Dormivamo segretamente nell'azzurro mare dei sogni

di Judee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo ***


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CAPITOLO PRIMO 
- little miss sunshine e ragazzo occhi cielo - 
 


Seduta in riva al mare, affondo i piedi nella sabbia, lasciando che i granelli mi solletichino i polpacci. Il sole di Agosto, ora fermo a metà del cielo, mi scalda la pelle, facendola quasi
bruciare, mentre socchiudo gli occhi e la salsedine annoda i miei capelli. Strigo le mani tra di loro, per stiracchiarmi: sento i muscoli che si distendono, mentre sulla superficie del mio corpo tante piccole squame si disegnano. Tutto è immobile. Tengo gli occhi ancora chiusi: quando sono sola mi piace ascoltare il silenzio.  Lo sciabordio delle onde, la risacca del mare, il rombo sordo del vento che fa increspare l’acqua e le fronde degli alberi sono quasi lontani, un sottofondo, mentre nella mia testa sento solo il silenzio. Oggi riesco a non pensare a niente. La luce accecante del sole riesce ad oltrepassare la barriera delle mie palpebre socchiuse e confondono le mie pupille così poco dilatate da sembrare quelle di un gatto, mentre nella mia mente esplode il bianco. È così intenso, brillante, che sembra quasi avvolgermi tutte le membra, mentre le labbra seccate dalla salsedine cominciano a muoversi articolando le parole di una canzone, una ninna nanna, vecchia nenia, come quelle che le nonne amano raccontare ai loro nipoti prima di portarli a letto per farli dormire, per far riaccendere la loro energia. La canticchio tutta, ballando solo con la testa, che oscilla a destra e sinistra. La voce è bassa, quasi sorda, e solo i gabbiani fanno da spettatori: è pomeriggio, troppo presto perché i pescatori escano con le loro barche. Quando l’ultima strofa si dissolve nell’aria, dischiudo leggermente le palpebre: la luce mi rende per un momento cieca, e mentre i miei occhi gli si abituano, sento qualcuno che si avvicina. È un passo leggero, quasi di gatto, ma percepisco lo stesso la sabbia che si muove quando solleva i piedi, e le mani che giocherellano tra di loro, stringendo ora il ciondolo che porta sopra al cuore, ora l’anello attorno al dito, in un’ansia sottile ma costante, che non lo abbandona mai. È così da quando è tornato. Si siede accanto a me, e le dita affusolate delle sue mani urtano leggermente la pelle rovente delle mie cosce, in un tocco che sembra quasi il fremito di una farfalla. Stringo di nuovo le palpebre, ma anche così posso vederlo: il ciuffo biondo sempre spettinato, color del miele, gli occhi dolci, spaventosamente profondi, l’azzurro cielo terso delle iridi contro il nero di cenere delle pupille. Vedo la curva del suo mento, i denti bianchi perfettamente allineati, le labbra sottili, pura ambrosia, esplosione di dolcezza, zucchero senza colpa, che ammaliano, e quando le guardi riesci solo a pensare a come deve essere baciarle, assaggiarle, sentirle su di te. Vedo la fessura tra di esse, il naso dritto, le guance morbide, le fossette. Due piccole incavature, che circondano il suo sorriso, aggiungendo nettare al miele. Sta sorridendo.
“Annie”
Apro gli occhi. Ora la testa è rivolta verso di me, le labbra hanno appena articolato il mio nome.
“Finnick”
Anche io lo guardo. Le mani continuano a muoversi nervosamente. Avvolgo le dite sulle sue, fermandolo.
“Come stai?”
“Esattamente come ieri”
Silenzio. Non è venuto qui per cercare parole, ma silenzio. Pace. Quiete. Le sue mani si sottraggono alla mia presa, e ricominciano il loro gioco di ansia.
Osserviamo le onde. S’infrangono sugli scogli, conquistano sprazzi di sabbia e tornano indietro, in una continua danza, antica come il mondo. Di sottecchi, lo osservo: anche lui, come me poco fa, è fermo, isola in mezzo alla tempesta, e aspetta che il sole arroventi la sua pelle, scacciando il freddo che sente dentro. Alcuni ciuffi di capelli  mi solleticano il viso, marrone terra contro bianco latte: la mia pelle è stranamente di Luna, per essere un’abitante del distretto Quattro. Con la mano li ricaccio indietro. Sento Finnick muoversi.
“Cosa farai questa sera?” chiede, socchiudendo le palpebre perché il sole è esattamente alle mie spalle.
“Non lo so. Tu?”
“Non lo so”
Lo osservo. È stanco. Come al solito.
“Perché non andiamo in biblioteca?”
“In biblioteca?”
“Sì. È un bel posto”
“Un bel posto? Pieno di libri?”
“I libri possono essere un grande mistero, una volta che li si apre”
Sorride.
“E queste perle di saggezza da dove escono?”
Sorrido.
“La verità è che sono un’aliena”.

***

Un urlo mi sveglia. È un urlo lungo, violento, profondo, terrificante, terrorizzante. Lo sento penetrarmi la carne, i muscoli, le ossa, entrare nelle mie vene, legarsi al sangue, circolare per tutto il corpo, fino a quando non ne sono interamente fatta prigioniera. Stringo i pugni, li porto sulla testa, mentre brividi gelati che hanno ormai preso il posto delle lacrime iniziano a espandersi per tutto il corpo, al ritmo incessante dei battiti del cuore. Se solo smettesse di battere… ora non sarei qui. Non in una cella buia, fredda… porto le mani sulle orecchie: non voglio sentire, non voglio parlare, voglio morire. Le urla sono sempre più frequenti. Alcune di esse sono anche le mie. Vengono a prendermi, mi trascinano fuori, mi portano in una stanzetta tutta gialla, è un giallo strano, brutto, da vomito, che fa schifo, che fa paura. Poi devo sdraiarmi su un letto di legno, e poi liberano degli insetti terribili, cha pungono, fanno male, e io voglio solo scappare, andare via, ma non posso muovermi, perché il letto ha tanti chiodi, che spingono sulla mia pelle, la bucano, fanno uscire sangue, e fa male… Urlo, urlo, urlo che la gola mi fa male, urlo che le labbra si spaccano per quanto la bocca è aperta, urlo che gli altri devono uscire dalla stanza perché fa troppo male stare lì a sentire…
Poi svengo. Vado via. Scivolo lontana. Il dolore svanisce, non sento più il sangue che scorre sulle tempie, non  sento più i pungiglioni sugli occhi… sono scivolata via.
Credo mi riportino indietro trascinandomi sul pavimento, perché quando mi risveglio la mia stanza è sempre piena di strisciate di sangue. E allora vomito. Vomito tutto il mio odio, la mia rabbia, il mio dolore. Non so più quanti anni ho. Da quanto tempo sono qui. Chi sono. E fa male. Tutti i giorni devo elencare ciò che ricordo del mio passato, perché non voglio dimenticarlo.
Vengo da un posto vicino al mare.
Mi piace il mare.
Ho i capelli marroni.
Mi chiamo Annie.
Annie Cresta.
E sono prigioniera.




******************************************

Angolino della vergogna

Visto che ho pubblicato questa cosa in un momento di rapsus freudiano, vi do solo un piccolo avvertimento: nella prima parte chi parla è Annie adolescente, nella seconda Annie prigioniera di Capitol City. Dal momento che è già pazza, ho cercato di usare un linguaggio più concitato, e spero di essere riuscita almeno un po' nell'intento :)
Detto ciò, ringrazio chiunque passerà a dare una sbiarcitina, ed ora... mi eclisso. 

