Verdi idee senza colore dormono furiosamente di umavez (/viewuser.php?uid=467903)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Al CaldoCaffè ***
Capitolo 2: *** Akamaru il Demonio ***
Capitolo 3: *** Giusto un pizzico ***
Capitolo 1 *** Al CaldoCaffè ***
È il mio primo tentativo di scrivere una storia più lunga di un solo capitolo, e non so davvero come andrà a finire. È una cosa abbastanza leggere anche se non del tutto spensieratissima e fluff, ma la mia mente partoriva solo idee macabre, e allora ho deciso di voltare pagina! Naturalmente parla di adolescenti e non, ma non di scorribande scolastiche e astiosi rapporti tra gang e anzi, nonostante parli di adolescenti, direi che la scuola sarà ben poco presente come ambiente. E inoltre beh, il titolo non è farina del mio sacco, ma di Noam Chomsky, e credo che il senso del titolo si capirà solo verso gli ultimi capitoli. O forse non si capirà perché non sarò stata in grado di farlo capire, ma almeno ci ho provato T.T
Buona lettura a tutti, spero possa piacere!
Verdi idee senza colore dormono furiosamente
Al CaldoCaffè
Appena entrati, si apriva immediatamente un grande spazio. Al primo passo ci si rendeva conto che il pavimento era in parquet, e che l’ambiente era caldo e confortevole. Un quasi invisibile scalino sulla sinistra, degno avversario di qualsiasi cameriere o membro dello staff e il più noto antagonista di chiunque si volesse indebitamente intrufolare dietro al bancone, portava, appunto, dietro al bancone, che percorreva in lunghezza tutto il lato sinistro della stanza, e alla fine di questo vi era, esattamente come appena entrati, un altro invisibile scalino con la stessa identica funzione, anche lui stato chiamato con appellativi poco cordiali nel corso degli anni. Il banco in questione era in semplice legno levigato e rivestito, e dietro questo si poteva vedere un numero imprecisato di scaffali e mensole, anche questi rigorosamente in legno, su cui si mostravano un numero altrettanto imprecisato di bottiglie.
Dando un’occhiata alle prime file, un osservatore esperto avrebbe potuto notare qualità di whisky e whiskey, di scotch e burbon, di prelibatissimi cognac e di costosissimi champagne. Salendo di scaffalatura, poi, si passava alle grappe, agli alcolici più forti, e ad una serie di bottiglie trasparenti che, a meno che non ci si fosse soffermati a leggere attentamente ogni etichetta, sarebbero risultati irriconoscibili.
Nel bel mezzo di questa diramazione di scaffali, era stato lasciato un posto libero per un orologio abbastanza grande da poter essere letto senza difficoltà da tutti coloro che erano seduti nella sala. All’inizio del bancone era presente la cassa, e spostandosi più avanti si arrivava poi alla postazione della birra. C’erano cinque ottime birre artigianali da poter prendere alla spina, un’ottima spillatrice, e un odore di malto ragguardevole. Poi, per finire, una serie di sgabelli.
Tutto questo se, appena entrati, si guardava a sinistra.
Andando invece sulla destra, si apriva nel muro una grande finestra, che si affacciava sulla strada principale, proprio come la porta d’entrata del locale. Poi, arrivati all’angolo della sala, che corrispondeva all’esterno all’angolo della strada, si iniziava a percorrere l’altro lato lungo della stanza, seguiti a vista da un’altra immensa scaffalatura, questa volta interamente ricoperta di vini. Erano bottiglie diverse, vigneti diversi, tipologie diverse, ma il vino era tutto ciò che dava a quell’immensa sala un’atmosfera meravigliosa, e le bottiglie continuavano quasi fino al soffitto, le scaffalature interrotte di tanto in tanto da un quadro in esposizione, o da una lavagna con su scritti i nomi dei vini che quel giorno sarebbe stato possibile ordinare anche solo al bicchiere o non in bottiglia, oppure da specchi con attaccate su vecchie etichette d’un vino di un’ottima annata o di una birreria che aveva fatto la storia.
Sempre sul lato destro, in fondo alla sala, un quadrato di pavimento rialzato di qualche scalino era solito fungere da palco per qualche gruppo musicale che veniva ad esibirsi nel locale. Nel mezzo, tavolini e sedie creavano quel suggestivo labirinto contraddistinto dai diversi tipi di seggiole presenti, dalle diverse forme dei tavoli, e dai diversi colori del legno.
Sempre sul fondo della sala, accanto al piccolo palcoscenico improvvisato, degli scalini sembravano portare ad un ipotetico piano superiore. In realtà, salito qualche gradino, si apriva un pianerottolo con due porte, una a destra e una a sinistra, ospitanti rispettivamente il bagno delle donne e per le persone invalide, e quello degli uomini. Proseguendo a salire si arrivava, dopo nemmeno una decina di gradini, ad un’ampia uscita sulla sinistra che portava ad uno spaziosissimo cortile interno, mentre sulla destra, continuando a salire, si sarebbe arrivati alla cucina.
Questo era il luogo in cui si trovava Sakura in quel momento. E nonostante fosse il compleanno di Ino, nonostante l’immensa sala interna fosse stata riservata solo per loro, nonostante ci fosse un gruppo – scelto da Ino – a suonare musica live appositamente per loro, Sakura trovava tutto estremamente noioso.
Diede un’occhiata dietro al bancone, intravedendo il proprietario del locale indaffaratissimo. Genma, a guardarlo bene, sembrava essere l’abitudine in persona. Indossava sempre magliette uguali, con l’unica differenza del colore, e se un giorno non si fosse accorta della montagna di stuzzicadenti abbandonati sul piano interno del bancone, spesso invisibile al cliente, avrebbe pensato che quello che aveva in bocca fosse sempre lo stesso, mai cambiato e miracolosamente mai consumatosi. Anche la bandana intorno alla testa, legata in modo bizzarro e tale da lasciare il segno del nodo in piena fronte a fine giornata, non variava mai molto. I golf, addirittura, si suddividevano solamente in quelli con il collo a V, e quelli a girocollo.
Questo era Genma: l’abitudine. E lui stesso era colui che l’odiava più di tutti, l’abitudine e la routine. Per quello aveva deciso, anni addietro, di aprire quel locale. A Konoha, detto mano sul cuore, non c’era mai stato molto da fare, e il suo sito naturale che la confinava in mezzo alla campagna non aiutava di certo l’evasione. E Genma, fin da piccolo, non aveva fatto altro che abituarsi alle abitudini di Konoha, a quella cittadina modestamente grande dove nessuno aveva mai pensato di fare nulla di nuovo, perché a dirla tutta, ancora detto con mano sul cuore, a Konoha si viveva benissimo così come era.
Era un luogo meraviglioso, tranquillo, con l’essenziale e con poco o niente di bizzarro, ma con tantissime persone, e con tanta, tantissima cordialità. Era il paese ospitante del mondo intero a detta di molti, e chi ci metteva piede una volta non poteva fare a meno di tornarci una seconda, e chi, coraggioso, tornava una terza, magari per provare il panino venduto dal banchetto in piazza il sabato mattina, o magari per gustarsi, nel bel mezzo della calura estiva, la brezza che arrivava sulla montagna poco lontana, non poteva fare a meno di chiedersi se non fosse stato il caso di comprarsi una casa.
Ma le generazioni cambiano in fretta, e la società, i servizi e gli svaghi gli corrono dietro. La stessa generazione di Genma aveva cominciato a sentir dolore ai piedi nel calzare quotidianamente le scarpe strette della cittadina che si crogiola nel sogno di essere un paesotto di campagna, e i locali e le attività avevano cominciato a rinnovarsi.
Senza ostruzionismo da parte degli abitanti, senza lamentele su quanto i giovani d’oggi non si sappiano accontentare di quello che hanno, senza sentire per strada “Ai tempi miei c’era la guerra, non pensavamo ai bar”.
Perché Konoha, oltre ad essere speciale di per sé, rendeva speciali le persone.
Genma, Raido, un’intera generazione di ragazzi aveva cambiato Konoha, l’aveva modernizzata, l’aveva resa adattabile a tutte le occasioni, tanto da poter ospitare qualsiasi tipo di evento, e quel locale era il frutto migliore caduto dall’albero: perché nessuno meglio di chi odia la quotidianità, sa come romperla.
Nonostante la scelta del nome fosse stata messa in discussione parecchie volte e cambiata altrettante volte – Genma puntava su “Bar-collo”, mentre Raido e il resto dello staff per un più sobrio CaldoCaffè (nome che fu infine scelto come unico e irreversibile dopo una rissa tra Genma e Raido che aveva portato ad un braccio rotto e ad un paio di costole incrinate), il locale aveva riscosso un discreto successo, e Sakura in primis ne era entusiasta. Aveva passato così tante di quelle serate nel locale di Genma, amico di suo zio, che avrebbe potuto chiudere gli occhi e descriverlo nei minimi dettagli, sapendosi anche orientare tra i tavoli a luci spente.
Eppure – Sakura sospirò pesantemente, ripensandoci – la serata era davvero tra le più noiose a cui avesse mai assistito. Era il ventitre settembre, la scuola era ricominciata da un paio di settimane, e faceva troppo freddo rispetto alla media stagionale. Per quello si trovavano nell’immensa sala interna, quella sera, e non nel cortile.
Ino aveva cominciato a ridere dalle sette della sera, e nonostante non fosse stata sempre attenta e vigile, Sakura era quasi certa di non averla mai sentita smettere fino a quel momento, se non a piccoli tratti per poter mandare giù un boccone veloce e un sorso di vino.
Del resto il locale non era dei più giovanili di Konoha, e più che un bar da shottini, drink e luci stroboscopiche, prediletti dalla maggior parte degli adolescenti, quello sembrava essere più un wine bar da degustazioni, e forse, pensò Sakura, non era la location più adatta per un compleanno. Ma dare la colpa al locale non funzionava, almeno non per lei. Per lei era come una seconda casa, con un divano vecchio ma ancora comodo su cui dormire e una coperta e un cuscino lasciati lì accanto pronti per l’uso.
Forse, ipotesi per lei più probabile, era colpa delle tantissime persone che vi vagavano in quel momento.
Le conoscenze di Ino comprendevano, mediamente, quasi tutte le persone tra i sedici e i ventiquattro anni di età, e una buona, buonissima parte di quelle immense conoscenze, avevano deciso di riunirsi, quel giorno, sotto espresso e irrifiutabile invito di Ino, in quel locale, nel suo locale.
Non che fossero l’antipatia fatta persona, no. E anzi, doveva ammettere che, a differenza delle sue aspettative, tutti sembravano andare d’accordo con tutti, e il numero di gruppi isolati e di musi lunghi – compreso il suo – era ridotto a cifre ad un numero, e di gran lunga sotto il numero sette. E nonostante non fossero tutti sopportabilissimi, il vociare allegro di tutti loro con la musica in sottofondo avrebbe dovuto rilassarla, più che infastidirla.
La risata di Ino tornò teatrale alle suo orecchie coprendo le ultime parole cantate dal gruppo prima di un accordo finale di chitarra. Applaudì insieme a tutti gli altri, Ino posò il drink sul tavolo e applaudì fiocamente anche lei, mantenendo incredibilmente intatta la conversazione che stava mandando avanti con Tenten da almeno venti minuti.
Si alzò, e zigzagando tra un tavolo e l’altro arrivò al buffet, disposto su una serie di tavolini attaccati gli uni agli altri proprio davanti al bancone. Finito l’applauso, le luci divennero più soffuse, partì musica più leggera, e il vociare si abbassò. Sakura, senza farsi troppi problemi, si attardò davanti ad ogni singolo piatto di prelibatezze della madre di Ino, roba da far invidia al più costoso dei catering, riempiendo il suo piatto abbondantemente.
Scivolò di nuovo tra le sedie e si sedette accanto ad Ino. Lei la guardò di sfuggita e le sorrise. Sakura sorrise con già mezza bruschetta al pomodoro in bocca, e quel gesto le costò troppa della sua attenzione: quando la metà dei pomodorini rimasti sulla fetta di pane caddero rovinosamente, fece appena in tempo ad allargare le gambe e ad evitare che i pantaloni bianchi messi per l’occasione si impataccassero irrimediabilmente.
Gettò un occhio attento sul resto degli invitati. Quando incrociò il viso divertito di Hinata che a tratti le lanciava occhiate strampalate capì di essere stata vista, ma non se ne curò. Sorrise di rimando posando la bruschetta sul tavolo, ormai vuota, e alzandosi cautamente dalla sedia, tenendo le mani unte di olio a debita distanza da se stessa, biascicò:
« Ino, bado in bagno. »
Ino si voltò per guardarla, forse per la prima volta da un’ora, e notando il pastrocchio che aveva combinato assunse una delle tante espressioni con cui era solita comunicarle il disappunto. L’alcool che aveva ingerito comunque la rese meno spaventosa del solito.
« Sei un impiastro. » si sentì dire mentre già si avviava tra i tavoli per raggiungere le scale. Salì pochi gradini fino alla porta del bagno delle donne, sulla destra, facendo finta che le ballerine appena comprate per l’occasione non le avessero fatto male nemmeno un po’, e con il gomito tirò giù la maniglia, evitando di insozzare di olio anche tutto ciò che la circondava. Aveva finito di masticare il boccone che aveva in bocca appena in tempo per salutare altre due ragazze presenti nel bagno. Anche loro non delle più simpatiche, ma quella sera stranamente apprezzabili. Uscirono subito dopo la sua comparsa, e Sakura si ritrovò da sola nel bagno.
Se avesse dovuto fare una critica a quel luogo, sicuramente non avrebbe potuto farla sul bagno, che sembrava mantenere gli standard di pulizia dell’hotel a cinque stelle più quotato del mondo. Tutto questo perché ra risaputo che Raido fosse germofobico e maniaco delle pulizie, e se proprio c’era una cosa che non sopportava, era lo scarso igiene nei bagni dei bar.
Per questo il bagno la mise ancor più a disagio.
Passò le mani sotto il rubinetto dell’acqua, e questa iniziò a scorrere automaticamente. Le lasciò a mollo per un bel po’, perché sua mamma le aveva ben insegnato che l’olio non si manda di certo via con una sciacquata lapidaria. Prese il sapone dalla bocchetta del distributore, stranamente sempre piena, e sfregò con forza le mani l’una contro l’altra insinuandosi tra tutte le dita. Alzò lo sguardo sullo specchio di fronte a lei, ricontrollando se la base del suo trucco fosse ancora in piedi o sembrasse solo una tela in via di scioglimento.
Tolse le mani da sotto il rubinetto e l’acqua si fermò. Le sgrullò preventivamente sopra al lavandino, avviandosi poi verso la carta per asciugarsele. Senza neanche pensarci, dopo aver bagnato il primo foglio di carta, lo accartocciò e lo lanciò verso il secchio, vicino alla porta d’ingresso al bagno che aveva lasciato sbadatamente aperta.
