Hunger Games alla fragola

di RomanticaLuna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Mietitura ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Salve, Tributi ***
Capitolo 4: *** Via! ***
Capitolo 5: *** Alleanze ***
Capitolo 6: *** Il Destino ***
Capitolo 7: *** L'anello ***
Capitolo 8: *** Gli ibridi ***
Capitolo 9: *** Solitudine ***
Capitolo 10: *** Erik Phelps ***



Capitolo 1
*** La Mietitura ***


1 - La Mietitura





Distretto 1, Distretto dei gioielli e delle cose preziose. Un ragazzo si allenava prendendo a pugni un sacco di patate, sui pugni chiusi erano ben visibili le vecchie cicatrici dei combattimenti. La porta del magazzino si aprì ed entrò una ragazza bionda dagli occhi di un verde splendente.
“Tuo padre ti cerca” disse con una voce cristallina.
Il ragazzo si fermò e la guardò. Gli occhi scuri di lui la sfiorarono per qualche secondo prima di tornare al sacco marrone che gli stava di fronte.
“Dice che è importante” rincarò la ragazza.
Con uno sbuffo il giovane diede un ultimo pugno e la raggiunse controvoglia. Quando suo padre lo cercava non era mai un buon segno ed un brutto presentimento appesantiva il cuore del combattente. Sentiva che centrava qualcosa con gli Hunger Games, ma non ne era completamente certo. Entrò nell’immensa villa con un pizzico di paura nel cuore ma con la solita aria di strafottenza e sfida che lo caratterizzava. La ragazza bionda lo teneva per mano, i suoi passi lo guidavano.
“Grazie, Emily, ora continuo da solo. Ci vediamo più tardi” disse il giovane. Lei lo guardò un momento prima di lasciargli la mano. Si alzò sulle punte dei piedi e gli sfiorò le labbra con le sue, poi se ne andò. Rimasto solo, aprì una porta dietro l’altra e si diresse fino allo studio di suo padre, che trovò stranamente aperto.
“Volevi vedermi?” chiese in aria di sfida.
“Figliolo, siedi” disse l’uomo, indicando una sedia rivestita di velluto rosso. Il ragazzo non si mosse. Guardò il padre dall’alto del suo metro e novanta, osservò l’immensa stanza che formava lo studio. Non era mai entrato lì prima di allora.
“Bene. Allora, Erik tu sei mio figlio e come tale hai degli obblighi. Tra cui assicurare che la gente del Distretto viva in pace. So che ti alleni ogni giorno e credo sia giunto il momento di arruolarti nell’esercito di Capitol City” continuò.
Uno sbuffo di scherno dalla parte del ragazzo ancora in piedi. “Mai” disse solamente prima di uscire e sbattere la porta dietro alle sue spalle. L’esercito di Capitol City, diventare un Pacificatore. Andava contro tutti i suoi principi. Lui voleva distinguersi, non ritrovarsi ad indossare una divisa bianca ed essere chiamato con un numero…sarebbe stato uno dei tanti. Non faceva per lui quel lavoro. Lui sarebbe diventato famoso!
Erik Phelps, 17 anni, Distretto 1, figlio unico. Il ragazzo atletico, bello e muscoloso che tutte le ragazze vorrebbero al proprio fianco. La sua passione era quella di combattere, il suo sogno nel cassetto quello di far conoscere il proprio nome. E c’era un solo modo a Panem per riuscirci: partecipare e vincere gli Hunger Games. Doveva farcela. Quell’anno, Erik si sarebbe offerto volontario alla Mietitura. Avrebbe vinto, lo sapeva, perché si allenava sin dalla nascita. Sarebbe diventato famoso e, finalmente per la prima volta nella sua vita, suo padre sarebbe stato fiero di lui. Ce l’avrebbe fatta, ne era certo, perché lui era il figlio del primo cittadino del Distretto 1, sarebbe stato un Favorito. Così, con una camicia di un bianco candido e un paio di jeans attillati si dirigeva verso la piazza per la Mietitura. Sicuro di sé guardava il cielo azzurro e stringeva la vecchia pietra blu ereditata dal nonno. Corse per i dieci minuti del percorso, sorrise agli amici e, senza la minima traccia di paura, si mise in fila. Dalla parte opposta, Emily lo guardava estasiata, gli occhi verdi e grandi che si beavano della sua bellezza, le labbra rosse e carnose che desideravano la fine della Mietitura per incontrare nuovamente quelle di lui. La pelle candida in risalto con l’abito nero ed elaborato. Era l’unica a conoscere il desiderio di Erik di offrirsi agli Hunger Games e si era convinta che lei doveva essere coraggiosa quanto lui: sarebbero andati insieme, sarebbero stati i due Campioni del Distretto 1. Così, prima che il Prefetto estraesse il pezzo di pergamena dalla boccia delle ragazze, Emily alzò la mano, sicura di sé, e si offrì come volontaria sotto gli occhi increduli di tutta la comunità. Erik la imitò, seguito dagli applausi dei compagni. Insieme salirono sul palco, si strinsero la mano, guardarono i compagni e sorrisero. Avrebbero affrontato quest’avventura insieme, come voleva Emily. Sarebbero rimasti sempre insieme, senza considerare che negli Hunger Games può esistere un solo Vincitore.
***
Nello stesso istante, nel Distretto 4 una ragazza sfogliava lentamente la pagina di un libro vecchio e logoro. Il canto degli uccelli ed il suono delle onde erano gli unici rumori nella baracca di legno in cui la giovane si era rifugiata. Non voleva più saperne di guerre e combattimenti, non voleva continuare a star male per la volontà di pochi, lei voleva essere libera. Libera come l’usignolo che volava felice da un ramo all’altro del vecchio pioppo, libera come la farfalla che aveva tatuata sul piede. Desiderava con tutto il cuore poter essere libera di andarsene.
Una voce maschile la riportò alla realtà, le immagini di un’avventura epica svanirono dalla mente della fanciulla, che si guardò intorno in cerca del padrone di quella voce.
“Che vuoi?” chiese schietta.
“Oh, oh, oh, calma Sirenetta! Volevo solo parlare con te” disse lui sulla difensiva.
“Non abbiamo niente di cui parlare, mi sembra che abbiamo completamente chiarito come stanno le cose!”
