretto confronto, era davvero difficile
stabilire quale dei tatuaggi dei due uomini fosse di gusto peggiore.
“Andiamo?” Hidan si sollevò dal divano
in un fluido, sensuale movimento.
“Andiamo” rispose Temari, schioccando la lingua al
sapore acre del vino di riso. Pose il bicchiere su un tavolino e li
seguì all’esterno.
L’uomo dai capelli rossi attraversò la pista senza
dire una parola, etereo e impassibile fra la folla di femminile carne
vivente.
Le labbra scarlatte della donna si spalancarono a contatto con
l’aria esterna, frizzante, strappando un sorriso ibrido di
malizia e compassione a Hidan, che alto ed elegante al suo fianco, la
osservava morbosamente.
Mantenendo sguardo lontano e silenzio serrato, Temari scortò
i due uomini verso la Mercedes grigio metallizzato, godendo della
libertà appena guadagnata.
Bar, taverne, izakaya, night club; quali che fossero, detestava
fieramente i locali.
Con tutto il cuore.
Prima di realizzare che
Kankuro era perfettamente in grado di badare a sé stesso
-tanto da non aver bisogno del suo costante controllo-, prima di
ammettere a sé stessa che se continuava a tornarci ogni sera
il movente non era certo suo fratello, Temari detestava dover passare
la serata nell’izakaya dei Nara.
A questo ripensava
mentre, sventolando con fiera indifferenza un ventaglio di gusto
tipicamente giapponese, sedeva di fronte ai due uomini, le gambe
accavallate.
A destra sedeva suo
fratello, i tatuaggi tribali ben visibili sulla linea della mascella e
sulle braccia poderose. Mentre l’altro…
Capelli rossi, di un
cremisi tanto bruciante da sembrare sintetici.
Anelli sofisticati alle
dita affusolate, occhi di un rosso fulvo e un pessimo tatuaggio
full-body, che ritraeva sul corpo proporzionato numerose giunture
lignee; ben delineate e diffuse, lo facevano assomigliare ad
un’inquietante marionetta fuori misura.
Sì,
decisamente l’astio per l’izakaya dei Nara
ritornava a vociare quando suo fratello gli presentava gente del
genere.
“Questo
è Sasori, Tem” biascicò Kankuro,
battendo un pugno sul tavolino.
“Piacere”
esordì fredda, gettando indietro la chioma biondo miele. Lo
sconosciuto tese pacatamente una mano, che lei strinse con diffidenza.
Quegli occhi fermi, rossi ma inerti come tizzoni morenti, brillavano di
una luce che non le piaceva. Affatto.
“Viene spesso
qui dai Nara e mi ha fatto conoscere i suoi amici… gente
tosta” proseguì Kankuro ridacchiando, gli occhi
torbidi socchiusi.
“Pensavo di
presentarteli tutti, girano da queste parti stasera, eh
Sasori?”
L’uomo si
limitò ad assentire, ignorando composto la gomitata nelle
costole appena ricevuta dall’amico. Le labbra di Temari si
storsero in una smorfia appena percettibile.
Voltò una
rapida occhiata al barista. Testa ad ananas stagliata contro le mensole
stipate di bottiglie, Shikamaru stava fissando Sasori con espressione
indefinibile.
Preoccupata, forse.
Oppure… gelosa.
“Va
bene, Kankuro” esclamò la donna, il tono
inutilmente elevato. “Fammi conoscere gli amici
di… Sasori, giusto? Saranno sicuramente molto
interessanti”.
Gli occhi felini
balenarono ancora un istante verso il bancone, in un luccichio di caldo
compiacimento.
I palazzi decadenti di un’Osaka periferica filavano cupi
oltre il ciglio della strada.
Un gioco iniziato per seduzione, per suscitare stupida, infantile
gelosia.
E così si ritrovava in macchina con questi ‘amici
di Kankuro’, tatuati dalla testa ai piedi. Con un fratello
simile in casa ci aveva pur fatto l’abitudine.
Il motore rombava ovattato, accompagnato dai discorsi dei due uomini,
sempre così incomprensibili alle sue orecchie. Ticchettava
le unghie contro il cruscotto, ritmicamente.
“Lo stai strizzando troppo, quel Nara”.
Temari sollevò lo sguardo, rivolgendolo verso Hidan. Seduto
sul sedile posteriore, l’albino ghignava sornione,
rivolgendosi a Sasori.
Nulla da stupirsi. La donna scosse la testa, facendo ondeggiare le
lunghe ciocche dorate. Frequentavano tutti l’izakaya dei
Nara, inutile sorprendersi del fatto che conoscessero quella famiglia
di…
“Quando torni dal ragazzo a riscuotere?”
proseguì l’uomo, un noncurante divertimento a
insaporire il timbro inconfondibile della voce viscida.
“Shikamaru, giusto?”
Gli occhi felini di Temari si spalancarono, accompagnando un insano
interessamento.
Il suo orgoglio di donna lo urlava: non avrebbe dovuto neanche
ascoltare. Ma…
Riscuotere cosa?
“Sì, Shikamaru” fu la lapidaria risposta
del rosso. Sasori fissava la strada, le accecanti luci notturne
riflesse sulle lenti convesse dei costosi Ray Ban. “Passo
sempre a fine mese. Ancora undici giorni”.
“Ah!” Hidan gettò la testa indietro,
abbandonandosi a una risata appagata. Temari aggrottò la
fronte. “Tanin no fukou wa mitsu no aji, come si suol
dire” commentò, languido.
Un brivido corse lungo la schiena della donna nell’udire il
proverbio.
‘I mali altrui
hanno il sapore del miele’.
“Deidara ha avuto occhio” proseguì, la
lingua fra i denti. “E’ decisamente il moccioso che
non ha le palle di denunciare. Succhi da una preda perfetta,
Sasori”.
Un colpo, una fucilata in petto. La bionda voltò lentamente
il capo sul poggiatesta, improvvisamente confusa.
“Denunciare… cosa?”
“Il pizzo, cara!” Sasori sorrise appena alla
dichiarazione estasiata di Hidan. “Shikamaru Nara deve pagare
il pizzo per evitare che noi della Yakuza gli bruciamo il
locale”.
Inconfondibile, viscida…
Schadenfreude.
Fraintese lo sguardo di Temari, pietrificato.
“Avanti, non dirmi che non lo sapevi! Lo sa tutta la
città… tranne i suoi genitori”
spiegò, un ghigno a fior di labbra.
“Voi… voi Yakuza?”
Per un momento, l’unico suono ad animare
l’abitacolo fu il sibilo dell’aria contro i vetri
scuri. La Mercedes si arrestò al semaforo, silenziosa.
“Cristo” osservò Sasori, tranquillo.
“Infatti” ringhiò l’albino,
divertito. “Kankuro non ti ha raccontato nulla di noi,
Temari?”
No.
Kankuro non le aveva mai detto che aveva a che fare con dei mafiosi.
Kankuro non le aveva mai detto che Shikamaru Nara veniva ricattato.
Un baratro di prospettive le si spalancò sotto i piedi,
convergendo in un’esplosione frenetica di terrore.
“Questa è estorsione!” gridò,
voltandosi furente verso i due uomini.
“Voi…” Smise di pensare, sentendo il
sangue salire alla testa come il magma si prepara a traboccare dal
vulcano.
Si scagliò contro lo sportello, spalancandolo di slancio
sotto lo sguardo allibito di Sasori.