Quando vide la palla di carta rotolare verso il pianerottolo senza essersi avvicinata neanche lontanamente al cesto dell’immondizia, Sakura sentì il cuore battere forte, e capì che quello sarebbe potuto essere il suo mondo meraviglioso di evasione. Avrebbe passato il resto della serata, che sperava essere agli sgoccioli, a cercare di centrare il secchio, e con tutta la carta che c’era a disposizione, non si sarebbe dovuta preoccupare di come trascorrere le successive due ore.
Si voltò girando di poco su se stessa e prese un altro foglio di carta assorbente. Senza nemmeno usarla per finirsi di asciugare le mani, la accartocciò in quattro e quattr’otto e tentò nuovamente il lancio. Anche questo, come Sakura aveva previsto, fallì.
°°°
Fu dopo averne lanciati una decina, e dopo aver centrato il cesto solamente una volta, che decise di provare la maggiore delle sue prove, e chiuse gli occhi. Sorrise inspiegabilmente, e si schiarì la gola, sempre inspiegabilmente. Lanciò la pallina di carta. Il rumore che fece sul pavimento fu inconfondibile. Poi, qualcun altro schiarì la gola a sua volta.
Sakura aprì gli occhi e posò entrambe le mani sulla sua bocca dopo aver emesso un gemito un po’ sorpreso e dopo che i sensi di colpa ebbero cominciato ad invaderle il corpo per il macello che aveva combinato.
Sasuke, comunque, non sembrava arrabbiato.
Era lì, in piedi, sulla soglia della porta, circondato da cartacce, qualcuna delle quali lo superavano e finivano nel pianerottolo dietro di lui. Aveva indosso, come al solito, una maglietta verde petrolio con su scritto, sulla sinistra, il nome del locale, e intorno alla vita era stretto il solito grembiule con due grandi tasche davanti, in cui i camerieri erano soliti mettere cavatappi, monete per dare il resto ai clienti, e una miriade di altre cose che Sakura non sapeva.
« Avrei raccolto tutto! » disse alzando un po’ la voce quando lo vide sparire giù per le scale, per ricomparire dopo qualche secondo con una scopa e con un raccogli immondizia. Sakura arrossì fino alle punte dei piedi, già rosse per il dolore delle scarpe, e temette che anche i pantaloni bianchi, visto tutto il suo eccessivo calore corporeo, sarebbero potuti diventare rossi.
« Per informazione, » le disse mentre già aveva cominciato a raccogliere le prime cartacce, « l’ultima lanciata era questa qui. » concluse, toccandola col piede prima di raccoglierla e buttarla nel secchio in mezzo a tutte le altre.
Sakura ridacchiò, perché il tono di Sasuke era allegro e sfinito tanto quanto il suo.
« Scusami, non mi ero accorta che eri qui. » disse poggiandosi al muro con una spalla e incrociando le gambe, mentre un dito si avvicinava alla bocca per rendere l’unghia accessibile a tutta la sua fila di denti divoratori.
« Ho notato. » le rispose, posando poi la scopa e il raccogli immondizia vicino al secchio e appoggiandosi come poco prima aveva fatto lei stessa, allo stipite della porta con una spalla. Sasuke portò una mano al voltò e strofinò stancamente le dita sugli occhi, sospirando di fatica.
« Non era mia intenzione disturbarti, » continuò senza guardarla, ancora con le dita che cercavano in un modo o nell’altro di rivitalizzare lo sguardo « ma hai lasciato la porta aperta, e poi ti sei messa a gettare cose per terra. »
« Ma no! Non stavo buttando cose per terra! » Arrossì ancor di più allo sguardo ovvio di Sasuke. Si schiarì nuovamente la gola e si staccò dalla parete, scrociando le gambe, ancor più nervosa di prima e con due unghie di meno.
« Solo che...»
« Ti annoi? » fu la soluzione che lui le propose, concludendo la sua frase lasciata a metà. Sakura fece un check up della serata, ripercorrendo passo passo tutte le tappe, e sentendo l’ennesimo applauso venire dalla sala interna, sentì l’esaurimento salire dal livello sopportabile fino ad uno a malapena tollerabile.
« Già. » ammise, gettando occhiate distratte alle sue scarpe nuove e cominciando a dondolare infantilmente a destra e a sinistra come un bambino piccolo.
« Ino organizza le cose sempre troppo in grande. » Sakura annuisce, e sospira pesantemente.
« E non è neanche il suo diciottesimo. »
Sasuke sorride un poco prima di riassumere il volto impassibile ma stranamente cordiale che aveva, volto che però si distorse un po’ nell’esasperazione quando sentirono provenire dalla sala interna non il solito applauso, ma il rumore inconfondibile di vetri rotti.
Sasuke riacciuffò la scopa e il raccogli immondizia, le fece un cenno lapidario con la testa, e se ne tornò di là.
°°°
Nonostante il gran baccano proveniente dalla sala interna, Sakura se ne stava ancora chiusa in bagno, stavolta con la porta accuratamente chiusa, e si crogiolava nel pensiero che qualsiasi disastro fosse capitato là fuori, quella sarebbe potuta essere l’occasione giusta per i proprietari di cacciare i più ubriachi dal locale, o almeno l’opportunità per un più che giusto ammonimento e invito a porre fine alla serata. Guardò istintivamente il polso sinistro ricordandosi solo dopo che Ino le aveva vietato categoricamente di indossare l’orologio, perché a parer suo, quel pezzo di seconda mano di ingranaggio non si intonava con il suo outfit, e anche perché “ci sono i cellulari per quello, chi porta più gli orologi al giorno d’oggi?”.
Si decise ad uscirne solo per dare un’occhiata all’ora. Aprì cautamente la porta e scese lentamente le scale che la separavano dalla sala sforzandosi di non poggiare con troppa forza il piede sul gradino, altrimenti le ballerine non avrebbero mancato di ricordarle che erano lì, in attesa, ad aspettare un suo passo pesante per ferire ulteriormente i suoi piedi martoriati.
Arrivata infine sul luogo del misfatto, Naruto la travolse.
Naruto Uzumaki, altro cameriere: il ragazzo più disastroso del mondo. Sakura avrebbe potuto scommettere tutto il suo patrimonio non ancora ereditato che Naruto c’entrasse qualcosa nello sfortunato evento successo poc’anzi, direttamente o indirettamente. Stava camminando all’indietro in quel momento mentre parlava con qualcuno dietro al bancone, e non si era accorto di lei, ferma sullo stipite delle scale.
« Sakura-chan! » le disse quando si voltò.
« Naruto-baka. » rispose con tono drammatico. « Sai cosa è poggiato sugli scalini, in questo momento? » aggiunse qualche secondo dopo. Naruto si portò una mano tra i capelli e sorrise.
« Il mio dannatissimo sedere, Naruto-baka! Perché non stai un po’ più attento a dove metti i- ahi! »
« Suvvia, Sakura-chan, » rispose lui. Le aveva preso una mano e l’aveva rialzata di colpo con un movimento che non sembrava essergli costato fatica. « Non ti ci mettere anche tu per favore, è già successo un macello! Guarda. »
Naruto le indicò il bancone del bar e tutta la zona limitrofa, che comprendeva gran parte del banchetto di cibo e di pavimento.
« Kiba ha aizzato il suo cane pulcioso contro di me, e quella bestiaccia è saltata sul bancone e ha fatto cadere almeno una decina di bicchieri. Metà sono sul pavimento, » glielo indicò con un dito, « e gli altri sono finiti nel cibo. »
Sakura si sentì mancare.
« Il cibo? Il cibo è pieno di frammenti di vetro? » portò le mani sulle guance ad assumere una posa melodrammatica. « Perché proprio sul cibo?! »
Naruto le diede due pacche sulla spalla, e si dileguò su per le scale. Rimase immobile qualche secondo ad osservare la marea di bruschette che non avrebbe più potuto mangiare. Poi Sasuke entrò nel suo campo visivo, anche lui diretto su per le scale dietro di lei. Si spostò un poco di lato per farlo passare e lui la guardò.
Lo seguì con gli occhi e notò il modo estremamente innaturale con cui si fermò di colpo davanti alla porta del bagno delle donne e controllò, allungando il collo frettolosamente, che non fosse saltato fuori dal nulla un altro cimitero di carta assorbente sul pavimento.
Sakura si schiaffò una mano in faccia dalla vergogna e tornò a sedersi.
°°°
Sasuke Uchiha era suo amico da almeno dieci anni, così come Naruto Uzumaki e come molte altre persone che in quel momento si trovavano nella sala, a digiuno, e in attesa del dolce. Si erano conosciuti quando lei aveva sette anni, appena entrata alle scuole elementari, e Naruto e Sasuke frequentavano la terza.
Il caso aveva fatto sì che Sasuke, appena trasferitosi da una città vicina, fosse capitato di casa accanto a Naruto e che i due, dopo l’odio profondo che ancora balzava fuori in rare occasioni, fossero diventati amici inseparabili, o come le piaceva dire quando li prendeva in giro, pappa e ciccia.
Per quanto fosse ormai suo amico, Sakura era sempre stata certa che se non fosse stato per l’esuberante carattere tipico di ogni Uzumaki sulla terra, lei e Sasuke non si sarebbero rivolti parola se non per salutarsi la mattina e per congedarsi la sera, e magari per le solite frasi di cordialità.
Ma con il passare degli anni e con la vicinanza forzata, era accaduto che tutti e tre, in mezzo a quel gruppo, non fossero poi così distanti dall’essere un trio.
Sakura sorrise mentre giocherellava con lo stuzzicadenti con il grasso del prosciutto che aveva scartato e lasciato sul piatto, e arrossì di colpo quando ripensò alla cotta stratosferica che due anni prima aveva avuto per Sasuke Uchiha.
Perché Sasuke Uchiha era bellissimo.
Come già detto, più grande di due anni, aveva appena iniziato l’università, e frequentava come studente part-time perché, a differenza delle più rosee aspettative di vita, i genitori di lui erano morti quando aveva nove anni, cioè quando si era trasferito a Konoha. Così dall’età di sedici anni si era instaurato in quel bar come cameriere, o coma barman, a seconda delle occasioni, e senza dar fastidio ad anima viva o senza causare troppo scalpore negli animi degli abitanti e soprattutto delle abitanti di Konoha, se ne stava per i fatti suoi, a fare quello che poteva, e cavandosela egregiamente.
E la cotta era stata una conseguenza abbastanza prevedibile del suo aspetto fisico. Aveva capelli nerissimi che facevano pendant con gli occhi, e che stonavano in maniera meravigliosa con il candore della pelle, e se vogliamo trovare qualità su qualità, Sakura poteva giurare di aver capito perché esistesse il detto “altezza, metà bellezza” solo dopo averlo visto.
Proprio come il locale, trovare difetti fisici a Sasuke era come cercare un ago nascosto in uno di tutti i pagliai del mondo, mentre trovarne di caratteriali risultava un po’ più semplice. Visto l’umore non sempre dei migliori e la tendenza a volersene stare spesso da solo o in compagnia, sì, ma in silenzio, Sasuke sarebbe potuto sembrare uno di quei vecchietti burberi seduti per tutto il giorno all’angolo della strada che si divertono ad abbassare il giornale che stanno leggendo violentemente e all’improvviso, proprio mentre qualcuno sta passando, per mettergli paura.
Ma non lo era in realtà, e Sakura, e soprattutto Naruto, lo sapevano bene. Era la persona più semplice che conoscevano, tranquilla e, al contrario di tutta quella impassibilità, stranamente sensibile, come strane erano tutte le sue manifestazioni di affetto, che solitamente erano mal interpretabili.
Ma quel suo carattere particolare aveva incrementato la cotta, invece che diminuirla.
Alle amiche, quando ricordavano tutte insieme i tempi passati – che per loro arrivavano a malapena a tre anni addietro -, propinava come scusa che era piccola quando l’amore l’aveva colta, e l’aveva colta totalmente impreparata, e che a quindici anni ci si innamora un po’ di tutto e di tutti, e che, comunque, ogni singola ragazza di Konoha attraversava la fase “Sasuke”, e che quindi non aveva nessun motivo per vergognarsene.
Anche Sasuke stesso, del resto, ne era al corrente. E come riuscire a nasconderglielo, se solo con uno sguardo riusciva a mandarla in tilt e con un solo saluto le toglieva la facoltà della parola?
La sua cotta era sempre stata di dominio pubblico, ma si era convinta a rinunciare quando, dopo aver tentato invano per mesi approcci imbarazzati e inesperti, non era riuscita ad ottenere nulla. Per non parlare della prova schiacciante del disinteresse dell’altro che le amiche, in ogni conversazione e ad ogni occasione buona, si premuravano di ricordarle: “Sakura-chan, Sas’ke sa benissimo cosa provi per lui, e se tu gli interessassi veramente avrebbe già fatto il primo passo, visto che ha anche la consapevolezza di andare a colpo sicuro!”.
Lasciò cadere lo stuzzicadenti nel piatto e diede un’occhiata ai suoi pantaloni bianchi, ancora miracolosamente lindi ed intatti. Strinse le mani intorno alle cosce e iniziò a far tamburellare le dita al ritmo del cuore, che aveva preso a battere velocemente.
Del resto Sasuke, nonostante i due anni trascorsi, continuava a significare tutto per lei. Ma quella volta si era premurata di nasconderlo bene a tutti. Anche a lui.
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Capitolo 2 *** Akamaru il Demonio ***
Premessa fondamentale: io non odio il personaggio di Karin.
Buona lettura!
Akamaru il Demonio
Sakura sapeva che spesso le cose accadevano senza un motivo ben preciso e senza una causa giustificabile, o altre volte per delle motivazioni accumulatesi per così tanto tempo da essersi stratificate così pesantemente le une sulle altre da non riuscire più a distinguerle. Ma sapeva con altrettanta certezza che in quasi tutte le lingue del mondo – per non dire tutte, anche se probabilmente sarebbe stato più corretto – esisteva un modo per dire colpevole ed uno per dire innocente, o per lo meno per trasmettere il concetto di colpevolezza e di innocenza. Che poi i segni usati dal linguaggio umano fossero arbitrari e del tutto convenzionali, quello non importava. Per quanto la riguardava, colpevole poteva anche dirsi astrig in un’altra lingua, o magari eloveploc, ma era indubbio che il termine esisteva. Il concetto era ben chiaro nella mente di tutti, e Sakura non se la sentì proprio di ignorarlo in quel momento.
C’era lui, davanti a lei, il colpevole consapevole di quei dolori lancinanti che sentiva imperversare per tutto il corpo, concentrati soprattutto nella parte alta dell’addome che, se fosse stata più lucida, avrebbe chiamato crampi allo stomaco. Lui la guardava, tranquillo, seduto per terra senza dare a vedere la scomodità del pavimento, e ad ogni piegamento della testa che faceva le sue orecchie penzolavano a destra e sinistra.
Sakura era seduta di fronte a lui, e teneva stretto il guinzaglio che aveva tra le mani senza rendersi conto che in realtà avrebbe voluto che il cuoio marrone di questo fosse stato in realtà in collo pulcioso, come diceva Naruto, di Akamaru.