“Questo lo dici tu. Ora, se non ti dispiace, siediti qui e stai zitta” dicendo ciò la bloccò sulla sedia più vicina e si assicurò il suo totale silenzio.
“Volevo scusarmi con te, non credo a ciò che hanno detto in piazza. So che tu non hai rubato nulla” disse con calma.
“Strano, fino a due ore fa urlavi proprio il contrario. Tu mi hai accusata, tu stesso mi hai portata davanti al sindaco. Tu, il mio migliore amico. E ora vorresti il mio perdono? Vattene, è meglio per tutti!” urlò la giovane, tornando al suo libro.
“Sono stato costretto a dirlo!” gridò lui sullo stesso piano, prendendo di scatto quello stupido libro che la separava dai suoi occhi e gettandolo dalla parte opposta della stanza.
“Costretto? Come puoi essere costretto ad accusare gente innocente? Come puoi essere stato costretto a urlare il mio nome? Ti conosco da quando avevamo cinque anni, so quando menti. Ed ora stai mentendo!” lo accusò.
Lui rimase in silenzio, per qualche minuto, continuò a guardarla e studiarla. Erano dodici lunghi anni che la conosceva, eppure non sapeva niente di lei. Non sapeva come prenderla, come parlarle, cosa dirle. In quel momento non sapeva nemmeno chi lei fosse, gli sembrava una perfetta estranea. Lasciò la baracca e se ne andò. La giovane rimase sola, piegò la testa e pianse. Come poteva non capire i suoi sentimenti per lui? Come poteva essere così cieco e non accorgersi del male che le aveva provocato accusandola ingiustamente? Forse, alla fine, ancora non lo conosceva veramente. Non era più quel bambino frignone che si nascondeva sempre dietro di lei per essere protetto, era cresciuto era…un uomo! Ma non il suo. Non sarebbe mai stato il suo Richard! Le loro strade si dividevano e lei doveva prendere la sua, staccarsi dalla sua vita monotona e trovare la sua avventura.
Rosaline Smith, 17 anni, Distretto 4, terza di quattro fratelli. Robusta, intelligente, atletica ed espansiva. Il suo scopo nella vita era quello di assistere la nonna malata, il suo sogno nel cassetto era scappare. Il suo hobby era la lettura, il suo difetto l’irresponsabilità, il suo pregio migliore il coraggio. Nelle lunghe giornate d’inverno si sedeva davanti al caminetto acceso con un grosso libro sulle ginocchia e si perdeva tra le pagine ingiallite, tra quelle righe stampate. Leggeva veloce ogni lettera che si univa per formare una parola che, unita ad un’altra e ad un’altra ancora, formava una frase. Ed ogni frase era in grado di trasportarla in un altro mondo, il suo mondo. Un mondo migliore, senza guerre o tiranni o paura per il futuro. Ma, nel suo presente, Rosaline doveva presentarsi alla Mietitura, non poteva rimanere nel suo mondo, doveva risvegliarsi da quello stato di trance che l’aveva rapita. Così indossò l’abito argento ed attillato che, a contatto con il suo corpo, lasciava intravvedere le sue forme sinuose ed abbondanti nei punti giusti. Legò i capelli e vi intrecciò una conchiglia prima di uscire. Si diresse verso la piazza del Distretto, ancora deserta. Era sempre la prima ad arrivare. Suo fratello Marc arrivò di corsa e si mise in fila di fianco a lei, più titubante ed insicuro di sé. Aveva accumulato troppe tessere, non l’avrebbe scampata tanto facilmente. Rosaline lo prese per mano e lo rassicurò, lo tenne stretto fino al momento di dividersi. Quando la piazza si riempì, il sindaco annunciò l’entrata di Carmen Pius, rappresentante del Distretto 4 a Capitol City. Con la sua acconciatura sgargiante e le conchiglie appuntate nei capelli azzurri, mescolò per bene i nomi nella boccia di vetro delle ragazze, fino ad estrarre il fortunato: Rosaline Smith. Uno sguardo di sfuggita al giovane Marc e la ragazza salì sul palco vicino al piccolo Ivan, di soli 12 anni.
***
Distretto 8. Le donne tessevano vestiti pregiati per la capitale, il sole era caldo e bruciava la pelle. Una ragazza correva per i campi, inseguendo un cagnolino nero, ancora ignara della vita. I capelli biondi si libravano nell’aria fresca a contatto con il vento, gli occhi azzurri si perdevano nell’immensità del cielo limpido. Le piaceva la sua vita, eppure le mancava qualcosa. Corse fino ad un prato con pochi alberi e tante rocce e lì si fermò. Guardò i sassi uno ad uno e si sedette vicino ad uno levigato. Sulla sua superficie erano incise le parole –Kara Tunner in Brave, 7 dicembre 2080-8 gennaio 2110-. La ragazza prese un fiore rosso e lo posò sulla lapide, giunse le mani ed invocò una preghiera personale.
“Ti voglio bene, mamma” bisbigliò la giovane prima di lasciare la tomba e andarsene.
Le campane suonarono dodici rintocchi, segno che era giunta l’ora di rientrare per il pranzo. Suo padre sarebbe tornato a casa nel giro di qualche minuto e lei doveva ancora preparare la tavola e richiamare i suoi fratelli. Doveva sbrigarsi o…si massaggiò la spalla, ricordando la punizione che il padre le aveva inflitto l’ultima volta che gli aveva disubbidito. Non voleva succedesse ancora, non voleva capitasse mai più né a lei né ai suoi fratelli. Doveva proteggerli da lui, in qualche modo. Ma non aveva il coraggio di ribellarsi ad un uomo più grande di lei, più vecchio e che le aveva donato la vita e assicurato cibo con il suo lavoro per tutto quel tempo. Era suo compito di primogenita assicurarsi la felicità di tutta la famiglia. E lei avrebbe portato a termine il suo compito, con qualsiasi mezzo, in qualsiasi modo.