Judee 

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo ***


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CAPITOLO SECONdo 
- la Neve inizia a cadere - 


Dopo una serata passata seduti sulle seggioline in plastica arancione della Biblioteca Distrettuale numero 4, ho salutato Finnick e sono andata a casa. Ho trovato mia madre e mia sorella intente a preparare la cena, mentre mio padre non era ancora rincasato dal lavoro. Sono salita in camera, e mi sono stesa sul letto, scarabocchiando a caso su un foglio pescato da sotto al letto, in mezzo a polvere e capelli. Ho disegnato una balena, una casa, una bambina che balla. Ok, no. Ho disegnato una salsiccia, un quadrato e un omino stilizzato con una bellissima gonna di tulle rosa. Ma l’importante è averci provato.
Ora sono seduta sul balcone che dà sul piccolo fazzoletto di terra che non ho nemmeno il coraggio di chiamare giardino, intenta a fissare le stelle immaginando di essere  una chissà quale studiosa, mentre con il dito traccio il profilo di una costellazione appena inventata. Immagino come sarebbe volare, stare distesa sulle correnti d’aria, lasciandosi trascinare da quelle magia misteriosa che è il vento. Mi piacerebbe essere lassù, vedere Panem, gli altri distretti, e poi, perché no, andare oltre, al di là del mare che bagna le spiagge del Distretto Numero 4, fino alla fine del mondo. Perché il mondo finirà prima o poi, no? Non può andare avanti all’infinito, come una sfera che ruota su sé stessa. Chissà se c’è davvero qualcuno, o se Panem è l’unica forma di vita sul Pianeta, come ci hanno insegnato a scuola. Chissà se nelle Nuova Terra gli animali sono come i nostri, se i delfini nuotano allo stesso modo, se i passeri cantano allo stesso modo. Chissà…
Una voce interrompe i miei pensieri: mio padre è appena rincasato, ed è l’ora di guardare il quotidiano programma mandato in onda da Capitol City, in preparazione ai Settantesimi Hunger Games. Mio padre aspetta con ansia l’edizione di quest’anno, dal momento che io non sono mai stata sorteggiata – e sospetto che questo sia il suo sogno segreto – sorte che invece è toccata a Finnick cinque anni fa. Il ronzio della televisione sembra davvero quello di un’ape, e non posso fare a meno di rabbrividire: quegli schifosi essere sono una specie di fobia nascosta, nel senso che non appena ne vedo una scappo urlando con le mani nei capelli. Ma questo mio padre non lo sa e non lo verrà mai a sapere, a meno che io non voglia ritrovarmi improvvisamente sola senza una famiglia. L’immagine congelata del Presidente Snow, incredibilmente rassomigliante ad una maschera di plastica, compare improvvisamente sullo schermo, mentre in sottofondo partono, subito imitati dai componenti della mia famiglia, cori di ovazione per L’Uomo Senza Alcuna Espressione Facciale, alias il Presidente. Devo ammetterlo, fino a pochi anni fa anche io ero così: ma a mia discolpa posso dire che ero solo una povera bambina innocente, succube degli avvenimenti del suo distretto, che vedeva i ragazzi più grandi offrirsi sempre volontari e tornare a casa felici e pimpanti nella maggior parte dei casi, ovviamente senza aver mai visto una sola edizione dei Giochi. Dire che dopo l’edizione di Finnick tutto è cambiato potrà sembrare ridicolo, ma è così. Anche perché, se ben ricordo, quando fu sorteggiato nessuno si offrì al suo posto, perché il Gymnasium (la scuola dove ragazzi e ragazze imparano, essenzialmente, ad uccidere) aveva dovuto chiudere a causa di un’inondazione avvenuta a Settembre, ed era quindi rimasta bloccata senza permettere a poveri fanciulli e pulzelle di esprimere tutto il loro potenziale omicida. Ergo, Finnick è pescato, nessuno si offre per salvargli la (bellissima) pelle, mentre tutte le ragazze si disperavano, fatta eccezione per la Tributa femmina, ben felice di passare una settimana a stretto contatto con Il Dio (simpatico nomignolo affibbiato al MIO – leggere bene, prego – ragazzo all’età di dodici anni. Ovviamente nessuno deve azzardassi a dirlo davanti a me, a meno che non voglia ritrovarsi senza capelli, braccia o qualsiasi tipo di arto). Inutile dire che la ragazza, Deverley Inane, è morta nell’Arena, uccisa dalla fame e dal freddo – come del resto tutti i Tributi tranne Finnick. Lui è stato l’unico che nella sua edizione ha ricevuto aiuti dagli Sponsor, e questo forse ha reso l’Arena meno difficile da sopportare, per lui. Forse, se non avesse dovuto uccidere, oggi sarebbe un normale ragazzo delle sua età. Forse, se i Giochi non lo avessero mai attratto nella loro trappola, ora Finnick non sarebbe con me, e questo mi renderebbe più felice, perché saprei che è tranquillo, sta bene. Ma la storia, come ho imparato a mie spese, non si costruisce con i “se” e con i “ma”, e Finnick è stato sorteggiato, ha preso il treno, se n’è andato, ha conquistato, ha ucciso, è tornato, è crollato. Sembrava così perfetto, quando è partito. Così forte. Poi il vento di Capitol City ha soffiato, e la bacchetta di vetro che è il suo animo è venuta alla luce, ed essa ha riflettuto tutte le mille sfaccettature del suo cuore, rendendolo vulnerabile, rendendolo indifeso. Forse è questo che ci ha avvicinati, credo. Anche io penso di essere, a mio modo, indifesa: come possono due mani sugli occhi nascondermi tutto l’orrore che c’è nel mondo? Come potrebbero delle mani sulle orecchie mettere a tacere le urla dei bambini mandati a morire? Sono cresciuta, stando con Finnick. Sono cambiata, ho preso coscienza del mondo che mi circonda, di cui, lo ammetto, fino ad allora non sapevo nulla. Scoprire cosa gli Hunger Games fossero davvero, scoprire come vivessero gli abitanti di Capitol, credo mi abbia reso una persona migliore. E lo dico senza vergogna, non per vantarmi o altro. È una cosa che ho acquisito, che mi ha fatto capire quanto fossi ignorante e illusa, e non vedo come la gente possa pensare che questo sia un vanto. Ora, seduta davanti al televisore, l’allegria del pomeriggio con Finnick ha lasciato il posto ad una profonda malinconia, che si accentua ad ogni sorriso di mia madre, ad ogni applauso di mia sorella, ad ogni complimento di mio padre. Li guardo e davanti a me non vedo dei mostri, ma persone normali, come me, come Finnick, che non hanno avuto la possibilità di scoprire come vanno davvero le cose. Preferisco vederla così, piuttosto che ammettere che la mia famiglia sia estremamente, fondamentalmente cattiva. È la mia famiglia, e non voglio.
“Buonasera abitanti di Panem. Anche oggi siamo qui, insieme, uniti come un solo corpo, nell’attesa dell’evento più importante dell’anno: i nostri Hunger Games!”
La voce di Snow sembra quasi un gracchio per colpa delle casse audio, ma il disprezzo nella sua voce, la cattiveria nei suoi gesti si percepiscono lo stesso, dai movimenti della bocca, dalla piega dei capelli. Trasuda marcio, quell’uomo.
“Come sempre, gli Hunger Games hanno la funzione di rappresentare la nostra unione come stato, come Panem. Qui non ci sono differenze. Qui non ci sono diversità. Qui è dove ognuno è libero di essere quello che è, senza limiti! E tutto ciò è possibile, abitanti di Panem, perché noi viviamo i pace. Una pace difficile, cercata, conquistata. Siamo rinati dalle nostre macerie dopo i Giorni Bui, ed ora siamo un popolo felice!”
Il vomito. Sento i conato lungo l’esofago, e devo trattenermi. Unna puzza di uovo marcio entra nella mia bocca e sale fino alle narici, mentre fingendo un attacco di tosse rimando giù la bile.
“Ed ora, abitanti di Panem, dobbiamo salutarci. Ma non disperate! I nostri strateghi hanno preparato una deliziosa sorpresa per voi. Felici Hunger Games! E possa la fortuna essere sempre a vostro favore”
La scena si sposta su una folla di cittadini festanti, che inneggiano al loro presidente. La scena è più o meno quella che si sta sviluppando a casa mia in questo momento, e a fatica trattengo il vomito. Il discorso di Snow è probabilmente quello che gli strateghi monteranno come sottofondo del video del giorno della Mietitura.
Rabbrividisco.
La Mietitura.
Mancano quattro soli giorni.
 