“Ehi, bambola!” Il ruggito di Hidan la raggiunse,
seguito dalla sua mano prepotente.
“Mollami!” sbottò, divincolandosi
dall’impietosa stretta al braccio. “Mollami,
stronzo!”
“Che succede, quando scopri che i giocatori sono sporchi ti
ritiri?” rise, sprezzante, trascinandola dentro. Temari si
liberò dell’uomo con uno strattone, maledicendosi
per essere stata così ingenua.
Sapeva che non avrebbero mai osato torcere un capello a lei,
ma…
Il suo pensiero corse dove non doveva.
Lui l’aveva abbandonata, proferendo la fine di una storia a
cui non era più interessato. Non poteva, non doveva considerarlo
ancora parte della sua vita.
La strada bruciava via, slittando rapida sotto i suoi piedi. Mai
l’asfalto era stato tanto effimero mentre lo divorava a passo
veloce, i capelli dorati che morivano in scintille nel buio della
notte.
Doveva parlare con Kankuro, al più presto possibile.
*
La mano sudata scivolò oltre la guancia,
sull’orecchio, nei capelli ormai arruffati dal nervoso
passaggio delle dita inquiete. Storse la bocca, sentendo la cute
rigarsi sotto le unghie ormai spezzate.
Faceva freddo, schifosamente e incessantemente freddo.
Il tempo passava; troppo lento, troppo veloce.
Non avrebbe saputo dirlo. Semplicemente, mentre sedeva scomposta in
cucina, ripeteva a sé stessa che avrebbe ammazzato Kankuro
non appena avesse rimesso piede in casa.
Le sue gambe sembravano rifiutarsi di rimanere ferme, i muscoli
contratti dalla tensione le provocavano mugolii di dolore repressi.
Abbandonò la testa sul tavolo, percependo con un brivido il
freddo legno sulla guancia.
Il degrado e l’abbandono facevano bella mostra ovunque nella
gelida stanza; dalle maioliche scalzate del pavimento alle decine di
oggetti abbandonati su mensole e ripiani, un vuoto silenzioso dilagava
percettibilmente per tutto l’appartamento.
Un organo vitale in meno, un pezzo di famiglia decaduto, da quando
Gaara se n’era andato. Da quando aveva intrapreso la lunga
strada già battuta dal padre per diventare avvocato, guidato
da una cieca ambizione, disconoscendo Kankuro come suo fratello. Un
indegno, un delinquente di strada, sostenuto da quell’uomo
mancato di sua sorella; forte di giudizi cinici e incapacità
di provare rimorsi, il più giovane dei Sabaku si era
discostato dalla sua famiglia, sorridendo di gelida soddisfazione per
la propria carriera ben spianata all’orizzonte, contrapposta
ai fallimenti universitari di Kankuro.
Schadenfreude.
Sempre lei.
E così Gaara aveva preso il volo. Primo abbandono, seguito
da una serie di altri non meno dolorosi. Le dita di Temari si serrarono
convulsamente sui palmi. A lungo i suoi occhi, brucianti, si posarono
scivolando sulla cucina ampia e spoglia, senza realmente vederla.
Poi, finalmente, il suono del campanello arrivò.
Sollevò immediatamente la bionda testa sfatta, sentendo la
guancia appiccicata al piano ligneo distaccarsene dolorosamente; il
cuore che le martellava in petto, corse per il corridoio e
spalancò la porta d’ingresso, di slancio.
Una folata di gelido vento invase l’ingresso, inducendola a
socchiudere gli occhi.
Storse il naso. Se non avesse avuto qualcosa di molto importante da
riferire al fratello, gli occhi li avrebbe chiusi direttamente. Kankuro
barcollò.
Fradicio. Ubriaco fradicio. Come sempre, d’altronde.
Le braccia tatuate pendevano inerti lungo i fianchi, seguendo il
febbrile spostamento che effettuava alla ricerca
dell’equilibrio; gli occhi di un verde cupo erano vacui,
arrossati, la bocca dischiusa in una smorfia inebetita.
Reprimendo le lacrime con un ringhio, Temari lo afferrò per
un braccio e lo trascinò dentro, suscitando colorite
proteste nel ragazzone.
“Piano, cazz… ehi!” La ragazza lo
strinse con maggior vigore, sino a sentire la pelle robusta congelarsi
nella sua morsa d’acciaio. Si arrestò in cucina,
dopo averlo spinto malamente a sedere.
Lasciò che le sue ispide ciocche castane si spargessero sul
muro, che gli occhi stanchi si rivolgessero al soffitto nel gettare la
testa indietro; poi, afferrandogli le spalle con forza, lo costrinse a
guardarla in faccia.
“Perché non mi hai detto niente?”
urlò, priva di controllo. Lo sguardo di Kankuro
vagò per il suo volto paonazzo, annebbiato. Dalle labbra
secche sgorgò un biascichio confuso:
“Che… sei fuori di testa?”
“Tu lo sapevi!” continuò Temari, una
luce ancor più disperata negli occhi. “Tu sapevi
che Sasori e gli altri sono mafiosi! Per quale cazzo di motivo non mi
hai detto nulla?”
La mano del fratello si strinse impietosa sul suo polso, bloccandole i
movimenti. Con un solo, fermo sguardo irrazionale la mise a tacere,
ringhiante. “Lasciami…”
La ragazza indietreggiò, la frangia umida che ricadeva
scomposta sugli occhi sbarrati. Kankuro reagì come una
bestia minacciata, la percezione distorta dall’alcol; la
spinse via con forza, mandandola a cozzare di fianco contro il
lavandino con un solo, disperato colpo di mano.
Temari filò fuori dalla stanza, gli occhi umidi, inorridita
e spaventata. Frustrata, oltre ogni dire.
Non poteva far nulla per lui, né lui poteva esserle di alcun
aiuto. Aveva imparato a gestire le sbronze di suo fratello con la
reclusione, di lui o di sé stessa.
Si chiuse la porta alle spalle, ruotò la chiave nella toppa
e crollò riversa sul letto disfatto, esausta.
La sua mente aprì le porte a pensieri di ogni genere, che si
affollarono impazziti per la sua testa martoriata. Primo fra tutti, un
lume accecante, doloroso.
Ricattato dalla Yakuza.
E non me l’ha mai detto.
Si coprì gli occhi con un braccio, respirando
affannosamente.
Forse non si fidava veramente di lei.
Forse aveva soltanto avuto paura.
Ad ogni modo, le aveva nascosto la verità; e ciò
non era che una variante del comune termine
‘mentire’.
Bugiardo.
Shikamaru era stato un bugiardo.
Un codardo che si rifugiava dietro una maschera pur di sfuggire ai
problemi.
Temari si maledisse ancora, per non aver colto i piccoli segnali, per
non essere stata in grado di comprendere dalle esperienze
apparentemente più insignificanti. Digrignò i
denti, lasciando che le immagini le invadessero la mente, correnti in
un dirompente flusso di ricordi.
“Bugiardo”
Le sopracciglia di
Shikamaru si aggrottarono, interrogative.
“Che
c’è ora?”
“Bugiardo”
ripeté, la voce che sgorgava a fatica dalla schiera di denti
poco finemente digrignati.
Il ragazzo non
indietreggiò neppure quando lei sollevò
bruscamente un braccio, fasciato nella larga camicia da notte.
Continuava a ostentare quell’odiosa espressione annoiata, da
schiaffi.