Jasmine Brave, 16 anni, Distretto 8, prima di sei fratelli. Mingherlina, paurosa e timida. Il suo obbiettivo era quello di restare invisibile, confondersi con il paesaggio per non essere vista da nessuno, il suo sogno nel cassetto, come per ogni ragazza, trovare l’amore. Sperava che un giorno la sua anima gemella arrivasse e la rapisse, la portasse in un posto lontano, fuori dagli Stati di Panem, a visitare luoghi esotici. Il suo desiderio più grande era visitare il mondo. Ma Jasmine sapeva che questo non si poteva fare, non nel Distretto 8, non a Panem. Nessuno può lasciare Panem. Nemmeno gli animali. È una prigione le cui sbarre sono indistruttibili. Talmente strette che tolgono il respiro e talmente robuste che tolgono la speranza. Ma un desiderio o un sogno non viene abbandonato per strada: sebbene impossibile da realizzare, lo si tiene ben custodito in un cassetto e, al momento giusto, lo si estrae e lo si rivendica. E Jasmine aveva scritto una lista di tutti i suoi desideri e l’aveva nascosta in un romanzo perché il padre non la trovasse. Lui non riteneva giusto lasciare le proprie terre per visitare posti sconosciuti, secondo lui era troppo pericoloso. Se avesse visto quei pochi punti scritti su un foglio, li avrebbe stracciati immediatamente, infuriandosi contro la fantasia della primogenita. “Molto bene ragazzi, con il vostro permesso vado a stendermi un po’” disse l’uomo appena terminato il pranzo.
I figli iniziarono a raccogliere le proprie cose, a sistemare la casa. Poi uscirono. Era il giorno della Mietitura, il giorno più odiato dell’anno. Il giorno in cui due amici sarebbero andati a morire.
Jasmine lisciò la gonna bianca ed allacciò l’ultimo bottone della camicetta candida, prese per mano la sorella ed il fratello appena undicenni e si diresse verso l’odiato centro della città. La piazza era lontana da casa sua, doveva attraversare il bosco e fronteggiare le fabbriche in cui lavorava suo padre. Tenne stretta in pugno la fede nuziale della madre, sicura che l’avrebbe sempre guardata dall’alto e l’avrebbe protetta in ogni situazione. Patrick Tumori, rappresentante di Capitol City, annunciò la sessantesima edizione degli Hunger Games ed iniziò a mescolare le pergamene delle ragazze, pescò il foglietto e lo spiegò. Il nome che riecheggiò per la piazza fu “Eleanor Brave”. Un nome, un battito perso del cuore di Jasmine. Un nome, la paura di perdere un componente della sua famiglia, la tristezza che avrebbe invaso la casa e la sua anima. Spinta da un moto di coraggio, la giovane si frappose tra sua sorella ed il palco, offrendosi come volontaria per il Distretto 8.
Nessun applauso da parte dei compagni, solo qualche lacrima. La stavano lasciando, sapevano che Jasmine non sarebbe mai sopravvissuta agli Hunger Games, erano una sfida troppo grande per lei. Non avrebbero mai più rivisto l’affezionata amica.
***
Distretto 10, l’allevamento. Un ragazzo ed una bambina mettevano in fila una decina di pecore pronte per essere rasate. Era una giornata splendida e calda di mezz’estate, le voci degli altri allevatori aleggiavano nell’aria, il belato degli agnellini accompagnava quello delle madri. Era faticoso badare agli animali, ma al giovane moro non importava, avrebbe fatto di tutto per vedere felice la bambina che gli stava di fronte e godeva di ogni suo minimo sorriso. Sapeva che lei amava quelle terre e non desiderava lasciarle. Gli piacevano le colline soleggiate, i campi verdi, gli alberi sempreverdi, il canto degli uccellini la mattina. Era amico di tutti al villaggio e molti lo prendevano come un esempio da seguire. Si asciugò con la manica logora della camicia il sudore dalla fronte e tornò al suo lavoro, ricominciando a tagliare ciocca dopo ciocca quella lana sporca. Gli avrebbe fruttato un po’ di soldi da parte della capitale, doveva riuscire a battere i suoi compaesani sul tempo e venderla ad un prezzo vantaggioso. Doveva darsi da fare e non aveva tempo per le pause o per godersi i vantaggi della sua giovane età. Non aveva tempo da perdere con i giochi o con gli amici, doveva lavorare e portare un fardello troppo pesante per lui, cresciuto troppo presto. E nei momenti liberi si allenava, aumentando la sua forza fisica. Voleva un lavoro più redditizio e si dava da fare per ottenerlo.
Oliver Parker, 16 anni, Distretto 10, una sorellina da mantenere, una grande forza d’animo, coraggio da vendere, amichevole ed affettuoso. Il suo obbiettivo era quello di rendere felice la sorellina, il suo sogno quello di far finire la guerra contro Capitol City. Si allenava, da anni. Doveva diventare Pacificatore per guadagnare più soldi e poter permettere le lezioni private alla sua adorata Anne. Si allenava ogni giorno ed in ogni condizione e non gli importava delle chiacchiere dei compagni o dei compaesani. Lui doveva riuscire a far felice Anne, nulla gli importava più di lei. Fu con il cuore spezzato che la lasciò, quel giorno di luglio, per dirigersi insieme a qualche compagno alla piazza cittadina. La Mietitura per i 60°Hunger Games sarebbe iniziata nel giro di qualche minuto e lui non poteva arrivare in ritardo. Chi non si presentava o arrivava in ritardo, nel Distretto 10 veniva punito. E spesso toglievano a tutta la famiglia il cibo, o si veniva frustati, o erano previsti lavori extra. Oliver si mise in fila davanti al Pacificatore, sul petto scoperto il segno di una vecchia cicatrice, sul viso un’espressione impavida e di sfida. Si avvicinò a Stephen, il suo migliore amico, sicuro di non essere chiamato. Parlarono a lungo della stagione, delle vacanze estive e del mondo del lavoro alle porte. Entrambi non temevano la Mietitura, avevano pochissime tessere, non sarebbero stati estratti. Ma il destino gioca brutti scherzi, nonostante le tessere di Oliver non toccassero nemmeno la decina, fu proprio il suo nome quello ad essere estratto. Così il ragazzo dovette prefissarsi una nuova missione: vincere gli Hunger Games e garantire fama al Distretto e ricchezza alla sua famiglia. Affiancò la compagna sul palco, salutò gli amici e si lasciò trasportare dal sindaco verso il palazzo comunale, pronto ad affrontare la carneficina che gli anni addietro aveva visto solamente in televisione.
******