***



Ho il sangue sui capelli, sulle mani.
Ho il vomito sulle gambe, sui piedi.
Ho le lacrime sul viso, sulla pelle. 









**** ANGOLINO DOVE SONO RIPARATA DAI POMODORI CHE MI LANCERETE ***

Heilà! C'è nessuno?
Ok no. 
Bene. 
Come potete vedere, questo è il secondo capitolo. L'ho scritto in due giorni diversi, e credo si noti il passaggio da uno stilo più comico ad uno più in linea con il primo capitolo. 
QUINDI. 
Spero vi piaccia , e vi invito a lasciare una piccola recensione. 


Grazie a 
Yvaine_ per la sua recensione :) (molto, molto, mooolto gradita, continua così ragazza)

Per ora (ma solo per ora)
SAYONARA!

Judee

 

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo ***


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CAPITOLO TERZO 
- le sensazioni che il mare ti può dare - 


Lunedì 27 Agosto, ore sei e quarantacinque minuti. Sono seduta in cucina insieme a mia sorella e mia madre, facciamo colazione: la giornata oggi inizia presto. Entro le sette e mezza bisogna trovarsi nella piazza del Palazzo di Giustizia, aspettando di ricevere la propria mansione quotidiana. I bambini fino ai dodici anni e i ragazzi di Gymnasium sono esclusi dal lavoro, mentre io, che frequento la scuola normale, sono obbligata a presentarmi tutti i giorni, eccetto i sabati, le domeniche e i mercoledì. Mia sorella lo stesso, e mia madre anche: solo mio padre, che è un pescatore, è esentato. Anche Finnick in realtà, dato che è un Vincitore.
Finito di mangiare, metto la tazza nel lavandino e salgo in camera per vestirmi: la mia divisa da lavoro mi aspetta sul letto. Sembra quasi che si sia un’altra me sdraiata sul materasso, che mi aspetta con ansia. Sfilo la camicia da notte che cade ai miei piedi, e a coprire il mio corpo pallido rimane solo della leggera biancheria intima. Mi osservo allo specchio: i piedi minuscoli e tagliati dalle passeggiate sulla spiaggia, le caviglie sottili, le gambe pallide, i fianchi un po’ troppo larghi, la pancia, la vita, le spalle, il collo, il viso, i capelli. Sfioro con le dita gli avambracci e la leggera peluria che si trova si di essi, e mi viene la pelle d’oca. Rimango con gli occhi fissi sul mio corpo che cambia giorno dopo giorno, anno dopo anno, mentre brividi che partono dalla spina dorsale si espandono per tutto il corpo. Sono immobile, prigioniera di strani pensieri che ora attanagliano la mia mente, e per la prima volta mi rendo davvero conto che la Mietitura è tra soli tre giorni, che io potrei essere sorteggiata, che mia sorella potrebbe essere sorteggiata, che le mie amiche, compagne, potrebbero essere sorteggiate, e allora il mondo mi crollerebbe addosso, e dovrei stare qui a casa mentre ognuna di loro rischia la vita. E allora forse meglio essere sorteggiati: così sarò io a soffrire, non qualcun altro. Ma la mia famiglia? Cosa faranno se io morirò? Se dovrò uccidere? Non c’è soluzione, non c’è via di fuga. È questa la logica degli Hunger Games: intrappolarti nella certezza che niente potrà salvarti dalla paura, dell’angoscia, che in qualunque modo non sarai mai al sicuro, perché loro possono colpirti.
Respiro velocemente, mentre l’ansia s’impadronisce di me: voglio andare via, fuggire, ma non posso. Sento i polmoni schiacciarsi, fatico a respirare, mi sdraio sul letto stringendomi la testa tra le mani, chiudendo gli occhi, mordendomi le labbra. La stoffa ruvida della divisa pizzica la mia guancia, mentre nella bocca inizio a sentire il sapore del sangue. Il respiro è quasi mozzato, la testa mi gira.
Ho paura.
All’improvviso dei passi risalgono la scala, e riconosco la camminata quasi stanca di mia madre. Non voglio che mi veda così, anche perché forse non capirebbe. Mi tiro su seduta, mentre il sangue defluisce con calma. Balzo in piedi, e in un attimo indosso i pantaloni di juta celeste e la giacca che costituiscono la mia divisa. Mi sfrego gli occhi per cancellare la presenza di lacrime di cui nemmeno mi ero accorta, ingoiando le ultime gocce di sangue. Quando mia madre entra, non si accorge di niente: mi dice semplicemente di sbrigarmi, che è ora di andare. La seguo giù dalle scale, in silenzio, mentre mi fa le solite raccomandazioni: non parlare, non alzare la testa, lavora fino alla fine del tuo turno. Mia sorella mi aspetta all’ingresso, battendo sul pavimento il piede: i suoi zoccoli in legno, uguali a quelli che indosso io, fanno un rumore piacevole, che ricorda le gazze.
Usciamo coprendoci gli occhi con le mani, perché il sole è già alto sull’orizzonte. Mia madre ci guarda, forse triste, forse stanca, fino a che la strada non ci nasconde ai suoi occhi: lei uscirà dopo.
Io e Tamata camminiamo fianco a fianco in silenzio, ascoltando il rumore dei nostri pantaloni che sfregano tra di loro, guardandoci di sottecchi senza farci vedere. Facciamo sempre così, quando siamo insieme. Non parliamo, ci guardiamo. Di nascosto, perché i veri sentimenti sono quasi un tabù, nella nostra famiglia.
La osservo: è così diversa da me, che a volte mi chiedo se siamo davvero sorelle. Ha i capelli corti, scurissimi e ricciuti, una carnagione che è di terra e cioccolato. Le labbra sembrano ciliegie appena colte, la statura alta, slanciata, un giunco sottile. È una di quelle persone che la gente si volta a guardare per strada, una di quelle che o la ami o la odi. Non ci sono mezze misure, con Tamata. Il suo nome stesso, riferito alle sensazioni che il mare può dare, ne è l’esempio: il mare si ama o si odia, Tamata si ama o si odia. È cresciuta molto nell’ultimo anno, forse troppo: ma ha compiuto dodici anni, e la Mietitura ti fa crescere, che tu lo voglia o no.
All’improvviso, i nostri sguardi si incrociano, e lei fa un sorriso tirato, a cui rispondo con un cenno della mano, mentre la piazza appare davanti ai nostri occhi. È già gremita di gente, ma sappiamo entrambe da che parte andare, in quale colonna metterci in coda. Appena prima che ci separiamo, mi stringe la mano e mi saluta, per poi allontanarsi a passi rapidi. Rimango ferma un istante per vedere se ha trovato qualche sua amica, poi, quando la vedo chiacchierare tranquillamente con una compagna di classe, mi metto in coda e aspetto il mio turno. Ci sono circa quindici persone davanti a me, ma in questi casi i Pacificatori sanno essere efficienti, e dopo soli dieci minuti ho il mio incarico stampato sul braccio: allestimento palco fino alle undici, pranzo fino alle undici e trenta, inventario degli oggetti fino alle sedici. Speriamo che a Tamata sia andata meglio.
Mi dirigo alla tenda dove distribuiscono gli attrezzi, e mi ritrovo in mano delle viti ed un trapano che dovrò imparare ad usare in fretta, più una serie di cerotti in caso mi perfori un dito. Come se un minuscolo pezzo di scotch colorato potesse fermare una possibile emorragia.
Ora che ho più o meno l’aspetto di un ferramenta, posso dedicarmi alla mia mansione.
Guardo l’orologio: ore sette e cinquanta. Buona giornata, Annie.

