Seblaine Sunday(s)

di Medea00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** But you still have all of me ***
Capitolo 2: *** Tale madre, tale figlio ***
Capitolo 3: *** To Zanarkand ***
Capitolo 4: *** Leggere tra le righe ***
Capitolo 5: *** Stregato ***
Capitolo 6: *** North and South (I) ***
Capitolo 7: *** North and South (II) ***
Capitolo 8: *** Iblaine ***
Capitolo 9: *** Come in Grey's ***
Capitolo 10: *** Scommettiamo? ***
Capitolo 11: *** Legge di Cul-Coulomb ***
Capitolo 12: *** Indizi ***



Capitolo 1
*** But you still have all of me ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events.







Vampiri.
Mai avrebbe creduto nell’esistenza di simili bestie.
Cupi cacciatori privati della loro stessa vita. Meri corpi bianchi e freddi che non sentivano nulla all’infuori del caldo sangue umano. Ogni sensazione, ogni sentimento, era morto insieme alla loro parte umana.
I loro occhi erano glaciali, macchiati di colori splendenti come il cristallo, accompagnavano un sorriso brillante, effimero; si potevano scorgere, rinchiusi come in una trincea, i due canini appuntiti e leggermente affilati, pronti ad azzannare qualunque essere del quale percepissero l’odore.
Menti brillanti, scaltri, praticamente indistruttibili, col tempo apprese che le uniche cose efficaci contro di loro erano la luce del sole e il legno di Frassino, ma comunque era quasi impossibile coglierli di sorpresa; oltretutto, col passare dei secoli, la loro forza e furbizia aumentavano considerevolmente.
C’erano delle voci che parlavano di qualche casata, o di una sorta di congregazione, nella quale si riunivano per formare una grande famiglia e, chissà, organizzare danze e balletti mentre conversavano amabilmente dell’ultima vita umana da cui avevano succhiato la loro linfa vitale.
Li odiava ancora prima di conoscerli, e quando questo accadde, la sua ira fino ad allora repressa era scoppiata come un lampo che dilania le nuvole e piomba sul terreno.
Era notte fonda.
Sebastian si era recato nel bosco seguendo la scia suggeritagli quando, ad un tratto, percepì un rumore sinistro tra gli alberi, e un odore: l’aveva sentito altre volte, era pesante ed insopportabile, acido, quasi marcio, di carne putrefatta e di morte.
Pensò subito a un qualche cadavere e si precipitò verso l’origine, quanto più velocemente le sue gambe umane lo consentissero.
Non fu il cadavere steso a terra a sorprenderlo: fu il cadavere che era in piedi.
Un ragazzo, apparentemente sulla ventina, gli occhi dorati, si ergeva dinanzi a lui con disinvoltura, e con altrettanta naturalezza si leccava le dita sporche di quello che in pochi attimi riconobbe essere sangue.
 
 
 
 
Sebastian Smythe aveva dieci anni quando venne a conoscenza dell’esistenza dei vampiri.
Era il millenovecentonovantanove, Parigi era nel pieno dei festeggiamenti, la città aveva abbandonato la routine di lavoro e monotonia in favore di cene, petardi, fuochi d’artificio e famiglie che festeggiavano felici.
Era la notte di capodanno.
Indossava un maglione confezionatogli dalla zia, un regalo di Natale, uno dei pochi che apprezzasse davvero. Era solo un bambino. L’unico suo pensiero era passare il test per l’ammissione al Junior Club di football locale. Non avrebbe mai pensato che quel giorno sarebbe diventato orfano.
Lo vide soltanto per un attimo; i suoi lunghi capelli biondi erano macchiati di sangue, insieme alle mani e a gran parte del viso. Il signore e la signore Smythe giacevano sul tappeto della loro casa, immobili, la vita che stava scivolando via dai loro corpi sempre più velocemente. Il camino accanto a loro bruciava scoppiettante, un elemento dal quale quell’essere sembrava tenersi a debita distanza; sopra di esso, erano ancora appese le calze piene di dolci in attesa del giorno della Befana.
Fuori dalla finestra la neve ammorbidiva le strade e si potevano udire i fuochi d’artificio in lontananza.
“Felice anno nuovo, l’inizio di un nuovo millennio”, Esclamava il conduttore della televisione, accesa a un angolo della stanza. “Vi auguro di realizzare tutti i vostri desideri.”
Sebastian non riusciva a fare niente. Il suo corpo era come paralizzato. Il vampiro lo guardò, e chissà per quale assurdo pensiero, forse per sazietà, forse per compassione, decise di risparmiargli la vita.
La scelta più sbagliata che potesse fare.
Quel bambino di dieci anni espresse un solo desiderio, mentre accarezzava i capelli della madre e i suoi pantaloni di ciniglia si macchiavano di rosso cremisi.
Avrebbe ottenuto la sua vendetta. A costo di impiegarci tutto il secolo successivo.
 
 
 
La prima volta che lo rivide fu in un altro continente, dodici anni dopo. Aveva attraversato l’oceano per trovarlo, ma alla fine era lì: il suo primo pensiero fu che quel mostro fosse tremendamente sensuale. Capelli biondi e ondulati; corpo freddo e perfetto. Più bello di tutti gli altri vampiri incontrati fino ad allora. Dopotutto era quella la loro carta vincente, no? Il fascino. E pensò che anche lui lo sapesse, oh, lo sapeva bene: tentò di sedurlo. Si avvicinò a lui, con un sorriso sghembo, gli occhi azzurri che fremevano per la carne, e a Sebastian venne quasi da ridere.
Non si ricordava di averlo già incontrato, dieci anni prima. Non si ricordava di quel bambino che aveva risparmiato, nel giorno della fine del mondo.
Nell’esatto momento in cui aveva estratto i canini scintillanti, gli conficcò un paletto nel cuore. E poi ancora. E ancora, e ancora.
Lo vide dissanguarsi sotto di sè, con l’adrenalina che gli scorreva lungo le gambe, le dita che formicolavano di eccitazione mentre stringevano il legno macchiato di sangue.
Lo osservò morire con un ghigno sulle labbra.
 
 
 
 
Era passato un po’ di tempo dalla sua ultima caccia. Un mese, forse di più. Sebastian si aggiustò il colletto del giubbotto e si rassettò i jeans con un gesto rapido, per poi scendere dalla macchina sbattendo la porta con fermezza. Era un vecchio modello, Mercedes classe ottantanove, di suo padre. Si soffermò per un momento a guardarla: era ridotta un po' male. Un giorno o l'altro avrebbe dovuto dedicarle un po' di tempo per cambiare l'olio, le gomme e pulirla da cima a fondo; ma non aveva mai tempo per pensare a certe cose.
Osservò il luogo, oscurato dalle lunghe cime degli alberi, ed emise un sospiro quasi compiaciuto. Quale posto migliore, se non quello di una foresta isolata, per togliere la vita a qualche povero disgraziato?
Mentre si addentrava nella selva cercò di pensare a Nick Duval. La prima immagine che gli venne in mente fu lui, sempre con il sorriso, che aiutava Jeff con qualche omicidio misterioso; ovviamente, riguardava qualche vampiro. Era stato un grande cacciatore, uno dei migliori. La telefonata in lacrime di Jeff lo aveva davvero colpito: lo aveva chiamato nel bel mezzo della notte, stavano lavorando ad un caso, avevano seguito due piste diverse, ma Nick quel giorno non era tornato a casa.
Jeff nutriva ancora la speranza che fosse vivo, magari disperso, da qualche parte; Sebastian, invece, non vantava del suo stesso ottimismo.
Aveva sempre pensato che sarebbe stato lui il primo ad andarsene, quello da seppellire. Forse perchè ormai faceva quel lavoro da quindici anni ormai, con una lista di vampiri uccisi che superava la settantina, e per quel motivo mezzo continente desiderava la sua testa.
Doveva essere lui a morire. Questo fu quello che pensò, quando Jeff aveva riattaccato al telefono, senza più nemmeno la forza di chiedergli aiuto. Nick e Jeff stavano insieme da tanti anni, erano destinati a una vita felice; mentre lui, invece, non aveva più nessuno che avrebbe pianto per la sua mancanza.
Finalmente trovò il corpo, a qualche miglio da dove aveva parcheggiato. Forse era la lontananza, il non vedersi per lunghi periodi, il suo stile di vita fatto di hotel, solitudine e uccisioni, fatto sta che ad un primo impatto non riconobbe Nick Duval: non sembrava lui. Era dimagrito molto, il corpo esile e bianco come la neve. Avrebbe giurato di non riconoscerlo, se poi non avesse notato qualche connotato del viso a lui familiare, tipo i lineamenti delicati e i capelli castani. Fece una smorfia, vedendolo da più vicino: sul suo collo, due fori ravvicinati, perfettamente concentrici e puliti. Era stata una morte rapida e pulita. Aveva come l'impressione che tutte le persone vicine a lui fossero maledette e, dopo tanti anni, che il suo cuore vacillò. Non era certo la prima volta che ritrovava un corpo completamente esangue, ma quello era Nick, il suo collega. Il suo amico. Il suo stomaco si strinse e lui in risposta serrò i denti, assumendo una smorfia.
Quel vampiro lo avrebbe ucciso gustandosi ogni suo spasmo con estremo piacere.
Con un gesto della mano abbassò le palpebre sugli occhi vitrei, prima di sentire un rumore insolito.
Si fermò di scatto, accovacciandosi, nascondendosi fra le siepi, afferrando il paletto che teneva riparato nel giubbotto di pelle marrone.
Un vampiro. Un vampiro molto giovane, pergiunta. O almeno esteticamente: chissà quanti anni avesse, quell’essere senz’anima. I capelli erano neri e riccioli, di un taglio che non si usava più; il vento li scompigliava freneticamente, ma non sembrava curarsene. Non era molto alto, probabilmente gli arrivava alla spalla, e aveva appena finito di leccarsi la mano di un sangue caldo e invitante. Indossava dei semplici pantaloni e una camicia chiara, perfettamente immacolata. Ai suoi piedi, un altro corpo, un’altra vittima.
Ed eccolo, l'assassino, pronto a finire la sua opera, pronto a portare i corpi chissà dove, così da eliminare ogni sua traccia. Non gliel'avrebbe permesso.
Attese qualche secondo, riflettendo. Sarebbe stato facile coglierlo di sorpresa e pugnalarlo all’altezza del cuore. Di certo la prestanza fisica non gli mancava.
Tuttavia... il suo desiderio di vendetta andava oltre la semplice vittoria personale. Voleva trovarli tutti: voleva sterminarli.
E per farlo, aveva bisogno di sapere dove si nascondessero.
Si alzò in piedi, nascondendo il paletto e afferrando qualcos’altro dentro la tasca esterna, avvicinandosi a lui con passo deciso.
“Ehi.” Lo chiamò. Il suo tono non apparve dei più cordiali, ma non poteva fare di meglio. “Allontanati da lui.” Intimò, indicando con un cenno del capo il corpo ormai privo di vita.
Quando si voltò, i suoi occhi lo colpirono come se avesse appena guardato il sole.
Lo vide avanzare verso di lui, ma niente di più. Era troppo buio, troppo ventilato e, soprattutto, troppo disorientato, per poter ragionare con lucidità: si sentiva come assuefatto dopo una lunghissima corsa, come sotto l’incantesimo di un prestigiatore, l’afrodisiaco generato dai suoi occhi e dal suo sorriso caldo e gentile.
Era il potere dei vampiri, lo sapeva bene: tuttavia, adesso era come amplificato a livelli mai provati prima. E quel ragazzo sembrava così tranquillo e sereno, all’apparenza.
L’unica cosa che riusciva ad osservare con cura erano i suoi capelli folti e riccioli, che danzavano insieme alla brezza, e il suo corpo compatto, bellissimo, armonioso e sensuale.
Ma non era niente, in confronto alla sua voce.
“È una minaccia, per caso?”
Un angolo della bocca si incurvò in un sorriso mentre avanzava sempre più lentamente, e Sebastian si trovò ad indietreggiare di un passo, accentuando la vista, scrutandolo. Provocò un rumore infossato dovuto all’impatto dei suoi scarponcini contro il terreno umido.
“Non mi sembri molto minaccioso.”
“Nemmeno tu. Ho ucciso vampiri grossi il doppio di te”, Ribattè lui, ed era vero: con i suoi lineamenti dolci e la sua voce melliflua, non sembrava affatto un assassino spaventoso.
“Ma io non voglio ucciderti.”
Sebastian sussultò, con un’espressione cinica: “Non hai più fame?”
Cogliendo il riferimento, il vampiro voltò la testa verso il cadavere alle sue spalle, scuotendola appena: “Quando sono arrivato era già in fin di vita e soffriva molto. Gli ho fatto un favore.”
“Oh, certo. Immagino che ti abbia ringraziato quando hai finito, vero?”
“Non li ho uccisi io.”
E Sebastian si stupì del fatto che avesse menzionato anche Nick, ma non fece in tempo a trovare una risposta repentina che il vampiro aggiunse: “Ma la vera domanda che mi pongo è: perché tu non mi hai ancora ucciso?”
Sfoggiò un sorriso divertito e Sebastian restò in silenzio, attonito, nell’osservare quel ragazzo dal fascino indescrivibile. Lo osservava di rimando, con i suoi occhi ambrati, e lui sentì una sensazione di vuoto. Come se riuscisse a leggergli la mente. Come se fosse un semplice cacciatore alle prime armi, nelle sue mani, pronto per essere schiacciato come un moscerino fastidioso.
“Chi ti dice che voglia ucciderti?” Tentò, mentre la sua mente elaborava una strategia d’attacco. Il vampiro inarcò un sopracciglio e sospirò annoiato: “Mi credi così stupido? Se tu fossi un umano qualunque saresti già scappato urlando. Quindi, sei un cacciatore. Quindi, ancora non capisco perchè non mi hai fatto fuori.”
“Forse voglio tenderti una trappola.” Sebastian fece un passo in avanti, le mani in tasca e un sorriso sghembo, e in quel momento vide il ragazzo trasalire, come colto alla sprovvista. “Come sarebbe a dire?”
Buffo. Se solo non fosse stato bianco come un cadavere, avrebbe giurato di vederlo arrossire.
“Forse non ti voglio uccidere...” Si fece sempre più vicino, stavolta non aveva nessuna esitazione nell’eliminare la distanza tra di loro, quella tensione che aumentava il battito del suo cuore e il ritmo dei suoi respiri. “Forse voglio che tu mi morda, bevendo tutto il mio sangue.”
Gli occhi del ragazzo lo guardarono sorpresi, carichi di desiderio, di lussuria.
“Non tentarmi”, Lo minacciò, ma la sua voce era flebile, il suo corpo, con grande sorpresa del cacciatore, si ritrasse, quasi spaventato.
Non aveva mai visto un vampiro reagire così; si complimentò con se stesso per aver ribaltato in modo tanto abile la situazione.
“Che problema c’è?” Lo incitò ancora, estraendo le mani dalle tasche, strette a pugno, e allargò le braccia verso di lui. “Non ti piace quello che vedi?”
Il vampiro deglutì più volte, l’oro dei suoi occhi era scomparso quasi del tutto in favore di un castano scuro e famelico; a quanto pareva era vero che non li avesse uccisi lui, altrimenti sarebbe stato sazio. Dal suo comportamento, invece, si intuiva che non si cibasse da troppo tempo, e Sebastian era davvero troppo invitante. Gli cinse la vita con entrambe le braccia, e adesso il suo collo era proprio all’altezza delle sue labbra.
“Un solo morso”, Sussurrò contro al suo orecchio, soffiandoci sopra con il suo respiro umano, caldo, eccitante.
Tutto ciò che avvertì furono i canini del vampiro dentro di sè. Poi ci fu disorientamento, passione, desiderio e un terribile piacere; la pelle che si accapponava pervasa dai brividi, il respiro corto, il cuore che pulsava sempre di più. La sua vista si annebbiò per un secondo e fu come un orgasmo, i denti del vampiro lo stavano marchiando con forza e una parte di sè desiderò arrendersi a lui, lasciarsi andare e i gemiti, i gemiti che in quel momento desiderava emettere con voce roca e spezzata dal desiderio.
Era un atto più intimo di un bacio e molto più intenso di un amplesso.
Ma poi, Sebastian riuscì a sollevare la camicia del vampiro e lo sentì rabbrividire, ma era troppo preso dal suo sangue caldo per accorgersene veramente; con la mano ancora stretta a pugno, conficcò una siringa nella sua pelle fredda e, finalmente, si staccò da lui.
Lo guardò; come se avesse saputo sin da subito quello che aveva intenzione di fare, ma non era riuscito a resistere lo stesso.
Quando si accasciò tra le sue braccia, perdendo conoscenza, Sebastian lo resse con un braccio, mentre con l’altro andò a coprire la ferita sul collo che cominciava a pulsare.
La siringa di sangue di uomo morto giaceva a terra tra le foglie, a pochi passi dal cadavere.
 
 


 
 
 
Quando il vampiro si svegliò, come prima cosa cercò di capire dove si trovasse.
Era in una grande stanza di lusso, con tappeti persiani e quadri di natura morta appesi per tutte le pareti; per ironia della sorte, queste aveva un color rosso scuro, tendente al cremisi.
Si guardò intorno, ma i suoi occhi bruciavano ancora terribilmente a causa del veleno inflittogli qualche ora prima; come riflesso istintivo fece per strofinarseli, ma le sue mani erano pressate tra di loro con grosse catene di argento, dietro la sua schiena.
Era seduto in malo modo su una sedia di almeno dieci anni, lontano da porte, finestre e qualsiasi oggetto nel raggio di tre metri.
Quando riuscì a mettere a fuoco, tossendo più e più volte per il veleno ancora in circolo, identificò il cacciatore di vampiri appoggiato a una cassettiera.
“Credevo saresti morto. Sarebbe stata una bella seccatura.”
“Vai al diavolo”, Sbottò con veemenza, e Sebastian allora si lasciò andare a una risata liberatoria.
“Non siamo più così terrificanti, eh? Non con delle catene di argento e il veleno di uomo morto in circolo. Dicono che è come ingerire venti pasticche di LSD tutte insieme, è così? E per quanto durerà questo stato di overdose? Uno, due giorni?”
Il vampiro non rispose, limitandosi a guardarlo torvo da sotto le ciglia folte. Si divincolò cercando di liberarsi dalle catene, ma era troppo indebolito e l’argento puro bruciava come se fosse ferro rovente.
Sebastian osservò i suoi tentativi fallimentari con un certo compiacimento, ghignando e incrociando le braccia al petto.
“Si può sapere che vuoi da me?!” Lo sentì esclamare dopo almeno un’ora di esasperazione.
“Piano, piano, abbiamo un sacco di tempo. Davvero un sacco: tu sei immortale, giusto? E io non ho impegni per il week-end, quindi non abbiamo fretta. Iniziamo con le presentazioni: mi chiamo Sebastian Smythe, e di professione vi uccido.”
Il vampiro continuò a divincolarsi, sbuffando di tanto in tanto, senza dare alcuna risposta verbale.
“Allora?” Lo incitò, dopo qualche minuto. “Non mi dici come ti chiami?”
“Che ti importa?” Ringhiò.
“Mi piace sapere il nome dei succhiasangue che uccido. Così li segno in un taccuino e me li rileggo prima di andare a dormire.”
Il vampiro sembrò esterrefatto da quelle parole, lo fissò incredulo per diverso tempo, prima di maledirlo con lo sguardo e sforzarsi così tanto da rischiare di cadere dalla sedia.
“Se cadi non ti rialzo”, Lo avvisò subito. “E dimmi subito il tuo nome, se non vuoi un’altra iniezione di sangue.”
Restò a fissare il pavimento per diverso tempo, fino a quando la sua voce non uscì in un sussurro breve e timido: “Blaine. Blaine Anderson.”
Sebastian si avvicinò a lui e sorrise: “Mi piace. Te lo sei inventato per sentirti meno un mostro, o ti chiamavi così quando avevi ancora un cuore che batteva?”
“Dovevo lasciarti senza una goccia di sangue”, Rispose acido.
“Ma non l’hai fatto. A dire il vero, non mi ha dato fastidio come pensavo. Era la prima volta che mi facevo mordere, sai? Di solito non ricorrro a questi stratagemmi odiosi, mi piace conficcarvi un paletto dritto in mezzo al cuore.”
“E allora fallo.” Esclamò. “Uccidimi, e falla finita.”
“Oh, ma così è troppo facile. No, ho grandi progetti per noi due.”
Si accovacciò a un centimetro dal suo volto, con i canini del vampiro che scintillavano sotto la luce dei faretti sul soffitto.
“Sei un sadico”, Sibilò.
“Disse quello che mi ha succhiato il sangue.”
Si guardarono per un tempo indefinito, dopodichè Sebastian si alzò in piedi, facendogli l’occhiolino prima di dargli le spalle.
“Lo sai, se tu fossi stato umano, ci avrei fatto un pensierino.”
“Grazie a Dio che non lo sono allora.”
Sebastian si sorprese a sfoggiare un sorrisetto divertito, mentre con una mano andava ad accarezzarsi la fasciatura posta sul collo. Al solo pensiero di quel morso le ginocchia cominciavano a tremare ed era un’attrazione ancora più forte di prima, come se aumentasse sempre di più, minuto dopo minuto; ma con forza scacciò via quei pensieri: adesso, doveva concentrarsi solo ed unicamente sul suo obiettivo.
 
 
 
I primi tentativi di farlo parlare furono del tutto inutili.
Sebastian aveva portato una sedia proprio davanti a lui ed erano rimasti così per ore, a battibeccarsi tra risposte acide e frecciatine più o meno velate, con Blaine che a volte lo minacciava di morte, a volte lo insultava, altre volte invece si limitava a guardarlo in silenzio, trasmettendogli tutto il suo odio. Ad ogni modo, non proferì una parola circa l’ubicazione del loro covo. Era il vampiro più cocciuto che avesse mai visto.
“Perchè non me lo dici e basta?” Incalzò Sebastian, quando ormai l’alba era giunta da molto, la luce del sole filtrava dalle tapparelle e Blaine la guardava come un cucciolo impaurito, rannicchiandosi su se stesso anche se i raggi del sole non lo lambivano nemmeno alla lontana.
“Se me lo dici ti ucciderò in fretta. Te lo prometto.”
“Ottimo”, Commentò, “Ora sì che ti dirò tutto.”
“Dovresti essere onorato di morire per mano del famoso Sebastian Smythe. Molti vampiri ti invidierebbero.”
“Ne sono sicuro.”
“Ehi”, fece allora lui, afferrandolo per le guance e facendolo sussultare: “Di che ti lamenti? Ti sto dando una morte da signore. Certo, contando che sei un mostro.”
Blaine lo guardò male per l’ennesima volta e, ancora, non disse niente. Sebastian cominciava seriamente ad annoiarsi.
“Va bene. Se non parli con le buone, ti farò parlare con le cattive.” Si alzò in piedi ed estrasse qualcosa dalla cassettiera che il vampiro non riuscì a vedere; fu solo quando lo vide avvicinarsi con un coltello in argento che si lasciò andare a un sospiro di sollievo, ridacchiando appena.
“Sei contento di soffrire?” Domandò Sebastian, rimasto un po’ incredulo di fronte alla sua reazione.
“Oh, no, affatto.Temevo tu avessi trovato qualche arma veramente efficace contro i vampiri, ma invece è il solito vecchio e caro coltello d’argento.”
“Che cosa?”
Senza pensarci due volte gli graffiò l’avambraccio, sgualcendo la camicia bianca, attraverso un taglio profondo ma non troppo, giusto per vedere l’effetto che faceva. Blaine guardò la ferita che si rimarginò in un attimo e sbuffò sconsolato: “Era la mia camicia preferita.”
Non era possibile.
Riprovò un’altra volta. E poi un’altra ancora. Quando ebbe constatato che, effettivamente, era del tutto inutile, scaraventò il coltello dall’altra parte della stanza, facendolo conficcare perfettamente contro una fragola di uno dei tanti quadri.
Blaine osservò quel centro perfetto e inclinò leggermente la testa di lato: “Non te la prendere. Con il coltello ci cascano sempre tutti.”
Ah, faceva anche lo spiritoso, adesso? E va bene.
Estrasse dal collo una croce consacrata, puntandogliela contro con le braccia tese. Blaine lo guardò perplesso per un secondo: “Non sono credente, mi dispiace.”
Abbandonò le braccia lungo i fianchi, completamente esasperato.
“... Non ci provo nemmeno con l’aglio, vero?”
Lo vide fare di no con la testa, trattenendo a stento una risata leggera e cristallina.
Era sempre stato convinto che quei metodi funzionassero, anche se non li aveva mai sperimentati contro nessuno, dal momento che si era sempre e solo limitato a ucciderli con il paletto in legno di Frassino. Si sentiva completamente stupido e arrabbiato, aveva fatto una figuraccia davanti a quel vampiro, adesso lo aveva preso per un novellino alle prime armi e non poteva, non poteva assolutamente permetterselo.
“Ascoltami bene, vampiro.” Si sedette di nuovo davanti a lui, a gambe larghe, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. In risposta, il vampiro lo guardò di sbieco, fingendosi disattento.
“Non potrò farti del male, ma conosco un paio di modi per ucciderti. E ti conviene parlare prima che mi venga voglia di aprire le persiane e-“
Si bloccò.
Il fiato gli morì in gola, proprio come le parole. Perchè Blaine lo stava fissando e i suoi occhi gli stavano sussurrando di farsi più vicino, di lasciarsi baciare, di avvicinare il collo alle sue labbra...
Si destò giusto in tempo per alzarsi di scatto e prendere dei lunghi respiri.
Il vampiro aveva annullato il contatto visivo guardando un punto fisso alla sua sinstra, con la testa ancora rivolta verso il quadro, gli occhi semichiusi e stanchi.
Sebastian non aveva la più pallida idea di quello che fosse appena successo, ma non doveva ripetersi.
“Stai riacquistando i tuoi poteri”, Si affrettò a dire, estraendo dal frigo un’altra siringa contenente sangue di un cadavere. Blaine la guardò con disgusto, stava per dire qualcosa ma lui gliela iniettò senza riserve; si limitò a un piccolo gemito, prima di svenire contro lo schienale della sedia.
 
 
 
Per lungo tempo, Sebastian si comportò come se il vampiro non esistesse. Passò ore a osservarlo agitarsi, scalciare i piedi contro il tappeto e sbuffare; non sembrava davvero un essere pericoloso, uno di quelli che popolava i suoi incubi tutte le notti. Se non fosse stato per la pelle diafana e i canini che si intravedevano quando dirignava i denti per lo sforzo, non sembrava affatto un vampiro.
Di tanto in tanto, puntava i suoi occhi ambrati verso di lui, ed ecco che tornava di nuovo la sensazione di smarrimento, di disagio, di malessere che lo aveva colto la notte prima nel bosco. Se solo lo avesse fissato troppo a lungo, era quasi certo di cadere nelle grinfie del suo incantesimo, e lui lo avrebbe avuto in pugno. Doveva essere cauto.
Aprì il frigo, bevve un sorso di birra dalla bottiglia in vetro. Accese lo stereo e un attimo dopo tutta la stanza ripiombò nell’eco di quella musica rock, a un rumore talmente alto da sovrastare perfino i suoi pensieri.
“Che cosa sarebbe questo rumore?” Blaine sembrava completamente infastidito; si sarebbe tappato le orecchie volentieri, se solo avesse potuto. Questo divertì ancora di più Sebastian, che abbassò leggermente l’audio soltanto per poter parlare senza difficoltà, avvicinandosi a lui senza timore.
“Non conosci i Muse, vampiro?”
Blaine scosse la testa e sembrò trattenersi dal dire qualcosa; si limitò a portare indietro la testa, con aria molto contrariata. Un ciuffo di capelli gli cadde sulla fronte, e poi chiuse gli occhi, come cercando di isolarsi da tutto quello; era davvero divertente vedere come un mostro che aveva divorato chissà quanti corpi innocenti, fosse così a disagio per della musica elettronica e chiassosa.
“Mi dispiace che le tue orecchie sviluppate non gradiscano”, Sorrise sarcastico: “Ma io adoro i Muse, spaccano di brutto.”
Blaine aprì un occhio solo, risultando veramente molto confuso: “Spaccano... che cosa?” Chiese con un sopracciglio inarcato, come se dovesse risolvere l’enigma della Sfinge.
A Sebastian stava per scivolare la bottiglia di mano, ma poi si lasciò andare a una risata cinica, posando una mano sul fianco: “Giusto: ogni tanto dimentico che hai millemila anni, e che non puoi capire il mio linguaggio, nè la mia musica.”
“Questo significa”, Ribattè Blaine, “Che nemmeno tu puoi capire la mia.” Ma dopo un secondo emise un lungo sospiro, e per un attimo sembrò uno di quei ragazzini che si lamentavano per aver usato troppo gel.
Ma no, Sebastian corresse subito quel pensiero: lui non era un ragazzino. Non era nemmeno umano.
“Ti sembro per caso così vecchio?” Lo sentì mormorare, afflitto: “Non ho nemmeno compiuto un secolo...”
“Oh, perdonami”, esclamò Sebastian. Ormai erano a distanza di un passo, lo fissava con fare sprezzante: “Quanti anni hai, ottanta?”
“Ottantacinque.” Puntualizzò con un certo infantilismo che lo fece quasi sogghignare.
“Beh, complimenti, li porti davvero bene.”
Blaine sbuffò di fronte all’ennesimo finto complimento e non disse niente, come se non avesse voglia di perdere tempo a bisticciare con un umano, soprattutto quando era legato a una sedia con catene di puro argento. Ma lui aveva appena iniziato.
“Dì un po’, come lo passi il tempo? Non ti annoi mai?” Era una domanda che gli frullava nella testa da un po’ di tempo, e non sapeva come, non sapeva perchè, uscì spontanea. Forse perchè sapeva che lui avrebbe risposto.
“Devo ammettere che, a volte, lo scorrere così lento del tempo è piuttosto fastidioso”, commentò Blaine. “Però con il passare degli anni trovi una certa routine, se così si può dire.”
“Tra un cadavere e l’altro, intendi?”
Blaine gli rivolse una lunga occhiata, come di rimprovero, e Sebastian per un attimo avvertì un brivido lungo la schiena. Quel vampiro era divertente.
“Comunque, per rispondere alla tua domanda, suono.”
“Suoni?”
“Sì. E canto, anche.”
Non ce lo vedeva proprio, un vampiro che suonava e cantava dentro le mura della propria cameretta, intento a ripetere frasi di canzoni che conosceva a memoria.
“E cosa suoneresti?” Domandò scettico. Blaine si strinse nelle spalle e con naturalezza rispose: “Tutto. Qualsiasi strumento mi capiti sotto tiro.”
“Ma non mi dire.” Ne sarebbe rimasto affascinato, se solo non provasse profondo ribrezzo. “È una dote di voi succhiasangue?”
“No. È una dote mia. Ho avuto molto tempo libero.” Tagliò corto lui, e fu così freddo, così seccato, che Sebastian decise di non continuare quella conversazione, occupandosi a finire la sua birra nel puro silenzio.
Fu un attimo. L’attimo in cui guardò Blaine negli occhi e si sentì completamente smarrito: il cuore prese a battere con una velocità impressionante, come se volesse schizzargli via dal petto.
Era come un attacco di panico, dagli stessi effetti, ma con cause diverse: adesso, invece di svenire a terra e perdere coscienza, desiderava soltanto avvicinarsi ancora di più a Blaine e farsi mordere, a lungo e duramente, sentire i suoi denti conficcarsi nella pelle e privargli di quel sangue caldo che gli scorreva nelle vene.
E non riusciva a capire: cosa gli stava succedendo? Perchè diavolo si sentiva così? Questo andava oltre i tradizionali poteri ipnotici, era più forte, più forte perfino dell’attacco di prima e stava già cominciando a perdere il controllo del proprio corpo, ma poi Blaine sorrise. E gli ordinò di allontanarsi.
Un attimo dopo, Sebastian si trovò con la schiena appoggiata alla cassettiera, e il respiro che da affaticato tornava sempre più regolare.
“Che... che diavolo mi hai fatto?”
“Non ho fatto niente.”
“Mi hai stregato. Hai usato uno dei tuoi poteri da mostro!”
“È questo il ringraziamento per averti salvato la vita?”
Non capiva.
“Ti ho ordinato di allontanarti”, Spiegò Blaine, sillabando con attenzione le parole, “Perchè se ti fossi avvicinato un centimetro di più non sarei riuscito a trattenermi.”
“Sì, e io mi ero avvicinato per colpa di qualche strano sortilegio.”
“È una cosa che trascende dalla nostra volontà”, Ammise velocemente Blaine, cercando di mostrarsi più sincero di quanto fosse opportuno: “Quando ti ho morso noi-“
Ma Sebastian gli aveva già iniettato il veleno, e Blaine svenne senza poter terminare la frase.
 
 
 
 
 
Non riusciva assolutamente a capire in che modo avrebbe fatto parlare Blaine. Erano passati tre giorni, cominciava seriamente a essere a corto di idee e quella cosa lo innervosiva non poco. Era assurdo, lui era uno dei cacciatori più temuti di tutta l’America, di tutto il mondo, perchè diavolo non riusciva a far parlare un vampiro da quattro soldi?! Era ridicolo. Era ridicolo e inaccettabile.
Stava camminando su e giù da almeno un paio d’ore quando la voce di Blaine giunse alle sue orecchie, come un gentile invito di uno spettatore che stava assistendo alla sua disfatta.
“Posso portartici io, se vuoi.”
Si fermò di scatto, a qualche metro da lui. “Di che diavolo parli?”
“Vuoi sapere il nostro covo, non è vero? Io so. Posso dirti tutto.”
La voce di Blaine era melodica, tanto eccitante quanto pericolosa. Sebastian sfoggiò un ghigno amaro e con una punta di divertimento sulla lingua sibilò: “Certo, e magari andiamo anche a farci un pic nic.”
Lo vide roteare gli occhi, le sfumature nocciola nei suoi occhi dorati erano più scure, come colme di lussuria. “Pensi di riuscire a trovarlo da solo? Tanti auguri allora. Ma non è per questo che mi hai portato qui? Non ho intenzione di dirtelo a meno che tu non mi porti con te. Posso aiutarti. Voglio aiutarti”, Scandì, lanciandogli un’occhiata. “Oppure sei troppo orgoglioso per accettare l’aiuto di un vampiro?”
Sfoggiò un piccolo sorriso, in attesa della risposta, ma sapeva bene che Sebastian non avrebbe mai accettato. Non era una questione di semplice orgoglio: riguardava l’appartenere a due razze diverse e perennemente in conflitto, il predatore e la preda, quel divertente ribaltamento delle parti che gli donava un’allettante posizione di vantaggio.
Sebastian lo scrutò scuotendo la testa, a dir poco incredulo: lo faceva veramente così stupido da permettergli di cambiare le carte in tavola?
“So badare a me stesso, ma grazie comunque.”
Blaine, semplicemente, accentuò il suo sorriso. Evidentemente si era immaginato una risposta simile.
“Permettimi un’ultima domanda”, Cantilenò, il suo tono divenuto vago e indecifrabile: “Perchè ci odi tanto?”
Ci fu un momento di silenzio, da parte di entrambi.
Il vampiro sviò lo sguardo, che giusto un attimo prima era rivolto verso il cacciatore con fare curioso, sfrontato. Sebastian, invece, si era voltato completamente, fissandolo con la mascella contratta e il respiro pesante; adesso, quegli occhi ambrati non lo intimorivano più.
Non riusciva a credere che gli avesse appena fatto quella domanda; per un momento, pensò che fosse soltanto stupido. Che avesse voluto chiedere quella cosa solo per saziare la sua odiosa curiosità, o per fare conversazione o, addirittura, per un macabro istinto a volersi affezionare alla preda prima di gustarla. Però, poi, ripensò al suo tono così enigmatico, e capì.
Voleva saperlo perchè voleva capire.
E quello non fece altro che aumentare ulteriormente l’odio nei suoi confronti.
Sebastian non rispose. Restò in silenzio per molto tempo. Le sue gambe erano abbandonate lungo la sedia, i suoi occhi si muovevano da soli, seguendo la scia dei suoi pensieri fitti, complessi. Voleva semplicemente allontanarsi da quella villa abbandonata; voleva allontanarsi da lui.
Non avrebbe proprio dovuto fargli quella domanda, ma la sua ira non era dovuta solo a quello: dentro di sè covava altri sentimenti contrastanti, come stupore, aspettativa, la consapevolezza che un tempo anche quel vampiro era un ragazzo, proprio come lui. E c’erano dei momenti, in cui incrociava il suo sguardo, che credeva lo fosse ancora.
Nessuno glielo aveva mai chiesto. Nessun vampiro, umano o cacciatore che fosse.
E neanche lui se lo chiedeva da un bel po’, ormai: cacciare era diventato un lavoro, come per qualcun altro lo era andare la mattina in ufficio o sfornare il pane.
Cacciava perchè voleva ucciderli tutti. Cacciava perchè li odiava. Li odiava perché...
Il suo cuore fu colpito da una fitta lancinante; il solo ricordare era doloroso più della fame. Dopo un momento di smarrimento, scosse la testa, alzandosi di scatto e prendendo a camminare avanti e indietro lungo la stanza. Avrebbe tanto voluto uscire da quel maledetto posto.
Non sapendo in che altro modo sfogarsi, senza nemmeno pensarci sferrò un pugno contro il muro in pietra, sfregandosi tutte le nocche; il sangue usciva copioso dalle ferite, e Blaine si limitò ad arricciare il naso emettendo un breve sospiro.
“Così ti farai del male inutilmente.”
Sebastian stava ancora cercando di cacciare via quell’opprimente ricordo quando lui, quella voce, arrivò prontamente a distrarlo: soave, eccitante, perfettamente riconoscibile.
Si voltò, lentamente. Lo guardò dapprima irato, poi, sempre più allibito.
Possibile che non si rendesse conto del grave pericolo che stava vivendo? Possibile che non si rendesse conto del fatto che gli sarebbe bastato un secondo, uno solo, e quel paletto appoggiato sul tavolino sarebbe finito dritto nel suo petto?
Ma no, Blaine non si rendeva conto. Blaine non pensava, era solo un animale che seguiva il suo istinto.
Ormai Sebastian era troppo scosso per ragionare a mente lucida, così si avvicinò con ampie falcate, stringendo la mano sanguinante.
“Vuoi sapere perchè vi odio tanto?” Proferì con un sussurro gelido, “Vuoi sapere perchè vi voglio ammazzare tutti quanti?”
Blaine annuì, con fare convinto. Non smise nemmeno per un secondo di guardarlo negli occhi.
“È da quando ho undici anni che vi do la caccia. Sai cosa significa questo? Invece di uscire con gli amici, divertirmi, come tutti i ragazzini normali, io andavo a comprare munizioni. Invece di andare all’università ho viaggiato per tutta l’America per scovarvi e trucidarvi. Uno ad uno.”
Blaine sembrò sussultare leggermente, ma lo ignorò: “Per colpa dei tuoi amichetti ho visto i miei genitori morire.”
Le immagini di quella notte giunsero come fotogrammi, accecanti, doloranti fino all’esaurimento. La mano con cui prima si era fatto del male cadde inerme lungo il fianco, sbattendo contro la gamba; voleva aggiungere altre cose, altre mille cose, ma le frasi si annodavano in gola per poi scendere giù, da dove erano nate.
Era difficile descrivere quel dolore: era camuffato dall’odio e da quello fisico, ma presenziava dentro al suo cuore pugnalandolo crudelmente. Si voltò: aveva rivelato più di quanto non volesse, e adesso sapeva benissimo di aver regalato al vampiro un asso nella manica da giocare al momento opportuno; ecco, era caduto nelle sue grinfie. Nonostante le catene, e il paletto che poteva afferrare da un momento all’altro, sapeva che Blaine aveva già cominciato a tessere la sua tela.
La risposta non arrivò subito, e questo era sorprendente: non era da lui esitare, non era nella loro natura. Si chiese quale astruso pensiero avesse covato, tale da costringere a rimangiarselo.
“Mi dispiace.”
Si aspettava di tutto. Qualsiasi risposta possibile; ma non quelle parole.
“Mi dispiace, sul serio.” Sentiva gli occhi di Blaine puntati contro la sua schiena, ma non aveva la forza di voltarsi: c’era qualcosa di dolce, nella sua voce, come la nostalgia per qualcosa di dimenticato. Le sue risposte erano sincere, dai toni malinconici.
“Di cosa?” Si azzardò a chiedere. “Del fatto che tu e la tua schifosa razza mi avete reso orfano? O del fatto che tra un secondo ti ucciderò?”
“Mi dispiace che un vampiro ti abbia privato di qualcosa a te caro.”
“Che cosa ne vuoi sapere tu”, Sbottò Sebastian, sibilando trai denti. Quel paletto a pochi metri da lui stava diventando sempre più invitante.
“Anche io ho perso qualcosa. La cosa più cara che avevo.”
Fece una smorfia, accigliato: “E sarebbe?”
“La mia vita.”
Blaine non sembrava più intenzionato a continuare quel piccolo gioco di cacciatore e preda: era come stanco, abbattuto da un pensiero noto soltanto a lui. Le sue mani, legate dietro la sedia, adesso non opponevano resistenza, ma erano adagiate contro il legno umido, le spalle leggermente più distese.
Questo vide Sebastian quando si voltò completamente, rivolgendogli tutte le sue attenzioni. Ma Blaine non lo stava guardando.
“Mi ero quasi dimenticato di quel giorno. Avevo appena compiuto ventidue anni, ero solo un ragazzino. Ero arrivato a New Orleans da poco tempo, la patria dell jazz, della mia musica. Sognavo di diventare qualcuno. Una sera un uomo mi si avvicinò, era l’essere più bello che avessi mai visto. Aveva tutta l’aria di sapere cosa stesse facendo, e io ero troppo giovane, troppo ingenuo per capirlo veramente. Mi ammaliò con una facilità disarmante.”
Rise di se stesso; dopodichè, come frustrato, si morse il labbro inferiore, con i canini che forarono la pelle morbida e pallida. Un rivolo di sangue andò a bagnargli il mento, poi il collo, fino a giungere alla camicia. Sebastian sentì il suo cuore pulsare più forte, ma si costrinse ad ignorarlo.
“Capii troppo tardi cosa stesse succedendo; cosa stessi diventando”, Si corresse dopo un secondo, e la sua voce assunse sfumature più ricercate, che andavano oltre all’emozioni pure quali malizia, rancore, seduzione, che Sebastian aveva già sentito tante altre volte.
“Quando ormai non avevo più sangue in corpo, lui mi obbligò a bere il suo.”
Era così, allora. Aveva letto molte leggende sulla trasformazione dei vampiri, ma c’erano fonti troppo diverse, troppo discordanti tra di loro: quella era l’unica verità. Si diventa vampiri soltanto perchè lo vuole un altro vampiro: un gioco sadico di un essere in cerca di una scintilla nella sua vita immortale.
“Volevo passare alla storia”, confessò Blaine. “Ora sono la storia. Dovrei esserne contento.”
Tuttavia, sul suo volto apparve soltanto profonda tristezza, mista a rassegnazione.
“Come si chiamava?”
Sebastian si accorse di aver posto quella domanda, soltanto quando la sentì scivolare sulla sua lingua. Blaine non se l’aspettava, evidentemente, dal momento che restò alquanto sorpreso e perfino intimidito: buffo. Non aveva mai visto emozioni simili provenienti da un vampiro; ai suoi occhi, lo rendeva quasi innaturale. Quasi umano.
Ci vollero diversi secondi prima che Blaine riuscisse a pronunciare il suo nome, ma alla fine ce la fece: “Jeremiah”, esalò.
Quel nome attraversò le tende ingiallite e il suo corpo contratto in un fascio di tensione.
“E... come si chiamava il vampiro dei tuoi genitori?”
“Etienne.” Rispose secco, senza la minima esitazione.
“Lo hai più rivisto?” Domandò Blaine; aveva abbassato ogni sua difesa, rivelando il suo portamento rilassato e apparentemente innocente.
“Sì.”
“Lo hai ucciso?”
“Sì”, Ripetè Sebastian, nella calma più completa. Blaine esitò per qualche secondo, prima di chiedergli quali fossero state le sue ultime parole.
Ripensò a quel giorno; lo faceva spesso. Si annidava nella sua memoria ricavandone la sensazione di vendetta, di pienezza, di felicità, che lo avevano pervaso quando finalmente aveva pugnalato il vampiro al petto. Ricordava la strada deserta di New York, il fumo che usciva dai tombini, il buio che li oscurava, gli occhi dell’assassino mentre diventavano sempre più spenti.
Era sempre stato troppo concentrato su se stesso per analizzare le reazioni dell’altro; adesso che lo fece, fu colto da una consapevolezza che lo lasciò inizialmente senza parole.
“Ha solo sorriso.”
“Ha sorriso”, ripetè Blaine, con la testa china e le sopracciglia aggrottate, come assaporandone il concetto. Non era stupito come lui; era invidioso.
Sebastian controllò l’orologio: era passata un’altra giornata.
“Tempo per la tua medicina”, Cantilenò in perfetto stile da crocerossina, e Blaine stavolta sbuffò sonoramente lamentandosi senza ritegno: “Non ho bisogno che tu mi droghi peggio di un tossicodipendente, non vado da nessuna parte. Anche se fossi nel pieno delle mie forze, con queste catene non mi muoverei.”
“Non è per le catene, e lo sai benissimo anche tu”, Disse con tono improvvisamente serio. Blaine parlò giusto un attimo prima che lo bucasse con l’ago: “Non è per il veleno in corpo che ti senti vulnerabile nei miei confronti, Sebastian.”
Fu la prima volta che pronunciò il suo nome. Quel suono gli fece venire i brividi, e lo bloccò un attimo prima di compiere l’azione.
“Abbiamo sancito un legame.”
“Un cosa?!”
“Un legame.”
“Che cazzo significa?”
“Significa che dal momento che ti ho morso la mia influenza su di te è diventata più forte, e la vicinanza fisica peggiora ulteriormente le cose”, Disse con attenzione Blaine, consapevole del fatto che quella cosa avrebbe fatto arrabbiare molto il cacciatore. “Non avresti dovuto lasciarti mordere, dico davvero.”
“Stai mentendo.” Ribattè scettico. Non poteva essere vero. Non era possibile.
“Purtroppo no. Il tuo corpo adesso ne vuole ancora e... anche il mio.”
L’ultima parte della frase la disse con un sussurro, come se non ne andasse fiero. Sebastian aveva già stretto il paletto tra le dita quando Blaine si affrettò a dire: “Non ti succederà niente.”
“No, sono soltanto dipendente da un cazzo di vampiro.”
“Non sei dipendente, ti ho morso solo una volta. Calmati.”
E, quindi, Sebastian abbassò il punteruolo di legno, senza opporre alcuna resistenza. Forse non era dipendente, ma Blaine ormai riusciva a controllare le sue emozioni con estrema facilità, e lo sapevano entrambi.
“Ti prometto”, Sancì, con i suoi occhi chiari, “Che presto sarai libero.”
Ne dubitava altamente: ormai, la luce dei suoi occhi lo aveva catturato, vincolandolo alla vita che si era lasciato alle spalle.
Ma Blaine gli serviva ancora, così, per il momento, decise di non ucciderlo.
 
 
 
 
Ormai era notte fonda, e Sebastian stava guardando un programma molto noioso sulla tv via cavo, mentre Blaine si limitava ad osservare i quadri delle pareti. Non si parlavano da ore; gli unici rumori presenti erano il canto dei grilli intorno alla casa e i denti di Sebastian che sgranocchiavano una mela.
“Puoi cercare di essere un po’ meno rumoroso?” Si lamentò Blaine, roteando gli occhi al cielo: “Sto cercando di riposarmi, qui.”
Sebastian a quel punto si voltò. Decisamente, le frasi di quel vampiro erano molto più interessante della televisione.
“Mi prendi in giro?”
“No.”
“Tu dormi con gli occhi aperti?”
“Non ho detto che dormivo, riposavo, è ben diverso.”
“E perchè?”
“Perchè io non dormo. Non se non ho la mia bara e la terra della mia terra natia.”
Restò talmente sorpreso da quella risposta che scoppiò a ridere per due minuti abbondanti, con Blaine che lo guardava sempre più scettico e accigliato.
“Che cazzata è, questa?”
“Non è che l’abbia scelto io”, Mormorò strofinando le scarpe contro il tappeto, come per stiracchiarsi i muscoli delle gambe.
“E quindi non dormi da quattro giorni?”
“Non è un vero problema. Non abbiamo la concezione del sonno come voi.”
“Oh, mi scusi, vostra grazia.” Sebastian ormai era completamente divertito dalla piega che stava assumendo quella conversazione, e si alzò in piedi per avvicinarsi un po’ di più a lui, cercando qualcosa di intelligente da chiedergli. Non era una cattiva idea scoprire le abitudini dei vampiri, e nessuno gliele aveva mai rivelate prima, visto che di solito non li lasciava parlare granchè.
Addentò pensieroso la mela e, come illuminato, gliela indicò.
“Che succede se la mangi?”
“Niente.”
“Che significa niente?”
“Significa che non esplode nè si trasforma in cenere, come potresti pensare tu. Semplicemente, non sento il gusto del cibo. Di nessun piacere terreno, in realtà.”
“... Oh.” Commentò. Non se l’aspettava. “Ed è vero che vi potete trasformare in nebbia?”
Blaine sembrò ancora più incredulo di lui, guardandolo attonito e dicendo: “Chi l’ha inventata questa?”
Sebastian si strinse nelle spalle, ed era divertito, anche se non dovesse esserlo.
“Non pensavo ci fossero così tante bufale sul vostro conto.”
“Più di quanto immagini. Però una cosa è vera: non possiamo tagliarci i capelli.”
“Che cosa?” Esclamò, scoppiando a ridere, e perfino Blaine rise insieme a lui, scuotendo lievemente la testa: “Se li tagliamo il giorno dopo, al nostro risveglio, sono come prima.”
“Insomma se hai un taglio di merda quando vieni morso è la fine.”
“Diciamo di sì”, Ridacchiò Blaine, e colto dal momento aggiunse: “Ed è anche vero che non ci riflettiamo negli specchi.”
“Certo, come potreste?”, Sebastian incrociò le braccia al petto, compiaciuto: “Si dice che gli specchi sono il riflesso dell’anima, no? Ma se voi non avete un’anima non potete riflettervi.”
“In realtà è proprio tutto l’opposto.” Sentenziò, e adesso era talmente serio che Sebastian si ammutolì per un momento, nel quale Blaine disse: “Un vampiro è un’anima dentro un corpo immortale. Per questo, con il passare degli anni, creiamo dei poteri psichici, perchè l’anima si fonde sempre di più con il corpo. Diciamo che se gli uomini vivessero così a lungo diventerebbero come noi.”
Sebastian restò a guardarlo per lungo tempo, non sapendo bene cosa dire. Gli era passata perfino la fame.
“Quindi più anni avete e più siete potenti?”
“Esattamente. Per questo non sono così forte”, Ammise, senza nessun dispiacere, ma semplicemente constatandolo come un dato di fatto.
Si sedette di fronte a lui. Fu un gesto talmente naturale e sovrappensiero che non ci fecero caso, nessuno dei due.
“Non so come fai. Io non resisterei, nelle tue condizioni”. Ovviamente, si riferiva all’essere vampiro. “La cosa peggiore secondo me è non poter invecchiare. Non puoi dire di aver vissuto il giorno più bello della tua vita perchè... perchè la tua vita non ha fine. È raccapricciante.”
Il suo disgusto verso quella razza non si era affatto dissipato. Non importava quanto Blaine gli avesse rivelato parti di quel mondo a lui sconosciute; non importava quanto si fosse aperto con lui. Non contava niente: avrebbe continuato a ucciderli, fino all’ultimo rimasto.
Eppure ci fu un momento, quando lo sguardo di Blaine divenne più schivo, le sue labbra che cercavano di mascherare una smorfia, in cui qualcosa, dentro Sebastian, lo portò a porgergli delle scuse.
“Non volevo offenderti. Lo so che non l’hai voluto tu.”
Blaine annuì piano, come prendendo atto delle sue parole.
“No, hai ragione tu. Sono un mostro.”
Non lo era.
Era un ragazzo che aveva subito un destino terribile, molto più terribile del suo; respirava, sorrideva, parlava, esattamente come lui, e tutto ciò che li differenziava era... un cuore.
Quello di Blaine non batteva ormai da tanto tempo; ma, forse, bastava quello di Sebastian, dal momento che batteva forte per entrambi.
“Sicuro di non volere una mela?”
Blaine a quella domanda, pronunciata con tono un po’ strafottente, sfoggiò un piccolo sorriso ed ecco, adesso tutto era tornato alla normalità.
Perchè Sebastian odiava i vampiri. Ma Blaine?
Odiava Blaine?
 
 
 
 
Erano passati cinque giorni, e ormai il vampiro giaceva su quella sedia fissando un punto vuoto. Sebastian non riusciva nemmeno più a farlo parlare, e quando lo faceva, emetteva dei suoni disconnessi privi di alcun significato.
Sembrava come avvelenato, perfino più debole di quando gli faceva le iniezioni. Quel giorno ebbe un crollo, come uno svenimento, e quando abbassò la testa di scatto Sebastian si alzò in piedi, resistendo all’impulso di avvicinarsi.
“Che ti prende?” Intimò, non risultando, però, tanto minaccioso quanto sperato.
Di nuovo, l’ennesimo silenzio, e si trovò a stringere i pugni nella frustrazione più totale.
“Si può sapere che hai? Non ti azzardare a morire. Non mi hai ancora detto dove si trovano i tuoi compagni.”
Blaine borbottò qualcosa con tono soffiato; aveva l’aria di essere molto stanco, affaticandosi perfino nel dire quelle semplici parole.
“... Che hai detto?” Fece il cacciatore, avvicinandosi giusto di qualche passo, tendendo bene le orecchie in modo da non perdersi nessuna vibrazione dei suoi sussurri.
“Ho sete.”
Oh.
Sebastian poteva percepire la sua sete da quei due piccoli fori che pulsavano a sincrono con il ritmo del suo cuore.
Era quello, allora. In effetti, lui in quel tempo si era cibato grazie alle scorte della dispensa, ma non aveva affatto pensato a quel dettaglio piuttosto importante. Se non si fosse nutrito al più presto, sarebbe morto di fame? Può farlo?
Ma poi, gli venne un’idea: forse, procurandogli del cibo, gli sarebbe stato debitore. Forse avrebbe parlato.
Tornò un’ora dopo con una sacca di sangue simile a quella usata negli ambulatori, colma fino all’orlo, dal quale spuntava un tubicino che in passato doveva essere appartenuto a qualche flebo.
“Che... che cosa...?”
Blaine alzò i suoi occhi neri come la pece, trovando difficoltà perfino nell’aprirli. Sebastian si accovacciò di fronte a lui e fece per infilargli il tubicino in bocca, trovando un’insolita resistenza.
“Bevi.” Ordinò allora, ma Blaine scosse la testa, assomigliando a uno di quei bambini adorabili che facevano i capricci con i propri genitori.
“Fin quando starai con me non toccherai una goccia di sangue umano nemmeno per disinfettargli la ferita, quindi accontentati di questo e bevi. Subito.”
Non fece in tempo a bere un sorso che lo aveva già sputato a terra, con Sebastian che non sapeva se mandarlo a quel paese o ucciderlo seduta stante.
“Sangue di cervo”, Piagnucolò, come se avesse appena sentito la cosa più disgustosa sulla faccia della terra.
“Preferisci morire di sete?”
“Sì.”
Dio, quanto era cocciuto.
“Muoviti”, fu l’unica cosa che pronunciò con voce roca e intimidatoria, e allora Blaine strinse gli occhi e trattenne il fiato, mandando giù la sacca sorso dopo sorso.
Quando finì, i suoi occhi non sembravano più così spaventosi, e aveva assunto un aspetto vagamente normale; certo, per gli standard di un vampiro.
“Visto che non era così male?”
Blaine assunse tutti i tipi di smorfia possibile e dichiarò: “Penso che potrei vomitare.”
“Oh andiamo, non poteva essere così male”, enfatizzò prendendolo in giro. Blaine però non aveva nessuna voglia di ridere, lo perforò con lo sguardo e disse soltanto: “Oltre a darmi la nausea per ore, il sangue di animale non mi fa tornare per niente in forze.”
“E il mio sì?”
Non rispose e lo guardò male, come se avesse appena domandato l’ovvio.
“Il tuo sangue mi farebbe diventare più forte. Per via del legame.”
Avrebbe dovuto essere disgustato o spaventato; in realtà, provò una sorta di piacere intrinseco celato in quella piccola verità.
“Mi dispiace, ma è proprietà privata.” Battè le mani entusiasta, alzandosi in piedi e buttando nel cestino la sacca vuota.
 
 
 
 
 
Dopo una settimana di insuccessi decise che quella notte sarebbe tutto finito; in un modo o nell’altro.
Sebastian era stanco, non dormiva da giorni; l’unico riposo che si concedeva era quello dettatogli dal suo corpo quando scivolava nel sonno contro la sua volontà, mosso dalla stanchezza eccessiva, e ogni volta che lo faceva si svegliava di soppiatto e puntando il paletto verso qualcosa di invisibile. Ma non succedeva mai niente di nuovo, e Blaine era sempre lì, su quella sedia.
A volte era perso nei suoi pensieri. Altre volte, lo guardava come se potesse sentire i suoi.
Parlavano più spesso di quanto fosse opportuno, ma non potevano farci niente: erano entrambi soli, e annoiati, senza niente da fare tranne condividere storie e sensazioni. Così, Blaine raccontò parti della sua vita che pensava di aver rimosso, e Sebastian piano piano cominciò a conoscere la parte umana di lui, quella che non credeva potesse esistere.
Ed era così facile, conversare con Blaine, chiedergli della sua vita, dei suoi interessi, come se fosse giusto farlo.
I due fori rossastri del collo erano ancora ben visibili e non accennavano a scomparire: Blaine una notte gli rivelò che non sarebbero spariti, non fin quando lui era in vita. Era come il simbolo che sigillava quel legame non voluto, che stava crescendo sempre di più.
Ma al tramonto dell’ottavo giorno, Sebastian decise che se Blaine non volesse parlare, allora, avrebbe taciuto per sempre.
“So cosa vuoi fare”, Disse Blaine al suo cacciatore, squadrandolo con i suoi occhi scuri: non erano più ambrati, nè era rimasta alcuna traccia di verde o castano. Adesso erano completamente ambrati e splendenti, senza nessuna ombra.
Afferrò il paletto di Frassino, avvicinandosi a lui lento e calcolatore.
“Fallo”, gli disse soltanto. “Dovevi farlo dal primo momento che mi hai visto in quel bosco. Fallo e basta.”
Giusto; anche quella volta Blaine gli aveva chiesto di morire. Non esplicitamente, ma lo aveva capito dal tono sorpreso della sua voce quando si era reso conto che non sarebbe successo.
Così, Sebastian si trovò a parlargli, per l’ennesima volta; forse, quella fatale.
“Perchè?”
Gli aveva fatto molte domande, in quei otto giorni. Ma non si era mai posto quella più ovvia, più naturale.
“Perchè se non lo fai,” Rispose Blaine, “Ti ucciderò.”
Avrebbe tanto voluto vederlo provare.
Una voce nella sua testa continuava a dirgli “Avanti, sfidalo”, mentre le dita affusolate allentavano la presa da quel paletto. Un’altra, invece, continuava a rispondere al richiamo del suo padrone, desiderava soltanto lasciarsi bere e addentare.
“Non ti credo. Avresti potuto uccidermi in qualsiasi momento, sfruttando il tuo ascendente su di me.”
La risposta non arrivò, e proprio per questo fu una risposta più che eloquente.
“Quindi dimmi perchè.” Incalzò Sebastian, i suoi occhi verdi che adesso incrociavano i suoi senza avversione. “Perchè stai facendo tutto questo? Perchè vuoi lasciarmi vivere?”
“Perchè sei l’unico che può ucciderlo.”
Blaine si mosse sulla sedia come se si fosse appena scottato, ma Sebastian incrociò le braccia al petto: “Chi?”
“Lui. Jeremiah. Tutti quanti.”
Adesso capiva.
Aveva tutto un senso logico ed elementare, era così palese: Blaine era stato morso da un vampiro anni fa; era solo, nessuno si era mai scomodato a cercarlo; si trovava da solo su una scena del crimine che non era sua: stava cercando qualcuno. Odiava la sua natura, più di quanto Sebastian avesse mai fatto; odiava i suoi stessi simili.
Era così ovvio che fosse in cerca del suo Creatore, e Sebastian lo aveva catturato prima che potesse raggiungerlo.
Voleva che lo uccidesse, proprio come aveva ucciso l’assassino dei suoi genitori.
“Lo farò. Lo ucciderò, ma devi dirmi dove si trova.”
Blaine percepì quelle due parole come un giuramento solenne. Si voltò, gli occhi lucidi, mossi da sentimenti contrastanti.
“Te lo dirò, ma io vengo con te.”
“Non mi fido di te.”
“Senza di me non potrai mai trovarli.”
Era vero.
Non ragionò quando lo fece. E Blaine non capiva, lo fissò per tutto il tempo, fino a quando non lo vide aggirare la sedia, mossa mai fatta prima, e aprire il pesante lucchetto delle catene con una chiave tenuta in tasca fino ad allora.
E così, in un attimo, Blaine era libero.
Poteva scappare. Poteva ucciderlo.
Si alzò in piedi reggendosi a malapena, e Sebastian continuava a essere dietro di lui, riusciva a percepirne il respiro, il battito pesante. Fu come se lo avesse messo alla prova; lo stava testando, non sapeva nemmeno lui come, fatto sta che adesso poteva scegliere, la morte o la vita.
E avrebbe tanto voluto bere il sangue di quel cacciatore così avvincente.
“Finalmente libero, eh?”
Sebastian sfoggiò un ghigno compiaciuto mentre il vampiro si massaggiava i polsi doloranti, con le gambe che dovevano ancora stabilizzarsi e il corpo indolenzito dal troppo poco movimento. Era incredulo, aveva creduto di passare il resto della vita in catene, mentre adesso lui...
“Non sono libero.”
Gli rivolse un sorriso sincero ed era molto, molto bello.
“Ma grazie.”
“... L’ho fatto solo perchè mi sei debitore, e quindi adesso sei costretto ad aiutarmi.” Disse Sebastian.
Ignorò il suo cuore che pompava freneticamente.
Ignorò il suo istinto che lo pregava di gettarsi tra le sue braccia.
Blaine annuì immergendosi nei suoi pensieri, per poi voltarsi verso il paletto adagiato sopra la cassettiera: “Dovrai insegnarmi a uccidere un vampiro.”
“Sarà un piacere”, Sogghignò lui. “Un vero piacere.”
 