L'angolo di *L*

Ciao carissimi Tributi, mi sono messa di impegno per la costruzione di una nuova storia. Sono particolarmente fiera di come sia uscita, spero che anche a voi piaccia! =) Vi lascio leggere con calma ;-)
Un bacione grandissimo a tutti! 
 

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Capitolo 2
*** L'incontro ***


2 - L'incontro




Erik ed Emily entrarono sul lungo treno che li avrebbe condotti a Capitol City alle tre in punto, quel pomeriggio. Visitarono le cabine, mettendosi comodi e rubando qualche snack dal tavolo nella sala ristorante. Poi accesero la tv. Stavano trasmettendo le repliche della Mietitura in tutti i Distretti, avrebbero potuto vedere e conoscere i loro sfidanti per la prima volta.
“Quelli non sembrano molto forti” disse Emily, indicando i due Tributi del Distretto 8.
“Nemmeno gli altri non sembrano gran che” replicò sicuro lui “ma non dobbiamo sottovalutarli. Magari hanno qualche capacità!”
Lei gli diede ragione, come sempre. Guardarono con attenzione il filmato, studiando la fisionomia dei loro nemici, i loro occhi, i loro pensieri. Riuscirono a capire quali fossero i più forti e quali, al contrario, sarebbero stati i primi a morire. Loro, il maschio del 2, la femmina del 4 sarebbero stati sicuramente i Preferiti quell’anno. Gli altri non avrebbero avuto speranza di vittoria.
“Vedo che vi siete già messi all’opera, non male!” disse una donna giovane, una lunga treccia castana dondolava sulla schiena, due occhi neri erano incastrati in un viso ovale e scheletrico. Un corpo alto e snello coperto da un’aderente tuta azzurra.
“Io sono Ingrid Youta, la vostra Mentore. Voi dovete essere Erik ed Emily. Ho sentito dire che tra voi due c’è del tenero!” si presentò la donna.
“L’hanno informata bene” esclamò Emily esultante.
“Non era Thompson il Mentore di noi Tributi?” chiese Erik.
“Thompson è morto. Troppo alcol, troppe sigarette. Stomaco e polmoni hanno ceduto. Il suo ruolo passa a me!” esultò la donna con un’espressione di vittoria dipinta sul volto “ora, venite a mangiare. Dovete mettervi in forza per l’arena.”
I due ragazzi obbedirono e seguirono la Mentore senza fiatare.
***
Erano le sette passate quando il treno arrivò alla stazione del Distretto 4. Il sole era ancora alto nel cielo, Rosaline non avrebbe visto il suo adorato tramonto sulle rive del mare. Insieme al compagno dodicenne salì sul veicolo ad alta velocità diretta verso la capitale. Riuscì a salutare i fratelli solamente con un cenno del capo, poi il treno partì. Le sarebbero mancati, ne era certa. Le sarebbero mancate le crisi isteriche di Marc durante la notte, o le manie di grandezza di Ian, o le chiacchiere di Terence riguardo alla ragazza che voleva conquistare. Le sarebbe mancata nonna Tina, troppo malata per potersi alzare dal letto e dare l’ultimo saluto alla nipote. Le sarebbe mancato il suo mare, i suoi uccelli, la sua baracca di legno, i suoi libri. Nel posto dove andava non servivano. Nel posto in cui sarebbe andata serviva solo un’arma e la capacità di sopravvivere. E il coraggio, tanto coraggio. Sin dalla nascita degli Hunger Games il suo Distretto era sempre stato uno dei Favoriti. Lei sarebbe stata Favorita, avrebbe avuto sponsor pronti per aiutarla, avrebbe ricevuto armi e medicine, avrebbe avuto buone possibilità di vittoria. Di tornare da Richard. Da quel Richard che non era andato nemmeno a salutarla. Quel Richard che l’aveva tradita. Quel Richard che aveva sempre amato.
“Sei pensierosa” disse una voce sensuale e maschile. Il suo tono dolce le ricordava quello di suo padre.
“Ho appena lasciato tutte le persone che amavo. Forse per sempre. Mi sembra normale” replicò Rosaline.
“Io sono Jey Krussov. Sarò il tuo Mentore per quest’edizione” si presentò il giovane uomo. Rosaline lo conosceva. Aveva vinto gli Hunger Games dell’anno precedente. Era famoso nel suo villaggio e l’aveva visto spesso andare a pesca con i suoi fratelli.
“Rosaline Smith, 17 anni, Tributo femmina del 4” disse lei.
“Ti va se ci spostiamo nell’altra stanza insieme a Ivan? Non mi sembra giusto lasciarlo solo, è spaventato” continuò il giovane, dolcemente.
Lei annuì e si spostarono nel vagone più grande del treno: la sala ristorante. Un televisore era già acceso, il piccolo Ivan stava accucciato sul divano e giocherellava con un peluche. Guardò con gli occhi socchiusi i nuovi arrivati e tornò ad accucciarsi nel suo angolino.
“Bene, ora vediamo chi saranno i vostri sfidanti” disse Jey in tono amichevole. Fece partire la cassetta con le repliche della Mietitura e studiò insieme a Rosaline i componenti dei sessantesimi Hunger Games.
***
Jasmine strinse per l’ultima volta la sorellina Eleanor prima di salire sul treno insieme al compagno Paul. Tra le braccia una borsa di biscotti, nella testa una valanga di pensieri, nel cuore una paura immensa. La paura di non sopravvivere nemmeno all’attacco iniziale, di aver detto addio ai suoi famigliari con quei miseri abbracci. Era solo una ragazzina indifesa, non sarebbe mai riuscita ad ottenere nemmeno uno sponsor. Non aveva abilità se non quella di nascondersi. Come avrebbe potuto sopravvivere nell’arena ed affrontare tutti quei Tributi, molto più forti di lei? Un uomo alto e muscoloso la accolse appena entrata nel vagone. Si chinò e le baciò la mano da vero gentiluomo, le prese i bagagli e le fece strada fino al vagone ristorante. Paul li seguiva senza fiatare.
“Io sono Flint Himmoy, sarò il vostro Mentore. So che avete paura e che sono pochi i Tributi dell’8 ad aver vinto gli Hunger Games, ma potete stare certi che non vi mollerò un solo secondo” disse l’uomo con un tono di voce rassicurante. Jasmine sorrise, Paul rimase immobile.
“Io sono Jasmine. Puoi chiamarmi Mimi” si presentò la ragazza “lui è Paul, non parla”
“Bene. cosa ne dite se cominciassimo a guardare i filmati della Mietitura e ci informassimo sui candidati di quest’anno?” propose Flint. I giovani annuirono insieme. Accesero la televisione. I Tributi del Distretto 1 sembravano forti e, soprattutto, uniti. Non sarebbe stato facile batterli e, a pensarci meglio, sarebbe stato molto difficile scappare da loro. La femmina del 2, al contrario, sembrava un’ochetta viziata e per tutta la Mietitura aveva assunto atteggiamenti da principessa. Non sembrava molto forte, ma gli Hunger Games insegnano a non sottovalutare mai le persone, potrebbero dimostrarsi più forti ed astute di quanto si creda. Dal primo al dodicesimo distretto vennero presentati tutti i 24 Tributi, le loro immagini, le loro emozioni sentendosi chiamati sul palco.
“Invisibilità” disse d’un tratto Flint. I ragazzi lo guardarono in silenzio.
“Dovrete essere invisibili per riuscire a sopravvivere nell’arena” spiegò, mostrando un sorriso a trentadue denti. Invisibili…una parola. Ma nessuno può nascondersi per sempre, nemmeno il più esperto di mimetizzazione.
***
Il treno proveniente dal Distretto 10 viaggiava ad alta velocità, le colline si susseguivano fuori dal finestrino. Oliver rigirava tra le dita una collana d’argento. All’interno del medaglione c’era raffigurato il ritratto di sua sorella. Diverse domande si susseguivano nella sua mente, mischiandosi ai pensieri ed alle paure. Cosa avrebbe fatto Anne se lui non fosse tornato? Avrebbe venduto la piccola fattoria? Sarebbe riuscita a continuare la sua vita? Sarebbe morta di fame o di sconforto? No. Non doveva nemmeno pensarci. Lui avrebbe vinto ad ogni costo, doveva vincere per far vivere la sua piccola Anne. La porta dello scompartimento riservato alla sua camera si aprì ed una donna bassa e scheletrica sorrise educatamente.
