Nova

di Stanys
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


«Base, qui Nautilus. Mi ricevete?»
«Nautilus, qui base. Ti sento forte e chiaro. Comunicazioni online.»
«Inizio sequenza checklist sistemi primari.»
«Integrità scafo»
«A posto»
«Supporto vitale»
«Funzionante»
«Sistemi idraulici»
«A posto»
«Sistema di propulsione»
«Funzionante. Attivo propulsore primario al trenta percento, velocità otto chilometri al secondo, in avvicinamento all’obiettivo.»
«Confermato. Nautilus in avvicinamento all’obiettivo. Occhi aperti Nautilus, chiudo.»
«Ricevuto. Chiudo»


«Puoi scommetterci» aggiunse Lucy, dopo aver chiuso la comunicazione radio. Per nulla al mondo avrebbe distolto lo sguardo dall’oggetto della loro missione. Davanti a lei infatti, ad una manciata di migliaia di chilometri, c’era la prova definitiva che l’umanità non era sola nell’universo: un enorme oggetto non identificato.
Era stato avvistato circa nove giorni prima, anche se il verbo “avvistare” non era del tutto appropriato alla circostanza, in quanto l’oggetto in questione sembrava invisibile, spuntato fuori dal nulla. Gli eventi che avevano portato alla sua scoperta erano stati del tutto fortuiti, e se ciò aveva da un lato destato immenso stupore, dall’altro aveva suscitato non poco imbarazzo, dato che tutti i più potenti telescopi del mondo non erano riusciti a vedere un oggetto del diametro di decine di chilometri avvicinarsi in rotta di collisione con la Terra, alla faccia del tanto sbandierato sistema missilistico anti-meteoriti, e questa sarebbe stata una pessima pubblicità per tutto il mondo astronomico, proprio nel momento più importante della sua storia dall’invenzione stessa del telescopio.
Tutto era cominciato all’osservatorio di monte Palomar in California, durante l’osservazione di una nebulosa che, d’un tratto, era scomparsa. Ciò che fece escludere errori umani o guasti meccanici fu che il telescopio continuava a funzionare perfettamente, ma il problema era che al posto della nebulosa scomparsa ora c’erano altre stelle, per giunta mai viste prima. Quando ormai gli astrofisici interpellati a stretto giro avevano cominciato a raschiare il barile delle teorie matematiche su deviazioni e distorsioni spazio-temporali, ecco che dopo poche ore “l’anomalia” (come era stata chiamata all’inizio) si era spostata, facendo mostrare nuovamente la nebulosa scomparsa, a discapito però di altri corpi celesti nelle sue vicinanze, e quando anche questi dopo lo stesso lasso di tempo ricomparvero, si fece concreta l’ipotesi che lassù ci fosse qualcosa che stava nascondendo le stelle, un cartoncino riflettente cosmico che ruotava attorno alla Terra. L’analisi spettrografica delle stelle mostrate dall’anomalia era impossibile perché l’immagine che vedevano non era diretta, ma in qualche modo riflessa, come proiettata da un monitor. Tutto ciò che si era riusciti a scoprire a riguardo era che probabilmente erano stelle nane, disposte ai vertici di un ipotetico triangolo. Non essendoci alcuna sonda adatta nei paraggi, l’unico modo per capirci qualcosa su quella storia era allestire in fretta e furia la missione Omega, resa possibile grazie al varo appena pochi mesi prima dello shuttle Nautilus, il primo velivolo capace di uscire dall’atmosfera terrestre senza l’ausilio di quei costosissimi ed ingombranti razzi, e dotato di strumentazione di ultima generazione, compresa una sonda a raggi alfa in grado di scandagliare la superficie di un pianeta o una roccia per mapparne il profilo: una specie di sonar spaziale.
Lucy sapeva bene che stava entrandonegli annali non solo della scienza, ma dell’umanità intera, così come ne erano consapevoli i suoi due compagni di viaggio, Alexej e Harshad, anche loro ammirati da quella meraviglia dell’universo. Loro tre erano stati selezionati per il volo inaugurale del Nautilus, che sarebbe dovuto consistere in un semplice passaggio intorno alla Luna e ritorno. Invece erano stati richiamati d’urgenza perché era successo, per bocca del loro capitano, “qualcosa di enorme”. E in effetti enorme lo era decisamente. 
Per Lucy quei due astronauti seduti con lei in cabina non erano semplicemente il suo copilota e il suo navigatore, sottoposti che avrebbe dovuto coordinare: dopo gli anni trascorsi insieme ad addestrarsi e a convivere insieme ogni situazione, dalla Stazione Spaziale Internazionale alle tende iperbariche sulla Luna, ormai Alex e Hash erano diventati come un’estensione della sua famiglia, della sua vita, e così sentiva che valeva per gli altri due nei suoi confronti. Il programma spaziale a cui erano destinati puntava molto sullo sviluppo del cameratismo, e in questo il successo era stato completo. Alexej era il suo “gigante buono”, come amava definirlo: un biondissimo ingegnere aerospaziale ucraino di oltre un metro e novanta, un viso dai lineamenti duri che nascondevano un carattere molto socievole. Harshad invece era un indiano mingherlino, astrofisico addetto alla strumentazione che aveva contribuito a progettare circa un terzo degli apparati che trasportavano. Insieme Alexej e Harshad facevano davvero una coppia strana, e questo divertiva molto Lucy.
