Amare male il mare

di Mirokia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Calma piatta ***
Capitolo 2: *** Acque amiche ***
Capitolo 3: *** Alta marea ***
Capitolo 4: *** Nuota, innocente ***
Capitolo 5: *** Onde anomale ***



Capitolo 1
*** Calma piatta ***


Capitolo primo
Calma piatta

                                                







          “C’era una volta un ragazzo di nome Gianluca, e la cosa che amava più di tutte era il mare.”











Mi ero sempre detto che il mare sarebbe stato il luogo in cui avevo visto la luce e quello in cui avrei smesso di vederla. Mia madre mi aveva davvero quasi partorito in mare, perché lei era una donna romantica, e se non faceva un bagno anche durante la settimana in cui sarei dovuto nascere, non era contenta. Era in acqua quando le si ruppero le acque, e il fatto è tanto ironico quanto assurdamente vero. A quel punto mio padre, una bestia di un metro e novanta, la prese in braccio quasi stesse portando a casa un'enorme trota appena pescata, la buttò in macchina e la portò fino all'ambulanza che se ne stava appostata davanti al lido più frequentato, perché sapeva che tanto quella sarebbe arrivata da loro con tutta la calma del mondo. Se Maometto non va dalla montagna, la montagna va da Maometto.

L'idea di aver rischiato di nascere in mare era romantica anche per me, anche se io, di romantico, sembrava non avessi neanche la punta dei capelli. Quando mia madre mi raccontò di com'ero nato, improvvisamente ogni pezzo sembrò tornare al suo posto, ogni mio comportamento o voglia o ossessione sembrò acquistare un senso. Il mio sport era sempre stato il nuoto, la spiaggia era il solo posto in cui riuscivo a sentirmi in pace con me stesso, d'estate ero quello che più si divertiva a starsene a mollo in acqua, per ore e ore, nonostante la pelle si raggrinzisse, nonostante i brividi di freddo, nonostante i continui richiami esasperati di mia madre. Avevo sempre pensato che il mare mi parlasse, che ascoltasse i miei monologhi, che chiedesse aiuto o che volesse offrirmene, ed ero sempre stato attratto da quella voce.

A diciannove anni mi dissi che al mare adesso volevo andarci da solo, senza che mia madre mi stesse a dire di uscire dall'acqua, senza che mi sentissi rimproverare ogni qualvolta venissi beccato mentre sgusciavo fuori dal letto in piena notte per andare a fare un giro in spiaggia in santa pace. Trovai un compagno del liceo che aveva invitato me e altri tre ragazzi a passare un mesetto al mare da lui in Salento, come viaggetto post-maturità all'insegna dell'alcol e del divertimento. Certo, mentre tutti gli altri il viaggetto se lo facevano all'estero, noi ce ne stavamo chiusi in Italia, ché così non rischiavamo di spendere troppo. E non era per dire: i miei erano di una tirchieria particolare, avevano soldi a bizzeffe quando si trattava di comprare utensili inutili ma che loro trovavano fondamentali e si ritrovavano al verde se mai io avanzavo una proposta. Ad ogni modo, i soldi per l'aereo me li lasciarono, probabilmente come premio per il mio 65 alla maturità: secondo il loro modesto parere, la mia promozione era stata un vero e proprio miracolo. Credevano che avessi ammiccato all'intera commissione d'esame, dato che erano convinti che io passassi le giornate ad abbordare ragazze "con quel tuo charme" che sinceramente ce lo vedevano solo loro. Non avevo ammiccato a nessuno, ma non ero stato neanche maleducato o menefreghista, al contrario. E ai miei professori piacevo, avranno messo una buona parola con i commissari esterni. Ad ogni modo, il mio viaggetto sentivo di essermelo guadagnato, anche se era a casa di quel rompipalle di Riccardo. Diceva di avere una villetta indipendente e che al piano terra affittava alcuni appartamenti, mentre lui e la famiglia se ne stavano al primo piano. Ci invitò a stare in due di quegli appartamenti, e la proposta entusiasmò tutti, soprattutto perché era gratis.

Quando entrai in aeroporto e adocchiai Valeria e Anna che aspettavano accanto al distributore automatico, con le loro valigie floreali assolutamente identiche, mi venne quasi voglia di tornare indietro. Non che le due non mi andassero a genio, ma io ero fatto in un certo modo, e quando trovavo un difetto in una persona, quel difetto sembrava lampeggiare sulla fronte della persona in questione ogni volta che la guardavo in faccia. Non potevo farci niente, in un modo o nell'altro chiunque riusciva ad infastidirmi, per quanto carino e gentile fosse. Già solo la troppa gentilezza la trovavo un difetto, uno dei più fastidiosi.

Quando Valeria agitò la mano nella mia direzione, come se già non fossero abbastanza evidenti con quelle ridicole valigie, mi lampeggiò il suo difetto, ormai lampante a chiunque la conoscesse, anche solo di vista: irritabilità. Poteva essere allegra e carina un minuto prima e perforarti con lo sguardo l'attimo dopo. Aveva l'arrabbiatura tremendamente facile e difficile da sbollire.

Poi c'era Anna, che mi salutò con un cenno solo quando le fui a un palmo dal naso. Lei era la sostenuta, quella che apparentemente non poteva essere toccata da nulla, quella che preferiva chiudersi in casa a leggersi un libro piuttosto che fare un giro in città, quella che guardava dall'alto in basso chiunque tentasse di fare amicizia con lei, perché probabilmente non era alla sua altezza, o lei era troppo timida per aprir bocca. Eppure sembrava aver trovato interesse in qualcosa che non fossero i suoi libri, e quel qualcosa sembravo essere io. Se c'ero io nel suo stesso gruppetto, quella non mi toglieva gli occhi di dosso, e sinceramente l'avevo capito da me che aveva una cotta spaventosa, senza che me lo dicesse altra gente. Tutti sapevano che tutti sapevano di questa sua fissazione, a parte lei. Probabilmente perché neanche si accorgeva degli sguardi insistenti che mi rivolgeva. E io, come qualunque altro atteggiamento di chiunque altro, non lo sopportavo. Ma non perché mi sentissi in qualche modo una spanna sopra agli altri: semplicemente avevo la sensazione che il mio posto non fosse lì, tra quella gente. Mia nonna diceva che ero un ragazzo malinconico, e non so quanto potesse essere vero, perché la malinconia si prova quando senti la mancanza di qualcosa appartenente al passato, e io, per quanto talvolta mi sforzassi, non trovavo qualcosa che mi mancasse a tal punto da lasciarmi il mal di vivere così intenso quasi ogni giorno.

Dopo dieci minuti di silenziosa e per loro imbarazzante attesa, fece la sua comparsa anche Michele, che per quanto facesse il saccente e il professorino, era costantemente in ritardo, persino più di me. Nonostante quel suo fare da "Fate fare a me, che sono il piu in gamba", era una persona simpatica e a posto. Tra i quattro era sicuramente quello che più apprezzavo e la cui compagnia non mi infastidiva. Si scusò per il ritardo, disse che la vicina l'aveva trattenuto, ed era la scusa che tirava fuori in ogni occasione. Mi misi l'auricolare nell'orecchio destro e feci partire la musica, pur di non stare a sentire la sua voce lamentosa.

 

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Il viaggio durò poco più di un'ora e mezza, e già ne avevo abbastanza dei progetti impossibili di Valeria, come quello di visitarci tutte le discoteche dell'intero Salento o quello di sbronzarci come animali in un pub diverso ogni sera. Forse non aveva capito che stavamo andando in una località di mare poco frequentata e che era già tanto se trovava un lido ben fatto. Ma non mi permisi di intromettermi nei suoi discorsi eccitati: ci pensava già Anna a contraddirla dicendole che a lei sarebbe bastato un buon libro sotto l'ombrellone. Si passava da un estremo all'altro. Cercai conforto nello sguardo di Michele, ma quello sembrava impegnato a scrivere messaggini, e la cosa mi sconfortò ulteriormente. Stavo pensando che una settimana mi sarebbe bastata, poi avrei fatto finta di dover tornare a casa per un'emergenza e invece mi sarei spostato in un'altra spiaggia, da solo. In qualche modo avrei fatto. Intanto mi presi velocemente una pillola che aiutava a tranquillizzarmi, e riuscii a dormire per una mezz’oretta.
All'aeroporto di Brindisi c'era già Riccardo che ci aspettava da ben 45 minuti, tanto per essere previdente, e ci invitò a entrare nel suo macchinone che non ero tanto sicuro potesse già guidare. E per tutto il viaggio sino a Lecce non fece che farcela a fette su quanto fosse speciale la sua terra e su quanto fosse divertente la gente e su quanto fosse buono il cibo e su quanto fosse trasparente il mare, come se non fossero cose che aveva già ripetuto fino allo sfinimento. Riccardo era iperattivo, chiacchierone, affetta-maroni. Anche per quel tragitto finii per dormire, e iniziai a chiedermi se non fossero proprio quei tranquillanti che prendevo a causarmi tanta sonnolenza.

 

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Il mare seppe stregarmi, dovetti ammetterlo. Una roba del genere probabilmente l'avevo vista solo in cartolina; mi innamorai a prima vista di quell'acqua, mi ci volevo buttare seduta stante. La mia prima e unica proposta della giornata fu: "Molliamo la roba e andiamo in spiaggia". Riccardo vaneggiò qualcosa sul volerci far conoscere i suoi genitori, ma gli altri mi erano già appresso. Mi presi le pillole dalla tasca dei jeans e me ne ingurgitai una dopo aver lasciato la roba in uno degli appartamenti che ci aveva mostrato Riccardo.
«Piantala di prendere quella roba,» mi fece Valeria muovendo il braccio quasi a volermi far saltare dalla mano la boccetta.
«Sono antistaminici, cosa vai a pensare?» le risposi per niente garbato, poi dissi a tutti che sarei andato in spiaggia, e quelli, scandalizzati: «Ma non ti porti nulla dietro? Un asciugamano, una borsa...» e io risposi con un semplice: "Tanto non esco dall'acqua finché non fa buio". Detto fatto, i ragazzi mi videro tornare a casa dopo il tramonto, quando loro avevano già fatto la doccia e preparato la tavola per la cena.