***


Mi fanno male le mani. È tutto quello che sento. Un dolore terribile, lancinante, che parte dai polsi e si irradia fino alle unghie.
Fa malissimo.
Ma cosa è successo? Perché sento la pelle rovente, bruciante? Cosa mi è successo?
Vorrei ricordare, ma non ci riesco. So solo che poche ore fa mi hanno presa e portata via, credevo nella solita stanzetta ma no, era un’altra, diversa, più grande. Ricordo solo che ho avuto paura. Tanta paura. E che per un istante ho visto il volto di Finnick sorridermi davanti agli occhi, rassicurante.
Finnick, dove sei? Come stai? Sono anche tue le urla delle anime frantumate che sento qui? Il tuo corpo è lacero come il mio? Finnick, Finnick. Finnick. Aiutami. Ti prego. Non lasciarmi qui. Vienimi a prendere. Ti prego.
Finnick. 





*******

Angolino della Vergogna 

Salve! C'è ancora qualcuno? *sbircia fuori ma neanche i grilli si fanno sentire*
Ok, scusatemi l'IMMENSO, MOSTRUOSO ritardo, ma la feste mi hanno un po' assorbita... sorry :)

Bene, in questo capitolo ho presentato Tamata, sorella di Annie (il cui nome è credo persiano). Come vi sembra? So che può apparire una specie di Barbie, ma vi garantisco che non è parte fondamentale, nella storia. Preferisco concentrarmi sul rapporto tra le due, diverso di quello tra Katniss e Prim.


Detto questo, i ringraziamenti: 
Per le loro recensioni Yvaine_ e miribick 
Per aver inserito la storia tra le seguite beba_riddle_odairCryna1234 , eltaninmalfoy9698,GiadaWriterhurricane24Lunastorta s wife,morosita8QueenNiffler91tama_chan_ di nuovo Yvaine_  
Per le preferite wantonedhere 
Per le ricordate  Cryna1234 e SeelLith


Hasta la vista gente! Alla prossima!

Judee
 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto ***


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CAPITOLO QUARTO
- in un mare di anime sole - 
                             


Mentre sto infilando l’ultimo chiodo che dovrebbe tenere insieme l’intera struttura, l’altoparlante mi annuncia che è ora di pranzo. Sbuffando mi alzo, lentamente per lasciar distendere le gambe annichilite dalla posizione scomoda, stiracchiandomi schiena e collo, socchiudendo gli occhi alla luce del sole. Lascio che goccioline di sudore caldo scendano lungo la fronte ed il collo, poi mi avvio ai grandi tavoli posti appena fuori la recinzione che delimita la nostra area di lavoro. Il bancone dei cibi non è altro che una ridicola cattedra della scuola con appoggiati sopra vari piatti di plastica impalpabile che a momenti si sgretola con il solo sguardo su cui trionfano, si fa per dire, le migliori prelibatezze che il nostro distretto può offrire: pesce, pesce e ancora pesce. Almeno diventerò tanto intelligente. I vassoi giallo ocra sono impilato alla sinistra del bancone, uno più sporco dell’altro. Ne afferro uno con la destra, mentre con la sinistra agguanto un pacchettino di posate, aspettando che arrivi il mio turno per servirmi, e quando è il momento la cuoca mi sbatte sul vassoio una minuscola porzione di quello che apparentemente sembra essere pesce spada misto ad un contorno di pomodori probabilmente scaduti tra i sette e gli otto anni fa. La sua socia, grassoccia, unticcia e odiosa quanto lei, ancora meno delicatamente mi dà una bottiglietta d’acqua, un bicchiere ed un pezzo di pane, probabilmente l’unica cosa veramente commestibile di tutto il pranzo. Cercando di non far cadere tutto il ben di Dio che reggo nella mano sinistra, mi avvio alla ricerca di un tavolo libero, anche se probabilmente sarebbe più facile rubare le mutande di Snow, data la massa di gente accalcata sulle (poche) sedie libere. Sospirando, mi avvio verso la recinzione, dove con cura scelgo la radice che per i prossimi venti minuti avrà l’onore di ospitare il mio sedere. Ignorando la sensazione di nausea che sembra rivoltare il mio stomaco, ingoio tutto il pesce e metà verdura, lasciando il pane alla fine. Quando ho finito, bevo l’acqua un sorso alla volta, per gustarmi la sensazione di un liquido freddo che raggiunge le profondità delle mie membra. Mentre siedo in silenzio, un rumore di passi disturba la mia quiete, e una voce che conosco bene mi distrae dalle riflessioni:
“Allora è qui che sei! Ti ho cercata dappertutto! Che turno hai pomeriggio?”
“Ciao Althea, anche io sono davvero felice di vederti. Io sto benissimo, la mia famiglia anche. Tu?”
“Uff, come sei! Comunque, dopo mi tocca l’inventario. A te?”
“Lo stesso”
“Ah bene. Senti, non è che potresti aprire gli occhi? Giusto per guardare in faccia la persona con cui parlo. Sai, si chiama educazione”
“E la tua si chiama rottura di palle! Non è colpa mia se ti sei messa esattamente dove c’è il sole”
“Il sole bacia i belli cara mia. Ma capisco la tua invidia”
Althea si siede accanto a me, posando il vassoio sul mio. Mentre mastica rumorosamente il mio stesso pranzo, continuo a rimanere ad occhi chiusi, godendomi la sensazione della pelle che brucia. Quando sento che ha finito, mi giro a guardarla, e la sua figura mi appare davanti allo sguardo, ancora un po’ intontito dalla luce del sole. Piano piano, metto a fuoco ogni suo particolare: i capelli castani disordinati, la carnagione d’ambra, gli occhi scuri e i denti bianchi, la divisa da lavoro, i bracciali e le cavigliere che le cingono polsi e caviglie. Mentre sistema il vassoio, una ciocca cade scoprendole l’orecchio ed il gioiello che lo orna: il sole batte su di esso, creando giochi di luce che si riflettono sul mio corpo.
“So di essere bellissima, ma smettila di fissarmi, che mi metti ansia” Ora è Althea a guardarmi, in un misto tra curiosità e divertimento. Allungando la gamba, le solletico i piedi con i miei zoccoli, e il suono della sua risata si leva in mezzo al vociare che circonda la mensa.
“Sai, ho visto tua sorella prima, e stava chiacchierando con Gus Twelby… fossi in te la terrei d’occhio!”
“Tamata sa badare a sé stessa. E poi mica sono la sua guardia del corpo!”
“Se ce l’avessi io una sorella credo che passerei tutto il giorno a seguirla per vedere cosa fa”
“Ma per fortuna sua sei figlia unica, quindi…”
“Eh già. Ma so di avere un animo da sorella maggiore, nel profondo”
“Guarda che non c’è tutto il giorno per scavare!”
“Eh?” Althea mi guarda un po’ confusa, come se non avesse affatto capito cosa ho detto. In realtà ha un senso dell’umorismo pari a quello di una sardina.
“Eh cosa?”
“Non ho capito cosa hai detto: scavare? Dopo devi andare alla cava?”
“Ma no! Cosa hai capito?! Tu hai detto che sei una sorella nel profondo, e io ho detto che non c’è tutto il giorno per scavare alla ricerca di questa “sorella”… sai scavare… per portare alla luce le cose…”
Le mimo una persona che vanga nel terreno, ma la sua espressione attonita mi fa desistere più o meno subito.
“Va beh, lascia perdere”
“Si infatti. Piuttosto, non hai niente da raccontarmi?” chiede, ammiccando in quella che vorrebbe essere un’espressine furbetta. So benissimo a cosa sta alludendo, ma non voglio darle questa soddisfazione.
“No no, nulla da raccontare. Tu?”
“Proprio niente niente? Sicura?”
“Sicura”
“E Finnick?”
Aha. Eccoci finalmente! Il fulcro di tutta una mezz’ora di conversazione.
“Finnick sta bene” le rispondo, controllando l’orologio per vedere quanto manca alla fine della mia pausa: sette minuti. Ce la posso ancora fare.
“Tutto qui?”
“Ora devo proprio andare, la mia pausa finisce ora…” mi alzo e lentamente mi allontano, mentre Althea dà sfoggio di tutto il suo repertorio di insulti.
“Brutta idiota! Torna subito qui! Mi devi raccontare di Finnick!”
Sorridendo, me ne vado, lasciandomi alle spalle Althea, le sue grida, e la mensa affollata di anime sole come me.