 
A due settimane dall’inizio della caccia, Sebastian incontrò un suo caro amico: Hunter. Lui era l’enciclopedia vivente di qualunque cacciatore; conosceva i movimenti di tutti i più grandi gruppi di vampiri ed era in grado di trovare informazioni in un tempo invidiabile.
L’unico problema a quella piccola capacità innata, era che si facesse pagare molti soldi; e non lavorava mai per persone di cui non era in debito.
Ma per sua fortuna Sebastian una volta gli aveva salvato la vita con un branco di vampiri nell’Illinois, e allora, quando finalmente riuscì a mettere da parte l’orgoglio, decise di andare a fargli visita.
Hunter si era trasferito in un altro stato, dopo gli ultimi avvenimenti; aveva smesso di cacciare e stava cercando di ricostruire la sua vita.
“Sebastian!” Fece le scale di casa a due a due e lo abbracciò come un amico che non avrebbe mai pensato di ritrovare; subito dopo, però, il suo sguardo s’incupì, incrociando il volto freddo di Blaine.
“E lui?”
“Hunter, tranquillo.” Gli passò una mano sulla spalla, facendo un cenno verso di Blaine: “Lui è dei nostri.”
“Un vampiro dei nostri? Sebastian, ti sei completamente rincoglionito?”
“Sta dalla nostra parte ti dico.”
“Sebastian quello è un vampiro.” Sputò trai denti, con l’odio che aumentava sempre più in fretta: “Merita soltanto una morte lenta e il più dolorosa possibile.”
“Beh, non ha tutti i torti.” Commentò Blaine facendo spallucce. Sebastian lo guardò torvo bisbigliandogli: “Oh sì bravo, dagli pure ragione, lo vedo ancora troppo convinto.”
“È impossibile che si convinca solo grazie a qualche tua parola ricamata. E poi sei negato a convincere le persone.”
Hunter guardò quei due ragazzi che bisticciavano come una coppia di fidanzatini e non ci poteva credere, davvero, quello era un incubo, adesso si sarebbe svegliato e sarebbe tornato tutto alla normalità, non era vero?
“Bene”, Ribattè Sebastian, “Allora proponi tu qualcosa, genio.”
“Propongo che io aspetto fuori, e tu mi fai sapere quando hai trovato le informazioni che ci servono.”
“No fermi tutti, che diavolo sta succedendo qui?!” Hunter alzò le mani al cielo in piena esasperazione, mentre Blaine faceva per uscire dalla porta d’ingresso trattenuto per una manica da Sebastian.
Tu hai perso completamente il senno, voi due dovreste tentare di uccidervi a vicenda!”
I due ragazzi si guardarono per diverso tempo. Poi, contemporaneamente, si rivolsero a Hunter e dissero: “Ho bisogno di lui.”
Forse non erano le parole adatte, troppo facilmente fraintendibili per chi dovesse ascoltarle, ma Hunter si limitò a fissare prima l’uno e poi l’altro, prima di sospirare.
“Entrate. Dio maledica l’Illinois.”
 
 
 
La ricerca dei vampiri portò a una serie di reazioni a catena.
Come prima cosa, Blaine e Sebastian viaggiarono insieme città dopo città, dal momento che dopo i due omicidi il gruppo aveva migrato chissà dove disperdendo completamente le loro tracce. Parlarono con cacciatori, visitarono case, incontrarono una lunga lista di vampiri, alcuni per sbaglio, altri, perchè si erano messi in mezzo al loro obiettivo.
La prima volta che Blaine uccise un vampiro fu un mese dopo la partenza; Sebastian era alle prese con due, cercando di mantenere le distanze e, allo stesso tempo, tenere cara la pelle; quando uccise entrambi commise il grave errore di abbassare la guardia e asciugarsi la fronte con la manica della maglietta.
Il terzo comparve alle sue spalle con i canini affilati e pronti a colpire. Si accorse della sua presenza solo quando sentì le sue urla e il rumore del legno che si frantumava contro la carne; Blaine aveva il fiato corto, gli occhi spalancati e increduli, gli tremavano le mani.
“Stai bene?” In un attimo fu da lui e i fori del suo collo pulsavano terribilmente. Blaine continuava a guardare il corpo ai suoi piedi e poi... sorrise.
“Sì. In realtà io mi sento... soddisfatto. Felice.”
Chi l’avrebbe mai detto.
 
 
 
Dopo due mesi di caccia senza sosta e momenti in cui il loro traguardo sembrava sempre più irraggiungibile, finalmente, li trovarono.
Erano nascosti nell’Ohio, in una vecchia villa di una cittadina completamente disabitata. Erano tutti scappati, ormai, dopo i primi titoli dei giornali che riportavano notizie di misteriosi morti e scomparse.
Era esattamente il posto in cui si aspettavano di trovare un gruppo in fuga e, sinceramente, non erano mai stati così vicini alla vittoria come allora.
Blaine guardò Sebastian con un’innato sorriso sulle labbra, conscio che tra qualche ora sarebbe finito tutto, avrebbe finalmente ucciso l’essere che lo aveva ridotto in quello stato e che, ancora più meschinamente, lo aveva allevato fino alla più completa alienazione di se stesso.
E Sebastian odiava quel vampiro, lo odiava quanto aveva odiato Louis e sognava il momento in cui finalmente gli avrebbe conficcato quel paletto nel cuore.
Chiamarono in soccorso tutti i cacciatori più esperti d’America: Hunter, Jeff, Noah Puckerman, Sam Evans, e molti altri che Sebastian conosceva soltanto di nome.
Agirono di notte; nessuno doveva commettere un passo falso, non erano ammessi errori, non quella volta. Se qualcuno di loro sarebbe morto, non se lo sarebbero perdonati.
 
I vampiri erano circa una ventina, tutti incredibilmente forti e agili. Erano sparsi per tutta la villa, così fu più facile ucciderli, piuttosto che concentrarsi contro un unico esercito molto più potente; era quello il vero punto debole dei vampiri, l’assenza del lavoro di squadra.
Gli umani collaborarono con astuzia e determinazione, fino a quando non uccisero quasi tutti i vampiri godendosi dei loro spasmi mentre si accasciavano inermi al suolo.
Sebastian aveva perso Blaine nella battaglia, ma sapeva bene che sapesse cavarsela più di lui.
 
 
Non riuscì a trovare Jeremiah, però, fino a quando non raggiunse l’atrio della villa circondato da quadri ottocenteschi e drappeggi di velluto morbido.
La descrizione di Blaine coincideva perfettamente; non poteva sbagliarsi, era lui.
“Ti ho trovato, finalmente.”
Strinse con più forza il legno di Frassino, senza muovere nessun muscolo.
“Buonasera a lei, gentile esca.” Fece subito Jeremiah, imitando il gesto di togliersi il cappello e dondolandosi diverito. Aveva gli occhi vitrei, la risata cristallina, danzò graziosamente verso di lui.
Sebastian allungò il suo sorriso, deglutendo.
“Oh, Sebastian.” Mormorò cantilenante. Il ragazzo puntò repentinamente il paletto contro di lui ancora prima che finisse di parlare.
“Avvicinati, coraggio”, Intimò, cercando di essere il più controllato possibile.
Lui, in risposta, si fermò di colpo, sbigottito, osservò prima l’umano e poi la sua arma, e un ghigno misto a malvagità e compassione riempì il suo pallido volto. Sfiorò leggermente il ruvido legno del paletto e, il secondo dopo, con un movimento quasi fulmineo, questo si stritolò sottomesso alla forza crudele della sua mano.
Sorrise di nuovo, in modo più ingenuo.
“Dovrebbero farli più resistenti di così.” Cinguettò fingendosi dispiaciuto. “Altrimenti il cacciatore non riuscirà a liberare Cappuccetto Rosso.”
Non aveva la più pallida idea di cosa stesse parlando.
“Oh, non essere sorpreso, lo spettacolo è già cominciato. Prego, prenda posto assieme agli altri ospiti.”
Con l’altra mano indicò delicatamente la parte dell’atrio oltre le loro spalle. Sebastian non riusciva a vederla bene a causa della penombra: accigliò lo sguardo, quando gli parve vedere qualcosa di conosciuto, e corse verso di quello senza esitare un secondo di più.
Si fermo di scatto, una volta lì.
Di fronte a lui si presentava una landa di cadaveri.
“Di fronte a quello spettacolo raccapricciante,” Esordì il vampiro, il tono assente, da narratore, mentre si avvicinava sempre di più al cacciatore assumendo un’aria compassionevole. “Il nostro eroe sentì un brivido freddo corrergli  lungo la schiena. Proprio qui.” Cantilenò sfiorando il giubbotto del ragazzo, tracciando un percorso dalla base del collo fino ai reni. Il freddo del suo calore corporeo lo fece effettivamente rabbrividire, e questo aumentò ancora di più il suo divertimento, che proseguì incalzante.
“Sentendo le fredde dita del vampiro, il battito del suo cuore accelerò di colpo, e stringendo i pugni pensò che gli avrebbe davvero fatto molto comodo, un’arma.”
Era semplicemente impietrito. Quel vampiro aveva letto perfettamente i pensieri dentro la sua testa.
“Che c’è, Sebastian?” Domandò allora: “Sei sorpreso?”
Notando l’assenza di risposta, levò gli occhi al cielo, trovandosi di fronte a lui in un battito di ciglia e afferrandolo per il colletto.
“Ci sono tante cose che non sai di noi. Tipo che vi stavamo osservando da tempo, come un narratore in attesa della sua scena. Aspettavamo che Blaine tornasse.”
Abbozzò un sorriso. Tirato, malvagio, assetato di sangue. “Ma continuiamo la storia. Siamo arrivati al punto in cui, il lupo cattivo si mangia la nonnina-“
Qualcosa colpì con forza il corpo di Jeremiah, e Sebastian cadde a terra con un tonfo sordo. Si accovacciò istintivamente, cercando di recuperare almeno metà dei suoi sensi, giusto in tempo per vedere Blaine afferrare il vampiro per la spalla e un braccio, spingendolo a terra con uno scatto brutale.
Il paletto rotolò a terra per l’impatto, ma i due vampiri continuarono a lottare, cercando l’uno i punti deboli dell’altro, ma Jeremiah era molto più forte: afferrò il braccio di Blaine stritolandolo senza il minimo sforzo, conficcando i denti nella sua carne e assaporando i suoi gemiti di dolore.
Sebastian provò una fitta lancinante all’altezza del collo che lo frastornò tanto da privarlo del respiro per un attimo, come se fosse appena stata risucchiata tutta l’aria dai polmoni.
Quando Jeremiah si staccò da lui, non riuscì a resistere: si portò subito la lingua alla bocca, mosso da un’inebriante desiderio; leccò piano, con accortezza, gustandosi goccia dopo goccia il sapore del suo sangue.
Scatenò qualcosa di irrecuperabile. Sebastian fu mosso da un istinto sconosciuto persino a se stesso, guadagnando la forza per alzarsi e arrivare alle sue spalle.
Gli perforò il cuore con il paletto di Blaine, conficcandolo fin dentro alle ossa.
Mai sottovalutare la forza di un essere umano.
 
 
 
Blaine giaceva immobile.
Il tetto rovinato e aperto che faceva trapelare la luce della luna e quella pioggerella fastidiosa che pungeva terribilmente, facendo abbassare la temperatura di diversi gradi. Una gamba era distesa e l’altra piegata ma traballante; una mano accarezzava il petto scosso dai sussulti, mentre la destra poggiava a terra, con il palmo della mano rivolto verso il soffitto. Fissava il cielo stellato sopra di sè emettendo lunghi e profondi respiri, con pazienza, uno dopo l’altro.
In un secondo Sebastian fu accanto a lui e gli prese il viso tra le mani, ignorando il sangue che cominciava a scivolargli lungo le dita, o il tremore che lo divorava da dentro le viscere.
Blaine per un momento sembrò non vederlo; poi, mentalmente, lo chiamò.
“Sebastian”, Riuscì a dire, con un sorriso che sciolse ogni sua barriera, i suoi occhi ambrati si stavano spegnendo, diventando sempre più grigi.
“Blaine.”
Pronunciarono l’uno il nome dell’altro. Erano i suoni più belli che avessero mai sentito.
“Un’altra volta...”, sussurrò Blaine, e i suoi occhi erano così lucidi, scossi da un pianto che non era in grado di fare uscire: “Nessuno mi chiamava così da tempo...”
“Blaine.” Ripetè Sebastian, in sussurri. “Blaine, il sangue-”
“Mi ha morso.”
Il cuore di Sebastian perse qualche battito.
“Mi ha morso”, Ripetè tra un colpo di tosse e l’altro, e Sebastian non voleva che finisse così, non voleva che Blaine diventasse parte della sua vendetta. Blaine era un vampiro, sì, ma era buono, non gli aveva fatto del male anche se avrebbe potuto, lo aveva aiutato, avevano parlato, ascoltato, riso, perfino quando non era opportuno.
Blaine era un vampiro. Ma era anche l’unico che riusciva a fargli battere il cuore.
“Ti rimetterai”, Sussurrò, abbassando una mano lungo la schiena e cercando di stringerlo ancora di più, “Starai bene, non è vero? Non puoi morire.”
Ma Blaine lo guardò, e sapeva bene cosa significasse quello sguardo. Forse, era l’unica regola dei vampiri di cui Sebastian conoscesse già l’esistenza.
“Colui che dà la vita ha anche il diritto di toglierla.”
“No. No, no, non è giusto.” Disse allora, con la voce spezzata, la ragione che era sparita da qualche parte, insieme al suo sangue freddo.
“Sebastian, devi farmi un favore.” Mormorò Blaine. Intuì immediatamente cosa volesse chiedergli e no, non esisteva, per nessuna ragione al mondo.
“Ti prego.”
“Blaine, non posso ucciderti.”
“Ti prego. Voglio che sia tu.” Condusse una sua mano sopra la sua, sopra al paletto di Frassino con cui Sebastian aveva terminato la vita dei suoi fratelli. La strinse con delicatezza.
“Non posso ucciderti.” Ripetè più forte.
“Sì che puoi.”
Quando pianse, asciugò tutte le sue lacrime.
“Non voglio.”
Blaine si trovò a sorridere, per la seconda volta, e più il suo sguardo si addolciva, più il cuore di Sebastian supplicava di non farlo, di non essere pronto.
“Possiamo cacciare i vampiri insieme.” Propose incerto, accarezzando la sua mano fredda, come quella pioggia pungente. “Puoi aiutarmi.”
“Io sono un vampiro.”
“No, tu sei diverso.”
Quando urlò, combattè tutte le sue paure.
“Sebastian”, Tossì; “Sono esattamente come quelli che hai ucciso.”
Era diverso. Era diverso. Continuava a ripeterlo tra sè e sè, mentre cercava la sua mano per intrecciare le dita alle sue. Erano successe troppe cose, che nemmeno il tempo poteva cancellare.
“E se non mi uccidi tu, adesso, io morirò lo stesso. Sono troppo debole per rimarginare una ferita del mio Creatore-”
“Non morirai, intesi? Tu devi solo metterti in forze, devi... devi bere il mio sangue.” Esordì, come colto da una rivelazione improvvisa; Blaine si ritrovò a spalancare gli occhi incredulo, stringendo con più forza la mano di Sebastian.
“No.”
“Ti prego, mordimi. A me sta bene. Lo voglio.”
“No, non sai quello che vuoi.”
“Sì invece. Lo voglio più di ogni altra cosa.”
E fu talmente grande, come rivelazione, che Blaine socchiuse gli occhi emettendo un gemito di dolore, più psicologico che fisico; sbattè la testa contro l’erba fresca e non aveva il coraggio di guardare Sebastian, non ora che il legame era troppo forte, non ora che il suo corpo bramava sangue.
Il paletto che adesso si trovava stretto trai loro palmi venne sollevato a mezz’aria in un attimo: un tempo troppo breve per un umano. Abbastanza lungo per un vampiro.
Quando Blaine fece per conficcarselo sin dentro al suo petto, per Sebastian fu come se il suo cuore si spezzasse due volte; lo bloccò con uno scatto repentino, a metà dell’azione. Lo vide spalancare gli occhi e cercare di desistere alla presa. Era combattuto.
“Sebastian, vattene via.”
“Mordimi.”
“Vattene via...”
Ma lui fu più testardo, e più tenace: si chinò completamente su di lui e i fori erano lì, in bella vista, insieme al loro legame ormai inesauribile e a quell’istinto di sopravvivenza che portava i vampiri all’autoconservazione.
E gli occhi di Blaine si fecero più scuri, mentre si avvicinava a lui e si appropriava di ciò che era suo, sin dal primo momento che lo aveva visto.
 
 
 
Quando avrebbe dovuto avvertire la sensazione di lacerazione, dolore, passione e indescrivibile piacere, Sebastian si trovò ad aprire gli occhi come destandosi da un lungo sogno, pur essendo stato completamente sveglio.
Aveva appena assistito ad un’allucinazione, dettatagli da quegli stessi fori che adesso stavano svanendo, lentamente. Era stato l’ultimo appello della sua anima, mentre salutava quella a cui era legata.
Perchè Blaine non lo aveva morso. Non lo aveva trasformato in vampiro.
Il paletto che nella visione era riuscito a bloccare era dentro al suo torace, il sangue che copriva le sue mani rigide come pietra, strette alle sue.
Era una ferita che non si sarebbe rimarginata. Un dolore troppo reale.
Era stato Blaine: era entrato nella sua mente. Lo aveva ammaliato e trasportato in un’altra dimensione, regalandogli quell’ultima scintilla di speranza, di gratitudine.
Non voleva che assistesse al momento in cui, intrecciando le dita alle sue, si era pugnalato al cuore; perchè lo aveva fatto tramite lui. Perchè non c’era altro modo, non c’era mai stato.
Ma nella realtà, il soffitto della tenuta era perfettamente solido e resistente; non pioveva, non c’erano le stelle, l’atrio di quel grande salone era vuoto, grigio, banale.
Non era riuscito a salvarlo. E avrebbe voluto, così tanto.
Blaine lo stava fissando con quegli occhi grandi, espressivi. Erano così belli.
Sorrideva: le labbra leggermente incurvate verso l’alto gli suggerivano che fosse felice, libero. Lo erano entrambi, come promesso.
In silenzio, sollevò il braccio con gesti lenti: voleva accarezzare il viso dell’unica persona che avesse mai pianto per lui.
E Sebastian, lui, piangeva.
I fori sul suo collo non c’erano più. Come Blaine.
Gli tenne la mano per tutto il tempo.
 
 
 

 
But you still have all of me.

 
 
 

 







Angolo di Farina


1) Buona Seblaine Sunday! Chiaramente il titolo è riferimento alla canzone che trovate nel link. Che è bellissima, devo dire.
2) Appena la mitica beta è disponibile mi correggerà il malloppone e lo riediterò con le correzioni. Nel frattempo, spero di non aver commesso troppi orrori.
3) Questa OS non è un Crossover con i libri di Anne Rice, nonostante ci siano delle somiglianze con l'ideale di vampiro, dal momento che lei stessa fa riferimento a delle leggende e culture a cui posso attingere anche io. Inoltre, in questa OS ho aggiunto il fattore che i vampiri possono essere uccisi dal proprio creatore attraverso un morso, o tutta la questione del legame stabilito dal morso, così come ho introdotto l'argomento cacciatori di vampiri etc. Questa NON è una fanfiction su quella saga, ma su Glee, attraverso un Alternative Universe a sè stante, quindi vi sarei grata se non segnalaste la storia come inappropriata. E' una semplicissima AU sui vampiri. Grazie.
4) ... Sì. Lo so. Io che scrivo angst? Lo so. Lo so, non dite niente. E ora la finisco qui perchè non voglio fare delle note chilometriche. 

Fra

 
 
 


 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Tale madre, tale figlio ***



Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events



 

 


Susanne Collins e Eliane Deneuve erano migliori amiche dai tempi del liceo; si erano trovate sin da subito, la prima con la sua dolcezza quasi surreale, la seconda con i suoi modi di fare pungenti che attiravano, all’epoca, molti ragazzini.
Erano semplicemente inseparabili: Susanne cercava di ammorbidire la sua amica sin troppo cinica e fredda, mentre Eliane aveva sempre cercato di aggiungere quel pizzico di pepe in lei, così da renderla ancora più attraente per il genere maschile. Non che ce ne fosse bisogno, in realtà: era sempre stata una donna bellissima, sebbene l’altezza non giocasse a suo favore, con i capelli riccioli e scuri, le curve tutte al posto giusto e gli occhi grandi. Eliane, invece giostrava al meglio i suoi lineamenti francesi, che le avevano regalato dei capelli lisci e biondi e le gambe lunghe e dritte, che dai venti anni in poi furono sempre accompagnate da dei vertiginosi tacchi. Veniva spesso scambiata per modella, ma lei rispondeva sempre dicendo che non aveva bisogno del suo aspetto fisico per dimostrare la sua supremazia sul mondo.
A quindici anni Susanne conobbe il suo vero amore, Richard Anderson. Richard era un ragazzo timido, di un paio di anni più grande di lei, non molto alto e sicuramente imbranato. Faceva molta tenerezza alla ragazza, mentre la sua amica, semplicemente, continuava a dire che fosse un emerito idiota.
Fatto sta che un giorno li aveva convinti a uscire insieme: nonostante Susanne avesse urlato “Oh mio Dio no ti prego non sono pronta” almeno un milione di volte, Eliane attuò il suo piano con una genialità disarmante. A quei tempi era difficile che un ragazzo e una ragazza si incontrassero facilmente, le scuole erano divise per sessi, e quelle private come la Crawford e la Dalton Academy erano ancora più rigide del solito. Quindi, quando Susanne aveva visto quel ragazzo – secondo lei bellissimo – in caffetteria, Eliane fu costretta ad aggirare l’ostacolo pur di farli di nuovo incontrare. Questo volle dire che si mise con il suo migliore amico, Leonard Smythe, un borghese saputello che si credeva il più bel Adone sulla piazza.
Lo odiava. Ma almeno, avevano cominciato a fare quelle famose quanto detestabili uscite a quattro, in cui Susanne e Richard potevano sfiorarsi la mano e arrossire come dei tredicenni. Se non fosse stata la sua migliore amica, probabilmente le avrebbe ficcato la testa nel cesso. Nel momento in cui, finalmente, si erano messi insieme all’età di diciassette anni, Eliane pensò che il suo lavoro fosse finito, avrebbe scaricato Leonard e avrebbe riavuto la sua agognata libertà: non fu così. Leonard, in risposta, le disse che sarebbe stato lui a scaricare lei, ma nessuno può scaricare una Deneuve.
Così, semplicemente, decisero di non scaricarsi a vicenda, tanto da arrivare fino all’altare.
Susanne ed Eliane avevano fatto tutto insieme: avevano fatto il liceo insieme, si erano fidanzate nello stesso periodo, si erano laureate nello stesso polo universitario – una in lingue, l’altra in Economia -  e addirittura si erano sposate insieme, in un’unica cerimonia sfarzosa e maestosa. Certo, non fu una sorpresa per i loro mariti scoprire che volevano anche concepire un figlio nello stesso anno. In realtà, però, ci fu un piccolo incidente di percorso: Susanne restò incinta a soli vent’anni e Eliane decretò con fermezza che non aveva nessuna intenzione di “diventare vecchia” già da subito, oltre a rimproverarla per la sua ingenuità. “Sei sposata solo da due mesi!” Le urlò furiosa, “Non dirmi che lo avevi previsto!”
“No”, le aveva risposto Susanne, con voce ferma ma serena, “No, ma non mi pento, sono felice.”
Così, nove mesi dopo, nacque Cooper Anderson.
Per diversi anni le due donne non parlarono affatto di figli, dal momento che avevano quasi rotto l’amicizia per colpa di quell’argomento; e poi, Eliane e Leonard erano molto indaffarati con i loro lavori, mentre Susanne e Richard avevano già un bel da fare con il piccolo Coop.
Passarono otto anni. E poi, come per una bizzarra successione di eventi, Eliane era incinta. E così Susanne.
Le due mogli credevano nello zampino dei mariti, ma non scoprirono mai l’arcano segreto, vincolato da un patto d’amicizia che recitava puntalmente “Non sono affari vostri, donne, queste sono cose da uomini”. I mesi trascorsero con una velocità quasi idilliaca, mentre gli uomini fantasticavano sull’arredamento delle nuove camerette, le donne fantasticavano sul sesso: erano due femmine, se lo sentivano. Due bellissime bambine con il sorriso sulle labbra e una grazia da principessine. Avrebbero giocato insieme alle bambole e si sarebbero tenute per mano, quando fuori pioveva e c’erano i temporali.
Sarebbero state amiche, migliori amiche, inseparabili proprio come le madri, e avrebbero sposato due uomini prestanti come i padri.
Fu abbastanza sconcertante trovarsi di fronte a Sebastian e Blaine.
Non perchè fossero due maschi, no: alla notizia i padri si erano abbracciati urlando come al Superbowl, e ringraziando qualsiasi Dio che li aveva benedetti in quel modo: si sarebbero iscritti alla stessa squadra di football e sarebbero andati a rimorchiare insieme, proprio come loro due ai tempi d’oro. Invincibili, l’uno la spalla dell’altro.
Nemmeno quello.
Sebastian e Blaine, semplicemente, si detestarono dal primo momento che vennero al mondo. E non è una frase fatta, detta giusto per dire: già da quando erano in culla, nel reparto post-parto dell’ospedale, Blaine si agitava e piangeva a destra e sinistra facendo piangere anche il piccolo Sebastian accanto a lui, che invece voleva solo dormire.
Leonard e Richard assistevano alla scena con i palmi appoggiati sul vetro caldo, sperando soltanto che, in futuro, le cose sarebbero andate diversamente. Ma quello era solo l’inizio.
All’età di cinque anni Sebastian ruppe il giocattolo preferito di Blaine, lo fracassò a terra dalla cima dello scivolo. L’altro bambino, in risposta, rovesciò il suo caffè d’orzo all’asilo nido e quello scatenò una rissa con tanto di capelli tirati e morsi vari; dopo essersi beccati una ramanzina dalla maestra e riempiti di cerotti, se ne stettero uno all’angolo opposto della stanza giochi e non si parlarono per il resto della giornata.
 
 
Per l’ottavo compleanno di Blaine, Susanne aveva fatto una bella festicciola a casa loro: avevano pulito la piscina, appeso striscioni per tutta la casa, sparso palloncini di tutti i colori e messo allo stereo le sigle dei loro cartoni animati preferiti. Poi Blaine aveva cominciato a scartare tutti i regali dei suoi amichetti, tra cui Adam Vines, del quartiere accanto; gli aveva regalato l’ultimo Action Man con mirino laser che colpiva da lontano. Era il più bel regalo che avesse mai avuto in vita sua. Era felice come se fosse Natale, anche se in realtà era giugno inoltrato, e con gli altri bambini passarono la giornata a inventarsi una lunghissima battaglia trai loro giocattoli, con Action Man come protagonista della scena che doveva salvare il pony arcobaleno di Bonny Sullivans insieme all'orsetto di Olivia Clide, il cagnolino robot di David Hockins e il modellino di Superman di Adam Vines, per l’appunto.
Sebastian aveva deciso di non giocare. Era stato in disparte per tutta la festa, prendendo a calci l’acqua dal bordo piscina su cui era seduto, e aveva tenuto il broncio per tutto il tempo. Blaine e gli altri avevano provato a convincerlo, più e più volte, ma quando si intestardiva sapevano che non c’era proprio nulla da fare. Fu soltanto quando la festa era ormai finita, e i genitori erano già passati a prendere i loro rispettivi figli, che Sebastian rivolse parola a Blaine. Osservò per un attimo i suoi riccioli arruffati prima di dirgli: “Non giochi più con me”, freddamente, dopo avergli sottratto di mano uno dei pochi palloncini rimasti. Blaine lo guardò allibito, con i suoi occhioni che erano già lucidi per lo shock, e quando chiese timidamente delle spiegazioni, Sebastian scoppiò il palloncino proprio a un centimetro dal suo viso, facendolo spaventare a morte tanto da scoppiare a piangere.
Eliane, che stava aiutando Susanne a mettere tutto in ordine, gettò nella spazzatura i piattini di plastica su cui i bimbi avevano mangiato la torta al cioccolato e prese suo figlio per le orecchie, mentre Susanne coccolava il suo.
“Sebastian è cattivo”, Piagnucolò Blaine e l’amico, in risposta, emise uno sbuffo talmente forte che si sentì fino all'altra parte della strada: “Bravo, piangi, sai solo piangere, sei una femminuccia!”
“Non sono una femminuccia!”
“Sì lo sei, giochi ancora con le bambole!”
Blaine si divincolò dalla presa della madre per avventarsi su Sebastian; caddero a terra e cominciarono a rotolarsi nell’erba fresca picchiandosi e insultandosi in tutti i modi che conoscevano.
“Si può sapere che ti prende?!” Gli disse Eliane una volta arrivati a casa, puntandogli il dito contro: “Perché te la sei presa con Blaine in quel modo?”
“Perché è stupido”, Mugugnò lui, beccandosi un altro strattone dalla madre che pretendeva di guardarlo negli occhi.
“Che cosa ti ha fatto?”
Continuava a tenere gli occhi bassi, raschiando il parquet di legno con la suola delle scarpette. Adesso, il suo tono di voce era leggermente increspato: “Ha giocato tutto il giorno con Adam.”
“Ha giocato con tutti Sebastian, sei tu l’unico che si è isolato.”
“Ma ha detto che il suo regalo era il più bellissimissimo del mondo. L’ha detto, l’ho sentito io. E io sono stupido.”
Eliane inarcò le sopracciglia, esitando per un secondo: “O sei stupido tu o è stupido lui, deciditi tesoro.”
“Sono stupido io perché non gli ho fatto nessun regalo e Blaine lo voleva.”
Oh, ecco cos’era. Con un mezzo sorriso, si chinò per arrivare alla stessa altezza di suo figlio e gli aggiustò una ciocca di capelli: “Siamo ancora in tempo lo sai. Possiamo tornare di nuovo a quel negozio di giocattoli e-“
“No, no! Mamma, non capisci niente! Non vanno bene quei giocattoli per Blaine!” Protestò allora lui battendo un piede a terra, con gli occhi verdi carichi di emozioni contrastanti e le labbra piccole serrate in un broncio solenne.
“E allora cosa vuoi regalargli?”
“Non lo so, oh! Nessun regalo va bene per Blaine.”
Gli lasciò un tenero bacio sulla fronte, dicendogli che fosse ora di andare a lavarsi i denti e coricarsi. Avrebbero fatto pace il giorno dopo, come sempre. E il giorno dopo ancora avrebbero litigato un’altra volta.
 
 
Sebastian e Blaine ormai avevano diciassette anni. Non erano più quei bambini che si facevano i dispetti e si sbucciavano sempre le ginocchia per via di una rissa; adesso facevano la Dalton Academy, seguendo le orme dei loro genitori, erano pieni di interessi e di altrettante cose da fare. Blaine era il leader dei Warbler, il gruppo corale della scuola, a cui partecipava anche Sebastian; quest’ultimo, invece, era capitano della squadra di Lacrosse che era appena uscita vittoriosa dal campionato. Fisicamente, erano nel pieno della pubertà, e i loro corpi cominciavano a cambiare radicalmente: i riccioli di Blaine, adesso, erano corti e fermati con una quantità abbondante di gel; i suoi lineamenti perdevano quella rotondità adolescenziale per fare spazio a un viso più mascolino e a un corpo più adulto. Sebastian in un’estate era cresciuto di dieci centimetri, dovendo farsi nuovo tutto il guardaroba, scarpe comprese.
Caratterialmente, comunque, non erano cambiati di una virgola.
“Mamma, sono a casa.”
Finalmente, le tanto sognate vacanze estive. Blaine le aspettava da mesi, anzi, sin dal momento in cui erano finite l’anno precedente: adesso che non aveva più compiti, test, riunioni di Warbler e interrogazioni, poteva togliersi la divisa e infilarsi direttamente il costume da bagno, correre in giardino e rimanere a mollo nella piscina per almeno tre mesi.
Stava già cercando le ciabatte di plastica, quando suo padre lo fermò proprio davanti alla scarpiera. Con il pasare degli anni, gli assomigliava sempre di più. “Dove pensi di andare?”
“In piscina, non posso?” Domandò lui innocentemente. “Non l’abbiamo fatta pulire una settimana fa?”
“No Blaine, intendevo dire: non crederai di poter sfuggire alla cena con gli Smythe di questa sera, vero?”
Oh, giusto. Se n’era completamente dimenticato. La sua espressione euforica, da ultimo giorno di scuola e annesso ritorno a casa, svanì in un battito di ciglia; non aveva assolutamente voglia di andare dagli Smythe. Perché significava che, oltre a doversi vestire in modo appropriato, perché “Anche se siamo amici da secoli sono comunque ospiti Blaine, devi presentarti bene”, ci sarebbe stato anche Sebastian.
“Devo proprio?”
“Certo che devi. Blaine, questa tua ostilità con Sebastian prima o poi dovrà finire.”
“Certo, forse quando non lo vedrò più.”
“Blaine-“
“Papà tu non hai proprio idea e- sai cosa mi ha fatto oggi? LO SAI?”
Il padre roteò gli occhi al cielo, abbandonando le braccia lungo i fianchi: “No, dimmi.”
“Mi ha tirato addosso una granita. Una granita.”
“Blaine, è l’ultimo giorno di scuola, avrà voluto farti un gavettone!”
“Oh certo papà, quindi mi sembra una giustificazione valida tirarmi addosso una granita ghiacciata e colorata che mi è finita dovunque. Dovunque papà, hai presente che vuol dire dovunque? Ce l’ho anche nei capelli, guarda, sono sicuro che se cerchi bene ci trovi un lampone.”
Blaine abbassò la testa facendogli cenno di frugare trai capelli, ma il padre riuscì a farlo di nuovo raddrizzare, guadagnandosi un’occhiata storta e il continuo di quel monologo che aveva sentito migliaia, milioni di volte.
“Quindi sono dovuto tornare in camera a lavarmi e cambiarmi, e mi sono beccato una sfuriata da quella della lavanderia perchè il lampone macchia tantissimo, ti rendi conto che se l’è presa con me? Ti rendi conto?”
“È solo uno scherzo dai!”
“Oh no papà, io non ci vengo stasera, non ho nessuna voglia di guardare in faccia quel ragazzo presuntuoso, arrogante, odioso e insopportabile, io me ne esco con Tina e voi andate pure.”
“Oh no signorino.” Susanne comparve da dietro la porta, con un farfallino in mano e l’aria del tutto insoddisfatta: “Tu con la tua fidanzata ci esci domani, adesso ti vesti e vieni con noi senza fare storie. Intesi?”
“Ma-“
“Intesi?”
Per fortuna che la madre era più cocciuta di lui: fu costretto ad annuire e prendere in mano quel farfallino a pois bianchi e verdi, aggiustandosi allo specchio del corridoio e continuando a inveire e borbottare contro Sebastian Smythe.
Che destino crudele: i genitori così amici, e i figli così nemici.
 
 
Blaine attraversò lentamente quel vialetto che, ormai, conosceva a memoria, con la sua smorfia che diventava sempre più lunga passo dopo passo. Ad aprirgli la porta fu Leonard, che salutò l’amico Richard con un abbraccio amichevole, e Susanne con un bacio sulla guancia.
“Finalmente l’estate, vero Blaine? Sole, mare, felicità!”
“Sto morendo di felicità.” Ricevette una gomitata da parte di entrambi i genitori.
Sebastian era lì, esattamente come immaginato. Seduto sul divano in pelle con le sue gambe lunghe accavallate nei jeans scuri, la camicia che gli metteva in risalto le spalle e i pettorali. Che vanitoso: ora, soltanto perchè aveva fatto qualche anno di palestra e tutto ad un tratto si era ritrovato con un filo di muscoli, poteva sfoggiarli a tutto il mondo.
“Buonasera signori Anderson, è sempre bello rivedervi.” Li salutò con un sorriso gentile e una voce melliflua, mentre li accompagnava alla sala da pranzo dove Eliane aveva già disposto i piatti. Blaine era a un passo dietro di lui e stava fissando la sua nuca come se volesse trafiggerla con qualcosa di molto appuntito.
“Sebastian, Blaine! Come mai così silenziosi?”
Eliane avev appena portato il secondo quando sopraggiunse quella domanda. I due ragazzi si fissarono in malo modo, le forchette strette nelle loro mani che rischiavano di spezzarsi, i volti contratti e le braccia rigide appoggiate alla tovaglia di lino bianco.
“In effetti è un evento che non vi siate ancora detti di tutto”, Scherzò Leonard ricevendo un occhiolino da Richard. Blaine si pulì con il fazzoletto che prima teneva sopra le gambe e mormorò: “Non ho niente da dire a uno come lui.”
“Oh, allora stavolta è grave. Sebastian, che hai combinato? Non gli avrai mica soffiato la ragazza!”
“Leonard!” Lo rimbeccò Susan, ma Sebastian ridacchiò divertito e si passò una mano sotto al mento perfettamente liscio: “In effetti, sarebbe interessante farsi Tina. Peccato che io abbia altri gusti.”
“Come?” Richard posò inavvertitamente la posata sul piatto: “Sebastian, ci stai dicendo che sei...?”
“Oh, no. Stavo solo dicendo che giusto ieri sono stato con una cheerleader davvero niente male e-“
“Non ci interessa sapere le tue performance, Sebastian”, Tagliò corto Blaine diventando rosso al posto suo. Sebastian, invece, approfittò dell’occasione e aggiunse: “Hai usato la parola giusta Blaine: performance. I miei sono numeri da circo.”
“Oh mio Dio ti prego, Sebastian stai parlando con i nostri genitori.”
“Non ti preoccupare, siamo abituati”, Ridacchiarono i signori Smythe, e poi la conversazione tornò su frontiere meno spigolose.
Quando la domestica finì di portare anche il dessert, Eliane decise che fosse il momento giusto per tirare fuori quell’argomento, così da levarsi il dente sin da subito e non pensarci più. Ottenne un’occhiata di approvazione dagli altri adulti, così cominciò: “Ragazzi, dobbiamo parlarvi di una cosa.”
Sebastian e Blaine, che stavano bisticciando perché il primo voleva mangiare il fiore di zucchero del secondo, alzarono la testa di scatto, quasi nello stesso momento.
“Che succede?”
“Finalmente proverete lo scambio di coppia? Mi fate sapere com’è?”
Sebastian.”
“Blaine, non dare calci sotto al tavolo a mio figlio. Comunque no, niente di così... azzardato. Abbiamo deciso di farci una vacanza, noi quattro insieme.”
Era una notizia del tutto inaspettata: gli Smythe non facevano vacanze da anni, ormai, troppo presi con il lavoro, e gli Anderson andavano sempre in quella tristissima baita dagli zii, un posto dimenticato da Dio in cui c’erano soltanto meduse e zanzare.
“Lo avevamo progettato da anni, ma poi siete nati voi e... beh, comunque, finalmente ce l’abbiamo fatta. Andremo in Marocco per due mesi.”
“Cosa? Fantastico! Quando si parte?” Esclamò Blaine cominciando già a fare la lista di cose da portare con sé, ma Susanne scosse la testa quasi mortificata, allungandosi per prendergli una mano: “Tesoro, sarebbe una cosa per noi... insomma, un ritorno ai vecchi tempi, sai, quando eravamo giovani e... senza figli.”
“... Oh.”
Niente Marocco quindi. La delusione provata in quel momento era quasi stellare.
“Ma non è giusto!” Protestò Sebastian ai suoi genitori, battendo una mano sul tavolo. “Voi vi fate la bella vacanza, e mi lasciate con questo qui, confinato a Lima, per tutta l’estate? Ci sono così tante cose sbagliate in questa frase che il correttore di Word cadrebbe in depressione.”
“Sebastian, non fare il bambino. È ovvio che non resterete a Lima.”
Momento di illuminazione.
“Ci... ci avete regalato una vacanza? Per noi due?”
Leonard li guardò leggermente perplesso prima di rispondere: “Ovvio che no. È solo che non lasceremo due adolescenti soli in casa. Tu, Sebastian, andrai dai nonni a Parigi.”
“E tu Blaine dai tuoi zii.”
Ecco, appunto. A lui toccava sempre e comunque la baita desolata.
“Non esiste proprio, non posso tornare a Parigi. Ho delle cose da fare qui.”
“Sebastian, non morirai se per un paio di mesi non vedrai le tue ragazzine.”
Sebastian emise una risata cinica e si alzò in piedi, passandosi una mano trai capelli. Blaine fece una smorfia, con un cenno della mano commentò: “Almeno non ti vedrò per tutta l’estate.”
“Oh Anderson, fidati, sono io che non vedo l’ora di non vederti.”
“Ma come parli? Non so nemmeno se quello che hai detto ha senso in un universo parallelo.”
“Sicuramente è di calibro troppo elevato per poter essere compresa da un nano come te.”
“Come prego?”
“Ragazzi”, Li chiamò Susanne, quando ormai entrambi erano in piedi e l’uno di fronte all’altro. “Smettetela, coraggio.”
“Coraggio killer, non sei tu quello che fa boxe? Perchè non mi dai un bel cazzotto sul mento?”
“No Sebastian, non ne vali davvero la pena.”
“Sei un codardo.”
“No, semplicemente, non sono infantile quanto te.”
“Scusa? Mi sa che ti confondi, sei tu che hai passato tutto il giorno a giocare alle bambole con Adam Vines.”
Oh mio Dio, Sebastian avevamo otto anni!”
Sebastian fece un passo in avanti e, alzando la voce fino a renderla stridula, improvvisò una pessima imitazione di Blaine, cantilenando: “Ho una cotta per Adam, ho una cotta per Adam, uuuuuh questo nuovo Action Man è bellissimissimo!”
Blaine aveva gli occhi lucidi dall’ira. Con le mani strette a pugno, e il respiro pesante, scandì ogni singola sillaba quando sentenziò: “Sei un idiota.”
“Che paura.”
“Dio, sei insopportabile.”
“Troppi complimenti tutti insieme.”
“Adesso io ti-“
 “ORA BASTA!”
I loro visi erano a pochi centimetri l’uno dall’altro, ma tutta la tensione fu spezzata brutalmente dall’urlo di Susanne, che aveva attraversato l’intera casa.
“Sono stufa di voi due che non fate altro che litigare, sono stufa che queste cene finiscano sempre allo stesso modo, sono diciassette anni che sopportiamo voi due, diciassette anni. I vostri genitori sono amici da una vita e non ci farete andare storta anche l’unica vacanza che ci siamo promessi. Quindi, adesso voglio che voi due facciate immediatamente pace, anzi, ancora meglio: voglio che voi due diventiate amici.”
Quella parola suonò come una sottospecie di stridio. Blaine e Sebastian erano completamente attoniti, non avevano mai ricevuto una sfuriata così, beh, non con quelle tematiche: i genitori avevano provato tante volte a farli diventare amici, ma non lo avevano mai imposto.
“E cosa vuoi fare?” La provocò Sebastian, noncurante del fatto che non stesse parlando a sua madre, ma la conosceva da talmente tanto tempo che si permise di dire: “Vuoi rinchiuderci in una stanza per tutta l’estate fino a quando non diventiamo amici?”
Sul volto delle due donne comparve un sorriso luminoso.
“Ma è un’idea spettacolare.”
“No. Un momento.” Balbettò Blaine. In coro, esclamarono: “Che cosa?”
“Non dobbiamo nemmeno chiedere agli zii di farti da babysitter.” Optò Richard.
“E noi non dobbiamo spedirti in Francia dai nonni”, Ribattè Leonard.
“Starete qui per tutto il tempo della nostra vacanza, e vi sorveglierete a vicenda.”
Eliane annuì alla sua amica, e con le braccia che cingevano i fianchi disse: “Sarete i babysitter l’uno dell’altro.”
Sul volto dei due comparve il terrore.
 
 
 
“Allora, mi raccomando, se avete bisogno di qualcosa, vi abbiamo lasciato la carta di credito sul tavolo!”
“Sì mamma, ce lo hai detto trenta volte. Guarda che perdete l’aereo.”
“Oh Blaine, ci mancherai così tanto”, Piagnucolò Susanne, abbracciando stretto il figlio e dandogli un sonoro bacio sulla fronte. Era il giorno della partenza, casa Smythe era improvvisamente svuotata della metà dei vestiti ma, al loro posto, c’erano tutte le valigie e le cose di Blaine, dal momento che avrebbe dovuto vivere lì per i successivi due mesi. Dalle spalle della madre lanciò un’occhiata torva a Sebastian, il quale stava salutando i suoi genitori mentre firmava un contratto fatto dalla madre: il giuramento solenne di non fare nessun tipo di festino in casa. Pena: un anno senza paghetta.
“Dobbiamo andare”, Annunciò Leonard, controllando l’orologio da polso. Il taxi era arrivato e le valigie erano caricate nel portabagagli. A Lima splendeva un sole cocente e sembrava davvero tutto splendido, se non fosse che gli umori dei due adolescenti erano più neri della pece.
“Oh andiamo. Non sarà così male!”
“Si tratta solo di due mesi insieme.”
“Sopravviverete.”
“Mi raccomando fate amicizia!” Dissero i quattro adulti, e dopo averli salutati un’ultima volta, entrarono dentro al taxi giallo che scomparve poco dopo dietro l’angolo, lasciando da soli Sebastian, Blaine e una casa immensa da accudire.
Aspettarono di aver varcato la soglia. Aspettarono di aver chiuso bene la porta a chiave.
Poi si lanciarono uno nelle braccia dell’altro baciandosi fino a quando non avevano più fiato nei polmoni, continuando a leccarsi e a mordicchiare diverse parti del collo.
“Dio, credevo non se ne sarebbero andati più.”
“Io ho avuto paura che ci avessero scoperto.” Blaine emise un gemito un po’ più forte, quando il suo ragazzo gli accarezzò il cavallo dei pantaloni. “Quando abbiamo litigato alla cena, io-“
“Sei un idiota, B. Stavo seriamente per saltarti addosso.”
Blaine lo guardò da sotto le sue ciglia scure, abbozzando un sorriso divertito prima di baciarlo un’altra volta: “Adam Vines, Sebastian? Quando finirai di essere geloso di lui?”
“Zitto.” E detto quello lo sollevò di peso facendolo urtare contro il legno della porta, sbottonandogli i jeans per accarezzare languidamente l’ombelico, poi l’elastico dei boxer, poi la curva del suo sedere assolutamente perfetto. Blaine gemette sotto al suo tocco fino a quando non unirono le loro fronti sudate, un modo per riprendere fiato, per guardarsi negli occhi e dire tutto ciò che non avevano mai il coraggio di ammettere a voce. Dopo qualche altro bacio piuttosto passionale, Sebastian si staccò da lui con un sonoro schiocco, godendosi per un momento i tentativi di Blaine nel seguire le sue labbra.
“Ammettilo dai.”
Aprì gli occhi di scatto, con una piccola smorfia: “Non esiste proprio.”
“B, questo piano è geniale e lo sai anche tu. È da quando ho visto quell’opuscolo del Marocco nello studio di mio padre che lo sto escogitando e adesso guardaci: due mesi in cui non dobbiamo far finta di uscire con ragazze varie per fare delle sveltine davanti allo Scandal."
"Io a volte ci esco con Tina! E poi-"
Sebastian cominciò a mordicchiare il suo labbro inferiore, non permettendogli di terminare la frase per mezzo minuto abbondante: "Dic-ah, dicevo... che ha funzionato solo perchè credono che ti odi follemente”, Mormorò quasi innervosito, afferrandolo per i capelli e avvicinandolo ancora di più a sé: “E non hanno tutti i torti. Sei uno stronzo.”
Sebastian sfoggiò un sorriso malizioso, sistemandosi meglio tra le sue gambe e avventandosi sulle sue labbra: “Mi ami per questo. E adesso, seguiamo il consiglio di tua madre e facciamo fare amicizia ai nostri-”














Note di Fra:

Chiedo venia se c'è qualche errore che mi è sfuggito, comunque appena possibile la farò betare dalla mia miticissima beta. Buona domenica a tutti!


 

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Capitolo 3
*** To Zanarkand ***


Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events
 







Così, quella era Zanarkand.
Una città morta da mille anni; una realtà che Sebastian vide con i suoi stessi occhi: rovine, macerie. Non era rimasto niente di quella città leggendaria impressa nella sua memoria.
Il fuoco costruito al centro del loro cerchio li riscaldava con delicatezza; le loro armi erano appoggiate lì, tutte insieme, intorno al bastone da invocatore di Blaine.
Si alzò in piedi, e prima di salire su una roccia piuttosto alta per osservare l’orizzonte, andò da lui in cerca di un gesto, di un qualsiasi contatto fisico; Blaine alzò la testa con i suoi grandi occhi ambrati e sorrise, quel sorriso lo riscaldava più di mille braceri.
Gli accarezzò lentamente una spalla, Blaine in risposta afferrò le dita della sua mano per intrecciarle alle sue. Fu un attimo, poi Sebastian lasciò la presa, aveva bisogno di guardare meglio, di crederci veramente.
Quella era Zanarkand. La fine del loro viaggio. L’ultimo capitolo della sua storia.
Forse, era l’ultima occasione rimasta, per poterla raccontare.
 
 
 

Lo stadio di Zanarkand era completamente pieno per la grande finale. Le luci dei riflettori erano accese, mentre gli ultimi arrivati prendevano posto tra gli spalti con bibite e oggettistica per tifare la loro squadra preferita. Il tabellone con i punteggi aveva il cronometro pronto e azzerato, in attesa del fischio di inizio; la globosfera, quella palla dalla capienza di cinquecento chilometri quadrati, era completamente riempita d’acqua grazie alle apposite cisterne all’avanguardia. Il Blitzball era lo sport più famoso in tutta Spira, non c’era bambino, ragazza, o adulto, che non lo avessero mai conosciuto o provato; la dinamica era semplice: era un misto tra il calcio e la pallanuoto, solo che si era completamente immersi nell’acqua, dove vi si poteva muovere e respirare con facilità grazie alle ultimissime tecnologie.
Dopotutto, erano pur sempre nel duemila.
 

“Posso avere un autografo?” Cinguettò una ragazzina con i capelli rossi e scompigliati di fronte all’asso nella manica degli Zanarkand Abes. Il playmaker sfoggiò un sorrisetto compiaciuto rispondendo “Ma certo Miss”, Con la sua voce calda e sensuale che faceva impazzire le sue fans.
Era davvero un peccato che lui avesse di gran lunga altri gusti.
Sebastian Smythe, recitava la firma sul pallone con calligrafia chiara ed elegante, mentre il resto dei tifosi accorreva e tentava di tutto per ottenere un autografo o scambiare giusto un paio di parole.
Sebastian sorrise ai fans, scostandosi un ciuffo di capelli dalla fronte e appoggiando le mani sui fianchi, in quella posa che ormai lo raffigurava su ogni sfondo, poster e parete. Era sempre lui, con i suoi occhi verdi, il suo sorriso malizioso, i suoi jeans lunghi e la sua maglietta con scollo a v, decisamente eccitante.
Un giovane tiratore all’apice della sua carriera, che poteva avere qualsiasi oggetto, premio, o ragazzo desiderasse, perché lui era importante, il più importante.
“In bocca al lupo per stasera!” Esclamò un ragazzo sulla ventina, con un viso carino e un corpo abbastanza bello da fargli venire un certo pensiero in mente; Sebastian inarcò un sopracciglio e si fermò davanti a lui e al suo amico, approfittando dell’occasione per firmare il suo pallone bianco e blu, con la tipica forma traforata del Blitzball.
“Non ne ho bisogno”, Rispose sprezzante: “Ho tutto sotto controllo.” Fece roteare la palla sull’indice della sua mano, prima di ridarla al proprietario. “Che posti avete?”
“Spalti laterali, quinta fila centrale!” Rispose l’amico, trattenendo a stento l’emozione.
“Ricevuto. Allora, se segno un goal...” Levò una mano a mezz’aria, con il palmo aperto, tenendo chiusi soltanto l’anulare e il medio: “E farò così, significa che quel punto ve lo dedico.”
“Oh Dio!” Sentì cinguettare dai due, come delle ragazzine urlanti. Era sempre divertente quando lo facevano; soprattutto, era divertente quando ci tenevano a ringraziarlo a dovere nel dopo-partita.
Si voltò verso la folla in visibilio e si strinse leggermente nelle spalle: “Ora devo andare ragazzi. Ma tifate per me, d’accordo?”
Scoppiarono in urla e applausi, e pensò che fosse una risposta più che sufficiente.
Nel frattempo, lo stadio era riempito fino all’ultimo posto, aspettavano tutti l’inizio di quella partita che sarebbe stata memorabile.
“Chissà cosa ci riserverà il giovane Smythe, questa volta”, Commentò il cronista ufficiale al suo collega, le loro voci che echeggiavano per tutta Zanarkand. Il vuoto tra le strade rendeva i loro microfoni ancora più potenti, erano tutti lì; volevano vedere lui, Sebastian Smythe, figlio del leggendario John Smythe, l’eroe del Blitzball. Zanarkand quella sera aveva occhi solo per lui.
 