 

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Solo il giorno dopo il nostro arrivo, Riccardo ci fece conoscere i due membri principali della sua "crew" estiva: si trattava di due gemelli del tutto uguali, tanto che temevo di essermi fatto di qualcosa e di vedere doppio. Mi dissero i nomi, li dimenticai il momento subito dopo. Non per niente, ma erano due tipi assolutamente anonimi, l'unico dettaglio che mi metteva piuttosto in soggezione era la loro altezza, almeno un metro e novanta ciascuno. Ci salutarono entusiasti e ci invitarono quella sera stessa a bere qualcosa con tutta la loro crew in un bar che a quanto avevo capito era l'unico nel raggio di un chilometro e che si chiamava "Luna Blu". E probabilmente ci saremmo anche andati, se quella sera a Valeria non fosse venuta una febbre da cavallo dovuta a una piuttosto violenta insolazione. Dovevo concludere che lei e le creme solari non andassero troppo d'accordo. Se ne stava lì distesa sul letto dal materasso duro che le aveva assegnato Riccardo, con la faccia deformata dal dolore, i capelli castani appiccicati alla fronte e alle guance, e Michele e Riccardo che le stavano addosso, tanto per farla respirare meglio. Michele si era tirato gli occhialetti sul naso e aveva detto il solito "Lasciate fare a me", mentre Riccardo si occupava di bagnarle i polsi con fazzoletti freschi e ci dava ordini.
«Andate al piano di sopra a chiedere a mia madre un termometro, per favore,» e non mi spiegavo il perché avremmo dovuto farlo noi quando era lui il padrone di casa. Probabilmente voleva stare appiccicato come una cozza a Valeria. Alzai le spalle, feci un cenno ad Anna e insieme salimmo a chiedere il termometro. Ma una volta su, mi cadde l'occhio sulla porta spalancata che dava sul balcone e quindi sul meraviglioso panorama: mare scuro e piatto come una tavola sembrava circondare l'intera casa. Era così vicino, neanche 500 metri. Terribilmente attraente.
Fu a quel punto che lasciai sola Anna, anche molto volentieri, con l'intenzione di andarmene in spiaggia e passare buona parte della notte lì.
«Dove stai andando?» il tono confuso di Anna mi costrinse a darle spiegazioni.
«Faccio un giro in spiaggia,» e la liquidai prima che potesse fermarmi un'altra volta.
Quel mare sembrava parlarmi, mi sentivo un Ulisse in balia delle sue sirene. Presi le infradito in mano e sospirai quando la sabbia fresca sembrò modellarsi sotto i miei piedi. Mi allontanai dal lido illuminato e dalle sue sdraio che non facevano altro che rovinare il panorama e andai a sedermi non lontano dal bagnasciuga, in una zona piuttosto buia, dove tutto ciò che potevo vedere era il mare che brillava colpito dalla luce riflessa della luna. Mi chiesi come potesse essere così ipnotizzante la luna, che neanche brillava di luce propria. Era come essere innamorati di una bugia, di una maschera, di qualcosa che non esisteva per davvero. Dopo una buona mezz'ora passata ad ascoltare il mare che si muoveva sugli scogli, presi a frugare nelle tasche esageratamente larghe dei miei pantaloncini, raccolsi tutto ciò che ci avevo ficcato dentro e accesi la luce del cellulare, ché non vedevo a un palmo dal naso. Avevo affidato la mia erba e altre robacce a Riccardo perché non era il caso che me le portassi in aereo, non credo sarebbero rimaste inosservate. Mi misi il cellulare in bocca per poter riempire per bene la cartina e riuscire ad arrotolarla senza lasciar cadere neanche un briciolo di erba o tabacco. Mi dispiaceva rovinare il profumo salmastro che permeava l'aria, ma avevo la sensazione che l'odore dell'erba che bruciava lo rendesse anche migliore. Presi il primo tiro senza aspirare, poi iniziai a fumare quasi con foga, e mi sentii a posto con me stesso quando la vista mi si fece confusa e annebbiata, i bordi degli scogli tremolanti, l'orizzonte brillante inghiottito dal cielo nero e dal mare dello stesso colore.  Ma quando finalmente ero lì per entrare nella mia estasi personale,
«Quella roba non fa bene, sai?»
Feci un salto laterale simile a quello di una cavalletta, e lo spinello saltò con me fino ad atterrare sulla sabbia umida e spegnersi. Misi istintivamente una mano sul petto quando mi resi conto che accanto a me s'era materializzata un'ombra.
«Chi cazzo sei?» feci d'istinto, senza preoccuparmi del mio linguaggio colorito. Poteva essere uomo, donna, vecchio o bambino, m'aveva comunque fatto uscire il cuore dal petto.
«Il mio era solo un consiglio, non hai da scaldarti tanto,» rispose quello che dalla voce sembrava un ragazzo. Per assicurarmene tirai fuori il cellulare e gli illuminai la faccia. A quella luce improvvisa puntatagli in volto, si riparò con un braccio, ma riuscii comunque a vederci più chiaramente: un ragazzetto sui diciotto, i capelli color carota, le lentiggini scure su naso e guance e gli occhi che alla luce forte sembravano gialli. Al collo aveva degli occhialetti da motociclista e addosso una maglia che sembrava azzurra con un ideogramma giapponese al centro.
«Quando diavolo sei arrivato?» sbottai come una comare indisposta, e quello mi fece segno di abbassare la luce, ché gli stava dando fastidio.
«Sono sempre stato qui,» disse tranquillamente, e io pensai di avere le traveggole o di star diventando pazzo. Lo guardai con le sopracciglia aggrottate, poi scossi la testa, mentre ancora il respiro tentava di tornare regolare dallo spavento di poco prima.
«Non puoi andare in giro a far prendere certi colpi alla gen-, dove cazzo è finito?!» sbottai ancor prima di terminare la frase quando mi accorsi di non avere più lo spinello in mano. «Vedi che succede quando cogli le persone di sorpresa?» chiesi retoricamente prima di tirare fuori stizzito un'altra cartina e ricominciare daccapo.
«Che acido, per carità,» commentò quello, e io ci misi un po' a ribattere, visto che ero impegnato a fare altro.
«Cosa hai detto?»
«Che fumare quella roba non ti fa bene.»
Ignorai completamente la sua affermazione e mi accesi il secondo spinello con tutta tranquillità. Solo quando arrivai a metà mi andò di prenderlo in giro.
«Ne vuoi un po'»" gli chiesi, tanto per sfottere quel suo perbenismo. Ma, con mia somma sorpresa,
«Sì, grazie,» rispose, e mi tolse il bastoncino dalle dita per prendere un solo, lungo tiro e buttare il fumo fuori a occhi socchiusi. Mi restituì il tutto e si sistemò meglio con le gambe al petto, guardando il mare. Gli buttai uno sguardo perplesso e tornai a fumare, notando come il filtro adesso avesse preso un sapore salmastro. Pensai che fosse quel tipo ad avere le labbra tanto salate da lasciarci l'impronta sul filtro.
«Ti avranno detto una marea di volte di smettere con quella roba,» riprese il tizio ambiguo, e io scossi la testa. Una marea? Ma come parlava?
«No, non si sono mai permessi. Sanno che comunque non darò ascolto a nessuno,» gli dissi col mio solito tono neutro. Presi a guardare anche io l'orizzonte lì dove avrebbe dovuto esserci, e solo dopo un paio di minuti mi resi conto di essere profondamente osservato. Ma nel momento in cui mi voltai, il ragazzo accanto a me si girò di scatto verso il mare, anti sgamo come pochi.
«Che problema hai?» gli chiesi snervato, ma quello si limitò ad alzare le spalle e a ribattere con un'altra domanda, per nulla pertinente.
«Non sei di qui, vero? Quando sei arrivato?»
«Ieri. In teoria dovrei farmi un mese qui, sempre se non mi girano i coglioni prima.»
«Perché dovrebbero girarti?»
«Sto con un gruppo di idioti.» dissi molto semplicemente, ed era la prima volta che mi riferivo a loro come degli idioti. Almeno ad alta voce e parlando con uno sconosciuto.
«Non me ne parlare. Nemmeno io mi trovo bene con la gente di qui. La sera loro se ne vanno chissà dove a bere e a rimorchiare, e io vengo da solo in spiaggia ad ascoltare la musica. E' da sfigati emarginati, lo so,» confessò quello senza troppi problemi, e io feci spallucce per poi dare l'ultimo tiro e sotterrare il filtro nella sabbia.
«Sì, abbastanza. Ma lo faccio anche io, quindi siamo sfigati in due,» gli dissi tanto per solidarietà.
«Finalmente qualcuno che non pensa che io sia pazzo. Forse perché lo sei anche tu,» e fece un risolino a labbra chiuse che sapeva tanto di presa in giro.
«Piano con le parole, chiunque tu sia,» gli feci, e quello rise di nuovo. Poi prendemmo a parlare del più e del meno, senza che io avessi la minima idea di come si chiamasse o di quanti anni avesse. Tutto quello che avevo capito era che andava in spiaggia ogni sera, che aveva una sorella di vent'anni, che non amava i luoghi affollati e che sognava di diventare un pilota. E che aveva uno scooter blu. Poi si arrivò alla questione più interessante, o almeno, quella su cui due uomini amano confrontarsi.
«Hai la ragazza, tu?»
Pensai a cosa dire, perché un 'no' secco mi sembrava noioso, e quella sera avevo voglia di fare il buffone. Così, senza motivo.
«Mh, sì, è nel gruppo con cui sto passando le vacanze,» mentii spudoratamente, tanto per vedere la sua faccia invidiosa. Perché uno come lui non poteva averla la ragazza, no di certo. Era troppo imbranato, lo si vedeva dalla faccia. «E tu?»
«No, sto ancora aspettando che una bellissima sirena una notte mi trascini in mare con lei,» rispose col tono di uno che sta recitando una poesia.
«Aspetta e spera,» dissi sorridendo tra me, e cercai nella tasca il pacchetto di sigarette. In quel momento, sentii una voce femminile chiamarmi da dietro le dune.
«Sei tu Gianluca?» mi chiese il tizio accanto a me, e io scossi la testa.
«Vedi qualcun altro? Se non sei tu, devo essere per forza io, no?»
«Ah, io sono Lorenzo, comunque,» e mi allungò la mano. Gli feci una faccia da “Alla buon'ora!", e gli strinsi appena la mano. Sentii nuovamente chiamare, e riconobbi quella voce come appartenente ad Anna.
«Sì, sono qui,» feci a voce più alta, e Lorenzo mi tirò una gomitata.
«E' lei la tua ragazza?» mi chiese con tono complice, e già si stava prendendo troppa confidenza per i miei gusti. Gli dissi di sì sospirando, e subito dopo, quello si alzò prendendo le infradito in mano. «Vi lascio alla vostra intimità allora. Buona serata!» agitò la mano e se ne andò verso le stesse dune da cui stava arrivando Anna, ma quella non sembrò accorgersi di lui.
«Con chi parlavi?» mi chiese quando mi fu accanto, le braccia incrociate al petto a causa del vento fresco.
«Con un tizio strano. Se n'è appena andato,» dissi con la sigaretta tra le labbra, mentre tentavo di accenderla a dispetto del vento. Anna sedette accanto a me in modo da non sporcare i jeans più del dovuto, e istintivamente pensai che preferivo la presenza del tizio strano di cui sopra. La sigaretta non fece altro che aumentare le mie vertigini, e ricordo che Anna mi chiamò per farmi girare e poi mi mollò un bacio sul lato della bocca, nonostante sapessi che il sapore del fumo la infastidiva parecchio. Provò a baciarmi un'altra volta, e a quel punto probabilmente ricambiai il bacio. Il resto della serata rimane ancora oggi un ricordo confuso e sfocato.

 


***




Ciao!
Questa è una mia vecchia storia che ho voluto riprendere e ampliare. L’avrò scritta quattro anni fa e l’avevo lasciata incompleta. Ho voluto terminarla secondo i miei gusti attuali, che sono leggermente differenti da quelli di allora. Per chi ha provato interesse per questa storia dopo la lettura del primo capitolo ma non ha voglia di impegnarsi nel seguirla perché già sente che saranno parecchi capitoli, non si preoccupi. Questo è quello che io chiamo un racconto breve. Come uno di quei racconti che non si dilungano troppo e che alla fine hanno una morale. Prediligo i dialoghi veri e propri e quelli interiori, do poco spazio alle descrizioni, ma spero comunque che gli avvenimenti non si sviluppino in modo troppo affrettato.
Le recensioni sono gradite e utili affinché possa migliorare di volta in volta :) Se volete farmi delle domande specifiche, questa è la mia pagina autore su facebook:
https://www.facebook.com/mirokiaEFP?fref=ts
Grazie mille per aver letto!