“E’ pronta la cena” disse in un bisbiglio. Oliver la studiò per qualche secondo, era certo di averla già vista da qualche parte. Piccola, magra, sui 25 anni, grosse cicatrici che le segnavano il viso e le braccia nude, una mano mancante…certo, conosceva quella donna! Aveva 8 anni quando la vide per la prima volta. In tv, mentre guardava la 52° edizione degli Hunger Games. Il Tributo femmina del distretto 10 era una ragazza scheletrica e minuscola, nessuno avrebbe mai puntato su una sua vittoria. Eppure, in qualche modo, quella ragazzina indifesa riuscì a sopravvivere a tutti gli altri. Dovette sacrificare i capelli, un muscolo di una gamba e...la mano destra.
“Jensen Haeving. Sono la vostra Mentore” si presentò la giovane. Jensen…si, doveva essere per forza lei. Oliver la seguì lentamente fino a raggiungere il vagone ristorante. La tavola era imbandita, una decina di piatti colorati erano colmi fino all’orlo di cibi dall’aspetto succulento.
“Buon appetito” disse Jensen ai giovani che, senza dire una parola, si fiondarono sulla cena. Era tutto buonissimo, il tacchino saporito, le patate speziate, la minestra densa e leggera, la torta soffice e gustosa, la frutta succosa. Sembrava un paradiso.
“Raccontatemi un po’ di voi. I vostri nomi, in che zona del Distretto abitate, quanti anni avete” fece Jensen nella speranza di iniziare una conversazione. I due ragazzi che aveva di fronte si guardarono un attimo spaesati, poi il Tributo femmina iniziò a parlare.
“Io mi chiamo Jessica Young, ho 15 anni ed ho due fratelli maschi più grandi. Non ho più il papà e sopravviviamo appena vendendo la lana delle nostre pecore. Vivo al confine con il Distretto 11” raccontò la giovane. La Mentore annuì prima di passare con gli occhi al ragazzo.
“Sono Oliver Parker, ho 16 anni, vivo con mia sorella minore al centro del Distretto. Abbiamo una piccola fattoria con una decina di pecore e qualche mucca. Mi alleno da anni perché volevo arruolarmi tra i Pacificatori” disse con poco entusiasmo.
“Bene. Io sono Jensen Haeving, ultima vincitrice del Distretto 10. Abitavo più o meno dove abiti tu, Jessica, ma ora mi sono trasferita al Villaggio dei Vincitori al centro del Distretto. Prima di partecipare agli Hunger Games lavoravo nei campi di mio zio. Aveva quattro bellissimi cavalli e una ventina di mucche ed io mi divertivo a seguirle tutto il giorno. Ma ora” disse mostrando la mano ed indicando la gamba “ora…non riesco più a correre, cammino a malapena e faccio fatica persino a scrivere il mio nome”. Sorrise. Come se non le importasse delle sue condizioni. Guardò i ragazzi che le erano stati affidati. Chi sa se sarebbe riuscita a portarli vivi fino alla fine, se il ruolo da Mentore l’anno successivo sarebbe passato a qualcun altro. Oliver sembrava forte. Ma tra i Tributi di quell’anno c’erano decine di ragazzi come lui, disposti a tutto per vincere e portare un po’ di ricchezza e fama alla famiglia. Non sarebbe stata una passeggiata cercare degli sponsor adatti, ma non voleva perdersi d’animo.
“Contate su di me per ogni minimo problema” esclamò prima di zoppicare fuori dal vagone.
***
Un problema con l’edificio che li avrebbe ospitati. Era passata la mezzanotte, tutti i treni erano arrivati in stazione, tutti i Tributi stringevano le loro borse e sbuffavano per la stanchezza del viaggio. Alcuni soldati cercavano di calmare le grida dei più energici, i Mentori davano conforto e fornivano coperte per isolarsi dalle notti fredde di Capitol City. Emily Red si teneva stretta al suo Erik, infreddolita ed assonnata. Studiava con occhi attenti i nemici che avrebbe dovuto affrontare la settimana seguente, cercava i loro punti di forza e quelli che avrebbe potuto usare contro di loro. La ragazza del 4 non le piaceva, le sembrava troppo sicura di sé. Stava ferma con la schiena appoggiata alla colonna e…leggeva. Solo uno che non teme gli Hunger Games può essere così calmo e quella giovane non poteva essere così sicura della sua forza, non poteva saper già di vincere i giochi. Non gliel’avrebbe permesso. Si alzò per fare qualche passo, girò su se stessa per qualche secondo e poi si diresse verso quella che le sembrava l’anello debole del gruppo. Doveva essere di sicuro più piccola di lei, così bassa e mingherlina. Non le avrebbe dato alcun fastidio.
“Che bell’anello” le disse.
La ragazza la guardò un attimo, le sorrise e la ringraziò.
“Non è che me lo faresti provare?” continuò Emily.
Lei annuì e tolse l’ultimo ricordo della sua adorata mamma. Non ebbe nemmeno il tempo di appoggiarlo sulla mano della nuova amica che l’anello cadde a terra e rotolò fino ad un piccolo tombino senza grata. Nel giro di qualche secondo scomparve alla vista della povera sfortunata.
“Oh, mi dispiace tanto! Spero non fosse importante per te!” esclamò falsamente Emily.
“L’hai fatto apposta” bisbigliò l’altra
“Come scusa?”
La ragazzina mingherlina alzò gli occhi azzurri, uno sguardo d’odio colpì la giovane che aveva di fronte “L’hai fatto apposta!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Scattò in avanti e le saltò addosso, chiudendo le mani attorno al collo di Emily. Subito attirarono l’attenzione degli altri Tributi che le chiusero in un cerchio. Alcuni iniziarono ad incitare Emily, altri la ragazza più piccola che sembrava diventata una bestia. Solo in due ebbero il coraggio di andare a separarle.
“Emily piantala di dare spettacolo!” urlò Erik a gran voce, catapultandosi sulle due ragazze e prendendo per le braccia la sua compagna di Distretto.
“Tutto bene?” chiese invece dolcemente Oliver all’altra, stanca e piena di lividi e graffi. Lei lo guardò qualche secondo con i suoi occhi azzurri e stanchi, prima di annuire lentamente. Chiuse gli occhi un paio di volte prima di riuscire a dire.
“Mi chiamo Jasmine, grazie”
“Io sono Oliver” si presentò a sua volta il ragazzo, sostenendo il suo corpo ormai stanco e privo di forze.
“Cosa ti ha spinta ad attaccare una ragazzina indifesa?” urlò poi contro Emily, racchiusa nelle braccia del suo compagno.
“Io? Io non ho attaccato proprio nessuno, è lei che mi è saltata al collo!” si difese la ragazza.
“Devi averle di sicuro fatto qualcosa, l’ho osservata a lungo ed era calma e tranquilla prima che tu andassi da lei!” continuò a gridare.
“Non ti permetto di usare questo tono con la mia ragazza” urlò Erik, nascondendo Emily dietro la schiena.
“Non immischiarti tu, ho solo fatto una semplice domanda” continuò.
“Chi ti credi di essere, microbo! Finirai sotto terra prima ancora che siano iniziati gli Hunger Games!”
“Pensa alla tua di vita, io so badare a me stesso!”
I Tributi che prima avevano assistito alla lotta tra le due ragazze si misero ad incitare la nuova disputa, urlando vicino ai due contendenti.
“Ora basta!” si intromise Rosaline “non riesco a concentrarmi sul mio libro con tutto questo chiasso!”
Tutti la guardarono sbalorditi. Quella ragazza non poteva aver interrotto quel battibecco solo per poter leggere in santa pace! Erik cercò di riprendere la parola quando un signore completamente vestito di bianco urlò che le stanze erano pronte ed i problemi completamente risolti. I quattro si guardarono un’ultima volta prima di raggiungere ognuno il proprio Mentore e dirigersi verso il proprio appartamento.
******