Di Akamaru Il Colpevole.
Sakura se lo ripeteva nella sua testa da almeno dieci minuti buoni che era tutta colpa di Akamaru se il cibo era andato a farsi benedire, sin da quando Kiba era sparito in bagno lasciandole il gravoso compito di dare un’occhiata al suo innocuo e docile animale domestico, che di domestico aveva solo l’aspetto e che già i canini appuntiti che si scorgevano spuntar fuori dalle arcate superiore e inferiori di denti rovinavano.
Sakura avrebbe voluto dire che se fosse stato davvero così innocuo, allora Genma non avrebbe preteso che venisse tenuto al guinzaglio, e che un animale docile non si sa aizzare contro nessuno, e che un padrone ragionevole non insegnerebbe mai al suo cane ad aizzarsi contro qualcuno, ma per il bene della noiosissima serata di Ino, aveva taciuto.
Akamaru Il Colpevole la guardava, la scrutava da cima a fondo, mostrandole fieramente il suo compassionevole muso da cane.
Sakura sapeva anche che Akamaru Il Colpevole suonava troppo come Ivan Il Terribile, o Pietro Il Grande, o Alessandro Magno o Pipino il Breve, ma se il cibo fosse stato ancora disponibile e non pieno di schegge di vetro potenzialmente mortali, forse sarebbe potuta essere in una disposizione d’animo che le avrebbe concesso anche un paio di carezze e grattatine, e non un epiteto da libri di storia.
Akamaru il Colpevole si alzò su tutte e quattro le zampe e guaì, annoiato e sconfortato, facendo poi un giro su se stesso mordendo il guinzaglio.
« Non ci provare, Akamaru il Colpevole, non mi fai pena per niente. »
« Ah, grazie Sakura! »
Alzò lo sguardo giusto in tempo per vedersi sfilare di mano il guinzaglio da Kiba, ricomparso dopo un tempo pressappoco insolito dal bagno degli uomini. Sakura si alzò dalla sedia e gli fece un cenno con la testa accompagnato da un flebile “di nulla” per poi voltarsi nella direzione che tutti, da almeno un quarto d’ora, stavano fissando.
Le scale dove poco tempo prima Naruto l’aveva travolta e su cui aveva avuto il piacere di cadere erano nell’occhio del ciclone, un ciclone di persone affamate, private ingiustamente del cibo e tremendamente vogliose di grassi. Sapeva di essere la prima della fila, e sapeva che se fosse esistito un apparecchio in grado di far vedere sulla pelle quello che effettivamente si sta pensando, tutti avrebbero potuto notare della bava agli angoli della sua bocca, e i suoi occhi dilatati e frementi, le unghie completamente morsicate nell’agonia dell’attesa.
Ma si stava controllando, Sakura, perché i suoi pantaloni, purtroppo, erano bianchi e puliti, e sporcarli a fine serata sarebbe stato un obbrobrio ancora peggiore dello sporcarli appena entrata nel locale, e ciò rendeva praticamente impossibile la corsa che si era ripromessa di fare verso la torta, una volta portata all’interno della sala.
Tolse per un attimo i piedi dalle scarpe per fargli prendere un po’ d’aria. Erano più rossi dei pomodori sulle bruschette, e di poco meno rossi del sangue. Mosse ad una ad una le dita partendo dall’alluce, facendole scrocchiare. Tirò un sospiro di sollievo notando quanto il dolore fosse diminuito.
In quel momento le luci si spensero.
Sakura cercò di riallungare le mani verso le scarpe per rinfilarsele di colpo per non perdersi il momento cruciale, il momento più atteso della serata, il momento trionfale del suo stomaco che, una volta pieno di panna, crema, pan di spagna e lordure varie, avrebbe smesso di brontolare, beandosi della propria sazietà.
Afferrò la prima scarpa che trovò a portata di mano, sbagliando inizialmente piede e aumentando così il dolore alle dita, contorte ancor più innaturalmente. Tolse la scarpa e se la infilò nel piede giusto, e la cosa non fu meno dolorosa della precedente. Si allungò verso il basso per cercare l’altra, ma la sua mano fu inaspettatamente accolta dal pavimento. Vagò a destra e a sinistra con le dita, gli occhi sbarrati che cercavano, invano, di captare l’immagine di qualcosa nel buio.
Si alzò in piedi ed altrettanto inutilmente si guardò attorno.
« Ino, hai visto la mia scarpa? » chiese alla ragazza poco distante da lei. In risposta ricevette un urlare indistinto di voci e un mezzo applauso, bloccato poi dalla voce di Genma che imprecava contro un tavolino. Sakura si voltò come per chiedere “Ma che risposta è? Vi ho chiesto se avevate visto la mia scarpa!”, ma guardando attentamente, Sakura notò quale era stata la vera causa di tutto quell’entusiasmo.
Era arrivata, e Akamaru il Colpevole aveva reso l’attesa così lunga e così estenuante, che il suo arrivo le sembrò un evento celeste dalla portata disumana, come lo erano, del resto, le sue dimensioni.
Era – o almeno così le sembrava alla luce delle diciassette candeline – bianca, totalmente e meravigliosamente bianca, ricoperta di candida panna che formava ghirigori che ancora non riusciva a scorgere bene. Sakura sentì tutto il suo apparato digerente muoversi al ritmo forsennato della rumba quando l’odore inconfondibile di dolcezza le entrò prepotentemente nelle narici. Dimentica della scarpa e del dolore ai piedi, lasciò perdere la ricerca e ammirò ammaliata l’arrivo di quel ben di Dio sul tavolino.
Era vicina, era quasi a portata di braccio, quando qualcuno – non Akamaru il Colpevole stavolta, ma solo perché privo della facoltà di parola – rovinò tutto.
« Perché non la portiamo dietro al bancone? Facciamo le foto là dietro! »
Sakura guardò in mezzo alla folla per identificare colui che, per sempre e ancor di più, sarebbe rimasto impresso nella sua mente come l’uomo più spregevole del mondo, un Akamaru 2 in versione essere umano, una calamità naturale.
Akamaru II il Gustafeste era lì, non molto lontano da lei, e aveva un nome familiare e odioso che non avrebbe più pronunciato, limitandosi a chiamarlo con il suo nuovo onorifico.
Kiba Inuzuka.
La sua testa sarebbe anche potuta esplodere dalla rabbia, ma Sakura aveva delle priorità nella vita, e sapeva scegliere bene. Il cibo, in quel momento, veniva prima di tutto. Vide la torta che veniva posata sul bancone e un’orda ragguardevolmente numerosa di persone andare nella sua direzione, salire lo scalino, e intrufolarsi ad uno ad uno per incastrarsi bene e per far entrare tutti. Quando si rese conto che non avrebbe più trovato posto se fosse rimasta lì imbambolata, mosse subito un passo verso la torta, e poi un altro, e poi un altro ancora. Era praticamente uscita dal dedalo di tavoli e sedie che qualcuno la bloccò per un braccio.
« Ma che fai? »
Sasuke le arrivò accanto a passo svelto e la fece salire sulle sue scarpe.
« È ancora pieno di frammenti di vetro, qui. »
Sakura, come già detto, aveva delle priorità, e sapeva anche sceglierle bene quelle volte che riusciva a ragionare lucidamente, ma in quel momento era il suo cuore che andava al galoppo che prese il sopravvento su tutto il resto, perfino sulla torta. Lo guardò un attimo stralunata, conscia che sì, c’erano i vetri per terra, ma non ancora molto consapevole di cosa fosse accaduto in quel secondo e mezzo di caos, e come fosse potuto succedere di stare lì, sulle scarpe di Sasuke per non toccare il pavimento. Sakura si ricordava di essere salita sulle scarpe di suo padre un milione di volte da piccola, e di aver camminato con lui da una parte all’altra di Konoha fino allo sfinimento, ma non era la stessa cosa. « Ah, è vero. » disse solamente, aggrappandosi alle sue spalle e voltandosi un poco a guardare il pavimento. Sotto la luce del lampadario si vedevano bene le schegge di vetro ancora presenti.
« Sakura-chan ma che ci fai lì? »
Naruto passò loro accanto con un vassoio pieno di bicchieri da vino dopo aver sceso le scale, di ritorno dal cortile esterno. Appena li ebbe sorpassati si voltò di scatto e troppo velocemente a guardarli, come attirato da un particolare notato all’ultimo secondo.
« E perché sei scalza, Sakur-»
Il rumore che tutti sentirono quando i bicchieri caddero a terra fu dieci volte più stridente del precedente. Sakura si strinse ancor di più a Sasuke quando vide una miriade di vetri sparpagliarsi su tutto il pavimento.
L’atmosfera si congelò per un lunghissimo istante. Naruto guardava le sue mani reggere il vassoio ormai vuoto; Sasuke guardava accigliato Naruto; Sakura faceva avanti e indietro tra Naruto, Sasuke, il pavimento, Genma, Ino, gli invitati. Allentò di un poco la presa sulle spalle di Sasuke ma se ne rimase ferma e buona al suo posto, senza osare muovere un passo, sia per colpa dei vetri, sia perché l’unica volta che era stata così vicina a Sasuke era stata in campeggio, l’estate scorsa, e solo per scarsità di spazio nella tenda che Naruto aveva portato e per cui aveva garantito, dicendo “Non vi preoccupate ragazzi, è una tenda da quattro!”, e temeva che non sarebbe più successo, visto che Sasuke si era attrezzato con una canadese tutta per sé subito dopo essere tornati dalla vacanza.
« Naruto! » sbottò Genma da dietro il bancone, imprigionato dalla miriade di adolescenti che gli impedivano l’uscita, « È la terza volta che faccio cambiare il parquet! La terza! Vuoi che arrivi a quattro?! »
« Scusa Genma, non succederà più, lo giuro! »
« Questo lo hai detto anche il tuo primo giorno di lavoro! »
« Ma stavolta è vero! Lo prometto! »
Sakura si lasciò andare ad un sospiro sconsolato e abbandonò la mente al ricordo della bellissima sensazione del masticare. Lasciò perdere la scena pietosa in cui Naruto supplicava ancora una volta Genma di non licenziarlo, promettendogli prestazioni magnifiche e straordinari non retribuiti, e vagò con lo sguardo oltre la spalla di Sasuke, verso i tavolini ricoperti di cappotti, sciarpe e borsette. Fu la sua scarpa che si muoveva tra le sedie che la destò.
« Akamaru! » urlò, indicandolo a braccio teso.
« Akamaru il Colp- »
Sakura si fermò giusto in tempo per non dover spiegare come mai lo considerasse colpevole di qualcosa, e perché, più in generale, gi avesse dato quel nome. Scorse con la coda dell’occhio Sasuke guardarla in modo strano.
« Ha la mia scarpa. » spiegò poi, voltandosi a guardare tutti gli altri.
Genma, esasperato e ancor più incastrato di prima, si rivolse a Kiba.
« Non ti avevo detto di tenerlo al guinzaglio? »
« Mi hai detto di mettergli il guinzaglio, e non è la stessa cosa! »
Akamaru fece cadere la suddetta scarpa, probabilmente sbavata e rosicchiata, per terra, e vi si accucciò di fronte, apparentemente tranquillo.
« Valle a prendere la scarpa. » disse Sasuke a Naruto, ancora fermo col vassoio in mano.
« E tu chi sei per darmi ordini? »
« Naruto, valle a prendere quella maledetta scarpa! » gridò Genma.
Sakura incrociò gli occhi azzurri dell’amico guardare sgarbatamente quelli di Sasuke.
Poi sentirono Akamaru ringhiare e Naruto chiedere aiuto, e tutti capirono che il momento delle foto avrebbe dovuto attendere.
°°°
« Non so se avete notato, » disse Naruto mentre faceva scorrere le foto sullo schermo della macchina fotografica digitale che Ino si era ostinata a comprare l’anno precedente e che poi, come Sakura aveva sempre sospettato, se ne era rimasta per i restanti undici mesi sepolta dentro il comò, coperta da scartoffie, bollette, fogli dell’assicurazione e vicina alla videocamera che, sempre Ino, aveva costretto i suoi genitori a comprare, anche quella praticamente nuova.
Naruto si fermò su una foto e la mostrò prima a lei, intenta a mangiare la seconda fetta di torta, e poi a Sasuke, che più che mangiarla si limitava a tenerla in mano e a spezzettarla con il cucchiaino.
« Non so se avete notato, ma sono più le volte che Sakura-chan guarda la torta che quelle in cui guarda l’obiettivo. »
« Ma che diamine- »
Gli strappò la macchinetta dalle mani e si andò a cercare tra la marea di volti bianchi con gli occhi rossi, ma nonostante il colore rosa dai capelli, non si trovò. La torta era talmente grande e così ben visibile che Sakura non riuscì a staccarle gli occhi di dosso nemmeno per un secondo nonostante fosse semplicemente una fotografia intangibile. Si diede uno schiaffo mentale realizzando che così facendo non aveva fatto altro che confermare l’idea di Naruto.
Gliela restituì, indispettita, dandogli le spalle e gettandosi con più foga sulla fetta di torta.
Parlando sempre di priorità, Sakura sapeva bene che l’alimentazione sana le avrebbe portato vantaggi ben visibili, come una forma smagliante, una buona salute, un fisico invidiabile, e quindi, facendo una lista dei pro e dei contro, la scelta dell’alimentazione sana sarebbe sembrata irrifiutabile. Ma il mondo aveva prodotto i fast food, e la mente umana aveva progettato le pasticcerie, e Sakura credeva che sarebbe stato davvero un peccato gettare sul lastrico le migliaia di persone che combattevano ferocemente l’alimentazione sana. Del resto bisognava voler bene un po’ a tutti, e qualcuno doveva pur fare il sacrificio di ingozzarsi di torta. Sakura aveva deciso di immolarsi per questa causa all’età di cinque anni, quando sua nonna, complice di marachelle, le aveva per la prima volta fatto vedere un’innocua caramella gommosa che i suoi genitori si erano precedentemente rifiutati di farle mangiare. Quando la mise in bocca, i suoi denti da latte sembrarono sciogliersi per tutta quella dolcezza che le aveva agguantato la lingua.
Il dolce, i dolcetti, gli zuccherini, le caramelle, le merendine: per molti sarebbe stato sinonimo di ingordigia e opulenza, di scarso rispetto per il proprio organismo e per la propria salute, ma per Sakura era semplicemente il modo più delizioso di passare il tempo.
Dai cinque ai tredici anni dunque, aveva deciso che mangiare sarebbe stata la sua priorità, la sua unica ragione di vita perché, difatti, senza mangiare non si va da nessuna parte.
Poi sua madre le aveva detto “cicciona” una volta, quasi per sbaglio, e suo padre, di indole docile e incapace di mentire, aveva teso le labbra per non dire “Ha ragione mamma, Sakura” e aveva inarcato le sopracciglia. Allora aveva capito che era arrivato il momento di darsi una regolata. Anche Ino a scuola non mancava di farle presente che la sua pancia non era proprio ciò che si sarebbe potuto definire piatta, e l’aveva avvisata sul fatto che i ragazzi vogliono solo le ragazze magre.