 
Quando partì il fischio d’inizio la città scoppiò in un boato.
I Riverside Lakers erano forti, nuotavano con forza e con la massima cura; intercettavano i passaggi più lunghi e marcavano i giocatori più temibili. Sebastian ne aveva due alle calcagna, ma non si sentiva particolarmente pressato, nè in preda alla frustrazione: lui faceva il suo gioco, era talmente bravo da riuscire a smarcarsi con un paio di bracciate, merito anche della sua altezza e dei suoi muscoli forgiati dentro l’acqua.
Era una partita memorabile, piena di tiri in porta e di colpi di scena, la folla era letteralmente entusiasta di vivere nella collettività quel giorno che, sicuramente, sarebbe passato alla storia.
In effetti fu così, sebbene in via del tutto non premeditate.
Sebastian era uscito fuori dalla sfera per raggiungere la palla schizzata via in aria e effettuare il mitico colpo: il tiro Smythe, la firma di suo padre, l’unica cosa che preferiva avere in comune con lui. Una rovesciata perfettamente eseguita a mezz’aria giusto un attimo prima di rientrare in acqua, sferrando un calcio potente alla palla che sarebbe finita nell’incrocio dei pali e avrebbe sancito la loro vittoria.
Osservò il cielo da lassù, si perse per un momento a osservare quelle stelle che sembravano brillare solo per lui.
Fino a quando non notò l’onda gigantesta che stava per abbattersi sulla città. Il sorriso scomparve definitivamente dalle sue labbra nel momento in cui da quella minaccia uscirono dei raggi fulminei, si abbatterono contro le torri, contro i palazzi, contro le strade, per tutta la città.
Non era uno tsunami qualsiasi: non era un fenomeno naturale.
Un attimo dopo, la sirena del municipio sancì l’allarme e l’evacuazione immediata mentre l’onda imperviava spazzando via tutto ciò che incontrava nel suo cammino.
Un mostro comparve dall’alto; un qualcosa di troppo grande per essere descritto, e di mai visto prima. Sebastian, che si era aggrappato a uno dei pilastri della globo-sfera, avvertì quell’entità avvicinarsi sempre di più a lui, una luce calda, una forza di gravità che lo stava attirando verso l’alto, dritto al centro di quella sottospecie di foro illuminato e terrificante.
Credeva che sarebbe morto lì: inghiottito assieme alle macerie da un essere senza forma e senza dimensioni umanamente calcolabili. Invece, quando aprì gli occhi, davanti a sè comparve il sole.
Galleggiava su una vasta distesa d’acqua, era chiara, color verde mare. Un colore completamente diverso dal blu della globo-sfera.
“Ehi, coso? Tizio? Ti senti bene?”
Si destò dal suo stato quasi comatoso per mettersi composto e osservare la riva, dalla quale riuscì a scorgere un gruppetto di ragazzi che sventolavano le mani verso di lui. Rielaborando nella sua mente la domanda, andò a tastare ogni parte possibile del suo corpo per vedere se fosse ancora tutto intero.
“Sì, credo di sì”, Urlò in mezzo all’acqua, mentre nuotava per raggiungerli e ricevere un po’ di delucidazioni. Dove si trovava? Assomigliava a una zona tropicale, con delle lunghe palme e la salsedine che si insediava fin dentro ai polmoni. Non assomigliava affatto a Zanarkand.
“Dio, credevamo fossi morto!” Il ragazzo che gli aveva rivolto la parola per primo si fece avanti con un telo da mare, che Sebastian accettò di buon grado per cercare quanto meno di tamponarsi il viso, nonostante i vestiti zuppi. Ma il tempo era bello, c’era un sole che riscaldava la terra sotto alle sue scarpe, sarebbe stato piacevole asciugarsi così. Squadrò il gruppetto da dietro il telo, sembravano avere grosso modo la sua età, il primo era alto più di lui lui con le spalle spesse il doppio, i capelli corti e un viso affettuoso e ingenuo.
“Io sono Finn Hudson.”
“Sebastian Smythe.” Si aspettò un qualche tipo di reazione, insomma, era Sebastian Smythe; invece, si sentì stringere velocemente la mano.
“Loro sono Wes, David, Jeff e Nick. Siamo compagni di squadra.”
“Squadra? Giocate a Blitzball?” Quella notizia lo illuminò come una lampadina. Ebbe la consapevolezza che qualcosa, almeno quello, non fosse poi così cambiato.
“Sì, certo!”
“Ma non siamo granchè”, Intervenne Jeff. “Facciamo schifo”, Disse allora Nick, e i due ragazzi vennero zittiti da delle proteste di Wes e David. Finn, in quanto capitano, ordinò loro di continuare l’allenamento, e così i quattro ripresero a fare il giro della spiaggia a passo sostenuto, spintonandosi e prendendosi in giro tra di loro.
“Beh, per fortuna avete davanti a voi il miglior Blitzer di tutta Spira. Mi sento particolarmente riconoscente, quindi potrei anche insegnarvi qualche trucchetto”, Esordì Sebatsian alla nuova conoscenza, sedendosi sulla sabbia e sentendosi incredibilmente bisognoso di chiacchiere e attenzioni. Era completamente sperduto e disorientato, sull’orlo di una crisi di nervi, ma quell’accoglienza amichevole gli aveva risollevato il morale.
“Davvero? In che ruolo?”
“Attaccante”, Rispose con un moto d’orgoglio che gli fece gonfiare il petto e sorridere spavaldo: “Sono l’asso degli Zanarkand Abes!”
“Ah ah, buona questa! No dai dico sul serio, da dove vieni amico?” Ridacchiò Finn sedendosi accanto a lui.
“Te l’ho detto.” Il suo sorriso si fece più contenuto: “Vengo da Zanarkand. Ti fa tanto ridere?”
“Per caso qualcuno t’ha dato una botta in testa?” Esclamò, ridendo ancora più forte. Sebastian gli lanciò un’occhiata cinica: “Beh è probabile, visto che mi sono svegliato in mezzo all’acqua come un deficiente.”
Il tono freddo e seccato convinse l’altro ragazzo a cambiare registro. “Va bene, facciamo un passo alla volta. Ti sei svegliato e ti sei ritrovato a cento metri dalla spiaggia.”
“Esattamente.”
“Non ricordi come sei arrivato fin qui?”
Così Sebastian gli raccontò tutto quello che sapeva su Zanarkand. Sulla città e il suo tenore di vita, su quella partita e l’attacco misterioso, su quella luce che lo aveva avvolto. Parlò senza riflettere, ma più andava avanti, e più l’espressione di Finn diventava un grande punto interrogativo, come se fosse perplesso, o confuso.
“Sto dicendo cose così strane?” Sbottò a un tratto quando il ragazzo aveva fatto una breve smorfia, forse, perchè non sapeva bene come commentare tutto quel racconto.
“Amico, da quello che ho capito, e ho capito molto poco”, Puntualizzò, “Sei stato vicino a Sin.”
“Sin?”
“Il mostro di cui mi parli. È Sin, no? Non può essere altri che lui.”
Sebastian lo sentì parlare con un tono talmente convinto, che diede per scontata la veridicità delle sue parole. A quel punto, Finn gli mise una mano sulla spalla, scuotendo la testa con fare comprensivo: “Non preoccuparti, dicono che a chi si avvicina a Sin vengono delle strane alllucinazioni. Vedrai che tra qualche ora starai meglio, sarà stato un brutto sogno.”
“Che vuoi dire? Sono malato?!” Non poteva essere malato, lui aveva solo venti anni, stava benissimo.
“Sei intossicato”, Lo corresse lui, “Da Sin. Amico, stai dicendo davvero delle cose assurde, sembri quasi delirante.”
“Non sto dicendo cose assurde, dico solo quello che è successo.” Sbottò Sebastian alzandosi in piedi e togliendosi con cattiveria i granelli di sabbia dai jeans, ma Finn lo prese per un polso con ancora più tenacia e commentò: “Sebastian, Zanarkand non esiste più, Sin la distrusse mille anni fa. E dubito che ci sia una qualche finale di Blitzball in corso, lì. Ci sono solo vecchie rovine.”
Quella notizia lo tramortì come una ventata d’acqua gelida in pieno petto.
“Non è possibile.” Il suo cuore batteva all’impazzata, stava sudando freddo. “No, io c’ero, l’ho visto. Ho visto Sin attaccarla. È successo ora, poco fa,  in questa giornata e non puoi dirmi che si tratta di mille anni fa.”
Finn lo guardò per diverso tempo senza aggiungere niente. Dopodichè, abbozzando un sorriso incerto, gli diede una piccola pacca sul braccio.
“Ti va di andare a mangiare un boccone? Al villaggio avranno preparato degli spuntini deliziosi.”
Sebastian non aveva le forze per contraddirlo o negare quella gentilezza immeritata; si sentiva come in balìa di se stesso, con quel Finn che adesso lo guidava attraverso zone che non aveva mai visto nè sentito prima e gli faceva una panoramica del posto. Inoltre, non vedeva traccia di tecnologia da nessuna parte: le case erano in legno, le strade in mattoni e pietriccio, i vestiti semplici e di cotone, senza metalli o sostanze più moderne.
Besaid, era quello il nome della terra in cui si trovava. Un piccolo villaggio anonimo sperduto tra il mare, il bosco e le montagne.
“Oh, un’ultima cosa.” Finn lo fermò quando avevano raggiunto il cuore del villaggio, con i bambini che giocavano tra di loro con corde e palle fatte con pezzi di stoffa, e le lavandaie che si dirigevano ai bagni pubblici.
“Fidati: non dire a nessuno che sei di Zanarkand. È la Terra Santa di Yevon, qualcuno potrebbe arrabbiarsi per queste tue battute.”
“... Certo”, Annuì, sebbene, non troppo convinto.
Zanarkand una Terra Santa, pensò scettico. Certo, come no. E da quando?
Ma poi, che diavolo era quel Sin? E quel Yevon di cui parlava? Sebastian credeva che Sin lo avesse portato in qualche posto lontano, ma non così lontano. Non mille anni nel futuro.
“Finn! Ecco dov’eri, ti ho cercato per tutta Besaid!”
Una ragazzina alta la metà di lui, con una semplice toga che le scendeva fino alle caviglie, si parò di fronte a loro con lo sguardo accigliato e tutta l’aria di non voler farli passare.
“Rachel”, balbettò Finn guardandosi intorno come per trovare una via di fuga. “Amore, non è come pens-“
“AH NO? E allora dimmelo tu come stanno le cose Finn Hudson, dovevamo andare al mercato insieme!”
“Lo so, ma i ragazzi avevano bisogno di un allentamento e... e poi c’era Sebastian!” Esclamò, come trovando la soluzione ai suoi problemi, quando Sebastian voleva soltanto andarsene e lasciare che i fidanzatini litigassero da soli, senza che lo ficcassero in mezzo, in santa pace.
“Sebastian?” In un attimo, le attenzioni della ragazza dalla voce squillante furono tutte dirette verso di lui. “Sebastian? E chi è Sebastian? Finn sei impossibile, non ci credo che hai convinto un povero estraneo nella tua farsa, se non volevi venire al mercato bastava dirm-”
Venne interrotta proprio quando stava per puntare l’indice contro il petto del ragazzo, sollevata a terra da un altro senza il minimo sforzo e che adesso sbuffava sonoramente, mentre il fidanzato potè finalmente tirare un sospiro di sollievo.
“Grazie Sam. Non sapevo come zittirl-“
“COSA?”
“Calmarla. Non sapevo proprio come calmarla.”
Il ragazzo biondo che rispondeva al nome di Sam gli fece un cenno della testa in segno di approvazione, e poi rimise Rachel a terra, i suoi lunghi capelli castani che caddero morbidamente sulle spalle scoperte.
“Beh, comunque. Io sono Rachel Berry.” Disse rivolta a Sebastian con un sorriso perfettamente finto, “E lui è Sam Evans. Non ti ho mai visto da queste parti.”
“Non sono di qui infatti”, Rispose senza nemmeno pensarci: “Vengo da Zanarkand.”
Sam e Rachel lo fissarono pietrificati: “Come hai detto scusa?”
“Ehm... niente. Niente, lui fa così, scherza sempre, vero?”
“... Già”, Commentò lui, sfoggiando il miglior sorriso che riuscisse a fare e passandosi una mano trai capelli. Cercò di ripetere il discorso sentito da Finn, e la sua incertezza nel ripetere parole per lui completamente prive di significato venne scambiata soltanto per pura timidezza: “Sono... sono stato intossicato da Sin e... dico cose senza senso, sapete com’è...”
“Oh, sei sopravvissuto a Sin.”
“Lodato sia Yevon”, Risposero prima Sam e poi Rachel, facendo una sottospecie di inchino con una rotazione delle braccia che portò a congiungere le mani in orizzontale, i palmi rivolti tra di loro, facendo combaciare soltanto la punta delle dita. Evitò di fare domande: dopotutto, se avesse cominciato a farle, non si sarebbe più fermato; ma una, in particolare, martellava la sua mente in cerca di risposte, che non potevano essere ignorate. Dopotutto, quei ragazzi sembravano disponibili: magari non quella specie di ragazzina, e quello biondo non aveva l’idea di essere uno molto sveglio, ma Finn lo aveva aiutato. A lui poteva chiederlo.
“Ma cos’è Sin?” Si schiarì meglio la voce, riformulando la frase: “Voglio dire, so cos’è Sin, ovviamente.” Ovviamente, come no. “È solo che non capisco... cosa voglia da noi.”
Cosa voglia da me.
“Tanto tempo fa c’erano molte città automatizzate su Spira.” Rachel aveva un tono impostato e aulico, come un’insegnante di Catechismo ai suoi discepoli. Sembrava che avesse ripetuto quel discorso centinaia di volte: “La gente si divertiva e faceva lavorare solo le macchine. Poi arrivò Sin, e distrusse tutto ciò che l’uomo ha creato, solo per sfuggire al lavoro e al sacrificio. La prima città rasa al suolo fu Zanarkand, mille anni fa.”
“Mille anni fa”, Sussurrò Sebastian, pallido in viso.
“Esatto. Sin é  il flagello che Yevon ci ha mandato per aver vissuto nell’ozio.” Rachel fece di nuovo un altro inchino, e abbassò la testa.
“E noi dobbiamo scontarla per quei quattro nullafacenti”, Borbottò Sam, ricevendosi una gomitata in pieno fianco. “Non dire così! Abbiamo anche noi i nostri peccati, lo sai.”
Sebastian fissò i due senza riuscire a proferire parola. Era proprio come aveva detto Finn e non potevano aver mentito tutti quanti, perchè avrebbero dovuto?
Rachel arricciò le labbra sbattendo i piedi a terra: “Accidenti alla tua boccaccia larga.”
“Smettila di prendere in giro la mia bocca, è normalissima!” Si lamentò Sam coprendosi le labbra con una mano; “E poi tu non puoi parlare, visto che sei petulante più di tutte le ragazze del villaggio messe insieme!”
“COSA?! Ripetimelo in faccia se hai il coraggio, Sam Evans non osare allontanrati da me! Finn, digli qualcosa anche tu, forza!”
Sebastian apprezzò quel piccolo siparietto che, probabilmente, aveva soltanto lo scopo di tirarlo su; in realtà, però, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era a quanto tutto quello fosse capitato per colpa di quel mostro, quel Sin.
Era tutto cominciato per causa sua e forse, rivedendolo, sarebbe riuscito a tornare a casa. Ma per il momento decise di accantonare tutti i problemi e vivere alla giornata; era difficile non pensare alla sua terra, ma adesso, con quei ragazzi, cominciava a stare un po’ meglio.
“Sebastian, sei appena arrivato, giusto?” Rachel lo prese a braccetto, incamminandosi tra tende, baracche e capannoni. “Allora devi presentare i tuoi omaggi al tempio.”
E no, davvero, quello era troppo.
“Non direi proprio.” Si scostò da lei bruscamente, spolverandosi la parte del braccio che era stata a contatto con lei e mettendosi le mani in tasca, con tutta l’intenzione di non fare un altro passo in avanti. Rachel lo guardò come se gli avesse appena detto di non credere in Dio: “Certo che sì! È un segno di rispetto per il nostro villaggio. Se non lo fai la tua miscredenza si riverserà su di noi!”
“E dovrebbe interessarmi perchè...?”
Stava diventando sempre più rossa dalla rabbia, e in quel momento intervenne Finn: “Rachel, perchè non lo portiamo a casa a mangiare qualcosa, prima di far visita al tempio? Magari vuole riposarsi.”
Sì, decisamente, quella era un’idea di gran lunga migliore rispetto che omaggiare chissà quale divinita in cui non credeva, e non aveva mai creduto. Ma Rachel era di gran lunga più testarda di loro due messi insieme, così guardò Sebastian dritto negli occhi e lo minacciò: “Se non vai immediatamente al tempio ti lascio a digiuno per due giorni.”
Tra la fede e la fame, di gran lunga, vince sempre la fame.
“Va bene, va bene”, Mormorò accigliato, “Che bambinetta petulante.”
“COSA? Io non sono una bambinetta signor miscredente, ho diciannove anni!”
“Sì, ma hai l’altezza di una di quindici.”
Finn lo trascinò via prima che venisse spedito dritto nell’Oltretomba.
 

 
Il tempio era buio, illuminato solo da qualche fiaccola adiacente alle pareti. Delle donne intonavano un canto dai toni malinconici, simile a una nenia, mentre una piccola folla di persone, a un angolo della stanza, pregavano e bisbigliavano educatamente.
Per un momento, quell’atmosfera di solennità, di raccolta e di devozione lo lasciarono esterrefatto. Non era mai stato credente, ma chiunque sarebbe rimasto impressionato, perfino un animo scettico e cinico come lui. Cominciò a capire quanto quel mondo fosse diverso dal suo.
Si soffermò a osservare una scultura al centro del tempio: arrivava fino al soffitto e raffigurava un uomo, la tunica lunga, un cappello che non riuscì a identificare, un bastone alto quasi quanto lui stretto tra le dita. Rachel arrivò al suo fianco qualche secondo dopo, sussurrando con voce emozionata: “Sono passati dieci anni da quando Richard Anderson diventò il Grand’invocatore. Finalmente abbiamo la sua statua per il tempio.”
Non avvertì la stessa commozione sua. Proprio per niente. Gli sembrava soltanto un modo molto megalomane per elogiare un membro della loro comunità.
“E che sarebbe questo Grand’invocatore?”
Tutti i presenti del templio si portarono una mano alla bocca allibiti, con Rachel che roteava gli occhi al cielo a dir poco incredula.
“Ehm... non è colpa mia. Sono stato intossicato da Sin.”
Una bambina scoppiò a piangere e andò dalla mamma; bene, forse non era stata la migliore delle scuse.
“Gli invocatori usano un’arte segreta per proteggere il popolo di Yevon.” Sam e Finn li raggiunsero in quel momento, allarmati da quel panico generale. “Alcuni eletti possono evocare dei protettori sacri: gli Eoni.”
“Un cosa?” Sbottò Sebastian, cominciando seriamente a stancarsi di tutti quei culti paradossali. Da quando in qua la gente comune poteva evocare cose?
“A proposito...” I tre ragazzi si guardarono come leggendosi nel pensiero, e assumendo un’espressione preoccupata: “L’apprendista è ancora nel chiostro della prova. L’apprendista dell’arte invocativa”, Spiegarono a Sebastian, guardando con la coda dell’occhio quel portone in cima alla scalinatra in pietra.
“Oltre quella porta c’è una sala, detta il Chiostro della prova, in cui gli apprendisti pregano. E se hanno successo, e le loro preghiere vengono accolte, diventano invocatori.”
“Bene.” Tagliò corto, astenendosi dal commentare con qualche risposta delle sue; “Quindi qual è il problema? Dovete solo aspettare che esca, no?”
Sam scosse la testa, diventava sempre più preoccupato: “È lì dentro da un giorno.”
“... Quindi?” Ripetè. Non riusciva proprio a seguire il filo del loro discorso, sembrava semplicemente una dimensione sin troppo lontana da lui.
“È un brutto segno, ed è molto pericoloso. Finn, forse noi dovremmo-“
“No Sam. Lo sai che è proibito. Dobbiamo solo aspettare.”
“Altri hanno provato prima di lui”, Gli fece notare l’amico, “E hanno fallito. Tutti quanti.”
“In che senso?” Chiese Sebastian, e quando Sam lo guardò rammaricato scuotendo lievemente la testa, il suo stomaco si contorse più volte su se stesso. Rachel afferrò la mano di Finn tra la sua, come per ottenere sostentamento: “Finn... e se fosse in pericolo?”
“Ma che diavolo state facendo?”
Ormai Sebastian ci aveva rinunciato a parlare a bassa voce, o con un tono vagamente comprensivo, perchè era completamente ridicolo e lui non avrebbe tollerato quelle idiozie un secondo di più. “Sacrificate delle persone innocenti per via di uno stupido credo?”
“Non bestemmiare dentro al tempio di Yevon!” Lo ammonì un sacerdote poco distante, avvicinandosi a lui e additandolo come un peccatore.
“Faccio quello che mi pare, vecchio.” Senza nemmeno dargli troppa considerazione, tornò a parlare ai tre ragazzi: “Lì dentro c’è un vostro amico, no? E se succede qualcosa? E se dovesse morire?”
“Non possiamo entrare”, Tentò di controbattere Rachel con voce flebile. Il sacerdote fece un passo in avanti, voleva afferrarlo per un braccio e trascinarlo via dalla scalinata: “I precetti vanno rispettati.” Proferì austero.
Sebastian si staccò dalla sua presa totalmente infastidito, e in un paio di secondi era già in cima alle scale. “Come se me ne fregasse qualcosa.”
Tutto ciò che sapeva, era che un povero innocente rischiava la vita per colpa di una religione senza senso, e nessuno tentava di salvarlo. Se c’era una cosa che non sopportava, in vita sua, era il fanatismo dettato da quei culti sconclusionati.
Si aspettava una stanza senza porte o corridoi, circolare, con un ragazzo in mezzo a migliaia di candele intento a canticchiare chissà quale litania; invece, davanti a sè si presentò un vero e proprio labirinto. Forse non era stata una buona idea, dopotutto: non aveva la più pallida idea di dove dovesse andare.
“Amico, sei impazzito per caso?”
La voce di Finn giunse alle sue spalle, insieme al suono della porta che si chiudeva pesantemente. “Stavi quasi per far venire un infarto a Rachel.”
“Quasi? Che peccato, ci ero andato vicino.”
“Stai parlando della mia ragazza”, Gli ricordò serrando le labbra in una smorfia. Sebastian non si sentì in colpa nemmeno un po’, ma si limitò a cambiare argomento: “Insomma che ci fai qui? Non era proibito o cose del genere, della serie che adesso un fulmine squarcia il soffitto e ci prende in pieno petto?”
“Non scherzare. Quello che hai fatto è gravissimo. Soltanto i sacerdoti, gli invocatori e i Guardiani possono venire fin qui. Sono le nostre tradizioni: non ti chiedo di capirle, ma quanto meno di rispettarle.”
“Io non rispetto nemmeno il semaforo rosso.”
Finn inclinò la testa, non riuscendo a cogliere quella battuta, e Sebastian resistette all’impulso di passarsi una mano sulla fronte perchè, ah, giusto, loro non avevano i semafori. Era assurdo.
“... Lasciamo stare. Insomma adesso hai trasgredito alle regole e devi fare dieci Ave Maria?”
“No. Io posso stare qui, sono un Guardiano”, Commentò con una certa sicurezza nella voce, che andò affievolendosi man mano che continuava: “E se qualcuno te lo chiede lo sei anche tu, intesi?”
“Non posso semplicemente dire che sono tutti idioti?”
“Sebastian, per favore.”
“Va bene, va bene.” Che seccatura. “Quindi, un Guardiano. E che dovrei fare, esattamente?”
Il pavimento sotto ai loro piedi cominciò a scendere, come un ascensore privo di fili; Sebastian restò alquanto stupito da quella strana stregoneria, tanto da rischiare di non cogliere affatto la spiegazione di Finn.
“Gli invocatori partono per un pellegrinaggio, per pregare nei templi di tutta Spira. E i Guardiani li proteggono.”
Proteggere? “E da cosa?”
Ma non ricevette alcuna risposta.
La stanza in cui si trovavano adesso era quella che si era aspettato di vedere all’inizio. Ma c’era un’altra scalinata, in fondo, e un’altra porta, che rendeva tutto assolutamente stancante. Stava per esprimere le sue lamentele ad alta voce, quando udì qualcosa, proveniva da oltre quelle mura.
Un canto: una voce. Dolce e, allo stesso tempo, piena di sfumature. Un brivido lungo gli attraversò tutta la schiena, mentre faceva un passo in avanti, come per ascoltare meglio. Con la testa alta, le mani distese lungo i fianchi, chiese di chi fosse quella voce.
Furono interrotti dal suono della porta che si apriva lentamente, dal basso verso l’alto, dei raggi che filtravano attraverso l’insediatura e la voce che aveva cessato di cantare.
Con la testa china, il corpo stanco, un ragazzo si protese in avanti reggendosi malamente sulle sue gambe; aveva un corpo compatto, esile, i capelli riccioli che coprivano un volto che non riusciva a intravedere. Non fino a quando rischiò di scivolare a terra con un sospiro, erano troppo lontani per impedirlo, troppo lenti per afferrarlo al volo.
“Blaine!” L’urlo di Finn riecheggiò per tutta la stanza, e fu come se il ragazzo si fosse risvegliato da una trance misteriosa; si rimise in piedi, con forza, fatica.  Si asciugò il sudore con la manica di quella sua tunica lunga e così particolare, i ricami dell’orlo sovrastavano quelli dei pantaloni leggeri.
Dopo un ultimo secondo, finalmente, alzò la testa. Sul suo volto affaticato, dai lineamenti mascolini e morbidi, comparve un piccolo e concitato sorriso.
“Ce l’ho fatta”, Balbettò un paio di volte. “Sono un invocatore.”
Agli occhi di Sebastian non sembrava affatto un invocatore: si era immaginato un uomo simile a quello della scultura, possente, maturo, con modi di fare forti e decisi. Lui, invece, sembrava soltanto un ragazzo ingenuo e timido.
Non disse niente, però. Pensò soltanto che avesse gli occhi più belli che avesse mai visto. Fu proprio mentre lo stava fissando che Blaine inclinò leggermente la testa da un lato: “Ci... ci conosciamo?”
“Non credo. Sebastian Smythe.” Nel momento in cui si strinsero la mano, provò una vera  e propria scarica di adrenalina.
“Blaine Anderson. Sei... un sacerdote del tempio?”
Esitò per un paio di secondi, inarcando le sopracciglia con un sorrisetto divertito: “Ti sembro un sacerdote del tempio?”
E sì, decisamente, vedere quel ragazzo arrossire per colpa di una sua frase era davvero appagante.
“No, Blaine.” Gli accarezzò velocemente il dorso della mano, prima di ritrarsi e posizionarla sul fianco: “Sono il tuo Guardiano.”
 


“Levatelo dalla testa”, Gli suggerì Sam, quando Blaine era in mezzo ai credenti intenti ad ammirare il suo primo Eone evocato. Si chiamava Valefor: era un misto tra una chimera e un’aquila, alto il doppio di Blaine; si ergeva sulle due zampe e dispiegava le ali grandi quanto due baracche messe insieme.
“Cosa? Di fare il Guardiano?”
“No, levati dalla testa l’idea di farti Blaine.”
Beh, allora non era così tonto come pensava.
“Non ti prometto niente, orso bianco.” Gli fece l’occhiolino continuando ad ammirare quello splendido fondoschiena nascosto dalla tunica: “E poi, se fossi io a piacere a lui? Non ci hai pensato?”
“Impossibile.”
“Gli piacciono le ragazze?” Domandò con una certa ironia perchè, davvero, non ci avrebbe creduto nemmeno se lo avesse visto con i suoi stessi occhi.
“No, ma è comunque impossibile.” Restò in silenzio per un paio di secondi, fissando il fuoco del falò che scoppiettava: “Te la cavi con la spada?”
Come gli era uscita quella domanda?
“Abbastanza. Ma non ne ho una”, Ammise.
“A questo posso rimediare io. E hai davvero intenzione di aiutare Finn con il Blitzball?”
“Sì, direi di sì. Gli devo un favore.”
Sam voltò le spalle al falò, guardando le poche stelle rimaste su quel cielo nero: “Blaine è come un fratello minore per noi. Lui, io, Rachel e Finn ci conosciamo da una vita. Domani partirà per il suo pellegrinaggio, per diventare il Grand’invocatore, e noi lo accompagneremo.”
“... Noi?” Sebastian aprì e chiuse un paio di volte gli occhi: stava dicendo sul serio?
“La meta del pellegrinaggio è Zanarkand.”
Oh.
“Puoi venire con noi. Ci servirà una spada in più.”
Non sapeva bene cosa dire; stava per partire per un viaggio spirituale, con delle persone che conosceva da appena un giorno, in un mondo che non gli apparteneva. Però, quel viaggio lo avrebbe riportato a casa.
“Dovresti dire a Blaine che vieni con noi.” Detto quello, se ne andò con l’amarezza delle sue parole che ancora aleggiava nell’aria, mentre Sebastian lo seguiva con lo sguardo. Nemmeno a farlo apposta, dopo qualche minuto Blaine era di fronte a lui, gli occhi ambrati che scintillavano sotto alla luce del fuoco, un sorriso gentile, accogliente.
“Mi hanno detto quello che hai fatto per me, al tempio.”
Perfetto, adesso quindi gli avrebbe detto che era un miscredente e che lo odiava.
“Ehm, sì, riguardo a questo, forse non dovevo andare contro alle vostre tradizioni entrando in un luogo vietato. O dicendo che sono tutte cavolate. O dando del pelatone al Sacerdote.”
“Tu cosa?” Esclamò Blaine, e la risata che uscì spontanea dalle sue labbra fece svanire tutta la tensione. “Beh, comunque, ti ringrazio.”
Stava già per dirgli “Arrivederci” e seguire il consiglio di Finn di lasciar perdere, quando quella frase lo fece trasalire: “Non sei arrabbiato?”
“No. So che dovrei, ma in realtà... mi ha fatto piacere. Sei stato gentile a preoccuparti per me.”
“Verrò con voi.” Le parole uscirono senza che potesse fare nulla per impedirlo. Prese Blaine in contropiede, per un momento non capì davvero, fino a quando non vide il suo volto illuminarsi e le spalle rilassarsi, sembrava sollevato, di buon umore.
“Sul serio? Sarai un mio Guardiano?” Era tanto esitante quanto meravigliato.
“Sì. Devo...” Come spiegarlo senza che risultasse uno squilibrato? Fece un gesto convesso con la mano, emettendo un breve sospiro: “Non importa, ti spiegherò tutto durante il viaggio.”
“Immagino di sì”, Annuì, con un gran sorriso. “Parleremo un sacco, voglio dire...” Si corresse, arrossendo un poco, “Avremo un sacco di tempo per... conoscerci.”
Lo disse come se fosse una cosa bellissima.
Quella bontà d’animo, insieme alla sua voce, al suo viso e a quel cuore che non accennava a smettere, lo facevano sentire molto a disagio; si guardò un po’ intorno, calciando la polvere del terreno sotto ai piedi, non sapeva bene come comportarsi. Blaine riusciva a farlo sentire un ragazzino alle prime armi.
“Comunque sei stato forte, quando hai evocato quel... il pennuto.”
“Valefor? L’Eone?”
“Sì, quello.”
“Non chiamarlo pennuto in sua presenza, potrebbe arrabbiarsi molto.” Ridacchio, prima di saltellare come un bambino e farsi un po’ più vicino a lui: “Dici che sono stato bravo?”
“Oh sì. Cioè, non me ne intendo, ma-“
“Davvero? Davvero davvero? Oh, sono così felice, dici che riuscirò a diventare il Grand’Invocatore?” Si poteva leggere la speranza, nei suoi occhi chiari, e tutta la gioia di chi avesse appena ricevuto il complimento più bello della sua vita.
Per questo motivo Sebastian gli disse che sì, lo sarebbe diventato, e che sarebbe stato perfetto.
Anche se non avesse la più pallida idea di cosa volesse dire, diventare il Grand’invocatore.
 
 
 
 
Sin aveva travolto ogni cosa.
Blaine aveva provato a fermarlo, insieme ai suoi amici: quando Sin era arrivato loro erano in mare, le sue scaglie si erano conficcate contro il legno del pontile, dei piccoli mostri che spaventavano e trucidavano i viaggiatori.
Le avevano sconfitte, una dopo l’altra, Valefor adesso sfrecciava nei cieli dando l’arrivederci al suo padrone, fino alla prossima battaglia. Erano arrivati troppo tardi per salvare Kilika. Di quel piccolo porto di pescatori restavano soltanto edifici distrutti a metà e i pianti dei superstiti mentre preparavano le tombe ai loro cari. Sebastian aveva sperato che, incontrando di nuovo Sin, potesse tornare alla sua Zanarkand tramite una sorta di processo inverso; non successe. Non era successo nulla, se non la morte di persone innocenti.
Fu allora, sotto al sole cocente, in mezzo al mare, che perse ogni speranza: non poteva tornare a casa. Era confinato in un mondo sconosciuto e quella era la sua nuova realtà. Lo sarebbe stata fino alla fine dei suoi giorni.
E avrebbe continuato a viaggiare insieme a Blaine, fin quando glielo avesse consentito. Durante quel periodo aveva finalmente capito il suo ruolo di Guardiano, i rischi che correva l’invocatore, le responsabilità che doveva affrontare. Una delle quali, scoprì quel giorno, era dover effettuare il rito del trapasso.
Le anime dei morti dovevano raggiungere l’Oltremondo, fu quello che apprese, e soltanto un invocatore poteva dornar loro la pace. Camminò sull’acqua senza affondarcisi, i piedi nudi che scivolavano sul filo dell’acqua. Dalle bare sotto di lui uscirono delle luci fluttuanti: i fuochi fatui che lo raggiunsero in fretta, come chiamandolo, implorando per il suo aiuto.
Blaine guidò quelle anime danzando. Danzava alle luci del tramonto, con il bastone che compiva gesti puliti ed eleganti. Sebastian non riusciva a smettere di fissarlo.
 
“Sconfiggerò Sin.”
Blaine guardò l’orizzonte colorato di rosso, gli occhi lucidi, ma che contenevano una volontà senza pari. “Devo riuscirci.”
Sebastian era seduto accanto a lui, i piedi che oscillavano sopra l’acqua. C’era un pallone da Blitzball, in mezzo alle assi di legno strappate via dalle loro case. Apparteneva a un bambino di otto anni.
Blaine appoggiò il viso contro la sua spalla, come se volesse piangere, ma non potesse farlo. Il Guardiano gli accarezzò dolcemente i capelli, gli sussurrò di essere forte.
“Anche se riuscissi a sconfiggerlo”, Sussurrò, “Sin rinascerà comunque.”
“Come?”
“Sin muore e nasce continuamente. Non c’è modo di ucciderlo del tutto. Una volta sconfitto scompare per un po’ di tempo, ma poi ritorna. A volte il periodo di pace dura dieci, quindici anni. A volte pochi mesi.”
“Cos... ma che significa? Allora che senso ha tutto questo pellegrinaggio?”
“Non dire così!” Si scostò da lui bruscamente, non lo aveva mai guardato con così tanta rabbia fino ad allora: “Non è inutile! Niente è inutile! Anche se per poco, anche se con un termine, permettere a queste persone di fare sogni tranquilli, senza incubi, è la cosa più preziosa di tutte. È l’unica cosa che posso fare”, Aggiunse con un filo di voce.
Sebastian si sentì terribilmente in colpa per averlo offeso in quel modo. Non doveva permettersi di giudicare inutile tutto lo sforzo che stava facendo Blaine.
“Lo sconfiggerai. E se rinascerà, lo sconfiggerai un’altra volta.”
“Magari potessi...”
“Certo che puoi. Sei il miglior evocatore di tutta Spira.”
Non riuscì ad aggiungere altro, mentre fissava le bare contornate di fiori che scendevano nelle profondità degli abissi. Nonostante l’immensa bellezza di quel rito, Sebastian sperò di non rivederlo mai più.
 
 



 
Erano a un passo dalle finali del torneo di Blitzball. L’enorme città di Luka era assediata da spettatori provenienti da tutta Spira. Sebastian, Finn e gli altri membri della squadra si stavano allenando da ore, avevano le braccia pesanti per tutte quelle bracciate. Avevano fatto una breve pausa per riposarsi; alcuni erano andati a mangiare qualcosa con Sam, mentre Finn era sparito chissà dove insieme a Rachel. Sebastian, era appena tornato dagli spogliatoi, stava camminando fuori dalla globo-sfera con un costume asciutto e pulito. Ancora non riusciva a credere che la sua squadra si chiamasse “Warbler”. Che razza di nome.
“Come si chiama quel tiro?”
Blaine gli sorrise dagli spalti e si avvicinò alla ringhiera: aveva guardato tutti gli allenamenti. In realtà, più che gli allenamenti, Sebastian lo aveva sorpreso più volte a guardare le sue spalle toniche e i suoi pettorali scolpiti.
“Questo, mio giovane Anderson,” Sentenziò Sebastian passandosi un asciugamano sui capelli: “È il fantastico e sensazionale tiro Smythe numero tre.”
“Wow. Un nome un po’ lungo da urlare per fare il tifo.” Sorrisero quasi contemporaneamente, e poi Sebastian incrociò le braccia alla sua stessa ringhiera dal basso, alzando la testa per poterlo guardare negli occhi: “Ti svelerò un segreto: non esistono i tiri uno e due.”
“Ah no?”
“No, è un’esca per i tifosi. Così tornano ogni sera per vedere quali siano il primo e il secondo.”
“Ma è terribile”, Commentò, ma non lo pensava seriamente. Sebastian si perse per un attimo ad ascoltare il suono della sua risata. “Lo so, è un’idea di mio padre.”
“Oh, quindi anche tuo padre era un famoso giocatore di Blitzball?”
“Puoi scommetterci.”
 Ci fu un momento di silenzio, durante il quale Blaine assunse un’espressione indecifrabile, e Sebastian restò a fissarlo.
“Anche io ho seguito le orme di mio padre. Spero di diventare Grand’invocatore, proprio come lui.”
“Lo diventerai. Conta su di me.”
I loro sguardi si incontrarono di nuovo, e Sebastian non capì: gli aveva fatto un complimento. Allora perchè sembrava triste?
“Blaine... io non sono molto bravo a consolare le persone. Ma quello che vorrei dirti è che, non devi preoccuparti. Devi essere più rilassato: lascia da parte i pensieri e concentrati solo a sconfiggere Sin, giusto?”
“Sì, giusto. Hai ragione.”
Non riusciva a capire se il suo sorriso fosse sincero.
“Farai il tifo per me stasera, vero?” Non lo chiese con il suo tipico modo strafottente: sperava sinceramente che Blaine lo supportasse. Ci teneva davvero.
“Urlerò finchè avrò fiato!” A rimarcare il concetto, battè entusiasticamente un pugno contro la ringhiera.
“Potresti. Ma da dove vengo io per acclamare un giocatore si fa così.” Portò l’indice e il pollice alla bocca, e un fischio assordante echeggiò per tutto lo stadio, tanto che Blaine fu costretto a coprirsi le orecchie a metà tra l’incredulo e l’incantato. Intuì immediatamente che non lo sapesse fare.
“Prova anche tu. Così, e poi soffia.” Ripetè il gesto, ma Blaine sbagliò la posizione delle dita.
“No Blaine, non in quel modo, devi unirle di più, vedi?”
“Ma non mi riesce! Non funziona!” Si lamentò come un bambino capriccioso, stavano facendo le smorfie più assurde e tutti e due erano talmente concentrati da non accorgersene nemmeno.
“Esercitati”, Gli suggerì alla fine, con un sorriso che andava da un occhio all’altro. Blaine aveva le labbra carnose e continuava a mordicchiarsele nervosamente. “E se ti perdi, fai un fischio. Correrò da te.”
Lo vide annuire velocemente con le guanche più rosse del suo bastone. Sembrò combattere contro delle parole, fino a quando non si sporse un po’ di più verso di lui e, timidamente, sussurrò: “Dici sul serio?”
“Sì. Te lo prometto.”
Erano a pochi centimetri l’uno dall’altro.
“E fino a quando non ho imparato a fischiare, come facciamo?”
“Vorrà dire che staremo sempre appiccicati”, Concluse l’altro, “Non ti perderò di vista nemmeno per un secondo.”
“Non farlo.”
Sebastian sentiva il suo cuore battere a una velocità mai provata prima. E gli occhi di Blaine erano troppo grandi, troppo luminosi, riusciva a sentire il suo respiro caldo lambirgli le labbra, voleva soltanto annullare quella minuscola distanza e-
“Ehi, Smythe! Se hai finito di cazzeggiare insegnami a fare quel tiro!”
Si erano allontanati in un battito di ciglia. Sebastian lo guardò un’ultima volta, e poi corse da Finn e gli altri, ricominciando a prenderli in giro per la loro scarsa abilità nel Blitzball.
 
 
 
Erano sopravvissuti un’altra volta a Sin. Ma, un’altra volta, erano morte tante persone.
Che senso aveva essere un Guardiano, se non si era in grado di proteggere i più innocenti? Che senso aveva essere lì?
Blaine aveva appena terminato il rito del trapasso, una lacrima gli rigò freddamente il viso. Non sarebbe mai riuscito ad abituarsi, nemmeno dopo tutte quelle volte.
“Tutto bene?” Sebastian appoggiò la spada al muretto su cui era appoggiato lui stesso, prima di scostarsi e raggiungere Blaine in pochi passi. “Sì, io... sto bene. Sebastian, sei ferito.” Fece cenno al suo braccio sanguinante, ma Sebastian lo abbassò lungo il fianco, afferrandogli una spalla con l’altro.
“È solo un graffio, sto bene.”
“Sei sicuro?”
In realtà, no. Non riusciva a capire il perché di tutta quella sofferenza. Non riusciva a capire il motivo per cui Sin facesse tutte quelle cose. Blaine questo lo sapeva, ormai, aveva imparato a decifrare ogni suo silenzio e ogni sua mancata espressione. Si voltò verso il bosco deserto, demolito dall’attacco, e richiamò la sua attenzione con un: “Guarda!”
Fece un fischio lungo e netto, così forte da far volare via gli ultimi uccellini rimasti sugli alberi. Un gesto che lo fece quasi sorridere.
“Vai alla grande.”
Blaine congiunse le mani come per applaudire, e si limitò ad osservare le nuvole nel cielo, finalmente privo di ombre. Sebastian lo guardava con la coda dell’occhio: “Mi spieghi come fai?”
“A fare cosa?”
“A essere così. Non ti viene mai voglia di... di abbandonare tutto? Di pensare solo a te stesso?”
Lo vide esitare per un tempo incalcolabile.
"Non posso permettermelo. Troppe vite dipendono da me. Da... noi. Sebastian, voglio che tu sorrida."
"... Che cosa?"
"Non un ghigno o un sorrisetto, un sorriso vero."
Il Guardiano scosse la testa in modo frenetico, mormorò senza riserve quanto fosse una pessima idea; ma Blaine lo prese per le guance e le tirò verso gli zigomi. Più che un sorriso, assomigliava a una cosa molto, molto idiota.
"Lasciami!" Esclamò Sebastian, con la voce impastata e la lingua trai denti. Blaine si lasciò andare a una risata leggera e poi allentò la presa, accarezzandolo per un secondo.
"Adesso ridi."
“Te lo chiedo per favore, risparmiamelo.”
“Fallo per me.”
Con quella frase fu messo con le mani al muro.
Così, all’inizio, si espose nella risata più finta e sguaiata che avesse mai fatto in tutta la sua vita. Si sentiva davvero idiota, voleva maledire Blaine in tutte le lingue conosciute e non. Ma poi quest’ultimo si posizionò al suo fianco: risero insieme e a squarciagola, di fronte al nulla più assoluto, con le mani sui fianchi e le bocce spalancate. Alla fine iniziarono a ridere veramente.
Sam, Finn e Rachel assistevano alla scena a braccia conserte, e solo quando i due ragazzi si asciugarono le lacrime li invitarono a proseguire il cammino.
 
 
L’invocazione Suprema era l’unico modo per sconfiggere Sin. Evocare l’Eone Supremo dopo aver evocato gli Eoni di tutti gli altri templi: era lo scopo ultimo del pellegrinaggio. L’intercessore aspettava gli invocatori che avessero concluso il viaggio a nord, ai confini del mondo: Zanarkand.
Blaine, come invocatore, doveva portare la pace. Ciò non significava soltanto sconfiggere Sin: doveva alleviare le pene di Spira. Doveva essere una luce per il popolo.
Ma era molto più di questo.
Avevano rapito Blaine. Un gruppo di ribelli lo aveva preso, nel cuore della notte, e adesso i Guardiani si trovavano nella loro base per riprenderselo. Sebastian non dormiva da giorni, a mala pena mangiava. Non riusciva a capire come fosse successo, gli aveva promesso che sarebbero stati sempre appiccicati, e adesso...
“Dov’è.” Intimò a uno dei ribelli, puntandogli la lama dritta alla gola. “Dimmelo. Adesso.”
“Ti prego, non mi uccidere, il tuo invocatore sta bene, te lo giuro!”
Aveva appena usato le parole sbagliate.
“Fermati”, Proferì Finn, bloccandogli l’elsa della spada e allontanandola dal suo proprietario. Ed era quella la cosa più incredibile di tutte: invece di essere furiosi, o increduli, o semplicemente sorpresi, nè Finn nè gli altri due Guardiani vedevano la situazione come una vera e propria minaccia. Ma Blaine era stato rapito, maledizione, perché nessuno sembrava capirlo?!
“Blaine sta bene.”
“Come fai a dirlo?”
“Perchè loro rapiscono gli invocatori per proteggerli dal pellegrinaggio.”
Che cosa?
Che voleva dire, proteggere gli invocatori?
“E capisco perchè lo fate.” Disse allora Finn avvicinandosi al ribelle, ma non troppo.
“Beh io invece no. Dite di voler proteggere gli invocatori? Ma che stronzata è? Senza di loro chi sconfiggerà Sin, eh? E poi, davvero, apprezzo il pensiero, ma Blaine ha i suoi Guardiani.” Ha me. “Lasciateci fare il nostro lavoro e sarà al sicuro.”
“Come puoi dire una cosa del genere?” Il ragazzo sembrava sconcertato da quelle parole, una cosa del tutto inconcepibile. “Come fai a dirlo con così tanta volontà d’animo?! Se ci tieni davvero a quel ragazzo, allora dovresti fermarlo, non accompagnarlo!”
Fu allora che cominciò a nutrire dei dubbi.
Fu allora che guardò per la prima volta le espressioni di Rachel, Finn e Sam, mentre diceva quelle parole. Di solito, quei discorsi li faceva con Blaine.
“Perché... non lasciano che i Guardiani proteggano gli Invocatori?” Chiese a loro. “Non hanno il diritto di interrompere il loro pellegrinaggio.”
“Dobbiamo farlo!” Il ragazzo si era alzato in piedi, stringeva i pugni fino a farsi sanguinare i palmi delle mani: “Non è giusto che si sacrifichino per il bene di molti, solo per qualche mese di pace! Poi Sin ritornerà, e allora loro saranno morti per niente!”
Saranno morti per niente.
Saranno morti.
“Che vuol dire?”
Non era vero. Non poteva essere vero. Non era così, giusto?
“Che significa? Blaine non muore. No, Blaine non muore.”
“Non lo sai?”
Finn cercò di fermare quel ragazzo, ma Sam pensò che fosse giunto il momento, che Sebastian dovesse sapere; lo placcò da dietro, mentre Rachel cominciava a piangere, attraverso silenziosi singhiozzi.
“L’obiettivo finale del pellegrinaggio è invocare l’Eone Supremo. Il tuo invocatore te l’avrà detto, no? Con quella riuscirà finalmente a sconfiggere Sin, ma l’invocazione chiede in pegno la sua vita. Moriranno entrambi!”
Rachel si accasciò a terra, non riuscendo più a trattenersi.
Soltanto lui non lo sapeva? Soltanto lui era stato tenuto all’oscuro?
“Dimmi perchè. Perchè non me l’avete detto!” Aveva afferrato Finn per il colletto della maglia, sbattendolo contro il muro e facendolo gemere di dolore. Non riusciva a ragionare. A pensare. A respirare. Tutto ciò che vedeva davanti ai suoi occhi era l’espressione di Blaine quando gli diceva che sarebbe diventato il Grand’invocatore, che lo avrebbe aiutato nell’impresa.
Sarai perfetto, gli aveva detto.
“Perchè non lo sapevo!”
Finn aprì gli occhi lentamente, velati dalle lacrime: “Non te l’abbiamo nascosto. Non sapevamo come dirtelo.”
“Non siete i suoi amici?” Urlò con la voce rotta e graffiata. “Non siete come fratelli? Come avete potuto? Come?”
“Credi che non abbiamo provato a fermarlo?! Lui non ci ha ascoltato, segue il suo cuore!” Intervenne allora Sam, cercando di annullare la sua presa su Finn, ma venne scaraventato a tre metri di distanza.
Fu il turno di Rachel per parlare. Si alzò di nuovo in piedi, abbassando il capo verso il terreno sotto di sè.
“Sapeva a cosa andava incontro diventando un invocatore. Affrontare Sin e morire combattendo.”
Ma non aveva senso. Blaine non poteva sacrificare la sua vita solo per far felice l’intera Spira.  
“Il sogno di tutti i bambini di questo pianeta è avere un mondo senza Sin. E Blaine vuole farlo avverare, anche a costo della sua stessa vita.”
Sebastian allora lasciò la presa, soltanto per accovacciarsi e battere i pugni contro il terreno, fino a farli sanguinare.
“E io che dicevo a Blaine- andiamo a Zanarkand, sconfiggiamo Sin!”
Un altro.
“Faremo un sacco di cose insieme.”
Un altro.
“Io non sapevo-”
Un altro, e poi un altro, e un altro ancora.
“Ma lui, lui...”
Sorrideva. Ogni singola volta.
No.
Non avrebbe fatto morire Blaine.
“Tu.” Fece al ragazzo. “Portami da lui.”
“Ma-“
“Ci alleeremo con questi ribelli”, Disse con voce fredda. “Ci alleeremo contro Yevon. Contro Spira. Contro chiunque si metterà contro di noi.”
Rachel si portò una mano alla bocca, non riuscendo a credere alle sue parole: “Saremo ricercati da Yevon. Vorranno ucciderci!”
“Così sia.”
Ma non avrebbero ucciso Blaine. Nè Sin, nè Yevon. Nessuno.
 
 



 
“La corte suprema di Yevon apre l’udienza. Il sacro tribunale vuole l’assoluta verità. Imputati, giurate in nome di Yevon di dire solo il vero.”
Il Sacro Tempio di Bevelle era il cuore del Credo di Yevon. Blaine, Sebastian, Finn, Sam e Rachel si trovavano di fronte al Maestro Kelk Ronso e agli altri presenti per il loro processo. Erano tutti incappucciati, in modo da non poter vedere il loro volto tranne che per un’ombra scura. Dopo aver preso Blaine, essersi alleati con gli Albhed, il gruppo ribelle, e aver combattuto facendo uso delle Macchine Proibite per tentare di sconfiggere Sin. Avevano combattuto contro Seymour, l’invocatore destinato a evocare l’Eone Supremo, perchè erano andati contro la volontà di Yevon e per questo dovevano essere puniti.
Alla fine erano stati chiamati a rispondere delle loro azioni.
“Invocatore Blaine.”
In silenzio, fece un passo in avanti. Giaceva su una piattaforma fluttuante a mezz’aria, isolato dagli altri.
“Giuraste di proteggere i figli di Yevon, vero?”
“Sì.”
“Rispondete dunque. Avete combattuto contro Seymour, cospirato con gli Albhed e abbracciato la loro rivolta. Crimini imperdonabili che disturbano l’ordine di Yevon. Spiegateci, cosa vi portò ad aderire a tanta violenza?”
“Vostra Grazia...” Esordì. “Il vero colpevole è Seymour. È un non-trapassato.”
“Davvero?” Non sembrava affatto impressionato.
“Sì. Lo so che è il vostro Invocatore diretto, destinato a diventare Grand’Invocatore, ma vi prego, cercate di comprendere. Seymour non ha ricevuto il rito del Trapasso, ed è diventato un’entità malvagia. Lasciate che lo trapassi, è compito mio.”
“Trapassare i defunti?”
Il Gran Maestro abbozzò un piccolo sorriso, assieme agli altri Sacerdoti. Blaine esitò per un momento, non capiva come mai il suo cuore aveva accelerato improvvisamente, e avesse iniziato a vedere quell’uomo con degli occhi diversi.
“Il vostro compito è di rispettare Yevon.”
“Lo faccio!” Replicò. “Io, io svolgo solo il mio compito-“
“Allora voi dovreste trapassare anche me.”
I Guardiani erano attoniti quasi più di lui. Dal corpo del Gran Maestro uscirono dei Fuochi Fatui, che rientrarono dentro al suo corpo in una danza concentrica.
“Ch-Che cosa?!” Esclamò Rachel sporgendosi in avanti, le labbra tremanti, gli occhi spalancati e increduli. Sebastian restò in silenzio, resistendo all’impulso di andare da Blaine e assicurarsi che stesse bene. Da dove si trovava, non riusciva a vedere la sua espressione.
“Il Gran Maestro Kelk Ronso è un uomo saggio”, Intervenne uno dei sacerdoti, “Spira ha bisogno di lui. Il senno dei morti è una guida migliore della miseria dei vivi.”
“La vita è un sogno fuggevole”, Proferì il Maestro, “Ma la morte è eterna. E solo il potere della morte comanda completamente Spira. È inutile resistergli.”
“E Sin allora?” Blaine portò una mano al petto, scandendo ogni sillaba: “Io sono un invocatore, come mio padre prima di me. Peregrino per fermare la morte che Sin semina. Mi state dicendo... che anche questo è inutile? Le battaglie, i sacrifici... è tutto invano?”
Sebastian fece un passo in avanti.
“Devo andare da lui.”
“Non puoi.”
“Ma ha bisogno di me!”
“Non è invano.”
Il tono pacato e soffuso del Gran Maestro sembrava così glaciale, ora.
“Gli invocatori non possono uccidere Sin.  La resurrezione è inarrestabile. Tuttavia, il loro coraggio investe di speranze il popolo. Non è vana la morte di un invocatore, ma nemmeno risolutiva. Questa è l’essenza di Yevon.”
Qualche volta, i sogni devono finire. Blaine, adesso, guardava il suo Maestro con occhi diversi.
“Non può essere vero.”
“Chi mette in discussione la verità è un traditore.”
“Gran Maestro!”
“Blaine!” Sebastian gli tese la mano, un attimo prima che la piattaforma cedesse sotto ai suoi piedi e finisse nel baratro. L’afferrò all’ultimo secondo, con Sebastian che lo attirava a lui: lo cinse in un abbraccio, prima di rimetterlo in piedi e sfoderare la spada. Così fecero anche Finn, Sam e Rachel.
Non c’era più tempo per le parole.
 
 



“È meglio se non torniamo a Bevelle per un po’.”
 Finn diede una pacca affettuosa sulla spalla di Sam e mormorò un “Concordo”, con i loro vestiti ancora stropicciati e sporchi per la lunga battaglia. Erano riusciti a fuggire, erano sani e salvi.
“Dov’è Blaine?” Domandò Sebastian quando si accorse di averlo perso di vista da più di un minuto, ed era un tempo troppo lungo, per stare tranquillo.
Rachel stava bevendo dal ruscello di quel bosco vasto e misterioso: “Ha detto che vuole stare un po’ da solo.”
Ma Sebastian colse quella frase come un invito e andò immediatamente a cercarlo, vagando tra i sentieri bui, gli alberi alti metri e metri sopra la sua testa che oscuravano perfino la luce della luna.
Trovò Blaine in mezzo a una piccola fonte d’acqua cristallina. Il suo corpo era immerso per metà nell’acqua, riusciva a vedere solo la tunica che galleggiava all’altezza delle sue spalle e la sua testa rivolta verso l’alto, a fissare un nido di lucciole racchiuse dentro al tronco dell’albero.
“Pensavo che sarebbe stato più semplice.”
Sebastian non riuscì a capire come avesse fatto a sentirlo, ma nemmeno gli interessò: fece un altro passo in avanti, fino a raggiungere il confine che lo separava dall’acqua fresca.
“Pensavo che mi avrebbero aiutato tutti, con gli amici sempre al mio fianco”, Lo sentì sussurrare. “Ce l’ho messa tutta.”
Quello fu il segnale che lo spinse a fare un ulteriore passo avanti, e poi un altro ancora, fino a trovarsi a mezzo metro da lui: il fondo della sorgente era basso, l’acqua gli arrivava alla vita.
“Forse troppo. Mi hanno detto tutto, Blaine.”
“... tutto?” Chiese lui, leggermente spaventato. Il silenzio che seguì fu una risposta più che eloquente.
“Quindi lo sai”, Commentò, e sembrò piuttosto dispiaciuto nel dirlo. Ma no, non era lui che doveva dispiacersi.
“Blaine, ti chiedo scusa. Tutte quelle cose che ti ho detto... non sapevo cosa significassero, non veramente. Ti prego, perdonami.”
Ma Blaine, il suo Blaine, scosse la testa e sorrise.
“Non hai niente di cui perdonarti. Non ero triste.”
“Blaine.” Sentì il bisogno di chiamare il suo nome, di avvicinarsi giusto un po’ di più, di sfiorare il suo braccio umido e morbido con la punta delle dita. Gli supplicò di non farlo; di dimenticarsi di Sin, degli invocatori, di tutto. Avrebbero girato il mondo con la loro aeronave, la nave che solcava i cieli, insieme a Rachel, Finn e Sam.
E per un momento, per un breve momento, Blaine considerò veramente quell’idea. Perchè era così bello pensare di rinunciare al pellegrinaggio, di festeggiare tutte le sere, di guardare Sebastian in tutte le sue partite di Blitzball, tutte quante. Avrebbe tifato così tanto per lui.
Ma non poteva.
Non poteva, non poteva e basta. Continuava a ripeterlo mentre le lacrime gli rigavano le guance e finivano per mescolarsi all’acqua, la testa china, scossa dai singhiozzi.
Sebastian gli prese dolcemente il viso tra le mani. “Blaine”, Disse soltanto, e quando lui lo guardò congiunse le loro labbra in un bacio, attirandolo dolcemente verso di sè.
Si baciarono a lungo, con calma, come se avessero tutto il tempo per farlo. Assaporando le labbra l’uno dell’altro e accarezzando le loro lingue. Blaine aveva smesso di piangere, ora inclinava la testa per approfondire quel bacio che gli faceva mancare l’aria, il cuore, la ragione.
Si baciarono come se fosse la cosa più giusta e possibile del mondo, e per tanto tempo non fecero altro.
 

 
 
Il giorno dopo sarebbero andati a sconfiggere Sin senza il rituale dell’evocazione Suprema; senza sacrifici. Soltanto loro e i loro Eoni, pronti a combattere insieme all’invocatore. Non sapevano se avrebbe funzionato, ma era la loro unica possibilità.
Sin voleva essere fermato, ma in un modo che andava contro le leggi di Yevon. Per quello Sebastian si trovava lì. Per quello il destino lo aveva fatto incontrare con Blaine.
Adesso, finalmente, aveva capito quale fosse il suo compito.
 
 
 
 
 
Fu una battaglia lunga, incredibilmente complicata, rischiosa, sofferta. Ci furono ferite e sacrifici, perfino dei momenti in cui credettero di non farcela; era un nemico forte. Troppo forte, per dei semplici umani, nonostante tutta la forza che avessero, quella vera, quella nascosta dentro ai loro cuori che li permetteva di alzarsi, di stringere i denti, di aiutarsi a vicenda nei momenti più difficili.
E per tutto quel lunghissimo tempo Blaine combattè senza la minima esistazione, restando in piedi di fronte a lui, facendo ricorso a tutte le sue arti magiche. Roteò ancora una volta il suo bastone, era fisicamente e psicologicamente provato; gli usciva del sangue dal naso, ma nessuno l’aveva sfiorato. Erano stati bravi i suoi guardiani, lo avevano protetto bene. Eppure, niente poteva proteggerlo dallo sforzo che comportava l’evocare nove Eoni tutti insieme: Valefor, Ifrit, Ixion, Shiva, le tre Magus, perfino Jojimbo rispose alla sua chiamata. Ma quando evocò Bahamuth, l’ultimo Eone, il buio non fece più paura. Il drago arrivò come un missile dall’alto fendendo l’aria come carta, con uno scatto repentino spalancò le possenti ali e andò ad affiancarsi a tutti gli altri Eoni, mentre i guardiani si reggevano alle loro armi per non accasciarsi al suolo. Erano esausti: non sapevano nemmeno da quanto tempo stessero combattendo, o se il tempo contasse veramente, in quella dimensione ignota. La loro vista era sfocata dalla stanchezza, ma ciò che videro fu l’arrendersi di quella macchia scura soggiogata dalla forza di uno, uno soltanto. Un ragazzo che veniva da un piccolo paese e possedeva soltanto un cuore semplice e puro: Blaine.
Non ci furono nè rumore nè lacrime su quel campo di battaglia: non erano materia di un elemento così vuoto quanto il peccato stesso. Semplicemente, così com’era nato, l’essenza di Sin morì, e quella fu l’ultima volta che Blaine e i suoi guardiani pronunciarono il suo nome.
Attraverso un’esplosione, il mostro Sin illuminò la notte, diventando un fascio di fiaccole calde che si estesero nel raggio di chilometri e chilometri. Gli abitanti della terra alzarono gli occhi al cielo, e fu come vedere l’alba per la prima volta, dopo dieci anni. Quando il bagliore si attenuò cominciarono a comparire le stelle, una ad una. Un segnale che venne captato senza esitazioni, Blaine ce l’aveva fatta, tutti stavano acclamando il suo nome, mentre lui, nel frattempo, continuava a far roteare il suo bastone in quella danza sciamanica. Benediva il lascito delle ultime perdite di quella guerra che, adesso, aveva terminato il suo percorso.
E gli Eoni, nei loro templi, diventarono pietra, uno ad uno. I loro spiriti sorrisero al padrone che li aveva finalmente resi liberi, un momento prima di unirsi a quelle piccole luci nell’aria. Avevano terminato il loro compito: non sarebbero più intervenuti in aiuto dell’uomo.
L’universo in cui Sin aveva confinato lui e i Guardiani scomparve qualche attimo dopo, riportandoli sul ponte della loro aeronave. Si trovavano sopra le nuvole, il cielo privo di stelle era dipinto di un azzurro verace.
Fu allora che la forma di Sebastian cominciò a vacillare, attraverso ologrammi senza contorni e senza colori.
Fu allora che Blaine lasciò andare il bastone a terra, lo guardò con occhi imploranti e scosse la testa, più e più volte. Sebastian, però, sorrise. Posò le mani sui fianchi, come faceva sempre lui, e disse: “Blaine, io devo andare.”
“No, no, ti prego no”, Continuava a ripetere lui, senza avere la forza di fare un passo, di prenderlo per la mano, di stringerlo a sè.
“Scusa se non ti ho portato a Zanarkand.”
Blaine spalancò gli occhi resistendo all’impulso di non piangere: Sebastian lo aveva sempre saputo. Non aveva mai pensato, nemmeno per una volta, che sarebbe uscito indenne da quell’impresa, perchè era proprio il portarla a termine che lo avrebbe fatto andare via. Aveva scelto Blaine a lui.
“Perchè non me l’hai detto?”
I fuochi fatui intorno a lui compivano dei piccoli cerchi concentrici, danzandogli intorno come creandogli un’aurea.
“Per proteggerti”, Rispose. Si perse nei suoi occhi, e il suo sorriso si addolcì giusto un po’ di più.
“Non è giusto”, Balbettò Blaine, non riuscendo più a trattenere le lacrime. “Non è giusto, fai sempre così, ma non dovevi questa volta, non dovevi.”
“Ho promesso di proteggerti”, Tentò di assumere un tono calmo, ma le sue mani tremavano, così come la sua voce: “Sono il tuo guardiano.”
“Non mi interessa. Non dovevi sacrificarti per me. Sono io che devo sacrificarmi Sebastian, sono io l’evocatore.”
“Lo so. Ma io ti amo.” Disse soltanto. Si allontanò da loro lentamente, sotto gli sguardi attoniti di Rachel, Finn e Sam, rimasti senza parole. A loro rivolse un saluto militare con l’indice e il medio e un semplice “Addio.”
“Ma tornerai, vero?” Urlò Rachel quando lui ormai era a metà del ponte, aggrappandosi a Finn e affondando il volto contro il suo petto. Sam fece a malapena in tempo a osservarli che, con la coda dell’occhio, vide Blaine correre verso di lui.
Lo chiamò a gran voce cercando di fermarlo ma Sebastian, sentendo pronunciare il suo nome, si voltò. Spalancò le braccia, lo cercò in un abbraccio, ma il suo corpo si smaterializzò al momento del contatto e Blaine gli passò attraverso cadendo in avanti, i palmi aperti contro un terreno freddo dopo aver abbracciato l’aria.
E per diverso tempo restò così, immobile. Accasciato al suolo a fissare il nulla, se non il cielo intorno all’aeronave. Le luci che prima giravano intorno a Sebastian adesso si stavano accumulando a un centinaio di metri sopra di loro.
Era giunta l’ora.
Con fatica, appoggiò un ginocchio, poi l’altro; Sebastian era a qualche metro da lui che gli dava le spalle, il suo corpo era trasparente, la postura eretta e fredda.
Blaine chiuse gli occhi. Prese un profondo respiro, il vento che gli scompigliava i capelli sopra la fronte.
“Ti amo anche io.”
Sentiva il vento freddo pungergli la pelle come aghi. Sentiva il pavimento sotto di lui, il motore dell’aeronave che rombava nel mezzo di quell’Eco.
Sentì un paio di labbra sfiorare le sue.
Durò un secondo, prima che Sebastian svanisse sotto ai suoi stessi occhi, con un sorriso felice e pieno. Di lui non restò altro che una piccola luce.
 