Mirokia

 

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Capitolo 2
*** Acque amiche ***


Capitolo Secondo
Acque amiche





 

 






Il giorno dopo, Anna era più strana del solito. Mi fissava intensamente come sempre, ma appena rivolgevo lo sguardo verso di lei, quella lo spostava altrove, e Valeria non faceva che guardare me e poi lei e poi di nuovo me con sospetto. Mi dicevo che probabilmente la sera prima avevamo fatto qualcosa di sconveniente, e poi mi buttavo in mare dimenticandomene l'attimo dopo. Il pomeriggio, Riccardo ci accompagnò nel supermercato più vicino perché potessimo riempirci il frigo, anche se, fosse stato per me, sarei rimasto a digiuno pur di passare il pomeriggio in spiaggia. Già m'ero scottato, ma non mi passava neanche per la testa che potessi finire per passare la notte con la febbre come era successo con Valeria.
La sera, Riccardo ci fece conoscere la sua comitiva - a quanto pare non stava più nella pelle - e io, per dimostrare la mia voglia di conoscere gente nuova, mi feci una canna prima di uscire di casa. Una volta arrivati alla casa abbandonata in cui avevamo stabilito l'incontro, movida notturna inesistente, i due gemelli quasi mi fecero paura per quanto erano alti. Sembravano essere cresciuti di almeno una spanna in un solo giorno. O magari ero solo io ad essere fatto. Il gruppo era composto da una quindicina di persone, e tutti iniziarono a darci la mano, chi con un bel sorriso, chi con scazzo, chi con facce interessate. Un paio di coppie invece erano rimaste in disparte a sbaciucchiarsi o abbracciarsi teneramente, e mi resi conto che in una delle due coppie c'era quel tizio strano che avevo conosciuto in spiaggia, quel Lorenzo. Allora erano tutte cazzate, la ragazza ce l'aveva, e sembrava pure più grande di lui. Si dava da fare, il pel di carota. Magari quella dell'imbranato cronico era tutta una facciata per stare più simpatico agli sconosciuti. Quando si accorse della nostra presenza non venne a salutarci, sciolse l’abbraccio con la ragazza e prese a farsi gli affari suoi – ergo, si mise a guardare un punto impreciso nel cielo, la testa tra le nuvole.
Stemmo una mezz’oretta a scambiarci battute tanto per fare conoscenza - io in realtà tentavo goffamente di fare conversazione col tipo seduto accanto a me, ma quello mi guardava strano, probabilmente conscio del fatto che fossi fatto, senza eccessivi giochi di parole. Dopodiché ci spostammo a piedi sino al fantomatico "Luna Blu", che non era altro che una rosticceria più tabacchino con i tavoli all'esterno. Qualcuno ordinò un paio di birre e tranci di pizza e ci sedemmo dopo aver unito due tavoli. La compagnia non era male, erano tutti abbastanza buffi da far sorridere persino me, alcuni con la faccia da criminali, altri che parlavano solo in dialetto e dovevano fare battute divertentissime per far ridere in quel modo gli altri, ma io non capivo un’acca. Per quanto l’atmosfera fosse accogliente, però, continuavo a sentirmi a disagio, come se non riuscissi a trovare un posto per me sulla Terra. A parte, forse...
«Ragazzi, scusate, ma io mi avvio verso casa, ché non sto troppo bene,» dissi ad un certo punto della serata, interrompendo un discorso a cui tutti sembravano interessati. Tutti a parte quel Lorenzo, che se ne stava seduto accanto alla ragazza a cui era abbracciato all’inizio della serata e fissava il neon del bar con la guancia appoggiata alla mano.
«Che hai?» mi chiese Riccardo, la solita aria da ingenuo.
«E' strafatto, non vedi?» gli fece notare Valeria molto carinamente. «Fai bene, vai a farti un giro, ché ti vedo pallido,» e me lo disse con ancora più disprezzo delle altre volte. Quasi le avessi fatto un torto di cui non ero a conoscenza. E intanto Anna aveva ripreso a fissarmi, ed era tutta la serata che lo faceva. Avevo la sensazione di non avere solo i suoi occhi addosso, o magari ero io che mi facevo le paranoie. Alzai le spalle e poi una mano in segno di saluto, e diedi agli altri il tempo di ricambiare prima di andarmene, inconsciamente diretto alla spiaggia. Non avevo idea del punto in cui mi trovavo, non sapevo come me ne sarei tornato a casa. Ciò di cui ero certo era che la sabbia fresca sotto i piedi era sempre un toccasana per me. Mi sedetti lontano dal bagnasciuga questa volta, vicino alle dune, lì dove la sabbia diventava più fine. Il mare mi sembrava agitato anche se sapevo bene fosse piatto come una tavola. Probabilmente era la mia testa che girava più del dovuto.
«Stai molto male? Sei sicuro che non ti serva aiuto?» una voce insicura mi arrivò ovattata alle orecchie, e quando voltai il capo in quella direzione, le immagini davanti agli occhi si spostarono molto più lentamente del resto del corpo.
«Sono solo un po' fatto, fra poco passa,» risposi quando riconobbi il ragazzo della sera prima. Lui venne a sedersi accanto a me e poggiò le infradito davanti a sé, poi chiuse le braccia sulle gambe piegate e mi guardò col capo inclinato.
«Mi dici perché ti ostini a farti tutte le sere? Non mi sembri uno tanto festaiolo da sballarsi per vivere il momento,» chiese ancora quel tizio praticamente sconosciuto, invasivo ma con leggerezza. Non sembrava curiosità ostinata, la sua: faceva le domande col tono di un bambino che chiede se le stelle cadenti si facciano male cadendo.
«Perché non sto bene. Con me stesso, con gli altri. In questo modo, sembra che i pensieri scivolino via,» confessai, e non sapevo neanche perché lo stessi facendo. Ero sempre stato un tipo molto riservato, quelle cose ero solito tenerle per me, o al massimo ne parlavo al mare. Certe volte pensavo di rasentare la pazzia.
«Ti capisco, credo di essere molto simile a te. Solo che io preferisco fare una passeggiata in spiaggia o un giro in scooter, in direzione del vento. Vado sempre dove va il vento, mi sembra di andare più veloce,» e rise della sua stessa affermazione.
«Puoi dirmi quanti anni hai?» gli chiesi in tutta risposta, e quello mi disse che ne aveva diciotto. «Da come parli mi sembravi più piccolo,» ammisi, e tirai fuori una sigaretta.
«Eppure io me ne sento cento, di anni. E non fumare, mi dà fastidio che mi si inquini la spiaggia,» fece poi dopo aver adocchiato la sigaretta.
«Non credo che tu possa dirmi cosa fare su una spiaggia non tua.»
«Certo che è mia,» e lo disse con una serietà tale che pensavo mi stesse prendendo in giro. Ma mi divertì la sua reazione, quindi gliela diedi vinta e rimisi la sigaretta nel pacchetto.
«E quindi mi hai mentito,» esordii poi per cambiare discorso. «La ragazza ce l'hai.»
«E chi sarebbe?» mi chiese lui, caduto dalle nuvole.
«Non te la stavi abbracciando teneramente poco fa?»
Lui mi guardò di sottecchi, ma poi gli venne da ridere e si mise una mano sulla bocca.
«Quella è Roberta.»
«E il nome dovrebbe dirmi qualcosa?»
«E' mia sorella,» disse come fosse la cosa più ovvia del mondo. E in effetti avrebbe dovuto esserlo, visto che me ne aveva parlato a lungo solo la sera prima. Feci una faccia perplessa e presi a giocare con un dito nella sabbia fresca. «Tu piuttosto, hai fatto colpo sin dalla prima sera,» mi fece poi sapere, e io gli risposi con un grugnito che voleva essere un "Su chi?" disinteressato.
«Sulle due russe,» rispose lui quasi io sapessi chi diavolo fossero queste qui.
«Chi?»
«Abbiamo due ragazze russe nel gruppo. Le due biondone, è impossibile che tu non le abbia notate,» mi disse, anche un po' seccato.
«E io avrei fatto colpo su due tipe del genere?» domandai con tono auto-derisorio.
«Ti guardavano il culo mentre te ne stavi andando!» insistette Lorenzo quasi fosse pronto a provarmelo con una foto o un video.
«Come hai fatto a vederlo se te ne stavi imbambolato sul neon?»
«Come ti sei accorto che fissavo il neon? Mi spiavi?»
Mi mise un momento in difficoltà, ma non avevo intenzione di perdere quella battaglia a suon di battute.
«E tu perché spiavi me?»
Lui a quel punto sospirò e scosse la testa, poi si alzò poggiando una mano al ginocchio.
«Lasciamo perdere. Torno un po' dagli altri, anche se non impazzisco all'idea.»
Annuii e salutai con un cenno, ma prima che uscisse dalla spiaggia mi ricordai di dovergli chiedere qualcosa.
«Sapresti solo dirmi quanto è lontano il pezzo di spiaggia in cui eravamo ieri? Da lì riesco ad orientarmi.»
«E' piuttosto lontano, a dirtela tutta. E fossi nelle tue condizioni, non me la farei tutta a piedi,» mi consigliò parlando ad alta voce, ma era un tono che non dava fastidio, mi ricordava quasi le onde che si infrangevano sugli scogli.
«E cosa mi proponi di fare?» ribattei, neanche troppo aggressivamente.
«Siamo vicini a casa mia. Ti accompagno in scooter,» propose, e mi fece segno di seguirlo.
«Ma per favore, cosa sono, la ragazzina che riporti a casa dopo una festa?» chiesi ironico, ma quello non aveva troppa voglia di farsi prendere in giro, quindi scossi la testa e lo raggiunsi traballando. «Ho capito, arrivo.»
Casa sua era simile a quella del mio amico, a quanto pareva le abitazioni lì non erano molto diverse l'una dall'altra. Non mi fece entrare dentro, mi lasciò aspettare fuori dal cancello bluastro. Poi tirò fuori lo scooter dello stesso colore e, dandomi il suo casco che non ebbi il coraggio di rifiutare, mi fece segno di salire dietro di lui. La sensazione della velocità era simile a quando riuscivo a fumarmi un bongo: mi sentivo proteso in avanti e allo stesso tempo avevo la sensazione di cadere.
Il suo scooter si fermò proprio davanti a casa di Riccardo, e io ci misi un po' a realizzare che era ora per me di scendere: il viaggio m'era sembrato lunghissimo. Scesi un po' a fatica e lo ringraziai sinceramente, e quando quello mi sorrise di rimando, notai un paio di fossette scavargli le guance. Riuscivo a vederlo molto meglio alla luce del lampione: aveva la faccia di qualcuno di cui ci si può fidare. Quando se ne andò, neanche sentii il rombo del motore, e mi sembrò sparire nella notte.