Quel giorno Sakura aveva deciso di iniziare una campagna di sensibilizzazione per gli uomini per avvicinarli alle ragazze che non erano anoressiche, perché Ino era una scema se pensava solo al fisico, e a lei la sua pancia piaceva: era morbida.
Ma l’avvento dell’adolescenza aveva portato a radicali cambiamenti caratteriali, e a nuove, nuovissime paranoie. Il momento più terrificante della sua vita, avrebbe detto Sakura, gli anni in cui si era volontariamente privata della dolcezza e in cui aveva iniziato l’attività sportiva.
I complessi sul suo fisico l’avevano portata a correre. Sakura correva spesso, da sola o in compagnia, e i dolci a casa sua erano proibiti. Perché la sua nuova fissa per un fisico al top – che era peggiorata a quindici anni, la prima volta che capì che avrebbe voluto piacere anche a qualcun altro, e non solo a se stessa – doveva combattere con una fissa dalle origini ancestrali e divine, una fissa che non l’avrebbe mai abbandonata del tutto e che l’avrebbe tentata ogniqualvolta che sarebbe stato possibile, il suo noto e risaputo peccato capitale preferito: la gola.
Sakura addentò un altro boccone di torta, facendo finta di non aver udito nemmeno una delle parole che Naruto le aveva rivolto in quei cinque minuti in cui lei aveva rivangato il suo passato da buon gustaia, dicendosi che due fette di torta, dopo mesi in cui non aveva nemmeno osato guardare le vetrine dei bar, non l’avrebbero fatta ingrassare nemmeno di 20 calorie e che anzi, si sarebbe potuta permettere anche una terza fetta. Ma poi l’occhio le cadde sulle sue cosce, e dalla sua scarsa altezza le sembrarono giganti.
Lo stesso boccone che prima le era sembrato gustoso divenne improvvisamente e amaro, e lo mandò giù a fatica, solo per evitare di risputarlo nel piatto davanti a tutti. A malincuore si avviò verso il secchio e gettò il piatto di plastica con ancora sopra un’abbondante porzione di torta.
« Contento adesso? » disse a Naruto quando lo ebbe raggiunto di nuovo.
Sasuke, accanto a lui, scosse la testa divertito.
« Non ti volevo offendere, Sakura-chan! » Naruto finì di ripulire il piattino dalla panna prima di andarlo a buttare, « Lo dici anche tu che ti ci vorresti ingozzare per un mese, con tutta quella torta! »
Aprì bocca per controbattere, ma il sorriso divertito che fece Sasuke in quel momento, dopo la frecciatina di Naruto, la mortificò più della vista delle sue cosce. Se le guardò di nuovo, chiedendosi se non fosse lo specchio di casa sua a smagrirla troppo, e che magari agli occhi degli altri – agli occhi di Sasuke e del suo sorriso sarcastico che stava a significare “Sakura, sei cicciona davvero, non è uno scherzo” - risultava ancora un poco in sovrappeso. Eppure sua madre le diceva di mangiare di più, e il personal trainer che la seguiva in palestra le aveva detto che non c’era nemmeno più bisogno di una vera e propria corsa, perché una semplice camminata veloce sarebbe bastata.
Si imbronciò ancora di più e si avviò verso il bagno senza replicare.
°°°
Era seduta sulla tavoletta chiusa del bagno da almeno un quarto d’ora, domandandosi chi glielo avesse fatto fare di mettersi i pantaloni bianchi, quella sera. Era risaputo che vestire di bianco non era cosa da tutti, visto che, a differenza del nero, quella di sfinare non era proprio la sua caratteristica. Cercò di ricoprire la circonferenza della sua coscia con le mani, scoprendo che i due mignoli non arrivavano a toccarsi. Sospirò, poggiando la schiena al muro e scaricando per sbaglio.
Si alzò di scatto spaventata dal rumore.
Uscì dal gabinetto più mortificata di prima e si ritrovò davanti ai lavandini e davanti allo specchio. Gli occhi cominciavano a stancarsi e avvicinandosi al suo riflesso vide qualche venatura rossa far capolino sul bianco, e il trucco cedere sempre di più. Prese un foglio di carta assorbente, e dopo averlo bagnato un poco se lo strusciò con forza sul viso. Lo vide diventare rosato, segno che il fondotinta se ne stava a poco a poco andando via. Ne prese un altro e fece la stessa identica cosa, passandolo poi anche sugli occhi.
Il suo volto tornò ad essere incredibilmente pallido.
Decise che per il resto della serata avrebbe fatto bene a non muoversi da lì. Avrebbe atteso che la disidratazione e la mancanza di cibo le causassero un dimagrimento formidabile prima di ripresentarsi agli occhi di tutti. Poi d’un tratto sentì qualcuno raschiare alla porta.
Vi si avviò con cautela, e appena ne ebbe aperta uno spiraglio vide Akamaru il Colpevole sgusciare dentro al bagno in fretta e furia, portandosi dietro il guinzaglio per cui nessuno lo teneva. Sakura richiuse la porta.
Nonostante il suo primo pensiero fosse stato quello di ucciderlo, perché l’occasione si presentava perfetta e in mancanza di testimoni oculari, Akamaru non sembrava su di giri, come poco prima, e non sembrava avere nessuna intenzione di rubarle le scarpe.
Decise dunque che era giunto il momento di far cessare le ostilità. Scelse un punto del pavimento su cui sedersi, un punto dove non avrebbe dato fastidio a nessuno, e vi si mise. Akamaru, vedendola alla sua altezza, le si avvicinò scodinzolando. Si tolse il golf e lo poggiò sulle gambe, e il cagnolino, senza farselo ripetere, ci si accoccolò sopra.
« Lo sai che sei più zozzo tu del pavimento? » gli disse, forse per vendicarsi del furto della scarpa, ma Akamaru, tremendamente simile a Kiba in quello, già dormiva di gusto. Sakura poggiò la testa al muro, sconsolata. Decise di perdonare Akamaru, e lo ribattezzò Akamaru il Cane. Era quello che era, del resto, un semplice cane, così come lei era una cicciona.
Ino fece irruzione nel bagno anticipata dal rumore dei tacchi. Spalancò poco elegantemente la porta richiudendola sempre con poca grazia, e appena la vide seduta per terra si fermò di colpo, posando come di consueto le mani sui suoi minuscoli fianchi da capogiro.
« Cosa ci fai per terra? »
Sakura alzò gli occhi umidi su di lei, immaginando di avere, in quel momento, lo stesso sguardo languido di un cocker.
« Naruto mi ha detto che sono cicciona. »
Tirò su con il naso quasi senza accorgersene, perché difatti non si era resa conto di essersi quasi messa a piangere. Ino alzò gli occhi al cielo e si decise a sedersi accanto a lei, incrociando le gambe e tirando un po’ più giù la gonna risalita più su di quel che il pubblico decoro avrebbe tollerato.
« Sono sicura che non ha detto questo. »
« Beh, ma lo intendeva. »
« Sakura... » disse consolatoria. Ma Ino le diede uno scappellotto a tradimento con la mano che pensava si stesse avvicinando al suo volto per una semplice carezza. Sakura fece una smorfia di dolore senza nessuna esclamazione udibile ad orecchio umano.
« Sei alta un metro e sessantatre centimetri, e sei una tisica di quarantasette stupidissimi chili. »
« Beh, peso così poco solo perché il mio seno è inesistente! »
« Sakura! » Ino le diede un altro scappellotto.
« Mi fai male! »
« Ti sta bene! L’unica cosa piena di lardo che hai è il cervello. »
Sakura si massaggiò la testa continuando a carezzare il cane con l’altra mano.
« Credi che il bianco mi stia bene, Ino-chan? »
« Mi pare di averteli consigliati io quei pantaloni, fronte spaziosa. »
Sakura sospirò di nuovo, facendo un sorriso tirato per smorzare l’atmosfera.
« Hai ragione. »
« Lo so. » rispose Ino, alzandosi e chiudendosi dentro ad un gabinetto. Se ne riuscì poco dopo e si lavò le mani. Gliele scrollò addosso, e vide Akamaru infastidirsi al sentire le gocce d’acqua sul pelo, ma non provare nemmeno ad alzarsi.
« Appena ti sarai stufata di fare la dog sitter vieni di là. »
« Sì, certo. »
Ino richiuse la porta del bagno.
« Se mi stufo. »
°°°
Il pavimento del bagno era pulitissimo, su quello non ci sarebbe stato nulla da ridire, ma le mattonelle gelide avevano cominciato a farla congelare ad un tratto, e aveva dovuto, volente o nolente, alzarsi e svegliare Akamaru. Lo aveva preso al guinzaglio dopo avergli carezzato la testa, e se ne era tornata di là, struccata e non ancora del tutto convinta di non essere una cicciona.
Naruto era tutto indaffarato dietro al bancone, a ripulire piani da lavoro e sistemare gli ultimi bicchieri nella lavastoviglie, e fu grata a Genma per averlo messo sotto torchio. Sasuke stava ripulendo il pavimento dagli ultimi frammenti di vetro, e di certo non sarebbe andata lì a disturbarlo.
Si avviò quindi da Ino dopo aver lasciato carta bianca ad Akamaru il Cane, di nuovo libero di scorrazzare in piena autonomia.
« Ah, ti sei decisa. » le disse, porgendole un bicchiere di vino poggiato al bancone e che aspettava solo lei. Sakura lo prese senza perdere tempo a chiedere che vino fosse, perché comunque non ci capiva nulla di enologia, e non che un vino tirasse l’altro, ma le sfumature di gusto, per un’ingorda come lei, non facevano poi molta differenza. Ne mandò giù un sorso consistente, poggiandosi al bancone e decidendo che avrebbe preso, seppur controvoglia, parte alla conversazione che era in via di svolgimento.
Solo in quel momento si accorse che accanto ad Ino c’era Karin.
Arrivata con un ritardo che ammontava alle sei ore, Karin si doveva essere fatta viva mentre lei se ne stava al bagno con Akamaru e fingeva di non notare gli sguardi straniti delle ragazze che entravano e uscivano, squadrandola come se fosse stata parte integrante dell’arredamento, come un sanitario fuori uso.
Aveva un non so che di non trascurabile, Karin, qualcosa che saltava agli occhi di chiunque passasse per strada che era davvero impossibile da non notare: spesso aveva creduto che fossero i capelli rosso fuoco a renderla terribilmente appariscente, o i tacchi alti su cui si destreggiava abilmente anche sulle lunghe distanze, o magari le sue labbra enormi e incredibilmente naturali, o ancor di più gli occhiali da gatta che portava che donavano al suo volto un’aria accattivante. Per tutti quei motivi, a cui sarebbero dovuti essere allegati almeno un altro migliaio di particolari che sul momento a Sakura sfuggivano, l’aveva odiata sin dall’età di quattordici anni, quando Karin, sedicenne, sembrava avere il mondo ai suoi piedi mentre lei, ancora con l’apparecchio ortodontico, non riusciva ad ottenere rispetto nemmeno dal suo gatto ruffiano.
Con il passare del tempo e con il diminuire sempre maggiore della sua autostima, Sakura aveva smesso di odiare Karin. Non aveva abbastanza energie per farlo – del resto la quantità di zuccheri nel sangue era diminuita vertiginosamente durante il periodo di dieta forzata -, ed era completamente inutile. Le labbra di lei rimanevano carnose, i tacchi crescevano in altezza - e mai una volta che l’avesse vista cadere per terra -, e Karin non era andata incontro ad un invecchiamento precoce da portarla ad avere i capelli bianchi. E Sakura aveva ammesso a se stessa che Karin era una ragazza appariscente semplicemente perché era bellissima.
L’aveva vista centinaia di volte in pigiama, o senza trucco, senza scarpe col tacco ma in scarpe da ginnastica. L’aveva vista con i capelli legati e con maglioni larghi da coprire perfettamente la sua quarta di seno, e tutte quelle volte il senso di inferiorità era rimasto lì, attanagliato alle sue ossa senza smuoversi.
Karin aveva un carattere scontroso e terribilmente dominante, cosa che l’aveva resa pappa e ciccia con Ino, con cui andava a nozze dall’età di dieci anni. Aveva l’età di Sasuke e di Naruto, e anche lei aveva attraversato la sua stessa fase, la fase d’innamoramento senza rimedi per Sasuke, senza arrivare – unica cosa che la consolava - da nessuna parte.
« Ciao Sakura. » le disse con non troppo entusiasmo, ma cordiale.
Le sorrise alzando la mano a mo di saluto.
Troppo bella.
°°°
Sasuke, finito di pulire minuziosamente per terra, si era presentato dietro al bancone per aiutare Naruto. Sakura aveva seguito attentamente i suoi occhi chiedendosi in quali migliaia di direzioni si fossero voltati senza riuscire mai ad incontrare i propri. Karin comunque lo vide e lo salutò. Sakura notò che il tono della sua voce si era alzato di almeno un’ottava rispetto a quello che aveva utilizzato per salutare lei. Sasuke rispose con un “Ciao Karin” sopraffatto dalla stanchezza, ma anche lui cordialissimo.
Fecero, davanti ai suoi occhi verdi, invidiosi e rassegnati, una di quelle conversazioni tipiche che fanno le persone che non si vedono da un po’ di tempo, ma non abbastanza da giustificare un interessamento eccessivo. Le frasi erano piene di “come stai?”, “cosa hai fatto ultimamente?”, e qualche “Ah, interessante”, e Sakura avrebbe voluto interrompere tutto quello scambio di informazioni immediatamente, magari rovesciando il vino che aveva in mano. Invece decise di berne un altro lungo sorso e cercare di ignorare le voci che sentiva.
Poi Karin si decise a fare ciò che faceva ogni tre o quattro mesi da quando aveva quattordici anni, età che le era sembrata adeguata per cominciare a portare acqua al suo mulino.
« Sei ancora single ma troppo disinteressato oppure posso avere una chance? »
Come già detto, Sakura aveva giustificato un sacco di volte tutto l’odio che provava per Karin dicendosi che era davvero troppo sfacciata e troppo sicura di sé. Ma sentendo quella frase così sfrontata essere buttata lì in una conversazione, Sakura ammise che non era di certo sfacciataggine quella di Karin, ma coraggio di mettersi in gioco. Ed era ormai ovvio ai suoi occhi che avrebbe voluto essere esattamente come lei.
°°°
Sakura bevve con più foga il vino che le era rimasto nel bicchiere per cercare di distaccarsi totalmente dal mondo. Sasuke era rimasto in silenzio, e Naruto, accanto a lui, il suo salvatore personale, aveva iniziato a blaterare di stupidaggini per riempire gli spazi vuoti. Sakura posò il bicchiere vuoto sul bancone. Tornò a pensare alle sua gambe da cicciona, perché pensare alla risposta che avrebbe potuto dare Sasuke alla domanda di Karin la angosciava.