 
 
Blaine stava fischiando due ore.
Era in piedi sul pontile, il mare calmo che si estendeva oltre l’orizzonte, il sole placido, che contornava un clima sereno e rilassato.
Il fischio sovrastava completamente il canto gabbiani in lontananza e il fruscìo delle onde contro la scogliera; oltre quello, il silenzio.
“Dobbiamo andare” Annunciò Rachel, vestita in un elegante abito di seta, con una Gardenia rosa a ravvivarle i capelli. Blaine, invece, indossava la sua tipica tunica scura con lo strascico corto e le maniche larghe. Si era rifiutato di vestirsi diversamente.
 
 
“Tutti quanti abbiamo perso qualcosa di prezioso.” Disse di fronte a migliaia di persone, nel centro di uno stadio pieno di bambini, donne, anziani, speranze, inni. Un vecchio stadio di blitzball adibito per quel giorno di festa: era l’alba di un nuovo giorno, di una nuova epoca.
“Abbiamo perso case, sogni, e amici. Ma ora Sin è morto”, Commentò con tono fermo e diplomatico.
I suoi Guardiani erano dietro di lui, come sempre. Il portamento fiero di chi sta assistendo al discorso del salvatore del pianeta. Blaine passò in rassegna ogni angolo di quella struttura, soffermandosi su ogni volto possibile.
“Ora Spira è di nuovo nostra." Concluse sotto a un boato di applausi, di esclamazioni, di felicità manifestata in ogni forma possibile, abbracci, lacrime, urla e sorrisi. Il popolo si placò soltanto dopo un prolungato silenzio.
“Unendo le forze, adesso possiamo creare nuove case e nuovi sogni. Sarà un viaggio lungo, ma abbiamo tempo. Ricostruiremo Spira, lo faremo insieme. Creiamo il nostro futuro e cominciamo sin da oggi.”
Il ragazzo, non più un evocatore, si voltò verso i suoi compagni con fare timido: aveva le guance rosse per l’imbarazzo di ricevere quell’ovazione così grande da così tante persone, li interrogò con gli occhi, non sapendo assolutamente cos’altro dire o fare. Rachel, Sam e Finn applaudirono insieme a tutti gli altri, trattenendo a stento la commozione, i sospiri, la gioia repressa fino ad allora. Quello era Blaine, era il loro Blaine, aveva fatto tutta quella strada, e adesso era lì, a parlare all’intera umanità.
Aveva perso così tanto, per così tanti.
Blaine sorrise, sotto alla folla di persone che invocavano il suo nome, in canti e lodi diretti verso il futuro. Abbassò la testa solo per un secondo; il tempo di versare una piccola lacrima.
"Vorrei solo dire un'ultima cosa.” Concluse allora. “I compagni persi...” Disse, tenendo gli occhi rivolti verso il cielo.
“I sogni svaniti", Aggiunse, sussurrandolo a se stesso. Credeva di aver visto un fuoco fatuo salutarlo in lontananza.
"Non dimentichiamoli mai."
 
 
 

 

 








***

Angolo di Fra


Questa OS può essere presa in due modi:
Il primo: non ci ho capito un cazzo.
Il secondo: OH MIO DIO IO HO GIOCATO A QUESTO GIOCO è FANTASTICO FRANCESCA TI AMO TI RENDI CONTO FINAL FANTASY X E SIN E TIDUS COME SEBASTIAN AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Chiaramente, visto che non credo proprio che molti di voi giochino/abbiano giocato alla play, prevale il primo. Giusto?
Cerco di fare un paio di chiarimenti: questa OS è la rivisitazione di Final Fantasy X, un videogioco della Squaresoft. Dal momento che sono più di quaranta ore di gioco, sintentizzarle tutte in una OS era un'impresa impossibile. Ma ci sono riuscita. Il problema è che ho dovuto tagliare molte cose e dare per scontato molte spiegazioni. Cerchiamo di fare il punto della storia:

- Spira sarebbe la Terra, Zanarkand una città di Spira.
- Il blitzball è un minigioco del videogame, è davvero una specie di palla nuoto dentro all'acqua. Come fanno a respirare? Boh. 
- Gli EONI sono una specie di... animali, che l'evocatore, appunto, evoca. In sostanza servono per i combattimenti, però c'è tutta la storia dietro che è carina.
- Sin. Chi è Sin? Bella domanda. Non è spiegato molto bene nel gioco, comunque è questo.
- Yevon è il culto di Spira (tipo cristianesimo, ebraismo ecc) e Bevelle è la città Santa (tipo Gerusalemme)
- La parte del processo dovevo mettercela perchè altrimenti non si capisce come mai B e gli altri decidano di fare per contro proprio, ma immagino che non ci si capisca niente, no? Cerco di spiegarvelo qui: nell'originale per tutto il gioco c'è un personaggio, un altro invocatore, che ci prova con Yuna (Blaine), che se la sposa, che combatte a fianco a loro e continua a dire a Yuna che deve sconfiggere Sin (quindi sacrificare la propria vita, perchè chi sconfigge Sin muore evocando l'Eone supremo). In pratica però si scopre che è un non-trapassato. Avete presente il rito del trapasso che ho descritto? Se non si fa l'anima non ha pace e diventa una sottospecie di fantasma maledetto. E così quando lo scoprono chiaramente ci rimangono malissimo, e chiaramente lo trapassano. Visto che era il prediletto dei seguaci di Yevon, Yuna e gli altri vengono processati. E scopre che anche loro sono non-trapassati. Quindi la loro "Chiesa" si basa su non morti! Affascinante no? Chiaramente decidono di non seguire più il culto di Yevon, che diceva di evocare l'Eone supremo ecc, e di fare a modo loro.
- Che fine fa Seb? Non si sa. Non è spiegato nemmeno questo nel gioco.  Piangete e basta.



Spero che si capisca di più con queste note!

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Capitolo 4
*** Leggere tra le righe ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events.


 






“Mi ripeta per l’ennesima volta il concetto di ‘volo cancellato’.”
Sebastian stava affrontando quel discorso da mezz’ora, ormai. Con le mani appoggiate sul bancone, il piccolo trolley di marca abbandonato da un lato, il primo bottone della camicia slacciato per via del caldo, del nervosismo, del sonno e del tic che gli prendeva spesso quando non sapeva su cos’altro mettere le mani. Fissava l’assistente di volo con i suoi occhi freddi, cercando di trasmetterle tutto il suo crescente odio. Ma lei restò impassibile, mentre controllava il suo monitor gigantesco dall’altro capo del bancone, raddrizzandosi gli occhiali sottili: “Mi dispiace, ma non posso farci niente.”
“Dispiace a lei?” Soffiò acido: “E io adesso come ci vado in Francia, me lo spiega? Salgo su un unicorno e cavalco un arcobaleno?”
Dio, quanto odiava gli aeroporti.
 
Lo sapeva che non avrebbe dovuto prendere quel maledetto volo. E al diavolo se sua sorella era incinta e voleva festeggiare Natale con tutta la famiglia a Parigi, lui aveva un lavoro, una vita sociale, una vita sessuale e per quelle vacanze aveva pianificato un programma da urlo: uscire per locali, fare sesso, dormire, mangiare, fare di nuovo sesso, fare castelli di carta, finire di leggere quel libro iniziato otto mesi fa e mandare mail minatorie al suo capo, fingendosi un terrorista israeliano. Ah, e fare sesso. Invece, nella mattina della vigilia, si trovava all’aeroporto di New York, primo di una fila di centosessanta persone creta da lui stesso, a imprecare in tutte le lingue che conosceva contro la compagnia aerea e quelle stupide previsioni meteo.
Ma dai, fanno soltanto due gocce!”
“Signore, guardi.” La signorina con gli occhiali gli indicò la grande vetrata alla sua sinsitra, dalla quale si aveva una perfetta visuale dell’aeroporto e degli arei fermi. “È in corso la peggior bufera degli ultimi centocinquant’anni!”
“E allora? È solo acqua ghiacciata, che diavolo. Spendete tanti soldi per i vostri aereoplanini e poi non sapete gestire un po’ di neve. A che diavolo lo pago il biglietto in prima classe se non mi fate viaggiare? Per farmi bere champagne scadente e guardare hostess in minigonna di cui, francamente, m’importa una ricca se-“
“Signor Smythe”, lo interruppe bruscamente, adesso, con tono decisamente alterato. “Tutti i voli sono cancellati. Questo è il suo biglietto provvisorio, le faremo sapere quando sarà possibile imbarcarsi. Ci sono tantissimi negozi, bar e ristoranti, perchè non si trova qualcosa da fare nel frattempo?”
Qualcosa da fare? Ma stava scherzando, vero? Lui doveva essere in Francia. In. Francia.
“Mi sembra un’ottima idea”, proferì gelido, per un attimo, illudendo la signorina che lo guardò speranzosa. “Potrei pettinare le bambole. O controllare se l’orologio batte due volte la stessa ora. Oh, potrei anche piangermi addosso per l’estinzione dei Dodo. Uccelli affascinanti i Dodo, lo sa? Beh, a dire il vero, tutti gli uccelli sono affascinanti, non so se mi spiego, ma questa è un’altra storia.” L’assistente lo guardò a metà tra l’allibito e il disgustato: “Adesso smetta di intasare la fila, le persone dietro di lei sono stanche delle sue polemiche.”
Sebastian si voltò verso la fila interminabile alle sue spalle: stavano inveendo e parlando tra di loro, offendendolo sottovoce e battendo nervosamente i piedi a terra; avevano gli occhi stanchi, le gambe pesanti, le braccia intorpidite dalle borse e valigie e il volto scuro dalla rabbia, sembravano più esausti di lui.
“E al popolo?”
“Lei è davvero un maleducato.” Sbottò l’assistente. “Se ne vada. Ora!”
Pessima, pessima mossa. Gli aveva appena fornito la possibilità di risponderle a tono su un piatto d’argento.
“Non mi va. Sa cosa mi va di fare? Voglio parlare di quanto sia imbarazzante la sua incompetenza, che ne dice?”
“Come osa!” Spalancò la bocca in modo tanto teatrale quanto ridicolo: “Io non le permetto di insultarmi!“
“Signorina, la prego. Ha iniziato lei. E mi creda, la sua voce stridula ha già scheggiato la maggior parte dei miei neuroni, per fortuna ne ho tanti. Ma no, ha ragione, non dovrei permettermi di parlare male di persone inferiori a me. Mi fate quasi tenerezza.” Mormorò, con una punta di dispiacere, ergendosi con la testa e passandosi una mano trai capelli. “Dopotutto non è certo colpa sua se Madre Natura è stata così vile da donarle dei capelli stopposi, dei denti storti, o delle orribili zampe di gallina che cerca inutilmente di coprire con degli occhiali che non usa nemmeno mia nonna, e un trucco che la fa assomigliare a Nicki Minaj. Oh, no, non pianga, la prego, ecco, tenga un dollaro. Si sente meglio, ora? Vuole scrivere una letterina a Babbo Natale?”
 “Oh mio Dio, la vuoi piantare?”
Fu allora che si sorprese, e non poco, di sentire una voce esterna al piccolo dialogo, una voce fuori dal coro di quella fila chilometrica che si era esposta in modo particolarmente deciso e interessante. Era una voce calda, giovanile e, dal tono seccato, piuttosto divertente.
Per il primo secondo fece finta di non scorgere quel ragazzo alto quasi la metà di lui, con i capelli riccioli e scuri, gli occhi chiari che, probabilmente, volevano guardarlo male – che tenero – e le labbra serrate in una smorfia, mentre guadagnava lentamente la sua attenzione.
“Ah.” Fece Sebastian, dopo averlo squadrato dall’alto – molto alto - verso il basso. “Scusa, hai bisogno di qualcosa?”
“Vorrei chiederti la stessa cosa. Ti credi molto simpatico a fare il prepotente con una ragazza?” Gli rispose lui, continuando a guardarlo fisso negli occhi. I suoi avevano un colore particolare. “Gli aerei non partono, te l’ha detto ottanta volte, quindi o sei sordo o semplicemente non ci arrivi.”
Bene bene bene. Finalmente qualcuno che faceva finta di tenergli testa.
“L’unica cosa che non riesco a sentire è la tua voce”, Sorrise Sebastian, “Perchè sei troppo basso e non mi arriva bene. Sai, problemi di interferenze radio.”
Lo vide sbottare in una risata leggera, una di quelle piacevoli, disimpegnate, non aveva un suono fastidioso, sembrava quasi divertirsi esattamente quanto lui.
“Va bene, ho capito.” Sebastian venne ignorato con una tranquillità disarmante; il ragazzo gli passò accanto, porgendo un fazzoletto alla signorina in lacrime e sussurrando: “Va meglio? Vuoi un po’ d’acqua?”
“Oh. Ma dai. Non ci credo.” Sebastian incrociò le braccia al petto. “Sono mortificato”, Mentì, “Non volevo offendere la tua amichetta.”
“Cosa?” Si voltò verso di lui con un sopracciglio inarcato: “Amica? Non la conosco nemmeno.”
Adesso fu lui a dire, soprendentemente: “Che cosa? E allora che diavolo vuoi?”
“Si chiama gentilezza. Una parola a te del tutto sconosciuta, mi pare, visto che sai soltanto prendere in giro le persone e lamentarti per ore.”
“Sei un missionario?”
L’altro ragazzo strabuzzò gli occhi, preso completamente in contropiede: “Che cosa?! No!”
“E allora perchè diavolo hai l’istinto da crocerossina? Fatti i fatti tuoi.”
Purtroppo per lui, quella conversazione non terminò in quel preciso istante, come sperato. Tutto il contrario: quel ragazzo si piazzò di fronte a lui, gli occhi ben piantati sui suoi, e non importava quanti centimetri di differenza ci fossero tra di loro, non sembrava curarsene affatto mentre affilava le parole come se fossero lame di una spada, e parlava a denti stretti senza nemmeno prendere il tempo di respirare.
“Stammi a sentire. Sono quaranta minuti che sto facendo la fila soltanto per chiedere a questa ragazza se sia possibile ottenere un rimborso del biglietto, e sto aspettando che tu finisca con il tuo monologo di come il mondo sia brutto e cattivo, e di quanto tu sia troppo ottuso per renderti conto che fuori c’è una tormenta, i voli non partono, non andrai a quella bendetta Parigi fino a quando non te lo dice lei e sai cosa? Spero ti rinchiudano in Francia, spero che tu prenda un volo di sola andata perchè sei un ragazzo arrogante, prepotente, polemico, insopportabile e Dio, non sei il primo e non sarai sicuramente l’ultimo a perdere un volo il giorno della Vigilia. Quindi fatti da parte, fai un cruciverba, allacciati le scarpe, qualunque cosa, ma trovati qualcosa da fare e fai scorrere questa maledetta fila.”
Beh, qualcuno qui aveva gli artigli ben affilati. Si fece da parte giusto di un passo, mentre lo vide avvicinarsi alla signorina e chiederle quel famoso rimborso di cui parlava, con un tono completamente diverso da prima.
“Mi dispiace”, Sentì rispondere dall’assistente, “Non possiamo rimborsare i voli in Economica.”
Economica?
“Oh Dio.” Ridacchiò Sebastian, “Mi sono beccato la ramanzina da un plebeo?”
Vide l’altro ragazzo afferrare la valigia, prima di scostarlo quanto bastava per poter passare e abbandonare la folla di persone.
“Se eri così ricco ti pagavi un jet e volavi quando ti pareva, aristocratico.”
Avrebbe dovuto arrabbiarsi, forse: nient’affatto. Nell’esatto momento in cui squadrò quel fondoschiena decisamente interessante penso che, sì, aveva appena trovato cosa fare per il resto della giornata.
 
 
“Quindi.”
Quando si sedette esattamente di fronte a Blaine, intento a leggere un cruciverba con aria impegnata, per un momento non venne minimamente considerato. Si schiarì la voce, aggiustandosi il colletto della camicia e approfittando di quei secondi per squadrarlo senza riserve: quel ragazzo non era proprio niente male, con i suoi riccioli folti che cadevano sulla fronte, le labbra carnose, gli occhi grandi ed espressivi. Come aveva detto di chiamarsi? Oh, non lo aveva detto. Spiò il cartellino attaccato al suo bagaglio a mano, e riuscì a leggervi, grazie ai suoi dieci decimi, il nome Blaine Anderson scritto frettolosamente con inchiostro blu.
“Piacere.” Godendosi il suo sguardo di sorpresa, misto a confusione, misto a irritazione totale, gli offrì la destra: “Sebastian Smythe.”
“Che ci fai qui?!”
“Non lo so, siamo in una caffetteria, tu cosa dici? Avevo intenzione di noleggiare una mongolfiera e fare il giro del mondo.”
“Non intendevo...” Lo vide mordersi un labbro, scrollando appena la testa e allontanando, finalmente, il giornalino. Un punto per Smythe.
“... Che ci fai qui, seduto davanti a me?”
Dopo una breve pausa, si strinse nelle spalle: “Volevo fare due chiacchiere, Blaine. Dopotutto abbiamo ancora molte ore buca da riempire.”
Prese consapevolezza del fatto che gli piacesse quel nome; gli piaceva come scivolasse sulla sua lingua in modo così fluido e invitante, come un piccolo segreto sussurrato a fior di labbra. Era dolce, ma non melenso; gli donava alla perfezione. Anche Blaine se ne accorse, tanto che si ritrovò ad arrossire leggermente, mentre sviava i suoi grandi occhi chiari verso il tavolino di vetro bianco: “Come... come fai a sapere il mio nome?”
Non ci era arrivato? Sebastian si ritrovò a sorridere per i suoi stessi pensieri: quella sua innocenza era tanto adorabile quanto... eccitante. Molto eccitante.
“Sono bravissimo a indovinare le cose. Ad esempio, posso indovinare il motivo per cui non vuoi parlare con me.”
Blaine inarcò un sopracciglio, piuttosto scettico: “Non ho mai detto che non voglio parlare con te... ma, comunque, non ci vuole un genio per capire che non mi hai fatto una buona impressione, prima.”
“Devi perdonarmi. Tendo a diventare irascibile quando degli incompetenti si mettono in mezzo alla mia strada.”
Forse non doveva dirlo. L’espressione di Blaine diventò ancora più cinica e, per un attimo, temette di aver perso l’attenzione guadagnatasi, dal momento che tornò a leggere impassibile il cruciverba. Seguiva con il dito la linea da indovinare e, corrispondendo alla definizione, lesse: “Iniziali del terzo presidente.”
“Thomas Jefferson”, sbottò annoiato. “Ma quali cruciverba hai preso, quelli delle giovani marmotte? È sin troppo facile.”
“Come facevi a saperlo?” Chiese improvvisamente incuriosito Blaine, mentre riempiva le caselle con le iniziali e facendole quadrare con le altre definizioni.
“Il fatto che sia un ragazzo con poca pazienza e ancora meno voglia di discutere con dipendenti incapaci di fare il loro lavoro”, Commentò Sebastian, orgoglioso, “Non fa di me un ignorante.”
“No di certo. Ma sicuramente fa di te uno snob.”
Con un piccolo ghigno, avvicinandosi un po’ di più alla sua parte del tavolo, disse solo: “Ognuno ha i suoi difetti. Ma ho anche un sacco di pregi, come hai potuto ben vedere.”
“Cosa?” Di nuovo, distorse lo sguardo dal giornale. Due a zero per lui; beccati questa, Jefferson. “Fino ad ora ho visto soltanto che sai il nome del terzo presidente.”
“So anche il tuo.” Gli fece l’occhiolino; Blaine, arrossendo un altro poco, roteò gli occhi al cielo, ma Sebastian continuò: “E so anche che ti piaccio.”
Ecco, quello fu un passo più lungo della gamba. Forse. Perchè Blaine era diventato improvvisamente di tutti i colori e, beh, se quella penna avesse potuto parlare, si sarebbe di certo lamentata di quanto la stesse stringendo.
“Questa è una menzogna”, Balbettò, cercando di assumere un tono deciso, “Non è affatto vero.”
“Te l’ho detto, Blaine.” Il suo sorriso si faceva sempre più serafico, mentre con la coda dell’occhio si divertiva a immaginare quella pelle olivastra nascosta dal colletto della polo. “Sono molto bravo a indovinare le cose; e non mi ci è voluto molto per capire che mi trovi attraente.”
“Che cosa?! No, ti sbagli.”
“Da come stai torturando quel cruciverba”, ghignò, “Non si direbbe.”
Jefferson l’avrebbe perdonato per quello.
“Andiamo, Blaine.” Lo incitò, mellifluo. Si appoggiò completamente allo schienale della sedia, appoggiandosi con un braccio al tavolo, mettendo in rilasto il suo fisico asciutto e slanciato: “Oseresti dire che non sono bello?”
Per un attimo credette di aver colto nel segno; Blaine lo fissò a lungo, studiando i lineamenti del suo volto, gli occhi verdi, le labbra sottili, le gambe lunghe da modello. Probabilmente da un momento all’altro avrebbe cominciato a deglutire a vuoto e balbettare qualche scusa, perché sicuramente si poteva dire qualsiasi cosa di Sebastian Smythe, ma non che fosse bello. Uno stronzo, forse, e anche un po’ meschino; ma, insomma, doveva pur compensare in qualche modo tutta la sua bellezza e intelligenza.
 “Sebastian”, lo sentì proferire, con un filo di voce. Aveva un modo tutto suo di pronunciare il suo nome, e questo, sorprendentemente, gli piacque molto. “Io-voglio dire.”
Ah. Un’esitazione?
Tre a zero per Smythe. Ormai poteva anche arrivare direttamente ai supplementari.
“Non ci conosciamo nemmeno, e la prima impressione che ho avuto di te è stata che sei un idiota.“
“E la mia prima impressione su di te è stata che sei un polemico, permaloso, petulante ragazzo con il ciclo. Ma ehi, errare è umano.”
Se avesse potuto, sicuramente Blaine lo avrebbe trafitto con quella penna.
“Però hai un bel culo”, Commentò Sebastian, godendosi la sua faccia allibita, “E questo tuo atteggiamento da scolaretto in calore è... troppo eccitante.”
Dopo quella frase, la risposta fu repentina: “Io non farò sesso con te.”
“Come no?”
Ma allora, di che stavano parlando, si poteva sapere?!
“Perchè diavolo pensavi che mi sono seduto qui, scusa? Per finire il tuo cruciverba?”
“Oh mio Dio.” Blaine chiuse il giornale con uno scatto, alzandosi per andare a buttare il bicchiere vuoto di caffè e prendersi un momento di pausa. Sebastian lo fissò per tutto il tempo, gli occhi puntati su quel fondoschiena che, davvero, più lo vedeva e più gli provocava scariche di adrenalina per tutto il corpo. Sarebbe stato davvero un peccato se, alla fine di quella giornata orrenda, non lo avesse saggiato. Per questo motivo restò alquanto deluso quando Blaine, tornando a sedere, disse: “Prima di tutto: io e te non ci conosciamo. Seconda cosa: devo passare altre cinque ore in questo aeroporto, quindi, gradirei tornare a casa senza seccatori di turno.”
Seccatore? Lui?!
“Terza cosa”, Concluse: “L’aeroporto è pieno di persone, e tu... insomma, non hai problemi a trovare qualcun altro con cui passare il tempo, no?”
“Quindi hai appena ammesso che mi trovi attraente.”
“Ma hai sentito almeno una cosa di quello che ti ho detto?!”
“Certo, hai detto che non ci conosciamo, rimedieremo subito.”
“Ma io non voglio-”,
“E va bene, va bene.” Sebastian alzò le mani in aria, come per arrendersi. Dio, che nervi. “Va bene, non ci proverò con te. Ma già che ci siamo, perchè non facciamo due chiacchiere, mentre aspettiamo il volo? Scommetto che quel cruciverba puoi finirlo anche un’altra volta.”
Blaine sospirò, ma si sistemò meglio sulla sedia, accavallando le gambe e dedicandogli tutta la sua attenzione.
“Perfetto”, lo sfidò, “Hai detto che sei bravo a indovinare, no? Sentiamo cosa hai da dire su di me.”
Sebastian non riuscì a trattenere un sorriso: dopotutto non era affatto male, quel ragazzo. Riusciva quasi a tenergli testa e, francamente, era una qualità da sottolineare. Giocherellò con il tappo della penna scivolata dalle dita di Blaine, senza smettere di guardarlo negli occhi. “Dunque, ti chiami Blaine.”
“E fin qui”, Scherzò lui, “Sono capace anche io di leggere il nome sulla valigia.”
Oh. Beh, un punto per lui; ne aveva ancora due, di vantaggio.
“Stai tornando a casa.”
“Ma questo te l’ho detto io!”
“Giusto”, Affermò, “Ma non hai detto che la tua casa è... in Florida.”
“No.”
“In California.”
“Per niente.”
“In Venezuela centrale!”
“Che-Ma nient’affatto! Sono dell’Ohio.”
“OHIO?” Esclamò: “Chi diavolo vive in Ohio? Esistono ancora delle forme di vita in quel posto per sfigati?!”
Blaine fece una smorfia talmente espressiva da risultare un commento più che eloquente. Ok. Forse aveva toppato e aveva incassato un altro goal, ma era ancora sopra di un punto.
“Ad ogni modo”, Continuò, “A questo punto mi sembra chiaro che torni a casa per le vacanze, per andare a trovare i tuoi genitori.”
“No.”
Che cosa?! Ma che diavolo-
“Il tuo... ragazzo?” Domandò con una vena di incertezza, fino a quando Blaine non scoppiò in una risata leggera e rispondendo piano ed esitando per un secondo: “No, no, nessun ragazzo.”
“Oh. Bene. No perchè, sappi che non è un problema per me, se non lo è per te, ma comunque, ok.”
Quella chiarificazione era alquanto inutile, in effetti. Insomma, figuriamoci se a uno come Sebastian Smythe importasse davvero lo stato sentimentale di un ragazzo petulante e polemico, che faceva cruciverba in un aeroporto.
Non poteva interessargli. Non doveva interessargli. Non gli interessava.
Appoggiò un gomito sul bancone e sfoggiò il miglior sorriso strafottente del suo repertorio: “Vai a trovare tuo zio.”
“No.”
Non mutando la sua espressione di una virgola, non si perse d’animo e riprovò dicendo: “Tua nonna.”
“No!”
“Il tuo cane che non ti vede da otto anni e che aspetta ogni giorno alla stazione che tu arrivi.”
“Che cos-NO, Sebastian, vado a trovare Cooper, mio fratello maggiore.”
“Oh. Fratello. Certamente.” Commentò Sebastian, con un tono del tutto neutro e una mano sotto al mento.
Fratello! Maledizione, come diavolo aveva fatto a non pensarci!
E Blaine continuava a guardarlo con un sorriso sempre più divertito, mentre giungeva, pesante come un’incudine, la consapevolezza che aveva recuperato tutti i punti fino a raggiungere il suo stesso livello. Erano ai calci di rigore adesso: non poteva commettere passi falsi.
“Facciamo una scommessa”, Esordì, sporgendosi verso di lui e affilando il suo sorriso: “Se io indovino il lavoro che fai, ti fai offrire un altro caffè, ma stavolta in un bar che si possa chiamare tale e senza bufere di neve che ci fanno saltare i nervi.”
Blaine non rispose; forse stava valutando la sua offerta, forse stava ammirando i suoi occhi verdi. Fatto sta che, alla fine, con una voce incredibilmente bassa che gli fece venire i brividi, lo guardò sornione e sussurrò: “Vorresti... vuoi uscire con me?”
Maledizione.
“No. No. Che cosa stai dicendo? Certo che no. Io non esco con i ragazzi. Non ho tempo da perdere in queste cose da bambini.”
Blaine sembrò alquanto deluso da quella risposta, ma si strinse nelle spalle, accarezzando un’orecchia del suo cruciverba e pensando ad alta voce: “Beh, sei passato da ‘facciamo sesso adesso e subito’ a ‘ti offro un caffè’. È comunque un progresso.”
Mei-dei. Mei-dei. Huston, abbiamo un problema. Doveva recuperare lo svantaggio. Ora. Subito.
“Sebastian, mi aiuteresti a finire il cruciverba?”
Blaine alzò lo sguardo con i suoi grandi occhi nocciola, verdi, dorati, non riusciva ancora a decifrarli, che lo guardavano esattamente come un cucciolo guarda il suo padrone. E Dio mio, ma ce l’aveva almeno il porto d’armi per quei cosi? Erano illegali, maledizione. Illegali e soprattutto scorretti.
“Io non faccio cruciverbi.” Sbottò stizzito. “Non li ho mai fatti e non li farò mai.”
“Per favore...”
Illegali. Completamente illegali.
Lo sentì esultare con un “Grazie!” Solo quando si accorse, troppo tardi, di aver annuito involontariamente con la testa. Maledetto linguaggio del corpo. Vide Blaine sfogliare quel giornalino come se stesse scartando un pacco regalo, ricercando il cruciverba di prima e mordicchiando con fare concentrato il tappo della penna. Sebastian non si era nemmeno accorto di averlo fissato per almeno un minuto, fino a quando non lo sentì leggere ad alta voce una definizione: “La metà di cerchio.”
“Semicerchio.”
Blaine ridacchiò appena, scrivendo qualcosa dentro le caselle: “No, è ‘rc’.”
“Che? Che diavolo sarebbe ‘rc’?”
“La metà di cerchio”, Ribattè lui. Sebastian resistette all’impulso di battersi una mano in fronte.
“Ma che razza di giochino per bambini è?”
“Devi leggere tra le righe, Sebastian.” Il suo sorriso era così divertito, così dolce, così... particolare, che a Sebastian, per un momento, non gli importò nemmeno più di tanto di quale fosse la risposta alla definizione.
Ma restava pur sempre Sebastian Smythe. E lui non fa mai figuracce.
“Quattro lettere”, Esordì Blaine: “Si mette in bocca.”
“Pene.”
“Cibo.” Lo ignorò repentino, diventando color rosso porpora. “Cibo. Passiamo alla prossima.”
Sebastian si sporse un po’ di più sul tavolo, appoggiandosi con i gomiti e inclinando leggermente la testa per osservare meglio Blaine. Quel giochino cominciava a farsi molto interessante.
“Undici verticale: lo fa la pecora.”
“Mettersi a novanta?”
Sebastian!”
“Ritiro tutto quello che ho detto su questo cruciverba, non è affatto per bambini. Dove l’hai preso, a un sexy shop?”
“No-assolutamente no, sei-sei tu che continui a inventarti cose ass-“
“Visto che ho fatto?” Chiese raggiante, “Ho letto tra le righe. Devi leggere tra le righe, Blaine. È molto più divertente.”
“Oh Dio, non voglio nemmeno ascoltarti. Non ti sto ascoltando.”
Erano a pochi centimetri di distanza, tanto che riuscì a scorgere ogni dettaglio del suo viso, alle labbra serrate, alle lunghe ciglia scure rivolte verso il basso, sfiorandogli appena le guance rosse. Non lo stava nemmeno guardando negli occhi per quanto era imbarazzato, e quella cosa era ancora più adorabile.
Poi, tutto ad un tratto, un rumore acustico proveniente dagli altoparlanti attirò la loro attenzione: il tabellone dei voli, prima completamente vuoto, adesso si stava riempiendo man mano di imbarchi e informazioni sui gate, pronti, finalmente, per la tanto attesa partenza.
Il tono di Blaine si fece un po’ più timido, mentre scorgeva la destinazione “Parigi” lampeggiare sul tabellone: “Hanno fatto prima del previsto.”
“Già. A quanto pare.”
Sebastian si voltò per un attimo, come per avere una conferma ufficiale di quello che stava succedendo: doveva andarsene.
Si scambiarono una veloce occhiata, poi, di nuovo, evitarono di guardarsi. Blaine teneva lo sguardo basso, la smorfia evidente sul viso che non si preoccupava minimamente di nascondere; quel cruciverba, tutto ad un tratto, era diventato così noioso. Così poco importante.
“Oh beh.”
Sebastian glielo sfilò dalle mani insieme alla penna, per poi fargli l’occhiolino. Blaine, che aveva già intuito dove volesse arrivare, sfoggiò un sorriso così grande, così bello, che a Sebastian per un momento mancò la terra sotto ai piedi. Ed era alquanto buffo, considerando che si trovassero in aeroporto.
“Tanto ormai sono già in ritardo, no?”


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Capitolo 5
*** Stregato ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events.

 

 





“Beh. Wow.” Fu l’unica cosa che riuscì a dire Blaine, dopo essersi accasciato sul materasso accanto a un Sebastian completamente nudo e coperto unicamente da un lenzuolo azzurro. Aveva appena fatto quello che poteva essere descritto come “Il miglior sesso della sua vita” e ancora non riusciva a crederci.
“Sei rimasto senza parole, Killer?”
Sebastian si avvicinò lentamente a lui, guardandolo con i suoi occhi verdi ancora pieni di desiderio; era incredibilmente sensuale, non c’era niente da dire. Bastava quello sguardo, un sorrisetto accattivante, un morso leggero lasciato sulla spalla nuda, ed ecco che Blaine aveva già voglia di ricominciare, per non fermarsi mai.
“Lo sai”, Blaine cominciò ad accarezzare quei pettorali che adorava tanto, marchiati con dei succhiotti leggermente violacei. “Sei davvero fantastico.”
“Infatti lo so.” Ridacchiarono entrambi, persi per un secondo nella contemplazione di quel gesto tanto intimo quanto confortante. “Ed è sempre un piacere farti avere orgasmi da urlo, Anderson. Soprattutto se continui a gemere in quel modo.”
Sentendo quelle parole, al solo ricordo di quanto successo appena dieci minuti prima, Blaine avvampò di colpo, smettendo di accarezzarlo e abbozzando un sorriso timido e tirato.
“Ehi.” Si sentì chiamare da Sebastian, con quel tono sempre pungente e malizioso. “Non devi vergognarti. Lo sai che mi fai impazzire.”
“Oh, lo so bene. Stiamo insieme, tra virgolette, da tre mesi, ormai.” Sottolineò bene quelle due parole, dal momento che lui e Sebastian non stavano veramente insieme e ci tenevano entrambi a specificarlo. Loro due non stavano insieme, a malapena uscivano insieme per andare a prendere una pizza e portarla a casa. Loro due si vedevano a casa di Sebastian, facevano del sesso da favola, e poi chiacchieravano del più e del meno fino a quando non sorgeva l’alba. Qualche volta si scrivevano dei messaggi, ma niente di troppo personale. Fatto sta che, con il passare del tempo, i loro incontri mensili erano diventati settimanali, e adesso quasi giornalieri, visto che si vedevano un giorno sì e l’altro pure.
Sebastian aggrottò le sopracciglia, quasi confuso: “Davvero? Sei il mio scopamico fisso da tre mesi?”
“Sì. Buon mesiversario da scopamico, Sebastian.”
Il sorriso sul volto del ragazzo diventò per un attimo più dolce, nel rispondere: “Anche a te killer. Sai, questa cosa dello scopamico è una novità, per me. Di solito non faccio mai coppia fissa con qualcuno. Si potrebbe dire che sei la storia più lunga che abbia mai avuto.”
“Lo so”, Affermò, ma nel momento stesso in cui le parole uscirono dalla sua bocca, cercò subito di rimangiarsele affrettandosi a dire: “Cioè, voglio dire, lo immaginavo, visto che mi avevi sempre detto che non eri tipo da storie serie e solo da sesso occasionale e-“
“Perchè balbetti?”
“Perchè-perchè non voglio che tu pensi che io abbia fatto... tipo... ricerche su di te.” Ops. Forse si era appena fregato da solo.
“Blaine.” Sebastian lo fissò a lungo. “Mi hai stalkerizzato per caso?”
Temette che quel piccolo momento di serenità terminasse lì: con lui che dovette ritrarre la mano per paura di accarezzarlo ancora e Sebastian che lo fissava incolore, le labbra chiuse in un’espressione neutra, mentre aspettava pazientemente una qualsiasi risposta che non fosse una bugia. Ci teneva sempre tanto, lui, a sapere la verità su tutto.
“...Sì? Forse? Il... il giorno dopo che ci siamo conosciuti a quel bar e mi avevi dato il tuo numero?” Gli costò caro ammetterlo. Tanto che, subito dopo, con gli occhi grandi che imploravano perdono gli chiese dolcemente scusa. Avrebbe potuto arrabbiarsi, sapeva che sarebbe stata l’occasione perfetta per un litigio con i fiocchi con tanto di porte sbattute e “Vai a quel paese” urlati da una parte all’altra della stanza; invece, con grande sorpresa di Blaine, si alzò con i gomiti per andargli incontro e catturare la sua bocca in un bacio famelico, gesto che lo coglieva sempre di sopresa e, allo stesso tempo, lo mandava su di giri in meno di un secondo. Sebastian si mosse sopra di lui, afferrandolo per i fianchi con troppa forza, probabilmente, ma a Blaine non dispiaceva affatto. Se non fossero ancora in stato di ripresa post-orgasmo, quei baci pieni di lingua e sospiri si sarebbero trasformati in qualcos’altro, con sommo piacere di tutti e due. Invece, dopo qualche minuto sin troppo breve, furono costretti a staccarsi; Blaine, dolce Blaine, lo guardava con un sorriso che avrebbe sciolto un ghiacciolo al Polo Nord, mentre Sebastian restò sopra di lui, accarezzandogli il volto con una mano e facendo attenzione a non soffocarlo con il suo peso.
“Se mi fai questi occhi da cucciolo mi spieghi come posso prendermela con te?”
Blaine sorrise. Era così sollevato che avrebbe voluto baciarlo un’altra volta.
“Non puoi infatti. Ti prego, perdonami per non avertelo detto prima...”
“Non fa niente.” E, per un attimo, fu come se qualche pensiero a lui sconosciuto gli attraversò la mente. “Dopotutto anche io ho dei... segreti, che non ti posso rivelare.”
 “Oh. Davvero?” Questa era nuova. “Segreti... di che tipo?”
“Del tipo che se lo sapessi mi lasceresti all’istante e, sinceramente, non mi va. Sei troppo bravo a letto per lasciarti andare.”
Blaine sapeva bene che era un modo per spezzare la tensione, che avrebbe dovuto ridere e poi baciarlo, magari facendo l’amore un’altra volta. Ma come pretendeva di poter lasciar cadere l’argomento così facilmente, dopo avergli messo tanta curiosità addosso? Voleva quanto meno sapere l’ambito che riguardava il famoso segreto. Era un segreto di famiglia? Era un pregiudicato? Un agente segreto?
“No, no, niente del genere”, Gli rispose Sebastian dopo quella raffica di domande, una più assurda dell’altra. “È che... non ci crederesti.”
“Mettimi alla prova.” Propose Blaine. Il punto, è che non aveva mai visto un’espressione così seria sul volto di Sebastian. Doveva essere un segreto importante, un segreto che covava da chissà quanto tempo, ormai. Uno di quelli che non aveva mai rivelato a nessuno per paura, o per precauzione, o per chissà quale altro motivo ad esso collegato.
Ma Blaine sapeva tenere i segreti. Era bravissimo con i segreti.
Sperò di essere riuscito nell’intento di farlo parlare, ma capì subito di aver fallito nel momento in cui lo vide aprir bocca con un sorrisetto: “Vedi Blaine... devi sapere che io sono un mago.”
“Ah. Ma non mi dire.”
“Ebbene sì, ma ti dirò di più.”
“Sono tutt’orecchi.”
“Sono un mago a fare pompini. Vuoi provare?”
Blaine roteò gli occhi al cielo, ma dovette trattenersi dal sorridere, perchè quel ragazzo era davvero incredibile e, soprattutto, mentre scendeva con le labbra lungo il suo torace, aveva paura che potesse sentire quanto forte stesse battendo il suo cuore.
 
 
“Allora ciao. Ti scrivo io?”
“Va bene. Ci vediamo.”
Blaine si sporse per dargli un piccolo bacio a fior di labbra. Si aspettava quasi che Sebastian si scostasse da lui, visto che erano sulla porta di casa, in mezzo a una strada affollata di Los Angeles e con il resto del mondo che avrebbe potuto scambiarli per una coppia di fidanzati; invece, per un secondo lo sentì approfondire il bacio e sorridere sulle sue labbra.
Blaine si incamminò per la quindicesima avenue con la consapevolezza che il sole era alto nel cielo, non c’era l’ombra di una nuvola all’orizzonte e la primavera aveva finalmente cominciato a fare il suo corso, con gli alberi in fiore, gli uccellini che cinguettavano, le strade affollate di persone che, finalmente, potevano godersi il bel tempo e uscire dal letargo. Andava tutto a meraviglia.
Fino a quando non notò un gatto nero nascosto tra i bidoni di un vicolo, che lo fissava con i suoi occhi nocciola come se volesse ucciderlo.
Beh, Los Angeles era piena di gatti, magari era un gatto qualunque che era semplicemente troppo affamato. Blaine lo ignorò tentando di camminare con passo più spedito, ma nel momento in cui ebbe superato quel vicolo, intravide con la coda dell’occhio quello stesso gatto dal pelo foltissimo che lo seguiva imperterrito.
Oh, e va bene.
Tornò indietro, stando bene attento di arrivare fino alla fine di quella strada buia e stretta, proprio davanti a un muro di mattoni pieno di murales. Il gatto si guardò intorno, soffiò due o tre volte e poi, in meno di un secondo, si trasformò in una ragazza dai capelli lisci e lunghi, che indossava un vestitino nero tipicamente anni sessanta e stava squadrando Blaine con le mani appoggiate sui fianchi.
“Rachel! Devi smetterla di seguirmi!”
“Osi anche controbattere, Blaine Anderson? Ti rendi conto di quello che stai facendo in questi ultimi mesi?”
Aveva la voce alta, squillante, era perfino più bassa ed esile di lui, ma nonostante tutto riusciva a incutere lo stesso molta paura. Più che altro perchè Blaine era perfettamente consapevole di quello che sapeva fare.
“Non sto facendo niente”, Tentò di discolparsi, sviando lo sguardo verso un murales che ritraeva due cuori e una freccia che li attraversava. “È solo... ci divertiamo un po’.”
“Questo me l’hai detto anche tre mesi fa”, Protestò lei, “Esattamente la sera stessa in cui lo hai conosciuto in quel bar e ti sei fatto trascinare nel bagno dopo nemmeno mezz’ora. Ma ti rendi conto che sono passati tre mesi? La situazione ti sta sfuggendo di mano, Blaine, devi ammetterlo.”
“Non è assolutamente vero.” Adesso, ricambiò il suo sguardo con altrettanta decisione. “Prima di tutto, non stiamo insieme, e seconda cosa-“
“Non mi interessa se non state ufficialmente insieme oppure no, Blaine, tu ti stai innamorando di lui!”
“Cosa? Non è vero!”
Era vero. Era terribilmente vero.
“Lo sapevo che sarebbe finita così.” Sbuffò Rachel quasi disperata, abbandonando le braccia lungo i fianchi. “Senti, in quanto tua sorella maggiore-“
“Siamo gemelli”, replicò lui.
“Ma io sono nata un minuto e mezzo prima di te. Quindi, devi ascoltarmi quando ti dico che questo è un errore madornale.“
“Oh ma piantala, tu stai con Finn da trentadue anni e io non ti ho mai detto niente!”
“Finn è un veggente, Blaine. Lui sa esattamente chi sono e, dì un po’, lo hai mai detto al tuo caro mortale dagli occhi verdi che sei uno stregone?”
Blaine emise un breve sospiro, appoggiandosi al muro vandalizzato con una spalla. Detta così, poteva suonare più spaventoso di quanto non fosse: in realtà lui era semplicemente un ragazzo che aveva ereditato dei poteri dalla sua famiglia e che, oltre tutto, non riusciva nemmeno ad usare bene. Rachel era sempre stata quella più brava trai due: le sue pozioni non fallivano mai, le sue mutazioni erano sempre impeccabili. L’ultima volta che Blaine aveva provato a trasformarsi in un gatto, era diventato un micio con il pelo corto e gli occhioni lucidi.
“Lo sai che non posso dirglielo”, Le rispose cinico, “E poi, non serve che gli dica proprio tutto della mia vita, no? Ognuno ha i suoi segreti. Anche lui ne ha!”
“Il suo segreto maggiore”, Sentenziò Rachel, “Sarà di aver nascosto il barattolo di Nutella dietro alle scatole dei cereali. Il tuo è che hai fatto ricerche su di lui usando la magia.”
“Volevo soltanto conoscerlo un po’ meglio!”
“Sì, e per queste cose esiste Facebook, non una sfera di cristallo!”
Restò in silenzio per un paio di secondi; non sapeva bene come rispondere a Rachel, sapeva che forse la situazione gli stava scivolando di mano, ma non lo avrebbe mai, mai e poi mai ammesso ad alta voce.
E poi, fin quando Sebastian continuava a non sospettare nulla andava tutto bene, no?
 
 
 
La svolta avvenne esattamente una settimana dopo. Sebastian e Blaine erano sdraiati sul divano del primo, avvolti da un’atmosfera rilassata e accogliente, con soltanto la luce di una piccola abat-jour a illuminare il soggiorno. Blaine era accoccolato al petto di lui, mentre si riscaldavano sotto a un plaid colorato. Non c’era nessun tipo di imbarazzo, soltanto quel silenzio che nasce quando due persone sono perfettamente a loro agio. Sebastian, sotto di Blaine, continuava ad accarezzargli i riccioli scompigliati dalle ore di sesso; si arrotolava un ricciolo tra il pollice e l’indice, per poi lisciarlo delicatamente. Blaine si era quasi addormentato quando sentì Sebastian chiedergli una cosa.
“Ti va di uscire?”
“Come?” Inclinò la testa, in modo da guardarlo dritto negli occhi: “Ma non avevi detto di aver già comprato la pizza e messa in forno?”
“Non intendevo per prendere qualcosa da mangiare”, mormorò Sebastian. “Intendevo che un giorno... invece di chiuderci direttamente in casa... potremmo farci un giro prima. E poi chiuderci in casa.”
“... Oh.” Spalancò gli occhi. Voleva un appuntamento.
“Certo. Voglio dire, mi piacerebbe molto.”
“Bene”, sorrise Sebastian, come se si fosse tolto di un peso enorme. Gli diede un pizzicotto sul fianco nudo, poi si sistemò meglio trai cuscini e gli occhi per riposare.
Blaine non riuscì a dormire quella notte.
 
 
“Ti rendi conto che è una PESSIMA idea?!”
“Rachel, stai calma.”
Finn Hudson conosceva Rachel Berry da tanto tempo, ormai. Troppo, considerando la vita degli esseri umani; in realtà era umano anche lui, ma per il suo trentesimo compleanno Rachel gli aveva fatto un incantesimo di lunga vita, decelerando il processo di invecchiamento. Adesso, entrambi avrebbero dovuto avere sessantacinque anni, ma avevano ancora l’aspetto di due giovani ragazzi.
“Non ci posso credere! Blaine, questa è l’idea peggiore che tu abbia mai avuto in vita tua! Ancora peggiore di quando a quarantadue anni hai incantato il ferro da stiro perchè stirasse i panni da solo, e hai incendiato casa!”
“Rachel, ti prego, cerca di contenerti.”
“No amore!” Replicò al suo fidanzato, divincolandosi dalla sua presa. “Non posso stare a guardare mentre mio fratello ci fa scoprire! Dovremmo cambiare città un’altra volta, e avevo appena cominciato ad ambientarmi qui!”
Gesticolò indicando la piccola casa in cui si trovavano: era un appartamento piccolo, disordinato, pieno di libri e vestiti sparsi per tutta la casa. Il tomo degli incantesimi era su un leggio in bella vista proprio accanto alla cucina, dove, al posto delle classiche pentole e padelle, c’erano calderoni, beker e infusi dai colori strani. I vicini di casa non avevano mai sospettato nessun movimento sospetto da parte dei fratelli Anderson, semplicemente perchè da anni ormai avevano fatto un incantesimo di protezione in grado di insonorizzare la casa. Per quanto riguarda l’oggettistica magica, beh, non avevano mai visite. A parte Finn Hudson che, comunque, faceva un po’ parte di tutto quel corredo magico.
Il quartiere era tranquillo, frequentato da famiglie e giovani coppie appena sposate; nessuno avrebbe mai sospettato che, in quel piccolo palazzetto a sei piani, risiedessero streghe e stregoni. La cosa più bizzarra mai successa era l’esplosione della griglia del signor Thompson, il loro vicino, nel giorno del Ringraziamento.
Blaine era seduto sulla poltrona, con gli occhi bassi e le mani in mano. Non c’era stato nemmeno bisogno di tornare a casa per avvisare Rachel del suo appuntamento: il vantaggio di avere un cognato veggente era che, nel sonno, prevedeva alcune cose prima di chiunque altro.
“Rilassati.” Finn posò delicatamente le mani sulle sue spalle, dandole un piccolo bacio in testa. “Blaine sa quello che fa. E non ho sognato niente di catastrofico riguardo a questo appuntamento.”
“Perchè tu sogni soltanto cose belle Finn. Sei ottimista di natura!”
Non aveva tutti i torti: Finn aveva sognato cose tipo la legalizzazione dei matrimoni gay in New York City, la nascita di un panda albino e perfino la vittoria dei Giants al Super Bowl. Non aveva mai sognato cose tipo le Torri Gemelle, i terremoti o catastrofi di qualsiasi tipo. Tra queste, rientrava anche un appuntamento disastroso.
“Blaine tu non sei ancora pronto per impegnarti seriamente con un mortale”, sentenziò Rachel. “Non sai contenere i tuoi poteri magici!”
“Ci riesco benissimo invece. Non sono più un bambino, smettila di fare la madre iperprotettiva che non abbiamo mai avuto!”
“Ehm, la situazione si sta facendo tesa, io me ne-“
“Resta qui”, ordinarono entrambi al povero Finn, lei con voce autoritaria, lui più che altro rassegnato.
“Me ne vado io”, disse infatti dopo un secondo, alzandosi in piedi per afferrare sciarpa e cappotto. Aveva un appuntamento e non sopportava i ritardi. Mentre scendeva le scale due scalini alla volta sentì le urla di Rachel riecheggiare per tutto il palazzo.
“Stammi bene a sentire Blaine Anderson! Se solo farai un errore, stasera, ti trasformo in un rospo! Mi hai capito? In un rospo!”
Il signor Thompson, intento a prendere la posta, lanciò un’occhiata a Blaine e sorrise. Lui credeva che fosse soltanto un modo di dire; nessuno prenderebbe sul serio una simile maledizione. Blaine, invece, deglutì aria fredda, controllando le mani per accertarsi che non fossero diventate squamose.
 
 
Sebastian quella sera era bello oltre ogni immaginazione.
Non erano i jeans scuri, o la camicia chiara, a renderlo così affascinante. Forse era tutto l’insieme: era il vederlo sotto la luce di un lampione, davanti a un bar, un sorriso rivolto soltanto a lui. Blaine non si sentiva così da almeno venticinque anni.
“Come stai Sebastian?”
Il ragazzo scoppiò in una risata leggera, prima di sporgersi verso di lui e dargli un bacio a fior di labbra, accompagnato da una lieve palpata al sedere.
“Guarda che non serve fare il carino con me, per infilarti nelle mie mutande.”
Si ritrovò ad arrossire improvvisamente, sotto lo sguardo divertito di Sebastian, che lo fissò per un attimo: “Comunque, sei irresistibilmente sexy questa sera.”
“Grazie”, sussurrò. Diavolo, aveva la gola secca, le mani sudate e gli era venuto uno stranissimo tic alla gamba che la faceva ballettare. Si chiese se fosse ancora in grado di fare queste cose: appuntamento classico, flirt inconsapevole. E se fosse stato un completo disastro? E se Sebastian si rendesse conto che, fuori da un letto, non era poi tutto questo granchè?
Era talmente preso dal suo nervosismo e dai suoi pensieri pessimisti che, dopo nemmeno cinque minuti da quando si erano seduti a bere e conversare, con un gesto troppo brusco della mano rovesciò mezzo coctkail direttamente sulla sua polo verde, macchiandola dal collo fino all’ombelico.
“Cazzo”, imprecò sottovoce, a denti stretti. “Cazzo cazzo cazzo.”
Che bella figura del cavolo aveva fatto.
“Killer. Rilassati.” Sebastian si sporse verso di lui con un sorrisetto, prendendogli il drink dalle mani. “Non essere così teso, ok? Sono soltanto io. E tanto, tra qualche ora, quella maglietta finirà a terra accanto al mio letto matrimoniale.”
Era carino da parte sua cercare di confortarlo in quel modo, ma Blaine non poteva passare la serata con una macchia simile. Mentre Sebastian si era voltato in cerca di un fazzoletto sopra agli altri tavoli, Blaine strinse la polo tra le dita e strizzò velocemente gli occhi e annuì con forza; a Sebastian quasi scivolò il fazzoletto, quando si accorse che la macchia non c’era più.
“A quanto pare non ce n’è più bisogno di un fazzoletto!” La voce di Blaine era salita di un’ottava. “I drink di oggi, eh? Meraviglioso.”
“Blaine.” Sebastian continuava a guardarlo piuttosto perplesso. “Ma la tua polo non era verde?”
“... Sì?”
Cazzo. Aveva colorato la sua maglia di blu.
“Ah, queste luci. Fanno sempre brutti scherzi, vero?”
Sebastian inclinò leggermente la testa da un lato: “Eppure non credevo di essere daltonico.”
“Potresti farti controllare la vista! Il buco dell’ozono rovina gli occhi, lo sai? L’ho letto su un giornale giusto l’altro ieri!”
Oh mio Dio. Sebastian non ci avrebbe mai creduto a una cosa simile ma, per qualche strano e fortunato evento del destino, in quel momento un tizio aveva appena raggiunto il record di bevute nella storia di quel locale, e ci fu un’ondata di urla e applausi.
Il fragore cessò soltanto dopo diversi minuti, così Sebastian e Blaine tornarono composti sulle loro sedie intenti a guardarsi negli occhi.
“Insomma...” Sebastian sembrava aver scordato di cosa stessero parlando. Finalmente un colpo di fortuna.
“Dove la tenevi nascosta questa nuova polo? Hai un rimedio per qualsiasi eventualità in caso di errori in un appuntamento?”
O forse no.
“Ah ah, beh io, come dire...”
“Oltre tutto ti sei spogliato e rivestito in un secondo netto. Ma forse questo è in parte merito mio.” Gli fece un occhiolino che poteva letteralmente stenderlo. Blaine arrossì vistosamente senza sapere bene cosa dire: doveva trovare un modo per risolvere quel problema, un modo per fargli dimenticare l’accaduto e concentrarsi su altro.
Bene: avrebbe fatto inciampare la cameriera, così da rovesciare il bicchiere d’acqua proprio su quel signore accanto a loro.
Quei due lo avrebbero perdonato, pensò mentre faceva un piccolo schiocco di dita.
Dopo nemmeno un secondo per tutto il locale risuonò lampante l’allarme anti incendio, che fece scattare le misure di sicurezza e innaffiare tutti i clienti con gli spruzzini collocati sul soffitto.
Chiaramente, beccarono anche lui e Sebastian.
“Non ci posso credere”, Lo sentì inveire una volta usciti fuori, strizzandosi i lembi della camicia completamente zuppa. “Che locale di merda. Io questi li denuncio.”
“Già. Davvero assurdo.”
Voleva sotterrarsi dentro a un campo di zucche.
“Mi dispiace Killer, se sapevo che i loro impianti anti incendio facevano così cagare, ti avrei portato in un altro posto.”
Oh Dio. Non solo adesso aveva il senso di colpa per aver rovinato la reputazione a quel bar, ma adesso si aggiungeva quella di aver fatto sentire Sebastian responsabile. Aveva i capelli tirati indietro come applicati con il gel, la camicia che aderiva perfettamente ai suoi muscoli tonici e eccitanti, i jeans neri che gocciolavano a terra, ma non completamente bagnati.
Dio, quell’appuntamento era un continuo attentato alla sua salute mentale.
“Non ti preoccupare, non lo potevi sapere!”
Dietro di loro passò una ragazza con un vestitino completamente bianco, che urlava: “Maledico voi e chiunque abbia fatto scattare quegli stracazzo di spruzzini!”
Blaine tossì giusto un paio di volte.
“Andiamo a casa? Chiamo un taxi.”
“Va bene. Solo che il mio portafogli è completamente fradicio...” Sebastian estrasse delle banconote accartocciate tra di loro.
“Non ti preoccupare! Offro io! Per scusarmi.”
“Scusarti? E di cosa?”
“Sdebitarmi. Volevo dire, sdebitarmi.”
Blaine si avvicinò al bancomat collocato giusto accanto al locale, tirando fuori la sua carta di credito per prelevare dei contanti.  Con sua grande sfortuna, però, la sua carta era scaduta perchè inutilizzata dal millenovecentonovantadue.
“Tutto bene?” Sebastian era a pochi passi, le mani in tasca; era arrabbiato, ma non con lui.
“Sì! Sì, tranquillo.”
Aveva bisogno di quei contanti: non poteva dire a Sebastian di essere completamente squattrinato, o che la sua carta non funzionava da venti anni. Decise di incantare il bancomat. Così, quando diede un piccolo calcio alla macchina, questa emise un verso robotizzato e inquietante, per poi cominciare a sparare banconote dall’apposita fessura, che svolazzarono per la strada attirando tutti i passanti increduli.
“Piovono soldi! Piovono soldi!”
Blaine si voltò verso Sebastian che, adesso, era dall’altro lato di una folla in delirio. Lo stava fissando.
 