***

Le lacrime sulla mia faccia sono secche. Il sangue sulle mie ferite è secco. La mia anima è secca. Briciole, polvere, è tutto ciò che rimane di me, della mia essenza. Sono un deserto arido, prosciugato dai venti di Capitol City. Non so più chi sono, cosa sono. Non ho più nulla. Cosa mi rimane ormai? Avevo una famiglia, e l’ho persa. Avevo un’amica, e Capitol City l’ha portata via. Avevo una vita, avevo una casa, avevo la libertà. E ora sono sepolta viva in un buco buio e maleodorante, prigioniera della mia stessa mente. Ora che sono qui, il Distretto Quattro mi sembra quasi il Paradiso. Mi manca tutto. La mia identità è stata annullata, cancellata, eliminata. Chi sono? Cosa sono? Capitol City mi ha portato via tutto. Ma la cosa peggiore, è che si è presa anche me. 








***************

Angolino della vergogna

Buenos dias, gente! Scusatemi il ritardo. Davvero. Ero piena di compiti, e tra tutto ho anche preso un bellissimo 3 e mezzo in latino... 
Detto questo, ho cercato di dare al capitolo, almeno nella prima parte, un tono più "comico", mentre nella seconda, volevo che trasparisse tutto lo stato d'animo di Annie, che si sente praticamente persa. 
Ringrazio sempre: 
per le recensioni: 
SweetieOwl e Yvaine_   (che ha anche inserito la storia tra le seguite)


E ora, Adios!
Alla prossima, muchos besos :)


Judee

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto ***


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CAPITOLO QUINTO
Gli intrighi del potere. Non puoi vincere, ma ci sono delle alternative al battersi - 

 
 