«Si accettano scommesse» disse Harshad «alieni o buco nell’acqua?»
«Come potrebbe essere un buco nell’acqua? È palese che ci sia qualcosa lì» rispose Alexej.
«Per un attimo ho temuto che avresti fatto una delle tue ridicole battute sui modi di dire»
«La tentazione l’ho avuta, come sempre, ma per il vostro bene mi sono contenuto»
«Grazie Alex, lo apprezziamo molto» disse Lucy ridendo. «In ogni caso» disse Harshad «Io non sono del tutto sicuro che ci sia effettivamente qualcosa lì»
«Perché?» chiese Lucy quasi distrattamente, mentre azzerava la regolazione dei flap, una volta usciti dall’atmosfera.
«Beh, perché io al loro posto se incontrassi un’altra civiltà cercherei di comunicare con loro, per dire “ehi, è qui la festa?”, ma finora non abbiamo ricevuto nessun tipo di comunicazione»
«E chi ti dice che non l’abbiano già fatto?» rispose Lucy. «Solo perché non abbiamo percepito niente non vuol dire che non ci abbiano provato a parlarci. È la solita fallacia dell’ignoranza. Dobbiamo sforzarci di ragionare fuori dai nostri schemi abituali»
«Concordo» si accodò Alexej.
Harshad odiava essere in minoranza. «E da quando in qua tu “concordi”? Dove hai imparato questa nuova parola?»
«Da uno dei libri di mio figlio. Sai, quelli con poche parole e tante figure». La risata stemperò la discussione. In realtà ognuno sapeva che l’unico motivo per cui si stavano prendendo in giro era per distrarsi dall’agitazione che si stava facendo strada dentro di loro.
Quando la risata si spense, la radio gracchiò « Nautilus, qui base. Siete quasi sull’anomalia, a circa milletrecento chilometri. Attivare la sonda alpha»
A rispondere fu Alexej. «Ricevuto base, attiviamo la sonda.» Si girò quindi verso Harshad e disse «Hash, tocca a te»
Nonostante fosse il più giovane del gruppo, quando arrivava il momento di fare le cose seriamente, quando “davano luce verde”, Harshad si rivelava molto più serio, affidabile e professionale di molti seriosi colleghi con centinaia di ore in più di missione sulle spalle. Lucy si accorse della metamorfosi quando, guardandolo da uno specchietto che le consentiva di avere una visuale alle sue spalle dell’intera cabina di comando, lo vide semplicemente fare un cenno di assenso verso Alexej ed uscire per andare a sistemare la sua sonda alpha. Una volta preso posto alla postazione, attivò il sistema di puntamento della sonda, che uscì dallo scafo da un’apertura sulla pancia dello shuttle e si posizionò senza problemi.
«Sonda in posizione» disse alla radio.
«Ricevuto Hash» rispose Alexej. «Attivazione sonda in tre, due, uno, ora.»
La spia di attivazione della sonda si accese sulla plancia di Alexej, ma subito dopo un’altra luce si accese accompagnata da un allarme sonoro. Alexej urlò «Merda, rotta di collisione con l’anomalia, meno di cento chilometri! Virare in direzione tre uno quattro.»
Lucy eseguì immediatamente, e l’allarme rientrò. «Rotta sgombra, procedi così» le disse Alexej.
«Maledizione, base!» ringhiò Lucy alla radio.
«Quando nel briefing avete parlato di “contatto” mi auguro che non vi riferiste ad un contatto fisico!»
La radio rispose impassibile «Nautilus, qui base. Non ci eravamo accorti che l’anomalia si fosse spostata. Nessuna reazione da parte dell'anomalia al vostro avvicinamento?»
«Nessun'attività» rispose Harshad consultando la strumentazione.
«Bene, continuate la scansione.»
«Certo, certo» sbottò Lucy, tenendo per sé le imprecazioni. «Ricordate di mantenervi ad una distanza media di duecentocinquanta chilometri dall’anomalia»
«Ricevuto, base»
«Bene» disse Alexej. «Vediamo come è fatto questo disco volante. Hash, dall’allarme di collisione immagino che la sonda funzioni bene, giusto?»
«Come sempre, il tuo acume mi lascia sbalordito, Alexej. In ogni caso, non mi sembra affatto un “disco”»
«Non dirmi che ha qualche forma oscena»
«È ancora presto. In ogni caso, ora sappiamo che c'è effettivamente qualcosa di fisico lì fuori. Voi limitatevi a girarci intorno senza farci schiantare.»