---

Nei giorni seguenti, Anna sembrò sempre più a disagio in mia compagnia, e Valeria mi guardava in cagnesco quasi le avessi insultato la madre. Non è che mi importasse più di tanto, ma i loro sguardi non erano neanche del tutto piacevoli. Una di quelle mattine, Valeria mi prese da parte mentre facevamo il bagno e,

«So che Anna non voleva che venissi a parlarti, ma la situazione è snervante. Mi spieghi cosa hai in quella testa, oltre a marjuana e tabacco?» mi chiese, e io mi bagnai scocciato i capelli.
«Che stai dicendo?»
«Che vuoi fare con Anna?» incalzò quella.
«Che voglio fare? Mi spieghi che idee si è messa in testa quell'altra?»
«Tu e 'quell'altra' martedì scorso avete fatto sesso sulla spiaggia. O non ricordi neanche questo? Che ti eri fumato quella sera?» fece, irritabile come sempre, incazzata nera per fatti che neanche la riguardavano. Sì, mi ero reso conto di aver fatto qualcosa con Anna, perché conoscendola sapevo non si sarebbe fermata a un bacio, ma addirittura sesso? Oltretutto senza protezioni, perché io non è che giravo coi preservativi sotto le maniche e lei sicuro non li usava come segnalibri. Rischiavo davvero grosso. Ma adesso almeno sapevo il motivo per cui Anna non riusciva più a starmi vicino.
«Okay, va bene. Quindi immagino che lei mi guardi male perché io la sto ignorando.»
«Giustamente. Come minimo si aspetta che tu le chieda di portare avanti la vostra relazione.»
«Non porto avanti proprio nulla,» troncai lì la conversazione e mi allungai per andare a farmi una nuotata al largo ed evitare di continuare il discorso. Quella mi richiamò con la rabbia di qualcuno che se mi avesse tra le mani mi strapperebbe la pelle a morsi, ma la ignorai un'altra volta dando la priorità alla mia nuotata mattutina. Un altro dei miei problemi da raddrizzare era il mio scappare via lontano da ogni situazione che mi mettesse a disagio, senza la benché minima possibilità di poterla affrontare da vero uomo - quale a quanto pare non ero.
Il pomeriggio mi spostai in un altro lido proprio per evitare quell'arpia di Valeria e quel caso umano di Anna e mi comprai un cocktail piuttosto forte, anche se a momenti ero astemio: qualunque cosa pur di evitare di pensare.
«Hola! Ma tu sei il fattone di ieri!»
Quell'apostrofe sembrava essere rivolta proprio a me, quindi alzai lo sguardo dal drink che bevevo con poca voglia e intercettai le figure mastodontiche dei due gemelli Wesley, accompagnati da una mora occhi verdi niente male e un tizio bassino capelli rosso tramonto, lentiggini, occhiali da moto appesi al collo... Sì, almeno uno di loro lo conoscevo. I quattro si sedettero al mio tavolo senza che io li avessi invitati, ed ero davvero troppo stordito dall'alcol per raccogliere le forze necessarie per spingere via quelle due bestie.
«E la tua amica Valeria? E' amica tua, no?» fece uno dei gemelli, e io alzai le spalle finendo di risucchiare con la cannuccia gli ultimi residui di frutta nel bicchiere.
«Non mi importa,» risposi senza neanche essere sicuro di aver sentito la domanda.
«Non ti importa di...cosa?»
«Qualunque cosa abbiate detto.»
«Amico, certo che non è una brillante idea prendersi una sbronza di pomeriggio,» risero i due cercando l'approvazione della ragazza, che scosse la testa, mentre Lorenzo mi guardava preoccupato nella sua tipica posizione, con il mento appoggiato nel palmo della mano e il gomito sul tavolo.
«Scusami,» una voce femminile mi convinse ad alzare la testa. «Credo di non essermi ancora presentata. Sono Roberta,» mi disse la ragazza allungandomi la mano. Io lanciai uno sguardo a Lorenzo, che sembrava annoiato, poi strinsi la mano e gli dissi che era un piacere, che mi chiamavo Gianluca e che mi dispiaceva se aveva dovuto conoscermi ubriaco a metà. Lei disse che non dovevo preoccuparmi e che era sicura di avermi già visto prima che ci incontrassimo con l'intera sua crew.
«Forse... Eri in spiaggia al tramonto qualche giorno fa?» mi chiese, e io le dissi di sì, era il giorno del nostro arrivo al mare.
«Quindi tu sei quella con lo scooter rosso e bianco che si è fermata a fumare una sigaretta?» provai a domandare, sperando che non fossi troppo fatto anche quella volta.
«Allora ti ricordi. Eravamo gli unici due in spiaggia a quell'ora.»
Sì, probabilmente me ne ricordavo solo perché era arrivato finalmente per me il momento di stare solo e quella tizia era venuta a rovinare tutto. Come sempre, i miei motivi erano poco gentili o romantici. Lorenzo si alzò visibilmente scocciato e fece per lasciare la spiaggia senza che nessuno si accorgesse della sua dipartita, ma evidentemente si ricordò di qualcosa e prima di andarsene si voltò verso di me.
«Se vuoi, anche stasera sarò da queste parti, dalle dieci in poi,» mi disse. Nessuno lo calcolò, solo io gli risposi con un cenno del capo e un mezzo sorriso.
«Andiamo a fare il bagno, tanto questo qui è ubriaco,» propose uno dei gemelli. L'altro lo seguì senza indugio, mentre la sorella di Lorenzo disse che li avrebbe raggiunti e rimase ancora un po' a farmi compagnia. Non mi dispiaceva troppo, quella sua compagnia, ma era anche vero che l'alcol mi distorceva un po' tutta la realtà. L'unica cosa di cui ero sicuro era che, ora che la guardavo bene, suo fratello era la sua fotocopia, capelli e lentiggini a parte. Parlammo un po', poi iniziò ad annoiarmi pure lei e finii per buttarmi in acqua, nonostante quella cercasse di fermarmi, ché non era così sicuro immergersi dopo una tale bevuta.

 



***

 


 Ecco a voi il secondo capitolo. Spero sia stata una piacevole lettura. Alla prossima!





Mirokia

 

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Capitolo 3
*** Alta marea ***


Capitolo Terzo
Alta marea




 

 

Canzone ascoltata da Lorenzo: http://www.youtube.com/watch?v=0bpkkTlUMg8

 

 

 

 

 

 

Dopo la cena che neanche ero riuscito a gustarmi, me ne scappai in spiaggia, addosso ancora i postumi del drink del pomeriggio e già un alone di fumo che mi avvolgeva come un'aura mistica. Lorenzo sembrava essere lì già da un pezzo, e se ne stava a gambe incrociate ad ascoltare la musica in un paio di cuffie più grandi di lui. Quando si accorse della mia presenza, si avvicinò per farmi sentire la musica che stava ascoltando.
«Bella. Cos'è?» chiesi schiacciando la sigaretta nella sabbia.
«Parla di mare e cielo. Di come ognuno rifletta i colori dell'altro, anche se non possono mai abbracciarsi. Ma sanno che da qualche parte, forse all'infinito, i loro orizzonti si toccano e che vivranno per sempre l'uno vicino all'altro.»
«Come siamo romantici,» sdrammatizzai alzando le sopracciglia.
«Sì, purtroppo sono romantico!» fece lui piuttosto rammaricato.
«Purtroppo?»
«Sì. Più si è romantici e sensibili, più sono le possibilità di intristirsi o arrabbiarsi o agitarsi o deprimersi o cambiare umore da un momento all'altro. La gente ci rimane malissimo quando mi agito di colpo, nonostante fossi calmo sino a qualche minuto prima. Un romantico tende ad essere lunatico. E' per questo che penso che tu non lo sia. Romantico, intendo. Il tuo umore non è mai cambiato da quando ti ho parlato la prima volta.»
«Ci conosciamo da tre giorni, eh.»
«Che vuol dire? In tre giorni una persona ha il tempo di innamorarsi,» mi fece l'occhiolino e pensò a spegnere il suo lettore mp3. Dopo il romanticismo iniziale, Lorenzo iniziò a scherzare come mai l'avevo visto fare in presenza dei suoi amici, e più io gli davo corda, più quello si inventava nuove battute senza senso, col risultato di sembrare un buffone e basta. Pareva così di buonumore che si bagnava i capelli e poi veniva a schizzarmi, sicuro che io non mi sarei schiodato dalla mia posizione. Il culo mi pesava troppo. Quando io fumavo, lui si allontanava e finiva per fare l'equilibrista per finta sul bagnasciuga, convinto che, in ogni caso, non avrei smesso di fumare se me l'avesse chiesto lui.

Le sere seguenti furono tutte uguali, eppure erano gli unici momenti della giornata che riuscivo davvero ad apprezzare. Anche se prima di uscire di casa mi lasciavo scivolare in gola un paio di pillole, tanto per non rischiare di cadere in depressione. Quando iniziammo a prendere un po' di confidenza, lui mi chiese come andasse con la mia presunta fidanzata e io, dopo aver speso qualche minuto a ricordare chi fosse quella ragazza di cui parlava, gli dissi che era arrabbiata con me perché non volevo sposarla. Lui fece una risata mal trattenuta e mi diede una gomitata che però mi arrivò leggera come uno schizzo d'acqua.

«Come crede che tu possa dirle di sì con quella faccia da schiaffi che ti ritrovi?»
«Pensi di essere divertente?» gli chiesi retoricamente, serio come la morte. Ma la mia espressione seria non fece altro che divertirlo, e mi scoppiò a ridere in faccia tenendosi la pancia.
«Hai davvero la faccia da schiaffi,» si asciugò una lacrima. «Non rido così tanto da mesi,» ammise, e non appena si accorse della mia guardia ormai abbassata, diede un colpetto alla mia mano e i filtrini che tentavo di sistemare nel pacchetto si sparsero nella sabbia scura e umida. Detestavo quell'individuo, più di tutti gli altri. Mi alzai per dargli un pugno, ma quello era già sgusciato via e pretendeva che lo inseguissi, che gli facessi vedere di cosa ero capace. E di nuovo, mi sembrava più piccolo dell'età che diceva di avere.
Quando lo acciuffai - e ammisi che fu piuttosto faticoso, vista la mia mancanza di fiato -, lo trascinai nel punto in cui aveva fatto cadere i filtrini e gli ordinai di raccoglierli uno per uno, con l'ausilio della sola luce del cellulare. Lui obbedì col broncio, e io lo guardavo divertito mentre fumavo l'ennesima sigaretta e incrociavo le braccia.

Un'altra di quelle sere, lui se ne stava sulla spiaggia sin dal tramonto ad ascoltare la solita canzone del mare e del cielo, e quando mi sentì accomodarmi accanto a lui, non fece altro che dire: «Vorrei andare lassù,» guardando il cielo, quella notte coperto da minacciosi nuvoloni.

«Quando diventerai un pilota ci vivrai, lassù,» gli dissi io non troppo interessato.
«Non succederà mai,» fece lui riportando gli occhi sul mare e le gambe al petto.
«Non essere così pessimist-»
«E' impossibile, non capisci?» mi interruppe spazientito, quasi fosse ben conscio del fatto che non avrei mai potuto condividere quella sua sofferenza. Non mi azzardai ad aggiungere altro, a quanto pareva quella sera non era dell'umore adatto. Aveva ragione quando diceva di essere piuttosto lunatico. Mi venne un'idea, l'unica che mi potesse venire, quindi mi impegnai a rigirare per bene due spinelli e ne diedi uno a lui, che sembrò svegliarsi di colpo dal suo torpore.
«No, io non-»
«Vuoi volare sì o no? Questa è un'ottima alternativa,» gli dissi senza troppo trasporto, dopodiché lo aiutai ad accendere il bastoncino bianco.
Dopo la sua fumata molto più che liberatoria, Lorenzo iniziò a parlare a vanvera, la lingua che gli si scioglieva di minuto in minuto, le palpebre che minacciavano di abbassarsi del tutto ogni volta che accennava a uno sbadiglio.
«Non ti senti galleggiare in aria?» gli chiesi, particolarmente divertito.
«Per niente. Quante balle racconti?» fece quello storpiando le parole, poi sbadigliò ancora un paio di volte e si abbandonò su di me con tutto il corpo, quasi l'avesse preso in pieno un colpo di sonno. E in effetti il suo era il respiro di qualcuno che dormiva di sasso. Lo sollevai con una cura che non pensavo di avere e lasciai che poggiasse il capo sulle mie gambe incrociate, mentre io rimanevo solo con il mare, che da quando Lorenzo aveva smesso di parlare sembrava alquanto silenzioso. A quanto pareva, la presenza di quel tizio non troppo normale iniziava addirittura a piacermi.
Mi accorgevo di svegliarmi ogni mattina con la voglia che fosse già sera, per poter passare quelle tre ore seduto a vaneggiare con Lorenzo. Probabilmente era una delle poche persone di cui apprezzavo la compagnia e che ancora non ero riuscito a mandare a quel paese. Arrivai a pensare di non poterlo mai fare, che quel tipo in realtà mi andava tanto a genio che non riuscivo neanche ad affibbiargli un qualche difetto. Mi andava bene così com'era, nessun aggettivo negativo gli lampeggiava sulla fronte, il che fu una piacevole novità per me.