“Quindi.”
Il taxi si muoveva lento. C’era molto traffico, considerato il giorno e l’ora, e Blaine teneva il volto incollato al finestrino sperando solo che quel viaggio finisse il prima possibile. Sebastian aveva un tono vago e distaccato.
“È stata una serata strana, non credi? Sicuramente la più strana di tutta la mia vita.”
“Già. Anche per me.”
Rispondere a monosillabi forse non avrebbe aiutato, ma Blaine era talmente imbarazzato da non sapere assolutamente cosa dire.
“Insomma, prima la polo che cambia colore, poi l’anti incendio scattato a caso, alla fine quel bancomat impazzito... e nel giro di nemmeno un’ora.”
“Che coincidenze, eh?”
Sicuramente non avrebbe aiutato nemmeno parlare in modo così isterico. Perchè Sebastian non era uno stupido: catturò il volto di Blaine con le mani e lo costrinse a guardarlo dritto in quegli occhi verdi.
“Blaine. Sei strano.”
“Co-come scusa?”
“Non intendo dire che sei un ragazzo strano. Intendo dire che chiunque, dopo stasera, sarebbe rimasto quanto meno allibito. Tu invece non hai battuto ciglio nemmeno una volta. E ancora mi devi spiegare come hai fatto a cambiarti in mezzo secondo, dal momento che non hai borse con vestiti di ricambio e nemmeno uno smacchiatore portatile.”
Non avrebbe potuto continuare così. Sebastian non era uno stupido, e le cose erano successe in maniera sin troppo evidente. Aveva ragione Rachel a dire che quell’appuntamento era una pessima idea, così come l’idea di poter stare con un comune essere umano.
Sebastian non poteva sapere la verità su di lui, ma nemmeno meritava di essere preso in giro così.
Non potevano avere futuro.
Quando socchiuse gli occhi, cercando di respirare, sentì l’auto in cui erano sbandare pericolosamente. Un’auto non aveva rispettato la precedenza e il tassista, per evitarlo, aveva dirottato il proprio veicolo, che stava per finire contro un palo.
Non avevano nemmeno le cinture di sicurezza.
Blaine non pensò con lucidità quando, con un gesto secco delle mani, fece scomparire il palo a pochi centimetri da loro, dando alla macchina lo spazio per frenare e salvarsi da un pericolosissimo incidente.
Il tassista cominciò a urlare come terrorizzato, gli occhi spalancati come se avesse visto un fantasma. Scappò dall’auto correndo e gridando al miracolo, aizzando il crocifisso che teneva al collo come un emblema.
... Beh. Almeno erano salvi.
“Come hai fatto.”
Blaine non era salvo per niente.
Si voltò verso Sebastian, aprendo un occhio per volta. Era pallido. I suoi occhi verdi erano attraversati da un velo di incertezza: paura.
Sapeva bene cosa aveva visto. Sapeva bene di aver visto Blaine compiere un gesto strano, e poi quel palo era sparito improvvisamente. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: Sebastian aveva cominciato a porsi delle domande.
“Sebastian, io-“
“No. Adesso mi dici esattamente come cazzo hai fatto.”
Non era affatto il tono di una richiesta. Ma Blaine non poteva spiegargli esattamente come la sua mente figurasse delle immagini ben precise, che poi lui tramutava nella realtà; la magia era qualcosa di insolito, di irrazionale, e non ci sarebbe stato nessun modo per dirlo a Sebastian, senza traumatizzarlo pericolosamente.
In ogni caso lo avrebbe perso. Una volta giunta la consapevolezza, i suoi occhi cominciarono a pungere.
“Sebastian, ti prego...”
“Stammi lontano.” Aveva provato a prendergli una mano. Ma Sebastian era freddo, come mai in vita sua.
“Non ti voglio più vedere. Mai più.”
Erano parole che ferivano più di qualsiasi maledizione mai creata.
 
 
 
Blaine non aveva più parlato di quella sera. Era tornato a casa, aveva ignorato Rachel e Finn intenti a provare una nuova pozione e si era chiuso in camera, la porta sigillata e un cuscino sopra la sua testa. Non servivano molte parole: avevano capito benissimo. E poi, insomma, era bastato interrogare le carte per scoprire i dettagli sull’accaduto.
Blaine restò in quello stato per i successivi tre giorni.
Non era soltanto la sensazione di essere stati scoperti, che faceva male; era l’aver perso l’unico ragazzo che riusciva ancora a farlo arrossire. L’unico ragazzo che gli era mai interessato davvero.
Di tanto in tanto Rachel veniva a fargli visita. Gli portava i pasti, lo rassicurava dicendogli che, anche se Sebastian lo avesse detto a qualcuno, nessuno gli avrebbe creduto. Il giorno dopo il palo era tornato magicamente al suo posto e al tassista era stata tolta la patente, accusato di guida in stato di ebbrezza.
A parte qualche credente che aveva gridato al miracolo, dopo due giorni nessuno ne parlava già più: la vita andava avanti a Los Angeles. Fatta eccezione per quella di Blaine.
“Blaine, dovrai uscire da qui, prima o poi.”
Finn era seduto sul bordo del letto con un pacchetto di biscotti e l’aria preoccupata. Blaine sembrava uno di quei ragazzi a cui avevano appena spezzato il cuore: inconsolabile, eternamente demoralizzato.
“Non voglio uscire.”
“Ma Sebastian-“
“Sebastian niente. Non voglio uscire, Finn. Lasciami in pace.”
Era un copione che si ripeteva da giorni. Blaine voleva soltanto dormire, guardare il soffitto e maledirsi in tutti gli incantesimi che conosceva per aver rovinato l’unica occasione davvero importante della sua vita. Non avrebbe più rivisto Sebastian. Non sarebbe più stato con nessuno: da quel momento in avanti si sarebbe concentrato sulla magia, e nient’altro.
Dopo un’oretta abbondante sentì il campanello della porta riecheggiare fino a camera sua. Ed era ridicolo che Rachel ricorresse a quei mezzucci per farlo alzare dal letto: era anche casa sua, aveva le chiavi e poteva benissimo aprire.
Ma più passavano i minuti, e più il campanello insisteva in modo quasi estenuante, fino a quando Blaine non fu costretto ad alzarsi per aprire a sua sorella.
Soltanto che non comparve soltanto sua sorella, davanti a lui. Sebastian indossava un impermeabile scuro e degli occhiali da sole che aveva appena tirato su.
“Cos-Cosa-Come...?”
“Mi devi un favore, Blaine. Uno bello grosso. Finn, andiamo via.” Cinguettò la sorella con gli occhi rivolti al suo ragazzo, che in due falcate raggiunse l’entrata per stringere la mano a Sebastian.
“Finalmente ti conosco, Sebastian! Io sono Finn.”
Il ragazzo apparve alquanto confuso: “Come fai a sapere il mio nome?”
“Oh, beh, l’ho sognato! Sono un veggente sai. Sogno cose legate a chi mi sta vicino.”
Blaine si battè una mano sulla fronte. Ecco, adesso Sebastian lo avrebbe fissato, avrebbe detto “Grazie” e sarebbe andato via.
“Ah. Ho capito. Dovrai dormire un sacco, allora.”
Un momento. Cosa aveva appena detto?!
“Eggià! Beh, noi vi lasciamo soli. Blaine, non fargli toccare i calderoni!” Trascinò Rachel fuori dalla porta e la richiuse alle loro spalle. Blaine poteva ancora avvertire lo sguardo inquisitorio della sorella su di lui, ma adesso aveva altro a cui pensare.
Non riusciva a crederci che Sebastian fosse lì. A casa sua. Ad osservare tutti i tomi di magia e le pozioni fumanti, e ancora non era scappato a gambe levate. Cercò di trattenere tutta l’euforia nel suo corpo quando chiese, con voce contenuta, come avesse fatto Rachel a convincerlo.
“Ha usato parole molto efficaci”, Rispose Sebastian. “Ho aperto la porta e c’era un gatto. L’ho riaperta e c’era lei.”
“... Ah.”
“Diciamo che ho preferito non obiettare quando mi ha detto di venire qui a parlarti.”
Rachel che spaventava Sebastian Smythe, alta esattamente la metà di lui. Quella sì che era una cosa da ricordare. Stava quasi per sorridere, prima di ricordarsi che Sebastian fosse ancora lì, spaesato, intento a fissare il ferro da stiro che svolazzava qua e là. Blaine si morse un labbro, arrossendo fino alla punta dei capelli: “Io... ti devo delle spiegazioni.”
“Già. Direi.”
“Quello che è successo l’altra sera... è stata opera mia. La maglietta, l’anti incendio... sono stato io. Ma non volevo, te lo giuro! È solo che... non riesco a contenermi.”
Lo vide esitare per un attimo, inarcando un sopracciglio con il volto rigido dalla tensione: “Sei... pericoloso?”
“No! No, per niente! Cioè, non involontariamente. Non farei niente che potesse ferire gli altri. Soprattutto tu...” Ammise sottovoce, guardandosi i lacci delle scarpe. “Sebastian io-io sono sempre lo stesso Blaine che conosci tu. Quello a cui piace mettere i peperoni sulla pizza, che si lava i denti prima di andare a dormire, che adora commentare insieme a te i canali stupidi su Real Time...” Si schiarì leggermente la voce, divenuta un po’ più tremolante. “Mi dispiace. Non volevo che lo scoprissi così. Non volevo che lo scoprissi e basta. È solo che non andavo a un appuntamento da-“
Si interruppe: meglio non dirgli quanti anni avesse in realtà. Non ancora. Uno shock alla volta.
“-Da tanto tempo”, Riprese. “E- e ci tenevo così tanto che questa serata andasse bene... io ci tengo a te.” Lo guardò con gli occhi grandi pieni di rimorso, lucidi per il dispiacere. “Non pretendo che tu possa capire o... perdonarmi. Averti qui è più di quanto potessi sperare. Ora, se non vuoi più vedermi, ti assicuro che non ti darò più fastidio in nessun modo. Mai più.”
Ci fu una pausa. Blaine non aveva il coraggio di guardare l’espressione di Sebastian, per paura di trovarci paura, rimorso o peggio: disgusto. Forse credeva che fosse un mostro. Non poteva dargli torto. Doveva imparare a convivere con la consapevolezza che non fosse come gli altri, che gli altri lo considerassero strano.
Ma quando avvertì la voce neutra ed esitante di Sebastian, sbattè più volte le palpebre.
“Quindi sei un mago.”
Annuì dopo un secondo, ma Sebastian si affrettò ad aggiungere: “Intendo dire, sei un vero mago. Con tanto di scopa volante e scuola dove vi insegnano a usare la bacchetta.”
“Quel Harry Potter ci ha rovinati.” Scosse la testa, sospirando appena. “No, niente bacchetta. Più che altro funziona con libri di magia e... pozioni. E magari ci fosse una scuola per imparare queste cose.” Si sarebbe risparmiato centinaia e centinaia di sortilegi falliti miseramente, con tanto di prese in giro di Rachel.
“E per quanto riguarda il volo, beh, sì, potremmo incantare una scopa, ma non lo facciamo più da secoli ormai: ci sono mezzi più comodi per viaggiare.”
“Tipo?”
“Gli aerei.”
Sebastian lo fissò come se gli avesse dato la risposta più assurda possibile.
“E poi, hai idea di quanto faccia freddo sopra le nuvole?”
“No no aspetta un attimo.”
Blaine non resistette all’impulso di osservarlo con la coda dell’occhio: sembrava palesemente sconcertato, l’aspetto scomposto come mai visto prima di allora, i capelli arruffati, forse ci aveva passato le mani più e più volte. Avrebbe tanto voluto rassicurarlo in qualsiasi modo, ma non aveva il coraggio di dire nè fare niente; si sentiva come sull’orlo di un precipizio, nel quale un passo falso avrebbe decretato la sua fine.
“Mi stai dicendo che la magia, gli incantesimi, tutte queste robe qui... sono reali?
“Sono sempre esistiti”, sussurrò Blaine, timido. “I poteri magici sono ereditari e... e non devi pensare che siano pericolosi, nocivi o quant’altro. Siamo delle persone che... possono fare delle cose.”
“È un modo piuttosto poetico per descrivere un palo che scompare.”
“Ma ci ho salvato la vita!” Ribattè finalmente lui, con il coraggio di alzare lo sguardo. “Sebastian, tutto quello che ho fatto, che facciamo-“ Indicò le cose intorno a lui, “Lo facciamo con il solo scopo di aiutare gli altri. Io ho sbagliato. Ho usato i poteri perchè volevo piacerti a tutti i costi, ma non mi pento di quello che ho fatto, non mi pento di-“
“Scusa un momento: tu hai fatto tutte quelle cose... per me?”
Era incredulo.
“Ma come fai a non capire?” Sbottò, le labbra contratte in una smorfia: “Come fai a non vedere quanto sei importante per me?”
Sebastian forse non si aspettava una dichiarazione simile; restò in silenzio, come imbarazzato per quelle parole, e Blaine pensò, per un momento, di aver parlato fin troppo. Quello che provava lui non aveva importanza, adesso. Scosse la testa come esausto, trattenendo le lacrime e la voce spezzata.
“Non sei venuto qui per sentire una dichiarazione. Perdonami. Chiaramente volevi solo una spiegazione su quello che fossi e... mi dispiace di non avertelo detto prima. Non volevo mentirti, pensavo che potessimo continuare così, ognuno con i suoi segreti...”
“I miei segreti sono un po’ più stupidi dei tuoi”, Esordì allora Sebastian, mentre respirava a pieni polmoni come se fosse in mancanza d’aria. Quando Blaine lo interrogò, con i suoi occhi grandi, si strinse nelle spalle: “Il mio segreto in realtà era che mi sto innamorando di te. Ma vabè.”
“Co-COSA?!”
Oddio. Oddio. Il suo cuore stava seriamente per implodere.
“Certo Blaine. Perchè diavolo sarei qui, altrimenti?!”
“Per... per denunciarmi?”
“Non riesco a crederci.” Sbuffò allora lui. “Tu-tu sei un mago, Cristo, e lo avevo ipotizzato in questi giorni, eppure nonostante questo non faccio altro che pensare a te. Ai tuoi occhi, alle tue labbra e anche se quella sera è stata la sera più fottutamente assurda della mia vita, io ne voglio ancora. Ancora, e ancora. E Dio, forse sono masochista.”
“Sei innamorato di me.” Blaine scandì ogni singola sillaba, per poi ripeterlo un’altra volta. “Sei innamorato di me!”
“Sì, va bene?! E tu hai fatto saltare in aria un Bancomat!”
“Sei innamorato di me Sebastian!”
“L-La smetti di ripeterlo a macchinetta?! Mi fai sentire uno scemo!”
“No, non capisci! Vuol dire che se sei qui hai accettato quello che sono, vuol dire che mi stai dando la possibilità di dimostrarti che sono sempre io, il tuo Blaine!”
Sebastian scosse la testa più e più volte, frenando il rantolare di Blaine cercando di prenderlo per le braccia per chiarificare: “Smettila. Non sono venuto qui per questo. Sono venuto qui perchè tua sorella è un cazzo di gatto, Blaine, avevo paura mi trasformasse in una scimmia o che cazzo ne so, qualcosa di simile.”
Si guardarono per una manciata di secondi. Dopodichè scoppiarono entrambi a ridere. Così, senza motivo. Forse perchè il peggio ormai era passato. Forse perchè Blaine sapeva di avere ancora una possibilità con Sebastian, e questo gli bastava per sconfiggere qualsiasi altra esitazione.
Fu per questo motivo che si levò sulle punte e cominciò a baciarlo piano, senza troppa intrusione. Aspettò con pazienza che Sebastian si abituasse a lui, si rendesse conto che erano sempre le stesse labbra che baciava da ormai tre mesi; attese il suo permesso per andare oltre, e alla fine arrivò, nel momento in cui lo sentì dischiudere le labbra, passare delicatamente le labbra sulle sue e stringerlo più comodamente tra le sue braccia, facendo schioccare le loro lingue.
“Grazie per avermi dato una seconda possibilità”, Sussurrò Blaine e, per la prima volta, si sentì stregato. Sebastian riprese a baciarlo con più passione, per poi staccarsi e dire: “Sai, sono un mago anche io.”
“Ah sì?” Sorrise sulle sue labbra, avvicinandosi un altro po’ di più, mentre le mani di lui scendevano lungo i fianchi e cominciava a baciargli il collo.
“Sì. Ho un’interessantissima bacchetta magica proprio dentro questi pantaloni. Vuoi vederla?”






 

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Capitolo 6
*** North and South (I) ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events.

 

AVVERTENZE
Questa ff è una AU del romanzo "North and South" di Elizabeth Gaskell. TUTTAVIA, visto che avevo raggiunto le 8000 parole ed ero a metà romanzo, ho deciso di dividerla in due parti. Ergo, la prossima parte la finirò in settimana (o direttamente domenica prossima). Non so se considerarla fuori concorso per questo, decideranno i giudici. Ad ogni modo, l'ho ambientata negli anni sessanta, mentre il libro è chiaramente di stampo ottocentesco (e si noterà molto). Chiedo scusa se ho scritto strafalcioni o se l'ambientazione non è convincente. Enjoy :D





1959.
 
Blaine Anderson era di Brunswick.
Non era certo la città più bella della Florida e nemmeno la più prosperosa; rispetto alle altre città di quello stato, quella aveva qualcosa di accogliente, di gentile. Risiedeva nei modi di fare delle persone che non erano abbastanza ricche da ostentare il loro portafoglio agli altri, ma nemmeno troppo povere da ignorare la loro condizione sociale. La città era piuttosto piccola e poco visitata, dal momento che poco distante c’erano mete molto più interessanti; era sempre soleggiata, con l’aria di salsedine che ti entrava nei polmoni, delle panchine accostate lungo le strade e un negozio di dolciumi all’angolo della piazza, proprio vicino a un delizioso cafè aperto fino a tarda sera. C’era un piccolo faro, sulla costa, presieduto da un guardiano di quasi ottant’anni che continuava a mandare a quel paese ogni cittadino tentasse di dargli una mano. Tuttavia, quando la sua povera schiena gli impediva di fare tutte le scale che portavano fino alla torre di controllo, trovava sempre qualcuno disposto a scortarlo, e senza nemmeno bisogno di chiedere.
Erano fatti così, i cittadini di Brunswick: incredibilmente orgogliosi e testardi, ma con un ottimismo e una fiducia nel prossimo insoliti, visti i tempi.
La crisi economica non si era abbattuta su quei luoghi, troppo ricchi di piantagioni, di spensieratezza e di pesce fresco; le notizie a loro giungevano tramite giornali o televisioni, le ascoltavano con pazienza, ma come cronaca di un paese a cui non sentivano di appartenere.
Isolati sul ciglio della Florida, con prati verdi e fioriti, famiglie che sorridevano e negozi sempre aperti ; lontani dalle intemperie del Paese, dallo sfarzo tipico della Costa Californiana, da ville di lusso e camerieri in completi eleganti, quella città era come un pezzo di Paradiso. E Blaine, semplicemente, ne era innamorato.
Aveva perso il conto delle volte passate a guardare l’orizzonte su una spiaggia bianca e pulitissima, con il suono delle onde a calmare i suoi pensieri, i gabbiani che volavano tranquilli, le barche da peschereccio lontane. Era nato lì, era cresciuto lì e aveva tutta la sua vita lì: i suoi amici che lo avevano accettato per quello che era, senza ombra di esitazione; sua madre e suo padre, che lo avevano sempre amato e appoggiato. Un lavoro sicuro, nonostante non avesse fatto nessun college, troppo innamorato delle arti, della musica, dello spettacolo. Tutti gli volevano bene lì, ed erano stati sempre disposti a dargli una mano.
Blaine sviò lo sguardo dal tramonto. Il biglietto del treno era ancora dentro la sua tasca, che gli appesantiva l’anima. Decise di avviarsi verso casa, una dimora semplice, ma dalla vista sensazionale, incastonata lì dove finiva l’asfalto e cominciava la sabbia. Nel tragitto c’era la gigantesca serra curata da sua madre: sapeva quanto adorasse i fiori, per lei erano importanti quasi quanto i suoi due figli. Entrare lì dentro era come entrare in un’altra dimensione.
Blaine dovette vagare un po’ per trovare quello che stava cercando; non conosceva bene i fiori come lei, e la serra era davvero troppo grande per sperare di riconoscerli subito. Verso metà strada, nascosto tra una siepe di gerani e delle camelie piantate su un terreno umido e fresco, c’era un vaso. Era piccolo, quasi invisibile per chi non avesse prestato attenzione. I fiori guardavano verso l’alto, con i petali grandi e luminosi.
Blaine ne colse uno con la massima delicatezza: era un ibisco giallo. Il fiore preferito di sua madre. Blaine, infatti, significava giallo. Era un nome che ispirava calore, dolcezza, felicità. Rispecchiava perfettamente quella città che lui amava così tanto e che, adesso, era costretto a lasciare.
 
 
Un fischio netto e assordante evidenziò con determinazione l’arrivo dei passeggeri a Norfolk. Lo stridìo dei freni che striscivano contro le rotaie bastò a coprire i pianti sommessi della signora Anderson, mentre tentava di coprire con un fazzoletto il volto stanco e visibilmente provato. Singhiozzava da ore, ormai, rendendo quel viaggio ancora più lungo e stancante di quanto non fosse stato. Blaine era stato in silenzio, così come suo padre: sapevano benissimo che nessuna parola sarebbe stata di conforto. Dopotutto, per una donna che aveva costruito la sua vita in una certa città, trasferirsi dalla parte opposta dell’America di punto in bianco era a dir poco disarmante.
Richard Anderson accompagnò sua moglie fuori dal convoglio, prendendole le valigie e assicurandosi, per quanto potesse, che avesse tutte le comodità possibili; ma la donna si rifiutava di parlargli, si rifiutava perfino di guardare i suoi occhi chiari e pieni di preoccupazione che l’avevano fatta innamorare esattamente trentotto anni prima. Si erano sposati relativamente giovani, sebbene non fosse una novità di quei tempi, ma avevan avuto il secondo figlio soltanto dodici anni dopo il matrimonio. Mentre Blaine era nel fiore della gioventù, con i suoi ventisei anni ben portati, loro erano sulla soglia dei sessanta, e avvertivano in modo molto più insistente la stanchezza del viaggio.
Fu per questo motivo che Blaine si offrì al posto del padre per cercare una casa. Norfolk non doveva essere una città molto grande e, inoltre, suo padre gli aveva assicurato che aveva già chiesto aiuto ad alcuni noti imprenditori della città.
“Sei sicuro di voler andare da solo?” Gli chiese Richard. Aveva la barba perfettamente curata, i capelli sporcati dal fumo che propagava nella stazione, gli occhiali grandi e sottili che fissavano il proprio figlio con amorevole apprensione. Erano molto simili, più simili di quanto Blaine e sua madre Susan erano mai stati.
“Papà, devo soltanto cercare una casa”, lo tranquillizzò, “Voi andate in albergo. Vi raggiungo appena posso.”
Susan non era molto convinta di quell’idea: avrebbe fatto volentieri a meno di passare delle innumerevoli ore con la sola compagnia di suo marito, ma era una donna debole, cagionevole di salute. Aveva bisogno di riposo e di piangere un altro po’, magari guardando dalla finestra quel paesaggio tetro e deprimente.
Blaine salutò entrambi i genitori con un abbraccio, e poi si armò di mappa della città e pazienza, fornito di tutte le indicazioni su eventuali case disponibili, che il padre aveva trovato grazie alle sue ricerche.
Per la prima volta, da quasi due giorni, era finalmente solo e libero di eliminare quel sorriso di circostanza fatto soltanto in onore dei suoi genitori. Adesso Blaine era serio, pensieroso, si aggirava per quella città grigia con l’espressione di un uomo che si sentiva completamente fuori luogo. Mentre lui indossava una camicia chiara, dei pantaloni marroni, i riccioli morbidi e scompigliati sulla fronte, le persone intorno a lui avevano tenute da operaio blu scuro o grigio topo; le donne, indossavano tutte delle gonne lunghe che arrivavano fino alle caviglie, con le maniche delle loro camicie macchiate erano arrotolate fino ai gomiti. Faceva incredibilmente freddo, ma nessuno sembrava accorgersene tranne lui: sembravano andare tutti di corsa, a Norfolk. Blaine non riusciva a capire il vero motivo di così tanta fretta; l’unica cosa che vedeva erano le fredde mattonelle di pietra, le case grigie che sembravano arrampicarsi l’una sull’altra, il cielo coperto di nuvole, dalle quali non passava nemmeno un filo di luce. Tutto sapeva di tetro, di buio, di freddo e di lavoro. Non aveva niente a che fare con la città in cui era cresciuto.
Aveva camminato per quasi mezz’ora quando, con sua grande sorpresa, scorse il mare. Era arrivato a una serie di scogli molto alti e minacciosi, con un vento freddo e pungente che giungeva fin dentro alle ossa. Lo sguardo di Blaine, per un momento, si illuminò, perchè lui adorava il mare e non avrebbe mai pensato di trovarlo lì, come se fosse un ritaglio di bellezza in mezzo a tutta quella tristezza. Ma non era il mare a cui era abituato: questo era incredibilmente spento, con delle onde che si infrangevano sugli scogli di prepotenza, sembravano perfino stanche di dover fare quel lavoro tutti i giorni: nascere, raggiungere la riva e lì morire, schiantandosi con crudeltà. Non c’erano pescherecci a costeggiare la terra, soltanto delle grandi e nere petroliere e, di lontananza, delle navi merci, che facevano manovra per entrare al porto.
Il faro era piccolo, del tutto privo di romanticismo o libertà. Era incastrato tra delle rocce appuntite e sembrava illuminare il luogo soltanto perchè qualcuno, molti anni fa, gli aveva detto di farlo.
Blaine tornò a incamminarsi verso il centro città, rendendosi conto, per la prima volta, di essere arrivato a Norfolk.
 
 
 
“Il soggiorno è molto spazioso.”
Blaine non fece in tempo a mettere un piede dentro quella casa,  di cui aveva trovato la porta aperta. Evidentemente, c’era già qualcuno interessato all’affitto. Non riuscì a vedere chi stesse parlando, erano due uomini, sicuramente, ma si trovavano al piano di sopra e lui, silenziosamente, cominciò a fare le scale a chiocciola.
“Oh no, la casa non è per me”, Disse il secondo uomo. “La sto cercando per conto di un collega d’affari del mio capo.”
Forse si riferiva a suo padre? Sapeva che era in contatto con un certo imprenditore, ma non aveva idea che fosse diventato addirittura suo socio. Tuttavia, poteva essere una possibile spiegazione del loro trasferimento, ma la verità era un’altra: suo padre aveva abbandonato la veste di parroco per una crisi di coscienza. Non riusciva più a credere in un Dio che puniva suo figlio, semplicemente perchè voleva amare un altro uomo. E, visto che un parroco scomunicato era di gran lunga più scandaloso di un figlio gay, avevano scelto di iniziare una nuova vita lì, dove il loro amico di famiglia gli aveva assicurato una vita serena e di ottimi affari. Non avevano capito che la serenità intesa da quell’uomo fosse quella del portafogli, e non dello spirito.
“E che tipo è questo signor Anderson?”
“Un sempliciotto.”
Ci fu un secondo di silenzio dopo quella domanda: probabilmente, i due uomini stavano ridacchiando.
“Da quanto ho capito, è un parroco. O meglio, ex-parroco. Niente di eccezionale. Non ha una grande fortuna.”
“Si sa”, lo sentì sbottare, “Gli uomini di fede e il denaro non vanno mai d’accordo.”
“La fede non ha mai portato la busta paga a casa”, esclamò l’altro, “Da dove viene?”
“Da Brumswick.”
“Brumswick? E che diavolo ci fa uno del Sud qui?”
“Forse non è stato un trasferimento di piacere. Forse doveva trasferirsi per un motivo preciso?”
Blaine strinse le mani a pugno. Era arrivato ormai in cima alle scale, riusciva a scorgere le schiene di quei due uomini pettegoli e irritanti.
“Beh, certamente imparerà che qui al Nord le cose funzionano diversamente.”
“Lo sappiamo bene.” Interruppe quella conversazione a dir poco ridicola con tono fermo e ben deciso. Gli uomini, però, si scomposero soltanto quando scoprirono che fosse proprio quel Blaine Anderson, il figlio di Richard Anderson di cui stavano parlando. Blaine non si degnò del loro sguardo imbarazzato. Con un tono sempre pacato ma, allo stesso tempo, orgoglioso, chiese chi fossero loro.
“Lavoriamo per Smythe”, disse il primo dei due. “Suo padre gli ha chiesto aiuto per trovare casa.”
“Bene.” Si guardò un po’ intorno; la casa non era male. Sicuramente era la migliore vista fino ad allora. “Quanto è l’affitto?”
“Se mi permette, credo che di questi discorsi ne parleranno il signor Smythe con suo padr-“
“Mio padre ha incaricato me per trovare casa”, puntualizzò con una punta di veemenza, “E non ho la più pallida idea di chi sia questo Smythe, quindi, sto chiedendo a lei quanto è l’affitto mensile per questa casa.”
“È interessato ad affittarla, quindi?” Tentò di chiedere l’altro, forse per sviare la conversazione e portarla su toni più cordiali. Ma Blaine non aveva voglia di parlare di quanto fosse luminoso il salotto o sulla condizione delle tubature dei bagni. Quei signori si erano permessi di spettegolare sulla sua famiglia, e se non fosse stata una casa davvero accogliente, probabilmente li avrebbe già mandati a quel paese.
“Sì. Mi piace molto.”
“Smythe pensa che questa casa potrebbe andare bene.”
Smythe. Smythe Smythe Smythe Smythe. Non sapevano dire altro? Non avevano un pensiero proprio? Contava soltanto il parere di questo fantomatico Smythe?
“Dov’è questo Smythe?”
Ci fu un brivido di silenzio.
“Come scusi?”
“Portatemi da lui.” S’incamminò a passo svelto lungo le scale. “Se non volete trattare con me, sarò io a trattare con lui.”
 
 
Scoprì che Sebastian Smythe era a capo di una grandissima centrale tessile, una delle tre più importanti di Norfolk.
Non le aveva mai viste dal vivo, forse perchè in Florida non esistevano, ma ne aveva sentito molto parlare. Non in toni buoni. In realtà, gli avevano detto che le fabbriche erano una scusa per ammalare le persone, e adesso cominciava a capire perchè in quella città si respirasse un’aria così pesante, e il mare fosse così inquinato. Tuttavia, trovarsi di fronte a un edificio del genere, così grande e imponente, lo fece sentire improvvisamente molto più piccolo e più timido di quanto non fosse. Aveva fatto lo strafottente di fronte a quei due, mosso più dall’orgoglio che da altro, ma tutto ad un tratto cominciò a chiedersi chi fosse davvero questo Sebastian Smythe di cui parlavano: quanti anni aveva? Come faceva a comandare una fabbrica così grande?
Venne introdotto nel suo ufficio con calma e ostentata cordialità, suggerendogli di aspettare lì l’imprenditore fino al suo arrivo.
Era un ufficio davvero semplice. L’unica nota di rilievo erano le pile e pile di archivi sistemate sugli scaffali della libreria, che circondava interamente tre pareti della stanza. La scrivania, sebbene ordinata e pulita, era sovrastata da una colonna di fogli di bilanci e altri numeri che lui non riusciva in nessun modo a capire.
Non doveva essere un lavoro semplice.
Si sedette sulla sedia davanti alla scrivania e attese che quel signore si facesse avanti.
Aspettò venti minuti; poi mezz’ora. Superati i quaranta minuti, gli sembrò tutta una grande presa in giro e uscì dall’ufficio a dir poco arrabbiato. Se c’era una cosa che non sopportava, era proprio la maleducazione di quelle persone che si approfittavano della sua buontà; lo diceva sempre sua madre, che era troppo buono e ingenuo. E doveva abituarsi all’idea che non si trovasse più a Brumswick.
La fabbrica era piena di operai alle prese con lavori di estrema precisione; era la parte più sostanziosa della fabbrica, ma Blaine cominciava a credere di trovarsi in una vera e propria città in miniatura. I batuffoli di tessuto volavano nell’aria come fiocchi di neve, così tanti che non si riusciva a vedere oltre i due metri. Nessuno badava a lui: erano troppo presi dal lavoro o, comunque, non interessati alla sua presenza lì. Il loro scopo era portare a casa lo stipendio, glielo si poteva leggere negli occhi stanchi e affossati, nelle labbra contratte in una smorfia, nei visi pallidi e smagriti. C’era solo un ragazzo che stava facendo una pausa, forse per staccare cinque minuti dal suo turno: teneva una sigaretta in mano e cercava insistentemente i fiammiferi dentro le sue tasche.
Blaine vide con i propri occhi i veri effetti della crisi economica americana. Ed era raccapricciante.
E lì, tra le donne che lavoravano come schiavi, gli uomini che indossavano i giornali sotto alle divise sgualcite per ripararsi dal freddo, sopra a una piattaforma collegata con delle scalette, c’era Sebastian Smythe.
Non c’erano dubbi che fosse lui. Nonostante l’aspetto di un ragazzo – doveva avere grosso modo la sua stessa età -, i suoi occhi verdi che controllavano ogni singolo movimento nella fabbrica erano più che sufficienti a capire il suo ruolo di autorità. C’era qualcosa di affascinante in lui. Forse, nei capelli castani pettinati all’indietro, o nel soprabito marrone che metteva in risalto le gambe lunghe e le spalle forti. Blaine non si rese conto di quanto lo stesse effettivamente fissando, fino a quando non vide il suo volto pallido mutare d’espressione nel ringhiare brutalmente contro un ragazzino che stava per accendersi la sigaretta.
Stephens, il suo nome, rimbombò per tutta la fabbrica.
E in un attimo Sebastian stava correndo dietro di Stephen, mentre lui cercava di fuggire alla sua presa. Ma non era abbastanza veloce, oppure, non aveva le gambe abbastanza lunghe. Fu raggiunto dopo nemmeno un minuto e scaraventato a terra con forza; tentò di coprirsi il viso, ma Sebastian riuscì comunque a dargli un pugno tale da spaccargli un labbro, mentre gli urlava quanto fosse idiota, imbecille, che doveva guardarlo negli occhi.
Blaine li aveva seguiti quasi per istinto. Non riuscì a tollerare un secondo di più.
“Smettila! Smettila subito!”
Lo afferrò per le spalle, noncurante di quanto fosse alto, e lo allontanò dal povero operaio trattenendo il respiro per la tensione. Sebastian si voltò verso di lui, i capelli non più ordinati, il fiato scomposto, gli occhi carichi di rabbia.
“Chi diavolo sei”, sibilò trai denti squadrandolo da capo a piedi. Ma Blaine non vacillò, non smise di guardarlo, non abbassò la testa come avrebbero fatto tutti.
“Mi chiamo Blaine Anders-“
“Sparisci.”
Sebastian si voltò di nuovo verso il ragazzo, non degnandolo di un ulteriore sguardo. “Stephens hai infranto le regole per l’ultima volta. Non ti azzardare a tornare mai più.”
“N-no, la prego signore, i miei figli hanno bisogno di mangiare!” Piagnucolò l’uomo sanguinante in volto, mentre si divincolava per mettersi sulle sue gambe.
“Meglio morire di fame che morire bruciati. Vai via. Ora!” Lo strattonò per un braccio, lanciandolo contro un ammasso di filai e facendolo cadere nuovamente come un peso morto. Gattonò fino all’uscita per poi scappare con le mani che si coprivano il volto. Blaine era pallido.
“E tu sei ancora qui.” Sebastian aveva il volto paonazzo dalla rabbia, le vene del collo che pulsavano freneticamente. L’uomo che aveva accompagnato Blaine fino alla fabbrica giunse in quel momento, dopo aver sentito tutto quel trambusto. Blaine avrebbe voluto dire a quello Smythe così tante cose, ma si trovava senza fiato. Lo sentì urlare di nuovo, voleva che andasse via. L’affittuario gli sussurrò di seguirlo, chiedendogli per favore, e lui si lasciò trascinare via da quella fabbrica senza opporre la minima resistenza.
Quello Smythe era un violento, un despota, una persona orrenda. Non aveva mai avuto un’impressione così negativa su qualcuno in tutta la sua vita.
 
Voleva soltanto tornare a casa, farsi una doccia calda e lasciarsi alle spalle quella giornata terribile, assieme a tutta quella città. Blaine camminava per le strade sporche di Norfolk con lo sguardo spento, quasi trascinando il suo corpo. Aveva voglia di piangere.
Ma poi, con sua grande sfortuna si accorse di essere arrivato nel quartiere sbagliato, quello dei sobborghi, della gente più povera, e lui era soltanto un ragazzino dall’aspetto benestante e un portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni.
Gli fu bloccata l’uscita da due uomini con la barba folta, l’aspetto inquietante. Volevano i suoi soldi; era un’elemosina, dicevano loro, ma Blaine temeva che quelle monete le avrebbero ottenute sia con le buone che con le cattive.
“Lasciatelo stare”, sentì dire da un ragazzo dietro di lui, che attirò immediatamente la loro attenzione. “Non prendetevela con i nuovi arrivati soltanto perchè non sanno conoscervi.”
Non avrebbe mai creduto che quei due uomini avrebbero abbassato la cresta così docilmente. Invece sì. Chiesero scusa al povero Blaine, e lo lasciarono alle prese di una nuova conoscenza, un ragazzo alto, dal fisico ben formato e un cappellino da operaio che gli copriva i capelli biondi: Sam Evans.
Sam era il figlio maggiore di otto fratelli. Suo padre era morto in un incidente di lavoro, e sua madre era troppo malata per lavorare. Così, visto che i suoi fratelli erano troppo piccoli, e non voleva che ingerissero la lanetta delle industrie tessili, Sam faceva doppio lavoro sia da Sherman che da Paynes, pur di trovare qualcosa con cui campare. Aveva qualche anno in più di Blaine, eppure, sembrava molto più vecchio. Le sue mani erano rovinate dai filatoi, i suoi capelli sarebbero stati belli, se solo avesse avuto modo di curarli. Doveva essere stato un ragazzo molto bello, pensò Blaine, ma adesso quella bellezza restava soltanto un ricordo. I suoi fratellini stavano giocando con una bambola di stracci, troppo presi dal loro nuovo giocattolo per badare a loro.
“Non sono cattivi qui.” Spiegò Sam, dopo aver preparato due tazze di caffè a casa sua. “Sono soltanto affamati. Molti di loro hanno dei figli che muoiono di fame.”
“È per via della crisi?” Blaine sorseggiò il liquido amaro con estrema calma: era come un toccasana, visto il freddo e le intemperie visssute in giornata. Sam si strinse nelle spalle, non sapendo bene come rispondere: “Dicono che la crisi è nell’Europa e noi ne stiamo subendo le conseguenze. Quello che so io, è che vengono licenziati dieci lavoratori al giorno e ci abbassano lo stipendio di dieci centesimi all’ora. Se ne approfittano, Blaine, è questa la verità. Abbiamo bisogno di più soldi e loro vogliono spendere sempre meno soldi. Sono tutti uguali, gli imprenditori. Avidi e senza cuore.”
Non fece fatica a credergli.
“Ma... senza di voi, le fabbriche non potrebbero funzionare, giusto?” Blaine sviò lo sguardo verso una foto appesa alla parete sbiadita, raffigurante tutta la famiglia. Le immagini di quel povero ragazzo picchiato a sangue erano ancora vivide nella sua mente.
“La penso come te”, mormorò Sam, anche lui sovrappensiero. Blaine decise di cambiare argomento, approfittando per chiedergli una cosa.
“Grazie ancora per prima, con quei due signori, intendo dire. Mi avevano spaventato.”
“Non avevo dubbi, hai proprio l’aria di essere un sempliciotto. Ma tu la prossima volta dagli uno spintone e vedrai che non romperanno.” Suggerì Sam.
“Come facevi a sapere che sono nuovo di qui?”
Sam, senza nessuna malizia, cominciò a ridere così tanto da doversi appoggiare con i palmi sul tavolo in legno. Blaine arrossì di fronte a quel gesto, forse aveva detto qualcosa di terribilmente stupido senza rendersene conto: “Sembro... sembro così tanto un forestiero?”
“Sinceramente? Con i tuoi pantaloni in cotone e la tua pelle abbronzata? Sei del sud, e si vede. È per questo che nessuno ti prende sul serio.”
“Come sarebbe a dire?”
Sam trattenne un sospiro, appoggiandosi sulla sedia: “Voi del sud lavorate su piantagioni e pescherecci all’aria aperta. Non sapete cos’è il vero sacrificio, non sapete cosa vuol dire lavorare diciassette ore al giorno chiusi dentro a una fabbrica. Siete abituati al sole, ai fiori e alla bella vita. Noi invece speriamo soltanto di avere abbastanza giornali per coprirci la pancia d’inverno.”
“Beh forse non sapremmo lavorare a stipendi ridotti e in condizioni igieniche pessime”, Ribattè Blaine, stizzito, “Ma almeno sappiamo cosa vuol dire l’educazione.”
Sam lo guardò incredulo per diversi secondi, ma alla fine sorrise.
“Non vi facevo così orgogliosi, voi del Sud.”
“E io non vi facevo così schietti.” Gli porse la mano estendendosi per tutto il tavolo, pur di afferrare la sua. Nel momento in cui Blaine la strinse capì, dentro di sè, di aver trovato il suo primo amico lì a Norfolk.
 
 
Con il passare dei giorni la situazione migliorò leggermente. Avevano conlcuso con successo il contratto d’affitto – sancito da un dipendente di Smythe e il signor Anderson, in un pomeriggio – e ormai la famiglia aveva cominciato a formare la propria vita lì, un passo alla volta.
Richard Anderson insegnava filosofia in una scuola serale. Ma nessuno, in quella città, era innamorato della retorica e della teoretica, e non avevano tempo da perdere in discorsi che gli sembravano semplicemente parole buttate al vento. Ascoltavano, quando volevano, forse soltanto per rilassarsi un’ora dopo il lavoro o per scappare dai pianti della propria famiglia; perlopiù, dormivano. La vera soddisfazione di Richard erano, in realtà, le lezioni private. La città di Norfolk era divisa in due caste, quella dei lavoratori e quella della gente che ormai non aveva più bisogno di lavorare. Questi ultimi, in particolar modo, tenevano molto all’educazione dei figli, così mandavano i ragazzini viziati e spocchiosi dal signor Anderson perchè leggessero Ovidio, Platone o qualche letteratura classica.
Blaine aiutava la madre con le faccende di casa, rendendosi utile il più possibile; in realtà, cercava soltanto di evitare quel malessere che stava colpendo sua madre sempre più pesantemente.
Ogni tanto vedeva uscire dall’ufficio di suo padre qualche ragazzino con una serie di libri sottobraccio.
Non si sarebbe mai aspettato di vedere Smythe.
 
Mentre stava portando un carico pieno di libri in camera sua, Sebastian aprì la porta di scatto, e si trovarono uno di fronte all’altro.
“Blaine Anderson.” Commentò il primo, inarcando un sopracciglio. “Pensavo che non fossi a casa.”
“Invece ci sono.” Ribattè. Si guardarono in silenzio fino all’arrivo di suo padre.
“Blaine, conosci il mio nuovo allievo, Sebastian Smythe? Ha una mente brillante.”
“Ci siamo già conosciuti, a dire il vero, ed era una giornata no per me.” Sebastian non riusciva a smettere di guardare gli occhi grandi di Blaine, o le sue labbra carnose. “Stavo licenziando un mio operaio.”
“Oh, mi dispiace. Beh, sono cose che capitano, suppongo!” Esclamò il padre, cercando di rallegrare quell’atmosfera che era diventata improvvisamente glaciale. Blaine teneva lo sguardo a terra, non aveva voglia di guardare quel ragazzo.
“Un ragazzo che fuma nella mia fabbrica? No signor Anderson, non dovrebbe capitare. Per questo gli ho impartito una lezione.”
“Non gli hai impartito una lezione”. Era davvero troppo. Blaine alzò la testa di scatto, assottigliando lo sguardo: “Piuttosto, direi che lo hai picchiato a sangue soltanto perchè si stava fumando una sigaretta.”
Soltanto?”
Sembrava avesse appena detto una bestemmia, ma Blaine non arretrò. “È inutile che cerchi di giustificarti.”
“Non voglio, infatti. È vero, ho un pessimo carattere ed ero furioso, ma se tu avessi visto parte della tua fabbrica andare in fiamme per colpa di un fuoco accidentale, con tre morti e otto bambini ritrovati improvvisamente orfani, forse ci penseresti tue volte prima di dire soltanto.”
Richard guardava prima l’uno e poi l’altro con il sudore freddo che gli scorreva lungo la schiena. Blaine continuava a guardarlo come se volesse ucciderlo mentre Sebastian, piuttosto, sembrava come perso nei suoi pensieri, intento ad osservare il suo volto.
“... Sebastian, hai visto che bel tempo oggi? Sembra quasi che sia spuntato il sole!”
“Devo andare. La ringrazio per la lezione signor Anderson. Le va di venire a cena da noi, questo sabato?”
“Oh, beh, volentieri.”
“Bene.” Sebastian afferrò il cappotto e l’ombrello, lanciando un’occhiata a Blaine. “È invitata anche tutta la sua famiglia, ovviamente.”
“Temo che avrò da fare”, commentò Blaine per poi dargli le spalle e salire in camera, appena in tempo per sentire il mormorìo divertito di Sebastian che diceva “Ci avrei scommesso.”
 
 
Sebastian andava a lezione da Richard almeno tre volte a settimana.
Blaine era sempre molto attento a evitare di trovarsi in casa durante quelle ore; di solito usciva, andava a fare delle commesse per la madre, oppure faceva un salto da Sam, per parlare un po’ con lui e giocare con i suoi fratelli e sorelle.
Cercava sempre di tornare a casa il più tardi possibile; eppure, più tardi faceva, e più trovava Sebastian ancora seduto con suo padre, mentre discutevano animatamente di chissà quale letterato della storia antica.
Richard aveva una grande stima del suo allievo. Diceva che era un ragazzo molto intelligente, che non aveva potuto studiare per via di problemi familiari. Bene, forse aveva un fiuto per gli affari, ma non faceva di lui un ragazzo educato e intelligente, pensò Blaine.
E, soprattutto, non gli interessavano minimamente i gossip sulla sua presunta omosessualità.
 
Una volta, Sebastian si fermò a cena da loro. Con suo grande disappunto.
“Complimenti per la casa, signora Anderson”. Stavano assaggiando il pollo con patate quando Sebastian fece quel piccolo, ma gradito, complimento.
“Oh, beh, grazie Sebastian, ma non è poi tutto questo granchè. Ho fatto del mio meglio. Non rispecchia molto l’arredamento di qui, vero?” La donna arrossì esattamente come una ragazzina di sedici anni. Peccato che Sebastian non la vide, troppo preso com’era a guardare Blaine mentre masticava lentamente il suo boccone.
“No, ma se posso dirlo, forse è meglio così.” Sebastian distolse un attimo lo sguardo per sorridere alla donna.
“Ma tu adori Norfolk, non è vero? Qui siete molto... attivi.” Per non dire peggio, pensò Blaine.
“Certo.” Sebastian non ebbe nessuna esitazione nel dirlo. “Lavoriamo molto, ma io non lo vedo come un segno negativo. Preferisco darmi da fare qui, che fallisca o meno, piuttosto che avere una lunga vita nel sud, noiosa e senza preoccupazioni.”
“Non è affatto così.” Blaine parlò per la prima volta, posando di scatto la forchetta. “Non sai niente del sud. Forse siamo meno arrivisti di voi, questo è vero, ma almeno non c’è tutta la sofferenza. E tutto questo per cosa?”
“È un’industria tessile”, parlò a denti stretti.
“Un mercato a cui nessuno importa più da anni.”
Richard tentò di richiamare Blaine all’attenzione, ma i due ragazzi ormai erano presi in una sorta di conversazione privata, che non ammetteva nessun tipo di intruso.
“Se posso dirlo, Blaine”, pronunciò il suo nome lentamente, con un ghigno irritante quanto spontaneo, “Nemmeno tu sai niente del nord. O di me. Non siamo tutti quanti uguali, qualsiasi sia il tuo pregiudizio verso gli industriali.”
“Non è un pregiudizio, è un dato di fatto. Ti ho visto trattare i tuoi dipendenti come schiavi solo perchè sono sotto di voi.”
“No. Mi hai visto licenziare un uomo che stava per mettere a repentaglio la vita di tutti gli altri.”
“Non sono tutti quanti ricchi fortunati come te, Sebastian. Imparalo.”
Forse Blaine aveva toccato un tasto dolente. Lo capì nel momento in cui il sorriso sul volto di Sebastian sparì del tutto, assieme a quell’aria divertita di chi è seriamente interessato a continuare quel dibattito. Adesso non aveva più voglia di parlare, o di discutere con Blaine, di qualsiasi argomento fosse. Liquidò la faccenda in una frase e nessuno ebbe più il coraggio di dire altro.
“Fortunato? Mio padre si è suicidato quando avevo sedici anni perchè aveva troppi debiti di gioco, la fabbrica stava fallendo e non sapeva più come fare a sostenere la sua famiglia. Ho dovuto imparare un mestiere che non mi piaceva quando volevo soltanto studiare, andare all’università e continuare a stare con ragazzi. Quindi no, Blaine, non credo di essere stato fortunato nella mia vita.”
Con la scusa di aver del lavoro da finire, lasciò il pranzo a metà, lasciando Blaine a scansare con la forchetta le patate presenti sul suo piatto.
 
 
Le settimane passarono con inerzia. Sebastian aveva sempre quelle lezioni con suo padre, ma dopo quel dibattito a pranzo, avevano sempre meno occasione di vedersi. Eppure, c’erano dei momenti, quando Blaine era particolarmente felice perchè sua madre si sentiva un po’ meglio, o il sole era comparso dietro alle nuvole illuminando i suoi occhi ambrati, in cui Sebastian si perdeva semplicemente a fissarlo mentre si occupava del giardino. E, in quei giorni, riuscivano perfino a conversare, mettendo da parte tutte le loro differenze e i loro diversi modi di pensare.
Al termine di quelle giornate, Sebastian e Blaine si salutavano con una stretta di mano, e Blaine ricambiava il sorriso del ragazzo, anche se, a dire il vero, era molto più di circostanza del suo.
Passò molto tempo con Sam e la sua famiglia; le loro condizioni peggioravano di giorno in giorno, mentre gli imprenditori erano sempre più severi. Le famiglie morivano di fame, la crisi avanzava, il settore tessile era un settore sulla via della decadenza in favore del mercato chimico, meccanico, energetico.
Era l’alba di una nuova era e loro appartenevano alla parte sbagliata della storia.
Fu per questo motivo che, in una rigida giornata d’inverno, ci fu uno sciopero.
Gli operai avevano occupato le fabbriche con picconi e vanghe, urlando alle porte dei loro datori di lavoro in cerca di aumenti, cibo, stipendi e condizioni di lavoro migliori. Nessuno degli imprenditori voleva cedere ai loro ricatti: si sarebbero rivelati l’anello debole, avrebbero fatto pensare ai lavoratori che potevano, effettivamente, esigere delle cose.
Tuttavia, lentamente, dal momento che le famiglie avevano bisogno di soldi, e gli imprenditori di lavoro, con il passare dei giorni chi più, chi meno, era tornato ai propri incarichi, sempre più deluso e amareggiato, con la consapevolezza di non aver ottenuto niente da quello sciopero, se non una busta paga in meno e dei figli più affamati e in lacrime.
L’unico datore che non acconsentì ai suoi lavoratori di tornare al lavoro fu Sebastian.
Aveva assunto dei lavoratori dalla Cina; era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, la scintilla che aveva dato fuoco all’assalto finale alla sua fabbrica.
Gli operai erano furiosi, devastati. Volevano le teste di quei cinesi che si erano chiusi dentro i magazzini enormi e non se ne sarebbero andati fino a quando non avrebbero riottenuto quei posti.
Blaine si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Era passato a casa di Sebastian per chiedergli il numero di un dottore molto bravo, dal momento che non conosceva i dottori della zona, e non sapeva di chi fidarsi: sua madre stava peggiorando sempre più in fretta, voleva le cure del miglior medico, e al più presto possibile.
Non si era reso conto della calma prima della tempesta, delle strade vuote, della fabbrica disabitata quando salì le scale del suo ufficio e trovò Sebastian con le mani trai capelli e il volto contratto in una smorfia.
Tuttavia, quando vide Blaine, il suo volto cambiò del tutto espressione.
“Che ci fai qui?” Domandò con tono arrogante, come sempre, ma con una punta di insicurezza che fece vacillare, per un momento, l’astio di Blaine nei suoi confronti.
“Ho bisogno di aiuto. Non volevo chiederlo a te, ma sei l’unico che conosco in questa città...”, sussurrò piano. Gli costava tanto ammetterlo, soprattutto a lui. “Mia madre, sta sempre peggio e... mi stavo chiedendo se tu conoscessi un dottore...“ Perchè stava balbettando? Perchè si sentiva così timido? Era solo Sebastian Smythe, dopotutto. Era la nemesi del suo migliore amico Sam. Era un imprenditore senza scrupoli.
Ma adesso, quando lo vedeva circondato da scartoffie, da solo, in una fabbrica che sembrava davvero troppo grande, con i macchinari spenti e silenziosi... non gli vennero in mente quei pensieri. Pensò soltanto al ragazzo che conversava di Ulisse insieme a suo padre, del suono della sua risata da oltre la porta del loro salotto. Sebastian aveva le guance infossate, i capelli scompigliati e sembrava che non dormisse da giorni.
Eppure, lo vide alzarsi in piedi, sempre con quel portamento elegante che lo contraddistingueva; si avvicinò a lui e gli parlò a bassa voce.
“Stai bene?”
Come?
“Non sono io che sto male, ma mia madre è-“
“Ho capito quello che hai detto. Per l’appunto, ti chiedevo: stai bene?”
Dovresti guardarti allo specchio, voleva dirgli Blaine. Perchè, trai due, quello che stava decisamente peggio era lui. Sebastian attese una risposta che non arrivò, così aggiunse: “Non dovresti essere qui. Non voglio cacciarti, di nuovo”, ghignò, “Ma dovresti davvero andare via.”
“Perchè?”
Lo guardò incredulo, forse Blaine era ancora più ingenuo di quanto pensasse.
“Ma davvero non ti sei accorto di quello che sta per succedere?”
In quello stesso momento, i cancelli della piazza si spalancarono di colpo, lasciando entrare centinaia di operai sconvolti, urlanti, volevano la testa di Smythe, dicevano. La sua, e degli operai che aveva assunto, e che erano troppo terrorizzati per lavorare o uscire dalla fabbrica. Battevano le mani contro il portone, tentando a tutti i costi di entrare.
“Sono qui per te?” Sussurrò Blaine, con un filo di voce. Sebastian continuava a guardare dalla finestra con il volto sempre più pallido. Annuì piano.
“Ma... perchè?”
“Perchè ho assunto altri operai al posto loro.”
“Perchè l’hai fatto?!” Sbottò allora. “Non potevi dargli quello che volevano? Sono soltanto famiglie che muoiono di fame!”
“Sono cose che non puoi capire.”
“Aiutami a capire, allora.” Blaine lo guardava dritto negli occhi, ma non era ricambiato. Sebastian parlò rivolto alla finestra, stando bene attento a moderare bene le parole.
“La fabbrica è in rosso. Ho dovuto fare dei tagli. Potevo scegliere se tagliare i salari dei miei dipendenti, oppure tagliare i macchinari. Ho scelto la prima, loro hanno scioperato, ma io ho delle consegne da terminare e questo sciopero è durato sin troppo. Ho dovuto assumere temporaneamente altre persone.”
“Ma... perchè non hai tagliato i macchinari?!” Esclamò Blaine, “Perchè hai tolto ancora più soldi a questa povera gente?”
“Davvero non capisci, vero Blaine? Se taglio i macchinari non portiamo a termine le consegne in tempo. Se non lo facciamo, la fabbrica deve chiudere. E se la fabbrica chiuderà, saranno tutti in mezzo alla via.”
Non aveva mai visto le cose da quel punto di vista; per tutto quel tempo, era vissuto con le parole di Sam nella sua testa. Era stato abituato a pensare a quanto fossero crudeli gli imprenditori, a quanto puntassero soltanto a far loro del male.
Non si era mai chiesto il punto di vista di Sebastian; forse, perchè non aveva mai voluto saperlo.
Gli operai in piazza avevano cominciato a distruggere le cose intorno a loro, frementi dalla collera. A Sebastian tremavano leggermente le mani, mentre si aggrappava al cornicione della finestra.
“Non aver paura Blaine, tra poco arriva la polizia.”
Paura?
“Non ho paura. Non puoi fare qualcosa per calmarli?”
“La polizia li farà ragionare”, sentenziò acido. Blaine lo afferrò per un braccio, costringendolo a guardarlo.
“Ragione? Intendi dire che li massacreranno di botte?”
Non rispose.
“Sebastian.”
Vide il ragazzo trasalire: era la prima volta che lo chiamava per nome.
“Non sono cattivi. Sono solo affamati. Non sanno cosa stanno facendo”, disse con voce ferma, “Devi parlargli. Ma non come se fossero delle nullità, devi parlargli da uomo a uomo.”
E, se prima Sebastian non aveva il coraggio nemmeno di avvicinarsi troppo alla finestra, dopo quelle parole si voltò di scatto e scese subito fino all’entrata, a due metri da terra rispetto agli altri operai. C’erano delle scale, che permettevano di salire da lui, ma nessuno le stava attraversando.
Blaine era alle sue spalle; nel momento in cui gli uomini videro Sebastian a braccia conserte fermarsi davanti a loro, diventarono ancora più incontrollabili. Cominciava a pentirsi di avergli dato quel consiglio. Così come cominciava seriamente a preoccuparsi per Sebastian.
E Sebastian, lui, sembrava che non riuscisse a parlare.
Blaine avanzò mettendosi in mezzo tra lui e la folla, appoggiando le mani sulla ringhiera e parlando con la voce più alta che potesse avere.
“Non serve a niente fare così! Pensate a quello che fate. La violenza non risolverà nulla, se non peggiorerà le cose. Avete una famiglia, dei figli che vi aspettano, pensate a loro.”
Quelle parole guadagnarono un leggero silenzio. Silenzio che venne spezzato nel momento in cui un ragazzo chiese: “Manderete i cinesi a casa?” e Sebastian, sporgendosi con irruenza, urlò che non l’avrebbe fatto mai.
Adesso cominciavano a divincolarsi per raggiungere le scale, e arrivare fino a lui.
Blaine non sapeva assolutamente cosa fare, aveva il cuore che rischiava di schizzargli dal petto, la vista annebbiata dalla paura e il corpo pervaso da brividi che lo scuotevano completamente. Sebastian era lì, immobile, sembrava quasi che stesse aspettando il suo destino, quello che forse si meritava in quanto essere umano.
Con la coda dell’occhio, Blaine vide Stephens raccogliere un sasso da terra. E poi avvenne in un secondo.
Avvolse il corpo di Sebastian contro il suo e lo fece arretrare dentro la fabbrica; Sebastian non riuscì a capire cosa stesse facendo. Vedeva soltanto Blaine premuto contro di lui, i suoi occhi chiari, le sue labbra che cercavano di dirgli qualcosa, ma non riusciva a sentirlo, con tutto quel clamore.
Poi, vide il suo corpo accasciarsi a terra e un sasso rotolare a pochi metri da lui, dopo averlo colpito alla testa.
“Blaine.”
Non Blaine. Non Blaine. Non Blaine.
Un rivolo di sangue scorreva dall’orecchio fino alla base del collo e lui era inerme, privo di coscienza. Respirava ancora.
Sebastian si rialzò in piedi con le braccia spalancate. Dovevano essere contenti di aver ferito l’unica persona che non dovevano toccare, in nessun modo.
Urlò alla folla di prendersela con lui. Sperò che marcissero tutti all’inferno nel momento in cui la polizia arrivò scortata da armi e transenne, e in mezzo secondo si erano dileguati tutti.
 