«Quindi è effettivamente un UFO?» chiese Lucy. «Pare proprio di sì.»

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Dopo una serie di rivoluzioni attorno all’anomalia, che ormai sia sul Nautilus che a terra veniva chiamata “astronave”, il computer di bordo fu in grado di elaborare un modello tridimensionale della sua superficie esterna. Ruotava lentamente sul monitor di Harshad, intento a studiarla per cercare di carpirne ogni minima informazione, ma quella si ostinava a rimanere in silenzio anche da quel punto di vista: la sua superficie sembrava un blocco unico di una lega sconosciuta dalla densità fuori dal comune, senza saldature né giunzioni, né tantomeno ad una struttura che suggerisse la presenza di un boccaporto. Quella che ne sembrava la parte anteriore era bassa e larga almeno una decina di chilometri, una cosa gigantesca. Procedendo posteriormente il profilo si muoveva inclinato, fino ad arrivare ad un apice oltre il quale l’oggetto terminava quasi di netto nella sua ipotetica parte posteriore. La sagoma era infine completata da una pancia grossomodo piatta. Ogni linea di quella sagoma sembrava dirigersi verso la sommità di quella specie di piramide asimmetrica. Dalla base, una volta ricevuti i dati, il Nautilus era stato messo in stand-by, in attesa di ordini per ulteriori analisi da compiere, ma dopo più di un’ora i tre erano sicuri che neanche i cervelloni a terra sapessero più che pesci prendere.
«Cosa si aspettavano» disse Harshad, «uno zerbino con la scritta “benvenuti” a caratteri cubitali alieni?»
«Almeno avremmo saputo dove bussare» disse Alexej.
«Ma, in fin dei conti, sarebbe convenuto bussare?» disse Lucy, pensando a voce alta.
Alexej fu sorpreso. «In che senso? Non vuoi vedere ET? Secondo me hai visto troppi film con alieni cattivi, e ora hai paura». 
La conversazione fu interrotta dalla radio. «Nautilus, qui base. La commissione non ha ancora raggiunto un accordo sul da farsi. Per il momento quindi la missione è sospesa. Rientro.»
«Ricevuto, base. Andiamo a preparare un cestino di benvenuto, da buoni vicini, e poi torniamo su». Lucy spense la radio ed avviò i propulsori per la manovra di rientro. «E, per la cronaca» disse distrattamente ad Alexej «certo che lo vorrei un contatto, ma…saremo pronti noi? Voglio dire, sappiamo così poco perfino del giardino di casa nostra, e ora vogliamo comunicare con una civiltà aliena? Ne saremo capaci?»
«Se non cominciamo non lo sapremo mai, non credi?» disse Harshad.
«E poi» intervenne Alexej «magari ci penseranno loro a comunicare con noi. Se sono arrivati fin qui saranno attrezzati anche per la comunicazione.»
«Uffa, mi sento una troglodita!»
«Beh, lo sei. Almeno rispetto ad ET qui fuori.»
«Piantala di chaimarlo ET, Alex!» lo rimproverò scherzosamente Lucy. «Spock ti piace di più?»
«Ancora peggio. Ne riparliamo dopo. Tutti i sistemi verificati e online, inizio la manovra di avvicinamento all’atmosfera». Tutto era pronto, stavano per rientrare. Lucy esitò un attimo prima di impugnare la cloche, attraversata, nonostante le perplessità esternate fino a quel momento, da un lampo di curiosità ed un pizzico di delusione per non essere andata oltre il girare attorno a quella cosa. “Sarà per la prossima volta” pensò. Fece forza delicatamente sulla cloche per piegarla, ma questa rimase ferma.
La navetta ebbe un leggero scossone, appena percettibile, e poi cominciò a muoversi, ma non nella direzione impostata da Lucy. Alexej le rivolse uno sguardo interrogativo. Che succede?»
«Non ne ho idea, i comandi non rispondono.»
La radio gracchiò «Nautilus, qui base. Siete fuori rotta di tredici gradi, in allontanamento».
«Base, qui Nautilus. I comandi sembrano non rispondere».
«Procedere all'attivazione del circuito ausiliario».
«Già provato, nessuna risposta».
Harshad fece capolino nella cabina. «Ehm, ragazzi...per caso abbiamo cambiato base di atterraggio?»
«che intendi?» chiese Alexej. «Intendo che stiamo andando verso l'anomalia».
«Prego?» disse Alexej sbarrando gli occhi.
«Già, e anche abbastanza velocemente».
Lucy, dopo un attimo di smarrimento tornò ad armeggiare convulsamente con i comandi della plancia. Com'era possibile, si disse: tutti i sistemi erano stati collaudati a terra e in volo in atmosfera, e costantemente monitorati durante la missione. Un loro malfunzionamento era a dir poco improbabile...almeno quanto un incontro con degli extraterrestri, aggiunse quasi senza pensarci. Nonostante i suoi sforzi e le indicazioni ad Alexej però, il Nautilus continuava la sua avanzata verso l'anomalia, che ora grazie ai dati raccolti da Harshad era visibile sul radar. «Che sia un campo di forza elettromagnetico generato dall'anomalia? potrebbe aver mandato in tilt la navigazione del Nautilus». «No, lo avremmo rilevato" rispose Harshad. «Fatto sta che sembra proprio...»