Una di quelle sere, in cui entrambi eravamo piuttosto alticci, lui portò nei nostri discorsi senza un senso logico la sua comitiva estiva. Era una delle poche volte che parlava di qualcosa esterna a noi due, a quel pezzo di spiaggia e al mare. Mi disse che le due ragazze russe - di cui io m'ero completamente scordato - si erano fissate con me e volevano il mio numero di telefono. Gli dissi che "Ma neanche per idea", e tornai a farmi gli affari miei, sperando non insistesse.
«Ti prego, o non mi lasceranno più in pace!» implorò invece, tradendo le mie speranze. Mi limitai a negare una seconda volta e buttai il fumo sulla stessa sigaretta, illuminandone la punta. Lui sospirò e raccolse le gambe al petto, poi tornò a guardarmi e immaginai si stesse inventando qualcosa per convincermi a sganciargli quel benedetto numero.
«Facciamo così... Tu lo dai a me e io non lo do a loro,» disse, credendo davvero di aver avanzato una proposta sensata.
«Non ha senso quello che hai appena detto,» borbottai infatti, e quello alzò le spalle e distese le gambe sulla sabbia.
«Certo che non ce l'ha, dopo quello che mi hai fatto fumare,» ribatté, e quella frase, invece, un senso ce l'aveva eccome.
«Quindi io dovrei credere che, una volta che ti darò il mio numero, non lo spaccerai in giro?»
«Esatto.»
La sua convinzione mi fece sorridere.
«Chi mi garantisce che non lo farai?» gli domandai col sopracciglio alzato, e quello alzò di nuovo le spalle, gesto che, avevo notato, faceva quando non si sentiva troppo a suo agio o era un po' nervoso.
«Devi solo fidarti di me.»
Lo guardai di sottecchi, poi scossi la testa e mi leccai le labbra fingendo di pensarci. Dopodiché gli dettai il numero velocemente, e quello fece le acrobazie per tirare fuori il cellulare dai pantaloni e segnare in fretta il tutto. Mi ringraziò mentre salvava e, tenendo sempre gli occhi sullo schermo luminoso, mi comunicò che il numero lo voleva per lui, e io gli dissi che l'avevo capito e che avrebbe potuto chiedermelo senza troppi giri di parole. Gliel'avrei dato senza pensarci due volte. Si grattò la guancia imbarazzato dalla situazione, si alzò piuttosto in fretta e barcollò leggermente, poi si piegò per prendere le ciabatte.
«Facciamo che torno a casa, sono già le due,» disse senza neanche guardare l'orologio, quasi riuscisse a dedurre l'orario dalla posizione della luna nel cielo.
«Vuoi che ti accompagni?»
«Cos-, perché?»
«Fatichi a reggerti in piedi.»
«Non è che tu mi saresti d'aiuto.» rise scuotendo la testa. Si diede due schiaffetti sulle guance come per darsi un contegno. «Ce la faccio. Ci vediamo domani?»

---

Ma la sera dopo non ci incontrammo. La mia cannetta pomeridiana quella volta non mi fu troppo d'aiuto, benché meno le due pasticche che avevo mandato giù dopo pranzo scambiandole per digestivi. In spiaggia il mio gruppo e quello dei gemelli avevano organizzato un torneo di beach volley, a cui io non avevo ovviamente partecipato a causa della vista offuscata e del caldo che mi urlava di buttarmi a mare. Ma prima che potessi farlo, mi adocchiò Roberta, la sorella di Lorenzo, che pure non aveva troppa voglia di giocare. Mi chiese se avessi voglia, invece, di andare con lei alla Luna blu, ché alcuni dei suoi la aspettavano lì. Il mare sinceramente mi attraeva di più, ma non ero troppo sicuro di stare così bene da avventurarmi tra le onde che trascinavano dentro. Quindi accettai, salii sullo scooter con lei e ci fermammo davanti all'insegna evanescente anche di giorno. O magari ero io a rendere evanescente tutto ciò su cui posavo gli occhi. Fuori i tavoli erano vuoti, se non per un paio di vecchietti che fumavano sigari e giocavano a briscola, mentre dentro l'unico tavolo abbastanza grande era occupato da un gruppetto di ragazzi che non avevo mai visto - o che, probabilmente, non ricordavo di aver visto. Lei li salutò allegramente, io a malapena feci un cenno, e quelli mi rivolsero un sorriso, tutti a parte un tipo barbuto e con un piercing ad anello al naso che spostò lo sguardo da me a Roberta con fare non molto amichevole e un ragazzo che se ne stava con la faccia appoggiata alle mani e i gomiti sul tavolo a fissare il suo cappuccino. E quelli non era nient'altri che Lorenzo, ovviamente. Se c'era qualcuno di vagamente depresso o asociale in una stanza, doveva essere lui per forza. Mi sedetti accanto a lui, visto che non mi pareva di conoscere nessuno, e quando quello si accorse della mia presenza mi salutò con poca convinzione, poi prese a girare e rigirare il suo cappuccino ormai diventato simile a una brodaglia. Roberta prese posto accanto al ragazzo barbuto, ma fece la sostenuta quando quello tentò di abbracciarla e baciarla sulle guance. Mi lanciava certe occhiatacce, quel tizio, manco gli avessi ammazzato il gatto. Alzai le spalle perplesso e tentai di fare conversazione col tipo alla mia sinistra, visto che Lorenzo sembrava volermi ignorare, ma quello mi guardò strano quasi fossi sporco di dentifricio o avessi la forfora nei capelli. Allora lasciai perdere, e stavo meditando di andare in spiaggia, piuttosto che starmene lì a perdere tempo, quando Lorenzo mi avvicinò il cappuccino e mi chiese se lo volessi, ché a lui non andava. Mi chiesi cosa avesse questa volta, se davvero era tanto lunatico come sembrava, ma non rifiutai la sua offerta e mi portai la tazza ormai fredda alla bocca. Lorenzo seguì tutti i miei movimenti con lo sguardo e, trovato il momento adatto per agire, diede un colpo alla tazza rovesciandomi il cappuccino addosso. Mi alzai d'istinto scrollandomi di dosso il liquido scivolato sulle braccia, mentre quello se la rideva alla grande, quasi non avesse assistito a nulla di più divertente prima. Prima che potessi bestemmiare in turco e insultargli la famiglia, lo vidi fuggire via dal bar ridendo, forse aspettandosi che lo rincorressi per sculacciarlo.
«Ma guarda che casino!» esclamò Roberta raggiungendomi e puntandomi la canottiera bianca ora marchiata da una macchia marroncina non indifferente. Ma, con sua grande sorpresa, io presi a ridere. Senza controllo. Come poche volte avevo fatto.
«Tuo fratello è un personaggio,» dissi tra le lacrime, mangiandomi le parole, e lei mi guardò perplessa.
«Come?» chiese, mentre gli altri ridevano sotto i baffi, probabilmente a causa dell'ilarità che provocava la mia sanità mentale ormai andata a farsi fottere. «Vieni, ti aiuto a pulirti.»
«Non ce n'è bisogno,» le dissi mentre tentavo di fermare la mia risata anormale.
«Se aspettiamo ancora un po' non verrà più via. Fidati, vieni con me,» mi rassicurò prendendomi dal polso e trascinandomi fuori, mentre il tizio barbuto ci seguiva con uno sguardo che metteva i brividi. Quando arrivammo all'incrocio con la sua via sospirò e mi chiese scusa per avermi costretto a seguirla, ma non aveva più voglia di starsene con quello lì, il ragazzo barbuto. Ma disse che comunque, già che eravamo vicini a casa sua, mi avrebbe davvero aiutato a far venir via la macchia dalla canottiera. Sorpassammo il cancello che alla luce del giorno sembrava più verde che blu e mi fece strada in casa sua dopo essere passati dalla veranda spaziosa e dal pavimento decorato da pietre dal verde al nero, dal bianco al grigio al rosa pallido, posizionate in modo da formare una sorta di mosaico disordinato. Non mi sembrava di aver notato un pavimento del genere quando ero andato con Lorenzo a prendere il suo scooter la seconda sera, ma c'era anche da dire che era piuttosto buio e io ero piuttosto fumato. Barcollai fino in cucina facendo poco caso a quello che mi circondava, ma per educazione – quella sconosciuta - feci comunque i complimenti per la casa.
«Era dei miei nonni, poi l'hanno lasciata a mia madre. Quest'anno però sono venuta prima al mare perché loro hanno le ferie solo da metà agosto.» mi spiegò, credendo che potesse importarmene qualcosa, e intanto cercava qualcosa sotto il lavandino con cui smacchiarmi la canottiera.
«Avete fatto bene,» mi limitai a dire, probabilmente troppo piano perché potesse sentirmi. Mi appoggiai con la schiena al tavolo, ché non riuscivo a stare dritto in piedi, e quando lei si voltò con una spugna e uno spruzzo simile a quello utilizzato da mia madre per pulire il bagno, mi disse: «Ecco, stai lì.» Si accovacciò e iniziò a spruzzare e strofinare, e io ancora dovevo capire per quale assurdo motivo stesse facendo la buona samaritana. Il motivo mi venne lampante quando quella si incantò un attimo sulla mia canottiera adesso bagnata che aderiva a una porzione di pelle sottostante. Certo, come avevo fatto a non pensarci? Macchia di cappuccino, urgenza di lavarla via, casa vicina e vuota, soprattutto, sguardo cattivo del ragazzo barbuto. La cosa buffa è che non ero io a tampinare le ragazze; loro tampinavano me. Come se il mondo si fosse capovolto e dovessero essere le donne a fare il primo passo con gli uomini, e non il contrario. Finì di strofinare e si alzò lentamente, tenendo il viso sempre molto vicino al mio corpo, e io guardai di lato, più scocciato che imbarazzato dai suoi movimenti quasi volesse ballare il tuca tuca. Stavo già pensando a come svignarmela, ma quando il suo sguardo incrociò il mio ne rimasi un attimo abbagliato. Era così vicina che potevo dire di riuscire a contare le lentiggini che aveva sparse sul naso. E non le avevo mai neanche notate, quelle lentiggini. C'era qualcosa in quella faccia che mi metteva a mio agio, mi lasciava un senso di serenità inquietante. E avevo davvero intenzione di pensare a cos'è che mi attraesse così tanto di quella ragazza, ma ormai eravamo già lì a mangiarci la faccia sul tavolo della cucina. Era anche vero che, per quanto le mie intenzioni fossero buone, non riuscivo mai a tirarmi indietro. Forse la droga ti toglie anche quell'accenno di buona volontà che hai la decenza di conservare. Fatto sta che dopo neanche dieci minuti finimmo per chiuderci in camera sua, tutta rosa e bianca, che quasi mi dava il voltastomaco.