Continuo a rigirarmi nel letto, senza prendere sonno. Tamata, nella stanza accanto, fa lo stesso. Sento il letto che cigola sotto al peso del suo corpo che si muove, sento le sue dita attorcigliare nervosamente il pezzo di corda che le cinge il polso, mentre i polpacci sfregano contro le lenzuola ruvide. Il suo respiro è affannoso, ma so che sta cercando di tapparsi la bocca con il cuscino, perché nessun deve vedere, nessuno deve sentire. Vorrei alzarmi, andare di là, consolarla, stringerla a me e dirle che andrà tutto bene, come quando eravamo ancora bambine. Lentamente, sfilo una gamba e poi l’altra, appoggio i piedi sul pavimento, alzo la testa e lasci che il sangue defluisca poi, lentamente, cercando di non fare rumore, attraverso la mia stanza, esco sul corridoio e spingo la porta della camera di Tamata.
“Tamata? – sussurro – Tamata?”
“Annie” risponde lei, la voce impastata dalle lacrime che cerca di cancellare.
“Posso entrare?” chiedo, cercando di abbassare il tono di voce il più possibile. La luce della luna rischiare leggermente la penombra della casa, e vicino alla finestra si vedono granelli di polvere immobili, sospesi nell’aria.
Sento Tamata mettersi a sedere, poi la sua voce mi invita ad entrare. Apro del tutto la porta, e la luce della sua lampada ad olio mi colpisce gli occhi. Mi avvicino al suo letto, dove lei mi fa posto , e ci stendiamo una accanto all’altra. Non una parola. Solo sguardi. La sento tremare, ma alla fine il suo respiro si fa piano piano un po’ più calmo, fino a quando il suo petto non smette di sollevarsi affannosamente. Allora, con calma, comincio al accarezzarle i capelli, dalle radici fino alle punte, cullandola come una bambina. La sua mano si intreccia alla mia sotto al lenzuolo, mentre con il piede batte sul pavimento. Rimaniamo così, ferme, non so per quanto tempo, io che la cullo e lei che si aggrappa a me. Passa un’ora, forse due. Alla fine, a fatica, Tamata si riaddormenta, la testa appoggiata alla mia spalla, le nostre mani ancora strette. Le lacrime sul suo viso sono ora secche, e il cuscino non è più premuto sulla faccia per nascondere il terrore che le mangia l’anima. Addormentata, Tamata sembra una di quelle principesse che vivono nelle favole di piazza, quelle che i nonni amano raccontare ai propri nipotini, forse per allontanare un po’ dalla loro mente l’orrore che sarà il loro futuro. Cercando di non svegliarla, mi libero dalla sua stretta e mi avvicino alla finestra, perché improvvisamente mi è venuto un gran caldo. Spalanco i vetri, e la corrente solleva la delicata stoffa bianca della mia camicia da notte, che mi danza attorno alle caviglie. La luna, ora un po’ più bassa nel cielo, tra poco dovrà fare posto alla luce dirompente del sole, ma fino ad allora è lei l’unico faro nella notte, l’unico rifugio per i marinai dispersi come me. Con la mano sistemo una ciocca ribelle di capelli, per poi inspirare l’aria salata del mio mare, della mia casa. Mi volto a guardare Tamata: è tranquilla, ora. Agilmente, infilo il piede oltre la cerniera della finestra, appoggiandolo sul muretto sottostante. Mentre scavalco, tengo le mani ben ancorate al legno delle persiane, per rimanere in equilibrio. Quando sono in piedi, cammino in punta di piedi fino alla scala  di legno appoggiata al tetto spiovente, iniziando a scenderla cercando di non perdere l’equilibrio. Arrivata in fondo, appoggio i piedi sull’erba secca che colora il mio giardino, e mi ricordo solo ora delle ciabatte accuratamente allineate ai piedi del letto. Sbuffo, ma non ho assolutamente voglia di tornare indietro, e m’incammino verso la spiaggia. Oltrepasso il basso cancelletto di legno, percorro il vialetto che separa la mia casa dalla strada, cammino per una decina di metri, svolto a destra. Passo sotto al ponte della ferrovia, svolto all’angolo del Villaggio dei Vincitori. Mi fermi un momento, e vedo che la luce della casa di Finnick è accesa: forse anche lui non riesce a dormire, come me e Tamata. Tentenno, vorrei andare da lui, vorrei che mi stringesse tra le braccia, che mi dicesse che va tutto bene, che non possono sorteggiarmi, perché non possono, è assurdo che proprio io verrò scelta. E poi mi dicesse di stare tranquilla, perché  tanto i ragazzi del  Gymnasium smaniano sempre per offrirsi, e che l’autorità di mio padre non fa paura a nessuno, quindi se anche venissi scelta nessuno avrebbe timore ad offrirsi al mio posto. Vorrei tutto questo, e poi vorrei un bacio sui capelli, una carezza sulla fronte, un abbraccio infinito e mozzafiato, vorrei sdraiarmi accanto a lui, sentire le sue mani accarezzarmi i capelli, i suoi piedi giocare con il bordo dei miei vestiti. Vorrei, vorrei morire dentro ai suoi baci, soffocare nella stretta delle sue braccia, addormentarmi sul suono della sua voce. Sento che dentro qualcosa mi si spezza, come se la presenza di Finnick a soli dieci metri da me avesse fatto scaturire tutta la mia solitudine, tutta la mia infinita lontananza da un mondo che non capisco, che odio. Vorrei correre, spalancare la porta, sdraiarmi con lui e non pensare a niente, ma stasera non posso, non oggi, oggi devo stare da sola , questa notte non è fatta per stare in due. Devo farmi forza per andare avanti, oltrepassare il cancello semi aperto, allontanarmi da lui, per raggiungere la spiaggia. Le onde del mare mi bagnano i piedi e l’orlo della vesta bianca, mentre alcuni schizzi salati colpiscono la pelle chiara della mia faccia. In piedi, investita dalla luce della luna, sembro quasi eterea, come una fata. I flutti, lo sciabordio delle onde, è una canzone eterna che mi chiama, mi strega, e lentamente, un piede avanti all’altro, lascio che l’acqua mi bagni tutta, mi ricopra, fino a quando non solo altro che un corpo che galleggia, in balia delle onde del mare. A mezza voce comincio a canticchiare una vecchia canzoncina, così bassa che nemmeno io riesco a sentirmi. Protetta dal calore dell’acqua, sento l’angoscia impossessarsi sempre più di me, mentre i capelli e la camicia da notte fluttuano attorno al mio corpo come le ali di una farfalla. Guardo la luna, il mare che mi circonda, la spiaggia vicina, le alghe che navigano accanto a me. Agito le mani ed i piedi. Nuoto fino a toccare il fondo con i piedi, e torno indietro, galleggio, mi immergo. Non riesco a smettere di pensare. Neanche il mare riesce a cancellare quello che ho dentro. Vorrei sfogarmi, ma non so come. Picchio le mani contro l’acqua, ma l’elettricità che mi scorre nelle vene non svanisce. Nuoto, mi immergo, tocco il fondo, esco dall’acqua, corro, torno in acqua. Canto. Salto. Ma l’elettricità è sempre lì. Le mani mi fanno male, tanta è la forza con cui stringo i pugni. Ma non voglio pensare. Non devo pensare. Le lacrime non riescono nemmeno ad uscire, sono bloccate. Voglio urlare, ma sarebbero tutti attirati dalle mie urla. Corro, corro. Cado, la sabbia mi sporca le mani. Respiro affannosa. Poi crollo. Mi accascio a terra, senza rumore. Come una farfalla che muore. I singhiozzi ora scuotono le mie spalle, il mio lamento si leva alto nel cielo. perché mi sento così? È solo una Mietitura. Come tante. O forse no. Tamata non aveva mai pianto. Non aveva mai avuto paura. A lei i giochi piacevano, in un certo senso. A volte la sera li guardava. Sono sempre stata io la debole della famiglia. La vigliacca, la codarda. O forse no? Tamata è cambiata sotto ai miei occhi senza che io me ne accorgessi? Ha smesso i costumi della bambina per entrare in quelli della donna? Ha mentito davanti ai nostri genitori per tutto questo tempo? I suoi applausi erano solo una messa in scena? Ma sono così cieca, io? Non mi accorgo nemmeno se mia sorella sta male? No, non può essere. Piango, piango tanto. Mi odio. Come ho potuto non accorgermi che mia sorella era sola esattamente come me? Come? Sono così chiusa dentro alla prigione della mia mente, che non mi accorgo nemmeno della figura che si avvicina. Non sento che mi chiama. Non sento che mi sfiora la mano, che mi solleva delicatamente da terra. Quando sento che i miei piedi non toccano più terra, apro gli occhi. Il viso di Finnick è incredibilmente vicino al mio, teso per lo sforzo di portarmi in braccio. Le sue spalle si alzano e abbassano allo stesso ritmo delle mie. Le sue gambe battono contro le mie. Il suo corpo è premuto contro il mio. Caldo contro freddo. Forza contro debolezza. Sicurezza contro disperazione. Mi rannicchio, stringendomi a lui. Mentre cammina, guardo il mare che si allontana. Le onde. Le orme che ho lasciato sulla sabbia. La strada che ora stiamo percorrendo, verso il Villaggio dei Vincitori. Oltrepassiamo il cancello. Le luci nelle altre case sono spente. Finnick sale le scale di legno, apre la porta con il piede. Mi porta dentro alla sua casa, dove tutto trasuda solitudine. Con delicatezza, mi lascia cadere sul divano di velluto acquamarina, e si siede accanto a me. Stringe le mie mani, sussurra il mio nome come una preghiera. Mi guarda, fisso. L’azzurro delle iridi si perde nel nero delle pupille, come quel giorno al mare. Una tristezza assoluta li allaga. È colpa mia?
“Finnick?” lo chiamo.
“Annie” mi risponde. Sorrido. Mi piace come il mio nome suona sulle sue labbra.
“Che ore sono?”
“Le quattro e mezza”
“Ah”
Il silenzio cala, di nuovo. Finnick mi guarda, di nuovo. Io lo guardo, di nuovo. È bello, bellissimo. Con la mano accarezzo il suo viso, lo attiro a me e lo bacio. Sento le sue labbra premersi sulle mie. Quando ci stacchiamo, mi tiro su e mi siedo diritta sul divano, lui accanto a me.
“Come ci sei finita in mezzo al mare nel cuore della notte?” chiede, apprensivo.
Chiudo gli occhi, e, con mia sorpresa scopro di non saperlo affatto. O meglio, sì, ma è stato più un insieme di cause, che un motivo solo, a spingermi a fare quello che, alla fine, è stato un tentativo di affogarmi.
“Non lo so”
“Dai Annie. Nessuno si getta in mezzo al mare così perché gli va”
“È stato un insieme di cause, credo. Avevo raggiunto un punto di saturazione. Non ce la facevo più”
Finnick mi guarda, triste. Sa che giorno è domani.
“La Mietitura”
“Eh già”
Mi cinge le spalle.
“Non verrai mai sorteggiata. Voglio dire, non ha mai chiesto tessere, giusto? E poi ci sono sempre quelli del Gymnasium. Ho sentito dire che una certa Karen si offrirà volontaria. Tipa tosta, credo”
“Francamente Finnick, questo non mi rassicura per niente. Conosci mio padre, no? Non vedeva l’ora che compissi dodici anni! E ora che anche mia sorella è sorteggiabile, sembra quasi che cammini a tre metri da terra! E poi, sai benissimo che se venissi scelta, nessuno si offrirebbe. Voglio dire, chi si metterebbe contro un uomo di centoventi chili il cui più grande sogno è vedere una figlia nell’Arena?! Avrei paujra anche io!”
“Annie, stai tranquilla! Hai solo un bigliettino!”
“Vorrei ricordarti che qui non sei esattamente la persona più indicata per confortarmi sulle possibilità di essere pescati”
“Oh Dio, Annie! – dice, alzando gli occhi al cielo – Io avevo cinquanta bigliettini! Tu uno!”
“Però nessuno del Gymnasium si è offerto al tuo posto” puntualizzo.
“Si dà il caso che quell’anno la scuola sia rimasta chiusa. Ma va bè. Torniamo al nostro discorso: perché buttarsi nel mare invece che venire qui e bussare alla porta?”
“Non volevo disturbarti”
“Annie. Quando mai ti sei posta il problema di disturbarmi?”
“Questa volta era diverso. Sentivo che era una cosa che dovevo fare da sola”
“Magari la prossima volta passa, così almeno ti eviti una broncopolmonite”
“Ti avviserò un paio d’ore prima, d’accordo?”
Ride.
“Perfetto”
Sorrido anche io, poi la pressione delle sue labbra mi impone di smettere. Ma questa è un’occupazione decisamente più interessante.
“Che ore sono?”
“Le cinque e mezza”
“Di già?! Cavolo, devo andare!”
“Ma se la Mietitura è alle quattro! Oggi nessuno va al lavoro. I tuoi si alzeranno tardi”
“Mio padre si alza presto a prescindere. E nonostante tu gli stia simpatico più simpatico di me, credo che rapirmi nel cuore della notte non sia il modo migliore per avere a che fare con lui”
“Io non ti ho rapita!”
“Secondo te lui come la vedrebbe?”
“E va bene! Ma tieni questo – mi passa uno dei suoi maglioni – Fuori fa freddo”
“Finnick! Viviamo vicino al mare, non in mezzo alla neve! Fa caldo! È ESTATE!”
“Tu mettitelo. O non te ne vai di qui”
“Ok! Che scatole”
“Piantala e vai”
Mi bacia sulla porta.
“A dopo”
“A dopo”
Faccio qualche passo in avanti, poi lo chiamo.
“Finnick!”
“Sì?”
“Possa la fortuna essere sempre a tuo favore”




***







È da tre giorni che non esco da questa cella. Ho paura. Stanno progettando una nuova, più terribile tortura? Un nuovo modo per farmi male? Spero di no. in questi rari momenti di lucidità, sento che non uscirò mai da qui. Poi, quando la mia mente prende il volo, comincio a sognare che Finnick venga a prendermi. Ma come? Non so neanche se è vivo! Non so nulla dei tributi della settantacinquesima edizione degli Hunger Games, eccetto quelli che si trovano qui. E credo che per loro sarebbe meglio essere morti nell’arena, per come stanno le cose ora. Li sento urlare, spesso. Anzi, sempre. Per ora io sono stata più fortunata: alla fine sono stata portata in quella stanza solo sette volte. Le urla di Johanna e Peeta si sentono ogni giorno. Sempre. Mi chiedo come facciano ad essere ancora vivi. Io non sono così forte. 