« Sì Naruto, okay. » disse Karin per farlo stare zitto, « Ma Sas’ke-kun non mi ha risposto. »
Sakura cominciò a sentire caldo tanta era l’ansia.
« Ino, credo che andrò a casa, non mi sento bene. » le sussurrò all’orecchio. Ino crucciò le sopracciglia e poi annuì preoccupata, posandole una mano sulla guancia per misurarle ad occhio e croce la temperatura.
« È tutto okay? »
« Sì, ma inizia a girarmi la testa. » Sakura guardò di sfuggita l’orologio attaccato al muro, « E sono già le tre e mezza. »
« Eh no, Karin! » urlò Naruto. Sakura non ci badò nemmeno. Abbracciò Ino e le sussurrò un ultimo tanti auguri.
« Sas’ke sta con Sakura-chan adesso! »
°°°
Sakura aveva mosso giusto i primi due passi verso il tavolino su cui aveva lasciato il suo giacchetto e la sua borsa che Ino le riprese la mano e la trascinò di nuovo nel bel mezzo della conversazione che aveva cercato di evitare.
Guardò Ino stranita, aspettandosi almeno una giustificazione, ma incontrò gli occhi un po’ perplessi di tutti. Sakura si chiese se non fosse per le sue cosce da taglia forte che tutti se ne stavano zitti e con gli occhi sbarrati, e quasi istintivamente, e ancora senza sapere bene il motivo di tanto sgomento, arrossì. Avvicinò una mano alla bocca per mangiarsi il resto delle unghie, non badando allo smalto che ci aveva messo proprio per non ricascarci, ma sempre Ino le riafferrò il polso e le riportò la mano lungo il fianco.
Sakura iniziò a chiedersi se non ci fosse stato un potente allucinogeno nell’ultimo bicchiere di vino bevuto, o se forse non fosse stato semplicemente un bicchiere di troppo a farle quell’effetto.
Naruto rise divertito, e Sakura notò che era l’unico, l’unico ad essere tremendamente soddisfatto di qualcosa.
Ma cosa?
« Cosa succede? »
« Suvvia Sakura-chan, » Naruto sgusciò fuori dal bancone saltando con grande entusiasmo lo scalino maledetto e le arrivò affianco, circondò le sue spalle con un braccio, e come una debuttante che sta per essere presentata al mondo, la fece volgere verso tutti gli altri, - o almeno verso quel gruppetto di tre o quattro persone che la stavano guardando, cioè Karin, Ino e Sasuke, con Genma nelle retrovie che fingeva di asciugare bicchieri da vino ma che in realtà origliava – e la scosse un poco.
« non vergognarti, diglielo anche tu. »
Sakura sapeva di essere complice inconsapevole di qualche brutto scherzo, lo aveva capito dalla faccia di Naruto, quella di chi ha avuto un’idea geniale ancora non del tutto elaborata finemente e che agli inizi risulta più stramba che, appunto, geniale, ma lei, a differenza di ciò che diceva la sua professoressa di scrittura creativa, non aveva grandi abilità immaginative, o meglio, queste si limitavano all’elaborazione mentale di nuovi dolciumi e nuove sostanze con alte dosi di zuccheri capaci di dare assuefazione. Ma quando non si trattava di cibo o di temi scolastici, la vita reale le risultava abbastanza sconveniente, e difficile, molto difficile da prevedere.
« Io...»
Non che non volesse essere complice. Sarebbe stata complice anche di un omicidio se fosse stato Sasuke a commetterlo, anche se la vittima fosse stata lei stessa, ma davvero, nonostante gli sforzi del suo cervello, non ci stava capendo molto.
Si alzò sulle punte e bisbigliò a denti stretti un “Cosa devo dire?” all’orecchio di Naruto. Lui, nonostante la goffaggine abituale, nascose il suo suggerimento dietro ad un innocuo bacio sulla guancia.
« Stai con Sas’ke adesso. » le rispose.
Sakura guardò fissa davanti a sé ancora per un po’ prima di annuire gravemente senza ancora aver realizzato bene cosa fosse accaduto. Lei stava con Sas’ke-kun adesso, si disse.
Naruto la strattonò ancora per le spalle.
« Su Sakura-chan, dillo. »
Ino le lanciò uno sguardo interrogativo.
« Io...» si prese a torturare le dita, e cominciò a spuntare le unghie rimaste su una mano con le unghie superstiti dell’altra, guardandosi i piedi e dicendo a se stessa che il dolore dato dalle scarpe le era sembrato una punizione già sufficiente di per sé, e che magari mangiare tutta quella torta non era stata una cosa salutare, vero, ma non si meritava di certo una sciagura come quella.
L’aria grave che le si era stampata automaticamente in faccia nel momento stesso in cui si era sentita chiamata in causa non le sembrò nemmeno lontanamente quella adatta per dichiarare al mondo una sua finta relazione che, si presumeva, avrebbe dovuto renderla felice.
Quindi azzardò un sorriso spiazzante da quanto appariva forzato, e decise di fingere.
« Sì, io e Sas’ke-kun stiamo insieme. »
Il silenzio continuò imperterrito nei due metri quadrati che li racchiudevano, e
Sakura si chiese se la sua interpretazione non fosse stata così pessima da non sembrare per niente credibile o se la notizia in sé e per sé fosse stata fuori discussione a prescindere. Sakura Haruno che sta con Sasuke Uchiha doveva sembrare, alle orecchie del mondo intero, come il miracolo dei pani e dei pesci, o come la barzelletta più brutta raccontata da uno che di barzellette non ci capisce nulla. Decise di buttarsi del tutto e di rendersi più convincente.
« Insomma, noi...noi stiamo insieme. Da un po’. Non molto, comunque, se ti può consolare. Non che io voglia consolarti! Cioè, io...»
« Pazzesco, eh! » disse Naruto interrompendola e dandole un’altra scarica di scosse. Sakura gli fu grata giusto il tempo di realizzare che era stata tutta colpa sua se quel macello aveva avuto inizio, e che si era addirittura permesso di interromperla, lui, che di eloquenza ne sapeva meno di zero. Comunque non trovò che il momento fosse appropriato per dare spettacolo con la sua parlantina contro Naruto.
« Pazzesco. » rispose Karin. La guardava come si guarda il bambino che ha appena avuto l’ardire di buttare per terra il cibo appena messo in tavola, in un modo che preannuncia vendetta, ma una vendetta che non prevede le botte, né un attacco frontale nell’immediato.
Karin ordinò un bicchiere di vino, guardando attentamente Sasuke mentre questo glielo versava nel bicchiere, forse per leggergli in volto una qualche nota stonata che avesse lasciato intravedere la menzogna. Lo guardò anche lei: sembrava estremamente tranquillo. Quando lui alzò lo sguardo e la vide, si concentrò nuovamente sulle scarpe. Per un attimo avevano anche smesso di farle male.
Karin ringraziò per il vino, e si diresse con Ino verso un tavolo. La ragazza bionda le diede una gomitata quando le passò accanto, facendole l’occhiolino. Sakura fece una smorfia da “non c’è niente da ridere”, ma prima di potersi voltare verso Naruto e urlargli in faccia che non avrebbe dovuto mai più rivolgerle la parola, si sentì un ormai comune rumore di vetri rotti.
°°°
« Sì, ciao. Ciao, mi dispiace, ma è ora. Eh lo so, mi dispiace. »
Questo era ciò che Genma stava dicendo ad ogni persona che, diligentemente, stava abbandonando il locale in fila indiana dopo l’ennesimo sperpero di denaro finito in bicchieri frantumati. Sakura era ancora lì, vicina al bancone con Sasuke che, di tanto in tanto, la guardava, spostandosi poi su Naruto, ancora soddisfatto e felice di non essere stato la causa della rottura dei bicchieri.
Quello era stato Akamaru, di nuovo. Ma quella volta Sakura non se la sentì di attribuirgli una vera e propria colpa. Difatti, grazie all’ennesimo macello, Genma si era convinto ad assumere l’atteggiamento meno cordiale del mondo e di cacciare, pian piano, tutti i clienti ancora presenti. Se la serata era arrivata davvero agli sgoccioli, quindi, era merito suo. Sakura lo ribattezzò teatralmente Akamaru il Giusto.
Si voltò verso Naruto appena il trambusto si placò, e posandogli una mano sulla spalla lo spinse. Non si mosse nemmeno di un passo, e la spalla lo fece a malapena.
« Sakura-chan, ho dovuto farlo! » le disse ancor prima di sentirla gridare, « ti ricordi quando Sasuke mi picchiò, tre mesi fa? Beh, lo so che ti ho detto che era successo perché avevo rotto un intero set di calici flute dando la colpa a lui, ma in realtà è stato perché Karin gli aveva chiesto di uscire, e io mi ero inventato la storia che era omosessuale! Sasuke mi ha proibito di raccontarlo ad anima viva. Non volevo prendere altre botte, ho dovuto inventarmi qualcosa di credibile! »
Ripensando alla storia dei bicchieri flute, Sakura si ricordò perfettamente il momento in cui Naruto si era presentato a casa sua con un occhio nero e con un dolore al costato che non voleva saperne di diminuire, e si rese conto che se quelle erano le conseguenze della rabbia di Sasuke, allora Naruto aveva fatto decisamente bene a cercare una via di fuga che non fosse l’omosessualità dell’altro, e si sentì male ed anche un po’ in colpa per essersi arrabbiata con lui, sentendo che le sue ragioni erano molto più che comprensibili. Non aveva comunque nessuna intenzione di stare dalla sua parte.
« E questo ti sembra credibile? » disse indicando prima se stessa e poi Sasuke un paio di volte, « Nessuno ci crederebbe mai! »
Genma richiuse in quel momento la porta con forza e li guardò. Tutti e tre si resero conto di essere gli unici rimasti nel locale.
« Dove sono tutti? »
« Li ho cacciati. E adesso è il tuo turno, Sakura. »
Non aveva fatto altro che aspettare di ascoltare quelle parole per tutta la serata, ma come ogni cosa nella sua vita, erano giunte al momento sbagliato, come le mestruazioni a tredici anni che l’avevano colta durante un picnic ad una decina di chilometri da Konoha, in uno di quei posti vagamente selvaggi dove sai non passerà nessuno a venderti assorbenti.
« Genma, aspetta un attimo, io devo- »
« E da quando stai con Sasuke, tu? »
Sakura riprese, grazie a quella domanda, il filo dei suoi veri pensieri.
« Infatti! » disse infastidita, puntando i piedi ed incrociando le braccia al petto, guardando Naruto, perché di guardare Sasuke proprio non se ne parlava « Da quando sto con Sasuke, io? »
Nei tuoi sogni, da tutta una vita, disse a se stessa, senza far cedere però la maschera di rabbia.
« Sakura-chan, può funzionare! » Naruto le mise le mani sulle spalle e la scosse. « Vero Sas’ke? » chiese subito dopo.
Entrambi – tutti e tre, considerando Genma – guardarono il diretto interessato.
Naruto probabilmente stava pensando alle conseguenze di un nuovo pestaggio di Sasuke, e i ricordi abbastanza recenti non dovevano rassicurarlo molto. Genma aveva un bar, e quello lo rendeva un po’ impiccione di natura, proprio come suo zio. E lei invece, lei non aspettava altro che vedere se per Sasuke una loro possibile quanto campata per aria relazione sarebbe potuta sembrare reale agli occhi di qualcuno, o se magari era solo lei che continuava ad immaginarsela.
Sasuke fece spallucce.
« Finché Karin non si convince...» disse poi, guardandoli a turno.
Sakura si sentì catapultata nel bel mezzo di un film di cui non riusciva a prevedere il finale.
°°°
« A quanto pare ci sei anche tu. »
Sakura si accucciò e prese al volo il guinzaglio che Akamaru si trascinava dietro. Lo aveva trovato subito fuori dal Caldo, che vagava solitario ma non per questo meno baldanzoso.
« Andiamo, Kiba ti starà cercando come un disperato. »
Si rimise in piedi, e quello fu il momento in cui la sua serata, già sottoposta a stress inverosimili e che pensava essersi conclusa con un colpo di scena capace di privarla della voglia di uscire per interi mesi, si concluse davvero.
Akamaru il Giusto era troppo, troppo felice per aver trovato un volto amico su cui contare. Si era alzato sulle due zampette posteriori, ed era successo.
I suoi pantaloni bianchi si ritrovarono una quantità spropositata di zozzo addosso, con la forma inconfondibile di due zampe di cane.
« Ah, grazie Sakura! Ce lo avevi tu! »
Kiba arrivò correndo, le prese il guinzaglio dalle mani, e senza nemmeno riprendere fiato ripartì verso casa.
Sakura rimase immobile a guardarlo per moltissimo tempo prima di ritornare ad osservare le chiazze nerastre sui suoi pantaloni.
« Che tu sia maledetto, Akamaru il...il...» pensò ad un nuovo epiteto, perché il Giusto doveva essere messo ragionevolmente da parte.
Pensò alla bruschetta, al cibo sprecato, alla scarpa mangiucchiata e alla torta buttata. Pensò alle sue cosce giganti e alla serata che avrebbe anche potuto evitare. Pensò per lo più a Sasuke, al fatto che era diventata, per lui, una ragazza facciata, o meglio, ciò che si chiama “copertura”.
Pensò ai suoi magnifici pantaloni bianchi sporcati all’ultimo minuto.
« il Demonio! »
Non so fino a quanto i tempi di aggiornamento possano considerarsi decenti, ma non credo di essere stata molto all’altezza con il mio primo aggiornamento! Quindi chiedo scusa a tutti per l’attesa, e uno scusa preventivo in caso il capitolo non vi fosse piaciuto.
Volevo semplicemente dire che probabilmente, ma forse anche sicuramente, la storia non è delle più originali, e che la storiella del finto fidanzamento con Karin che fa la parte della cattiva è una cosa vista e rivista. Ma vorrei specificare che Karin non fa la cattiva da nessuna parte a parer mio, e che proverò, nel corso della storia, a modificare l’immagine che molti hanno di lei come mostro per eccellenza. È una tipa un po’ strana del resto, ma nel mondo di Naruto chi non lo è?
Quindi, concludo ripetendo che sto scrivendo questa storia quasi per rilassarmi, e che nonostante non sia, almeno fino ad ora, la fic più originale del mondo, cercherò di renderla almeno piacevole e particolare con i capitoli che seguiranno, in qualche modo. Spero. D:
Grazie a tutti quelli che hanno letto, spero di sentire cosa ne pensate! J
Baci a tutti,
umavez
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Capitolo 3 *** Giusto un pizzico ***
Giusto
un pizzico
Ciò
che l’aveva sempre frenata dal darsi alla
pasticceria e che, leggendo le ricette che sua nonna le lasciava
settimanalmente e che oramai avevano creato sulla sua scrivania un
plico di
fogli alto più o meno come tutti gli appunti di greco,
latino ed italiano messi
insieme, era il sale.
Il
sale, il sapore, il tocco di classe, la punta di
sapidità che cambia il gusto e crea il retrogusto.