Quando mi resi conto di quello che avevo fatto, non ebbi la reazione che si addice ad ogni diciannovenne con gli ormoni in subbuglio: non pensai alla mia nuova conquista, non aggiunsi una tacca mentale alle persone con cui avevo fatto sesso, non mi guardai compiaciuto allo specchio facendomi i complimenti da solo e magari mandando un bacio alla mia immagine riflessa. Pensai soltanto che qualcosa fosse fuori posto. C'era un dettaglio che mi sfuggiva, ma non avevo troppa voglia di pensarci. Avevo ancora il fumo in circolo, e mi chiesi come potesse essere possibile. Mi lavai la faccia in bagno e uscii senza asciugarmela. Roberta era rimasta a sonnecchiare sul letto con le lenzuola a pois, e io avevo intenzione di andarmene senza fare troppo rumore: magari si sarebbe svegliata e avrebbe pensato che fosse stato tutto un sogno. In cuor mio lo speravo, lo speravo davvero, ma quando andai in cucina per riprendermi la canottiera che avevo lanciato da qualche parte, la speranza di non avere testimoni del misfatto sfumò. Lì in piedi sulla porta se ne stava Lorenzo, e mi fece prendere un colpo, visto che neanche l'avevo sentito entrare. Era scuro in volto, faceva quasi paura, e il suo sguardo inquisitorio non era da meno. Mi percorse da capo a piedi, e i suoi occhi sembravano mettermi a nudo. Mi sentivo un verme, e non sapevo darmene un motivo plausibile.

«Che ci fai qui?» mi chiese a denti stretti, anche se probabilmente sapeva già la risposta. Ero più nudo che vestito, e per terra giacevano anche i pantaloncini della sorella.
«Me ne stavo andando,» ammisi cercando di riprendermi e darmi una mossa. Raccolsi la canottiera e me la infilai con i suoi occhi ancora addosso. «Ciao,» salutai poi sbrigativo, e me ne andai di corsa, quasi fossi un criminale che fuggiva dal luogo del delitto.






***







Spero di avervi intrattenuto adeguatamente fino a questo punto, e di poter fare altrettanto con i pochi capitoli rimasti. Alla prossima!


 






Mirokia

 

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Capitolo 4
*** Nuota, innocente ***


Capitolo quarto
Nuota, innocente







 

 

 

 

Per una settimana Lorenzo sparì dalla mia vista. Quando uscivamo col suo gruppo, lui non c'era mai, e nessuno a parte me sembrava accorgersi della sua mancanza. Anche il mare faceva schifo, agitato, sporco, ci mancava poco che si mettesse a piovere. Quel mare continuava a piacermi, ma sapeva anche incutermi timore, come se ci fosse qualcosa sotto che non mi faceva sentire al sicuro. Sembrava urlarmi contro, arrabbiato, e io non sapevo codificarne il linguaggio. Mi mandava segnali che non riuscivo a cogliere. La marea era alta, le onde quasi toccavano i miei piedi mentre me ne stavo appollaiato davanti a una duna, come fossero braccia che si allungavano per trascinarmi via con loro.
Forse il mio vedere tutto nero era anche dovuto alla mancanza di droga e derivati. Avevo finito tutto, e avevo incaricato Riccardo di farsi vendere qualcosa da uno dei suoi amici storti, ché già non ce la facevo più. E non ce la facevo più a passare le serate da solo in spiaggia. Avevo creduto che la presenza di Lorenzo fosse irrilevante, ma senza di lui mi sentivo quasi turbato. Ero arrivato a pensare che gli fosse successo qualcosa, ma in cuor mio sapevo che mi stava evitando apposta, che ce l'aveva con me per avermi beccato a casa sua con la sorella. Probabilmente era un tipo particolarmente possessivo e non voleva che uno sconosciuto gli entrasse in casa e gli violasse la sorella.

Dopo la quinta sera passata in solitudine, mi decisi a piantarla di fare l'asociale e mi aggregai al gruppo di Riccardo, che per altro mi fece trovare un bel pacchetto di erba e altra roba - iniziando a pressarmi perché gli restituissi i soldi, centesimo per centesimo. Prendemmo la macchina del mio amico - che continuava a guidare senza patente - e raggiungemmo una vecchia discoteca appena fuori dal paese. Vecchia era dir poco, sembrava dovesse cadere a pezzi da un momento all'altro. Ma sembrava comunque ben attrezzata, la musica era buona, le luci pure, e c'era pure un piccolo stand che vendeva birre. Incrociai Roberta all'entrata, ma ci limitammo a un saluto freddo: lei aveva provato a starmi vicino in quei giorni, ma aveva capito che con me non c'era trippa per gatti. Non volevo impegnarmi, non volevo neanche andarci a letto, a dirla tutta, ma spiegarle che in quel momento mi sentivo ispirato dalla sua faccia non era da gentiluomo.

In discoteca, se poteva chiamarsi tale, ballai con le movenze di mio nonno per un quarto d'ora, poi andai a buttarmi sulla panchina in pietra, già esausto. Probabilmente aveva ragione Lorenzo: fumare troppo non era poi uno dei migliori toccasana. Valeria tentava di tirarmi dal braccio per poi trascinarmi nella mischia, ma io le dissi chiaramente che non avevo voglia.

«Non hai mai voglia di fare un cazzo, tu!» mi accusò, il diavolo che tornava ad appendersi ai suoi capelli. La lasciai perdere, come sempre, e quando la seguii con lo sguardo mentre se ne tornava in mezzo alla gente, notai una testa insolitamente rossa farsi spazio nel senso contrario, nella mia direzione. Quando raggiunse le panchine e mi vide, si bloccò sul posto, fece un giro di 180 gradi e se ne tornò nella mischia. Tentai di non perderlo di vista e mi alzai per vedere meglio: Lorenzo aveva appena incrociato le due ragazze russe del suo gruppo e, senza neanche salutarle o scambiarci due parole, si era messo a ballare con una delle due, quella dai capelli lunghi e mossi. Mi fece quasi ridere la sua scoordinazione che poteva fare a gara con la mia, e la poca convinzione della russa mentre lo vedeva accennare passi da pinguino. La sua incapacità nel ballare non migliorò neanche quando arrivò il momento del lento. La metà della gente protestò per il cambio improvviso di musica, l'altra metà stava già ad amoreggiare suddivisa in coppie. E così sembrava voler fare Lorenzo quando acchiappò la russa senza un minimo di delicatezza e le appoggiò il mento sulla spalla. Sapeva bene che ero ancora lì a guardarlo, quindi si premurò di portare la bocca sul suo collo e lasciarci baci poco convinti, mentre mi lanciava sguardi fulminei pensando di non essere notato. Altro che diciotto anni, quello ne aveva undici. Sospirai scuotendo la testa e, quando accanto a me si materializzò l'altra russa chiedendomi se per favore potessi darle il mio numero di cellulare, la superai e me ne andai verso l'uscita, facendo finta di non essermi accorto della sua presenza. Ero nuovamente nervoso e anche arrabbiato, senza che riuscissi a trovare una vera motivazione, quindi mi  decisi a uscire per fumare. Ma una volta fuori mi dissi che lì non mi stavo divertendo neanche un po' e che magari mi sarei fatto una passeggiata a casa, anche se lì ci eravamo arrivati in macchina e non ricordavo neanche da quale direzione. Sbuffai rumorosamente, poi mi accesi la mia cannetta serale e decisi di dimenticarmi anche di quel problema per poi incamminarmi alla cieca. Non ci volle molto perché la mia estasi personale venisse rotta dal rumore di un motore che s'avvicinava.

«Uhm... Gianluca?» mi voltai a guardare lo scooter blu e poi Lorenzo e poi il suo casco e poi i suoi occhialetti sempre appesi al collo. Probabilmente era la prima volta che mi chiamava per nome, mi faceva strano. «Sali,» mi intimò dopo aver poggiato il piede a terra.

«Non preoccuparti. Fare un po' di movimento non fa mai male. Poi mi faccio un'altra cannetta, che non fa mai male...»

«Ho dei seri dubbi in proposito,» mi interruppe quello. «Comunque puoi fartela in spiaggia, la cannetta,» mi disse poi, e mi fece segno di salire. Ripensandoci, non avevo proprio voglia di camminare, e non era una grande novità. Gli montai dietro nonostante avessi la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Come l'inspiegabile arrabbiatura nei suoi confronti che avevo fino a poco prima.

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Il viaggio di ritorno mi sembrò molto più lungo e stancante di quello dell'andata, anche se in entrambi i casi non avevo fatto altro che starmene seduto con la testa tra le nuvole. Quando arrivammo in spiaggia, andammo automaticamente verso il frangiflutti e iniziammo ad arrampicarci sulle rocce senza dire una parola, con il solo ausilio della luce del cellulare, che ci aiutava ad evitare di mettere i piedi nelle fessure tra le rocce. Percorremmo il frangiflutti fino alla fine e ci sedemmo sull'ultima roccia, la più grossa e sporgente, lasciando che i piedi penzolassero sugli scogli che fuoriuscivano dall'acqua. Rimanemmo in quella sorta di limbo per dieci minuti buoni, con il solo suono del mare che finalmente iniziava a calmarsi, anche se qualche increspatura resa visibile dalla luce della luna tradiva quella calma apparente. Fu Lorenzo ad azzardarsi a rompere il ghiaccio.

«Ehi... So che forse non te ne sei nemmeno accorto, ma negli ultimi giorni ti ho evitato di proposito. Volevo scusarmi.»
Non dissi niente, mi limitai a guardarlo e a ficcarmi una sigaretta in bocca.
«E scusami se ti ho ignorato in discoteca poco fa,» concluse. Alzai le spalle e fissai lo sguardo sul niente.

«Perdonato,» dissi senza troppa enfasi, e feci per accendermi la sigaretta quando lui si avvicinò per bisbigliarmi un grazie dal sapore infantile e dovetti bloccarmi con l'accendino a mezz'aria, il cuore che faceva buffe acrobazie nel petto. Calò nuovamente il silenzio e io ero ancora con l'accendino in aria, i pensieri che giravano vorticosamente in testa. Nonostante lo spinello di prima, sembrava che sensazioni e presentimenti e emozioni e avvenimenti si stessero allineando lentamente in modo ordinato, permettendomi di avere una visione più chiara della situazione.

«Sai… se la tua intenzione prima era di farmi ingelosire con la russa...» sorrisi, «beh, ci sei riuscito.»

Mi guardò stranito. «Eri geloso di Katia?»

«Di chi?»

«Della russa.»

«Ma sei fuori? Lo ero di te,» dissi senza troppi problemi, dando voce ai miei pensieri ora allineati, e mi accesi la sigaretta. Così come i suoi occhi si accesero come lampadine. Sembravano così gialli e luminosi anche al buio. Forse avevo capito cos'è che mi era sfuggito per tutti quei giorni, e mi sentivo come se fossi riuscito ad afferrare quel qualcosa di indefinito.

«Ma,» riprese lui, la voce che tremava appena. «Che hai fatto con mia sorella?»

«Credo di esserci andato a letto.»

«Oh,» commentò lui abbassando il capo, e a me venne solo da sorridere, cosa che solitamente mi veniva difficile da fare.  Eppure tutto era spontaneo quella sera. No, tutto era spontaneo con lui. Mi sembrava di conoscerlo da sempre, di amarlo da sempre.