 
Quando Blaine aprì di nuovo gli occhi, gli girava fortemente la testa. Non riuscì a capire la fonte del dolore, fino a quando non tastò l’orecchio con le dita e si accorse di avere una grande fasciatura che circondava tutta la testa, coprendogli perfino l’occhio destro.
“Il dottore è stato qui. Ha detto che hai la testa dura e stai bene. Ma non devi alzarti.”
Sebastian era seduto su una sedia, di fronte a lui. Blaine era dentro a un letto, ma non era il suo.
“Sei a casa mia.” Aggiunse l’altro ragazzo. “Era più vicina dell’ospedale.”
“Ma cosa..-“
“Ti hanno colpito alla testa” Lo disse come se fosse veleno. Blaine in quel momento ricordò tutto quanto, così, mosso da agitazione, spalancò l’unico occhio utilizzabile e cominciò a fargli domande a raffica.
“Ma la rivolta. Ti hanno fatto male? È arrivata la polizia? È successo qualcosa? Com’è andata a finire?”
“Non mi importa di tutto questo.”
Quella risposta lo prese completamente contropiede.
“Ma come no, pensavo che-“
“Ti hanno ferito.”
Blaine trasalì in silenzio, sorpreso di aver sentito quel tono di voce così amaro.
“Lo so, lo ricordo. Ma il dottore ha detto che sto bene, no?”
Annuì. In silenzio. Sebastian fissò le sue lenzuola di cotone per almeno mezzo minuto.
“Mi dispiace.”
Blaine scosse la testa, leggermente confuso. Perchè si sentiva così a disagio? Perchè Sebastian lo stava facendo sentire a disagio? “Non devi scusarti. Non è stata colpa tua.”
“Sì invece.”
“Ho solo fatto il minimo che chiunque altro avrebbe fatto...”
“Questo non è vero e lo sai.”
“Sì invece, voglio dire-“ Deglutì a vuoto, avvertendo aria fredda. Che cosa aveva capito Sebastian? Che cosa stava cercando di capire?
“Dopotutto era colpa mia se eri in pericolo.” Ci tenne molto a puntualizzarlo. E poi, con estrema decisione, aggiunse: “Avrei fatto lo stesso per chiunque altro.”
Sebastian sembrò completamente spaesato nel sentirgli pronunciare quelle parole. Alzò la testa di scatto, e nei suoi occhi ci lesse un sentimento difficile, che non vedeva da tanto tempo.
“Per chiunque altro?”
Sebastian sembrava geloso.
“Credo di sì. Insomma, sapevo che se gli avessi parlato tu-“
“Ah, giusto, dimenticavo che tu sei l’amichetto loro.” Commentò cinico, con disprezzo: “E che vedi me come l’orco cattivo.”
“Beh, sicuramente avresti potuto essere più razionale quando-“
Io più razionale? Sono entrati nella mia fabbrica. Ti hanno ferito. Per quanto mi riguarda sono soltanto un branco di stolti e non meritano nemmeno le monete che trovano in fondo al fiume.
Ecco il Sebastian che conosceva. Quello crudele, quello vendicativo. Sebbene qualche volta si fosse comportato in modo gentile, Blaine non aveva mai dimenticato quel primo giorno in cui lo aveva visto picchiare a sangue quel ragazzo. Forse era per quello che continuavano a litigare; dopotutto, non avevano niente in comune e Blaine lo sapeva bene.
“Forse non sei un orco”, Rispose allora lui, “Ma non sei nemmeno un Santo.”
“Non ho mai detto di esserlo.”
“E allora smettila di giustificarti.”
Sebastian strinse le lenzuola sotto le sue mani e sembrava quasi una routine, ormai: ogni loro discussione finiva con lui arrabbiato che poi se ne andava.
“Io non capisco.” Disse dopo lungo tempo, e Blaine inclinò la testa da un lato. “Non capisci cosa?”
“Non capisco te. Non capisco se mi disprezzi o se mi ami.”
Un attimo.
“Cosa?”
“Perchè io ti amo, Blaine. Da un po’ di tempo ormai.”
Non era possibile.
Non era assolutamente possibile.
Doveva esserci stato un errore. Uno sbaglio. Un fraintendimento. Blaine non riusciva a proferir parola; semplicemente, continuava a guardare Sebastian, la bocca semiaperta, gli occhi spalancati e increduli mentre con la sua testa riepilogava ogni singolo momento passato insieme, e no, in nessun modo, non avrebbe mai potuto prevedere che succedesse una cosa simile. E Sebastian era lì, che lo fissava. Non poteva amarlo. Non poteva davvero amarlo.
“Non so cosa dire.”
Quelle lenzola non erano mai state così affascinanti da guardare.
“Sei confuso sui tuoi sentimenti?” Provò a dire Sebastian, con una punta di coraggio. Ma no, non era quello il problema.
“Io sono confuso sui tuoi.”
Quel leggero barlume di speranza che risiedeva negli occhi verdi venne annientato del tutto.
“Come sarebbe a dire?”
“Credi che sia uno scherzo divertente? Prendersi gioco del ragazzo del sud?”
“Ma di che diavolo stai parlando?”
“Tu non puoi amarmi, Sebastian. Non puoi perchè a malapena ci siamo parlati in questi mesi e quando lo abbiamo fatto è stato per litigare.”
“Sicuramente non sei tu quello che deve decidere cosa provo o meno”, Ribattè con la rabbia che cresceva ad ogni parola.
“Sì ma so riconoscere quando una cosa è impossibile oppure no, e sai, non ti facevo così crudele da macchinare delle cose simili. Credi che solo perchè sei ricco tutti quanti cadano ai tuoi piedi? Che puoi riscattarmi come se fossi una sfida da vincere? In effetti è proprio degno di uno come te.”
Sebastian mormorò la risposta a bassa voce, ma nemmeno la dolcezza di quelle parole servì ad ammorbidire il gelo nella sua voce.
 “Non voglio riscattarti come un oggetto, Blaine, voglio stare insieme a te, perchè ti amo.”
“Non dovresti! Perchè io non amo te. E non ti amerò mai.”
Forse era stato sin troppo brusco. E non perchè aveva paura di ferire Sebastian, ma perchè Blaine era sempre stato un ragazzo di buon cuore, e non gli era mai capitato di rifiutare un ragazzo in così malo modo. Sebastian riusciva a tirare fuori il lato peggiore di lui.
Lo vide alzarsi in piedi, passandosi una mano trai capelli. La sedia cadde a terra con un tonfo, ma a nessuno dei due importò davvero.
“Sebastian, io... mi dispiac-“
“Per cosa.” Lo interruppe. “Perchè ti senti offeso dal fatto che ti amo? O perchè secondo te posso ragionare soltanto in termini di dare e avere, e mi diverto a mandare a morire i miei operai?”
“N-no! Certo che no...” cercò di raggiungerlo con una mano, di farlo sedere, ma era troppo distante e lui non riusciva ancora a muoversi bene. Il solo tentativo gli diede una forte fitta alla testa.
“Mi dispiace... di essere stato così brusco. Sono negato in queste cose... non so mai cosa rispondere a una dichiarazione e-“
“Oh, ne hai avute tante?” Lo guardò, inarcando le sopracciglia. E Blaine si sentiva così stupido, non intendeva dire questo, ma Sebastian parlò ancora: “Ti succede tutti i giorni immagino. Giustamente.”
“Sebastian, per favore, cerca di capirmi-“
“Capisco. Capisco benissimo.”
Lo guardò per un’ultima volta, prima di sbattere la porta con forza e lasciare Blaine completamente da solo, dentro al suo letto.

























ANGOLO DI FRA


Ringraziate Somochu se scriverò la seconda parte del libro perchè io avevo voglia di lasciarvi così. Sappiatelo.
Anzi ditemi voi se devo continuare o se fa troppo schifo e non ne vale la pena.
Comunque se avete fretta di sapere come continua, vi consiglio il libro. Ma visto che è introvabile, vi consiglio lo sceneggiato della BBC (North&South) che è stra-meraviglioso. E c'è un Richard Armitage da feelings.
Un saluto alle mie Seblainer pazze!

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Capitolo 7
*** North and South (II) ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .



 

AVVERTENZE: Questa è la seconda e ultima parte della ff North and South (per intenderci, il capitolo precedente di questa raccolta). Potevo fare di meglio, ma annego comunque nei feels. Rinnovo il mio invito a leggere il libro o guardare lo sceneggiato. Enjoy!






 

Appena Blaine fu tornato a casa, venne assalito di domande dai genitori. Erano preoccupati, ovviamente: in una città piccola come Norfolk le voci giravano, specialmente quando non c’era molto di cui parlare.
Chiesero a Blaine dove fosse stato, cosa fosse successo, come diavolo gli fosse saltato in mente di immischiarsi in una cosa più grande di lui, e che non lo riguardava. Non aveva molta voglia di rispondere ai loro interrogatori, sapeva bene che era la loro preoccupazione a parlare, e non il loro cuore; con la scusa di essere davvero molto stanco, riuscì a rimandare tutti i discorsi, per salire in camera e chiudersi dentro fino all’alba successiva.
La testa gli faceva male, le gambe erano pesanti, il cuore gli martellava nel petto ma aveva l’impressione che non fossero collegati ai ricordi della folla urlante, quanto del ragazzo che aveva impulsivamente tentato di proteggere.
Quando scese di camera, il giorno dopo, era ora di pranzo. Si sentiva un po’ meglio dopo aver pianto e riposato un po’, e quasi non si scompose quando scoprì che quel vaso di fiori appoggiato sul tavolo appartenesse a Sebastian.
“È stato così gentile a passare”, cinguettò la madre, seduta sulla poltrona con vestaglia e coperta sulle gambe. Non migliorava molto, ma c’erano giornate, come quella, in cui il suo buon umore era un vero toccasana per tutta la famiglia, e la malattia sembrava un po’ più lontana.
“Con tutte le cose che ha da fare, si è preoccupato anche di darmi un mazzo di fiori e il numero del suo medico di famiglia.”
“È una brava persona”, confermò il padre, “Ma sembrava un po’ stanco. Spossato. Spero che questo sciopero non gli causi troppi problemi.”
Blaine si rifiutava di partecipare alla conversazione. A dire il vero, sperava soltanto che non venisse interpellato in nessun modo; tuttavia non riuscì a chiedersi se parte della sua stanchezza non fosse dovuta a quella conversazione tra loro due.
Ma no, probabilmente era solo lavoro.
“Blaine?” La voce soave di sua madre lo fece voltare. “Tu e Sebastian siete diventati amici, non è così? Potresti passare da lui e ringraziarlo da parte mia?”
Blaine stava indossando il soprabito, mentre ascoltava la madre. Si fermò con il corpo immobile e rigido, interrotto a metà dell’azione.
“Credo che i tuoi ringraziamenti di stamani bastino e avanzino, mamma.”
“Ma tesoro, non ho avuto nemmeno modo di offrigli qualcosa da bere o mangiare. È scappato via dopo un minuto...”
Forse perchè non voleva vedermi, pensò lui, quindi non credo proprio che andare lì a ringraziarlo sia una buona idea.
“Adesso non posso mamma, stavo uscendo.”
Mormorando delle scuse poco convinte, salutò i genitori avvisandoli che sarebbe tornato per cena, e andò da Sam.
 
 
“Sparisci! Sei solo un idiota. Hai rovinato non solo noi, ma anche la tua famiglia, e con le tue stesse mani!”
Blaine capì quasi subito di essere arrivato al momento sbagliato.
Sam stava buttando fuori di casa sua Stephens, senza il minimo garbo. L’uomo esitava, mormorava qualcosa di sconnesso, forse stava imprecando contro Sam, ma non riuscì a capirlo bene. L’unica cosa che Blaine vide, fu il suo miglior amico scaraventare oltre la porta quell’uomo, che scappò via sparendo dietro l’angolo della strada.
Sam era visibilmente scosso. Era stato il leader dello sciopero, non aveva mai pensato che potesse fallire, nemmeno per un secondo; adesso, invece, tutti quanti erano tornati ai propri posti di lavoro. Le loro condizioni, se possibile, erano peggiorate giusto un po’ di più: erano accompagnati da una tiepida rassegnazione di chi sa che non può fare più niente, nemmeno sperare che, un giorno, la loro vita sarebbe migliorata.
Il suo amico si accorse della sua presenza poco tempo dopo.
“Blaine”, lo chiamò, stupito, ma nemmeno troppo. “Non ti avevo visto. Entra pure amico.”
Poteva davvero entrare? Poteva continuare con quelle visite amichevoli, osservando inerme l’unico suo amico mentre si rovinava con le sue stesse mani? Blaine non si era mai permesso di discutere di politica, o di affari, con Sam. Forse, era proprio per quello che erano così amici; ma erano cambiate tante cose da quel primo giorno, era passato metà anno, l’inverno aveva lasciato spazio a una fresca primavera che aveva fatto scomparire gli ultimi strati di neve, e si respirava aria di cambiamenti. Se non positivi, comunque, doveva evitare che ne accadessero di negativi.
“Non volevo farti assisstere a quella scena”, gli disse Sam, dopo avergli passato la sua solita tazza scheggiata. “Comunque, come va con la testa?”
“Bene. Era solo una ferita superficiale.” Non voleva giustificare quell’uomo: era stato il suo aggressore, dopotutto. Eppure, in due volte che lo aveva incrociato, lo aveva visto essere trattato male da due persone differenti. Com’era possibile? Non gli sembrava una persona così degna di essere maltrattata, nessuno lo è.
Provò a dirlo a Sam, calibrando con attenzione tutte le parole, e l’unica risposta che ottenne fu un borbottìo gutturale, accompagnato da una mano premuta sul tavolo.
“Quel tizio è sempre stato e sempre sarà un idiota. Non devi aver pena di lui, Blaine: ti ha tirato una pietra, ha fatto fallire lo sciopero e ho saputo che mesi fa ha quasi fatto incendiare l’azienda di Smythe. Non capisco come mai nessuno non se la sia ancora presa con lui.”
Blaine ebbe un leggero sussulto quando sentì pronuciare il cognome di Sebastian.
“Mi hanno detto che non voleva davvero accendere un fuoco nella fabbrica. Da quanto so, voleva solo fumare una sigaretta.”
“Fumare una sigaretta in mezzo a tessuti e macchinari altamente infiammabili? Se piazzava una bomba nelle fondamenta sarebbe stato meno pericoloso.”
“Sì ma”, tentò di controbattere, “Ma Seb-Smythe quel giorno l’ha picchiato a sangue...”
“Ha fatto bene. Era la terza volta che fumava al lavoro”, decretò con veemenza Sam, “Per quanto ne so, Smythe è stato anche troppo paziente a sopportarlo per tutto quel tempo. Ha visto morire tre dei suoi uomini –miei amici-  per colpa di una sigaretta non spenta bene. Da quel momento in poi ha aumentato le condizioni di sicurezza di tutta la fabbrica ed è diventata la più stabile di Norfolk. E bada bene, non ti sto dicendo che mi sta simpatico, è un industriale ed è viscido come tutti gli altri. Però, se dovessi scegliere con quale nemico battermi, beh posso dire che sceglierei lui.”
In quel momento, il fratellino più piccolo volle mettersi in braccio a Blaine: si chiamava Thomas, era biondo proprio come il fratello maggiore, aveva una passione per il Piccolo Principe e tutti i libri che parlassero di un eroe in miniatura. Blaine passava le ore a leggere con lui, suggerendogli le parole più complicate da pronunciare.
Insieme a molti libri, Blaine portava sempre un cestino da pic-nic pieno di cibo, che i bambini assalivano al primo momento. All’inizio Sam era offeso da quella che lui chiamava elemosina, ma Blaine con il tempo lo aveva convinto ad accettare quel piccolo aiuto per piccoli: non voleva sminuire l’autorità del ragazzo, ma non riusciva a sopportare la vista di sette bambini affamati.
“Sam... stai lavorando, ora?”
Lo vide scuotere la testa con riluttanza.
“Chi mai assumerebbe l’ideatore di quello sciopero? E poi no, mi rifiuto di andare a supplicare un posto. Piuttosto, preferisco morire di fame.”
Non era l’idea migliore che potesse avere; non tanto per lui, ma per quei bambini che adesso stavano pregando Blaine di cantare loro qualcosa.
 
 
Blaine tornò a casa per ora di cena. Aveva comprato un nuovo gomitolo per i ferri di sua madre, visto che adorava passare il tempo creando maglioni e cappellini per il figlio. Con sua grande sorpresa, però, anche suo padre era in salotto intento a leggere il giornale.
“Niente lezioni private per oggi?”
“Oh, non credo. Sebastian mi ha telefonato dicendo che è davvero molto impegnato con il lavoro, e che per un periodo non potrà più seguire gli studi.”
“... Oh.”
Forse era vero, no? Forse aveva delle cose da fare e non poteva venire.
Non c’entrava assolutamente nulla il fatto che il giorno prima si fosse dichiarato a suo figlio e quest’ultimo gli avesse detto che non lo avrebbe mai amato.
“Blaine? Tutto bene? È da ieri che sei strano.”
“Io? Certo. Sto benissimo. Perchè dovrei star male? Va tutto a meraviglia. Ho dimenticato una cosa in camera.”
“Ma non sei nemmeno salito, in camera!”
“L’ho dimenticata... prima di uscire.”
Fece le scale a chiocciola a due a due, per poi chiudersi la porta alle spalle ed emettere un profondo sospiro.
 
 
Blaine non vide Sebastian per più di un mese.
Era incredibile come una città così piccola, in cui incontravi tutti a prescindere dalla tua volontà, e le notizie volavano più veloci della cenere, fosse diventata improvvisamente grande, immensa e solitaria.
Nonostante fosse primavera, e i cappotti pesanti erano stati abbandonati per giacche più leggere, il sole continuava a comparire e sparire tra le nuvole quando gli pareva, e con lui si alternavano gli umori dei cittadini. Le condizioni economiche non erano migliorate, ma la buona stagione aiutava. Gli imprenditori erano chiusi nella loro bolla di cristallo e si rifiutavano di comunicare con tutti quanti.
Sam aveva quasi terminato gli ultimi risparmi rimasti; se non fosse stato per l’aiuto di Blaine, probabilmente, sarebbero terminati molto prima.
Era così che si andava avanti a Norfolk: giorno per giorno, chiedendosi come sarebbe stato il turno quella volta, se avrebbe piovuto, se ci sarebbe stata della carne commestibile al mercato . L’altra parte, invece, ostentava i loro giardini perfettamente curati con cene e feste private, mostrando innovazioni che ancora riuscivano ad affascinare molte persone: il telefono, l’automobile, il vinile, la televisione.
Gli Anderson erano stati invitati ad alcune di queste cene, ma ci andava soltanto il padre. Blaine preferiva restare a casa, un po’ per stare con sua madre, un po’ per paura di incontrare Sebastian in un luogo chiuso, dal quale non poteva scappare.
Ma poi, perchè doveva scappare da lui?
Forse perchè non faceva altro che pensare a quel giorno? Forse perchè si sentiva sempre più in colpa?
Non riusciva a capire bene cosa gli stesse succedendo. L’unico momento di lucidità lo ebbe un pomeriggio, quando si stava avviando a casa; vide Sebastian dalla parte opposta della strada con un libro in mano e l’aria assorta in chissà quali pensieri. Stava andando a lezione da suo padre? Ne sarebbe stato molto felice. Gli avrebbe offerto di restare a cena, e Sebastian avrebbe fatto commenti pungenti e ironici su come il loro giardino assomigliasse più a un campo di lacrosse.
Il fatto di non averlo visto da tanto tempo fece pensare a Blaine cose mai avverite prima: tipo, che Sebastian stesse molto bene in blu, o che avesse davvero un fisico alto e asciutto.
E quando i loro sguardi si incrociarono, per sbaglio, o perchè Sebastian si sentiva osservato, o perchè Blaine sperava che lo guardasse di rimando, entrambi si fermarono esattamente dove erano. Il marciapiede era attraversato da altre poche persone, ma, come sempre a Norfolk, ognuno badava soltanto a se stesso.
Non si accorsero degli occhi espressivi di Blaine mentre cercavano di dirgli qualcosa, silenziosamente: resta. Non andare. Mi dispiace.
Forse erano quelle le parole. Sebastian non lo avrebbe mai scoperto; si voltò dall’altra parte, e camminò lontano da casa Anderson.
 
 
Il destino volle che si incontrassero una seconda volta, a distanza di soli pochi giorni.
Blaine era andato a New York esortato dalla madre: c’era una mostra interessante che si ripeteva ogni anno, un expo di innovazioni all’ultimo grido e di animali esotici che attiravano sempre l’attenzione delle masse.
La madre aveva insistito tanto perchè partisse per qualche giorno, raggiungendo i suoi amici di New York, e si godesse un po’ di vacanza in quella grande città. Blaine non se la sentiva di lasciarla sola, specialmente visto quanto fosse cagionevole, ma non ci fu modo di farla ragionare. Così, una mattina, era arrivato alla stazione di New York e venne assalito da Rachel, Tina, Marley, Wes e suo fratello, degli amici di Brumswick che da anni si erano trasferiti lì.
Era sempre bello vedere dei volti amici. Blaine si sentì giovane e felice per la prima volta dopo mesi.
La mostra, poi, riesumò tutto il lato infantile nascosto in lui: guardò cose, si sorprese ad ogni minimo effetto, rise di fronte a invenzioni strane che gli altri definivano geniali e provò un nuovo gusto di gelato color blu elettrico insieme a Marley.
La gente di New York era così alla moda, così frizzante, che Blaine venne automaticamente coinvolto in quella spensieratezza innocente, lasciando da parte il freddo di Norfolk, i problemi economici, quelli familiari e molto altro ancora. Indossò vestiti che non metteva da così tanto tempo, da averli quasi dimenticati: una camicia a quadretti bianca e verde, un papillion abbinato e dei pantaloni sorretti da bretelle, il tutto coperto da una giacca sottile. Tina gli disse che era diventato ancora più bello dall’ultima volta, che i lineamenti erano più maschili e i capelli più lunghi e riccioli, ma Blaine ne dubitava.
“Non ci hai ancora detto cosa fai lì!” Rachel lo prese a braccetto di fronte a un nuovo tipo di automobile, una con il cambio centrale che assomigliava quasi a un pomello di un bastone. Era così buffa, che Blaine continuò a fissarla come un bambino di fronte a un elefante, estremamente divertito.
“Non faccio molto, Rachel”, ammise quasi sovrappensiero, “Mia madre sta male, per la maggior parte del tempo mi occupo di lei.”
“Ma sei giovane, e sei un ragazzo, dovrai pur iniziare a fare qualcosa, no?” Intervenne Marley, di ritorno da un padiglione di nuovi cappelli insieme a Tina. Wes era a pochi metri da loro, ascoltando in silenzio con un sorriso: lui e Blaine erano amici di vecchia data. Si erano sentiti molto, in quel periodo, quindi erano tutte cose che lui sapeva già. Suo fratello Timothy, invece, sembrava più interessato al fisico di Blaine che alle sue parole.
“Lo so che dovrei trovare un lavoro... ma a Norfolk... è complicato”, spiegò, “Non sono i lavori che siamo abituati a fare. E poi, qualsiasi cosa facessi, mi sentirei... inutile.”
“Oh Blaine, smettila.” Tina gli accarezzò affettuosamente un braccio. “Non sei inutile. Sei un ragazzo brillante e buono, e loro sono troppo bigotti per capirlo.”
“Non sono... non sono così bigotti”, mormorò Blaine. “Hanno soltanto delle usanze diverse ma... se impari a conoscerli, sono delle che lavorano duro per la propria famiglia.”
“Cosa? Cosa sentono le mie orecchie? Blaine Anderson che difende i cittadini del nord?”
E nonostante le risate che giunsero subito dopo, nonostante perfino Blaine stesse sorridendo, sapeva bene che in tutto quello ci fosse un tremendo fondo di verità. E si spaventò da solo.
“A Norfolk ci sono un sacco di industrie vero?” Intervenne Timothy. “Wes, potremmo aprirne una anche noi, che ne dici?”
“Tu pensa a finire gli studi”, dichiarò il fratello insieme alle ragazze, ma Blaine arrossì nel momento in cui Timothy gli sorrise in modo più languido del necessario.
“A Norfolk non resisteresti un minuto! Vero Blaine?”
“Non è così male”, mormorò, prima di voltarsi per evitare di vedere le loro occhiate sospette.
“Tecnologicamente, siamo l’invidia del resto del mondo.”
Un momento.
Blaine si fermò di colpo, con il cuore che batteva all’impazzata. Conosceva quella voce.
“Adesso le macchine sono la vera manodopera del paese, dobbiamo convivere con la consapevolezza che dalla guerra mondiale in poi è cambiato tutto il nostro stile di vita.”
Sebastian Smythe era in piedi proprio dietro a un padiglione visitato prima, insieme a degli  uomini che avevano tutta l’aria di essere persone ricche, importanti, industriali forse, oppure potenziali finanziatori. Aveva una camicia chiara, una cravatta abbinata al completo scuro e di classe. Le luci dell’expo lo rendevano ancora più bello di quanto non fosse. Il suo sorriso era impostato, così come la sua voce, ma le parole che trasmettevano, quelle erano ciò che realmente pensava della sua economia e che Blaine non aveva mai sentito dire. Forse perchè non poteva parlare di teoria del capitalismo con i suoi operai; forse, perchè non c’era mai stato nessuno disposto veramente ad ascoltare.
“L’unica macchina che comprerei, però, sarebbe quella che mi permetterebbe di non licenziare i miei uomini e di migliorare il tasso di rotazione delle scorte.”
“La faranno mai?”
“Ma soprattutto, c’è qualcuno disposto a farla?” Scherzò uno dei signori, ma Sebastian non sembrò affatto divertito.
“Ne dubito. Dopotutto, basta vedere l’egoismo del nostro stesso Presidente per capire quanto gli uomini siano menefreghisti.”
“Parla così, Smythe, ma anche lei sta pensando al tornaconto della sua impresa.”
“Sto pensando”, ribattè, “Al fatto che gli unici investimenti mai adoperati siano per oggetti che nessuno sa ancora usare, come quella stupida macchina con il cambio che sembra un bastone da passeggio.”
Blaine, ormai completamente allo scoperto, a pochi passi da lui, trattenne a stento una risata.
“Invece di sollevare le imprese dopo quella guerra che nessuno voleva fare, ci stanno abbandonando a noi stessi senza nemmeno dei remi con cui nuotare.”
“Forse deve innovarsi anche lei, Smythe”, convenì un signore, pulendosi gli occhiali sottili con la montatura in oro. “Forse è un po’ troppo ancorato alla politica di suo padre, le pare?”
Sebastian esitò un secondo, mettendo una mano nella tasca dei pantaloni e sistemandosi la cravatta con l’altra, mentre si rivolgeva a quell’uomo con una padronanza tale da non lasciar nessuno spazio a qualsiasi tipo di dubbio.
“Vorrei innovarmi. Ho in mente un progetto che potrebbe essere la nuova rivoluzione industriale. Ma purtroppo non siamo tutti come a New York, dove non avete bisogno di combattere contro l’inverno e non avete metà popolazione che rischia di morire per strada. Sto pensando, signor Keynes, a un modello di produzione di massa esteso a qualsiasi tipo di settore. Un Fordismo globale.”
“Un Fordismo globale?!” Il terzo uomo scoppiò in una risata, “Si vede che è giovane, ragazzo. Lasci queste idee alla prossima generazione, e pensi a eliminare gli scioperi.”
“Non credo che ci riuscirò.” Non lo disse come una sconfitta personale, ma c’era qualcosa di triste, nel suo tono di voce. “L’estate forse scioglierà la loro amarezza, ma non smetteranno mai di odiarci. Hanno bisogno di un obiettivo per arrivare a sera, e se quest’obiettivo sono io, beh, tanto vale.”
Blaine lo guardava con occhi grandi e la mente pervasa da milioni di pensieri.
“Dopotutto, Blaine Anderson sa quanto siamo caduti in basso, noi industriali di Norfolk.”
Si voltarono tutti verso di lui, chi sorpreso di trovare un ragazzo ad origliare il loro dialogo, chi invece leggermente pensieroso, forse, per le parole che aveva detto Sebastian così bene.
Blaine, da parte sua, era paralizzato. Si chiese da quanto Sebastian lo avesse notato; si chiese se lo avesse visto prima, mentre faceva il giro dei padiglioni insieme ai suoi amici.
“Com’è che avevi detto?” Incalzò Sebastian, senza smettere di fissarlo. “Vedete, per lui noi siamo soltanto macchine, ragioniamo in termini di compravendita.”
Ah, ecco. Era quindi questo il suo vero scopo? Umiliarlo davanti ad altre persone per ottenere la sua piccola vendetta personale? Blaine assottigliò lo sguardo e non si era mai innervosito così tanto in così poco tempo, serrando la mascella e parlando a denti stretti.
“Non lo penso affatto invece. E se Smythe mi conoscesse almeno un minimo ve lo potrebbe dire lui stesso.”
Quando si voltò con l’intenzione di andare via, si sentì afferrare per un braccio e costretto a voltarsi velocemente.
“Una volta pensavo di conoscerti.” Sebastian era a pochi centimetri da lui, il respiro caldo sul suo viso, gli occhi verdi pieni di emozioni contrastanti. “Mi ero sbagliato.”
“Blaine! Ecco dov’eri finito!”
L’esclamazione squillante di Rachel fu abbastanza per farli allontanare di scatto.
“Ti avevamo cercato dovunque”, disse Wes, “Poi è difficile trovarti con tutte queste persone, visto che sei basso!”
“Ma grazie.”
“Non ci presenti il tuo amico?” Tina squadrò Sebastian da capo a piedi senza il minimo ritegno, tanto che Blaine non riuscì a capire se fosse gelosa di lui, o semplicemente pazza. Blaine guardò Sebastian con la coda dell’occhio: come poteva presentarlo? Erano amici? Erano conoscenti? Erano due persone che non avrebbero mai dovuto trovarsi nella stessa stanza?
“Sebastian Smythe”, esordì lui, stringendo la mano e ascoltando le presentazioni di tutti i ragazzi.
“Oh! Aspetta, tu sei quel Sebastian!”
“Wes.”
“Ma Blaine, non mi avevi parlato di quel ragazzo che-“
Wes.”
“Oh. Giusto. Certo. Ho capito, sto zitto.”
Sebastian stava guardando Blaine come se gli avessero appena detto che era una donna.
“Sei un amico di Blaine?” Intervenne Marley, con quella dolcezza che riusciva a sciogliere qualsiasi animo. “Ti va di andare a pranzo con noi? Stavamo giusto andando.”
Il “no” secco che arrivò dalle bocche di Blaine e Sebastian fu abbastanza per far capire quanto non dovessero passare ulteriore tempo insieme.
Il volto di Blaine era rosso porpora: “Voglio dire, lui ha da fare, giusto?“
Sebastian gli lanciò una lunga, lunghissima occhiata.
“Sì, ho una riunione con altre persone.”
“Oh”, fece Marley. “Che peccato. Sarà per la prossima volta?”
“Certo.” Disse Sebastian. Blaine aveva l’impressione che il continuo della frase fosse “Certo che no”.
“Se avete voglia di venire a Norfolk, siete i benvenuti.”
“Timothy voleva andarci”, sorrise Wes al fratellino, che li aveva appena raggiunti con i suoi capelli scuri e il fisico allenato. “Giusto Tim?”
Sebastian, tutto ad un tratto, guardò quel ragazzo con un’espressione nuova.
“E tu saresti?”
“Timothy Montgomery. E tu sei il famoso Sebastian Smythe. Da Norfolk con furore.”
Non è famoso, pensò Blaine, con le guance in fiamme. Diavolo, doveva smetterla di raccontare le sue cose a Wes, visto che le ripeteva al fratellino parola per parola. Inoltre, erano anni che Wes continuava a informarlo della cotta di Tim verso di lui e, beh, non era mai stata ricambiata. Blaine teneva gli occhi piantati sul terreno e sperava soltanto che tutto quello finisse presto.
“E sentiamo.” Sebastian infilò lentamente entrambe le mani in tasca. “Come mai vorresti venire a Norfolk?”
“Beh. Per andare a trovare Blaine, come prima cosa.” Sebastian fece un ghigno che poteva essere definito come omicida.
“E perchè mi piacerebbe dilettarmi nell’industria, sinceramente. A proposito, Blaine mi ha detto che potevo chiedere a te dei consigli.”
“Non saprei quale consiglio darti”, commentò acido, “Non ho idea di come ci si diletti nell’industria. Ma prego, voi continuate pure a parlare di gestire industrie come se fosse il monopoli, mentre io vado a fare del lavoro serio.”
Passò in mezzo a Marley e Blaine, e quest’ultimo avvertì un brivido freddo quando si sentì sfiorare la spalla.
 
 
“Blaine, prima di partire, devo chiederti una cosa.”
Wes e Blaine erano seduti su una panchina della stazione di New York, una leggermente isolata dalle altre, lontana dalla folla e dal rimbombo dell’altoparlante radiofonico. Avevano passato un bellissimo week-end, e Blaine provava una certa nostalgia all’idea di dover salutare i suoi amici, soprattutto Wes.
“Hai una faccia serissima”, scherzò Blaine. “Devo preoccuparmi?”
“Dillo tu a me. Hai una cotta per quel Sebastian?”
Sputò tutto il caffè nero con cacao comprato dieci minuti prima al bar.
“Cos-come? Cosa te lo fa pensare?”
“Blaine. Ti conosco come le mie tasche.”
“Non ho affatto una cotta per Sebastian. Come ti salta in mente? No. Ma proprio no. Hai visto che tipo è?”
“Non mi intendo di generi maschili, ma parlando da etero a gay, mi è sembrato un bel ragazzo.”
“No-voglio dire, sì, ma non intendevo dire-“
“Sì? Quindi trovi che sia un bel ragazzo?”
“Wes!”
Blaine affondò con la testa fra le gambe, lasciando stare quel caffè diventato sin troppo bollente per i suoi gusti. Di bollente aveva già la faccia e gli bastava. Parlò dopo diverso tempo, quasi mormorandolo.
“Lo sai che... che cosa è successo”.
“Sì, lo so che lo hai rifiutato in un modo assolutamente terribile e imbarazzante. Ma è successo tempo fa, no? Magari in questo periodo hai cambiato idea.”
“Non posso- non posso semplicemente cambiare idea, Wes, gli ho detto che non lo amo e che non lo avrei mai amato!”
“Blaine, sappiamo benissimo entrambi che la tua impulsività ti porta a dire - e fare - cose di cui ti penti automaticamente un minuto dopo.”
E aveva assolutamente ragione. Perchè Blaine aveva quell’idea, di Sebastian: di un uomo freddo, meschino e arrivista, disposto a tutto pur di non far chiudere la sua azienda e noncurante della vita o delle difficoltà degli altri. Ma poi c’era l’altro Sebastian, quello che andava a lezione da suo padre, quello che rimaneva a cena da loro e faceva battute stupide sul pollo della domenica; quel Sebastian che non smetteva mai di guardare Blaine, di sorridergli, di stringergli la mano per salutarlo, solo per avere un qualsiasi tipo di contatto fisico.
La mente di Blaine era esattamente indecisa a metà, e non aveva la più pallida idea di quale parte fosse quella vera.
Wes, mettendogli una mano sulla spalla, cercò di tirarlo di morale dicendo: “Non pensarci troppo. Se c’è una cosa che ho imparato, è che in queste situazioni devi lasciar da parte ogni pensiero razionale.”
 

“Beh, sicuramente avresti potuto essere più razionale quando-“
Io più razionale?

 
 
Per tutto il viaggio di ritorno Blaine guardò fuori dal finestrino, con la testa appoggiata al vetro e la voglia di abbandonarsi sotto alle coperte per il resto della sua vita. Ma ad attenderlo a Norfolk c’erano problemi più seri di un’indecisione d’amore. Quando tornò a casa, con la valigia sotto braccio, suo padre stava organizzando un funerale.
Susan Anderson si spense in una notte di primavera, con un sorriso sulle labbra mentre pronunciava i nomi dei suoi due figli.
Fu un funerale molto sobrio. Lei non avrebbe voluto cerimonie sfarzose. Il fatto di abitare lontani da amici e parenti, però, rese il tutto ancora più doloroso. Soltanto in pochi riuscirono a raggiungere Norfolk con così poco preavviso, e la piccola chiesa Madre era riempita di pochi amici di famiglia e gli amici di Blaine, seduti sulla panca dietro lui e suo padre. Sam e i suoi fratellini erano a poche panche da lui e cercarono di infondergli tutto l’affetto che riuscivano a dargli.
Sebastian entrò a cerimonia iniziata e restò in piedi, in fondo alla navata.
Guardò per diverso tempo la bara bianca posizionata sotto l’altare, mentre un prete di una religione che non gli apparteneva continuava a dire le classiche frasi di circostanza, che gli facevano soltanto venire voglia di uscire.
Restò lì per tutto il tempo.
Quando finì la cerimonia, salutò il padre di Blaine, abbracciandolo come se stesse confortando un suo caro amico.
Non andò da Blaine, ma non lo perse di vista nemmeno per un secondo. Aveva gli occhi arrossati, eppure non lo vide versare nemmeno una lacrima, mentre salutava i suoi amici e li ringraziava per essere venuti a sostenerlo. E nonostante il completo nero che trasmetteva amarezza e dispiacere, nonostante le profonde occhiaie sotto quegli occhi brillanti, Sebastian continuava a guardarlo come se fosse l’essere umano più bello di quel mondo.
Wes salutò Sebastian mentre Blaine era alle prese con altre persone, amici di suo padre. Sebastian rispose al saluto con un semplice cenno del capo, continuando a guardare uno dei due Anderson. Dopo qualche secondo, fermi in quella posizione, Sebastian non si trattenne dal chiedere come stessero.
“Come si starebbe in una situazione del genere. Ma per fortuna hanno tante persone che li vogliono bene.”
“Bene”, disse, restando di un’espressione incolore. “Posso fare qualcosa?”
Wes lo guardò con la coda dell’occhio, prima di voltarsi da un lato e osservare le nuvole grigie nel cielo: “Non saprei. Non credo, comunque.”
In quel momento, videro Timothy raggiungere Blaine, abbracciarlo come si abbraccerebbe un uomo a cui dare le condoglianze. Un gesto simbolico, niente di più, niente di meno. Ma Wes trattenne un piccolo sorriso, quando disse: “Vado a recuperare mio fratello prima che consoli troppo Blaine.”
Non riuscì a godersi l’espressione di Sebastian, ma era sicuro che non fosse più freddo e composto come al solito.
 
Il funerale, in tutto questo, portò una cosa positiva: Cooper Anderson, il fratello maggiore di Blaine.
Arrivò di notte fonda coperto da impermeabile e cappello, per evitare di essere stato riconosciuto dalla gente e trovarsi in seri problemi. Blaine e Richard lo accolsero a braccia aperte, erano felici, sollevati, non vedevano Cooper da tanti anni, e quest’ultimo era dispiaciuto di essere venuto troppo tardi per il funerale.
Cooper viveva stabilmente in Europa, più precisamente, in Spagna. Era un grave rischio rimpatriare in America, soprattutto perchè era ufficialmente ricercato dalla Marina Militare, per un reato che, purtroppo, era stato fatto in buona fede.
Era un marines. Si era arruolato a ventidue anni. Adorava la sua vita, adorava fare qualcosa per il paese, ma ci fu un momento in cui il paese tradì lui: l’ufficiale con cui era a bordo si era rivelato essere un uomo viscido, che maltrattava i marinai, abusava di loro. Cooper e i suoi colleghi mandarono diverse lettere al quartiere generale, chiesero aiuto; ma dopotutto, a nessuno importava mai degli uomini che vagavano in mezzo al mare.
Così, si fecero giustizia da soli. Il tribunale lo chiamò ammutinamento. Cooper, in realtà, lo chiama aver salvato delle vite. Ma non importa quello che pensa lui, quello che importa è la taglia da venti mila dollari sulla sua testa per chiunque riesca ad avvistare il latitante e portarlo alle forze dell’ordine.
Non poteva farsi vedere lì; non poteva saperlo nessuno.
Blaine sapeva che suo fratello aveva corso un grave rischio, ma quando lo abbracciò, piangendo sulla sua spalla, pensò soltanto a quanto fosse felice di averlo lì.
“Insomma, fratellino, prima o poi verrai a trovarmi in Spagna?”
“Appena sistemate un po’ di cose”, Sorrise Blaine. Erano nella sua camera, intenti ad ascoltare dei dischi in vinile e parlare, come non facevano da anni. Avevano fatto un riassunto delle loro vite, avevano approfondito alcuni argomenti, avevano riso per battute che non erano nemmeno troppo divertenti, e stavano bene, loro due. Si volevano un gran bene.
Cooper scompigliò i riccioli del fratellino, sfoggiando un sorriso a metà tra l’innamorato e lo stupido: “Lo sai che prima o poi dovrai conoscerla.”
“Cooper, ti assicuro che verrò a conoscere Dolores.”
“Devi! Oh Blaine, non hai idea di com’è, è bellissima, è tutto ciò che potessi desiderare e-“
“E vi sposate a Giugno, lo so. Me lo hai ripetuto almeno ottanta volte.”
“Perchè voglio che tu venga al matrimonio”, ammise Cooper. “Non mi sposo senza il mio testimone.”
A Blaine venne voglia di abbracciare di nuovo suo fratello, fare la valigia e partire per la Spagna con lui quella stessa sera. Al solo pensiero di suo fratello che doveva prendere un treno in piena notte, sparì del tutto il suo sorriso.
“Non mancherò Coop. A patto che tu non metta più piede in America.”
“Fratellino, sono stato bravo, non mi ha riconosciuto nessuno! E qui non siamo a Brumswick, dove tutti sanno come mi chiamo.”
“Tutta l’America sa come ti chiami, Coop. Sei latitante da anni, ogni anno non fanno altro che rinfacciare la tua taglia e la tua descrizione in tutte le radio. Non si può mai sapere”, disse Blaine. “Visto quanto siamo sfortunati in questo periodo, non mi stupirei se qualcuno ti riconoscesse per la strada.”
“E tu? Sei fortunato?”
Blaine inarcò un sopracciglio. Non aveva proprio capito a cosa si riferisse.
“C’è un ragazzo in particolare di cui vuoi parlarmi?”
“No.”
“Ma Blainers!”
“No.”
“Lo dici perchè sono il tuo fratellone o perchè non c’è veramente?”
“Coop, no.”
“Ok, per entrambe. Ma dai, ci rivedremo tra mesi, ho il diritto di sapere se sei felice!”
“Io... io sono felice okay?” Mormorò aggiustando il risvolto di un cuscino, “Qui sto bene, mi sono fatto i miei amici e... sto bene.”
“Blaine.” Alzò la testa piano, giusto per vedere suo fratello mettergli una mano sulla spalla, la voce che sovrastava la canzone di sottofondo e passava oltre la finestra aperta. “Sai quanto sarei felice di sentire che anche tu hai trovato una persona da amare, e che non sei da solo?”
“Ma io non sono solo!”
“Lo sai cosa intendo dire. Non puoi continuare a-“
La loro conversazione venne interrotta dal campanello di casa. Blaine si allarmò quasi subito, scattando sull’attenti e preoccupandosi che fosse un poliziotto, un agente, qualcuno che aveva riconosciuto Cooper ed era venuto ad arrestarlo. Scese le scale a due a due, con il cuore in gola e la pelle d’oca sempre più crescente.
Invece, quando aprì la porta, davanti a sè trovò Sebastian con un libro e l’espressione alquanto scocciata: “Non funzionava il campanello?”
La sua espressione mutò di colpo non appena si accorse di chi avesse davanti.
“Oh. Blaine.”
“Sebastian.” Balbettò incerto lui: non poteva entrare. Avrebbe visto Cooper. Non poteva permetterlo. “Non... che ci fai qui?”
Si rese conto di essere sembrato davvero maleducato con quella domanda, nel momento in cui Sebastian assottigliò lo sguardo e si mise una mano in tasca, mosso dall’irritazione.
“Ero venuto a trovare tuo padre. Sai, per stare un po’ con lui. È in casa?”
“No.” Mentì. “E non voglio lasciarti alla porta, davvero... ma non è un buon momento.”
“E perchè?” Si sporse con il collo, giusto per intravedere, all’attaccapanni dietro di Blaine, un cappello e un impermeabile che appartenevano chiaramente ad un uomo, e che non aveva mai visto in vita sua.
“Oh. Capisco. Ho interrotto qualcosa a te.” Sibilò, passandosi una mano trai capelli.
“No. Cosa?! No! Non è come pensi, non c’è nessuno qui, davvero.”
In quello stesso momento, dalla finestra aperta di camera di Blaine provenì la risata sguaiata di Cooper, probabilmente perchè aveva ritrovato il loro vecchio album di foto. Ma Sebastian non le sapeva quelle cose. Sebastian sentì soltanto la risata di un uomo, dalla voce calda e profonda, e il sangue gli si raggelò nelle vene mentre Blaine balbettava delle scuse improbabili e lo supplicava di ascoltarlo.
“Che idiota che sono.” Sebastian stava parlando ad alta voce, più per la frustrazione che per altro. “Non volevo disturbarti con il tuo... amico. Ciao.”
“No, non è cos-aspetta!”
Ma Sebastian era già andato via, scendendo le scale di fretta, lasciando quel libro per suo padre sul cornicione accanto alla ringhiera e non degnando Blaine di nessun altro sguardo.
E Blaine, che voleva soltanto prendere a testate quello stesso cornicione e maledire quel destino crudele, si chiese nel frattempo se le cose non potessero andare peggio di così. Potevano.
Quella stessa sera, Blaine aveva accompagnato Cooper alla stazione ferroviaria. Era notte fonda, non c’era quasi nessuno, e quello aveva tranquillizzato il fratello minore più del dovuto.
Un uomo, un poveraccio che bazzicava sempre nei dintorni, si avvicinò a loro due. Era troppo ubriaco per riconoscere Cooper, ma i due fratelli si spaventarono lo stesso; nel momento in cui le minacce non sortirono nessun effetto, e quell’uomo si avventò su Cooper per prendergli il portafogli, il ragazzo si difese, come meglio potè. Lo spinse dalle scale e in quell’uomo rotolò giù, fino all’ultimo gradino.
“Devi andare”, gli disse Blaine, con la voce tremante e il fiato corto. “Cooper, devi andare, ora.”
“Ci vediamo in Spagna.”
“Sì. Sì, ti verrò a trovare va bene? Al matrimonio.”
Si abbracciarono come ultimo saluto. Non era l’abbraccio formale che Blaine aveva dato a Timothy nel giorno del funerale, o a qualunque altra persona. In quell’abbraccio c’era l’amore di due fratelli che erano spaventati e destinati a separarsi per chissà quanto tempo.
Era un qualcosa di difficile da identificare.
Quando Blaine aprì gli occhi, da oltre le spalle di suo fratello, riconobbe Sebastian dalla parte opposta della stazione intento ad aspettare un convoglio merci. E Blaine stava abbracciando un uomo con cappello e impermeabile, un abbraccio stretto e duraturo, dal quale non si stava ancora staccando.
Sapeva bene a cosa stesse pensando. Voleva chiamarlo: voleva dirgli che non era come potesse sembrare, che quello era suo fratello, suo fratello.
Ma Sebastian scosse la testa, e poi andò via.
 
 
 
Qualche giorno dopo, Blaine ricevette la visita di un agente della polizia.
“Devo farle alcune domande, signor Anderson”, gli aveva detto con il taccuino in mano e la divisa perfettamente inamidata, mentre Blaine stringeva il pomello della porta chiusa dietro di sè.
“Riguardo a cosa, agente?”
“Un uomo è morto in ospedale. L’autopsia indica che sia morto a causa di una caduta, dopo una lotta alla stazione tra le due e le tre di notte. Era giovedì ventisei.  In realtà, le cause della morte sono incerte: i dottori pensano che bevesse molto e avesse qualche danno interno, ma ci sarà lo stesso un’indagine.”
“Non capisco cosa dovrei fare io”, sussurrò Blaine. Era freddo e con la schiena dritta.
“Un testimone, un capotreno, dice di averla avvistata insieme all’altro uomo, con cui ha ingaggiato una lotta.”
Erano stati visti.
Erano stati visti.
“Non ero là.”
L’agente era sorpreso, per un attimo. Forse, si aspettava una risposta diversa.
“Ne è sicuro? La descrizione corrisponde perfettamente: un ragazzo alto un metro e settanta, con i capelli riccioli, la carnagione olivastra e gli occhi dorati. Non ci sono molti ragazzi del genere, qui a Norfolk.”
“Non ero là. Non so cosa stia parlando. Non ero con nessun altro uomo, quella sera. Stavo dormendo a casa mia.”
Sperò soltanto che la sua freddezza, nel dire quelle parole, non lo tradisse. Ma capì di aver colto nel segno quando l’agente chiuse il suo taccuino, emettendo una leggera smorfia.
“Capisco. Mi scusi per il disturbo, allora. Il testimone dev’essersi sbagliato.”
Blaine non pensava che sarebbe uscito indenne da quella situazione. L’agente sarebbe tornato sicuramente, gli avrebbe fatto più domande, lo avrebbe costretto a dirgli il nome dell’altro uomo, a scoprire tutto.
Passò tutto il giorno con l’ansia che divorava i suoi nervi, chiuso dentro la sua stanza ad escogitare un qualsiasi modo per trovare una via d’uscita. Se solo ci fosse stato Cooper, lui sapeva cosa fare; non poteva nemmeno parlarne a suo padre, visto che ancora era visibilmente scosso dalla perdita della moglie, non voleva dargli altri shock.
Quella notte non chiuse occhio, e nemmeno la notte ancora. Verso la mattina del giorno trenta, l’agente bussò di nuovo alla sua porta, e Blaine dentro di sè si sentiva svenire.
“Sono venuto solo ad informarla che l’indagine è stata chiusa, signor Anderson.”
Come?
“Co-cosa?”
“Abbiamo parlato con un altro testimone, che si trovava nel luogo del delitto quella sera. Ha detto di non aver visto nè lei nè l’aggressore. Il povero uomo è inciampato nelle scale, troppo ubriaco, ed è caduto da solo. Non ci saranno altre indagini.”
Non tornava. Non tornava assolutamente nulla. Blaine era lì, Cooper aveva spinto quell’uomo, il capo treno lo aveva visto, e adesso qualcuno stava negando tutta la verità, stava facendo chiudere l’indagine in modo quasi affrettato e premuroso; gli stava salvando la vita, come se volesse fargli un favore.
“Posso sapere... chi è il suo testimone che ha detto questa versione dei fatti?”
L’uomo controllò il taccuino rapidamente, per poi richiuderlo con uno scatto netto: “Sebastian Smythe. Adesso mi scusi, ma devo andare.”
“Ma certo. Grazie, agente. Arrivederci.”
Ma Sebastian lo aveva visto. Sapeva che era stato lui. Aveva giurato il falso, soltanto per proteggerlo? Aveva bisogno di sapere. Di parlargli. Blaine aveva capito così tante cose, in quei mesi, e dopo quest’ultima prova non aveva più bisogno di capire quanto si fosse maledettamente sbagliato sul suo conto. Sebastian non aveva nessun tornaconto a proteggere Blaine, anzi: probabilmente aveva un milione di modi per denunciarlo. Eppure, non l’aveva fatto. Eppure, continuava a fare tutto il possibile per lui, anche allora.
Blaine quasi non si era accorto di essere arrivato alla sua industria tessile: il viaggio era stato veloce, data la corsa forsennata.
Sebastian, come sempre, era nel suo ufficio, immerso nelle sue carte, con un’aria visibilmente preoccupata e i numeri dei fogli che erano più che triplicati.
Vide comparire Blaine dalla porta del suo ufficio e, questa volta, il suo sguardo non si addolcì.
“Sto lavorando.”
“Devo ringraziarti”, supplicò Blaine.
“No. Non ringraziarmi.”
“Ma-“
Sebastian si alzò di scatto, con forza. Parte dei fogli finirono a terra e Blaine trasalì chiudendo gli occhi per un momento, come spaventato. Camminò avanti e indietro, si passò una mano sul volto stanco e provato dal pochissimo sonno. Lo vide avvicinarsi e, per la prima volta, provò il desiderio di arretrare. Era così freddo. Così... insensibile. Come se non provasse la più minuscola emozione per lui.
“Non mi frega niente”, lo sentì sibilare, “Di chi sia quell’uomo, nè del rapporto che hai con lui. L’ho fatto perchè non voglio che tuo padre soffra ancora di più di quanto non stia già soffrendo.”
“Sebastian...” si sentiva la gola in fiamme, “Ti prego, non è come pensi. Lui, quell’uomo...”
Voleva dirglielo così tanto. Così tanto. Ma non poteva. Così, quando Sebastian lo incalzò, dicendogli di continuare, lui abbassò la testa ed era mortificato, perchè non potè dirglielo.
“Capo?” Un dipendente fece capolino nell’ufficio, con il cappello da lavoro completamente distrutto. “Ci sono dei problemi nel reparto due.”
Sebastian annuì, afferrando le chiavi dell’ufficio dalla ciotola sulla scrivania. Nel momento in cui fece per chiedere la porta, si voltò un’ultima volta verso di Blaine. E parlò come se le sue parole fossero lame.
“Giusto per la cronaca, qualsiasi stupida cosa provassi per te è completamente sparita. Era solo un abbaglio.”
Chiuse la porta di scatto, lasciando Blaine da solo in una stanza. Per la seconda volta.
 
 
“Blaine, è da molto tempo che non ti facevi vedere. Come te la passi?” Domandò Sam al suo migliore amico, mentre i bambini giocavano nel cortile fuori casa per la prima volta in tutta la stagione.
Blaine era dimagrito. Aveva smesso di uscire così spesso come prima, andando a far visita agli Evans. L’ultima volta era stata dopo l’indagine del poliziotto, perchè aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, qualcuno di cui si fidasse. Raccontò a Sam tutta la verità, dell’indagine, di Cooper, e di come Sebastian avesse dichiarato falsa testimonianza. Sam non aveva commentato, solo perchè il suo compito era ascoltare. Non aveva bisogno di dire a Blaine cose che sapesse già, o che poteva pensare benissimo da solo. Semplicemente, gli giurò che il suo segreto era al sicuro con lui, in nome della loro amicizia.
Blaine, dopo quel giorno, aveva smesso di uscire e basta. Non aveva più quello sguardo dolce e giovanile che contraddistingueva i suoi occhi chiari, adesso era vitreo, come privo di ogni espressione. Le sue labbra erano secche, rivolte in una smorfia sottile. Sembrava invecchiato, ma non di aspetto: di carattere.
 Accarezzò la tazza di caffè caldo offerta da Sam, senza berne nemmeno un sorso.
“Non sono io quello che non lavora da tre mesi, Sam.”
Arrivò dritto al punto, in una schiettezza che non apparteneva tanto a lui, quanto agli abitanti di Norfolk.
“Lo so.” Per la prima volta, lo vide ammettere qualcosa che negava perfino a se stesso. “Non so come fare, Blaine. Ho chiesto ai miei datori di lavoro se potessero riprendermi lì, ma... sono rinnegato da tutti. E i miei fratelli hanno sempre più fame, io...”
“Ehi.” Con una mano, raggiunse l’altra parte del tavolo, afferrando il polso del suo amico. “Sei forte. Lo sei sempre stato.”
“Potrei lavorare per ventiquattro ore al giorno, per quanto mi riguarda.” Era davvero distrutto, non lo aveva mai visto così. Adesso sembrava si fossero ribaltate le parti: Sam quello insicuro e perso, Blaine quello rassicurante, con quell’ottimismo che aveva quasi dimenticato di avere.
“Ma se nessuno mi dà lavoro, mi spieghi come faccio?”
“Sei sicuro di aver chiesto a tutti quanti gli industriali?”
“Tutti. O meglio, tutti quelli con i quali avevo una chance.”
“Hai chiesto a Smythe?”
Sam lo guardò incredulo, come se avesse appena detto una bestemmia.
“Smythe? Quello Smythe? Quello che ha assunto i cinesi soltanto per evitare lo sciopero indetto da me?”
“Sì. Lui.”
Dopo qualche attimo di esitazione, lo vide sospirare.
“... Sì. Ci sono stato. Non sono nemmeno arrivato al suo ufficio che mi hanno cacciato dalla piazza.”
“Riprovaci.”
“Sei impazzito?”
“Sam, riprovaci, per favore. Devi parlare con lui: parlagli dei tuoi fratelli, con il cuore in mano.”
“Mi rifiuto di dire una cosa del genere a uno come lui.”
“Ti darebbe un lavoro. Di sicuro.” Blaine non aveva nessun dubbio a riguardo; per questo Sam si sentì preso in contropiede. Il piccolo Thomas entrò in casa in quel preciso momento, con le scarpe piene di fango e dei segni da cowboy dipinti sulla faccia. Riuscirono a dire soltanto un’altra cosa, prima di iniziare a giocare con i bambini.
“Anche se mi prendesse, mi hanno detto che ultimamente sta avendo un sacco di problemi a livello di soldi. Sarebbe un po’ una presa in giro rinunciare al mio orgoglio e supplicare un lavoro, solo per vedere la fabbrica fallita dopo qualche mese.”
“Fallita? Dici che potrebbe chiudere?”
“Di questo passo non vedo come non potrebbe.”
Blaine quel giorno lesse i libri a Thomas, come promesso. Ma con la mente era da un’altra parte.
 
 

Sam andò da Sebastian a chiedere lavoro. Sebastian, in tutta risposta, lo cacciò via in malo modo, dicendogli che soltanto un pazzo avrebbe assunto uno pazzo quanto lui. Tuttavia, dopo soli due giorni, andò a casa di Sam. Nei sobborghi della città.
Nessun imprenditore era mai stato lì, nessun uomo ricco in generale. Ma Sebastian andò, con tanto di cappello e abito; si fece offrire una tazza di caffè dal ragazzo e ignorò i ragazzini urlanti che gli correvano intorno, chiedendogli come mai quel tipo fosse così tanto strano. A loro discolpa, non erano abituati ad avere ricchi in casa loro.
“Allora era vera la storia dei bambocci.”
Sam sollevò la sua sorellina, mettendola in piedi e mandandola a giocare con gli altri. “Avevi dubbi?”
“Sì. Ho anche dubbi sul fatto che tu possa davvero lavorare senza progettare una cospirazione contro di me.”
“Non lo farei. Ho bisogno di soldi.”
“Sappi”, la voce di Sebastian era bassa, minacciosa, “Che al primo secondo in cui ti vedo usare quel cervello per qualcosa che non sia il lavoro, sei fuori dalla mia fabbrica. Per il resto della tua vita.”
Poi, gli porse la mano, che Sam strinse dopo aver sfoggiato un sorrisetto divertito.
“Meglio che lasci il mio cervello a casa, allora.”
“Sì”, sentenziò, alzandosi e afferrando cappello e soprabito, “Sì, meglio.”
“Blaine me l’aveva detto, comunque.”
Sebastian si fermò sulla porta di casa. Immobile. Come folgorato.
“... Cos’hai detto?”
“Blaine mi aveva detto che mi avresti assunto.”
Sebastian fissò per dieci secondi il pomello della porta, prima di emettere uno sbuffo quasi impercettibile e andarsene via.
Con il passare dei tempi, Sam e Sebastian sarebbero diventati non solo colleghi, ma anche buoni amici.


Le giornate andarono avanti.
Blaine, dal canto suo, aveva cominciato a lavorare in una piccola scuola, come insegnante di musica ai bambini della scuola elementare. Era soltanto un sostituto, il vero insegnante era ammalato di polmonite; era un rimpiazzo, ma quel lavoro lo gratificava più di qualsiasi altra cosa al mondo.
Vedeva Sam di rado, troppo impegnato a lavorare con quell’azienda che era sempre più prossima alla chiusura; di Sebastian, poi, non c’era nemmeno l’ombra. Ma Blaine aveva suo padre, i bambini, ed era relativamente felice.
Ma il destino non aveva esaurito la sua crudeltà nei confronti di Blaine.
Accadde dal giorno alla notte. Un momento prima suo padre leggeva in salotto, e il momento dopo era in ospedale, mentre i medici dichiaravano l’ora della morte per via di un infarto fulminante.
Blaine, in meno di un anno, era diventato improvvisamente orfano. E perdere suo padre in modo così inatteso, così ingiusto, era un dolore che non riusciva in nessun modo a controllare.
Wes e Rachel vennero quasi immediatamente a Norfolk. Stettero con lui, per tutto il tempo necessario affinchè si riprendesse; tuttavia, nonostante il suo piccolo lavoro con i bambini, nonostante Sam, e altri legami costruiti durante quell’anno, Blaine non aveva più motivo di stare lì. Non da solo.
Sarebbe partito per stare da Wes, per tutto il tempo che voleva.
Era il giorno della partenza. La casa era stata completamente spogliata dei suoi effetti, le tende arrotolate da un lato, sperando che non prendessero troppa polvere. I tavoli, i mobili e tutto l’arredamento, sarebbe stato messo all’asta da Wes appena possibile.
Aveva perso suo padre. Niente di tutto quello poteva interessargli. Nemmeno Rachel, o Wes, o Sam che era passato a salutarlo e a dirgli che sarebbe passato a trovarlo. Aveva perso suo padre, e suo fratello non poteva tornare in America, perchè due viaggi a così poca distanza l’uno dall’altro erano troppo pericolosi. Ma era chiaro a entrambi che non sarebbe andato al suo matrimonio.
Si chiese cosa avesse fatto per meritarsi tutto quello.
“Blaine.” Wes gli accarezzò dolcemente una spalla. La macchina era pronta, lo aspettava davanti casa. Rachel era già uscita insieme agli ultimi bagagli, e Blaine si stava prendendo un attimo per salutare qualcosa. Non sapeva nemmeno lui cosa. Solo, sentiva che fosse giusto salutare quel luogo.
“Arrivo tra un attimo.”
“No, Blaine, volevo dirti... c’è Sebastian che vuole vederti.”
Fu quasi certo che il suo cuore avesse smesso di battere. Se solo suo padre non fosse morto per lo stesso motivo.
Sebastian sembrava distrutto quanto e forse anche più di lui. Entrambi avevano un aspetto trasandato e semplice, dei semplici pantaloni e camicia, un accenno di barba sulle guance, gli occhi arrossati e stanchi.
Blaine aveva sentito dei problemi che stava avendo con la sua azienda; gli dispiaceva, ma d’altronde non poteva fare assolutamente niente per aiutare la sua situazione. Forse, nessuno poteva.
Adesso erano l’uno di fronte all’altro, ed era passato così tanto tempo, che perfino quel rancore sempre presente in uno dei due sembrava quasi sparire.
“Quindi stai partendo.” Annunciò Sebastian, il tono relativamente calmo, le mani abbandonate lungo i fianchi.
“Sono felice che sei passato.” Blaine tentò di abbozzare un piccolo sorriso. Non ci riuscì. “Volevo darti il libro preferito di mio padre.”
Lo cercò nello scatolone abbandonato ai suoi piedi, per poi porgergli un piccolo volume dalle pagine ingiallite e lette sin troppe volte.
“Robinson Crusoe.” Sebastian sfiorò la copertina rigida con i polpastrelli. Aveva un sorriso malinconico. “Me l’ha fatto leggere lui. Mi disse che tutti gli uomini, prima o poi, vogliono trovarsi su un’isola deserta e costruire daccapo la propria vita.”
“Ha ragione.” Ammise Blaine, perchè avrebbe tanto voluto farlo. I suoi occhi pungevano terribilmente, e fu costretto a strofinarseli con la manica stropicciata della camicia. Sebastian sviò lo sguardo, forse, per trattenere anche lui le lacrime, o per non guardarlo piangere.
“Mi mancherà tuo padre.”
“Anche a me.”
Ci fu un momento di silenzio, nel quale gli occhi verdi di Sebastian si fecero più espressivi, e quelli di Blaine più intensi.
“Quindi... stai partendo.”
Ripeterlo non faceva meno male.
"... E non tornerai più?"
“Stammi bene, Sebastian.”
Si salutarono così. Nessun sorriso. Nessun abbraccio. Nessun gesto particolarmente efficace.
Blaine salì su quell’auto che cominciò a muoversi lungo la strada, e Sebastian restò sulle scale di casa con il libro di Defoe in mano, lo sguardo lontano, il desiderio di corrergli incontro, di urlare. Riusciva a intravedere le spalle di Blaine dal vetro posteriore dell’automobile.
“Voltati”, susurrò, mentre la macchina si faceva sempre più piccola.
“Voltati. Guardami.”
Non si voltò.
E Sebastian continuò a guardare la strada anche quando la macchina, ormai, non c’era più.
 