“C’è
che mi hai detto… che avresti avuto il turno fino a tardi
all’izakaya”sbottò, quasi boccheggiando,
i codini che danzavano furiosi attorno al viso arrossato. “E
che non saresti potuto venire a cena con me stasera!”
Shikamaru
roteò gli occhi, un pesante sbuffo a fior di labbra. Temari
sedette bruscamente sulla lavastoviglie, le gambe nude che spuntavano
oltre l’orlo fiorato della veste.
“Avanti,
Tem… non potevo mica dirti che c’era la
partita” buttò lì, con tutta
l’aria di un padre razionale che tenta di far ragionare la
figlia isterica. “Mi avresti sbranato se ti avessi detto che
per stasera ti avrei piantato per vedere partita con Cho-”
“Ma
l’hai fatto!” strepitò la bionda,
piombando a piedi scalzi sul pavimento. “E’ questo
il punto, l’hai fatto!”
“Avanti,
seccatura… sono passato qui per stare con te, non ti ho mica
dimenticata” sospirò lui, ficcandosi le mani in
tasca con aria profondamente spossata.
Non si
preoccupò neppure di chiederle come avesse scoperto che
l’izakaya era in realtà chiuso, come avesse capito
che era da Choji a vedere la partita. Menefreghista al massimo.
Temari gli diede la
schiena, dirigendosi verso la camera da letto; pochi passi e lui la
raggiunse, cingendole la vita con delicata lentezza.
Labbra calde le
sfiorarono il collo, facendola rabbrividire.
“Dai,
seccatura… mi perdoni se ti faccio compagnia
stanotte?”
Le sfuggì un
sorriso morbido, che represse con efficacia. Non si addiceva
né a lei, né alla situazione.
“Non
è questione di perdono, Shika” mormorò
sciogliendosi dall’abbraccio, più quieta.
“E’ che se mi racconti bugie per cose
così piccole, posso davvero fidarmi di te?”
Si voltò, i
loro sguardi s’incontrarono.
“Chi mi
dice” proseguì, piano “che tu non mi
nascondi anche cose più grandi?”
Un’ombra
passò sul volto di Shikamaru.
In distaccato silenzio,
distolse lo sguardo dal suo.
Il retrogusto amaro del sakè pervadeva ancora la sua bocca.
Affondò il viso nel cuscino, sentendo il viscido contatto
della stoffa bagnata impregnarsi di mascara.
Una lunga serie di colpi risuonò alla porta, ritmica; si
rannicchiò su un fianco e attese che Kankuro terminasse di
bussare, ignorandolo. Quando i passi del fratello si affievolirono,
strascicando finalmente oltre la porta della sua stanza, Temari si
morse con violenza il labbro inferiore. Serrò le palpebre.
Cosa avrebbe dovuto fare?
Avrebbe potuto denunciare, conoscendo i nomi degli Yakuza.
Avrebbe potuto… non fare. Perché sudare? Per chi,
per lui?
Avrebbe potuto lasciarlo marcire, guardarlo morire lentamente, logorato
dal racket.
E sarebbe stata meravigliosa, giustissima…
Schadenfreude.
O forse no.
Dormì un sonno inquieto, disturbato, contaminato. Spaccato in due.
Il suo orgoglio sanguinava da più parti.
***
Angolo
dell’autrice:
Ok, questo è stato il mio primo concorso. Ho lavorato un
mese e mezzo su una trama, poi… blocco creativo e cambio di
programma. Ho sviluppato un’altra idea (questa) e
l’ho elaborata durante un viaggio che sono stata costretta a
fare. Quindi, negli ultimi quattro giorni di tempo rimasti, ho scritto
come una pazza frenetica.
-Ho dovuto segare un giorno di scuola per fare in tempo a consegnare
-Ho praticamente avuto una crisi isterica per fare in tempo a consegnare
-Stressss… =_=
Alla fine non ero neppure così soddisfatta del risultato, ho
trovato la fic… frammentaria. Ho elaborato la trama e le
varie parti in giorni e giorni, ma in il risultato non mi soddisfaceva
ugualmente. Morale della favola, mi sono letteralmente ammazzata.
Per questo la mia sconfinata gratitudine va ai due giudici del concorso
bambi88 e arwen5786. *occhioni enormi* Sapere che tutto questo casino
(sì, ho anche creato qualche problema con la casella e-mail
perché non inviava la fic! Yay ^^) è
stato apprezzato al punto di meritare il primo posto mi fa
sentire… sì felice.
Ci tenevo tanto a questo concorso, davvero.
Grazie.
Che altro dire? ^^
Spero che leggendo apprezzerete questa fic. Fatemi conoscere i vostri
pareri! ** Posto il secondo capitolo.. uhm.. Mercoledì.
Sì, Mercoledì.
Un bacio enorme a tutti, soprattutto ai nostri giudici e a
tutte le partecipanti al concorso!
Chime
EDIT: Piccola aggiunta, sarò breve: per favore, non aggiungere questa fic ai preferiti se non avete intenzione di recensire . Ve lo chiedo come cortesia. Molte persone lo fanno, e ti lasciano quel senso come di... "Non saprò mai cosa le abbia spinte ad aggiungere ai preferiti la mia fic. Sarà piaciuta? Ci sarà finita per caso? Boh!"; per questo ho preso l'abitudine di ringraziare via e-mail queste persone, chiedendo la gentilezza di scrivermi il motivo per cui hanno apprezzato la fic, per e-mail o per recensione che sia.
Grazie in anticipo e a presto!
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Capitolo 2 *** Seconda parte ***
Nota: Lo
dico per scrupolo, in caso qualcuno se lo sia chiesto… i
tatuaggi che ho tanto menzionato, facendo collegamenti con i tratti
caratteristici dei personaggi del manga (la svastica di Neji, le ossa
di Hidan, ecc), sono un tratto caratteristico e realmente esistente
degli Yakuza: in Giappone sono poche le persone che osano tatuarsi, per
il semplice timore di essere presi per mafiosi. Questo tende a
sottolineare il carattere ribelle e provocatorio di Kankuro, che ho
“tatuato” nella storia con i segni che porta sempre
in volto durante la serie, nonostante lui non sia parte della Yakuza ^^.
Ed ora, buona lettura della seconda parte!
Capitolo 2
Infilò la chiave nella toppa, producendo un cupo raschiare.
Alle loro spalle la luce acquistava consistenza sull’asfalto,
nella scalata del sole lungo il buio pendio del cielo; un sibilo sordo
sul pavimento polveroso e la porta si aprì lenta, rivelando
l’interno addormentato del locale.
Mattino. E la città si destava, svogliata.
Mossero pochi passi verso l’interno, gustando silenziosi
l’amaro in bocca della levataccia. Ino spalancò le
finestre, lasciando che una fresca brezza luminosa invadesse
l’izakaya.
Shikamaru la osservò muoversi freneticamente al di
là della mano premuta sulla tempia, in un gesto di debole
sconforto.
“Su, Shika” La lunga coda biondo platino della
ragazza spuntò ondeggiando dalla cucina, sovrastata da un
rigido manico di scopa. “Ti ho promesso che ti avrei aiutato
a ripulire, ma non pensare che ora faccia tutto io”.