L'angolo di *L*

Scusate, avevo disperso questo capitolo tra le cartelle del computer...è effettivamente il secondo, quindi quello che avete letto è il terzo!! Sono mortificata per il disordine!!! ='(
Spero che possiate capire meglio la storia, adesso!
Un bacione

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Capitolo 3
*** Salve, Tributi ***


3 - Salve, Tributi





Prima giornata lontani dalle proprie case, dalle proprie famiglia, dai propri amici. Erik ed Emily si alzarono presto, quel giorno, avevano dormito insieme ed i tremiti di lui avevano svegliato anche la ragazza. Si trovarono da soli a fare colazione, il sole non era ancora sorto nel cielo scuro e nuvoloso. Erik si guardò intorno, studiò l’appartamento in cui avrebbe vissuto per l’intera settimana e lo paragonò a casa sua. Mancava quell’eleganza nella scelta dei mobili, nell’arredamento e nei quadri. Era tutto colorato ed una stanza era in netto contrasto con quella adiacente. I lampadari erano cascanti e poco luminosi, le sedie scomode. L’unico confort era la comodità del letto e del divano. E la servitù che non poteva più parlare, ovviamente. Era stanco di tutte le chiacchiere delle sue cameriere, di tutti i pettegolezzi che gridavano in giro per la casa. Un po’ di silenzio durante i pasti sarebbe stato sicuramente ben voluto!
“Cosa è successo ieri con la ragazza dell’8?” chiese Erik d’un tratto, il suo viso era buio, i suoi occhi strani.
“Nulla. Mi è saltata addosso come una pazza solo perché mi era caduto uno stupido anello!” urlò lei inviperita, prima di ritirarsi nella sua stanza per vestirsi.
Erik conosceva Emily, non era mai stata una ragazza santa ed amata dalla gente. Il suo carattere e la sua personalità richiedevano sempre il centro dell’attenzione, voleva sempre essere la prima e raramente era sincera. Così uscì all’aperto, chiudendosi alle spalle la porta dell’appartamento ed inserendosi nell’ascensore. Aveva bisogno di aria, aveva bisogno di capire cosa era scattato in lui la sera precedente. Perché alla sola vista di quell’insulsa ragazzina qualcosa in lui si era smosso? Chi era, cosa aveva di speciale?
***
Rosaline leggeva indisturbata tra le quattro mura che definivano la sua camera. La finestra rifletteva i primi raggi del sole, la sveglia sul comodino segnava le 6:30. Ancora un’ora prima dell’incontro con il suo stilista personale. Ancora un’ora in cui avrebbe potuto godere della compagnia di se stessa e dei suoi amati personaggi. Si scostò un ricciolo rosso dalla fronte e raddrizzò il cuscino. Un rumore fuori dalla finestra attirò la sua attenzione. Abbandonò controvoglia il romanzo e spiò attraverso le persiane. Il ragazzo che il giorno precedente sbraitava prendeva ora a calci un bidone della spazzatura. Possibile che quel giovane riuscisse sempre a trovare un modo per disturbarla?
“Qui si dorme!” disse piano sporgendosi dalla finestra. Nonostante la voce ancora impastata dal sonno, il ragazzo alzò la testa e la fissò.
“E allora torna a dormire e non impicciarti dei fatti miei!” urlò lui
“E come posso dormire con tutto questo fracasso?” continuò Rosaline indispettita. Lo guardò un’ultima volta prima di richiudere il vetro facendo un gran chiasso ed uscire dalla porta. Prese un cappotto a caso dall’appendiabiti e scese al pian terreno. Nonostante quel giovane fosse stato maleducato con lei, voleva capire cosa lo tormentava. Spesso anche i casi più difficili trovano sollievo a parlare con qualcuno. Sarebbe stata la sua consigliera.
“Bel tatuaggio, comunque” disse avvicinandosi “cosa dovrebbe essere?”
Erik si girò allarmato, teneva nascosto qualcosa nella mano stretta a pugno. Vedendo Rosaline si distese un momento, la guardò, con la mano libera abbassò la manica della camicia e disse “Non è un tatuaggio. È una voglia che ho da quando son nato”
“Somiglia ad una fragola” continuò la ragazza. Lui annuì.
“Strano”
“Cosa è strano?” chiese Erik confuso ed alterato per la presenza di un’estranea.
“Che tu abbia una voglia sul collo”
“Tanti bambini hanno delle voglie disegnate sul corpo” sospirò.
“Già. Ma è più unico che raro che due bambini abbiano una voglia con la stessa forma” continuò Rosaline alzando di qualche centimetro i pantaloni. Sulla caviglia c’era in sovrimpressione una piccola fragola rossa, esattamente identica a quella che Erik portava sul collo.
“Fantastico, si. Ora che abbiamo parlato e ti sei intromessa nei miei pensieri puoi tornare da dove sei venuta?” chiese il ragazzo infastidito. Ma nel suo cuore sentiva che quella ragazza così temeraria che aveva rotto la sua solitudine e voleva consigliarlo poteva diventare un’amica, un’alleata.
“Come sei scontroso, Erik Phelps” disse lei, per nulla impaurita dal tono di voce del Tributo dell’1. Gli occhi del ragazzo scattarono verso di lei.
“Sai il mio nome” fece solamente.
“Ovvio. Ho guardato la Mietitura di tutti i Distretti. Ho una buona memoria per i nomi e la tua faccia mi è rimasta impressa nella mente prima delle altre. Poi ti ho rivisto ieri sera ed ora stamattina. Secondo me non sono solo coincidenze” spiegò sicura.
“E cosa allora?”
“Non saprei. Ma io sono certa che esiste un filo sottile che noi non possiamo né vedere né distruggere che fissa le nostre vite. Ci da la direzione da seguire dal momento in cui nasciamo a quello in cui finiamo sotto terra. Questo filo nel mio Distretto si chiama Destino”
“Io non credo nel destino” ribatté il ragazzo con una smorfia di indignazione.
“Non devi crederci per forza, io ti ho solo detto le mie idee. Secondo me il Destino voleva che noi ci incontrassimo ed eccoci qui!” disse con naturalezza.
“Sciocchezze” sussurrò lui. Si girò ed entrò nell’alto edificio che li ospitava. Il sole stava sorgendo nel cielo, in poco tempo si sarebbero svegliati tutti i Tributi, i preparatori sarebbero arrivati per prendere le misure e costruire l’immagine di una nuova stella per il popolo di Capitol City.
***
7:30, la sveglia suonava incessantemente nella stanza di Jasmine, ancora dispersa su una spiaggia bianca al largo del Pacifico. Il sole brillava e scuriva la sua pelle bianca, le onde ripetevano il loro movimento monotono e rilassante. E poi la ragazza fu catapultata nella triste realtà. Erano le 7:30 del suo primo giorno a Capitol City, un uomo alto e paffuto la guardava da una sedia posta nell’angolo della stanza, il vetro rispecchiava l’immagine di colline tranquille e soleggiate e….lei era il Tributo del Distretto 8.