In
ogni ricetta, o almeno in quelle che sua nonna si
divertiva a rifilarle per liberare spazio nella propria casa e creare
caos
nella sua, non mancava mai.
Dicevano
spesso un
pizzico.
Durante
una lezione extra scolastica a cui si era
costretta a partecipare per evitare la settimana dello shopping gi Ino,
a Sakura
era stato detto da un insegnate, presumibilmente ben informato e con un
curriculum di tutto rispetto, che le signorine
riscontravano una non sottovalutabile difficoltà nel quantificare rispetto ai signorini.
Sakura non aveva dubitato nemmeno per un secondo che ciò che
era stato detto da
quell’uomo in quell’interminabile ora e mezza fosse
stata la verità assoluta
mandata da Dio in terra per gli uomini, per far sì che le
donne si astenessero
dal quantificare le cose.
Per
spiegarsi meglio, il quantificare che intendeva
Sakura si riscontrava in diverse attività. Una di queste,
era sicuramente la
guida. Quando suo padre, per scherzo, le aveva permesso di guidare la
sua
macchina nuova nel parcheggio, non le era sfuggita la
difficoltà che aveva
riscontrato nel quantificare, appunto, la distanza che c’era
tra la fiancata
della macchina e il paletto che se ne stava fiero ed immobile tra una
striscia
bianca ed una striscia blu dei posteggi. Invece suo padre, pochi minuti
dopo,
non aveva avuto nessun problema nel quantificare quanto gli sarebbe
costata la
riverniciatura di entrambi gli sportelli sul lato destro.
Quello
era il suo tallone d’Achille. Se le avessero
chiesto quanto era alto il palazzo di fronte a casa sua avrebbe
probabilmente
risposto cinquanta metri quando era a malapena cinque, e se le avessero
detto
“abbassa leggermente il pedale dell’acceleratore,
Sakura-chan.”, si sarebbe
ritrovata a novanta all’ora in meno di cinque secondi.
Questo
suo handicap non indifferente si riversava su
altre attività quotidiane, come la preparazione dei
liofilizzati e cibi pronti
che andavano cotti in acqua, dove, ogni volta che si cimentava in tale
impresa
a causa dell’assenza dei genitori, quei 250 ml divenivano un
litro, o quando
doveva calcolare a mente il peso di un oggetto per vedere se sarebbe
riuscita a
trasportarlo oppure no.
E
infine, come ciliegina sulla torta, c’era la totale
mancanza del senso d’orientamento, ma quella ormai era storia.
Sakura
non poteva negarlo, lei stessa ne era una prova
vivente. Non sapeva quantificare le distanze, non sapeva quantificare i
pesi,
non sapeva quantificare le quantità. Per lei e per il suo
dosatore, la parola pizzico era
come uno schiaffo in faccia,
come un insulto alla sua intelligenza, come se
l’elettricità fosse venuta a
mancare mentre stavano proiettando il film che attendevi arrivasse in
tv dopo
un anno dalla prima cinematografica.
Quanto
era un pizzico? Cosa significava la parola
pizzico? Aveva davvero un senso, eliminata la prima persona singolare,
modo
indicativo, tempo presente del verso pizzicare? Da quanto ne sapeva
lei, il
sale non poteva essere pizzicato, e lei non poteva pizzicare il sale.
Sua
madre aveva provato a spiegarle in modo pratico la
differenza tra manciata e pizzico, ma per Sakura anche manciata suonava
come
una presa in giro, e quindi, dopo la prima torta salata uscita dal suo
forno, si
era limitata solo a mangiare, e a guardare attentamente sua madre
quando, di
tanto in tanto, la viziava con servizievoli ad amorevoli ghiottonerie.
Sakura
sospirò guardando Ino che, con una frusta in
mano, mescolava l’impasto con una sicurezza che sembrava non
appartenerle, e
che le aveva visto indosso solamente quando smaltava le unghie in
maniera
particolare.
Ino
era più o meno tutto ciò un uomo potesse
desiderare
dalla vita. Era alta, almeno una spanna sopra di lei – almeno
così si divertiva
a dire Ino, visto che anche spanna
era un’unità di misura particolarmente ostica -,
aveva capelli biondi e lunghi,
mai che sembrassero arruffati o rovinati sulle punte, come tutte le
comuni
mortali. Gli occhi azzurro cielo erano talmente magnetici che
riuscivano a
distogliere lo sguardo dei ragazzi dal suo fisico, e visti gli impegni
settimanali di Ino, che comprendevano pilates, aerobica, e Dio solo sa
cos’altro, il fisico di Ino era uno di quelli a cui tutti gli
uomini paragonano
quello della propria fidanzata, constatando alla fine che Ino era,
nella
maggior parte dei casi, decisamente più in forma.
A
guardarla, le avrebbe potuto dare venti, forse anche ventidue
anni, e camminarci affianco sembrava a fasi alterne o come una sciagura
o come
un privilegio. Sakura era l’amica di Ino Yamanaka, la figlia
dei fiorai che,
chissà come nel mondo, avevano fatto tanti di quei soldi con
i fiori che
passavano più tempo fuori città che a Konoha.
«
Muoviti Sakura-chan, vieni qui, è arrivato il momento
cruciale. » le disse poi, riponendo la frusta sul piano di
lavoro e strusciando
le mani l’una contro l’altra per mandar via i
residui di impasto rimasti
appiccicati alle dita.
Sakura
si alzò dalla sedia su cui stava leggendo un
fumetto sui ninja trovato per puro caso nel ricettario di Ino e si
avvicinò al
piano da cucina.
«
È inutile, non ce la farai. Mia madre ha provato in
tutti i modi. »
«
Taci. » le disse scherzosamente. Prese la confezione
del sale e la pose tra loro due, Sakura la guardò con occhi
determinati ma in
parte già arrendevoli.
«
E poi se non impari a cucinare, come farai ad essere
una mogliettina perfetta per il tuo Sas’ke-kun? »
Ino
le afferrò un polso prima che se ne uscisse dalla
porta offesa e infastidita, sporcandole il golf blu di farina.
Ridacchiò un po’
mentre tirandola per un braccio la fece riavvicinare.
«
Mamma mia, non si può più nemmeno scherzare.
» si
lagnò, spostando da davanti agli occhi un ciuffo di capelli
biondi sfuggito
all’elastico.
«
Allora, questo è il sale. » disse indicandole la
busta.
«
Lo so, Ino, non sono stupida. »
«
Perfetto, buono a sapersi. »
Sakura
alzò gli occhi al cielo e maledisse tutti. Ino
infilò la mano nella busta e ne uscì fuori con
quello che lei definiva...
«
Questo invece è un pizzico
di sale, fronte spaziosa. »
I
polpastrelli del pollice, dell’indice e del medio si
toccavano, e trattenevano quel tanto di sale che bastava. Lì
in mezzo, che
imbrattava in parte le dita di Ino, c’era il fantomatico pizzico.
«
È troppo poco. » affermò convinta, e a
sua volta
infilò la mano dentro la busta per far vedere ad Ino quale
fosse la sua idea di
pizzico. Ne uscì fuori come un braccio automatico esce fuori
da una discarica.
La mano era colma di sale, e almeno al metà di quello che
aveva afferrato si
stava divertendo a scivolare via tra le sue dita come la sabbia della
clessidra
fa nella rientranza del vetro. Ino gettò quel pizzico di
sale nell’impasto e si
affrettò a riparare al danno di Sakura, che aveva riempito
il piano da lavoro
di granellini bianchi.
«
Questo è un pugno di sale, altro che pizzico! »
rispose sistemando la busta sotto la sua mano. Le strinse il polso
costringendola a rilasciare le dita e a far ricadere il sale nel pacco.
«
Ah, a quanto pare pugno
è un’altra unità di misura a me
sconosciuta. » disse indispettita guardando con
orrore il palmo divenuto quasi bianco a causa di tutto il sale rimasto
appiccicato. Ino prese uno strofinaccio e glielo lanciò
contro, ritornando poi
a maneggiare l’impasto.
«
Questa invece, » continuò poco dopo, infilando la
mano libera nel sale, « è una manciata.
»
Sakura
guardò perplessa la quantità da sale sul palmo
di Ino. La imitò, riemergendo con una quantità
del tutto diversa da quella
dell’amica. Nonostante non fosse stata sua intenzione
sbagliare dosaggio,
Sakura fece finta di voler sapere in quale modo potesse essere
quantificato il
sale che aveva tirato su.
«
E questo invece? »
Ino
la guardò distrattamente.
«
Quello è sufficiente al massimo per una spolverata.
»
Sbuffò.
Chiuse il pacco di sale e lo rimise in
dispensa, abbandonando Ino al suo lavoro da cuoca e rituffandosi nelle
avventure dei suoi ninja leggendari dei fumetti. Quindi si sedette,
incrociò le
gambe, e riaprì il volume verso la metà, non
curandosi di aver saltato almeno
un paio di capitoli potenzialmente fondamentali per la comprensione
della
storia.
«
Potresti degnarti di aiutarmi almeno, fronte
spaziosa? »
«
Sssh, taci maialino, il mega rospo e la mega lumaca
stanno combattendo contro un serpente gigante! »
°°°
La
sua vita era costituita da pochi numeri di telefono.
Nonostante la sua rubrica fosse piena di nomi, alcuni accompagnati
addirittura da
un 1, o un 2, o un 3 per distinguere bene la persona a cui si
riferivano,
quelli che apparivano assiduamente sul display del suo telefono
cellulare si
limitavano, come avrebbe detto Ino, ad una – odiosissima
– manciata.
Prima
di tutto e tutti, c’era il numero che mai nella
vita avrebbe dimenticato, che delle volte le appariva nei sogni e la
perseguitava, che aveva, in svariate combinazioni, provato a giocare
nelle
schedine della lotteria e con le quali aveva vinto una somma che le
aveva
permesso di vivere dei suoi averi per ben due mesi e che mai, mai avrebbe smesso di braccarla: quello
di sua madre.
La
signora Haruno Mebuki, aveva l’insolita abitudine di
rivendicare la Patria Potestà come se le fosse possibile
darle la vita e la
morte a suo piacimento, e come se fosse stata un uomo potente ed
autorevole ai
tempi degli antichi romani. Sakura, oltretutto, era decisamente
convinta che la
patria potestà fosse stata superata da lungo tempo oramai
dalla Potestà
Genitoriale, ma l’evoluzione non aveva mai scalfito troppo
sua madre quando si
trattava di educare e proteggere i figli, e quindi non si faceva troppi
problemi a surclassare del tutto la figura, a quanto pare oramai
superata, del
pater familias.
Mebuki
Haruno aveva capelli di un rosso aranciato a dir
poco ridicoli, come quelli di Sakura. Un ciuffo di capelli ricadeva
davanti
alla fronte, formando quasi un triangolo, ed il resto veniva spazzolato
e
spazzolato centinaia di volte per farlo rimanere al suo posto. Burbera
e
severa, Mebuki spadroneggiava. Era contemporaneamente la femmina e il
maschio
alfa, e avrebbe potuto far coppia con se stessa per tutta la vita se
non avesse
trovato un uomo in grado di non
tenerle testa nemmeno nella più stupida questione e di cui
Mebuki, proprio per
la sua capacità di non
affrontarla
mai, riuscì ad amare fin dal principio.
Kizashi
Haruno, il sopracitato pater familias. Per
completare il cerchio, Kizashi era quello con i capelli più
ridicoli di tutti,
soprattutto a causa dei ciuffi dritti a forma vagamente di saetta, ma
la sua
natura mite e mansueta gli aveva permesso di non farne un problema come
invece
aveva fatto la stessa Sakura ai principi dell’adolescenza,
dicendo che avrebbe
potuto sopportare qualche chilo di più addosso, ma non i
capelli colorati alla
marshmallow.
Quello
di suo padre era il numero che compariva di
tanto in tanto, quello che non ti aspetti di vedere ma che, quando lo
vedi, non
ti sembra strano. Di solito la chiamata di suo padre rivelava
però il vero
macchinatore: Mebuki.
Sua
madre era stressante, e quelle sporadiche volte in
cui se ne accorgeva, lasciava telefonare Kizashi per far finta di non
entrarci
nulla.
Sakura
era abituata a tutto quello, il 50% delle volte
in cui il suo telefono squillava, erano loro: i quattro
dell’Apocalisse – sua
madre valeva almeno per tre – dagli improbabili e pittoreschi
capelli.
Subito
dopo veniva Ino. Ino la chiamava più per
consumare quegli in realtà inconsumabili minuti gratis che
aveva a disposizione
con le sue promozioni telefoniche, e il più delle volte per
dire cose di
nessuna vitale importanza. Nonostante la futilità di tutto
quello, e nonostante
il fatto che dovesse mettere il suo cellulare in carica ogni volta dopo
una
chiacchierata con Ino, quello rimaneva il tempo speso meglio secondo
Sakura.
Ino
era l’ancora di salvezza fatta ragazza. Il modo in
cui faceva sembrare anche la più inutile delle storie quella
più importante
rendeva ogni problema nel mondo più semplice. Il
più delle volte la offendeva,
certo, ogni tanto le lanciava qualche frecciatina poco gradevole
inculcandole
in testa bizzarri dubbi sul suo fisico, sulla sua sanità
mentale, ma poi ci
metteva tutto l’impegno del mondo per smentirsi e ritirarla
su dalla fossa che
le aveva scavato con tanta cura.
Subito
dopo, con un distacco minimo, giungeva Naruto
Uzumaki. Naruto Uzumaki che non aveva mai nulla di particolare da dire,
ma che coglieva
sempre l’occasione giusta per raccontarlo. Naruto aveva la
bruttissima
abitudine di chiamare ad ore improponibili anche per una ragazza di
diciassette
anni che, presumibilmente, avrebbe dovuto vivere più di
notte che di giorno, e
unita all’altrettanto improponibile tono di voce che non
raggiungeva di poco il
limite dei decibel sopportabili dall’orecchio umano, rendeva
Naruto una
pericolosissima bomba ad orologeria.
Ecco.
Quella era la sua vita digitale, fatta di
chiacchiere completamente inutili, di toni di voce bassi –
almeno da parte sua
– per non svegliare i genitori nel bel mezzo della notte, di
raccomandazioni e
di chiamate rassicuranti.
Poi,
mentre era immersa nel fumetto ninja che
sorprendentemente era stato in grado di attirare tutta la sua
attenzione, il
suo telefono squillò, come ogni giorno, come era previsto
dalla normalità. Ino
le urlò dietro di andare a rispondere immediatamente e di
abbandonare il mega
rospo, la mega lumaca e il serpente gigante a loro stessi,
perché la sua
suoneria così apatica e prestabilita dalle impostazioni del
cellulare la
raccapricciava, e non avrebbe sopportato quel suono nemmeno un secondo
di più.
Sakura
si alzò dalla sedia posandoci sopra il fumetto,
non curandosi di tenere a mente la pagina a cui era arrivata, e corse
in camera
da letto, dove aveva lasciato la sua borsa appena giunta a casa
dell’amica.