«…che ci stia attirando a sé» concluse Lucy, fissando lo spazio davanti a sé, che avrebbe dovuto essere occupato dall'anomalia, con occhi vuoti, sebbene la sua mente fosse affollata da una miriade di emozioni contrastanti che si urtavano in una reazione a catena emotiva senza fine. Dalla postazione di Harshad suonò un breve allarme e l'ingegnere consultò gli strumenti. Nella sua voce c'era panico. «Rilevata attività energetica e motoria proveniente dall'anomalia. Stanno facendo qualcosa». 
«Cosa?» 
«E io che ne so, mica sono un alieno!»
La radio si intromise nella conversazione. «Nautilus, che sta succedendo?»
«A quanto sembra, è l’anomalia ad aver mandato in avaria il sistema di navigazione. Ora le stiamo andando incontro, indipendentemente dalla nostra volontà. Ci stanno trascinando».
«Ascoltate, dovete assolu…»
La frase del responsabile missione venne spezzata dalla disattivazione della radio. Alexej si mise subito a lavoro per cercare di ripristinare le comunicazioni. Aprì il vano dei fusibili, ma una ventata di vapore bollente lo colpì in pieno volto. Urlò di dolore arretrando, e cadde a terra svenuto. Mentre i compagni lo soccorrevano, un altro allarme annunciava un altro picco di energia. Lucy, che stava passando una cassetta di pronto soccorso ad Harshad, istintivamente alzò lo sguardo verso la vetrata della cabina di pilotaggio, e il suo braccio rimase a mezz’aria dalla sorpresa quando, al posto di non vedere nulla, vide effettivamente qualcosa. 
Una stella era appena comparsa, dove prima c’era solo buio cosmico, come se qualcuno l’avesse accesa con un interruttore. Inizialmente era fissa, ma dopo qualche secondo iniziò a pulsare di un rosso sempre più intenso.
Lucy ne rimase ipnotizzata. Harshad, che non si era accorto di nulla mentre bendava le ustioni di Alexej, la vide immobile e le urlò: «Lucy, che stai facendo? Ho bisogno di te!»
Ma Lucy non rispondeva. Harshad aveva il volto insanguinato di Alexej tra le braccia e non sapeva come richiamare il suo pilota da quello che sembrava uno stato di catalessi. La vide schiudere appena le labbra e muoverle come a dire qualcosa. Subito dopo la nave fu strattonata violentemente in avanti e un fascio di luce rossa investì la cabina del Nautilus. Harshad chiuse gli occhi per il bagliore improvviso e lo spavento, e quando li riaprì vide che Lucy scuoteva la testa seduta davanti a lui. Caduta per il contraccolpo subito dalla nave, sembrava essere tornata in sè, infatti si girò subito verso Alexej e tornò ad aiutare Harshad a medicarlo. La plancia del Nautilus nel frattempo si era disattivata del tutto, e i motori si erano spenti. La cabina era illuminata dalle luci blu di emergenza, ma i due non ci badarono e rimasero concentrati sul compagno ferito. In due la medicazione fu più rapida.
«Si può sapere che ti è preso prima?»
«Di cosa parli? Mi sono distratta solo un attimo»
«Ma se sei rimasta un buon minuto a fissare qualcosa lì fuori!»
«Un minuto? Sarà stato qualche secondo appena, mi era sembrato di aver visto qualcosa…»
«Hai visto l’anomalia?»
«Non credo, sembrava più…una stella»
«Una stella?» Harshad poggiò delicatamente la testa di Alexej e si alzò per osservare lo spazio, ma quello che vide non gli piacque affatto.
Niente. Non c’era nulla. Non solo non c’era traccia della stella di cui aveva parlato Lucy, ma erano sparite anche tutte le altre, nè intorno c'era traccia di alcunché. Buio più totale.
«Ma che diavolo sta succedendo…?»
Lucy lo raggiunse alla plancia. «Cosa c’è?»
Harshad indicò il vetro. «Beh…niente!»

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Lucy si lasciò cadere sulla sua poltrona. Sembrava impossibile, assurdo…ma non poteva essere così, c’era sicuramente un’altra spiegazione. Eppure, nel momento stesso in cui quel pensiero le attraversò la mente, seppe che era quella la verità. «Forse so dove siamo» disse all’improvviso.
«Cioè?»
«Siamo nell’anomalia».
Attese che la notizia fosse assimilata da Hash, che la prendesse in considerazione. Dopo pochi secondi Lucy notò che aveva seriamente preso in considerazione la cosa. «E come lo sai?»