“Buongiorno dormigliona! Credevo non ti svegliassi più!” disse l’uomo esultante.
“Buongiorno” bofonchiò solamente Jasmine, insicura dell’identità dell’individuo che aveva di fronte.
“Oh, che sciocco, non mi sono nemmeno presentato. Io sono Rodulfus Gluf, il tuo preparatore, stilista, truccatore personale. Vorrei iniziare con il lavoro immediatamente, se permetti” disse pieno di energie. Jasmine si stropicciò gli occhi e guardò meglio l’uomo che aveva di fronte. Alto circa un metro e ottanta, robusto e dai lineamenti raffinati. Indossava una tuta blu con gli orli argento luccicanti. Le labbra erano colorate di argento, le ciglia scintillavano e due stelle erano poste in parte ad ogni occhio. I capelli furono ciò che rimase maggiormente impresso nella mente della ragazza. Riccioli nero scuro si intrecciavano a boccoli rosa brillante e verde pisello. Un insieme che lasciava alquanto senza parole e che fece sorridere la giovane ancora stesa sul comodo letto. Si alzò di scatto, girò su se stessa qualche volta sotto l’attento sguardo del visitatore, si piegò, saltò, fece tutto ciò che le veniva richiesto. Poi vennero fatte entrare tre ragazze, tre gemelle identiche in tutto e per tutto.
“Loro sono Mandy, Sandy e Candy. Saranno le tue estetiste!” disse Rodulfus con un sorriso a trentadue denti. Le tre fanciulle chinarono il capo in segno di rispetto e risero insieme, prima di condurre Jasmine al bagno.
“Io sono Mimì” esclamò di fretta prima che la porta si chiudesse. Oli ed essenze pregiate, profumi orientali e balsami speciali non mancarono in quella mezz’ora in cui Jasmine fu costretta a restare nella vasca. Le estetiste ridacchiavano tra loro mentre sistemavano corpo, capelli ed unghie. Una tiratina di qua, una limatura al pollice, una crema sul seno. Quando rivide Rodulfus era completamente cambiata. I suo capelli lisci e lucenti erano diventati lunghi boccoli biondo-rosa, la pelle bianca come il latte aveva preso un po’ di colore, le unghie erano ben curate e lucidate.
“Questa sera, come ben saprai, verrete presentati come si deve. Dovrete sfilare con dei vestiti che rappresentano il vostro Distretto ed in settimana dovrete rispondere a delle domande per farvi conoscere. E, se farete buona impressione, avrete maggior possibilità di trovare degli sponsor!” disse lo stilista, estraendo dall’armadio un pacchetto blu scuro.
Jasmine lo guardò, la stessa espressione felice di un bambino che ha appena ricevuto il suo giocattolo preferito. Ebbe giusto il tempo di sbirciare all’interno della busta prima che Flint entrasse e Rodulfus uscisse.
“Pronti per l’intervista. Dovremo fare diverse prove e dovrai riuscire a parlare fluentemente davanti ad una telecamera, eliminando anche la più piccola parte di timidezza presente in te” esclamò. Jasmine sospirò, sicura che si prospettava una giornata dura ed estenuante.
***
Oliver fu svegliato dalle urla isteriche di Jessica. Erano le 7:00 e l’appartamento era silenzioso se non per quell’urlo straziante. Uscì dalla sua stanza per andare a controllare la compagna, ma fu bloccato da una donna bizzarra, con un fiore oro disegnato sulla guancia, i capelli giallo canarino e le unghie nere. Per non parlare dei vestiti, dai colori sgargianti e, nell’insieme, eccentrici.
“Bathilda Ken, la tua stilista. Su, su, dove pensi di scappare, abbiamo del lavoro da fare!” urlò stringendo la mano di Oliver e senza lasciargli nemmeno l’occasione di aprire bocca.
“Ora fai un bagno caldo e rilassante, tirati a lucido e usa tutti i cosmetici da bagno che trovi sulla vasca. Io ti aspetto qui una mezz’oretta, poi vengo a prenderti con la forza” esclamò con un sorriso.
Oliver la guardò con un’espressione inebetita dipinta sul volto, poi obbedì all’ordine. Capitol City diventava ogni momento più strana, i suoi abitanti erano ambigui e le docce incomprensibili. Tutti quei pulsanti, tutti quei getti. Spostò tutte le manovelle, usò tutti gli shampoo ed i bagno schiuma, si guardò qualche minuto allo specchio e tornò tra le grinfie di quel clown in gonnella.
“Bene, vedo che fai le cose in fretta! Allora, iniziamo subito. Il tuo mentore in questo momento sta istruendo la tua compagna per l’intervista, mentre io dovrò insegnarti come camminare, come stare seduto, come tenere la testa…insomma, le basi del portamento!” disse con uno sbuffo. Oliver annuì semplicemente e lei continuò.
“Perfetto. Allora, pancia in dentro e petto in fuori. No, le spalle più indietro, la schiena dritta. Stai sbagliando tutto! Sei un disastro!”
Il ragazzo lanciò uno sguardo supplichevole, non ne poteva già più di quell’evidenziatore parlante.
“Ti faccio vedere io” disse prendendo una manciata di libri e posandoli sull’acconciatura a forma di torre di Pisa. Trovato l’equilibrio, camminò per tutta la stanza senza provocare la minima inclinazione dei volumi.
“Prova tu” continuò. Oliver prese un libro, lo posò sulla testa e provò a camminare. Nemmeno un passo che il romanzo era già caduto per terra. Ci provò ancora e ancora, ma senza risultato. Quel maledetto testo non voleva stare fermo! Preferiva il pavimento freddo ai capelli morbidi del ragazzo. Jensen bussò lievemente alla porta di Oliver ed entrò chiedendo perdono con la sua voce bassa e lieve. Disse che era il momento di cambiare postazione, era ora che lui rispondesse a qualche domanda.
Le prime furono le solite: quanti anni hai, dove vivi, parlami della tua famiglia, cosa fai di solito…poi iniziarono le domande sul futuro: come pensi di vincere gli Hunger Games, cosa avresti fatto del tuo futuro se non fossi stato scelto, cosa faresti se vinceresti i giochi…e poi l’ultima, quella che lo lasciò senza parole: se dovessi perdere, cosa vorresti succedesse alla tua famiglia? Preferiresti averli vicini a te o che loro continuassero la loro vita come se niente fosse, come se non fossi mai esistito?