Il ragazzo socchiuse gli occhi, infastidito dal trillo della voce di
Ino; lentamente, sconfiggendo la stanchezza pian piano, si arrese al
dovere e scese dal tavolino su cui era seduto, facendo leva sulle gambe
foderate di denim sdrucito. Si trascinò in un angolo
polveroso, afferrando al volo uno scopettone passatole prontamente
dalla ragazza.
“ ’azie”
Iniziò a spazzare con scarso vigore, rimuovendo patine di
polvere per poi accatastarle più in là.
Com’era triste, il locale. Così immerso nel suo
sonno di materia morta, polveroso, spento. I residui della scanzonata
serata precedente ingombravano impercettibilmente il tutto, urla e
risate ebbre svanivano nel nulla del silenzio.
Forse era solo molto stanco.
Di lavorare, di doversi piegare sia al proprio dovere che al loro
divertimento.
Di fare finta di aver fatto la cosa giusta.
Di vivere senza di lei.
Prima di poterlo realizzare, le sue braccia si fermarono. Poggiarono
sul davanzale, fondendosi nel riflesso del vetro incrostato sotto il
suo stesso sguardo vacuo.
Le nuvole erano spesse, intermittenti. Come quella volta in
cui…
Ma era notte, quella volta.
E lui era insieme a lei.
Temari
schioccò la lingua.
Il polso
ruotò fluido sul manubrio, aizzando
l’acceleratore. S’innalzò in risposta un
ruggito feroce, che scosse col suo eco vibrante due animi
silenziosamente euforici.
Shikamaru
affondò le mani nei suoi fianchi torniti, allarmato.
“Che
c’è?”sbottò la bionda, curva
contro la strada.
La moto
rallentò e giunse a fermarsi, rimanendo in bilico sulle due
ruote per qualche secondo, prima che due tacchi di stivali in cuoio
stabilizzassero l’equilibrio. Affondarono nello sterrato
della deserta strada di periferia, offuscando la lucida pelle di una
patina di polvere.
Uno straccio atterrò sul tavolino accanto a lui,
distogliendolo dai suoi pensieri.
Si voltò appena, incontrando lo sguardo accigliato della
ragazza, intenta a controllare che lo smalto sulle lunghe unghie non si
fosse scheggiato. Sollevò la testa bionda, rivolgendogli i
grandi occhi azzurri.
“Aah” Ino sospirò, un gran sorriso sulle
labbra imperlate di rosa opalescente. “Quando guardi le
nuvole con lo scopettone morto in mano, significa che sei malinconico
come poche volte. Ho indovinato?”
Shikamaru le restituì uno sguardo cupo, facendole scivolare
via il sorriso dal volto come acqua saponata su un piatto. Ino
calò al pavimento le due pozze cerulee.
Col pretesto di riguadagnarsi lo straccio lanciato via in un accesso
d’impazienza, si avvicinò al ragazzo, gestendo
precise falcate sui tacchi alti. Lo raggiunse, sedette pacata sul
tavolino, la pezza stracciata in grembo.
Il ragazzo sentì lo sguardo preoccupato di lei sfiorarlo per
un momento ancora, fuggevole.
Poi, con un tono che voleva suonare neutro, pronunciò la
domanda che probabilmente voleva esporre da minuti:
“Quanto manca?”
“A cosa?” La risposta di Shikamaru fu quasi brusca.
La voce di Ino si fece, se possibile, ancor più cauta.
“Quanto manca a quando… dovrai pagarli?”
“Dieci giorni” soffiò, atono.
Gli parve di vedere le due iridi rossastre di Sasori restituirgli lo
sguardo, avide.
La ragazza tacque, lasciando che la mente di lui si disperdesse nel
cielo azzurro, macchiato da nuvole libere.
Libere.
Perché era questo in fondo il suo desiderio più
grande.
Era incatenato al ricatto che lo logorava lentamente. Era prigioniero.
Ma anche Temari, come le nuvole, era libera.
Forse era anche per questo che l’aveva lasciata…
lei, così viva, sciolta da vincoli mortali. Forse, oltre al
desiderio di tenerla lontana dalla sua situazione di pericolo, aveva
preferito allontanarla per rivalsa.
Perché lei era libera, e lui no.
Forse era stato quasi piacevole sentirsi per un momento libero di
scegliere, utilizzando tale libertà per allontanare lei e la
sua maledetta fortuna.
Schadenfreude?
E le nuvole scorrevano, silenti.
“Vai
piano…”ammonì, la linea delle labbra
incerta.
Per tutta risposta, la
ragazza sollevò al cielo le iridi smeraldine. La sella
foderata in pelle tremò furente sotto di loro mentre
ripartivano bruscamente. Forse un po’ troppo.
Il ragazzo si
aggrappò disperatamente alla schiena di lei, sospinto
indietro dalla forza di gravità. La voce ruggente di quella
che avrebbe dovuto essere una delicata ragazza gli solleticò
l’udito, macchiata dall’interferenza delle raffiche
ghiacciate.
“Si vive una
volta sola!”
“Appunto”
Shikamaru rabbrividì nel giubbotto militare
“Cerchiamo di farla durare”.
Una risata di scherno in
risposta.
La mano della
gravità premeva sul suo petto, togliendogli il respiro.
O forse era il peso. Il
peso nello stomaco.
Tentava di scalzarlo
dalla sella.
Quei vent’anni
di vita asettica lo annoiavano, svuotandolo di gioia e iniziativa. Come
sperare di passarne altri sessanta, in tale pigra passività?
Fili di morbido miele
danzavano impazziti contro la sua fronte, sfuggiti al casco della loro
proprietaria. Poteva quasi sentire la carica elettrica di quella donna
dipanarsi lungo le fibre intessute d’oro, contaminare il suo
inerte silenzio.
Buffo.
L’apatia lo
rendeva attaccato a una vita di per sé apatica.
Ma anche se non
l’avrebbe mai ammesso, quelle corse sfrenate, vissute dietro
la schiena di un demonio scatenato, gli avevano donato qualcosa: la
capacità di sorprendersi, di non dar più nulla
per già visto, per scontato.
Shikamaru
l’aveva persa fin dall’adolescenza.
Quell’angelo
dalla natura demoniaca era riuscito a fargli riscoprire lo stupore per
ogni piccola cosa che, con la sua indolenza, lui non notava,
giudicandola insignificante.
La brezza,
così mansueta e dolce nel sereno.
Shikamaru non avrebbe
mai immaginato quanto brutale potesse divenire, nell’impatto
contro corpi lanciati a tale velocità. Era rimasto sorpreso.
E la noia, la
passività che lo caratterizzavano, avevano per un istante
lasciato scoperto un barlume di vitalità. Solo in quel
contrasto con la Luce si era accorto di come quelle limitazioni
rendessero opaca la sua vita.
Temari era vento, era
una folata di cambiamento, d’aria fresca, che divorava quella
ormai stagnante del suo pigro trascorrere. Ma lui aveva un ruolo da
giocare, una maschera a cui restare leale. E in quanto a questo, era
fortemente, stupidamente orgoglioso.
“Manca
tanto?”gridò, la corrente aggressiva che gli
strappava le parole di bocca.
Temari rise, maliziosa.
“Sì,
Nara. Siamo ancora tanto, tanto lontani da casa…”
La sua voce si perse nel
vento, contro il vuoto della visiera.
Senza catene, senza
limiti. Libera.
Filarono per
un’ampia sopraelevata, che curvava su sé stessa
sino a connettersi al raccordo. Le luci filavano basse ai loro fianchi,
anime sopite fra le mura immerse nel buio.