«Io…non lo so. Penso…se solo potessimo attivare i fari esterni lo vedremmo, ma a stento ora siamo in energia di emergenza»
«Senti, concordo anche io con i teorici della potenza dell’immaginazione, ma temo che qui ci sia bisogno di qualcosa in più di un pensiero»
«Io ho visto quella luce, ok?» disse stizzita Lucy, alzando la voce. «L’ho vista, e ho pensato che fosse l’anomalia che si aprisse».
«Quindi dici che è da lì che è venuto il fascio di luce?»
«Sì».
Harshad abbassò lo sguardo verso Alexej che giaceva ancora svenuto a terra. «Cosa facciamo allora?»
«Non lo so» rispose Lucy. «Direi di tentare di riparare la radio per cercare di comunicare con la Terra, ma oltre al fatto che dubito il segnale possa attraversare l’anomalia, non possiamo ripristinarla senza Alexej. Pensi che si potrebbe riprendere?»
«Non ne ho idea: l’ho medicato meglio che ho potuto, ma non so se riprenderà conoscenza tra cinque minuti o fra due ore…o mai».
Lucy poggiò i gomiti sulle gambe e raccolse la testa tra le mani, pensando. Poi alzò lo sguardo verso Harshad con convinzione quasi innaturale.
«Usciamo dal Nautilus»
«Hai bevuto? Devo saperlo»
«È l’unica opzione che abbiamo. Se rimaniamo qui, con la navigazione bloccata possiamo solo aspettare che l’ossigeno finisca. Scendendo invece possiamo cercare un modo per uscire da qui»
«E Alex?»
«Per ora è stabile, no? Sarà ancora qui quando torneremo»
«Non sono ancora sicuro che sia una buona idea. In tre magari sarebbe stato più sicuro»
«Lo so, ma purtroppo ci siamo solo noi due»
Lucy afferrò le spalle di Harshad e le strinse. «Ascolta Hash, se tu vuoi rimanere qui posso capirlo, e non ho intenzione di ordinarti di seguirmi. Sappi però che io sono sicura che la nostra strada sia fuori dal Nautilus. Non è una questione di fede, di una di quelle menate religiose, o di convinzione: io lo so. E vorrei che ci fossi anche tu con me. Allora, sei con me o no?»


Le tute di ultima generazione per le attività extraveicolari progettate appositamente per gli occupanti del Nautilus erano dei veri e propri computer da indossare, collegati al server principale della navetta, attivo nelle sue funzioni basilari anche con l'energia d'emergenza, dal quale potevano richiamare ed elaborare informazioni di ogni tipo, e nonostante il concentrato di tecnologia, erano estremamente comode da indossare, non più ingombranti di un giubbotto invernale. Nella camera di vestizione Harshad stava in piedi accanto alla porta della camera di decompressione, mentre aspettava che Lucy finisse di prepararsi. «Sei proprio sicura di quello che stiamo per fare?»
«No» rispose lei «ma non abbiamo alternative, lo sai».
«Già» disse a bassa voce l’ingegnere, chinando il capo sul casco che portava in mano.
Entrati nella camera di decompressione, indossarono i caschi ed avviarono la procedura di decompressione. Attivarono il collegamento con il Nautilus e verificarono che tutti i parametri delle tute fossero nella norma. Nessuno dei due parlava.
Finalmente il portello esterno silenziosamente si aprì.
«Luce» ordinò Lucy, e la torcia montata sul casco si accese. «Bene, andiamo»
Harshad le fece un cenno col capo e la seguì.
Il primo passo fuori dal Nautilus fu più rapido di quanto avrebbe voluto, come se stesse scendendo la solita scaletta di attracco. Il pavimento su cui poggiò lo scarpone era liscio e stranamente familiare, e la gravità era grossomodo la stessa della Terra. Lucy fece un profondo respiro e continuò a camminare guardandosi intorno.
Se quello era l’hangar dell’anomalia, sembrava del tutto in disuso: l’area infatti era completamente deserta. Non che si aspettasse un comitato d’accoglienza, ma le sembrava di essere immersa in una vasca di nera pece.
«Hash, situazione atmosferica?»
«Miscela di elementi leggeri, niente ossigeno»
Mentre Harshad continuava a fare analisi, Lucy si guardava intorno in cerca di un elemento qualsiasi che la aiutasse ad orientarsi, ma non riusciva ad intravedere neanche una parete. Tutto ciò che vedeva era buio. Compiuto un paio di volte il giro intorno al Nautilus si arrese all’idea che per recuperare un qualche genere di informazione avrebbero dovuto allontanarsene.
«Come faremo a tornare al Nautilus se dovessimo perderci? Non possiamo utilizzare l’antenna della navetta come faro, il sistema di emergenza ha attivato il segnale di soccorso e ha disattivato il resto. Non credo sia una buona idea». 
«Useremo un cavo: lo legheremo al Nautilus e lo svolgeremo mentre ci allontaniamo, basterà seguirlo per tornare indietro».
«Arianna ha decisamente fatto scuola» disse sorridendo Harshad.