Frugò a lungo, come tutte le donne sono solite fare.
Frugò talmente a lungo che
il telefono ad un certo punto smise di squillare.
“Ecco,” pensò Sakura mentre
tirava fuori dalla borsa cose che non ricordava nemmeno di avere,
“Adesso mia
madre penserà che non ho risposto perché mi stavo
facendo di crack”.
Sua
madre era solita preoccuparsi di problemi
inesistenti, e la maggior parte di questi riguardavano le droghe.
Tirò
fuori dalla borsa un numero spropositato di
assorbenti, con vari assortimenti di colori e di usi, con ali e senza
ali, da
notte o da giorno, fatti di lattiflex o non di lattiflex,
ritrovò la bolletta
del telefono che sua madre le aveva chiesto di andare a pagare almeno
un mese
prima, un pacchetto regalo che non sapeva nemmeno se fosse stato
destinato a
lei o che lei stessa aveva comprato per qualcun altro, e infine, in un
sacchetto di plastica, scorse un costume da bagno.
Un
costume da bagno fermo in quella borsa da Agosto.
Scosse
la testa, consapevole senza bisogno di nessuna
ramanzina che quello non era davvero il modo di tenere le proprie cose.
Poi il
telefono ricominciò a squillare. Sakura vide una piccola
luce comparire dal
fondo della borsa, così allungò bene il braccio e
lo tirò fuori.
«
Ino, Ino vieni qui per favore! »
«
Sto per mettere la torta in forno, non posso! »
«
È Sas’ke! »
Sakura
sentì l’inconfondibile rumore metallico di
quando una teglia viene scaraventata in forno senza troppa cura. Ino
accorse
con ancora le presine sulle mani e il grembiule sporco di pasta frolla
addosso.
La guardò mentre il telefono ancora squillava.
«
È Sas’ke? »
«
Sì. »
«
Beh, rispondi allora! »
«
Ma Sas’ke non mi chiama mai! »
«
Come non ti chiama mai? Siete amici da una vita! »
«
Ma ogni volta che mi chiama in realtà è Naruto
che ha
finito i soldi, io non posso- »
Ino
le rubò il telefono dalle mani prima che la
sopracitata apatica suoneria smettesse di suonare nella stanza per la
seconda
volta. Spinse il tasto verde e rispose.
«
Sì? » chiese, dandosi un’aria pomposa e
del tutto
inutile. Sakura la guardò sperando di sentire la voce di
Naruto. Eppure passati
tre o quattro secondi, ancora non era riuscita a sentire nulla della
conversazione. Forse perché all’altro capo del
telefono non c’era una persona
che urlava a squarciagola.
«
Oh, Sasuke, ciao! » disse Ino fingendosi talmente
sorpresa da far credere di aver risposto al telefono senza nemmeno
guardare il
nome sul dispaly. Ino la guardò in maniera accattivante e
allo stesso tempo
stranamente vittoriosa. Sakura si avvicinò di un passo,
pronta per origliare
oltre.
«
Sì, Sakura c’è, è in bagno.
Sta facendo- »
«
Pronto? » le strappò il telefono dalle mani prima
che
Ino potesse dire pipì o cacca, entrambe nella lista delle
parole preferite
dell’amica, e potesse metterla nell’imbarazzo
più totale. Aveva risposto
talmente di corsa per salvarsi la faccia che non era nemmeno preparata
per
sentire davvero la voce di Sasuke al telefono.
«
Sakura, » le disse a mo di saluto, forse
sorprendendosi della repentinità con cui aveva cambiato
interlocutrice.
«
Ciao, Sas’ke-kun. » fece
un segno ad Ino per invitarla ad
andarsene di nuovo di là in cucina, ad occuparsi della sua
gustosissima torta
appena infornata malamente invece di starsene lì sulla
soglia della porta di
camera a guardarla arrampicarsi sugli specchi ancor prima che la
discussione
avesse inizio.
«
Mi raggiungi? » le chiese tranquillamente Sasuke.
Sakura spalancò gli occhi a tal punto che Ino si
riavvicinò per cercare di
capirci qualcosa.
Si
mise a sedere sul letto spostando di fretta i
giacchetti e le borse posate sopra, mentre Ino le faceva gesti
equivocabilissimi
senza riuscire a farsi capire nemmeno lontanamente. Le era sembrato di
vedere
delle corna, un’aquila, e se i suoi occhi non la ingannavano,
quella che Ino
aveva cominciato a recitare era la filastrocca de
“L’arca di Noè”, con tanto di
coccodrilli e liocorni. Sakura storse la bocca lasciando vedere la
parte
sinistra dell’arcata superiore di denti.
«
Sakura? » riacciuffò il telefono quasi scivolatole
dalle mani e lo riattaccò all’orecchio.
«
Sì! Sì, ci sono! »
Passarono
altri imbarazzanti secondi di silenzio.
«
Allora? Mi raggiungi o no? »
Ino
le fece un altro strambo gesto con le mani che per
quanto ne conosceva di linguaggio dei segni, avrebbe potuto significare
anche
“buttati da un burrone”. Pensò un attimo
se fosse davvero saggio prendere in
considerazione i consigli maldestri – e anche mal consigliati
– di Ino o
lasciarsi prendere dal panico.
«
Sì, certo! Io stavo facendo...la doccia, e...ero un
po’ impicciata con asciugamani, accappatoio, capelli
bagnati...»
Ino
si schiaffò una mano in faccia e tornò delusa in
cucina, sparendo dal suo campo visivo. Sasuke le rispose con un
“Mh” che
sembrava la pura negazione
dell’invito che le aveva appena fatto. Sakura
mandò giù un groppo in gola
grande almeno quanto Giove e Saturno messi insieme con tanto di
satelliti e
lune.
«
Dove...dove ti raggiungo? »
«
Sto davanti al Caldo. »
«
Okay. » si rialzò dal letto iniziando
già a toccarsi
i capelli per sistemarseli.
«
A tra poco. »
«
Ciao. »
Sakura
prese un respiro profondo e poi si lasciò cadere
di nuovo a peso morto sul materasso.
°°°
“Tranquilla
Sakura-chan, non c’è da preoccuparsi. Tu e
Sas’ke-kun siete amici da una vita, vi sarete visti almeno un
milione di volte.
Che poi tu non avessi mai sentito la sua voce uscire dal tuo telefono
cellulare, beh, quella è un’altra storia. Credo
che sia perché voi tre avete un
rapporto disturbato e malato che si regge su fondamenta fatte di sabbia
di mare
e non di sabbia di fiume, e quindi sai, il sale poi corrode il ferro, e
il
cemento armato crolla, e poi beh, voi farete la fine di un edificio
costruito
male, sì. Non capisco come possiate ancora reggervi in piedi
a dirla tutta, ma
devi stare calma Sakura-chan: la chiamata di Sasuke non è la
fine del mondo.
Magari vuole vederti per decidere insieme il regalo di compleanno per
Naruto,
del resto è tra pochi giorni. Oh mio Dio Sakura, mica vorrai
uscire con i capelli
acconciati in quel modo! Neanche mia cugina di tre anni ne avrebbe il
coraggio.”
Questo
era ciò con cui Ino l’aveva, a detta sua,
incoraggiata prima di scaraventarla fuori di casa nel freddo inusuale
di
Ottobre, con un appuntamento insolito a cui andare e senza nemmeno
un’idea di
cosa lo avesse potuto scatenare. Si rese conto di aver camminato troppo
velocemente quando si ritrovò a pochi metri dal
CaldoCaffè ancor prima di
essere sicura di volerci davvero andare.
Intravide
la chioma scura di Sasuke mentre
chiacchierava con una familiare chioma bionda. Naruto era di fronte a
lui, con
le mani in tasca e una tuta arancione di dubbio gusto, che saltellava a
destra
e a sinistra, e quando Sasuke si innervosiva e lo costringeva a stare
fermo con
una manata sulla spalla, si limitava a muovere solo i piedi a passo di
danza. La
sua presenza escludeva del tutto la possibilità di discutere
del regalo di
compleanno di Naruto, perché il diretto interessato, tra le
centinaia di
difetti che gli appartenevano, mostrava una totale
incapacità di astenersi dal
diventare oppressivo. Ogni volta che gli si faceva un regalo, od ogni
qualvolta
che sospettava che qualcuno stesse anche solamente discutendo del
regalo da
fargli, Naruto giungeva veloce come la luce ad origliare la
conversazione, e si
arrogava il diritto di fare domande specifiche sull’oggetto
in questione, come
“Chi andrà a comprarlo?”,
“Avete già un’idea?”,
“Vi serve un consiglio?”, “È
una nuova tecnologia?”.
Quando
c’era Sasuke di mezzo, la storia finiva con un
pugno nello stomaco.
Sakura
si guardò bene attorno notando solo in quel
momento la presenza della terza persona. Karin.
Ancora
lei, ancora con i capelli rossi, ancora con le
labbra grandi, ancora troppo giovane. Sakura ebbe voglia di cominciare
a
battere i piedi per terra come una bambina davanti al diniego dei
genitori di
comprarle l’ultima barbie uscita, con i vestiti
all’ultimo grido e la pochette
luccicante abbinata alle scarpe.
L’ennesimo
tentativo di Karin. Era stata chiamata in
soccorso per non fra cadere la farsa del finto fidanzamento.
Pensò di
affibbiarle, così come aveva fatto con Akamaru, un epiteto.
Magari il Demonio
era troppo malvagio e sconsiderato, ma Instancabile non le sarebbe
stato per
niente male. Karin l’Instancabile era il nome con cui
avrebbero dovuto
chiamarla i suoi genitori, altro che Karin Uzumaki.
Quando
vide che anche lei aveva una coda di cavallo –
cioè l’acconciatura che Ino aveva tanto criticato
ma che, del resto, lei stessa
portava il novanta per cento del tempo – si
affrettò a togliersi l’elastico.
Non seppe nemmeno per quale motivo lo fece, visto che i suoi capelli
erano
ridotti così male che legarli sarebbe stata
l’unica soluzione per far credere
al mondo intero che avessero un senso, ma avere la stessa acconciatura
di Karin
e risultare estremamente più brutta di lei
l’avrebbe sconfortata più del
normale.
Nel
momento in cui arrotolò l’elastico intorno al
polso, Naruto urlò il suo nome a squarciagola da quelli che
non erano nemmeno
quindici metri.
Alzò
lo sguardo appena in tempo per rendersi conto che
sei occhi la stavano fissando, e che non avrebbe avuto tempo per
sistemarsi i
capelli in alcun modo. Accennò un sorriso troppo imbarazzato
per essere l’amica
di infanzia di due delle persone presenti all’incontro, e si
avvicinò a passo
di lumaca lanciando occhiate qua e là alle vetrine dei
negozi che precedevano
il Caldo.
«
Ce l’hai fatta, Sakura-chan! Stiamo morendo di
freddo! »
«
Ma se ci ho messo cinque minuti! » rispose,
dimenticandosi per un attimo che Karin stava acutamente indagando con
lo
sguardo tutti i suoi movimenti e atteggiamenti. Probabilmente non avere
il
coraggio di guardare Sasuke in faccia non la stava aiutando molto.
« Entriamo?
»
disse Sasuke mentre Naruto, contemporaneamente, come se avessero oramai
un
cerimoniale tutto loro, apriva la porta del locale facendo segno a
tutti di
accomodarsi, neanche fosse stato il padrone di casa. Sasuke, la
sospinse in
avanti con una mano, poggiandogliela sulla schiena, verso la curva
lombare.
Sakura
maledì il freddo e quel dannato piumino che le
aveva impedito di sentire alcunché.
Il
suo spirito di osservazione non era di certo dei più
acuti, e nemmeno la scienza della deduzione, checché ne
dicesse Sherlock
Holmes, era un’arte in cui si dilettava con successo. Aveva a
malapena notato,
dopo cinque lunghi minuti in cui lo aveva sorseggiato, che il vino che
Sasuke
aveva portato a tavola era rosso. Nonostante questo Sakura sapeva che
Genma,
con quei suoi occhietti piccoli e incassati nei bulbi oculari, oscurati
ancora
più dalla bandana che si ostinava a portare troppo bassa
sulla fronte, stesse
cercando di dirle qualcosa. Incrociò il suo sguardo svariate
volte, e quando
lui si avvicinò loro con un altro vassoio –
già il terzo – Sakura, nonostante
l’odore del prosciutto appena tagliato e del pane tostato che
aveva già
dirottato i suoi pensieri verso più amabili orizzonti, non
poté fare a meno di
notare il leggero movimento della testa che Genma fece indicandole le
scale che
portavano alla saletta interna. Sakura gli rispose con uno sguardo
vagamente
interrogativo, imitando poi lo stesso gesto fatto con la testa da
Genma. Lui
assottigliò gli occhi in un tentativo, pensò
Sakura, di estrema comunicazione
telepatica, dando però l’idea di averla presa di
mira per un omicidio spietato
più che per una semplice conversazione privata lontana da
occhi indiscreti.
«
Se vuoi dirle qualcosa puoi dirglielo, sai. »
proruppe Karin divertita, gettando un’occhiata verso Sasuke
per scorgere una
qualsiasi traccia di fastidio per lo strano comportamento di Genma nei
confronti della sua ragazza,
« Sas’ke
non sembra un tipo geloso. »
Genma
fece tornare gli occhi alle loro dimensioni
normali rilassando le palpebre e fece finta di niente. Posò
il vassoio sul loro
tavolo e dopo, senza muovere un passo, rimase immobile al suo fianco.
Sakura,
la mano già tesa verso il vassoio per prendere uno dei
crostini, si dovette
fermare quando sentì Genma l’Intruso –
tanto valeva cominciare a dare epiteti a
tutti – tossire nel modo più innaturale che avesse
mai sentito.
Chiuse
gli occhi e fece un respiro profondo.
«
Vado un attimo in bagno. »
«
Ti assicuro che quello sguardo era più da thriller
psicologico che da qualsiasi altra cosa. » gli disse a bassa
voce appena
arrivarono nella sala interna, le luci soffuse e stranamente nessuno a
degustare whisky e cioccolata ai tavolini.
Genma piegò la testa di lato e assunse la faccia che Sakura
era solita vedere
sul volto di sua madre quando, in uno slancio di self-confidence,
osava contraddirla su qualcosa di troppo al di là
delle sue ancora immature capacità mentali –
almeno a detta di sua madre.
«
Ho bisogno che lavori qui venerdì prossimo. »
disse
Genma senza giri di parole. Sakura scandagliò mentalmente i
suoi impegni per il
venerdì seguente trovando solamente la parola
“scuola” ad occuparle la mente. Per
una volta le dispiacque non avere nessun impegno pomeridiano a tenerla
lontana
dagli abusi di Genma.
«
Ci sono venti persone che darebbero via un rene per
lavorare in questo posto. »
«
Esatto, e una di queste sei tu, vero? »
«
No! » rispose, rendendosi conto solo al gesto di
Genma di fare silenzio di aver alzato un po’ troppo la voce.