Una notte eterea.
Temari gettò
la testa indietro, in preda all’ebbrezza della
velocità.
“Respira,
avanti!”
Rallentò
svoltando in una strada secondaria, finché le loro parole
furono udibili oltre il rombo scemante della moto. Per quanto
consentito, la ragazza si affacciò al di sopra della propria
spalla, sulle labbra vermiglie un sorriso ebbro, selvaggio.
“E’
aria di libertà. La senti?”
“Sa di
smog” osservò Shikamaru, piatto.
Un’ombra
strisciò sul volto della ragazza, celata dalla visiera del
casco. Si voltò.
Tacque a lungo mentre un
lontano semaforo si avvicinava sfrecciando.
“Non sai
guardare oltre la punta del tuo naso, Nara”.
Era un suo limite. Era
vero.
E mentre la spinta
sull’acceleratore sfumava, la sua voce si freddò
quanto il motore.
“Tieni, dai”
Ino gli porse nuovamente la scopa, spingendolo a proseguire il lavoro.
Si riscosse, promettendosi ingenuamente di non cadere mai
più nella trappola delle nuvole.
Riprese obbedientemente a rassettare il locale per la serata, il volto
distorto di tanto in tanto da cupe interferenze. Faticava a respirare,
e non era certo colpa dell’allergia alla polvere.
Perché Temari era vento.
Era assuefatto all’ossigeno, ed ora, da stupido eroe suicida,
boccheggiava in astinenza.
*
“Prego”
Con un’espressione che non avrebbe potuto essere
più annoiata, si voltò verso
l’avventore.
“Birra” gracchiò l’uomo.
“Asahi, Sapporo, Kirin…”
elencò, piatto.
“Asahi”
Shikamaru annuì, inespressivo, voltandosi verso i boccali
stipati in ordine su una mensola di legno levigato. Sbuffando per il
caldo, colmò il boccale e lo schiaffò sulla
liscia superficie, per poi abbracciare ostilmente con lo sguardo
l’arrivo al bancone di un ragazzo mingherlino e
l’incedere rapido di una donna, diretta anch’essa
verso di lui.
Ancora clienti. Non gli stavano dando tregua.
“Shikamaru, vieni un attimo a portarmi quella cassa di
gamberi!” La voce di sua madre giunse strepitando dalla
cucina, oltre la tendina di canne di bambù; si
ficcò una mano fra i capelli, disfacendo
all’istante il precario codino alto.
“Un attimo mamma, un secondo!”
boccheggiò, disperato. Lunghe ciocche di capelli scuri gli
si appiattirono sul volto, liberi. Al diavolo.
“Sto facendo la schiuma!” sbottò, la
voce lamentosa. Gli occhi del ragazzo in attesa erano percettibilmente
piantati su di lui, mentre con gesti stizzosi e insolitamente rapidi si
sfilava la maglia di cotone.
Tirò un sospiro di sollievo, sentendo la pelle freddarsi al
contatto con l’aria; solo una leggera maglietta a mezze
maniche, attillata, ricopriva ora il suo torace, lasciando intravedere
le fattezze del suo corpo atletico ma accaldato.
Si voltò nuovamente verso il bancone, un sorrisetto
soddisfatto sulle labbra.
Un sorrisetto che si congelò all’istante.
La donna che prima si stava avvicinando era arrivata al bancone. E lo
fissava con occhi penetranti.
Lei.
Era lì.
Ebbe una misera, fulminante frazione di secondo per realizzare. Il
motivo gli era oscuro, ma i quattro biondi codini non lasciavano dubbi
su chi fosse.
Oltre il bancone, bella e altezzosa come la prima volta che
l’aveva vista.
Il calore avvampò nuovamente sulla sua pelle, proprio come
era accaduto solo alcuni minuti prima.
Proprio come era avvenuto solo alcuni mesi prima.
“…e
un goccio del leggendario Sakè di Yoshino per la mia
nii-san, che stasera è venuta a farmi da balia”
soggiunse l’energumeno, strizzando l’occhio.
“Arriva,
arriva” Shikamaru represse uno sbuffo divertito, passandosi
sbrigativamente un braccio sulla fronte lucida di sudore.
‘Chissà
che nii-san di classe avrà Sabaku no Kankuro’
pensò sardonico, disponendo svariati boccali sul bancone.
Per un fugace istante immaginò il ragazzone coperto di
tribali affiancato da una robusta, tipica lanciatrice di giavellotto,
di stazza analoga a quella del fratello. Magari con le stesse braccia
scimmiesche e i capelli ispidi, lanosi.
Sì, i piccoli
filmini mentali, le stupide fantasticherie che sollevano gli angoli
della bocca addolcendo la giornata.
Peccato che quando si
voltò verso l’avventore, il viso stravolto nella
pura immagine dello stress, la seccata sorella maggiore in questione
fosse approdata al bancone con irruenza, poggiandovi i gomiti piuttosto
rudemente.
Peccato che non
somigliasse per nulla a una lanciatrice di giavellotto.
Peccato che in quei due
occhi verdi da pantera si rispecchiassero i suoi, spalancati, che
quelle labbra imporporate di vermiglio fossero improvvisamente
così a portata di bocca, che le dita curate ticchettassero
ritmicamente sul bancone.
Sì, le
piccole sorprese della vita che spalancano a forza la bocca in
espressioni improbabili, rendendo piccante la serata.
“Sicuro che il
barista sia di questo pianeta, Kankuro?” chiese la donna in
tono quasi casuale, lo sguardo indifferente fisso sul volto immobile di
Shikamaru.
Il barista si diede un
contegno, ricambiando lo sguardo distaccato con un broncio; lei
inarcò le sopracciglia, il seno prosperoso schiacciato
contro le braccia ripiegate sul bancone.
“Hai sentito,
testa ad ananas? Un sakè per me, su”
bofonchiò, strafottente. “Puoi farcela”.
“Che
seccatura…” si sorprese a borbottare il ragazzo
mentre, trascinandosi in direzione della cucina, seguiva passivamente
l’essenziale regola ‘Il cliente ha sempre
ragione’.
“Hai detto
qualcosa?” Un latrato polemico gli giunse alle orecchie,
gonfiandogli le guance di un insulto trattenuto a viva forza. Era una
donna, diamine, non poteva permettersi di suggerirle efficaci soluzioni
quale “Se ti rode, grattatelo”.
Uno dei tanti, buoni
motivi per etichettare le donne come seccature su due zampe.
Prima di immergersi nel
regno di sua madre, Shikamaru drizzò le orecchie, captando
qualcosa di incredibilmente interessante per essere provenuto dalla
gran bocca di Kankuro:
“Ehi, ehi
Temari! Vacci piano, Shikamaru non è mica abituato alle
mangiatrici di uomini!” Il barista occluse i canali recettivi
in nome di un accattivante pensiero.
Dunque, la leonessa si
chiamava Temari.
‘Sabaku no
Temari’. Suonava bene.
Sorella di Sabaku no
Kankuro, grezza quasi quanto il fratello stesso. E nonostante
ciò, indiscutibilmente attraente, dotata di una bellezza
selvaggia, singolare.
L’inaspettato
in persona aveva i capelli biondi, divisi in quattro eccentrici codini.
Le dita della donna corsero ai folti capelli biondi, nel vano tentativo
di domare i lunghi fili di frangia dorata. I vivaci occhi felini tenuti
razionalmente a bada, inclinò appena la testa.