Riuscirono a procurarsi dei cavi abbastanza lunghi legati tra loro per aumentarne il raggio d'azione e, una volta assicurata un’estremità ad un’appendice del Nautilus, si immersero nell'oscurità. Lucy camminava davanti ad Harshad, che portava in spalla il cavo da srotolare dietro di sé. Il tempo trascorse in modo impercettibile, fino a che la spia delle tute non segnalò che la riserva di ossigeno era al venti percento.
«Dobbiamo tornare indietro» disse Harshad.
«E poi?»
«Poi non lo so, cercheremo di inventarci qualcosa, ma almeno avremo aria da respirare».
«Non risolveremo niente rintanati lì dentro. È qui fuori che si trova la soluzione».
«Se sei così gentile da indicarmela allora, sarò ben lieto di seguirla, comandante».
Harshad ha deciso di non seguirmi più, pensò Lucy. L’ho perso. Se solo con loro ci fosse stato anche Alex, forse le avrebbe dato ascolto. Ma non poteva fermarsi ora, aveva bisogno di proseguire.
«Bene» disse quindi Lucy «tu torna indietro allora, io proseguo».
Harshad rispose quasi esasperato. «Ma prosegui…dove?»
«Se torniamo indietro avremo solo sprecato ossigeno inutilmente. Da qualche parte saremo entrati, no? Quindi da qualche parte ci sarà anche l’uscita».
«Ok, tu chiaramente non stai bene. Dovrò riportarti sul Nautilus a forza. Assumo io il comando».
«Assumi quello che ti pare, ma non azzardarti a toccarmi». Il dito che Harshad si trovò puntato contro lasciava poco spazio a dubbi sulla volontà di Lucy.
«Va bene» scrollò le spalle dolorosamente Harshad «se proprio vuoi andare a morire, vai».
Lucy vide nei suoi occhi tutto il dolore di una persona che perdeva qualcuno che gli stava davvero a cuore. «Solo...cerca di rimanere in contatto radio, potrei sempre esserti utile anche da lì, almeno finché le batterie dei caschi reggeranno»
«Certo» gli sorrise debolmente e, quasi a giustificarsi, aggiunse «Hash, io devo andare, lo capisci?»
«Veramente, no» rispose lui con un moto di pietà, in un ultimo disperato tentativo di riuscire a convincerla con il rimorso.
«Già…altrimenti verresti con me». Nonostante sentisse un pizzico di involontaria delusione nel suo tono di voce, Lucy non si pentì di quelle parole.
«Bene, allora…ti aspetto alla navetta» disse Harshad, prima di affidarle quello che restava del cavo che avrebe dovuto aiutarla a tornare indietro, se avesse ancora avuto ossigeno.
«Ok, a dopo». Lucy tentò un sorriso che si infranse nello sguardo rassegnato di Harshad mentre si voltava per seguire il suo filo di Arianna. La luce del casco si affievolì sempre di più fino a sparire, ma Lucy non si mosse finché non lo vide uscire anche dal raggio d’azione del suo piccolo radar piazzato sull’avambraccio della tuta. Quando il segnale del trasmettitore di Harshad sparì, Lucy alzò gli occhi verso l’oscurità e realizzò che, nel buio di un remoto luogo sconosciuto, era completamente, definitivamente sola.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Potevano essere passati minuti, oppure ore, ma per Lucy non avrebbe fatto differenza, visto che da quando aveva salutato Harshad il paesaggio non era cambiato. La cognizione del tempo era diventato un optional di cui si era involontariamente disfatta appena uscita dal Nautilus. Quello di cui invece non poteva fare a meno era l’ossigeno, ed era proprio quello di cui più aveva bisogno: le rimanevano pochi minuti d’aria, ma procedeva ancora nella direzione opposta a quella in cui il cavo che si lasciava alle spalle sprofondava nel buio. Una parte di sé si stava convincendo che ormai fosse diventata una questione di principio, che dovesse per forza trovare un’uscita, o in ogni caso qualcosa che non fosse il nulla, giacché la sua mente si rifiutava di credere che a quello spazio non ci fosse fine. Si rifiutava di cedere all’idea che quella che aveva scambiato per conoscenza in realtà fosse quello che lei pensava non essere, cioè fede. La fede era fatta per le chiese e per i film di avventura, si disse. Quelli in cui quando la situazione era critica arrivava il “deus ex machina” a risolvere tutto. Era così dai tempi della tragedia greca, ma quella volta non sarebbe andata così: lei avrebbe trovato la soluzione a questo dilemma con le sue forze. Si appellava alla sua razionalità ricordando le dimensioni dell'anomalia raccolte tramite la sonda alpha: ricordava che non doveva essere più larga di una decina di chilometri, e il cavo che avevano raccolto arrivava a poco meno della metà, quindi a meno che non fossero atterrati giusto al centro dell'anomalia, la spiegazione più logica era che si stava allontanando dall'estremità più vicina dell'anomalia. Devo smetterla di chiamarla "anomalia", si disse. Ci sto camminando dentro, direi che posso tranquillamente chiamarla astronave.