 
Non sarebbe questo il finale degno di una storia. Non sarebbe questo il modo con cui dovrebbe finire un amore, un amore che non aveva nemmeno avuto modo di iniziare, di esprimersi.
Blaine e Sebastian continuarono rispettivamente con le loro vite, una a New York, l’altra a Norfolk, due mondi sin troppo diversi e lontani.
Blaine, con il passare dei mesi, stava un po’ meglio. Non aveva sempre voglia di uscire, ma non disdegnava mai la compagnia dei suoi amici. Leggeva e aiutava Wes in tutte le sue faccende da ragioniere, fino a quando non arrivò il momento in cui Wes dovette aiutare lui: il padre di Blaine, prima di morire, aveva investito tutti i soldi in un’obbligazione che, il giorno della sua morte, aveva fruttato il triplo del rendiconto finanziario investito. Per Rachel era un segno di Dio per lui, per Wes un ultimo regalo di suo padre. Per Blaine, invece, era la certezza che fosse ricco, e che non gli importasse niente. Wes ci mise una giornata intera a spiegargli come utilizzare al meglio quei soldi, e l’unica cosa che aveva capito Blaine era che si poteva veramente fare soldi dormendo.
Fu solo quando lesse sul giornale la chiusura della fabbrica di Sebastian che gli venne un’idea.
 
 

Sebastian lavorò a pieno regime. Lavorò più di tutti gli altri. Ma l’impegno non sempre viene ripagato, e i ricavi dalle vendite non riuscirono a coprire tutte le spese, appesantite da macchinari troppo vecchi, troppo poco al passo con i tempi.
Sebastian firmò il contratto di bancarotta l’undici ottobre.
Camminava per la fabbrica vuota, abbandonata, senza il rumore delle macchine che rimbombava nelle orecchie e quel frenetico via-vai di persone sempre nervose e polemiche. Adesso, sembrava un convoglio di mezzi, di ferraglia, di stoffe buttate via, di pavimenti pieni di lanetta completamente bianchi. Osservava un po’ tutto e un po’ niente. In realtà, non sapeva come salutare decentemente quel posto così caro. Non sapeva come salutare il luogo in cui aveva visto Blaine per la prima volta.
“Capo?”
Sam Evans aveva il piccolo Tommy in braccio, mentre si avvicinò a Sebastian con un foglio contenenti diverse firme.
“Ti stavo cercando. Questa è una raccolta firme per tutti i lavoratori che sono ancora disposti a lavorare con te, in caso la fabbrica riaprisse. Ti diamo la nostra parola.”
“Grazie, Evans.” Era un bel gesto, doveva riconoscerlo. Non lo faceva stare meglio, però. Osservò il piccolo Evans alle prese con il suo libro così tanto complicato, e non riuscì a trattenere un minuscolo sorriso.
“Ancora con quel libro?”
Sam annuì, sollevandolo un po’ di più tra le braccia: “Non legge altro da mesi. È come ossessionato.”
Il piccolo Thomas leggeva con passo cadenzato, scandendo metodicamente ogni sillaba.
“«Ci sono altre cose da fare con quella donna prima di sposarla con Atkins.»”
Il sorriso di Sebastian si allargò giusto un po’ di più: “Oh fidati, non vuoi sentir parlare di matrimonio per ancora tanto tempo.”
“Questo capitolo glielo leggeva sempre Blaine.”
Sam stette bene attento a non perdersi l’espressione di Sebastian, nel sentir pronunciare quel nome.
“A proposito, sai come sta?”
“Dovrebbe essere a Brumswick dai suoi amici, credo.” Non parlava di lui da un sacco di tempo.
“Oh”, commentò Sam, “Io credevo che fosse andato in Spagna. Sai, da suo fratello.”
Quel nome lo colpì come un proiettile dritto in mezzo al suo cuore. Sebastian si voltò di scatto, gli occhi verdi sgranati e carichi di aspettativa. La lettera contenente tutte le firme era ancora stretta tra le sue mani, e Sam, con un sorriso, sperò soltanto che quel foglio fosse ancora integro, visto quanto lo stava stritolando.
“Fratello?”
“È quello che ho detto.”
Fratello? Blaine non ha un fratello. Non ha un fratello, o suo padre me l’avrebbe detto.”
“Beh, capisco perchè non te l’abbiano detto, è un latitante. Ma in realtà non ha fatto del male a nessuno, non ci ho capito molto, Blaine quando straparla è un po’ difficile da decifrare.”
“No aspetta un attimo”, Intervenne Sebastian, mettendogli entrambe le mani sulle sue spalle. “Come sarebbe a dire che ha un fratello?”
“Ma pensavo che lo sapessi”, ammise, con tutta onestà. “Era venuto qui per il funerale della madre. Non lo hai mai visto?”
Quella sera. Alla stazione.
Certo che lo aveva visto.
“Era suo fratello.”
Il sollievo contenuto nelle parole era grande quasi quanto quello nei suoi occhi.
“Era suo fratello”, ripetè, con un sorriso che diventava sempre più convinto, e dopo aver ringraziato Sam e scompigliato i capelli al piccolo Tommy, mise in tasca la raccolta firme dei dipendenti e si avviò verso la stazione.
 
 
“Blaine, sei sicuro di volerlo fare da solo? Posso venire con te, se vuoi.”
“Wes, va tutto bene, posso farcela. Insomma, se non so spiegare le cose economiche ti chiamerò.”
“Perfetto, amico.” Sorrise Wes abbracciando stretto Blaine. Erano alla stazione di New York. Essendo un crocevia per molte destinazioni, Blaine doveva prendere semplicemente un diretto per Norfolk e in serata sarebbe arrivato da Sebastian. Non sapeva ancora bene come fare, cosa dire e soprattutto come dirlo, ma ce l’avrebbe fatta. Doveva farcela.
L’altoparlante annunciò, con voce robotica, che il suo treno era in partenza.
Salutò Wes con un altro abbraccio, era stato un grande amico per lui, lo aveva aiutato così tanto. Ma adesso Blaine si sentiva meglio, aveva un obiettivo e avrebbe fatto di tutto per raggiungerlo. Per raggiungere Sebastian.
Forse, pensò tra sè e sè, con tutte le sciagure che il destino ha deciso per me, almeno questa volta avrò un colpo di fortuna.
Non aveva idea di quale colpo di fortuna stesse arrivando.
Perchè certamente esisteva il detto “Il mondo è piccolo”, ma non si aspettava in nessun modo vedere Sebastian scedere dal treno accanto al suo, con nient’altro che il suo corpo alto, slanciato, i suoi occhi verdi e i suoi abiti modesti, nemmeno troppo eleganti.
Anche se Sebastian stava da Dio con qualsiasi tipo di camicia, e Blaine lo constatò in quel preciso momento.
“Blaine?” Lo sentì chiamare, e i suoi occhi verdi erano diventati improvvisamente grandi, felici. Blaine aveva il cuore che rischiava di scoppiargli nel petto, ma corse comunque contro di lui.
“Che ci fai qui?”
“Stavo andando a Norfolk”, ammise con una sola mandata di fiato. “E... e tu?”
Sebastian si avvicinò a lui, era così bello con quel sorriso sulle labbra: “Sono stato a Brumswick.”
“... Cosa?”
“Pensavo di trovarti lì.”
A riprova delle sue parole, estrasse un piccolo ibisco giallo dalla tasca della camicia, e lo porse a un Blaine completamente stupito.
“Dove... dove l’hai trovato? Pensavo che non ci fossero più in questo periodo dell’anno...”
Sebastian inclinò leggermente la testa di lato, lasciando il piccolo fiore tra le sue mani.
“Devi cercare bene.”
Blaine sentì le guance andargli in fiamme. Ma Sebastian si era avvicinato giusto un po’ di più, come se quella cosa lo facesse impazzire.
Ma lui non poteva permettersi di implodere, non prima di avergli fatto quella proposta d’affari che aveva elaborato tutta la notte.
“Ascolta, devo parlarti di una cosa”, gli disse, con le guance e le orecchie ancora rosse e l’ibisco stretto tra le sue dita. Sebastian era seduto proprio accanto a lui, su quella panchina in cui Blaine stava sempre. Quella appartata, quella non vista da nessuno.
“Ho circa... quindici milioni di dollari”, annunciò, alzando lo sguardo. Aveva ripetuto quel discorso così tante volte, a se stesso, che adesso lo recitava a memoria come una sorta di copione.
“Al momento sono in banca e producono pochissimi interessi”, recitò le parole di Wes alla perfezione. Il punto difficile, però, arrivava adesso.
“Ho parlato con i miei consulenti finanziari... cioè, ho parlato con Wes, e-e insomma, stavo pensando, se vuoi prendere questi soldi e usarli per riaprire la tua fabbrica...” Lo sguardo di Sebastian si illuminò e, se possibile, il suo sorriso diventò ancora un po’ più dolce, mentre appoggiava un braccio sulla panchina, proprio dietro il collo di Blaine, e si avvicinava a lui guardando con intensità i suoi grandi occhi ambrati.
“Potresti darmi un tasso d’inflazione molto più alto.”
“D’interesse”, lo corresse lui.”
“D’interesse. Sì, interesse. Cioè, nel senso, non è un interesse personale, è soltanto una proposta d’affari, un accordo formale, con due parti.”
“Si dice tra le parti”, disse di nuovo Sebastian, ridacchiando appena, mentre si avvicinava sempre più lentamente a lui. Ed era troppo vicino. Troppo bello. E lo stava guardando come se volesse amarlo con gli occhi e Blaine non ricordava più nemmeno il suo stesso nome.
Perchè era ovvio che non fosse soltanto una proposta d’affari. Era ovvio che Blaine provasse qualcosa per lui. E restò in silenzio in quel limbo dentro al quale non sapeva se sarebbe sopravvissuto fino a quando, semplicemente, Sebastian gli prese il viso tra le mani, e congiunse le loro labbra in un lunghissimo bacio.
 Il primo di tanti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 8
*** Iblaine ***


Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .



 

Prompt: 4 sono le canzoni che voi dovrete utilizzare. 4 canzoni donate direttamente dalla riproduzione casuale e mi raccomando non barare, lasciate tutto in mano al caso. Può essere di tutto: uno dei due deve fare un provino ed è indeciso; uno vuole fare il romantico (fallendo) regalando una mini playlist all'amato con canzoni scollegate fra di loro; si incontrano in un talent o tante altre situazioni, ce ne sono tante lasciate libera la fantasia. Usate queste canzoni a vostro piacere e mi raccomando usatele tutte a quattro!



 

Sebastian quel giorno uscì di casa chiudendo piano la porta, stiracchiandosi appena le gambe fasciate da una tuta, mentre il suo fidanzato si avvicinava a lui e sussurrava “Buona corsa, amore”.
“Spero che ti venga un crampo”, rispose in tono acido Sebastian, e con quell’ultimo augurio Blaine fece i tre scalini di casa loro con un passo quasi leggiadro, prima di infilarsi le cuffie dell’Ipod e cominciare la sua corsa.
E lui, con un grande sospiro, fece altrettanto.
 
 
Sebastian amava Blaine. Era una condanna che aveva imparato ad accettare da tempo. Non sapeva nemmeno bene perché e, soprattutto, come diavolo facesse a sopportarlo ogni giorno, ma era così: Sebastian amava Blaine e ormai si era rassegnato a sentire il suo cuore battere all’impazzata per colpa di un “Amore” sussurrato che lui fingeva di detestare, o ancora peggio, per un semplicissimo sorriso. Un sorriso, dannazione, gli bastava così poco per farlo caracollare. Ma i sorrisi di Blaine non erano così innocenti e ingenui, oh no: erano delle armi letali. Degli oggetti di distruzione di massa. Perché Blaine aveva quelle labbra carnose e quegli occhioni da cucciolo e-diavolo, quanto era innamorato. A volte sperava di non esserlo, perché lui era Sebastian Smythe, e non si era mai visto Sebastian Smythe convivere con un ragazzo, buttato a capofitto in una relazione seria, ma invece era proprio così. E sotto sotto non gli dispiaceva nemmeno più di tanto.
Amava Blaine con tutti i suoi pregi e difetti, con le sue paranoie e i suoi esercizi vocali di prima mattina; lo amava quando piangeva per qualche video sentimentale trovato su Youtube – Youtube, vi rendete conto?! Su youtube si trova anche zio Paperino che balla l’Harlem Shake! – e si era completamente rassegnato alla cosa.
D’altro canto Blaine era gentile, lo amava con tutto il suo cuore e gli dava tanto sesso di qualità, il migliore della sua vita; non gli andava per niente male, quindi.
Ma da un mese a quella parte, Blaine aveva preso questo bruttissimo vizio di andare a correre. E insomma, c’è chi fuma, c’è chi beve, e c’è chi si alza alle sei di mattina, svegliando il proprio fidanzato, oltre tutto, soltanto per mettersi dei pantaloncini assolutamente illegali e sudare sotto al freddo e alle intemperie del tempo. E fin qui, per Sebastian, non c’era nulla di male: sapeva già di avere un ragazzo pazzo, oltre che assolutamente e maledettamente eccitante. In realtà, per il primo mese ci aveva trovato un certo gusto nel vederlo tornare a casa completamente madido di sudore, con i riccioli scompigliati che gli cadevano sulla fronte, il fiato corto, il volto arrossato e quei pantaloncini. Dio del cielo, quei pantaloncini.
Inutile dire che finiva puntualmente dentro la doccia insieme a lui.
Il problema era che dovesse correre anche lui. E perché diavolo doveva correre anche lui?! Lui non era un atleta, non praticava sport dai tempi del liceo in cui faceva tre ore alla settimana di Lacrosse: lui aveva da studiare, lavorare, leggere, dormire e quando, un giorno, aveva suggerito a Blaine di fare più attività fisica, intendeva a letto, non sull’asfalto del loro quartiere.
Beh, potevano anche farlo sull’asfalto del loro quartiere. Ma non correndo!
“Ma chi me l’ha fatto fare”, mugugnò cominciando a stabilire un certo passo, “Colpa sua. Sua e del suo culo incredibile. Che cazzo.”
Mentre arrivava all’angolo della strada, la gentile signora dell’alimentari lo salutò gentilmente con la mano, che lui ricambiò con un grugno: erano le sette di mattina e lui non era di certo uno di quei supereroi che avevano il sorriso pronto a tutte le ore. Ormai quella routine si ripeteva da più di una settimana e la signora non si scomponeva più.
Dall’altro lato della strada c’era un gruppo di bambini che cantava “Oh happy days” e, davvero, avrebbe voluto sotterrare le loro testoline dentro la neve soltanto per fargli capire quanto il suo fosse un “happy day”.
E al solo pensiero di Blaine che stava correndo per l’isolato opposto gli venne voglia di voltarsi e tornarsene a casa. Perché non bastava essere svegliato ogni mattina, anche di domenica, sentendolo sbuffare perché non trovava le scarpe, le magliette e i calzini; adesso doveva cercarli anche lui, le scarpe, le magliette e i calzini. E questo perché? Perché il suo ragazzo lo aveva convinto a correre insieme a lui, per allenarsi per la maratona di New York a cui aveva iscritto entrambi. ENTRAMBI.
Sebastian aumentò il passo, battendo i piedi sull’asfalto come se volesse spaccarlo in due.
Ricordava ancora la sua voce adorabilmente entusiasta nel dire: “Ma Sebastian! Sarà una bella esperienza da condividere insieme!”
Sì, una bellissima esperienza. Intanto non si allenavano nemmeno nello stesso isolato: ci avevano provato, per i primi due giorni, a correre insieme. Il risultato era stato che Blaine aveva il passo troppo corto per Sebastian – e qualcosa, nella sua mente, lo trattenne dallo urlare “tappo” – e Sebastian voleva sempre stare dietro a Blaine. Mica per altro, ma perché così godeva di una visuale a trecentosessanta gradi del suo culo stretto in quei pantaloncini verdi, ed era una cosa meravigliosa.
Fino a quando non inciampò contro il ramo di un albero, cadendo a terra e sbucciandosi gomiti e ginocchia.
Da quel momento, entrambi convennero che fosse meglio correre separati.
 
Sebastian terminò il secondo giro del quartiere, con il freddo invernale che stava congelando sempre più velocemente le sue ossa;  non era ancora arrivato a metà, doveva farne altri cinque per finire l’allenamento. Faceva così tanto freddo che, per distrarsi, decise di ricorrere all’ipod shuffle regalatogli da Blaine per godersi un po’ di musica.
Lo aveva comprato esattamente uguale a lui: stesso colore, stesso modello. Perché, ovviamente, essendo due fidanzati dovevano avere le stesse cose e fare le stesse cose, no?
No. Per niente. Ma Sebastian non era ancora riuscito a convincerlo di quella cosa; in realtà, era sempre Blaine che finiva per convincere lui, come per la cosa della maratona e degli allenamenti. Ma insomma, parliamone: Blaine aveva giocato sporco. Molto sporco. Perché non poteva presentarsi nella loro camera da letto completamente nudo, con soltanto un papillon rosso fuoco legato al collo, e pretendere che Sebastian ascoltasse almeno una sillaba di quello che stava dicendo.
Cioè, per quanto gli riguardava, poteva anche avergli detto “Andiamo a sputare dal cavalcavia” e lui avrebbe detto di sì a qualsiasi cosa.
Per questo motivo, il giorno dopo si era trovato iscritto alla maratona di New York e Blaine gli aveva regalato quell’Ipod. “Per augurarti un buon allenamento!” Gli aveva detto tutto sorridente.
Sì. Bell’allenamento, al freddo e con la neve ai lati della strada.
Quanto meno, pensò in quel momento, mentre stava per terminare il secondo giro, ho ancora un po’ di musica per svagarmi.
Ma nel momento in cui partì la prima canzone si accorse della grandissima tragedia: aveva preso l’ipod di Blaine. E Blaine aveva preso il suo.
Sarebbe stato meno traumatico scambiarsi le mutande. Ma ormai aveva quel lettore mp3 e, quindi, tanto valeva accenderlo.
“Gus, è una star, del teatro che fu-“ cominciò a cantare il dispositivo elettronico, e Sebastian fu preso dalla voglia di scaraventare arnese e cuffie dentro la neve perché, davvero, chi diavolo aveva voglia di ascoltare Cats mentre correva?! Già che i musical gli facevano profondamente schifo, forse perché cantavano in continuazione, forse perché le trame erano più banali delle pubblicità progresso, forse perché provava costantemente un odio viscerale verso la protagonista femminile – e poi la gente gli chiedeva perché fosse gay, ma vogliamo parlare di quelle vocine stridule spaccatimpani?! – e, forse, perché Blaine ogni volta lo obbligava a vedere lo stesso musical più e più volte, fino a impararne le battute a memoria.
Di fatto, non riusciva a vederci niente di entusiasmante nell’ascoltare quella donna dalla vocina stridula – che novità – parlare di un gatto che non recitava più. Una gatta, che cantava, riguardo a un gatto. A questo punto potevano anche ficcarci in mezzo un polipo che ballava, già che c’erano.
Con disprezzo, passò quasi con cattiveria alla seconda canzone, sperando che fosse leggermente migliore: non lo era. Anzi, se possibile, era ancora più assurda della prima, e non tanto per la melodia, e nemmeno per la voce del cantante: era in italiano.
E un ragazzo nato in Francia e cresciuto in America, che diavolo se ne faceva dell’italiano?
Blaine si era fissato con l’italiano da quando Sebastian aveva prenotato quel viaggio in Toscana per loro due; aveva provato a dirgli che non serviva imparare la lingua del posto, dato che, grazie a Dio, vivevano in un mondo globalizzato, ma non c’era stato niente da fare: ogni tanto lo sorprendeva seduto con quelle ridicole audiocassette a ripetere “Buongiorno, buon pomeriggio, buonasera”, in un accento che sembrava più spagnolo che italiano.
Non si stupì, quindi, di trovare quella canzone nel suo ipod. Era Blaine Anderson, e Blaine Anderson equivaleva a “canzone per qualsiasi cosa”.
Ignorò quel cantante dalla voce graffiata che parlava di Robin Hood – o forse no – e andò alla canzone successiva, mentre il quarto giro era praticamente terminato e Sebastian cominciava a sentire le gambe stanche, così come il fiato pesante.
Ci voleva una canzone che lo caricasse, che gli desse la grinta: un Queen, o un Bon Jovi, o anche un Metallica, magari.
Trovò i Lumineers. I lenti, noiosi Lumineers.
Sarebbero stati adatti per dormire, forse. O, al limite, per andare in bagno. Blaine li adorava, era andato a un loro concerto qualche anno fa e da allora Sebastian si sorbiva quella nenia continua ogni volta che lo vedeva cucinare qualcosa di buono per lui: di solito succedeva dopo una lunga giornata di lavoro o, semplicemente, quando aveva voglia di coccolarlo. Blaine cucinava sempre con i Lumineers in sottofondo, chissà perché: forse gli stimolavano la diuresi.
Ad ogni modo, Sebastian cominciò a chiedersi come diavolo facesse a caricarsi con quella roba, ma forse era stato sfortunato lui, forse quell’Ipod nascondeva della musica decente, da qualche parte. Doveva crederci, altrimenti non sarebbe mai arrivato alla fine del giro.
Andò alla traccia successiva soltanto per poter ascoltare un tizio che urlava qualche frase d’amore accompagnato da una chitarra mezza scordata.
Oh Dio no, tutto ma non quello: i Secondhand Serenade erano la sua rovina. Era un tizio mezzo stonato che scriveva cose assolutamente banali sull’amore e sulla bellezza di stare in due: le sue canzoni erano tutto un “Cuore”, “Sole”, “Amore”, “Calore” e tutte le parole che finivano in “Ore”. E Sebastian lo odiava. Lo odiava più della fila alla cassa di domenica pomeriggio, lo odiava più di qualsiasi altra cosa; l’unico modo in cui poteva sopportarlo, e ci riusciva discretamente, era quando Blaine arrangiava un loro pezzo per cantargli qualche canzone d’amore, soltanto loro due, nella loro piccola casa, in compagnia di un pianoforte o una chitarra. Perché, nonostante il testo dal tono tremendamente smielato che gli faceva venire voglia di tagliarsi le vene, quando Blaine cantava per lui la sua voce era soffice, i suoi occhi luminosi e quelle canzoni tutto ad un tratto diventavano incredibilmente carine. Okay, non esageriamo: Blaine era carino. Le canzoni erano decenti, ecco.
Iniziò un’altra canzone e poi tante altre ancora, tutte di uno stampo completamente diverso rispetto ai gusti di Sebastian, tutte melodiche, dolci, romantiche o sensibili.
E lui si rese conto, piano piano, che ad ogni singola canzone corrispondeva un ricordo di loro due; che fosse una cosa semplice, o una serenata vera e propria, la loro bellissima vita insieme era racchiusa dentro quell’Ipod. E, di fronte a quella consapevolezza, a Sebastian scappò un piccolo sorriso.
 
Aspettò Blaine sulle scale di casa loro, con il lettore mp3 stretto tra le dita fredde e il cuore che batteva un po’più forte, anche se aveva smesso di correre da diverso tempo. Si sentiva ancora un po’ stupido a emozionarsi così, ma oh, era innamorato. Terribilmente innamorato di un ragazzo romantico e adorabile, che amava così tanto da saper collegare ogni canzone del suo Ipod a loro due.
Stava davvero messo male.
“Sebastian!” Lo vide correre verso di lui, con gli occhi luminosi, la felpa che aderiva al suo corpo tonico e sudato, le labbra che si incurvarono automaticamente in un sorriso.
Baciò quel sorriso. E il suo cuore fece un’altra giravolta, ma ci era abituato.
“Ci siamo scambiati gli Ipod, genio.” Gli sussurrò a fior di labbra, stringendolo a sé noncurante del sudore e del freddo che li assaliva.
“Sì, lo so, me ne sono accorto. Hai ascoltato le mie canzoni? Ti sono piaciute?” Domandò Blaine con innocenza, attendendo una risposta come un bambino che attende il regalo di Natale.
“Sì, erano dolci, smielate e romantiche, come potevano non piacermi?”
“… Sei sarcastico?”
“Ah, a proposito: credo che mi siano cadute le palle verso metà strada, ma dopo torno a raccattarle.”
“Sei sarcastico. Okay.” Ma il broncio sul viso di Blaine durò molto poco, dal momento che Sebastian gli afferrò il volto tra le mani per baciarlo più approfonditamente.
“Blaine, devo dirti una cosa, ma prometti di non cominciare a saltellare in mezzo alla strada.”
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, annuendo leggermente allarmato. Sebastian prese un  lungo respiro e poi disse: “Sotto sotto non mi è dispiaciuto correre con le tue canzoni. Sembrava di correre insieme a te.”
Inevitabilmente, Blaine saltellò sul posto prima di abbracciarlo di nuovo. Era un caso perso.
“Ti amo anche io”, cinguettò sin troppo melenso. Ma nemmeno quel nomignolo riuscì a togliere il buon umore a Sebastian, perché aveva un fidanzato stupendo, si amavano e quei bambini dall’altro lato della strada avevano smesso di cantare. Finalmente. 
Blaine attirò la sua attenzione sventolandogli le cuffie del lettore mp3 davanti gli occhi.
“Sai, Master of Puppets mi ha dato un sacco di carica! Visto che hai detto che ti è piaciuto, d’ora in poi correrò con il tuo Ipod e tu con il mio, così staremo sempre sempre insieme! Non è fantastico?”
Sebastian diventò più pallido del solito, mentre Blaine continuava a guardarlo sognante, con un sorriso enorme e gli occhioni da cucciolo bastonato che pregavano per un sì.
Non doveva cedere.
Non doveva cedere.
Ma poi Blaine abbassò leggermente la testa e cominciò a guardarsi i lacci delle scarpe, come deluso e mortificato: “Ma se non ti va non importa…”
Oh, che diavolo.
“Certo che mi va. Sicuro.”
Blaine gli saltò addosso ancora una volta e Sebastian sospirò da solo. Chissà, magari avrebbe imparato anche lui un po’ di italiano grazie a Robin Hood. 

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Capitolo 9
*** Come in Grey's ***



Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .








Il McKinley Memorial è il miglior ospedale di Lima. Forse, perchè è anche l’unico.
Per una città che faceva, grossomodo, non più di sessantamila abitanti comprendenti giovani bambini con le loro sbucciature e anziani in dialisi, un ospedale bastava e avanzava. Tuttavia, i medici che ci lavoravano non erano affatto incompetenti: certo, non avevano grandi interventi, e la situazione più emozionante che poteva capitar loro era la signora Thompson, della mensa, che serviva pizza al posto del solito purè, ma erano felici. La vita di un vero medico non era come la descrivevano in Grey’s Anatomy, fatta di bombe, sparatorie, sesso, altro sesso e dottori super eccitanti.
Tuttavia, quando Nick vide Blaine attraversare le porte del loro ospedale, pensò che ci fossero degli elementi piuttosto somiglianti: con la divisa blu scuro coperta da un camice bianco, uno sbadiglio enorme e i capelli completamente arruffati... forse Blaine poteva essere definito il “Dottor Stranamore”
di Lima?
“Hai fatto nottata, Blaine?” Lo canzonò facendogli l’occhiolino e porgendogli il suo caffè nero e bollente, unico motore della lunga giornata che si prospettava loro. Blaine si passò una mano sul viso, accarezzandosi quel residuo di barba che non aveva fatto in tempo a togliere quella mattina; si sedette al loro solito tavolo, erano appena le sei e un quarto, il giro di visite cominciava tra mezz’ora.
Nick e Blaine erano stati compagni di college, di camera, di studio e insomma, erano compagni di vita. Si sostenevano l’un l’altro e il fatto di lavorare insieme li aveva uniti ancora di più. E in ospedale c’era sempre bisogno di qualcuno che potesse coprire le spalle.
“Puoi dirlo forte”, Sbuffò Blaine, “Ho fatto le cinque per studiare quel tomo gigantesco.”
“Gli esami sono tra due mesi, hai ancora un po’ di tempo, lo sai.” Nick sollevò il suo caffè dal tavolino e cominciò a giocare con il tappo di plastica. “Da quant’è che non ti prendi una vera e propria serata libera?”
“Nick, non me lo domandare, lo sai che sono domande che non si fanno.”
“Okay amico, come vuoi tu.” Era meglio non insistere quando Blaine era così di pessimo umore.
E così era cominciata un’altra delle loro identiche giornate, perchè sì: le loro giornate si ripetevano l’una dopo l’altra ed erano monotone, tutte uguali, non c’era mai un colpo di scena o qualcosa di inaspettato. Semplicemente, le ore del giorno si susseguivano quasi svogliatamente fino a raggiungere l’ora in cui si toglievano il camice e si mettevano un qualsiasi altro vestito comodo per tornare a casa.
Nick poteva quasi cronometrare ogni fase al minuto: ore sei e un quarto, caffè con Blaine. Ore sei e quarantacinque, orario di visite. Ore otto e mezza, altro caffè con Blaine. Ore dodici, pranzo. Da lì, poi, interventi di routine quali appendicite, operazione alle tonsille eccetera eccetera. Alle ore otto staccavano e andavano a mangiare qualcosa fuori, perchè erano troppo stanchi per cucinare, e perchè in qualche modo dovevano pur consumare il loro stipendio, dal momento che non uscivano mai di casa, troppo impegnati a studiare o dormire.
Dopo cinque anni che erano in quel posto, era quasi rassicurante sapere che c’era una monotonia di fondo, una banalità nell’avvicendarsi dei loro interventi che garantiva una certa tranquillità. A loro non interessavano le cose alla Grey’s Anatomy, volevano solo aiutare le persone, e quando qualcuno non moriva quel giorno, beh, era il meglio che potesse capitare.
Stavano parlando dell’appendicectomia di Nick quando Sebastian Smythe si sedette al loro tavolo senza troppe cerimonie, con un caffè fumante stretto tra le dita. Aveva sempre quell’aspetto impeccabile e quell’aria che niente al mondo riuscisse a turbarlo.
“Buongiorno sfigato. Blaine.” Aggiunse, allungando il suo sorrisetto. “Ancora a contare le pagine del libro di anatomia?”
“Sebastian.” Il tono con cui Blaine pronunciava il suo nome era sempre insolito; non si poteva dire se era arrabbiato, ironico, seccato o, più semplicemente, inespressivo. “Buongiorno anche a te. Sempre in elegante ritardo.”
“Un chirurgo plastico può permettersi di dormire un po’ di più. Sai, per la pelle.” Sfoggiò un sorriso che, in genere, stendeva tutte le infermiere presenti nella stanza. “E tu invece, mio caro chirurgo generale?”
Blaine alzò gli occhi al cielo e poi si scambiò un’occhiata con Nick, intendendosi alla perfezione e lasciando sorvolare la domanda. Non odiavano Sebastian, non davvero, era un ottimo chirurgo: il problema sorgeva nel momento in cui lo ostentava di fronte a qualsiasi essere vivente.
“Sapete, la ragazza a cui ho costruito il naso mi ha portato un pacchetto di cioccolatini.”
“Ti prego”, Esordì Nick, “Non iniziare la tua filippica su quanto il tuo lavoro sia meglio de nostro.”
“Ma lo è.” Si sistemò meglio sulla sedia, incrociando le braccia al camice pulito e stirato. “Aiuto le persone ad avere autostima, si vedono belle e sono più felici. E sappiamo tutti che la felicità scatena una reazione a catena di placebo che garantisce una maggiore longevità, nonchè una minore propensione alle malattie. E vedere i loro volti soddisfatti, nonchè il mio conto in banca pieno – ghignò – è tutto ciò che desidero. Dopotutto, che altro potrei desiderare? Io sono bellissimo di natura e senza bisogno di interventi.” I due ascoltatori fecero una smorfia, che assomigliava vagamente a un sorriso: avevano sentito quel discorso così tante volte che ormai lo trovavano solo divertente.
“E voi, invece? Voi che fate, oltre che a essere dei terribili macellai? A parte Blaine, si intende.”
“Salviamo delle vite”, Ribattè Nick, e Blaine stava per aggiungere qualcosa scuotendo la testa, ma venne interrotto da un sonoro starnuto.
“Visto?” Sebastian gesticolò verso di lui con fare trionfante, prima di cercare nella tasca del camice un fazzoletto. “Se non ci tenete al vostro aspetto esteriore, ne risentirà anche quello interiore. Infatti Blaine è malato.”
“Non sono malato”, Rispose lui come un bambino capriccioso, continuando a tirar su con il naso. Quando sfiorò le dita di Sebastian per prendere il fazzoletto, lo guardò per un secondo. “Grazie.”
“Figurati Killer.”
Gli dava tremendamente fastidio quel soprannome: insomma, non era proprio il massimo chiamare un chirurgo “Killer”, no?
“Ma dal basso della mia conoscenza da chirurgo plastico”, Lo scrutò inclinando leggermente la testa, “Secondo me ti stai per prendere un bel raffreddore.”
“Sono un medico”, Sentenziò lui, “Il mio compito è curare gli altri, non me stesso. E infatti adesso devo andare, oggi pomeriggio ho un’operazione.”
Sebastian lo osservò mentre finiva di bere il suo caffè, intrecciando le mani sulle gambe e non battendo ciglio nemmeno per un secondo: “Operazione difficile?”
“No... è soltanto lunga. Speriamo che vada tutto per il verso giusto.”
“Ma certo che ci andrà”, Ribattè lui. “Insomma, se la facesse Nick avrei qualche dubbio, ma non con te.”
Mentre Blaine arrossiva, Nick finse una risata scettica aggiungendo un “Quanto sei divertente”, ma Sebastian lo ignorò.
“Ah Blaine”, Lo richiamò, come se si fosse appena ricordato di qualcosa. “Devo chiederti un consulto per un paziente. Ce li hai dieci minuti?”
Blaine lo guardò da dietro il bicchiere, facendo una lunga pausa. Sembrava stesse riflettendo sui suoi impegni, mentre non distoglieva lo sguardo dalle iridi verdi di Sebastian. Alla fine disse di sì.
“Non ho molto tempo, però possiamo occuparcene adesso.” Si alzò in piedi nel suo stesso momento, con Sebastian che accartocciava il suo bicchiere di carta.
“Grazie. Non ci vorrà molto, te lo assicuro.” Salutarono Nick, che rispose disinvolto con un cenno della mano, e insieme si avviarono verso il terzo piano dell’ospedale, dove c’era la stanza delle radiografie, delle T.A.C. e molto altro ancora.
 
 
“Davvero Sebastian, ho soltanto dieci minuti”, Ansimò Blaine mentre si faceva sbattere al muro della piccola stanza, con Sebastian intento a baciargli il collo e slacciargli i pantaloni.
“Mi bastano. Certo, preferirei fare le cose con più calma, per poter fare questo...” Gli leccò il pomo d’adamo gustandolo piano, come un piccolo gioco proibito che amava con tutto il suo cuore. Blaine, premuto contro di lui, gemeva sottovoce, una mano era ancora appoggiata sulla maniglia della porta chiusa a chiave.
“O questo”, sussurrò, accarezzandogli l’eccitazione da sopra i boxer grigi, facendolo impazzire giusto un po’ di più.
“Sebastian.” Non riusciva a dire altro se non il suo nome. E a Sebastian quella cosa piaceva da morire.
“Chi hai da visitare questa mattina?” Si sentì chiedere con voce languida, mentre i suoi pantaloni scendevano sempre più in basso e la maglietta del camice sempre più in alto, mostrando la pelle abbronzata e l’irresistibile v dei suoi fianchi.
“La Robbins... e la signora Tate...”
“Tutte vecchie che oggi non devono morire.” Sorrise contro le sue labbra, lasciandogli un bacio che sapeva di passione, di proibito, di eccitazione e di saliva. “Abbiamo più di dieci minuti.”
“Sì”, Confermò Blaine. Si aggrappò al corpo di Sebastian cingendogli il collo con le braccia e lo ripetè ancora una volta. “Sì, abbiamo più di dieci minuti.”
Sebastian ridacchiò a un centimetro dal suo viso. Lo sollevò da terra, afferrandolo per il sedere e portandolo lentamente verso la brandina posta all’angolo della stanza. Blaine lo baciava piano, timido, con una punta di coraggio quando le loro lingue si scontravano e facevano gemere entrambi.
“Sai, riguardo quel consulto...” Iniziò Sebastian, facendolo adagiare senza troppa dolcezza sul letto, mentre Blaine gli sfilava la maglietta.
“Volevo chiederle, dottore, un parere sul tipo di manovra da usare per un intervento. Secondo lei è meglio una penetrazione da dietro o una frontale?”
“SEBASTIAN”, Urlò Blaine, ma subito dopo si pentì di averlo fatto e con le guance in fiamme andò a tapparsi la bocca.
“Frontale, eh? Mhm sì, in effetti la preferisco anche io.”
Blaine lo pizzicò sul fianco, ridacchiando piano. Era ancora rosso in viso, così Sebastian si chinò a baciargli il collo aspettando che si calmasse un poco.
“Sai, questa tua timidezza da studentello in calore è ancora incredibilmente eccitante.”
“Anche dopo un anno?”
“Non hai idea”, Gemette, quando Blaine cominciò a toccarlo. I loro corpi erano premuti l’uno contro l’altro, i loro visi poco distanti, i loro respiri erano fusi in un solo ansito, piccolo, lascivo, come qualcosa di nascosto e di trepidante. Fu solo quando Sebastian scoppiò in una piccola risata che Blaine, per un attimo, perse la concentrazione su quello che stava facendo.
“A che pensi?” Gli venne da sorridere automaticamente perchè, beh, la risata di Sebastian era davvero bella.
“Alla prima volta che ci siamo conosciuti. Mi avevi scambiato per uno del primo anno...”
“Che ne sapevo io che ti eri trasferito dall’ospedale di Westerville?” Ribattè guardandolo negli occhi prima di baciarlo un’altra volta, e poi un’altra, mentre i loro corpi si muovevano a sincrono, a ritmo dei loro sospiri.
“Ammettilo che me l’hai chiesto soltanto per capire se potevi scoparmi oppure no”, canzonò Sebastian. Blaine arrossì appena, ma invece di rispondergli verbalmente cominciò a toccarlo con più forza, lasciandolo per un bel po’ senza parole.
“Ti stai confondendo. Quello che voleva portarmi a letto sei sempre stato tu.”
“Oh sì. Assolutamente sì.”
E non sapeva bene se si riferisse alla sua affermazione, o al modo con cui adesso aveva ribaltato le posizioni, cominciando a leccargli il petto, i capezzoli, gli addominali, fino a scendere più in basso.
“Mi avevano parlato così tanto di te...” ammise Sebastian con un filo di voce, mentre le sue mani andavano  a scompigliare i capelli riccioli di Blaine, stringendoli e tirandoli quando il piacere diventava più intenso.
“Non credevo che la realtà potesse reggere le aspettative. E invece-Dio, quanto mi sbagliavo.” Disse proprio quando Blaine cominciò a stuzzicarlo con cura, godendosi ogni fremito, ogni variazione di colore nella sua voce, il suo corpo caldo che moriva dalla voglia di unirsi al suo.
Blaine si staccò da lui con un sorriso sulle labbra, come ripensando a qualcosa di incredibilmente divertente mentre Sebastian era lì, sotto di lui, che si chiedeva perchè diavolo si fosse fermato.
“Ma ti ricordi di quando hai chiesto alla signora Thompson il Corvousier da mettere nel caffè?”
“Sì. Senti Blaine, perchè non parliamo un’altra volta dei bei tempi andati?”
Si mise a sedere per prendergli il volto tra le mani e baciarlo con foga, lasciando che la risposta soffocasse sulle sue labbra e afferrandogli con fermezza i fianchi, mentre lo faceva stendere di nuovo sotto di lui, e si baciavano, gli occhi chiusi e la luce del sole che filtrava dalle persiane della piccola finestra, illuminando i loro corpi.
Blaine si aggrappò a Sebastian, Sebastian cominciò a succhiare e mordere una parte del suo collo e decisero, in quel momento, di non aver più voglia di parlare. Il loro dialogo fu uno scambio di gemiti, lingue, frasi spezzate a metà e imprecazioni sottovoce. Era il corpo di Sebastian che entrò in Blaine con decisione e trepidazione, era Blaine che inarcò la schiena invocando per l’ennesima volta il suo nome; era quella frizione deliziosa di due persone che si trovavano perfettamente a loro agio.
E Sebastian, lui, non aveva mai trovato qualcuno come Blaine. Ed era stato con tanti ragazzi, nella sua vita. Ma Blaine, lui era più che eccitante, era più che seducente, era un frutto proibito che lo aveva trascinato in un inferno dal quale non sarebbe più tornato indietro. Era il modo con cui si mordeva il labbro quando spingeva più forte, era il suo nome pronunciato con voce impastata, erano i suoi occhi scuri, carichi di piacere mentre lo guardavano e pregavano ancora, ancora, ancora.
Era la voglia che aveva di baciarlo e mordergli un labbro e succhiare una parte del suo collo e farlo venire tanto, a lungo, in tutti i modi possibili. Voleva prenderlo così forte da fargli mancare il fiato, voleva vederlo gemere sotto di lui, sentire le sue mani che lo cercavano e stringevano, afferravano, toccavano avendo perso ogni minuscola timidezza.
Era il punto in cui entrambi venivano colti da un piacere indescrivibile quasi nello stesso momento, i loro corpi che si accasciavano l’uno contro l’altro, le loro labbra a distanza di un bacio, tremanti, sopraffatte dai respiri dilungati.
E Blaine era il piccolo bacio sulla spalla che gli lasciava ogni volta che si abbracciavano e restavano vicini, lasciandosi riposare per dieci minuti prima di doversi rivestire e riprendere le loro vite.
 
 
 
“Avete finito il vostro consulto?” Chiese Nick a Blaine e Sebastian non appena si aprirono le porte dell’ascensore. Erano vestiti, ordinati e composti, come spettava a due chirurghi in procinto del loro esame da specializzando. Blaine fece una smorfia, Sebastian mise le mani in tasca e tutti e tre aspettarono che le porte si chiusero di nuovo per poter parlare, arrivando fino al sesto piano.
“Se posso darvi un consiglio, evitate di essere così palesi”, decretò Nick. Sebastian si strinse nelle spalle, non era un affare che gli riguardava; Blaine, invece, tossì come imbarazzato: “Non se n’è accorto nessuno...”
“Blaine, lo sanno tutti”, Scandì Nick, proprio mentre le porte dell’ascensore si aprivano. “In realtà, credo che l’unica persona che ancora non lo sa sia-“
Amore!”
Josh Samuelson spalancò le braccia in direzione di Blaine, che sbiancò improvvisamente mentre si faceva stringere in un abbraccio, ricambiando giusto un attimo dopo e cercando di contenere il cuore che rischiava di scoppiargli via dal petto. Era il classico dottore alto, bello, biondo e con un sorriso perfetto, insomma: detestabile al cento per cento.
“Non ti ho visto per tutta la mattina, che fine avevi fatto?”
“Sono stato con...” Si morse la lingua. “Con Nick. Sai, per il giro di visite.”
“Sì, abbiamo avuto dei problemi con... la signora Tate.” Aggiunse Nick alla svelta, fingendo di cercare qualcosa nel suo cercapersone. “Devo andare. A dopo.”
Sebastian lo salutò con un cenno della testa mentre Blaine, più esaustivo, gli disse che si sarebbero visti a cena. Erano i loro modi per ringraziarlo.
“Ah, capisco.” Josh gli prese la mano con delicatezza, intrecciando le dita alle sue. “Tutto bene ora?”
“Sì, sì davvero, non potrebbe andarmi meglio.”
Evitò accuratamente lo sguardo di Sebastian.
“A te com’è andata con... i pazienti?”
“Sempre se si possono definire pazienti i denti che devi sturare.” Sentenziò Sebastian. Blaine e Josh si voltarono quasi all’unisono, il primo con un’espressione seccata e il secondo più neutro, normale.
“So bene che non approvi il mio lavoro, Sebastian, ma non mi interessa.”
“Oh no, non fraintendermi, io amo i dentisti. Senza di loro chi si occuperebbe delle carie dei marmocchi e degli obesi? Mi offende solo che ti reputi un dottore a pari merito con me e Blaine.”
“Lo sono. Ho fatto i tuoi stessi anni di medicina, Smythe, e forse anche di più.”
“Oh beh, diciamo che io non avevo bisogno di studiare anatomia su dei libri, dal momento che avevo tanti corpi con cui lavorare.”
“Josh, coraggio, andiamo via.” Blaine lo prese per mano strattonandolo un po’ verso di lui. Non guardò Sebastian. Non gli lanciò un’occhiata scettica o qualsiasi altro riferimento che facesse intendere quanto fosse stufo; in realtà, sapeva benissimo che lui e Josh non erano mai andati d’accordo e mai lo sarebbero stati. Erano, fondamentalmente, diversi: Josh era dolce, premuroso, lo amava e lo riempiva sempre di attenzioni. Sebastian era... Sebastian era tutto il resto.
Era passione. Desiderio. Intimità, complicità. Libertà totale in qualsiasi aspetto.
Blaine ormai non si sentiva più in colpa per quello che faceva, lo faceva da troppo tempo. Sperava soltanto che, prima o poi, avrebbe avuto il coraggio di dirlo al suo fidanzato. O di chiudere con Sebastian, nel caso.
Il punto era questo: lui aveva bisogno di entrambi. Perchè Sebastian non voleva una storia seria e questo era il principale motivo per cui finivano a farlo di nascosto agli orari più improbabili.
Sebastian non voleva niente di più da lui. Ecco perchè Blaine stava ancora con Josh. Ecco perchè sperava sempre che non lo venisse mai a sapere, mai.
Sebastian lo guardò e basta, mentre si allontanava mano nella mano con il suo fidanzato.
Gli scappò uno starnuto. Ma quella piccola cosa, invece di infastidirlo, lo fece sorridere.
A quanto pare Blaine era veramente raffreddato, dopotutto.
 
 
“Sei raffreddato?”
“Non per colpa mia”, Sbottò Sebastian a Nick, lanciando un’occhiata verso Blaine. Avevano entrambi gli occhi arrossati, il naso tappato e il respiro pesante. Blaine posò il caffè sul tavolino davanti a loro, non aveva nessun sapore e gli era passata la voglia di berlo. Erano passati tre giorni e quel raffreddore sembrava soltanto peggiorare. Dopo il quinto starnuto consecutivo Nick sollevò un sopracciglio piuttosto preoccupato, non sapeva decidersi se stesse peggio il suo amico storico o il suo amante.
“Certo che siete intelligenti”, Commentò, “Anni e anni di medicina per cosa? Beccarsi un raffreddore.”
“Non pensavo di essere così raffreddato”, disse Blaine a sua discolpa ma, scetticamente, gli altri due lo guardarono male. Insomma, loro erano medici, non si ammalavano mai, giusto? E allora perchè si sentiva le gambe deboli, la testa rimbombare, il naso arrossato e la gola raschiata?
“Forse è meglio che vada a casa.”
“Oh no, adesso resti qui con me e finisci il turno.”
“Sebastian, mi sento morire.”
“Ti arrangi killer, così impari ad attaccarmi il raffreddore con i tuoi stupidi germ-“
“Oh andiamo, adesso sarebbe colpa mia?”
Sebastian lo guardò torvo, estraendo l’ennesimo fazzolettino dalla tasca: “Di chi era il raffreddore?”
“E di chi era il consulto?”
“Ragazzi-“ Tentò di dire invano Nick, con voce allarmata, ma loro due erano troppo presi a litigare per badare a lui. Succedeva sempre così: finivano per scordarsi del resto del mondo.
“No Nick, adesso devo insegnare a Blaine un po’ di medicina elementare. Dimmi un po’ Anderson, quali sono i sintomi più comuni del raffreddore?”
“Ragazzi...”
“Starnuti, produzione abbondante di muco, congestione nasale, mal di gola, tosse,”- cominciò a dire Blaine con voce saccente, “Mal di testa, sensazione di stanchezza, irascibilità, nervosismo, spossatezza... oh, aspetta un attimo, questo non è il raffreddore, questi sono i sintomi che mi provochi tu!”
“Sei in vena di scherzare oggi, eh?” Ribattè dopo essersi soffiato il naso. “Ti manca l’elemento fondamentale, Blaine: si trasmette via aerea oppure attraverso contatto diretto delle-“
“Che sta succedendo qui?”
Si voltarono di scatto tutti e due, con Nick che si metteva una mano sul volto; voleva sotterrarsi, forse, oppure non voleva assistere alla scena che stava per accadere. Josh era in piedi di fronte a loro con un paio di caffè fumanti, la tipica espressione di chi stava mentalmente e meccanicamente facendo due più due a molti calcoli lasciati irrisolti con il passare dei mesi.
“Blaine? Di che stavate parlando?”
Blaine era paralizzato. Non sapeva cosa dire. Non sapeva quando e quanto avesse sentito. Si limitava a fissarlo incredulo, la bocca semi-aperta, il cuore che batteva all’impazzata e cercava le parole, le cercava sul serio; uscì soltanto un “Josh” pronunciato con tono quasi disperato, che non lo rassicurò proprio per niente.
“Stavamo parlando di raffreddore”, terminò Sebastian. Josh lo guardò incolore, aspettando che proseguisse. “Dal momento che lo abbiamo entrambi, io lo stavo accusando di avermelo attaccato e si stava scherzando su questa cosa.”
“Scherzando?” Replicò, assottigliando il suo sguardo.
“Certo. Stavo insinuando che me l’ha attaccato... che ne so, andando a letto insieme.”
Meno male che Blaine aveva posato la tazza di caffè prima, altrimenti si sarebbe soffocato con il caffè.
Avrebbe anche voluto dare uno schiaffo a Sebastian e chiedergli che diavolo stesse facendo, ma una parte di sè ammise a malincuore quanto quell’idea fosse geniale: forse Josh ci avrebbe creduto, conosceva Sebastian, sapeva della sua indole scherzosa e piccante.
Infatti, dopo qualche secondo, lo vide liberarsi in una risata rassicurante, che gli tolse un profondo peso dal cuore.
“Lo sapevo! Voglio dire, era ovvio. Ah ah, Sebastian, sei troppo simpatico!” Esclamò dandogli una pacca sulla schiena. Sebastian si limitò a fare uno di quei sorrisi che non volevano dire assolutamente niente: “Da morire.”
Ma Blaine non si era ancora calmato del tutto per quella faccenda: aveva un brutto presentimento e, infatti, si sarebbe confermato poco dopo.
 
 
“Allora?”  Gli chiese Josh una volta saliti in macchina. Il veicolo era spento, il parcheggio sotterraneo dell’ospedale era in penombra e silenzioso, c’erano soltanto loro due. Dovevano avviarsi per andare a casa di Blaine, ma Josh non sembrava intenzionato ad accendere il motore.
“Allora cosa?” Blaine fissava il vetro del finestrino. Non c’era molto da vedere, ma sempre meglio del volto arrabbiato del suo ragazzo.
“Blaine. Non sono idiota. Non credi che sia ora di dirmelo?”
“Non so di cosa stai parlando”, Sussurrò, tirando su con il naso. Maledetto raffreddore. Stava per soffiarselo e trattenere uno starnuto, quando Josh gli bloccò il polso: “Di questo. Del raffreddore che ha colto misteriosamente te e Sebastian.”
“Josh, andiamo, è soltanto un raffreddore.”
“Davvero, Blaine?” Lo costrinse a guardarlo. Gli occhi azzurri erano freddi, vuoti, inquisitori.
“E che mi dici delle consulenze alle sei di mattina, o ad altri orari improbabili? Su quale paziente ti chiede consiglio?”
Blaine balbettò senza dire qualcosa di concreto. “Non... sono diversi pazienti...”
“Sì, infatti, Nick mi ha detto della signora Tate. Ho scoperto soltanto oggi che la signora Tate è una donna in coma farmacologico da cinque anni.”
“Josh, ti prego-“
“No Blaine. Questa storia è andata avanti fin troppo. Credi che non notassi le frasi che vi lanciate tu e Sebastian? Il modo con cui vi guardate? Il caffè che ti offre ogni giorno? L’intimità che avete?”
Come si guardavano? Lui non ci aveva mai fatto caso. Lui pensava di essere stato sempre attento, sicuro.
Josh sospirò dopo diversi secondi, scuotendo piano la testa.
“Non importa. Forse è meglio così.”
“...Che intendi dire?”
“Che anche io ti ho tradito.”
Oh.
Quello non se lo aspettava.
“Come... quando...?”
“Non te ne sei nemmeno accorto, vero?” Ridacchiò come sconfitto, lasciandogli andare il polso per appoggiare stancamente le braccia al volante, affondandoci la testa.
“Si chiama Eli è... l’infermiere di ostetricia.”
Cos’era quel tono? Quella vena di dolcezza nelle sue parole, nel modo con cui aveva pronunciato il suo nome? Gli ricordava qualcosa, e poi realizzò: anche lui aveva quell’espressione quando nominava Sebastian. Aveva presente chi fosse Eli: alto, magro, castano, occhi dolci. Non sapeva nemmeno che fosse gay. Ma soprattutto, perchè stava pensando a quelle cose? Blaine aveva gli occhi spalancati guardando un punto fisso del parcheggio: quello era il momento in cui si sarebbe dovuto arrabbiare, avrebbe dovuto sfasciargli la macchina, piangere, dirgli quanto fosse stato ingiusto.
Non riusciva a capire se fosse calmo perchè sapeva di aver fatto la stessa cosa, oppure perchè...
“Non ci amiamo.”
Quella frase gli uscì senza pensarci.
“Non ci amiamo, Josh, altrimenti non... non ci saremmo comportati in questo modo.”
“Lo so.” Ammise l’altro, guardandolo con la coda dell’occhio. “Blaine, mi dispiace così tanto.”
“No, no, cosa dici? Dispiace a me.”
Si guardarono per qualche altro secondo, ma avevano già capito: Blaine uscì dalla macchina e si avviò verso casa di Sebastian perchè, semplicemente, aveva bisogno di parlare anche con lui.
 
 
Quando Sebastian gli aprì la porta, per poco non gli cadde il bicchiere di vino che teneva in mano: lo guardò confuso e, allo stesso tempo, felice di vederlo, mentre lo faceva entrare con un sorriso e gli disse di accomodarsi. Indossava una semplice tuta con un cardigan scuro e i capelli non erano fissati e pettinati come quando era al lavoro ma, oh, che importanza aveva? Sebastian era sempre bellissimo. Così tanto che Blaine si trovava quasi a sospirare.
“Mi sono lasciato con Josh”, disse tutto d’un fiato, dopo che entrambi si erano seduti sul divano, Sebastian accanto a lui. Sembrava davvero sorpreso. E confuso. Ma non dispiaciuto.
“Che-Che cosa?!”
“Mi ha tradito.”
Ecco. Adesso era arrabbiato.
“Lo ammazzo”, disse a denti stretti, appoggiando il vino sul tavolo prima che potesse stritolarlo. Si voltò completamente verso di Blaine, i suoi occhi verdi lo scrutavano indagando se ci fossero residui di pianto nei suoi.
“Sto bene, Sebastian. E non c’è bisogno di prendersela. Anche io l’ho tradito, oppure te lo sei scordato?”
“Ma con te è diverso.” Disse sovrappensiero. Tanto che Blaine fu costretto a chiedergli: “In che senso?”
“Nel senso che lui è un coglione, ma chi cazzo mai tradirebbe uno come te? È davvero un idiota.”
Blaine si trattenne dal sorridere. Erano questi i complimenti che lo facevano arrossire, non le frasettine piene di doppisensi che gli lanciava ogni mattina: erano questi commenti a caldo fatti senza nemmeno rendersene conto, perchè Sebastian pensava davvero che Blaine fosse speciale, e lo ammetteva soltanto in quella maniera. Blaine lo guardava con occhi pieni e-Dio, perchè era così bello anche se il suo volto era devastato dal raffreddore? Probabilmente lui era nelle stesse condizioni, comunque.
“Si può sapere almeno con chi ti ha tradito?”
“Eli, l’infermiere di ostetricia.”
“Stai scherzando. Quel tipo è orrendo, è alto e rachitico, sembra un faro!”
“Sebastian, dai...”
Sebastian a quel punto si accasciò sul divano, il fazzoletto in una mano e l’altra appoggiata sulla sua gamba, proprio vicino a quella di Blaine.
“Come... come ti senti, quindi?”
Blaine si strinse un po’ nelle spalle, incrociando le braccia come per riscaldarsi. “Bene, credo. So che dovrei starci male ma... non lo sono. Forse non lo amavo come credevo.”
“Ma và? Che scoperta.”
Voltò la testa di scatto: Sebastian però adesso stava ridacchiando, mentre gli passava un altro fazzolettino dalla sua scatola di Kleenex.
“Almeno adesso potremmo farlo in posti più comodi”, Commentò divertito.
“Ah, a proposito, sa di noi.”
Stavolta fu Sebastian a voltarsi, ma si guardarono per qualche secondo. Se per un attimo sembrava sorpreso, l’attimo dopo era più consapevole, anche per lui era scontato che, prima o poi, sarebbero stati scoperti.
“Quando l’ha capito?”
“Diciamo che il raffreddore non ha aiutato ma... credo lo sapesse da un po’.”
“Ehi.” Alzò le mani. “Non è colpa mia. Cioè, non me ne frega nulla, ma se sei arrabbiato con me io-”
“Non sono arrabbiato con te.”
Sebastian fu preso contropiede: “Non lo sei?”
“No”, Rispose atono Blaine; gli sorrise. Dopodichè, piano, si chinò verso di lui per dargli un piccolo bacio a fior di labbra. Ed era lì, la domanda lasciata in sospeso: era la consapevolezza che il loro rapporto stava diventando qualcosa. Non sapevano nemmeno loro cosa, ma ormai non era più sesso occasionale, non era più semplice rapporto superficiale. Erano diventati amici, complici, amanti, e Blaine voleva chiedere a Sebastian se tutto questo gli andasse bene.
Sebastian, a quel punto, prese un fazzolettino dai Kleenex e lo strofinò contro il suo naso. Era un sì.
“Ci vediamo un film?”
Lo fissò di nuovo, senza proferir parola. Fu soltanto dopo aver realizzato il tutto che gli prese il volto fra le mani e lo baciò, a stampo, ma prolungato e più intenso di prima. Sebastian si staccò da lui troppo presto, per i loro gusti, e con un sorriso divertito disse: “Ti bacerei meglio se non avessi paura del tuo catarro.”
“Oh mio Dio. Hai rovinato il momento più romantico della nostra storia con la frase più terribile di tutte.”
“Dovresti conoscermi ormai”, ridacchiò Sebastian, prendendo una coperta appoggiata sul bracciolo del divano e mettendola sulle sue gambe. Afferrò il telecomando della televisione e cominciò a scorrere la lista di MySky.
“Che film vuoi vedere?”
Blaine si accoccolò contro la sua spalla, leggendo silenziosamente la lista fino a scorgere un piccolo nome in sovraimpressione: “E se ci guardassimo Grey’s Anatomy?”
“Oh, no, ti prego. Al massimo possiamo fare 50 Shades of Grey io e te.”
“Sebastian.”
“E va bene, va bene, guardiamoci i dottori sexy che scopano come ricci. Uhm, mi ricorda qualcuno.”
Sebastian.” Ma Blaine stava sorridendo, proprio come Sebastian.
“Che? Io stavo parlando del Faro e del tuo ex cretino.”