Angolino della vergogna (più assoluta)


Ciao gente! C'è qualcuno? Mi sa di no :(
By the way, ho aggiunto questo capitolo per farmi perdonare l'IMMENSO ritardo degli altri... Spero vi piaccia! Come vedete è più lungo, ma mi sembrava impossibile da spezzare, no? Credo. Ho voluto (tentare) di dare ad Annie ed a Tamata qualcosa che assomigliasse ad un rapporto (in senso spirituale, ovviamente) e raccontare di come entrambe vivono la Mietitura. E poi, volevo che il rapporto con Finnick avesse una connotazione un po' più spiritosa, dato che si tratta pur sempre di due giovani. Non so se si capisce molto bene la storia del padre: in sostanza è un omaccione grande e grosso che picchierebbe chiunque osasse prendere il posto delle seu figlie, qualora fossero sorteggiate. 

Detto questo, grazie e Yvaine_ e SweetieOwl per le loro recension, molto apprezzate. Ovviamente, l'invito a recensire è esteso a tutti!


Un bacisssssimo

Judee



P.s.: il titolo viene è una frase pronunciata da Obi-Wan Kenonbi in Star Wars, saga che DOVETE ASSOLUTAMENTE VEDERE, CHIARO?! é UNA MERAVIGLIA. Besos <3

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto ***


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CAPITOLO SESTO 
- Una risata può essere una cosa molto potente. A volte, nella vita, è l'unica arma che ci rimane! - 




Rientrata a casa, questa volta dalla finestra della cucina, mi rendo conto che stare sveglia mi  è praticamente impossibile. La tensione nervosa che fino a poco prima mi aveva sorretto, è sparita con i baci di Finnick, ed ora mi ritrovo in piedi in mezzo alla cucina a sbadigliare. Non ho assolutamente voglia di andare in camera, così decido di uscire, per sdraiarmi sull’amaca. Nel frattempo, mentre la preparo aggiungendo cuscini e una leggera coperta, metto il bollitore sul fuoco e lascio che l’acqua si scaldi con calma. Quando è pronta, la verso in una di quelle tazze di a forma di conchiglia tipiche del nostro distretto, mettendo in infusione una bustina di the al limone. Sorreggendo la tazza con una mano apro la porta che dà sul giardino, e raggiungo l’amaca, dove mi sdraio. Il sole ormai ha spazzato via gli ultimi rimasugli della notte, e il cielo ha quel colore indistinto, un miscuglio di rosa, azzurro, viola e verde che rende le albe sul mare così belle. Sembra quasi che un pittore stia disegnando sopra le nostre teste un incanto di magia e bellezza. Sorseggiando il the, mi scopro malinconica, osservando il cielo pensando alla mia vita, a chi sono, a chi sarò. Cullata dalla risacca delle onde, mi addormento.

***

Quando mia madre mi urla di alzarmi, il sole è già alto nel cielo, ed ho le gambe informicolate per la posizione scomoda in cui mi sono ritrovata a dormire. Lo stomaco emette un rumore che potrebbe terrorizzare persino gli squali che ogni tanto compaiono sulla costa, così accetto i dolci che mia madre mi offre gentilmente quando rientro in casa. Tamata, ancora in pigiama, sta finendo la sua tazza di latte, immobile. La scruto, ma sul suo viso non c’è un solo accenno a quello che è successo ieri sera, ma è meglio così: le parlerò dopo, in privato. Mia madre, il viso segnato da una vita accanto al mare, pulisce i fornelli, i capelli scuri che le ricadono sulle spalle. È ancora bella, nonostante l’età. A volte, quando la guardo mentre ride, riesco a scorgere la fanciulla che un tempo deve essere stata, quando felice si divertiva sulle spiagge del Distretto Quattro. Ora, non saprei dire perché, una sottile coltre di tristezza è scesa su di lei, su di noi, come se improvvisamente qualcosa fosse venuto a mancare. Forse è la sicurezza: una volta passati i diciannove anni sei immune alla Mietitura, ma se poi hai dei figli… questo forse è l’unico motivo per cui non vorrei mai diventare madre. Voglio dire, essere costretti a programmare la morte dei propri figli una volta all’anno dev’essere terribile, no? D’altro canto… stringere tra le proprie braccia una meravigliosa creaturina che dipende solo da te, un piccolo corpicino a cui narrare favole, cantare ninna nanne… cosa può esistere di più bello al mondo? Cosa può essere più meraviglioso della propria vita trasmessa in un altro corpo? Ma come ho già detto, vivo a Panem. I miei figli potrebbero morire ogni giorno… all’improvviso, mio padre mi accarezza la spalla. È un tocco freddo, distante, che mi riscuote dai pensieri.
“Oggi è il gran giorno!” sorride come l’ho visto fare in pochi altri giorni. Casualmente, tutte Mietiture.
“Eh già” dico impacciata, trattenendo l’istinto di fargli uscire il bulbo oculare dalla nuca con uno sputo.
“Sono certo che quest’anno toccherà finalmente ad una di voi! Annie, spero in te… tra poco sarai troppo grande!”
“Un gran peccato”
“Oh si! Ma se anche pescassero Tamata – e qui bisogna essere davvero ciechi per non notare il terrore sul suo volto – sarei  molto felice! Una delle mie figlie avrebbe l’opportunità di dimostrare quanto vale, e questo mi basterebbe!”
Ora mi sono veramente arrabbiata. Voglio dire, perché cavolo non gli interessano i risultati scolastici? O le gare di pesca distrettuali? Molto meglio una gara mortale organizzata da persone sado-masochiste con dei seri problemi psicologici! Ma certo!
“Scusatemi, devo andare” mi alzo dal tavolo di scatto, strisciando la sedia sul pavimento, ed esco prima ancora di avere ottenuto una risposta. Vado in camera, ma la rabbia verso mio padre che parla a sproposito e mia madre che asseconda tutto ciò che dice o fa non sbollisce. Così decido di infilarmi nella vasca, anche perché sono ancora piena del sale del mare. Lascio scaldare l’acqua – mi piace bella calda -  mentre preparo i vestiti che indosserò dopo: un semplice abito verde smeraldo, simile al colore dei miei occhi, e i sandali di cuoio delle grandi occasioni. Quando la vasca è pronta, mi ci infilo con calma. Rimango distesa sotto al pelo dell’acqua fino a quando non diventa fredda. Gioco con i capelli che galleggiano, con i piedi schizzo sul muro. A questo punto si sarà capito che l’acqua è esattamente il mio elemento. Quando esco dalla vasca, i capelli gocciolano sul pavimento creando pozze che risplendono sulle piastrelle scure del bagno. Prendo un asciugamano e li avvolgo in una specie di turbante; poi vado in camera e indosso il vestito. È, ovviamente, diverso da quello della Mietitura precedente: mio padre ce ne compra uno nuovo ogni volta. L’anno scorso ne avevo uno blu, l’anno prima giallo, quest’anno verde. Almeno si abbina ai miei occhi. Credo. Mentre lo infilo, noto con piacere che la mia figura è magra, ma non emaciata come quella di alcune altre ragazza che si vedono per strada. Mio padre è un pescatore abbastanza famoso e bravo, e questo ci dà diritto a porzioni di pesce extra, ogni tanto. O almeno a tre pasti sicuri al giorno. Finalmente vestita, sistemo il bagno e la camera, mentre sotto sento mia madre iniziare ad armeggiare con pentole e padelle in vista del pranzo. Mia sorella le starà dando di sicuro una mano, mentre mio padre starà impartendo ordini dalla sua poltrona in salotto, ovviamente senza alzare un solo dito. Tipico. Decido di scendere per farmi ammirare – si fa per dire – nel mio vestito nuovo di zecca. Magari distraggo mio padre dalle sue manie di controllo e comando. Non appena metto il piede nel salotto mio padre si alza in piedi e comincia a farmi piroettare, lodandomi. Chiama mia madre e le chiede – ovvero le ordina – di sistemarmi i capelli di modo che ricadano in morbide onde sulle mie spalle. Poi convoca Tamata e le impone di andarsi a lavare e prepararsi. Io invece devo andarmi a cambiare per non sporcare il mio meraviglioso abito – citazione di mio padre. Tamata ed io saliamo le scale insieme, senza una parola: solo prima che entri in camera mi stringe l’avambraccio, chiedendomi silenziosamente di seguirla. Una volta entrate, ci sediamo sul letto, senza nemmeno guardarci.
“Grazie per ieri sera” È Tamata a rompere il silenzio.
“Non… non c’è di che”
“No, davvero. Se non fossi venuta tu sarei andata a buttarmi in mare”
Rabbrividisco. È esattamente quello che ho fatto io.
“Meglio di no – sorrido, stringendole la mano – Ma l’importante è che ora tu sia più tranquilla”
“Si, certo. Non ci pescheranno”
“No! È impossibile!”
Tamata mi guarda scettica.
“Andiamo! – le dico, ripetendo le parole che Finnick ha rivolto a me poche ore fa – Abbiamo solo i bigliettini che ci spettano per l’età! Mai preso tessere, no? E poi ci sono i ragazzi del Gymansium!”
“Dici? Si offriranno?” chiede, con gli occhi quasi supplicanti.
“Ma certo! Non c’è quella ragazza, la cugina della tua amica… come sei chiama?”
“Meredith Gray?”
“Si, esatto! Proprio lei! Dicono che sia una tosta, che non veda l’ora di offrirsi!”
“Se lo dici tu…”
“Ma certo! Ora mettiti il vestito, che ti starà di sicuro una favola!”
Ora Tamata sorride per davvero.
“Speriamo! Mai bene quanto te, in ogni caso…”
“Ma se io sono una specie di aliena, in questo distretto!”
“Ma sei eterea!”
“Sono un cadavere! Dai, vai che poi ti sistemo io”
Mentre Tamata apre l’armadio, tiro un sospiro di sollievo: almeno ora è tranquilla.