Il suo flusso di penseri fu interrotto dalla radio che si attivò per un segnale in ingresso.
«Lucy, ci sei?». La voce di Harshad era allarmata.
«Sì, dimmi»
«Abbiamo un problema: la nave è sparita»
«Non può essere!»
«Fidati, è così. e ti dirò di più: è stata portata via»
«E come lo sai?»
«Lo so perché il cavo che avevamo legato non è tagliato, è stato sfilato via»
«Maledizione! Sto tornando indietro, resta vicino al cavo» disse Lucy buttando a terra quello che restava del cavo e correndo seguendo il cavo a terra.
La sua testa dopo poco cominciò a girare. All'inizio pensò che fosse per la paura, ma nell'agitazione aveva perso di vista l'indicatore dell'ossigeno che continuava a scendere, complice la corsa che le aveva consumato rapidamente l'ossigeno residuo.  Dopo i giramenti di testa comparvero dei segni di annebbiamento alla vista, che uniti alla stanchezza e al fiatone la fecero rallentare fino a boccheggiare con le mani poggiate sulle ginocchia.
«Lucy, sei ancora lì?»
«Più o meno»
«Non mi piace come respiri. Come stai messa con l'ossigeno?»
«Mal...male...»
«Ascolta, cerca di rimanere sveglia, ok? Sto venendo a prenderti»
«No, fermo...resta...dove sei...non consumare aria...»
«A che mi serve l'aria se resto da solo in questo posto? Sto arrivando, resisti...ascolta...voce...»
Lucy aveva la sensazione che Harshad le stesse dicendo qualcosa, ma lei lo sentiva distante, come se le stesse parlando dall'altra parte di un grande salone. Lentamente cadde in ginocchio e si lasciò andare a terra ormai sconfitta.
Avrebbe tanto voluto vedere qualcosa in più, capire cosa fosse quell'oggetto così strano in cui si erano imbattuti. Invece sarebbe morta su quel pavimento freddo, anonimo, insensibile ai suoi sogni e desideri. Attraverso gli occhi chiusi le parve di vedere una luce. Forse è Harshad che è arrivato ad aiutarmi, pensò. Forse non sto per morire...oppure è proprio questo il segno che sto per morire, la famosa "luce" che molti dicono di vedere. In fondo, anche questa sarebbe una grande avventura. L'ombra attraverso le palpebre cominciò a muoversi su e giù, e Lucy aprì gli occhi per osservarla. Ma non era una luce, bensì una porta.
Finalmente l'aveva trovata, proprio ora che non aveva la forza di raggiungerla. Cercò disperatamente di trascinarvisi aiutandosi con le braccia, ma quel varco sembrava irraggiungibile. Allungò una mano in cerca di un appiglio inesistente e, volgendo lo sguardo verso le lame di luce che uscivano dai contorni della porta e oscillavano ritmicamente, si accorse che stava piangendo. Non voleva morire. Chiese aiuto, e lo fece con l'ultimo filo di voce che le rimase, poi poggiò la testa a terra.
Ma non fu quella la sua fine.
Stordita dalla mancanza di ossigeno, riuscì a malapena a percepire il suo corpo che veniva sollevato da terra. Con uno sforzo immane aprì gli occhi e vide la porta aprirsi lentamente. Sopra di lei una figura con addosso la tuta del Nautilus guardava fisso davanti a sè, oltre la porta. Il suo viso non era riconoscibile, e anche se Lucy sperò che fosse Harshad, non riusciva a crederlo. Perse i sensi con una domanda in più in testa.


Lucy sognò. O almeno, credette di sognare. Vedeva delle pareti, vicine a lei, o almeno credeva di vederle. Una stanza, molto stretta. La sensazione di salire. Forse era in un ascensore. Lo sperava, perché significava che si stava muovendo in una direzione, anche se non sapeva quale, e questo in qualche modo la confortava. Pensò che quella doveva essere la sensazione che provavano i feti nel grembo materno prima di nascere. Allungò il braccio per cercare di toccare quella parete, ma non ci riuscì. Le sembrava di essere completamente immobile, così si guardò le mani. Ma non le trovò. Al posto delle mani, il nulla. Non c'erano, come non c'era il resto del suo corpo. Era lì, a stento riusciva a percepire la sua pelle, ma non la vedeva. Si sentiva nuda, ma per nulla in imbarazzo, né allarmata per quella scoperta. L'unica cosa che le interessava ora era sapere, ancor più di dove fosse o cosa le fosse successo, perché era così tranquilla, come se fosse già pronta a quell'evento.
Lucy...
Il bagliore intorno a lei cominciò lentamente a scemare.
Lucy...
«Chi parla?»
Guardami...
«Non ti vedo, e non vedo neanche me stessa»
Sono proprio accanto a te...
«Dove?»
Qui...