Angolo di Fra

Non ha senso. Ma it's all right.

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Capitolo 10
*** Scommettiamo? ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .



Prompt: Scommessa.
Avvertenze: Rating ARANCIONE. Sembra il capitolo di una long, ma non lo è. Enjoy!




Blaine e Sebastian erano amici da quasi due anni, ormai. Certo, avevano attraversato diverse fasi della loro relazione: in particolare, Sebastian era passato da “Oh, ehi bel culo, ti voglio scopare” a “Ops, scusa, ti ho lanciato una granita addosso” e poi ancora, “Beh, credo di essere innamorato di te”.
Non sapeva nemmeno lui come aveva fatto, ma era così. Ormai si era rassegnato all’idea di essere cotto marcio di Blaine e di essere completamente, meravigliosamente non ricambiato. Insomma, doveva pur esistere il karma, no? Non era possibile che dopo essere stato uno stronzo per diciotto anni, aver usato tutti i ragazzi conosciuti come oggetto e aver quasi accecato Blaine, il destino gli avrebbe anche concesso la felicità di una bellissima storia d’amore.
Un momento, che cosa stava dicendo? Dio, stava proprio pensando come una checca. Doveva smetterla.
Con quella consapevolezza in mente raggiunse Blaine proprio su una panchina dei giardinetti di Lima, un posto frequentato solo dai fanatici della corsa, dai cani e da qualche disperato di turno che aveva voglia di sfogarsi un po’. E, a giudicare dai suoi occhi rossi, dalle sue labbra contratte in una smorfia e dal fazzoletto che teneva stretto tra le dita, Blaine apparteneva senza dubbio alla terza categoria. Anche se c’era qualche remota possibilità che in realtà fosse un piccolo cucciolo di barboncino toy con occhi grandi e pelo morbido.
Si poteva essere più belli di così? Anche se aveva i capelli scompigliati, anche se aveva l’aria distrutta, anche se aveva un assurdo farfallino blu e una felpa millerighe. Era stupendo.
“Ehi, B?” Lo chiamò ad alta voce, ottenendo in risposta un semplice sguardo e niente di più. Sembrava davvero distrutto, e lui sapeva già quale fosse la causa, o meglio, chi.
“Che cosa ha combinato quel coglione del tuo ragazzo, stavolta?”
Ma perchè si ostinava ancora a stare con lui? Eli era soltanto un idiota, un montato, un narcisista e trattava male Blaine sin dall’inizio della loro relazione. Blaine meritava qualcuno che lo facesse sentire bene, felice.
Qualcuno come lui. Ok, no, stava di nuovo facendo la checca.
“L’ho lasciato”, Rispose Blaine tutto d’un fiato, trattenendo a stento un singhiozzo.
“Finalmente. È fantastico Blaine.”
“Mi ha tradito.”
“Lo faccio fuori.”
Ma Blaine, invece che scattare come suo solito e dire “No, fermo, cosa fai” o, quanto meno, sorridere agli istinti omicidi del suo migliore amico, scoppiò a piangere ancora di più. Forse perchè dirlo ad alta voce faceva più male; forse perchè voleva soltanto che Sebastian lo consolasse, che gli dicesse quanto era stato stupido a innamorarsi di uno che lo aveva trattato così.
Non successe niente di tutto questo: Sebastian non era adatto a consolare, nemmeno se si trattava di Blaine. Semplicemente, ascoltò in silenzio tutti i suoi sospiri, osservò ogni sua singola lacrima, e pensò che mai, mai e poi mai, lo avrebbe fatto soffrire così.
“Ho finito con le relazioni”, Lo sentì commentare dopo lungo tempo, rialzando la testa per osservare la fontanella davanti a loro. Sebastian gli passò l’ennesimo fazzoletto, abbozzando un ghigno: “Benvenuto nel club. Sempre detto che portano solo grane.”
“Hai ragione. D’ora in poi farò come te.”
Cosa?
“Andare in giro a farmi chiunque senza pensare alle conseguenze.”
“No.”
Blaine restò un po’ sorpreso da quella risposta repentina: “Come sarebbe a dire, no?”
“No. Perchè tu non sei capace di separare i sentimenti dal sesso, perchè poi non sei più tu e perchè... perchè non voglio”, Disse senza mezzi termini. Dio, l’idea di vedere Blaine buttarsi via così lo demoliva.
“Beh, puoi insegnarmi tu come si fa.” Si voltò completamente verso di lui, e non c’era l’ombra di dubbio nei suoi grandi occhi chiari. “Anzi, scommetto che se andassimo allo Scandal rimorchierei più di te.”
“Ah, Anderson. Sei adorabile. Continua a sognare.”
“Scommettiamo?”
Si fissarono per lungo tempo. Blaine era serio, era molto serio. E Sebastian, lui... voleva solo che stesse bene. Sfoggiò uno dei suoi sorrisi più strafottenti, nel rispondere: “Hai così tanta voglia di perdere?”
“Non credo proprio che perderò, sai. E se vinco io mi offrirai da bere per un mese.”
Oh, bene, voleva davvero farlo, allora. Sebastian rimorchiava ragazzi nei locali da quando aveva quattordici anni. Eppure, Blaine era Blaine. Era il sogno di qualsiasi ragazzo gay, etero o essere vivente in generale. Non era poi così tanto sicuro di vincere.
“E se vinco io?” Lo canzonò, esitando giusto per un secondo. Blaine si strinse nelle spalle, con una piccola risata: “Scommetti quello che ti pare, tanto non vinci!”
“Verrai a letto con me.”
Lo disse così, senza pensarci. Se ne accorse nel momento in cui Blaine spalancò gli occhi, cambiando completamente espressione: “...Come hai detto scusa?”
“Se vinco io verrai a letto con me.”
Perchè lo aveva detto. Perchè lo stava facendo. Adesso Blaine si sarebbe alzato e sarebbe andato via, gli avrebbe detto che era un grande stronzo a dire quella cosa giusto dieci minuti dopo aver saputo di lui ed Eli e... sarebbe finito tutto. Tutto quanto. Dio, Smythe, quanto sei cretino certe volte.
Invece, lo sorprese con una semplicità a dir poco disarmante.
“Ci sto. Passami a prendere alle otto.”
Gli strinse la mano, prima di andare via con i fazzoletti dentro alle tasche.
Sebastian fissò il punto in cui era sparito ed era incredulo.
 
 
 
 
Quando aveva fatto quella scommessa, Sebastian non aveva pensato molto alle conseguenze. Forse perchè, dentro di sè, era convinto che non lo avesse fatto nemmeno Blaine: se aveva accettato di andare a letto con lui soltanto per una vittoria a chi rimorchiava più ragazzi, beh, già da questa frase si intuiva l’assurdità della cosa. Per quello aveva fatto quella proposta: un po’ per vedere la reazione di Blaine, un po’ perchè ultimamente non riusciva più a controllare quello che provava per lui.
Sebastian era sicuro che non sarebbe successo. Non lo credeva assolutamente possibile. Altrimenti, se solo lo avesse ritenuto realizzabile anche soltanto per un millesimo di probabilità, si sarebbe preparato psicologicamente. E la serata sarebbe andata a finire diversamente.
 
 
“Allora, vuoi qualche consiglio, prima della grande sfida?”
Blaine si voltò verso Sebastian mentre slacciava la cintura di sicurezza e gli rivolgeva un sorriso sprezzante. Erano le undici passate, avevano passato le ultime ore a guardare film horror-porno che li aveva lasciati basiti, a metà, e un po’ eccitati dall’altra. Non avevano fatto altro che punzecchiarsi riguardo quella imminente serata, parlando di come Blaine sarebbe campato per il prossimo mese con i soldi di Sebastian, e di come Sebastian, invece, aveva già preparato coperte, lubrificante e preservativo nel bagagliaio.
Era vero. Ma non perchè pensava che sarebbe successo qualcosa; non con Blaine, almeno.
“Tu comincia a risparmiare soldi.” Gli rispose Blaine uscendo dalla macchina e lasciando il cappotto lì, conscio del fatto che avrebbe passato la serata nella mischia di quel locale chiuso e affollato, probabilmente strusciandosi con ragazzi sconosciuti per la metà del tempo. Sebastian tirò il freno a mano e lo seguì a qualche metro di distanza, prendendosi un momento per osservare la figura di Blaine mentre camminava con il falso documento d’identità in mano. Era incredibile come, dopo due anni, gli mancasse ancora il fiato a vederlo. Lui era bello, sapeva di esserlo. Ma Blaine... Blaine era semplicemente perfetto.
Sebastian osservò i suoi capelli riccioli e scompigliati, le sue spalle toniche, la sua vita sottile, e quei fianchi. Dio, quei fianchi.
Succedeva esattamente come la prima volta che lo aveva visto: era rimasto a sbavare di fronte a quel corpo, per poi scoprire che il davanti era anche migliore.
“Che fai, non vieni? Hai paura della sconfitta?”
Blaine si era voltato e gli aveva fatto cenno di sbrigarsi. I suoi occhi ambrati risplendevano sotto la luce dei lampioni e quelle labbra, maledizione. Ma c’era una sola, singola cosa di Blaine che non fosse estremamente arrapante?
“Ho capito, ti ci devo trascinare.” Senza nemmeno accorgersene, Sebastian fu afferrato per un polso e condotto dentro al locale. Le dita di Blaine erano lunghe, affusolate. Sarebbe bastato un movimento minimo, un gesto quasi innocuo, e sarebbe riuscito a stringerle intorno alle sue.
Ma non fece niente.
“Wow, oggi è proprio pieno.” Blaine guardò la folla gremita di ragazzi, ce n’erano di tutti i tipi.
“Sono venuti tutti per te.” Lo prese in giro Sebastian. “Non volevano perdersi il grande debutto di Blaine Anderson da latin lover.”
“Smetterai di ridere quando ti straccerò a quella scommessa.”
Continuarono così per un po’, semplicemente loro due, a scherzare e parlare come sempre accompagnati da una birra fresca. Forse era la seconda volta che andavano allo Scandal insieme: a Blaine non piaceva molto, diceva sempre che non era posto per lui, che quella musica non fosse il suo genere. Sebastian non lo supplicava mai a venire: dopotutto lui andava in quel posto solo per rimorchiare, e con Blaine in giro, davvero, qualsiasi altro ragazzo perdeva d’attrattiva.
Per questo motivo Sebastian cominciava seriamente a dubitare della sua vittoria nella scommessa. Ma dopotutto, che cosa gli importava di rimorchiare qualcuno, quando poteva passare una serata con Blaine?
Ma lui, invece, non si era dimenticato del motivo per cui fossero lì. Ogni tanto si guardava in giro, sorrideva a qualcuno; e ogni volta che lo faceva Sebastian sentiva un brivido di rabbia nascergli dalle vene.
Nessuno doveva guardarlo così. Nessuno poteva permettersi di toccarlo.
“Sebastian, io vado un po’ a ballare.”
Di fronte a quella dichiarazione Sebastian lo guardò stupito, esitando per qualche secondo senza saper bene cosa dire. Blaine gli fece l’occhiolino, gli augurò buona fortuna, e così facendo sparì in mezzo alla folla di ragazzi, sommerso da una musica elettronica e assordante.
Sebastian sapeva bene che Blaine non avrebbe mai combinato niente con quei ragazzi. Non era da lui, nemmeno dopo aver bevuto così tanto. Per quel motivo non lo rincorse in mezzo alla pista, impedendogli di andarsene. Adesso, lui doveva pensare a rimorchiare qualcuno. Anzi: doveva rimorchiarne abbastanza per vincere la scommessa. Non perchè sperava di ottenere il premio, no: Blaine non sarebbe mai andato a letto con lui. Non per una sfida. Non prima di un altro milione di anni.
Fu quel pensiero che lo spinse a rispondere al saluto di un biondino, che si era appena seduto accanto a lui. Cercò di dimenticarsi di Blaine, almeno per qualche minuto, scoprendo che fosse una delle cose più difficili che avesse mai fatto.
 
 
Erano passate solo tre canzoni quando collezionò il suo quinto numero di telefono. Era così facile: bastava fare un sorriso, dire qualche parola, ed ecco che loro afferravano penna e scrivevano frettolosamente sul tovagliolo.  L’aveva fatto milioni di volte, era una tecnica collaudata, e per quanto Blaine fosse – tanto – attraente, non sarebbe mai riuscito a batterlo.
Non vedeva l’ora di vedere la sua faccia quando gli avrebbe sbattuto in faccia la vittoria schiacciante.
Non perse tempo e si diresse verso la sua prossima preda, un ragazzo piuttosto basso e timido che se ne stava in disparte a osservare gli altri; aveva sempre avuto un debole per i timidi. Specie perchè erano sempre i più scatenati sotto le coperte.
“Ehi, buonas-“
Il suo saluto rimase sospeso a metà. Perchè in quel momento, dal bagno, mentre si aggiustava la patta dei pantaloni e sorrideva soddisfatto, uscì Eli. Si trascinava un idiota che aveva ancora la camicia sbottonata. Probabilmente fatto.
Non sapeva nemmeno descrivere l’odio che provava verso quell’uomo. Nè il desiderio di farlo letteralmente a pezzi.
E voleva farlo. Oh, quanto voleva farlo. Ogni fibra del suo corpo stava urlando dalla rabbia.
Ma poi un’immagine gli attraversò la mente: Blaine.
Non poteva vedere Eli. Non in quella serata. Non quando stava cercando di dimenticarsi di lui.
Ignorò il ragazzino che lo guardava intrigato e andò via, resistendo anche all’impeto di mettere le mani addosso a quell’uomo. Aveva da occuparsi di cose più importanti.
Quando trovò Blaine, dopo aver attraversato tutta la pista in lungo e in largo, era appoggiato contro una parete e sorrideva a un ragazzo dall’aspetto molto più grande. Aveva le braccia incrociate al petto, un sorriso accattivante, lo stava fissando da sotto le sue lunghe ciglia scure.
Probabilmente si sarebbe intromesso anche se non si fosse trattato di una cosa importante.
“Blaine, Blaine, devo parlarti.”
Blaine scorse Sebastian da dietro le spalle di quell’uomo e in un attimo la sua espressione cambiò: lo fissò confuso, sorpreso, e Sebastian doveva avere una faccia davvero seria, per farlo reagire in quel modo. Oppure, semplicemente, si erano capiti. Come sempre.
“Che succede?” Disse avvicinandosi a lui con un tono dolce, leggermente titubante. Era quello il Blaine che conosceva, non quello di poco prima appoggiato al muro. Era quello il suo Blaine, e non lo avrebbe cambiato per niente al mondo.
“No, niente di grave, è solo che mi sono annoiato... ce ne andiamo?” Tentò di restare sul vago, di non farlo allarmare troppo, ma Blaine era troppo furbo e lo conosceva da troppo tempo.
Capì.
“Dimmi dov’è.”
“Blaine, sul serio, non credo che dovrest-“
“Sebastian dimmi dov’è.”
Non ci fu bisogno.
Perchè Eli probabilmente aveva visto Sebastian poco prima, e aveva deciso di inseguirlo fino a lì.
Perchè Eli si avvicinò a Blaine chiamandolo per nome, e Sebastian fu a tanto così dal picchiarlo fino a farlo sanguinare.
“Blaine,” lo chiamò ancor-
“Vaffanculo.”
“Blaine, aspetta.”
“Vai a farti fottere Eli.”
Blaine afferrò la mano di Sebastian; uscirono dal locale senza voltarsi mai indietro.
 
 
Non doveva finire così.
Blaine era appoggiato al muro del locale. Respirava piano. Teneva gli occhi chiusi, e le labbra serrate in una smorfia inespressiva. Sebastian era a un metro da lui, voleva dargli un po’ di spazio; quella serata doveva essere divertente. Doveva farlo stare meglio. Ma come diavolo aveva fatto a non pensare che Eli sarebbe stato lì? Coglione. Era davvero un coglione.
“Blaine, andiamo.” Dopo un tempo indefinito, Sebastian si avvicinò a lui affettuosamente. “Ti accompagno a casa.”
“No.”
La voce di Blaine era bassa. Quasi un sussurro. Sebastian non si aspettava quella risposta, così, per un po’, rimase zitto.
“Quanti ne hai rimorchiati, Sebastian?”
“Blaine, lascia stare, non ha import-“
“Quanti?”
Finalmente aprì gli occhi, lucidi, arrossati. Si guardarono in silenzio.
“... Cinque.”
“Bene.” Fece Blaine, dopo una piccola pausa. “Io tre. Hai vinto tu allora.”
Non capì immediatamente cosa volesse dire.
“Hai vinto tu Sebastian.” Fece un passo in avanti, afferrandolo per le braccia, annullando la distanza che li divideva.
Si avvicinava, sempre un po’ di più. Il suo respiro caldo gli lambiva la pelle. E il profumo di Blaine era così buono che, per un attimo, per un breve attimo, Sebastian rischiò di perdere il controllo.
Ma non lo fece.
“Blaine, no.”
Non poteva.
Blaine si fermò lentamente, guardandolo soltanto.
“Perchè no?”
“Perchè hai bevuto. E perchè sei sconvolto.”
“E allora?”
“Non è questo quello che vuoi.”
Non è così che dovrebbe andare, pensò dentro di sè. E Blaine, tutte quelle cose, le sapeva: sapeva che non avrebbe dovuto baciare Sebastian. Sapeva che non avrebbe dovuto approfittarsi della sua amicizia, della scommessa che avevano fatto un po’ per scherzo.
Ma Blaine era ubriaco. Era ferito.
Spettava a Sebastian fare la buona azione. Spettava a lui comportarsi nel modo giusto.
“Invece sì.” Sussurrò Blaine, a un centimetro dalle sue labbra. Mentiva. E mentiva così bene, che per poco Sebastian non credette alle sue parole.
Forse perchè voleva crederci.
Forse perchè si era trattenuto da troppo tempo.
Forse perchè un po’ aveva bevuto anche lui, e nemmeno da sobrio sarebbe riuscito a resistere alle labbra di Blaine, figuriamoci in quello stato.
Quindi per una volta si dimenticò di cosa fosse giusto e sbagliato. Perfino nei confronti di se stesso.
Si dimenticò di tutto ciò che non riguardasse Blaine, e afferrandogli il volto con entrambe le mani lo baciò come non aveva mai baciato nessuno prima.
I loro corpi si avvicinarono; quello di Blaine finì contro il muro, quello di Sebastian premuto contro di lui, con forza, passione. Era come se non volesse farselo scappare, ma Blaine non stava andando da nessuna parte: piegò una gamba contro il suo fianco, intrecciò le dita ai suoi capelli. E quando finalmente i loro bacini ottennero la frizione voluta, entrambi si lasciarono andare a piccoli gemiti, interrotti soltanto dallo schioccare delle labbra, dalle loro lingue che si accarezzavano.
Sebastian cominciò a scendere verso la mandibola e il collo, succhiando avidamente, concentrandosi su piccoli punti che aveva sempre voluto assaggiare. Come l’incavo della scapola, dopo aver sbottonato i primi bottoni quasi strappandoli via. Come quella piccola voglia che aveva sulla base del collo, e così lo fece voltare, facendo aderire i loro corpi il prima possibile e continuando a muoversi contro di lui.
Adesso Blaine ansimava più forte, con la fronte premuta contro il muro, il petto leggermente scoperto che veniva attraversato da brividi. Cercò di afferrare qualcosa, qualsiasi cosa, e quando avvertì le dita di Sebastian intrecciarsi alle sue le strinse con forza, quasi a farsi del male.
Perchè Sebastian continuava a baciargli il collo, la schiena, e Blaine poteva avvertire l’erezione premuta contro la linea del suo sedere, e Dio, Sebastian era così eccitante.
“La macchina.” Riuscì a mormorare, con voce spezzata, il fiato corto e la bocca impastata. “Sebastian, la-“
Non fece in tempo a finire la frase. Sebastian lo fece voltare di nuovo. Forte. Lo baciò ancora sulle labbra e mentre era concentrato a succhiare il suo labbro inferiore lo sollevò da terra prendendolo per le cosce, facendolo aderire completamente a lui e trascinandolo verso la macchina poco distante. Blaine intrecciò le gambe al suo torace e inarcò la schiena senza ritegno, senza preoccuparsi della gente che avrebbe potuto vederli, di Eli, di qualsiasi altro essere vivente sulla faccia della terra.
Dopo quella che gli sembrò un’eternità, ma comunque troppo tempo, sentì la portiera della macchina aprirsi, e in un attimo era sdraiato sui sedili posteriori, con Sebastian sopra di lui.
Non ci doveva essere affetto, in quello che stavano facendo. Sebastian sapeva bene che Blaine aveva soltanto bisogno di sfogarsi, di sentirsi desiderato, di dimenticarsi di quello stronzo che lo aveva fatto star male. Aveva bisogno del suo migliore amico.
Lo sapeva, ma non gli importava.
Non ora che il suo cuore rischiava di scoppiargli dal petto. Non ora che lo vide fare un sorriso, e allora Sebastian non riuscì a evitare di guardare Blaine, premuto sotto di lui, e sorridere nel bacio che si scambiarono un attimo dopo. Indugiando un po’ di più sulle labbra, facendo sfiorare delicatamente le loro lingue.
Non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi, per paura che, riaprendoli, si sarebbe risvegliato da solo.
Aveva pensato così tante volte a quel momento. Lo aveva sognato. Si era immaginato il modo con cui Blaine chiamava il suo nome, trattenuto dai gemiti. Si era immaginato il sapore delle sue labbra, il calore del suo corpo. E lo aveva immaginato così tante volte, così tante, che per un momento aveva creduto che la realtà non avrebbe saputo reggere il confronto con la fantasia.
Ma si sbagliava. Quanto si sbagliava.
Perchè i gemiti di Blaine erano come musica. Il suo corpo era come fuoco. E i suoi occhi... il modo con cui lo stava guardando gli faceva venire voglia di ribaciarlo, e ancora e ancora, fino a quando i loro respiri non si sarebbero uniti in un solo, breve spasmo.
Continuò a baciarlo. Continuò a baciare qualsiasi porzione di pelle gli fosse disponibile. Baciò gli occhi, le guance, il collo, per poi scendere lungo il torace; gli sbottonò la camicia, accarezzando quel corpo che fino ad allora aveva potuto soltanto guardare e Dio, quel delizioso incavo sotto gli addominali. Lo marchiò più e più volte, rabbrividendo per la voce roca di Blaine che gli supplicava di farlo. Ma poi, dopo aver lasciato dei segni con i denti, con le labbra, ecco che riprendeva di nuovo a baciarlo, ecco che, dentro di lui, si accendeva qualcosa dentro, quel desiderio di voler congelare il tempo.
Ma gli restava soltanto una notte. Il giorno dopo, lui e Blaine sarebbero tornati dei semplici amici. Perchè per Blaine si trattava solo di quello, lo sapeva bene.
Tutto ciò che poteva fare, ora, era immortalare ogni singolo momento, e farlo durare il più possibile.
Per questo si mosse con calma.
Per questo, quando avvertì Blaine sbottonargli la camicia impaziente, si lasciò sfuggire una piccola risata. Il ragazzo lo guardò, con i suoi occhi grandi. Gli chiese perchè stesse sorridendo, perchè lo stesse guardando così.
Perchè tu mi fai questo effetto, Blaine. E non sono mai stato così felice in tutta la mia vita.
Ma non poteva permettersi di dire cose che avrebbero potuto arricchire quel momento, senza rischio di rovinarlo. Era troppo pericoloso. E Blaine non doveva capire quello che stava succedendo. Non veramente.
Così, semplicemente, contemplò in silenzio quel piccolo momento che il destino gli aveva dato.
Contemplò il modo con cui Blaine lo spogliò in fretta, come si sfilò a sua volta i pantaloni e l’intimo, pregandolo di sbrigarsi.
E quello, il vedere Blaine completamente nudo; il vederlo lì, ansimante, solo per lui, quello fu il momento che Sebastian preferì più di ogni altra cosa al mondo.
Perchè Sebastian aveva fatto sesso tante, troppe volte. Ormai le sue azioni erano diventate ripetitive e meccaniche; ormai, quando indossava il preservativo, sollevando le gambe dell’altro per prepararlo, il suo corpo era vuoto, si muoveva senza bisogno di un significato.
Decise di dare un significato a ogni piccola cosa fatta con Blaine.
Decise di dedicargli tutte le attenzioni e l’affetto che nessun altro ragazzo gli avesse mai dato.
E mentre lo preparava, con calma, Blaine per un momento lo guardò negli occhi ed ecco, lì credette che fosse cosciente. Che provasse esattamente ciò che provava lui. Che lo desiderasse allo stesso modo.
Lo baciò, un’altra volta. Mossa pericolosa. Sapeva che non sarebbe riuscito a dimenticare quei baci, e che quella cosa lo avrebbe distrutto.
Gli rivolse un sorriso, chiedendogli, con lo sguardo, se fosse pronto. Blaine, in risposta, si abbandonò contro il sedile, e si spinse dentro di lui.
E restarono così. Fermi. Entrambi troppo confusi per capire.
Accadde piano. Naturalmente. Sebastian cominciò a spingersi dentro di Blaine e, semplicemente, non riusciva a crederci. Andò a stringere le sue mani, e l’abitacolo si riempì di gemiti, di sospiri, di “oh Dio” bisbigliati con voce timida, senza far troppo rumore. E Sebastian si chinò di nuovo su di Blaine, lo baciò in modo languido.
Sussurrò il suo nome. Altra mossa pericolosa.
Vennero quasi nello stesso momento, respirando l’uno contro le labbra dell’altro, lasciandosi completamente andare e abbracciandosi quando erano ancora scossi dagli spasmi, con la pelle d’oca, il corpo scosso dai brividi.
Sebastian si sdraiò accanto a Blaine, coprendo entrambi con una coperta, e Blaine si accoccolò a lui appoggiando la testa nell’incavo della sua spalla.
E l’odore della sua pelle dopo il sesso era ancora più irresistibile.
“Sebastian.”
Per la prima volta, chiamò il suo nome in modo nitido e sereno. Strascicò le ultime lettere, come faceva sempre lui, e questa cosa lo fece sorridere.
“Grazie.”
No, era lui che doveva ringraziarlo.

Si limitò a baciargli la fronte. L’ultimo dei mille gesti che non avrebbe dovuto fare.
Così come non avrebbe dovuto sfruttare la sua fragilità, approfittare di quel momento, e mentire su quello che significasse per lui.
 
Sarebbe andato all’inferno per quello.
Non se ne sarebbe pentito nemmeno per un secondo.





 

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Capitolo 11
*** Legge di Cul-Coulomb ***


 

Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .




Sebastian quel giorno tornò a casa molto tardi.
Per fortuna c’era il ponte alla Dalton, così poteva prendersi tutto il tempo del mondo per non studiare, non partecipare a stupidi consigli dei Warbler, non sentire schiamazzi e urla di coinquilini o vicini a notte fonda e, soprattutto, non stare con la gente.
Odiava la gente.
Amava, invece, quel bellissimo letto matrimoniale con coperte fresche e profumate, che non doveva lavare lui, su cui non doveva fare sesso – era una delle regole d’oro, mai invitare ragazzi a casa – e, soprattutto, sul quale poteva schiacciare un pisolino rilassante.
Si tolse le scarpe, senza nemmeno preoccupare di sfilare i lacci dei mocassini neri, si allentò la cravatta e si buttò a capofitto, stiracchiando i muscoli e chiudendo gli occhi per prendere meglio il respiro, concentrandosi unicamente sul tentare di dormire.
Era stata una settimana davvero infernale, tra allenamenti di lacrosse, prove del Glee Club ed esami di profitto. In realtà, dare tre esami in una settimana non era certo una cosa da poco, soprattutto se uno dei tre era algebra, materia che lui detestava, sebbene prendesse quasi sempre una A. Ma quello perchè era un genio, ovvio.
Stava quasi per addormentarsi, cullato dal silenzio della sua grande casa vuota – i suoi erano al lavoro e i suoi fratelli in qualche altro college privato molto, molto lontano da lì -, quando sentì suonare il campanello.
Decise di ignorarlo. Il postino poteva lasciare un avviso, e se non era un postino, non aveva voglia di improvvisare un francese della Provenza per far scappare il venditore ambulante di turno. E poi la porta era davvero troppo, troppo lontana da camera sua. Addirittura venti passi, ma siamo matti.
Suonò di nuovo. Diavolo, quel postino era davvero insistente.
Al terzo squillo decise di trattare male chiunque avesse avuto la malaugurata idea di rompergli le scatole, così a passo pesante, ma attutito dal suono dei calzini che strusciavano contro il parquet pregiato, iniziò a parlare ancora prima di aver aperto la porta, a denti stretti.
“Chiunque tu sia se suoni un’altra volta quel campanello giuro che te lo ficco su per il-“
Un momento.
Non era il postino. E nemmeno una giovane marmotta o un testimone di Geova. Sebastian strabuzzò bene gli occhi, perché non riusciva a crederci, doveva essere una visione, quella.
Che ci faceva Blaine Anderson sulla porta di casa sua?
“Sebastian.”
Non sembrava molto un saluto, quello, quanto un rimprovero. Si sentì come un bambino chiamato all’attenzione da una maestra, subito dopo aver fatto il misfatto. Ma lui non aveva fatto niente, a meno che non fosse reato togliersi le scarpe senza averle slacciate; e insomma, che diavolo voleva Blaine Anderson da lui?
“Blaine”, Ammiccò, con un sorriso sghembo che adorava fare, più che altro, perchè adorava vederlo arrossire. “A cosa devo questa piacevole visita? Finalmente hai cambiato idea?”
Lo vide avvampare in mezzo secondo, mangiandosi le parole in gola e fissando il tappetino all’uscio di casa come se fosse oro pregiato. Sebastian aveva adocchiato Blaine da più o meno un anno, esattamente dal suo trasferimento alla Dalton. Insomma, lo sapevano anche i muri che voleva tanto entrare dentro ai suoi pantaloni, e giusto qualche giorno prima gli aveva proposto un’interessante giornata studio sotto alle coperte di camera sua. Ma Blaine aveva sempre tergiversato, non facendogli capire le sue vere intenzioni. A volte sembrava provasse le stesse cose, altre volte, invece, era freddo e distaccato.
“N-no. Non sono venuto per questo. Cioè, non voglio venire, in quel senso. Voglio dire... okay.”
“Prendi un bel respiro.” Lo canzonò. Tuttavia, il modo con cui si era appena morso la lingua lo rendeva ancora più adorabile, ai suoi occhi. Approfittò di quel piccolo momento per squadrarlo come amava fare: Blaine quel giorno lo aveva deliziato con una polo aderente, un cravattino verde e dei jeans molto, molto stretti.
Da leccarsi i baffi.
“Sebastian, non pensare male.”
“Mi chiedi l’impossibile.”
Blaine scosse la testa; “Allora non pensare affatto.”
“Beh, questo è un peccato. Perchè stavo giusto pensando a quanto mi piacerebbe sfilarti quella maglietta...”
“Sebastian.”
“E poi slacciarti i pantaloni...”
Sebastian.”
“Sì, te lo farei urlare molte volte e-“
“Voglio soltanto il mio libro di fisica.”
“Esatto, fisico perfetto, asciutto, tonico e-“
“No Sebastian, non ho detto fisico, ho detto fisica.”
“Fisic-aspetta, cosa?”
Fu come una doccia fredda.
“Il libro, ti ricordi? Quello che mi hai rubato quando eravamo in biblioteca. Avevi detto che me lo avresti riportato il giorno dopo, e non l’hai fatto. Stamani sono venuto nella tua stanza e Nick mi ha detto che eri tornato a casa. Mi serve quel libro, Sebastian, ho il compito domani e non ho ancora ripassato assolutamente niente.”
Oh. Giusto. Il libro di fisica. Da quando in qua aveva il libro di matematica di Blaine? Lui non ce l’aveva nemmeno fisica, tra i test di fine anno. Cercò di immaginare un possibile motivo per cui potesse averlo rubato, ma non gliene venne in mente nessuno; a parte quello classico, ovviamente. Più che altro, non aveva la più pallida idea di dove l’avesse messo.
Si accarezzò il mento con le dita, assottigliando lo sguardo e puntando le iridi verdi su di lui: “Sei sicuro che te l’ho preso io?”
“Certo che sì. Non dire che non te lo ricordi!”
“Blaine io non ricordo niente che non sia il numero di telefono di qualcuno con un bel pacco.”
“L’altro giorno. In biblioteca...” Lasciò cadere la frase, inarcando le sopracciglia. “Non ci posso credere che non te lo ricordi, mi hai scritto tutte quelle cose indecenti sul capitolo delle leve!”
Ma lui si giustificò dicendo: “Non potevo non scriverti cose indecenti su quel capitolo. Scatenano l’immaginazione meglio di un porno.”
Ah, ecco, adesso ricordava. Era il giorno in cui Blaine indossava la divisa senza cravatta, cosa che lo aveva fatto letteralmente impazzire. Chiaramente, non aveva ascoltato una singola parola di quello che gli aveva detto; però ricordava di avergli preso il libro, effettivamente, e adesso ricordava anche perchè.
“Ah, sì, certo, la biblioteca, il libro.”
“Ecco”, Constatò Blaine, con un sospiro. “Potresti ridarmelo? Dovrei studiare.”
“Ma che fretta c’è? Entra. Ti offro una birra.”
Blaine si guardò intorno leggermente spaesato; esitazione, un buon inizio.
“Puoi studiare qui, in casa non c’è nessuno, non dai nessun fastidio. Io tanto dovevo finire quella ricerca di scienze.”
“Sicuro che non rompo? Perchè dovrei davvero mettermi a studiare il prima possibile se voglio soltanto sperare di passare quel compito domani... e per arrivare a casa ci metto minimo un’ora...”
“Blaine.” Sebastian gli appoggiò le mani sulle spalle, con un sorriso che era di grande conforto. “Insisto. E non ti disturberò. Puoi studiare per tutto il tempo che vuoi.”
 
Mezz’ora dopo, una tazza di tè e tanti, tantissimi fogli sparsi per tutta la camera di Sebastian, Blaine aveva appena finito la sua prima birra, mentre cartella e portatile erano abbandonati in cucina.
Sebastian doveva ammettere che era piuttosto divertente osservare Blaine alle prese con la fisica. Di solito, anche quando studiava, era sempre calmo e composto, adesso invece non faceva altro che passarsi le mani trai capelli, scompigliandoseli tutti, mordicchiando il tappo della biro che stringeva tra le dita e succhiandone leggermente la punta.
Inutile dire che Sebastian avrebbe potuto fissarlo per ore, ma non era quello il momento. Adesso, doveva trovare un modo per ridargli quel libro e, allo stesso tempo, ottenere quello che c’era all’interno.
“Tieni.” Glielo porse in fretta, e Blaine lo afferrò quasi con uno scatto. Per un attimo sembrò quasi che lo stesse fissando, come controllando se fosse tutto apposto.
“Oh, perfetto, bene. Cosa guardi?” Chiese a un tratto Blaine, alzando gli occhi di scatto e- Dio, i suoi occhi nocciola erano qualcosa di davvero indescrivibile.
“Niente. Stavo pensando che dovresti davvero appuntare quella matita.” Indicò quella sottospecie di matita, lunga massimo quattro centimetri, appoggiata accanto al libro, completamente spuntata. Blaine inclinò la testa di lato, altra mossa molto pericolosa.
“In effetti hai ragione. Hai un tempera matite?”
“Prova a guardare dentro la cartella.”
Ingenuo, ingenuo Blaine.
Quando si alzò dalla sedia, dopo una veloce controllata al suo fondoschiena – che non faceva mai male - , Sebastian si fiondò a capofitto sul suo libro di fisica, alla ricerca di quella cosa che lo aveva spinto a prenderlo e portarlo a casa. Blaine si accorse del suo grave errore troppo tardi: quando si voltò di scatto per impedirglielo, urlando perfino il suo nome nella speranza di fermarlo, Sebastian aveva già estratto un foglietto dalle pagine plastificate del libro, e lo aveva portato molto al di sopra della portata di Blaine.
Ed eccolo lì: il bigliettino che si erano scambiati Blaine e Nick, quello che aveva intravisto in biblioteca, subito dopo il quale Nick gli aveva detto “Sai, forse non sei del tutto spacciato con Anderson.” Lo stesso bigliettino che Blaine aveva ficcato maldestramente tra le pagine del libro, arrossendo appena aveva incrociato lo sguardo di Sebastian e balbettando qualcosa circa il caffè e la pausa studio.
Grazie al cielo, Blaine era dotato di memoria davvero scarsa. Infatti, erano bastate un paio d’ore di svago per dimenticarsi completamente di quel biglietto, tanto che, quando Sebastian gli aveva chiesto il libro in prestito, lui aveva annuito senza problemi.
E Sebastian, come aveva fatto a dimenticarsene? Aveva seppellito quel libro tra gli altri della sua cartella e, preso dagli esami e dalla settimana infernale, si era dimenticato di quel preziosissimo cimelio.
Lo aprì in fretta, il biglietto era soltanto la fine di una conversazione, probabilmente cominciata a voce, ma la calligrafia di Blaine era perfettamente riconoscibile, con il tratto forte e marcato.

 
Ma se ti piace così tanto perchè non glielo dici?
Ma hai presente di chi stiamo parlando?
Certo che ho presente. Ci dormo insieme. Cioè, non come credi.
Appunto. Lo sai che non funzionerebbe. Mi prenderebbe in giro.
Prova almeno a dirglielo!
No. E guai a te se spifferi qualcosa.
 

Eh eh. Scacco matto.
Sebastian abbassò finalmente le braccia, un sorriso trionfante in volto, sventolando il bigliettino davanti agli occhi di Blaine. Inutile dire che lui era completamente sbiancato.
“E questo, mio caro Anderson?”
“Non-non è come credi.” Lo aveva detto in modo sin troppo veloce e balbettato per sembrare vero. “Nick è un idiota, non stavamo parlando di te, non c’è scritto il tuo nome quindi non puoi pensare che-“
“Perchè infatti, Nick dorme in stanza con qualcun altro oltre me, giusto?”
Blaine adesso aveva raggiunto tonalità color porpora e stava indietreggiando sempre di più verso la porta, con la speranza di uscirne vivo.
“Non-non c’è scritto questo, stai fraintendendo tutto, non è mai stato così tardi e io devo proprio andar-“
“Blaine.”
La voce ferma e, allo stesso tempo, sensuale, lo paralizzò sul posto.
“Facciamo un po’ di pratica per l’esame di domani, ti va?”
Si avvicinò lentamente a lui, il fiato corto, la voce roca che gli faceva venire la pelle d’oca. Blaine non riusciva a smettere di fissarlo.
“Signor Anderson”, Esordì Sebastian, “Mi enunci il principio su cui si basa la legge di Coulomb. E badi bene, non ho usato questa legge soltanto per l’assonanza con il suo meraviglioso didietro.”
“È... quando due cariche... due cariche elettriche...” Blaine sembrava in seria difficoltà. Forse per il fatto che gli occhi verdi di Sebastian erano a pochi centimetri dai suoi, e non erano mai stati così vicini; forse, per il fatto che, davvero, non sapeva dire quella maledetta legge di Coulomb.
“Non la so”, Ammise infatti dopo qualche secondo, “Non la so, te l’ho detto, domani boccio sicuramente a quell’esame.”
“Beh, sai Blaine, sei fortunato che io sono un ragazzo molto sveglio.”
Lo vide deglutire a vuoto.
“E molto bravo.”
Un altro silenzio.
“E il principio di Coulomb dice che tra due corpi elettricamente carichi si esercita una forza, attrattiva se i due corpi hanno cariche di segno opposto, repulsiva nel caso contrario.”
“Ah... certo. È vero.”
“Noi formiamo una forza attrattiva o repulsiva?”
Blaine sembrò quasi spaesato, non si aspettava quella domanda. Non in quel modo, almeno. Certo era che ragionare in quelle condizioni, con Sebastian vicino a lui che sapeva, sapeva tutto quanto, era davvero molto difficile.
“Io non-“
“Risponda, Anderson. Attrattiva?”
“Sebastian...”
E Blaine, per un vago secondo, sembrò tornare lucido nell’imbarazzo più totale. Gli permise di sputare il rospo una volta per tutte perchè, diavolo, era pure un anno che si teneva tutto dentro, e ormai non aveva più motivo di far finta di nulla.
“Sì, è vero, mi piaci. Mi piaci da impazzire e so che tu detesti queste cotte stupide da adolescente, tu non vuoi metterti con me, quindi fa finta di non saperlo e-“
“Sai, mi è sempre piaciuto il modo con cui pronunci il mio nome.”
Fu preso completamente in contropiede, non se lo aspettava.
Ma mai quanto le sue mani che andavano ad accarezzargli il volto, per poi avvicinarlo in un bacio.

 
 
 
“Allora? Com’è andato questo compito di fisica?”
Sebastian si staccò dal muro della Dalton per andare incontro a Blaine, appena uscito dall’aula numero cinque.
“Male.” Ammise lui, con tono molto deluso. “Non sapevo assolutamente nulla. Sono bocciato di sicuro.”
“Ah, forse mi sento un po’ in colpa.”
Blaine si fermò nel mezzo del corridoio affollato da ragazzi sotto esame, prendendo Sebastian per un braccio e costringendolo a voltarsi verso di lui. Per un attimo, Sebastian credeva che fosse veramente arrabbiato con lui.
Ma poi lo vide sorridere.
“Devi sentirti molto in colpa, Smythe.”
Lo afferrò per la cravatta e lo tirò a sè, catturando le sue labbra in un bacio che durò troppo poco, rispetto a quelli del giorno prima.
“E questo cosa sarebbe?”
“È il bacio del ‘Il tuo ragazzo ha appena bocciato un esame’”.
“Inizio a pensare che tu abbia bocciato di proposito.”
Blaine gli diede una gomitata, scrollando la testa con un sorrisetto. Si incamminarono fianco a fianco lungo il corridoio, fino a quando Sebastian, guardandosi un po’ intorno, non lo spinse dentro a un’aula vuota, chiudendo a chiave la porta alle loro spalle e spingendo Blaine sulla cattedra.
“E questo, cosa sarebbe?” Cantilenò Blaine, imitando la sua voce con una risata. Sebastian gli lanciò uno sguardo che poteva essere descritto soltanto come famelico.
“È il sesso de ‘Il tuo ragazzo vuole farlo sulla cattedra di quello di fisica.’ Così gli facciamo vedere noi i corpi che si attraggono.”



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Capitolo 12
*** Indizi ***



Questa fanfiction partecipa all'iniziativa domeniche a tema organizzata dal gruppo Seblaine Events .




Sembrava una giornata come tutte le altre. O almeno, così pensava Sebastian, dal primo momento che mise piede fuori dal letto quella mattina. Si stiracchiò per qualche secondo, emise uno o due sbadigli e subito dopo si alzò dal letto, come una molla caricata pronta per essere rilasciata d’impulso. Era il giorno dell’esame, e lui non poteva sentirsi più pronto: certo, un esame di tre ore e quaranta minuti farebbe paura a chiunque, ma non a Sebastian Smythe, studente di giornalismo alla NYU, caporedattore del giornale universitario e, insomma, il migliore del suo anno. Mentre si avviava verso il bagno, Tony trotterellò verso di lui abbaiando come se non lo vedesse da una vita. Ma che problema avevano, i cani? Soprattutto i barboncini toy, che da quanto erano contenti di vedere il proprio padrone se la facevano addosso, certe volte. Lasciò che il suo cagnolino bianco gli saltasse addosso e lo leccasse dovunque, perchè una volta messi i vestiti buoni non avrebbe più potuto farlo.
Incrociò le braccia, e abbassò lo sguardo solo per un momento. Lo stava guardando con i suoi occhioni chiari, il pelo batuffoloso e la piccola coda a ricciolo svolazzante di quà e di là.
Bastò.
Si accucciò su di lui e giocò per dieci minuti abbondanti, promettendogli che al suo ritorno lo avrebbe portato fuori per più di un’ora. Avrebbe dovuto saltare la colazione per colpa di quel piccolo intermezzo: cosa non si fa per amore.
Con aria stranamente sovraccarica, salutò il suo coinquilino Dean intento a fare un’abbondante colazione con i muffin: Dean era un bravo ragazzo, studente di chimica, intelligente, bello, sempre pronto ad aiutarlo nel momento del bisogno. L’unico difetto? Si scopava sua sorella.
Cacciò dalla mente quell’immagine grottesca per fargli un piccolo cenno di saluto, prima di chiudersi in bagno. Dal corridoio, lo sentì esclamare: “Gran bel giorno oggi eh? Piuttosto importante direi.”
Sebastian si passò una mano trai capelli, leggermente sorpreso: si era ricordato del suo esame? Dannazione, quel Dean era davvero un bravo ragazzo. Non doveva pensare a lui e sua sorella. Non poteva pensare a lui e sua sorella.
“Sì, grazie”, mormorò. Era sempre strano ringraziare ad alta voce, si sentiva a disagio, come un pesce fuor d’acqua. “Farò del mio meglio.”
Dean non aggiunse niente, dall’altro lato della porta, e quindi voleva dire che la conversazione era finita. Sebastian cominciò a lavarsi i denti fissando il suo volto allo specchio: che dire, era un figo. Quel giorno, poi, con la camicia aderente e i jeans scuri, era particolarmente figo. Se Blaine fosse stato lì sicuramente lo avrebbe chiuso dentro la doccia, raggiungendolo un attimo dopo essersi spogliato.
A proposito: che fine aveva fatto quel nanerottolo del suo fidanzato? Di solito a quell’ora lo aveva già riempito di sms pieni di “amore mio” e “ti amo tanto” e ancora “passa una bellissima giornata baci baci baci”. Controllò il suo cellulare: era vuoto. Ignorò il suo cuore che si strinse in una fitta amara – non poteva mancargli Blaine, che diavolo, lo aveva sentito giusto la sera prima, no, stupido cuore, silenziati – e lo rimise in tasca, continuando a spazzolare il suo sorriso perfetto; forse non voleva disturbarlo prima dell’esame. Sì, sì, era sicuramente così. Sapeva quanto fosse teso e concentrato, non voleva distrarlo.
Se lo immaginò alla Nyada, con una di quelle tute che gli risaltavano il pacco e il sedere in un modo delizioso, appoggiato alla parete di una sala prove mentre gli altri studenti, intorno a lui, si preparavano per la lezione. Non aveva dubbi che stava pensando a Sebastian, era il suo primo pensiero la mattina e l’ultimo la sera, quindi insomma, se non gli aveva scritto era per forza per via dell’esame. Non si era dimenticato.
Dopo quel piccolo processo di autoconvinzione, Sebastian uscì dal bagno, rassettandosi il colletto della camicia e afferrando la tracolla in pelle da ottocento dollari.
“Io vado”, annunciò al suo coinquilino, salutando Tony per l’ultima volta con una carezza sulla testa; nel frattempo, Dean aveva alzato la testa di scatto dalla tazza di latte: “Non fai colazione?”
“No, sono troppo teso, ho lo stomaco chiuso.”
Dean, con i suoi occhi chiari e il viso dai tratti marcati, si sciolse in un sorriso: “Sì, ti capisco, amico.”
... Ma capire di cosa? Che diavolo era quel sorriso da demente?
“Sì. Bene. A dopo.”
“Pranzi qui?” Gli chiese Dean, un attimo prima che uscisse dalla porta. Sebastian non riuscì a trattenersi: si voltò lentamente, per dare maggiore enfasi al suo sbigottimento, e lo squadrò da testa a piedi, freddo come il marmo: “Certo. Come ogni benedetto giorno della mia vita, Dean.”
Che diavolo aveva messo in quel latte? Cognac?
“Oh. Sì, scusa, pensavo che...”
Pensavi cosa? Insinuò il suo sguardo scettico, cinico e anche un po’ seccato, ma Dean ingoiò un muffin intero, gesticolando con le mani.
“Lascia stare, giustamente non è che ogni anno fate la stessa cosa. Ci vediamo dopo.”
Sebastian voleva tanto avvicinarsi a lui, posare i palmi sul tavolino in legno e pronunciare scandito: “Ma di che cazzo stai parlando?”
Però aveva un esame da tre ore e quaranta minuti, quindi si limitò a guardarlo male e andare via.
 
 
Quando uscì dall’aula nove era ora di pranzo inoltrata. Tra la preparazione al test, il posizionarsi lungo le file giuste, la consegna e le solite raccomandazioni dei professori, quell’esame era durato quattro ore.
Uscì all’aria aperta e assomigliava quasi a Gollum che vedeva per la prima volta la luce del sole. Era stanco, era spossato, quell’esame lo aveva completamente svuotato di tutte le sue forze e, in più, doveva anche tornare a casa e portare fuori il cane. Quella giornata era ancora a metà del suo tempo, e lui non ce la faceva già più.
Stava camminando per il campus della NYU, con Tony al guinzaglio, quando decise di scoprire se il suo ragazzo fosse ancora vivo. Digitò il numero a memoria, e dopo due squilli sentì esclamare: “Amore!”
“Amore un cavolo. Che fine avevi fatto?”
Blaine restò interdetto per diversi secondi: va bene, forse era stato troppo brusco. Moderando il tono, e abbassando la voce, Sebastian chiese: “Perchè non mi hai scritto stamani?”
“... Perchè pensavo che mi scrivessi tu...” Lo sentì ammettere, come un cucciolo bastonato. Ma che cavolo: come faceva ad arrabbiarsi se si immaginava i suoi occhioni imploranti pietà?
“Ma quando mai ti ho scritto io la mattina? Di solito sei tu che mandi messaggi Blainosi del buongiorno.”
Giunto a un piccolo spiazzo verde, con qualche cespuglio e un grande albero, si sedette su una panchina lì davanti, liberando Tony e accavallando le gambe. Maledizione, gli era passata la voglia di essere arrabbiato.
“E va bene”, Sospirò, alzando gli occhi al cielo. “Dall’alto della mia magnanimità ti perdono.”
Dall’altro capo del telefono sentì Blaine ridere, e quel suono lo alleviò di tutta la tensione accumulata fino ad allora. Maledizione, era davvero troppo innamorato. Poi Blaine gli chiese dell’esame, così cominciò a raccontare, partendo dalle stranezze di Dean di quella mattina, fino ad arrivare al professore che metteva un “sinceramente” ogni due parole e lo faceva innervosire. Blaine non lo interruppe, non parlò, non gli fece le solite domande della serie “potremmo cantarci una canzone a riguardo?”; Blaine, semplicemente, stava zitto. E Blaine che stava zitto era davvero strano.
“... Sei sicuro di stare bene?”
“Io?” Lo sentì dire, “Io sto benissimo. Piuttosto, sei tu che sembri molto stanco.”
“Sì, in effetti lo sono. Credo che adesso andrò a casa e dormirò un bel po’.”
Ci fu una piccola pausa. L’ennesima. Qualcosa non andava, ma aveva imparato da tempo che quando Blaine non aveva voglia di parlare, doveva lasciarlo stare: tre anni di fidanzamento dovevano pur servire a qualcosa, dopotutto.
“Sì, fai bene”, rispose Blaine. “Ora devo andare, scusa.”
Sembrava freddo. No, un momento: era deluso. Deluso da cosa? Che gli era successo? In un attimo avrebbe voluto essere lì, davanti a lui, abbracciarlo e dirgli che andava tutto bene. Chiunque, o qualsiasi cosa lo avesse deluso, l’avrebbe pagata amaramente. Nessuno toccava il suo Blaine.
Si salutarono velocemente, non erano tipi da “attacca tu”, “no prima tu”. O meglio, Blaine poteva anche esserlo, ma Sebastian lo aveva istruito ad evitare queste cretinate.
Pensò a lui per tutto il tempo che arrivò a casa insieme a Tony. Pensò a lui sul letto, gli occhi verdi intenti a fissare il soffitto: si chiese se non fosse stato lui, a deluderlo. Ma no: come avrebbe potuto? Non aveva fatto niente. E poi, se Blaine fosse stato arrabbiato con lui lo avrebbe capito.
Nonostante quei pensieri si addormentò poco dopo, con Tony accoccolato sul suo petto.
 
Quando si svegliò era notte. Dalla finestra si intravedevano le strade di New York, il traffico, si udiva il suono di ambulanze in lontananza. Diluviava, con tanto di tuoni e lampi abbaglianti. Che fortuna non dover uscire, quella sera.
Erano quasi le dieci di sera: perfetto, oltre alla colazione aveva saltato anche la cena.
Controllò il suo telefono quasi come riflesso involontario, per abitudine: come previsto, Blaine gli aveva scritto qualcosa, non molto tempo prima:
Dì a Dean che festeggio per sabato sera. Prenoto io.
Lo fissò per dieci minuti abbondanti: festeggiare cosa? E poi, perchè Dean? Trattenne malvolentieri l’impulso di gelosia che gli gonfiava le vene e poi realizzò: Blaine sabato voleva festeggiare qualcosa. Blaine sabato prenotava in qualche posto, come se spettasse a lui organizzare la serata.
Oh cazzo.
Armeggiò con il cellulare in cerca dell’agenda, con le palpitazioni in corpo: era talmente agitato che Tony si svegliò, inclinando la testa e abbaiando come per dire “Che diavolo succede?”
Fa che non sia il diciotto ottobre, pensò lui; ma il numero sull’agenda era semplice quanto devastante: diciotto ottobre. Il compleanno di Blaine.
Si vestì in tre minuti spaccati. Tony, sempre intorno a lui, saltellava tutto felice, leccandogli le punte delle dita e correndo tra le sue gambe. Bene, era un chiaro segno che volesse uscire, non gli era bastata la passeggiata di un’ora e mezza? Che cane ingrato. Ma Sebastian aveva da fare, e doveva anche farlo in fretta, non aveva tempo da perdere con Tony, quindi le cose erano due: o lo abbandonava sul balcone, sotto la pioggia e il vento... oppure.
“E va bene, ruffiano.” Nel momento in cui prese il guinzaglio dal cassetto, Tony abbaiò un paio di volte.
“Smettila. Non lo faccio per te. Spero soltanto che Blaine si addolcisca vedendo il tuo musetto strappa coccole.”
 
 
 
Blaine era a casa sua, sul divano. I capelli riccioli cadevano svogliatamente sulla fronte; indossava una tuta e una felpa della Dalton, blu scuro. Stava leggendo e rileggendo i messaggi che si scambiava con Sebastian.
Lo amava, nonostante tutto. Lo amava così tanto che, per un attimo, gli era parso di sentire la sua voce.
 “Blaine. Aprimi. Subito.”
No un momento: si voltò verso la porta e- la porta aveva davvero la sua voce. Oddio, stava delirando? Era quella la famosa crisi di mezza età? Oh porta parlante, stava cercando di risollevarlo da quella giornata deludente e tremenda?
“Ti muovi? Sta diluviando qui!”
Ok. Per essere una porta era un po’ scontrosa.
Forse non era una porta.
Aprì la porta con le sopracciglia aggrottate, completamente confuso: erano le dieci di sera, che ci faceva Sebastian lì? Perchè non lo aveva avvisato del suo arrivo?
Capì tutto solo quando lo vide con un muffin tra le mani, e una piccola candela spenta incastrata su di esso. Sebastian era zuppo da testa a piedi, nonostante il cappuccio della felpa, e Tony ancora più di lui.
“Sebastian, ma cos-“
“Sono un coglione.”
In quell’istante il cane si divincolò con forza, schizzando da tutte le parti e bagnando Blaine. Dopodichè, entrò in casa senza fare troppe cerimonie.
“Anche il mio cane è un coglione. Siamo due coglioni, Blaine, ma volevo solo dirti che ti amo. E che mi dispiace tanto, veramente tanto, di essermi scordato del tuo compleanno. Hai tutto il diritto di sbattermi la porta in faccia, ma almeno... prendi la torta.”
Gli porse il muffin mezzo annacquato.
“Cioè, la mini-torta. Senti, non avevo altro in casa, ho dovuto chiedere a una vecchietta per strada se avesse un accendino per la candelina, e mi ha preso per un tossicodipendente. Quindi fattelo bastare.”
Blaine continuava a fissarlo attonito.
“Okay, no, non fartelo bastare, sono un idiota, e questa torta fa schifo.” Abbassò il muffin, assieme allo sguardo. Sebastian non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi perchè, beh, perchè Blaine era la cosa più bella che gli fosse mai capitata e lui si era dimenticato del suo compleanno. Com’era possibile che si fosse dimenticato?!
“Sono davvero un idiota”, ammise a denti stretti. “Dio, non riesco nemmeno a scusarmi come si deve e- tu non hai mai dimenticato il mio compleanno, mai. Invece io pensavo solo a quello stupido esame.”
“Non importa”, Esordì Blaine, con voce tanto calda da attirare il suo sguardo: “Sebastian, va bene, insomma, è solo il mio compleanno.”
Solo il tuo compleanno?” Sbottò, “Ma che stai dicendo?”
“Sì, insomma, non serviva che venissi fino a qui...” Gli indicò il temporale alle sue spalle, e poi Tony: “Che vi bagnaste tutti per niente...”
“Niente? Blaine, il tuo compleanno non è niente.”
“È solo un giorno come tanti.” Ribattè. Sebastian fece un passo in avanti, e parlò seccato, agitato, con ancora l’adrenalina in corpo dalle ore precedenti, perchè Blaine non poteva pensare una cosa del genere, non su di lui.
“Questo”, Specificò, “È il giorno più importante dell’anno, perchè ventuno anni fa sei nato tu. E se non fossi nato non avrei mai potuto squadrarti quel giorno alla Dalton. Non avremmo mai potuto innamorarci e... Blaine, che cavolo, questo giorno è importante perchè tu sei importante. Sei più importante di qualsiasi cosa.”
Lo guardò dritto negli occhi per tutto il tempo; Blaine, quasi commosso, stava sorridendo. Era un sorriso dolce, pieno di sentimenti. Era la prova che quello che aveva appena detto fosse vero, perchè Sebastian lo amava, anche se perdeva la cognizione del tempo. Lo amava, e senza di lui non sarebbe stato lo stesso.
Lo amava talmente tanto da ricorrere a quelle dichiarazioni da telefilm messicano di quarta serata. Però, pensò che ne valesse la pena, quando Blaine lo abbracciò alzandosi sulle punte e dandogli un caldo bacio sulle labbra.
“Grazie”, Sussurrò, la sua voce era come un panno che lo asciugava dalla pioggia. “Ti amo.”
“Anche io.” Ammise. Si scostò da lui, solo per accendere la candelina sul Muffin e dire: “ Non credo che sia mangiabile, visto che si è ubriacato di acqua piovana nel tragitto, ma puoi comunque esprimere un desiderio.”
Blaine guardò prima la candelina, poi lui. Soffiò un attimo dopo con un sorriso divertito sulle labbra. Sebastian inarcò le sopracciglia, un po’ incuriosito: “... Cos’hai espresso?”
“Non si rivelano i desideri.” Sussurrò l’altro, facendolo entrare e sbattendolo contro la porta e cominciando a togliergli la felpa. “Però posso darti un indizio.”
E a Sebastian piacevano tanto gli indizi. Anche se non era molto bravo a coglierli.





 

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