“Ciao” esordì.
Un tono curioso, più simile a una domanda. Tono che si
guadagnò uno sguardo piatto, scoccato da due occhi troppo
vacui, stagliati su un volto troppo inespressivo.
Shikamaru non si mosse. I muscoli immobili, paralizzati.
Sabaku no Temari.
Evidentemente, voleva giocare al suo gioco.
E fosse. Shikamaru recitò passivamente la sua parte, il tono
formale e inespressivo.
“In cosa posso servirla?”
“Shikamaru!”
Fuori pioveva.
S’intravedeva dalla minuscola finestra socchiusa accanto alla
porta d’ingresso, unica via di fuga del momento. Non si
curò di rispondere a sua madre, né del ragazzo
smilzo che attendeva più in là, con la pazienza
che solo un avventore ancora lucido poteva avere. Rimase a osservarla,
in attesa.
Non era
rilassato. Non ci voleva un genio per notarlo.
Stabilì che se non si fosse decisa a parlare, se ne sarebbe
semplicemente tornato alle sue occupazioni. Oltre la frangia bionda,
nulla si mosse.
“Aspetta” borbottò, piano.
Temari inarcò le sopracciglia.
“Devo aiutare un attimo mia madre”
“Non c’è problema”
replicò prontamente lei, calpestandogli la voce con la sua,
insolitamente acuta. “Devo solo farti due domande sul locale.
Posso aspettare, ho tutta la serata” soggiunse, un punta di
amarezza nel tono secco.
Pessimo segno che lei fosse lì; ancor peggiore
l’accenno al locale.
Shikamaru girò sui tacchi e condusse passi rapidi in cucina,
facendo per afferrare una cassetta ricolma di pesce abbandonata nel
grande freezer. La sua espressione, già granitica, si
irrigidì maggiormente nel notare che era sparita.
“L’ho portata io a tua madre”
borbottò una voce annoiata, così simile alla sua.
Si voltò di scatto, per incontrare gli occhi fondi del
padre, i lineamenti orientali illuminati dalla luce azzurrina della
cucina. Shikaku aggrottò la fronte.
“Che ti prende? Sei pallido” osservò
l’uomo.
“Papà, servi tu al bancone, mi serve…
mi servono dieci minuti, ecco. C’è
Temari”
Senza curarsi di ascoltare la risposta, Shikamaru uscì dalla
cucina a passi rapidi, rendendosi conto solo al ritorno nella sala di
star sudando freddo.
“Bene… vieni fuori..?”
buttò lì senza preamboli, evitando di incrociare
il suo sguardo. La ragazza annuì, impassibile.
Il senso di colpa, i rimorsi, i rimpianti. Si morse le labbra,
precedendola verso la porta posteriore del locale.
*
La temperatura esterna era umida, fredda, in netto contrasto con quella
soffocante dell’izakaya; rabbrividì.
L’odore della pioggia.
Che scroscia a cascate.
Quando tutto si fa bianco, si lascia abbattere inerte della cortina di
freddo opaco.
Temari si chiuse la porta alle spalle, raggiungendo Shikamaru nel
cortile esterno, sotto un ripido cornicione. Il ragazzo si
affrettò a frugare nella tasca, risultando impassibile
nell’estrarre un pacchetto di sigarette.
“Una?” chiese, mentre l’accendino
tremolava incerto fra le sue mani.
“No, grazie” fu la risposta, forzatamente fredda.
Il barista ripose il pacchetto, aspirando profondamente dalla sigaretta
che aveva infilato sbrigativamente fra le labbra. Guardava altrove.
Fingeva, sfuggiva ancora.
Trascorsero diverse boccate prima che Temari si decidesse a parlare, la
voce rotta. Lui si voltò a guardarla, per la prima volta da
quando si era ritirato in cucina.
“Io non sapevo nulla” Puntò in alto gli
occhi verdi, il viso bagnato di bianco. Si sforzò di
mantenere un freddo distacco, quasi altezzoso. Shikamaru rimase in
silenzio, lo sguardo fisso nel suo.
“Non mi avevi detto nulla…”
mormorò “…di Sasori e del suo
clan” concluse, alzando la voce per sovrastare quella di lui,
probabilmente preparata ad un ingenuo ‘Di cosa?’
Il ragazzo si rabbuiò, le spalle irrigidite poggiate al
muro. Si chiuse in un lungo silenzio, che la ragazza
rispettò senza fiatare.
Poi, finalmente, un roco “Guardami”.
Temari risollevò gli occhi orientali, incontrando i suoi.
Erano torbidi, torbidi come non li aveva mai visti.
“Guardami e giudica tu. Sarei stato l’uomo giusto
per te, davvero? Un uomo che paga il pizzo e non sa come uscirne, che
ti avrebbe soltanto trascinata nei suoi stessi casini?”
Temari scoppiò a ridere, quasi isterica. Si
staccò dal muro, finendo oltre il raggio di protezione del
cornicione; fredde stille di pioggia presero a ticchettarle contro,
insistenti.
“Si diceva di te che avessi 200 punti di quoziente
intellettivo, Nara!” lo schernì.
“Se è alla denuncia che pensi, fai due calcoli e
ti renderai conto che non c’è bisogno di troppi
neuroni per capire che denunciare avrebbe messo in crisi tutta la mia
famiglia” sbottò lui, cupo.
“Ma ti saresti liberato di Sasori!”
ringhiò, furiosa.
“Sì. E il resto del clan lo avrebbe
vendicato”.
Poche parole che la misero a tacere.
“Io non volevo lasciarti, Temari” soggiunse piano,
serio. Nello sguardo si leggeva chiaro che stava mandando al diavolo
l’orgoglio. “Ma avrei dovuto dirti tutto, degli
Yakuza e il racket, se non l’avessi fatto”.
La donna si voltò di scatto, facendo schizzare in aria gocce
ormai riscaldate dalla sua pelle.
“E allora? E quando mi avessi detto che la Yakuza ti sta
distruggendo la vita?”
“Sarei stato un codardo per te. E ti avrei immischiato nel
mio problema”
Ed ecco Shikamaru che gettava una maschera: quella del menefreghista,
del ventenne svagato a cui non importava nulla del giudizio altrui.
“Sei stato un codardo a farmi… soffrire”
ammise lei, le mascelle serrate “Pur di non dirmi che avevi
un problema!”
“Ero stanco di fingere”
“Avresti dovuto essere sincero!”
Tacquero, entrambi. La pioggia portò via le loro parole,
ormai così basse, inutili.
Solo frutti morti, figli di terreni ormai bruciati.
Shikamaru sospirò, estraendo nuovamente il pacchetto di
sigarette. Una richiesta di pausa.
“Passamene una, Nara” mormorò Temari,
massaggiandosi la fronte stancamente. Il ragazzo gliela porse senza
obiezioni, ancora passivamente abbandonato contro il muro del cortile.
I codini, ormai scivolati via dagli elastici, strisciarono lungo le
spalle bagnate di lei mentre si chinava verso quella mano asciutta che
le tendeva il desiderato bastoncino bianco, intatto.
Shikamaru imprecò distrattamente nel constatare che
l’accendino aveva preso acqua; lo fece scattare
più volte, fallendo nel tentativo di accendere la sigaretta.
“Sono senza accendino” dichiarò,
osservando la sua interlocutrice con espressione piatta.
Le labbra di Temari s’incurvarono appena.