«Non indovineresti mai perché l'ho fatto. E probabilmente non mi crederesti.»

«Perché l'hai fatto?» mi fece eco.

«Perché ti somiglia parecchio,» dissi senza farmelo ripetere due volte e quello, dopo lo sbigottimento iniziale, fece un risolino.«Non ci credi,» constatai. Lui negò con la testa.

«E' una bella scusa, però,» disse continuando a ridacchiare ad occhi chiusi. Inclinai la testa, intenerito da quella risata, così vicina al suono che avrei volentieri ascoltato per il resto dei miei giorni.

«Ci crederai,» lo rassicurai. Spostai la sigaretta e gli misi l'altra mano sul ginocchio premendo piano con le dita, quasi a volergli trasmettere un segnale. Lui interruppe la risata, puntò gli occhi prima sulla mia mano e poi sulla mia faccia.  A quel punto mi permisi di avvicinarmi senza dargli il tempo di realizzare le mie intenzioni e gli lasciai un bacio sulla bocca. Preso alla sprovvista, Lorenzo ebbe uno scatto alla gamba e fece cadere l'accendino in mare.

«Oh, cavolo! Mi dispiace, io...» si allontanò da me tutto trafelato e con la mano sulla bocca. Scossi la testa ridacchiando.

«Non fa nulla, uno di quelli costa 80 centesimi. Un tuo bacio mi è costato quasi tre settimane,» dissi col tono del marpione, o del don Giovanni, o magari nessuno dei due. Magari ero solo ridicolo.

«E ti sembra tanto? Le persone le baci appena le incontri? Ah, beh, che con mia sorella...» le sue allusioni erano ben chiare, e io spostai lo sguardo altrove, fintamente seccato.

«Non uscirtene più con questa storia, dai. Già mi sento abbastanza in colpa,» presi l'ultimo tiro dalla sigaretta e la gettai in mare con pollice e medio. Al che lui mi guardò malissimo, quasi addolorato, neanche gli avessi spento la sigaretta sul braccio. «Scusa,» mi venne spontaneo dire, e lui mi rivolse uno sguardo da "Non farlo mai più". Ma sembrò dimenticarsi della mia villania quando feci per baciarlo di nuovo. Serrò gli occhi e socchiuse la bocca come una bambina che ha paura di prendere la medicina pur sapendo che è l'unico metodo che può aiutarla a guarire. Il bacio fu particolarmente lento, profondo, umido e... salato? 

«Sei salato,» lo informai, e lui alzò le spalle, quasi non fosse la prima volta che se l'era sentito dire.

«Tu sai di sigaretta. Cosa pensi sia peggio?» replicò lui, e io tornai nella mia posizione alzando a mia volta le spalle, quasi a volerlo prendere in giro.

«Se vuoi non ti bacio più.»

«Ti bacerò io, allora,» se ne uscì lui, e si permise di mettermi una mano sul ginocchio. Ma non ci fu verso: fui io a buttarmi su di lui, senza che riuscissi a resistere per mezzo minuto. Ci baciammo a lungo, scambiandoci sapore salato e di sigaretta, senza la minima intenzione di staccarci, nonostante quei sapori non andassero a genio a entrambi. Solo lo squillo del mio cellulare ci diede una scossa. Lo presi dalla tasca e aprii il messaggio di Anna che mi chiedeva dove fossi andato a finire e mi intimava di rincasare, ché erano tutti preoccupati. Le scrissi un "Arrivo" frettoloso, tanto per farle capire che ero ancora vivo, poi misi via il cellulare e, senza neanche rendermene conto, avvolsi le spalle di Lorenzo col braccio e lo avvicinai a me. Quello appoggiò la testa contro il mio collo e socchiuse gli occhi.

 «Non voglio essere frettoloso, ma...» esordì a voce quasi inesistente. «Credo di amarti già.»

Sorrisi tra me e me, un calore mostruoso che mi si allargava nel petto.

«, anche io





***

 

 

 

 

 

Pensate, in Inerzia li avevo fatti baciare al nono capitolo, qui già al quarto. Personaggi sempre più precoci. E’ anche vero che Gianluca e Lorenzo sono più piccoli di Andrea e Valerio, e poi va beh, l’estate mette fretta, è risaputo.
Un abbraccio a chi mi legge!




Mirokia

 

 

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Capitolo 5
*** Onde anomale ***


Capitolo quinto
Onde anomale
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La mattina dopo ricevetti il suo buongiorno sul cellulare, e rimasi tutta la giornata con il sorriso. Michele mi chiese più volte di fargli vedere la boccetta delle pillole che prendevo ultimamente, Valeria diede come sempre la colpa alla droga che mi buttavo in corpo ogni giorno, Riccardo era preoccupato di cosa avrebbero detto i suoi genitori se una notte mi avessero visto vagabondare per il giardino recitando filastrocche imparate alle elementari, Anna pensava avessi trovato la ragazza, o qualcosa che ci si avvicinava. Probabilmente avevano ragione tutti e quattro. Ce l'avevo, qualcosa che si avvicinava alla "fidanzata", ma sarebbe stato impossibile per loro indovinare chi fosse. Questo perché, quando ce ne stavamo tutti in gruppo, Lorenzo se ne stava nella sua solita posizione, gomito sul tavolo e mento nel palmo della mano, a fissare imbambolato qualche comunissimo oggetto, come un neon, un piatto, una tazzina, una trave di legno, un jukebox, in evidente disagio e voglia di fuggire. Quel disagio che poi si scioglieva in risate quando ci incontravamo più tardi in spiaggia. Negli ultimi giorni ci chiudevamo sempre nello stesso pezzo di sabbia e mare, e tanto stavamo facendo per tenerci lontani dalle preoccupazioni del mondo esterno, che sembravamo esserci intrappolati a nostra piena consapevolezza in una bolla, quella formata dal fumo che buttavano fuori le nostre bocche.
«Oggi sì, mi sembra di volare. Che mi hai dato?» domandò Lorenzo una di quelle sere, completamente fumato.
«E' un segreto,» gli risposi a metà tra il saccente e il divertito. Lui non si stizzì come invece avrebbe fatto da sobrio, ma allungò le gambe sulla sabbia, si tenne su con le braccia tese dietro di sé e posò lo sguardo sul cielo. Sguardo che a poco a poco si spense in una malinconia facilmente decifrabile.
«Prima o poi ti farai un giro lassù. Proponi ai tuoi genitori di andare, che ne so, in Giappone, così ti fai un giorno intero di viaggio in aereo,» gli dissi dopo essermi messo nella sua stessa posizione, ben conscio di cosa ci fosse alla base di quella malinconia. Lui sorrise, scosse la testa e si tirò su a sedere.
«La fai facile, tu. Ami il mare e puoi buttartici quando vuoi,» disse a spalle basse, e io non sapevo che dirgli per farlo tornare a sorridere come stava facendo poco prima. Senza pensarci troppo, gli afferrai una spalla e lo tirai giù sulla sabbia, poi mi misi su di lui e lo intrappolai con le braccia. Sembrava che non mi buttassi quando volevo solo nel mare.
«Spostati, mi copri il cielo,» disse quello, sfrontato, una volta coperta la sua visuale. Gli puntai uno sguardo da, “Ah, sì?”, e finalmente lo feci ridere. «Facciamo così: se tu sarai disposto a sostituire il mio cielo per un tempo che determineremo, ti lascerò venirmi addosso tutte le volte che vuoi,» fece allora poggiandosi sui gomiti e avvicinandosi inevitabilmente alla mia faccia.
«Venirti... Cosa?» chiesi sinceramente confuso, ma fui certo che avesse colto quella sottile sfumatura di doppio senso ben prima di me.
«Credo che le nostre vite siano, diciamo, "bloccate", perché io sono troppo perso a guardare il cielo e tu il mare. Ecco perché la nostra vita sociale fa schifo.»
«E quindi?»
«Per uscirne bisognerebbe trovare qualcosa che ci piace di più. Se io fossi il tuo mare, tu saresti il mio cielo?» se ne uscì dal nulla, e la cosa fu talmente improvvisa che gli scoppiai a ridere in faccia, rischiando di sputacchiarlo.
«Ma da dove sei uscito? Dici delle robe davvero imbarazzanti.» scossi la testa, e quello non modificò la sua espressione, aspettò che finissi di ridere e sollevò maggiormente la schiena per baciarmi le labbra. Nello stesso momento, il mare mi raggiunse e mi accarezzò i piedi, lasciandomi un brivido lungo la schiena. Lorenzo tornò lentamente disteso sulla sabbia, le mani legate dietro al mio collo, così da trascinarmi giù con lui.
E davvero mi stava trascinando giù. Ogni giorno ero sempre più assente dalla vita reale e sempre più chiuso nella stessa persona, negli stessi discorsi romantici, negli stessi metri quadrati, negli stessi baci. A ogni tocco che mi riservava, sentivo quel nodo alla gola che dicono ti stringa quando ti innamori, ed era la sensazione dell'affogare, dell'aria che vorresti afferrare e annaspi per poterne respirare un po', ma la vista ti si annebbia e vedi sempre più buio, quasi stessi andando sempre più giù e non fossi più in grado di riconoscere la superficie dell'acqua. Né tantomeno di raggiungerla.
Con Lorenzo ero felice. Felice, sereno, a posto con me stesso. E allo stesso tempo mi sentivo sprofondare, quasi fossi cosciente del fatto che era impossibile che stessi tanto bene. Presto la favola sarebbe finita, presto avrei toccato il fondo, sarei affogato. Avrei guardato Lorenzo, gli avrei accarezzato i capelli mossi e gli avrei detto che lui...
«Non esiste,» disse Anna, braccia conserte, sguardo comprensivo, gambe che tremavano per il nervoso. «Non è mai esistito.»
 