 
***

Quando sento il primo schianto, è notte. Mi alzo di scatto: questo non è un suono che si sente nella prigione di Capitol City. Ci deve essere qualcosa sotto. Il secondo schianto, più vicino, è seguito da un terzo, poi da un quarto. Nel frattempo, sento i prigionieri urlare, mentre le armi delle guardie cominciano a far fuoco. Altre voci si sovrappongono alle altre, e c’è talmente tanto rumore che non riesco a capire nulla. Tirando le catene che mi stringono i polsi, mi avvicino alla grata che mi impedisci di uscire dalla cella, ma c’è solo buio.
“Karèn! – chiamo – Karèn!”
“Annie!” mi risponde la donna che occupa la cella accanto alla mia.
“Che succede?” le chiedo, cercando di sovrastare il rumore. Ma devo ripetere tre volte la frase, prima che mi senta.
“Ho sentito dire che ci sono i ribelli!”
“I ribelli?”
“Sì!”
All’improvviso, una figura si materializza davanti alle nostre celle: è un ragazzo alto, muscoloso, che indossa una tuta scura.
“VIA! SPOSTATEVI!”
Faccio appena in tempo ad abbassarmi, quando una raffica di proiettili abbattono la grata. Il ragazzo entra e taglia le catene che mi legano i polsi e le caviglie, e mi porta via di peso.
“Karèn! – urlo, mentre mi trascinano via – Karèn!”
“Annie! Non lasciarmi qui!”
“Karèn! Fermati! FERMATI!”
Mi agito, scalcio, ma il ragazzo non si ferma. Gli tiro calci, pugni, ma non riesco a fare nulla. Il ragazzo non si ferma.
“ANNIE!”
La voce della mia amica continua a levarsi alta, fino a quando una raffica di proiettili non la fanno zittire.
“KARÈN!”
Se n’è andata anche lei.
Intorno a noi volano spari, proiettili, calcinacci. Il ragazzo continua a farmi scudo col suo corpo, proteggendomi perché non muoia. Incredibilmente, ho più paura di morire adesso di quando non ero sotto al giogo di Capitol City. Perché ormai è chiaro che il ragazzo viene dai distretti. Ha su di sé odore di fame e di paura. Avanziamo ancora, fino a quando non vengo fatta sedere in una specie di scatola di latta poco più grande di me. Sento degli ingranaggi che girano, e improvvisamente mi alzo in volo. Oscillo, ma non cado. La scatola mi protegge. I proiettili le rimbalzano sopra, lasciando solo qualche graffio. Mi rannicchio sul fondo, coprendomi le orecchie con le mani. Se non sento, tutti questi urli forse spariranno. Per distrarmi comincio ad elencare tutti i nomi dei pesci che nel distretto possono distruggere le nostre barche, come quando da bambina non riuscivo a dormire… Squalo, pesce cane, orca… sono alla balena, quando un alito di vento mi scompiglia i capelli. Non è possibile! Mi alzo, e il sole mi colpisce in tutto il suo splendore. Devo chiudere gli occhi, perché è da così tanto tempo che non vedo il sole che mi sono quasi dimenticata come sia. Ed è… caldo. Bello. Luminoso. Abbagliante. Piacevole. Mi scalda la pelle, e i riflessi ramati dei capelli iniziano a risplendere. La scatola continua a tirarmi su, e sopra di me vedo uno degli hovercraft che potrebbe appartenere a Capitol City, se non fosse che il simbolo è stato cancellato. Sopra capeggia una Ghiandaia Imitatrice. Sono i ribelli. Sono qui per salvarmi. Volando nei cieli, guardo la prigione allontanarsi, piangendo in silenzio.








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Author's Corner 

Halo! Come va? Benissimo, ora che ho aggiornato, no? Non c'è bisogno che mi diciate quanto con ansia attendiate i miei aggiornamenti... 
Ok, basta. 
Il capitolo, come vedete, è più lunghetto rispetto ai precedenti: ma anche in questo caso non credevo fosse scindibile in due, non trovate? In ogni caso, stavo pensando di spezzare la Annie giovane e la Annie adulta: ormai stanno acquisendo entrambe sempre più importanza, e meritano uno spazio "tutto loro"... Mi spiego? Rimetto a voi la scelta: preferite il paragone tra le due nello stesso capitolo o due storie che seguono due corsi separati? Fatemi sapere :)
In questo capitolo volevo che Tamata si dotasse di un minino di spessore: non è un personaggio insipido, solo un po' timoroso... credo. 
E ora, i ringraziamenti! 
Per le recensioni: SweetieOwl, aui_everdeen_love e Yvaine_
Per le ricordate: thehurtlocker (non so se tu abbia aggiunto la storia dopo lo scorso capitolo... se così fosse, mi scuso per il ritardo nel segnalarti!)
Per le seguite: Rumple is my hero, nutelladipendenti, stelena998 (stesso discorso di sopra!)


Ora vi lascio... Spero vi piaccia il capitolo! Vi invito a recensire :)

Bacissssssimi

Judee


P.S.: secondo voi da dove viene il titolo? Try to think :)

 

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