“Ne hai uno proprio nella tua bocca”
Il ragazzo osservò accigliato il mozzicone pendere dalle sue
stesse labbra; poi, rivolgendole lo sguardo con un sospiro, lo tenne
fermo fra le dita. Lei si avvicinò, gli occhi assottigliati
nell’attenzione.
Le due punte bianche giunsero a toccarsi, quella della sigaretta
più corta propagando gradualmente il calore
nell’altra, spenta.
Le bocche erano vicine.
Le bocche erano vicine.
Le labbra si sfioravano.
-Uno sguardo gettato nel
buio, furtivo.
Le loro bocche erano
unite.
Le loro labbra che
divoravano.
L’ebbrezza del
calore. Di lei, di lui.
-Quanto le mani possano
essere fredde sulla pelle che scotta…
Il buio era dolce,
allontanava il silenzio pressante.
-Quanto la voce contro
il collo dell’altro possa essere rotta…
L’appartamento
era deserto, un vasto impero soltanto per loro.
Loro, che si sentivano
nient’altro che re e regina, vividi nel loro eterno
splendore.
Gli occhi erano ciechi,
ottenebrati di tenebre e piacere; non cercavano che quelli
dell’altro.
Le mani erano sudate,
pregne di profumi intensi; non cercavano che la pelle
dell’altro.
Erano uniti, erano soli,
erano rinchiusi nel loro mondo di segreti inconfessabili, passione,
orgoglio ormai dischiuso.
Non sentivano le corde
che si serravano ai loro polsi.
Strisciavano sulla pelle.
Come le loro lingue
lungo i lobi, lungo la schiena dalla pelle liscia.
Perché,
ansimando e urlando, avevano la maledetta sensazione che il Paradiso
fosse infinito?
Temari ritrasse la testa, osservando la punta della sigaretta
incenerire e bruciare.
Aspirò, vivendo soffusamente quelle sensazioni mai
dimenticate.
Soffiò fuori il fumo.
“Potrei chiedere aiuto a mio padre”
Era stanca, debole. Gli occhi di Shikamaru la seguirono stanchi, deboli.
“E’ un avvocato. Credo che la legge abbia soluzioni
per una situazione come questa”
“Non ce ne sono” sbuffò lui, atono.
Chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare la schiena dalla pioggia
incessante.
“Io pensavo solo che avremmo potuto provare
insieme” concluse, vuota di altre parole. “Almeno
provare. E che l’avremmo affrontato insieme. Solo
questo”.
Forse non sarebbe bastato a risolvere.
Forse sarebbero potuti rimanere invischiati nel ricatto fino alla morte.
Ma per lui, Temari non avrebbe ceduto alla paura.
“Be’, hai fatto la tua scelta. Io la mia parte te
l’ho offerta” Gettò la cicca
già fradicia a terra, esausta.
Fece per muoversi verso la porta, incapace di definire il suo stesso
stato d’animo. Una voce lenta e profonda la raggiunse, come
non la sentiva da un pezzo.
Non avrebbe detto che due parole, prima di raggiungerla sotto
l’acqua del cielo.
“Vieni qui”
Sì.
Assaggiamo insieme quanto salate possano essere le lacrime di
coccodrillo.
Salate e amare.
Perché senti
anche tu quel loro sapore, lo so.
Aspre e brucianti.
E so che non ti piace,
che lo odi…
Le dita affondarono nei suoi capelli bagnati, immobili, in
un’unione amara.
… che ti fa
provare dolore. Forse più di quanto ne provi io.
Schadenfreude.
No. Stavolta
è più che altro masochismo.
Silenzio.
C’erano solo loro, la pioggia e i loro corpi, stretti in un
abbraccio.
Ma un abbraccio che aveva il sapore dolce e acerbo di un bocciolo.
Nuovo, fiducioso.
Che nasce da un ramo spezzato e vuole tornare all’antico
splendore.
Pioveva, su di loro.
Pioveva e non si sciolsero.
Contro la Schadenfreude che impregnava le loro fragili esistenze, la
giovane promessa di un fiore sbocciato dal sale.
***
Angolo
dell’autrice:
Ed ecco il finale. Volevo terminare la fic in modo un po’
agrodolce, ricongiungendo i due ma lasciando aperta la questione
Yakuza; nessuno sa come Shikamaru risolverà il problema, ma
ad ogni modo… lo affronterà con Temari. E una
storia che sembra ormai troncata di netto dalle incertezze di
Shikamaru, ritrova un raggio di speranza da cui rinascere grazie alla
forza d’animo di Temari. Questo era il mio intento, e spero
fortemente di essere riuscita a descrivere bene ciò che
avevo in mente nel finale.
Dunque, più di una persona ne ha parlato nelle recensioni:
la storia che i due hanno alle spalle non è definita in modo
chiaro, lo so. E’ stata una scelta volontaria, ho voluto
lasciare nella penombra i particolari del loro passato (questo, per la
mia visione, si adatta di più all’atmosfera
soffusa dell’izakaya, in cui è ambientata la gran
parte della fic ^^).
Quindi non ho descritto esplicitamente l’inizio della loro
storia, né la fine; soltanto alcuni sprazzi di esperienze
vissute insieme (come la corsa in moto), il loro primo incontro e i
loro primi approcci, segnati dalla gelosia. Ed anche un momento di
passione e (nello scorso capitolo) il ricordo di una incomprensione e
discussione fra i due. Anche qui spero di conoscere il vostro parere;
sono riuscita a rendere completa la loro storia di tutti i tipi di
esperienza che caratterizzano un rapporto? O risulta troppo confusa e
sottointesa? Fatemi sapere, ci tengo moltissimo… ci ho messo
l’anima nel rendere spessore a questa fic.
Ah, rinnovo il mio richiamo alle persone che hanno aggiunto la fic ai
preferiti senza commentare: spero che vi facciate sentire, non costa
davvero nulla :)
Rispondo alle vostre meravigliose recensioni *__*
Un bacio a tutti!
Chime
Arwen5786:
Grazie, Cami e Roberta. La vostra recensione da giudici mi ha fatta
sentire veramente felice e gratificata del lavoro che ho
fatto… nonostante quello che avete scritto sulla forma e lo
stile, credo proprio che non sarò mai capace di descrivere
bene la mia gioia :-). E non esagero. Che dire? Grazie di cuore!
Stefy90: La
tua recensione mi ha veramente emozionata! Ti ringrazio tantissimo,
sono contenta che tu l’abbia trovata viva e reale, che i
personaggi ti siano sembrati tutti importanti nel loro ruolo. Ho
ritardato a pubblicare il seguito per problemi di connessione, nel
frattempo credo che ti sarai ripresa, come hai detto tu :-) Spero che
questo capitolo riesca a darti i brividi come il precedente; ho provato
a distaccare la storia dalla durezza delle vicende della mafia per
concentrarla di più sull’intensità del
rapporto che c’era tra i due quando erano ancora insieme.
Fammi sapere che ne pensi, nel frattempo ti mando un bacione e un
ringraziamento!
SangoChan88:
Grazie mille! E grazie per i preferiti ^^ Che ne pensi di questa
seconda parte, ti è piaciuta? Baci e grazie ancora!
La faina di primavera: “Sorry
Nicky, human nature, nothing I can do! It’s…
Schadenfreude! Makin’ me feel glad that I’m not
you.” Ah, Fainuzza mia. Ricordi quando lessi questo pezzetto
dal tuo messaggio e mi innamorai della parola Schadenfreude? E te lo
ricopiai nel mio? Tu e i tuoi pazzi musical mi avete fatto superare il
blocco dello scrittore (se di scrittrice si può parlare xD).