Si sentì toccare sulla spalla, e in un battito di ciglia era tornato il buio, quell'odiosa cappa di oscurità che le nascondeva la realtà. Non in modo dissimile da quanto faceva la luce purtroppo.
Istintivamente Lucy cercò di girarsi, e si sorprese nel sentirsi di nuovo normale. I suoi sensi erano tornati attivi a pieno regime, e aveva ripreso completamente possesso del suo corpo. Riusciva ora a vedersi addosso la tuta del Nautilus, anche se le mancava il casco.
«Non sembri agitata»
Ora riconosceva quella voce, ma stentava a crederci.
«A...Alex?»
Alexej stava davanti a lei, completo di tuta spaziale, con un'aria di sicurezza da fare invidia al più navigato degli showman sul palcoscenico.
«Chi ti aspettavi, ET?»
«Piantala»
«Scusa. Cercavo di rompere il ghiaccio. Io al posto tuo ero molto nervoso prima»
«Non è colpa tua, sono io ad essere strana»
«Lo vedo, ma in fondo non così tanto quanto credi. In fondo, non sei sola qui»
«Già, per fortuna». Mentre parlava, Lucy si guardava intorno, mentre Alexej la guardava fisso, in attesa forse di qualche sua reazione o domanda particolare. Avendolo notato, decise di accontentarlo.
«Alex, cosa ci è successo?»
«Una cosa stupenda: ci hanno portati via»
«Via? Dove?»
«Ora lo vedremo, ci hanno detto di attendere»
«Hanno detto...chi? E perché noi?»
«Quante domande. Non sono mica una guida turistica io»
«Ma tu eri svenuto sul Nautilus, e Hash...»
«Hash non ce l'ha fatta»
La voce di Lucy le si strozzò in gola. Chiuse le labbra e chinò il capo sospirando.
«Non è colpa tua» disse Alexej. «E di chi allora? Ero io la responsabile».
Alexej scosse le spalle. «Beh, sua»
Lucy non ebbe la forza di replicare perché, vergognandosi per quello che istintivamente per un attimo aveva pensato, lo pensava anche lei.
«Guarda» le disse Alexej «Sta cominciando». Indicava verso l'alto, e Lucy alzò la testa.
Nel buio del nulla tre stelle erano comparse, disposte a formare un triangolo. Sembravano avvicinarsi. Ma non erano stelle normali, perché al loro crescere, cambiarono colore e crebbero di dimensione.
«Sono supernove?» chiese Lucy.
«Sì. Che ne pensi?»
«Sono...meravigliose» rispose, anche se le sembrava estremamente riduttivo. Le tre supernove pulsavano dolcemente e ritmicamente, in un silenzioso ballo cosmico ipnotico.
«Cosa sappiamo di quelle stelle?»
«Nulla» rispose Alexej. «Non ci sono sulle nostre carte, non le avevamo ancora scoperte»
«...e ora stanno per morire, prima ancora che noi ne scopriamo la nascita»
«Non noi, la Terra: noi ora le conosciamo»
«Tra quanto la loro luce arriverà sulla Terra?»
«Qualche migliaio di anni»
Lucy sbarrò gli occhi. «Siamo così lontani?»
«Già. Non chiedermi come ci siamo arrivati, non mi è stato detto niente»
Lucy rimase a fissare quelle tre stelle così brillanti. «Così...li hai visti?»
«Eh, magari. Non ci ho capito molto in realtà. Quando mi sono svegliato però ero già qui accanto a te. Hanno detto che avrei dovuto farti compagnia»
«Per cosa?»
La risposta le arrivò subito dopo. Le tre stelle fermarono le loro pulsazioni e divennero piccolissime, quasi irriconoscibili, per poi esplodere contemporaneamente in un fascio di luce bianca di una potenza inaudita. Il contrasto di quella enorme esplosione col silenzio del vuoto intorno a Lucy fu terrificante. Alexej e Lucy ripararono gli occhi dalla luce accecante, e quando il bagliore svanì osservarono ciò che era rimasto delle stelle esplose.
Ognuna delle stelle aveva formato con le sue nubi di gas dei bracci che andavano ad unirsi a quelli delle due compagne, a formare un vortice caleidoscopico di colori che roteava lentamente intorno al proprio asse, e tutte insieme intorno ad un punto centrale, che irradiava una luce soffusa. Lucy tese un braccio come a cercare di sfiorare quell'opera di magnificenza, ma si fermò per paura di riuscire davvero a toccarla e interferire con quella danza così delicata. Non avrebbe mai potuto interromperla, ma ora che aveva visto qualcosa di così sconvolgente, sentiva che non sarebbe più riuscita a farne a meno.
Sorrise, e pianse di gioia. «È così bella...»
«Vero» disse Alexej. «Non vedremo mai niente di più bello, non sulla Terra almeno»
«Alex...» Lucy esitò. «Tranquilla» la interruppe Alexej «è per quello che stai pensando ora che siamo qui».
Lucy gli sorrise. Finalmente sapeva.
Chiuse gli occhi e si fece abbracciare dalla Nova.

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