« No, niente rene.
»
«
Almeno un ovulo sì, però. »
Sakura
distorse le labbra in maniera quasi disgustata
non tanto per il concetto della donazione degli ovuli su cui,
oltretutto, non
aveva mai riflettuto abbastanza per avere un’opinione al
riguardo, ma per il
fatto che per Genma una ragazzina di diciassette anni potesse voler
donare uno
dei suoi giovani ovuli per lavorare nel suo bar. Di venerdì
sera, oltretutto,
quando le cene aziendali – quelle terribilmente informali a
base di vino da
almeno 60 euro a bottiglia – fioccavano come se fosse
Dicembre.
«
Che tipo di programmi guardi a casa, Genma? » chiese,
circospetta. « Sembri il classico tipo che non riesce a
comprendere la società
moderna-»
«
Allora, lavori? Sas’ke e Naruto hanno da fare. »
Sakura
sbuffò e cominciò a prendere sul serio
l’idea.
«
Il giorno dopo è il compleanno di Naruto. »
biascicò,
incerta.
«
Già. »
«
Già. »
«
Già, infatti. Si può sapere cosa sta succedendo?
»
Sakura
si sorprese a tal punto che ebbe, come primo
istinto, quello di nascondersi dietro a Genma ed usarlo come scudo
umano contro
qualsiasi cosa fosse che li aveva interrotti così
bruscamente.
«
Oh, Sas’ke. » balbettò quando ebbe
l’opportunità di
guardare in volto colui che aveva messo fine alla loro conversazione
segreta.
«
Allora, abbiamo un accordo? » le chiese Genma
avviandosi giù per le scale. Ebbe giusto il tempo di
urlargli dietro “Sì!”
prima di tornare allo sguardo interrogativo di Sasuke Uchiha, finto
ragazzo, ma
seriamente perplesso.
«
Niente di che. Solo un favore. » si limitò a dire
senza che Sasuke dovesse chiederle niente, lo sguardo stampato sulla
sua faccia
già abbastanza interrogativo di per sé.
«
Un favore? »
«
Sì. »
Nonostante
tutto vide lo sguardo di Sasuke rimanere
uguale.
«
Sai, Genma è una persona un po’ disturbata,
pensava
che io volessi donare un ovulo, e forse anche un re-»
«
Ti ha chiesto di donare un ovulo? A lui?
»
E
pensare che un tempo aveva creduto di essere stata
adatta e propensa alla comunicazione, Sakura, alle conversazioni chiare
e
cristalline, senza segreti, invischi, messe in scena, e tantomeno
donazioni di
ovuli atte a pratiche mediche quali l’eterologa. Beh, la
situazione sembrava un
po’ contraddirla. E a dirla tutta, non sapeva nemmeno come
mai Genma avesse
sentito il bisogno di tenere tutta quella faccenda privata, visto che
niente di
poi così scandaloso era stato richiesto. Nonostante la
perplessità verso i
requisiti secondo cui Genma decideva quando una faccenda dovesse
rimanere
privata o meno, Sakura si decise a fare lo stesso.
«
No, no niente ovuli! Solo...un favore da nulla,
davvero. Una stupidaggine. Credo che Genma guardi...programmi strani,
in
televisione. »
Quando
Sakura capì di aver solamente creato ancora più
confusione, batté le mani allegramente e scese le scale.
Aveva
qualcosa di immensamente strano, nel modo in cui
annusava l’ambiente, nella maniera in cui, prima di
avvicinarsi ulteriormente
all’angolo della strada, aveva guardato prima a destra e poi
a sinistra,
nonostante quella fosse una zona pedonale, e anche nel modo in cui,
prendendo
ancora più precauzioni del normale, quel gatto si immise sul
corso. Era
arancione, abbastanza in carne per essere un randagio, e forse
l’essere più
demoniaco che Sakura avesse mai visto dopo Akamaru nei suoi giorni
migliori, e
nonostante l’aria tenebrosa che sembrava circondarlo, Sakura
non riusciva a
distogliere gli occhi dal suo pelo arruffato. Per un attimo
pensò che fosse
tutta colpa di Genma e dei suoi piccoli occhi da roditore il fatto che
cominciasse
a vedere cose che non esistevano davvero, come l’animo
maligno di quel gatto
che, probabilmente, era più che normale. O forse era
solamente la fase dei
saluti che la stava mettendo terribilmente a disagio tanto da
costringerla ad
intraprendere sentieri ancora inesplorati ed oscuri della sua
immaginazione.
Quando
si convinse a chiamare “micio, micio, micio” e a
fare il solito verso che, a detta di tutto il resto del mondo
– che ammontava a
quasi otto miliardi di persone – attirava
l’attenzione di tutti i felini
domestici, Sakura vide i suoi occhi gialli sgranarsi e il suo sguardo
fissarsi
nel suo, e il gatto arricciò il pelo.
Tutti
i passanti poterono sentire il miagolio lungo,
ininterrotto, e più simile al suono di un gatto che viene
brutalmente picchiato
in un angolo che uscì da un animale che Sakura pensava
essere incapace di un
suono tanto sgradevole.
Si
voltò di scatto cercando di far finta di niente
mentre il grido di battaglia del gatto continuava a imperversare senza
freni, e
cercò di allacciarsi maldestramente alla conversazione che
stava nel frattempo
andando avanti tra Karin, Sasuke e Naruto.
Lo
shock per essere stata aggredita verbalmente da un
gatto le fruttò comunque un inaspettato avvicinamento da
parte di Sasuke che,
probabilmente più divertito dal suo silenzio imbarazzato che
preoccupato, se la
portò di fianco e posò un braccio sulle sua
spalle.
Sakura
si ripromise di spolverare un qualche piumino
meno imbottito di quello che aveva indosso quella sera.
«
Ciao allora. E grazie dell’aperitivo. » disse Karin
avviandosi a piccoli passi verso la piazza dove aveva parcheggiato la
macchina.
Sakura fece un cenno di saluto con la testa e un sorriso che
sparì appena la
ragazza scomparve dalla sua vista per essere sostituito da un sospiro
profondo.
Sasuke,
come aveva previsto, si allontanò.
«
Grazie mille per avermi chiamata, voi due. E io che
pensavo che fosse affetto disinteressato
il vostro. »
Ma
Sakura notò che nessuno dei due ragazzi che le
stavano di fronte le stava prestando ascolto. I loro occhi erano da
qualche
parte dietro le sue spalle, e quando sentì il gatto
riprendere il suo miagolio
infernale capì che erano troppo divertiti
dall’accaduto per concentrarsi su
altro. Li vide ridacchiare sotto i baffi e scambiarsi occhiate
inequivocabili.
«
Fortuna che da piccola dicevi di voler fare la
veterinaria, Sakura-chan, certo, come no. »
«
Quello non è un gatto qualsiasi! » si
giustificò
arrossendo fino al midollo « È un
gatto...diabolico! »
«
Certo, come Akamaru il Demonio, Sakura. »
Aprì
la bocca solo per richiuderla poco dopo, le labbra
poggiate l’una sull’altra fino a farle divenire
quasi bianche e gli occhi forse
vagamente simili a quelli di Genma durante un tentativo di
comunicazione
telepatica. Guardò Sasuke con sgomento mentre lui replicava
lo stesso sguardo
di quando l’aveva beccata a lanciare cartacce per terra nel
bagno del locale.
«
Lo avete sentito? »
«
Si dà il caso che tu abbia urlato a voce molto
alta. »
Abbassò
lo sguardo, frustrata, per poi essere
disturbata da altre risatine mal nascoste.
«
Beh, vorrei vedere voi! » proruppe, attirando
l’attenzione – sempre indesiderata – di
troppi passanti. In quel momento anche
il gatto si zittì, forse preso in contropiede da un urlo
più acuto del suo.
«
Io...io ho un certo feeling con gli
animali! » disse, agitando un dito per aria, presa
dall’entusiasmo della sua contro-arringa.
«
Certo Sakura-chan, a quanto pare con tutti gli
animali tranne che con i feelini.
»
Sakura
si sorprese al più di un accenno di sorriso che
apparve sul volto di Sasuke alla battuta più che deprimente
di Naruto, e ancora
più indispettita dallo sguardo inequivocabile di
complicità che si mandarono,
Sakura fece per andarsene. Il gatto – soprannominato nella
sua mente Gatto
mefistofelico, meglio conosciuto come Satana e semplicemente come
Diavolo per
gli amici affezionati – ricominciò il suo urlo
pieno di struggente sofferenza
appena la vide muoversi.
«
E non provate a richiamarmi quando vi servirò per
tenere Karin alla larga! » si permise di dire rigirandosi di
scatto, come se la
cosa le fosse venuta in mente all’improvviso. Per qualche
secondo cercò di
spostare lo sguardo dall’uno a l’altro, ma
inevitabilmente finì per fermarsi su
Sasuke. Per la prima volta si sentì quasi arrabbiata con
lui.
«
Non ci riprovare. »
Non
era stato possibile mantenere l’arrabbiatura. Forse
perché Naruto l’aveva scongiurata di perdonarlo
prostrandosi in ginocchio di
fronte a lei, a braccia larghe, fingendo lancinanti fitte di dolore al
petto
ogniqualvolta che provava ad aggirarlo per avviarsi verso casa, e
forse, - ma
proprio forse –
perché Sasuke aveva
dato una spiegazione più che plausibile per averla chiamata
in circostanze
tanto sospette.
La
spiegazione era stata, prevedibilmente, che Naruto
stava per chiamarla nel momento in cui Karin, in città per
commissioni, si era
ritrovata faccia a faccia con i due. Tutto quello era durato dalle tre
di
pomeriggio fino alle sei, quando avevano deciso di chiamarla sul serio,
ormai
sull’orlo di un esaurimento nervoso.
«
Certo Sakura-chan, io non vorrei dire nulla, ma...»
Sakura
smise di frugare nella borsa per cercare le
chiavi del portone di casa sua e si concentrò sul volto di
Naruto. Non fu
difficile decifrare la sua espressione quando si rese conto che era
uguale a
quella che qualcun altro le rifilava con troppa frequenza.
Sì, sempre sua
madre, e no, non la stessa faccia che Genma le aveva mostrato non
troppo tempo
prima.
Sua
madre la faceva quando voleva rimproverarla del suo
disordine e, prendendo in maniera esitante – esageratamente
esitante, avrebbe
detto Sakura – un capo di vestiario abbandonato per terra tra
il pollice e
l’indice per poi farlo ricadere subito dopo avergli dato
un’annusata da
segugio, le diceva “Sakura, questa
stanza
è un porcile!”
Di
tanto in tanto gliela rifilava anche Ino, quando
voleva essere crudele e non limitarsi a qualche frecciatina allusiva.
Era
successo con il suo ultimo taglio di capelli. Sakura aveva tirato le
labbra
l’una contro l’altra e aveva sollevato le
sopracciglia così tanto da farle
scomparire dietro alla sua allora frangetta – che era la
capigliatura messa in
discussione.
« Sakura-chan, » aveva detto Ino, « certo
che tu non ci capisci proprio niente
di capelli. »
Sakura
si toccò i ciuffi più corti che le ricadevano
intorno al volto ricordando malinconicamente la sua frangetta,
aspettando che
Naruto concludesse la sua frase con la faccia di sua madre/Ino stampata
in
volto.
«
...potresti metterci anche un pizzico
in più di impegno quando fai finta di essere la ragazza di
Sas’ke! »
Sakura
lasciò ricadere le chiavi appena trovate nella
borsa e batté le palpebre, perplessa, e poi improvvisamente
su tutte le furie.
«
Un pizzico? » chiese, ripensando alla torta di Ino,
al suo non saper prendere le misure, alla sua mancanza di nozioni base
come
millimetri, centimetri e metri, « Un pizzico?
»
«
Beh, sì, Sakura-chan, giusto un pizzico. »
Sakura
guardò Naruto sconvolta per un rimprovero del
tutto inadeguato e senza senso, e poi, voltandosi verso Sasuke che,
invece di
comportarsi da diretto interessato, aveva incrociato le braccio al
petto e
aveva cominciato a guardarsi i piedi, perse il controllo.
«
Non mi sembra che Sas’ke stesse proprio ballando la
hula, in quanto ad entusiasmo ed impegno! »
«
Ma Sakura-chan, » le disse prontamente Naruto
andandole dietro e mettendole le mani sulle spalle, « lui
è Sas’ke! È il
ghiaccio fatto persona! Sai che dentro al suo petto non
c’è un cuore che batte
ma un computer controllato da una navicella madre che sta progettando
di
ucciderci tutti! »
Sasuke
a quel punto tornò ad essere partecipe della
loro conversazione solamente con uno sconsolato
“Oddio” ed un’alzata al cielo.
«
Sei tu che devi metterci spirito!
»
Fu
il turno di Sakura di sussurrare un “Oddio” e
mandare gli occhi al cielo.
«
Beh, fate come vi pare, ma siete a malapena
guardabili, figuriamoci credibili. » disse Naruto impettito,
avviandosi verso
la fine del vicolo per imboccare nuovamente la strada principale.
Sakura scosse
la testa, sconsolata, e Sasuke la imitò, condividendo uno
sguardo divertito.
«
Non chiedetemi di inventarmi un’altra scusa tra tre
mesi, qaundo Karin ritornerà all’attacco!
» sentirono dire a Naruto con la voce
ormai quasi inudibile.
«
Nessuno te l’ha mai chiesto! » gli urlarono dietro
entrambi, stranamente in sincronia.
Dopodiché
Sasuke si avvicinò di un passo e con una mano
le scompigliò i capelli, prima di avviarsi anche lui verso
il corso principale.
Quando
si guardò nello specchio, dopo essere entrata in
casa, le sembrò che nessuna acconciatura le fosse mai stata
meglio che quella
che Sasuke aveva accidentalmente creato con le sue dita.
Mamma
mia, era una vita che non aggiornavo questa
storia. Il capitolo era mezzo scritto da un sacco di tempo, ma avevo
perso
completamente interesse considerando che la storia non è poi
così seguita, ma
adesso, rileggendone i capitoli, - nonostante io sia consapevole
dell’immensa
stupidità e banalità della trama – mi
è venuta voglia di continuarla, almeno
per me, per distrarmi e togliermi qualche sfizio creando scene che
normalmente
non scriverei se dovessi seguire il mio stile usuale.
Comunque,
non mi aspetto gran che da questo capitolo, l’ho
riletto molto di fretta e forse avrei potuto migliorarlo in qualche
punto, ma,
come già detto, scrivo questa storia per puro divertimento e
non ho alcuna
intenzione di farne un’opera d’arte –
cosa di cui non sarei lo stesso capace
anche se dovessi impegnarmici per anni e anni.
Ecco
qua, sperando che coloro che seguivano un tempo “Verdi
idee senza colore dormono furiosamente” non se la siano
dimenticata del tutto.
Naturalmente
le vostre opinioni e consigli sono sempre
ben accetti.
Un
bacio
umavez
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