Lo so che sono stata un po’ cretina, ma lo sai che la
autostima non è propriamente un elicottero…
Grazie soltanto di aver sopportato la mia cocciutaggine e di avermi
inconsapevolmente ispirata a scrivere questa fic. E i tuoi commenti via
msn mi fanno sempre più commossa **. Un bacio fortissimo,
mio pelosissimo animaletto!
Nanami_Kimura:
Grazie mille per i complimenti ^///^ Ecco il secondo cap, problemi di
linea per cui sono un po’ in ritardo… dimmi che te
ne pare di questa seconda parte! Un bacio e grazie ancora!
Lily_90: La
tua recensione mi ha lasciata senza parole per diversi motivi. Non mi
viene in mente altro che “grazie”, che è
la cosa più banale da dire ma anche quella più
sincera. Sono davvero contenta che tu ti senta immedesimata nel
personaggio di Temari e che la fic sia riuscita a coinvolgerti fino a
farti avere i brividi. La tua recensione, così dettagliata,
è stata sicuramente fra le più gradite: sai, di
quelle che ti fanno capire che allora non scrivi per niente…
e poi sai bene quanto mi piaci come scrittrice, come il tuo parere su
una ShikaTema sia prezioso come l’acqua ** A proposito, ti
è arrivata la mia e-mail? Ti ho inviato la mia recensione a
“Just as long as you stand by me,
darlin’” e spero che ti sia arrivata
>.< Fammi sapere! Ho ancora problemi di connessione, per
cui non riesco a postare recensioni. Nel frattempo, spero che questa
seconda parte sia stata all’altezza della
precedente… dimmi che ne pensi, tengo moltissimo al tuo
giudizio! Ancora grazie e un bacione! ^.^
Kaho_chan: Ma
salve, collega mosca grigia ^.^ Non preoccuparti della sensatezza della
tua recensione, sappi solo che l’ho amata così
com’è *___* Ti ringrazio tantissimo, mi rende
felice sapere che sono riuscita a rendere le sensazioni e le atmosfere
che immaginavo nella mia testa! Ah, in quanto alla
Schadenfreude… oddio, a ripensarci ho scoperto questa parola
per caso, chiacchierando di canzoni con una mia amica. E’ un
sentimento, in pratica, che spazia dal vero e proprio compiacimento per
le disgrazie altrui a situazioni minori, come… Uhm, hai
presente quando una ragazza insopportabilmente odiosa e oca magari
inciampa e cappotta in piena strada? Ti capita mai di sentirtene
mooolto contenta? Ecco, se sì, quella che provi è
Schadenfreude ** Sono rimasta affascinata dalla parola in
sé, perché in fondo è qualcosa che in
varie misure proviamo tutti… spesso, poi, è il
sentimento che fa andare avanti interi sistemi, come il bullismo.
Sai, la tua recensione mi ha fatto rendere conto di una cosa. Ho
rivisto milioni di volte ogni frase, ogni dialogo… ma mi era
sfuggito quanto Choji sia sì, un po’ rozzo come me
lo immagino, ma decisamente non-puccio, come tutti lo conosciamo o.O E
dire che mi piace proprio per la sua bontà
d’animo.. Intendiamolo come un prodotto della
società allora, povero Choji xD. Spero che ti sia piaciuta
Ino e che questo cap sia stato all’altezza del
primo… fammi sapere! ^o^ Ah, come ho già detto a
Lily, ho problemi ad inviare le recensioni; mi scuso per il ritardo,
lascerò la mia recensione al secondo capitolo di
“Exausting reruns” non appena avrò
risolto il problema. Bacioni!
Valy88:
Prima di tutto grazie per aver risposto alla mia mail ^^ Sei stata
davvero gentile, e sono contenta che tu mi abbia lasciato un
commentino… commentino? Mi hai lasciato una bellissima
recensione *.* Ti ringrazio di cuore per ciò che hai detto
sulla trama e tutto, come sai è sempre utile per chi scrive
conoscere il parere dei lettori! Sì, effettivamente sono un
po’ maniaca, ho rivisto praticamente ogni frase prima di
darla per buona… ma le recensioni come le tue sono quelle
che mi fanno capire che ne è valsa la pena ^^ Prenditi pure
il tempo necessario per recensire; quando vuoi e quando puoi,
naturalmente. E grazie ancora! Spero che questa seconda parte ti sia
piaciuta!
Matta_Mattuz: Gentilissima,
ti ringrazio! ^^ Sono contenta che trovi la storia e la
caratterizzazione di Shikamaru diverse dalle altre! Un bacio e grazie,
spero che la seconda parti ti sia piaciuta quanto la prima! Ah, una
cosa che non c’entra nulla, ma che non potevo con
dire… il tuo nick è fantastico xD
Talpina_pensierosa:
Grazie *___* Spero che ti sia piaciuta questa seconda parte
e… scusa per il ritardo d’aggiornamento, so che mi
sono fatta un po’ attendere a causa della connessione
^^” Un bacione!
Maobh:
Grazie infinite per i tuoi commenti sullo stile, mi hanno fatto un
piacere enorme! Per quanto riguarda la storia fra Shikamaru e Temari,
ho deciso fin dall’inizio di riportare soltanto alcuni
momenti particolarmente significativi della loro storia, ricordi che
potessero sorgere grazie a situazioni particolari. Non ho
però approfondito, volutamente, sui momenti in cui si sono
messi insieme e lasciati; spero di aver reso comunque lo spessore che
desideravo al loro rapporto. In questo capitolo si intende anche il
motivo esatto del termine della loro storia, ma più che dai
flashback lo si deduce dai dialoghi e dai pensieri stessi. Fammi sapere
se la cosa rimane ancora troppo sottintesa, e se il modo in cui ho
gestito i flashback sulla storia passata ti sia piaciuto: è
importantissimo per me, soprattutto se si tratta di rendermi conto di
punti che non riesco a rendere abbastanza chiaramente! Grazie ancora,
spero di sapere cosa ne pensi.. Baci e a presto!
Tem_93: Grazie,
è sempre molto apprezzato il giudizio dei lettori, in
particolare, in questo caso, di voi mosche nere ^^ Sono contenta che ti
sia piaciuta, e spero che il passato di Shika e Temari risulti
più comprensibile leggendo questa seconda parte della
storia. Fammi sapere che ne pensi, un bacio e grazie ancora!
Shikatema:
Se scrivi queste recensioni, allora posso assicurarti che chiunque
vorrebbe un “assillo” così, come ti
definisci tu xD. Il crimine affascina anche me (come resistere a certi
membri di una certa organizzazione, poi?), e ho cercato ritrarlo nei
suoi aspetti più nascosti e angoscianti. Spero che ti sia
piaciuta la seconda parte, fammi sapere che ne pensi! Un bacio, e mi
scuso per aver fatto attendere un po’ questo secondo cap!
Muppello:
Grazie Miki *__* (Posso chiamarti Miki? *w*) Sono contenta che la
storia ti sia piaciuta, poi il tuo commento è davvero
prezioso considerando che non ami il genere AU. Grazie per i commenti
sul modo di scrivere, e a presto! Spero ti sia piaciuta questa seconda
parte, un bacione!
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