---
 
«Ho fatto un sogno, stanotte.»
Era la sera dopo il discorso che mi aveva fatto Anna e a cui io non avevo dato ascolto e di cui non ricordavo una parola. In realtà a grandi linee ricordavo, ma tentavo di rimuoverne ogni memoria. Per quel motivo stavo fumando e anche bevendo. Lorenzo fece un rumore con la bocca quasi a spronarmi a continuare, a raccontargli quello che avevo da dire.
«Ero in una macchina, una macchina piuttosto piccola. Io stavo al posto del passeggero, e alla guida c'era una donna.»
«Una donna?»
«Sì, boh, non la conoscevo. Era molto bella, però. Forse un po' pallida? Non so, mi ricordo questo particolare della pelle molto chiara. E i capelli neri,» presi un sorso da quella birra che mi disgustava ma che sentivo di dover mandare giù. «Nei sedili posteriori ci stavano alcuni miei amici, possiamo dire. Quelli che sono qui con me in vacanza e anche altri, ed erano tutti schiacciati e mi parlavano, erano fastidiosi. Per quanto parlavano forte e tutti insieme, non capivo una parola di quello che mi stavano dicendo. E questa è la prima parte del sogno.»
«E' molto lungo?» mi chiese Lorenzo divertito, che quella sera non aveva toccato né alcol né fumo e gli piaceva vedermi mentre incespicavo nelle parole o non riuscivo a dare un senso a quello che dicevo.
«Ti sei rotto di ascoltarmi?» domandai ad occhi socchiusi e sventolandogli la birra davanti alla faccia. Lui negò ridendo e mi diede il permesso di continuare con il racconto.
«E niente, ad un certo punto noto che c'è decisamente più silenzio, anche perché le altre macchine sono sparite. Eravamo in tangenziale, che improvvisamente si era sgombrata. Allora dico alla donna che guida: “Non c'è nessuno, vero?” e lei annuisce, poi io guardo nello specchietto retrovisore e vedo che ci sono ancora i miei amici che mi parlano, però non esce nulla dalla loro bocca, come se ci avessi messo il muto. Quando guardo per la seconda volta nello specchietto, loro sono spariti, e la donna mi dice "Siamo solo io e te", e proseguiamo questo viaggio da soli finché non mi sveglio,» conclusi allargando le mani, quasi volessi darmi da solo una spiegazione del sogno ma non ne avessi idea. Lorenzo fece una faccia perplessa e si girò in direzione del vento. Le nostre mani erano intrecciate dall'inizio della serata ed ebbi l'impressione che la sua avesse avuto uno scatto. «Beh, non hai niente da dire?» chiesi a quel punto, e lui alzò le spalle guardando sempre nella stessa direzione.
«Boh, non è che so interpretare i sogni. Ma non ci darei troppo peso, è sempre un sogno. Non è reale, anche se molte volte lo sembra,» si voltò e mi indirizzò un sorriso malinconico, che sapeva di consapevolezza, come se anche lui quella notte avesse fatto un sogno preoccupante e in quel modo mi sentisse particolarmente vicino. Gli feci segno di farsi vicino, poi lo abbracciai e gli schiacciai il capo sul mio petto, mentre tenevo il mento sui suoi capelli e buttavo lo sguardo distratto sul mare calmo nonostante il vento di tramontana.
«Vieni a stare da me?» chiesi dopo lunghi minuti in silenzio.
«Cosa?»
«A studiare. Devi studiare se vuoi fare il pilota, no? Vieni a studiare su da me, mica posso lasciarti qui.»
Lui si strinse nelle spalle, percorso da un brivido di freddo.
«Dici che a Genova ci sono facoltà apposta?»
«Sennò ce ne andiamo su a Torino,» dissi prontamente, e lui affondò ancora di più la faccia nella mia felpa, un altro sorriso consapevole disegnato sulla sua faccia.
«Che film mentali mi faccio? Non posso venire su,» disse alla fine, e io cercai il suo sguardo immerso nel mio petto.
«Perché?»
«Perché sì.» si liberò a forza dal mio abbraccio e se ne andò sul bagnasciuga stretto tra le sue stesse braccia a causa del vento freddo. Lo raggiunsi barcollando, le mani in tasca e le dita dei piedi intirizzite.
«Scusa, vuoi dirmi che alla fine di questa vacanza non ci vedremo più?» chiesi incredulo, e lui si limitò ad alzare le spalle. Le luci sul lungomare delle altre spiagge punteggiava l’orizzonte e si rifletteva direttamente nel suoi occhi, che non guizzavano più, ma erano attraversati da una venatura scura che sapeva terrorizzarmi come l’abisso del mare di notte. Lo vedevo inquieto, spostava le alghe sulla spiaggia con un piede, senza mai staccare lo sguardo dall’orizzonte. «C'è qualcosa che devi dirmi?» provai ancora, ma quello non sembrava avere intenzione di aprire ancora bocca per quella sera. Se ne andò a casa poco dopo, e mi sembrò avesse le lacrime agli occhi.
 
---
 
Il giorno dopo, al mio risveglio non trovai le pillole che tenevo sempre sul comodino. Chiesi spiegazioni a Riccardo, e quello, candidamente, come suo solito, mi disse che se non andava errato aveva visto Anna entrare nella camera che occupavamo io e Michele e uscire con qualcosa in mano. Riccardo sarebbe stato il peggiore complice di un omicida. Andai a frugare nelle tasche dei miei jeans e, come mi aspettavo, anche l'erba e la cocaina erano sparite. Uscii dall'appartamento in mutande e scalzo e andai dritto dritto verso quello che occupavano le ragazze. Mi misi a battere forte i pugni sulla porta: odiavo quando mi si frugava tra la roba, lo detestavo, lo aberravo.
«Aprite questa merda,» dicevo senza risparmiarmi sul vocabolario, perché lo sentivo che le due cianciavano lì dentro, sicuramente intenzionate ad ignorarmi. «Anna. Esci.» provai ad abbassare il tono, anche se l'occhio destro pulsava e i piedi battevano a terra impazienti. «Per favore,» aggiunsi per gentile concessione, e solo a quel punto la porta si socchiuse e Anna sbirciò nella fessura.
«Cosa ti serve?» mi chiese quasi spaventata.
«Vieni, esci un attimo.»
«Veramente stavo facendo colaz-»
«Esci.»
Anna tolse la catena alla porta un po' riluttante, sgusciò fuori e si chiuse piano la porta alle spalle. Le aprii la mano davanti alla faccia e lei si mise nervosamente i capelli dietro l'orecchio.   
«Ridammi la mia roba.»
«No.»
«Ridammela.»
Lei mi lanciò uno sguardo intimorito, lo fece durare qualche secondo, poi si girò intenzionata a tornare in casa. Ma prima che potesse farlo, la trattenni dal lembo della cannottiera che portava addosso. Digrignai i denti, e sapevo che quel rumore le dava particolarmente fastidio, ma non immaginavo che potesse voltarsi con quello sguardo vicino al terrore.
«Sto cercando di aiutarti, Gianluca. Perché ci tengo davvero a te. Agli altri non importa di quello che ti sta succedendo, ma a me sì,» disse, le braccia conserte sotto al seno piccolo, le punte delle dita che tremavano.
«Cosa mi starebbe succedendo?» le domandai, i denti stretti e che strisciavano tra loro. Lei indietreggiò fino a toccare la porta con la schiena, deglutì e rispose a voce un po’ più alta.
«Vedi cose che non esistono.»
«Cosa non esisterebbe?»
«Con chi parli ogni sera sulla spiaggia?»
Con quella domanda, mi sentii toccare nell’intimo, e rabbrividii al pensiero di Lorenzo, come se il nostro segreto fosse stato appena rivelato al mondo.
«Non sono affari tuoi.» dissi, più aggressivo, e a quel punto lei slacciò le braccia dal petto e strinse i pugni lungo il fianco.
«Te lo dico io: con nessuno!»
Le presi il braccio senza rendermi conto di averlo strattonato troppo violentemente.
«Ancora con queste tue favole?!»
«Sei tu che stai vivendo in una favola. Credimi, cazzo!» esclamò lei, gli occhi stretti per il dolore, e l’altra mano che tentava di allentare la mia stretta sul suo braccio.
«… Quando torno, voglio trovare la mia roba al suo posto. Non voglio alzarti le mani.» Detto questo, le mollai il braccio, adesso segnato da una macchia rossa, tornai in camera, mi misi un paio di pantaloncini e me ne andai sbattendo la porta. Anna era già tornata dentro.
 
---
 
Camminai a passo svelto fumando nervoso una sigaretta – almeno quelle me le aveva lasciate – fino al Luna Blu, sicuro di trovare chi stavo cercando. E infatti eccola lì, appoggiata al biliardino a cui giocavano alcuni dei suoi. Mi vide arrivare, ed era intenzionata a far finta di niente, ma io le feci segno con il capo di avvicinarsi. Lei disse qualcosa agli amici, poi mi raggiunse grattandosi nervosamente il braccio. Ma cosa avevano tutti da essere nervosi con me?
«Sei con Lorenzo? Sono passato da casa e non c’era nessuno. Ho bisogno di vederlo.» Andai dritto al punto dopo aver buttato la seconda sigaretta fumata in meno di cinque minuti.
«Scusa?» la sua faccia era stralunata, anche le sue braccia sotto il seno decisamente più prosperoso.
«Lorenzo. Dov'è?»
«Lorenzo? Di chi parli?»
Pensai di essere in un sogno particolarmente realistico. O in un incubo.
«Ma che avete tutti, stamattina? Di tuo fratello, no?» insistetti, e lei fece rotolare gli occhi, quasi non sapesse quali fossero le parole giuste, poi mi buttò uno sguardo carico di compassione, come se stesse parlando con un pazzo.
«Io sono figlia unica.»

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Mi trascinavo sulla spiaggia e raggiunsi il campo da beach volley con il fiato corto e la testa che girava sotto il sole cocente. Le lacrime agli occhi, il nodo alla gola, il braccio pieno di graffi causati dalle mie unghie che dal Luna Blu alla spiaggia avevano tentato di grattare via la pelle. Trovai i due gemelli nel campo, entrai mentre la partita era in corso e mi piegai con le mani sulle ginocchia quando si accorsero di me.
«Sentite, avete visto Lorenzo?»
Loro si guardarono perplessi mentre gli altri li incitavano a lasciarmi perdere, ché stavano per vincere la partita.
«E chi è questo?» chiese quello coi capelli più corti.
«E' uno nuovo?» fece l’altro dopo aver alzato le spalle.
«Capelli rossi, lentiggini, occhiali da moto sempre al collo...» mormorai, voce bloccata in gola. Loro si fecero un sorrisetto complice, poi uno dei due mi mise una mano sulla spalla.
«Scusa la domanda maleducata, ma hai bevuto qualcosa anche oggi?»

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Mi presi il cellulare dalla tasca e mi chiesi perché diavolo non ci avessi pensato prima. Cercai il numero di Lorenzo e chiamai, impaziente, con le braccia distrutte dai graffi.
«Lorenzo, dove cazzo sei?!» sbottai non appena sentii la chiamata aperta.
«Er…Forse hai sbagliato numero, Gianlu. Sono Sofia, ti ricordi?»
Il mondo iniziò a vacillare davanti ai miei occhi. Mi misi una mano sulla fronte bollente e la bocca prese a tremare.
«So…Sofia?» Il sudore lasciò una traccia sporca dalla tempia sin sotto il mento. «No, tu... Mi hai mandato il buongiorno due volte...»
«Sì, speravo che rispondessi. Cercavo un modo per riallacciare i rapporti con te, ma a quanto pare non avevi il mio numero memorizzato...»
Chiusi la chiamata. Che cazzo voleva dire? Stavo sognando, ma certo. Avevo sempre fatto sogni strani, incubi terribili. Mi appoggiai al muretto che costeggiava il parcheggio della spiaggia, toccai la sua consistenza e mi sembrava così reale. Se fosse stato un sogno, non mi sarei fatto male. Caricai un pugno e colpii il muretto con tutta la forza che mi rimaneva in corpo. Piansi dal dolore, le nocche lasciavano scorrere sangue sulla sabbia fine accumulata contro il muretto.
E’ uno scherzo, continuavo a dirmi, qualcuno vuole prendersi gioco di me. Mi stanno prendendo tutti per il culo, vogliono fare i bulli di un disagiato. Stasera lo dirò, a Lorenzo, gli dirò che i suoi amici sono degli stronzi, e che sua sorella è una poco di buono. Glielo dirò che sono tutti disgustosi, e che dovremmo andarcene da qualche parte e non farci più trovare. Io e lui, da qualche parte.
 
«Lorenzo non esiste!»
 
La voce di Anna mi rimbombava in testa mentre una donna, trovatomi sanguinante contro il muro, mi chiamava senza ricevere risposta e mi diceva che mi avrebbe portato dalla guardia medica.
 
«Non esiste!»
 
           


 

***







Il prossimo sarà l’ultimo capitolo, una sorta di epilogo. Scusate il ritardo, ma ho avuto gli esami, anche se ne ho passato solo uno. C’est la vie.




Mirokia
 

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