Oliver ci pensò qualche minuto, prima di rispondere “Se morissi è ovvio che vorrei che la mia famiglia pianga sulla mia tomba. Ma non vorrei né che a loro capitasse la mia stessa sorte, né che si dimentichino di me. Ci sono vie di mezzo, come il ricordo”. Jensen lo guardò, gli sorrise: aveva dato la risposta giusta.
***
Nei corridoi del teatro cittadino echeggiavano le voci del pubblico ed era palpabile la tensione e la paura dei 24 Tributi. Ognuno con il proprio vestito di scena già indossato, vicino al carro che l’avrebbe condotto per quel maledetto percorso, con il proprio compagno a fianco ed il mentore di fronte.
“Oggi andrà via liscia come l’olio, credete a me. E’ la prova meno faticosa o subdola che dovrete affrontare. Sarete fermi sul vostro carro e dovrete solamente sorridere alla folla” disse Jey. Rosaline non aveva paura, ma il compagno Ivan tremava da capo a piedi. Gli altri Tributi urlavano, parlavano, bisbigliavano. Vide il ragazzo incontrato quella stessa mattina, Erik, insieme alla sua compagna. Non le piaceva quella ragazza, non le piaceva il suo modo di fare, il suo comportamento da tiranna, la sua voce da ochetta. Non avrebbe mai accettato un’alleanza con lei. Peccato, perché il ragazzo, invece, la istigava. Aveva qualcosa di misterioso che lei doveva trovare ad ogni costo e poi quella voglia identica alla sua…doveva pur significare qualcosa!
Il presentatore acclamò i Distretti, il primo carro partì.
Erik ed Emily, vestiti con un abito blu notte e cosparsi di gioielli, percorsero la corta viuzza che collegava i due portoni. Videro i loro volti proiettati sugli schermi, sorrisero, salutarono, mandarono baci. La coroncina sul capo di Emily si inclinò leggermente dopo un salto, ma nessuno se ne accorse. I diamanti, gli zaffiri e gli smeraldi scintillavano e davano maggior luce ai giovani che assomigliavano a delle stelle nel cielo nero.
A loro seguiva il Distretto 2, le divise dei Pacificatori con il casco sotto un braccio ed un fucile stretto in mano. I visi tirati che non lasciavano sfuggire nemmeno un sorriso, una luce di puro odio all’interno dei loro occhi.
Distretto 3. I Tributi vestivano un camice bianco da scienziato, aggeggi tecnologici saltellavano sul carro, un piccolo computer trasmetteva l’ologramma di tanti fuochi d’artificio che salivano verso il soffitto.
Rosaline ed Ivan si tenevano per mano. Essendo componenti del Distretto 4 erano vestiti l’una da sirena e l’altro da tritone. Tra i capelli bagnati portavano conchiglie e stelle marine, attorno alle braccia erano legate piccole alghe. La ragazza sospirava osservando tutti quei volti truccati, quelle maschere di arroganza e presunzione. Sospirava per la brutta fine che avrebbe fatto quasi sicuramente solamente per far piacere a quelle persone fastidiose ed insignificanti.
I Tributi del Distretto 5 si presentarono vestiti completamente d’acciaio. In mano avevano un piccolo bastone di ferro che trasmetteva scintille che, colpendo l’acciaio delle armature, provocava lampi con tante forme diverse. La gente sospirava vedendoli passare.
Distretto 6, trasporti, e cosa meglio di un’elegante divisa da taxista per rappresentarsi.
I ragazzi del 7 erano vestiti da alberi, Jasmine e Paul indossavano abiti di seta leggera e trasparente che volava a contatto con l’aria, formando piccoli sbalzi eleganti e movimenti sinuosi.
Distretto 9, grano. La ragazza portava un lungo smanicato bianco e marrone, i capelli legati tra cui erano state incastrate spighe di grano ed un pane tra le mani. Il maschio portava larghi pantaloni marroni ed una camicia a maniche lunghe bianca. Tra le braccia portava spighe d’oro.
Oliver e Jessica indossavano alti e larghi stivali di plastica, jeans aderenti, camicia a maniche lunghe coperta da un grosso grembiule di cuoio, guanti di lattice ed un grande cappello di paglia. Identici a degli spaventapasseri, in effetti. Eppure anche molto simili alla realtà. Talmente simili che la gente si era abituata a vedere quell’abbigliamento e non prestava attenzione ai due che sfilavano sotto ai loro occhi.
Distretto 11, agricoltura. I due Tributi portavano cesta di frutta tra le braccia e sui cappelli, chicchi d’uva alla cintura, ciliegie come collane. Una fantasia di colori che li rendeva irresistibili sia agli occhi che all’olfatto e, di sicuro, anche al gusto.
Ultimo carro, il Distretto 12. Due ragazzi completamente nudi sfilavano coperti solamente da uno spesso strato di carbone. Le donne più suscettibili e pudiche coprivano gli occhi ai ragazzi e si giravano dall’altra parte, maledicendo l’incoscienza del preparatore di quei due Tributi, considerati peggio degli schiavi dai cittadini della capitale.
Da una parte all’altra del teatro sfilarono i carri con i Tributi che si dispersero nella stanza ovale in cui aspettavano ulteriori ordini.
Oliver si avvicinò alla sua nuova amica, con la speranza di poterle in qualche modo parlare. Aveva qualcosa di famigliare, eppure non sapeva dire di cosa si trattasse.
“Ciao” disse avvicinandosi a lei. Jasmine si spaventò sentendosi rivolgere la parola, ma riconobbe subito il giovane che l’aveva aiutata la sera precedente e gli sorrise affabilmente.
“Oliver, giusto?” chiese.
“Già…e tu sei Mimì se non ricordo male” aspettò che lei annuisse prima di continuare “Volevo sapere se ti eri ripresa dopo il litigio di ieri”
“Sei molto gentile. Comunque a parte qualche livido sono a posto. Ne ho uno qui” disse alzando leggermente la seta della maglietta ed indicando un piccolo ovale blu e viola. Oliver sgranò gli occhi.
“Hai una voglia molto particolare” esclamò sorpreso.
“Una fragola, perché?” domandò lei guardandola. Nessuno aveva mai detto niente della sua voglia, nessuno se n’era mai nemmeno accorto.
“No nulla, ha attirato la mia attenzione perché ne ho una uguale!” svelò il giovane, mostrando il polso. Stessa grandezza, stessa forma. Si, era la stessa voglia, solo in un punto diverso del corpo.
******


L'angolo di *L*

Di nuovo ciao, Tributi! Scusate se non riuscirò ad aggiornare ogni giorno, ma dovrei riuscire ad essere online almeno un giorno si ed uno no! Ringrazio tutti per aver letto il primo capitolo, chi ha messo nelle preferite questa strana FF e chi l'ha recensita. 
Qui i Tributi si stanno ancora conoscendo, però già si capisce il motivo per cui ho scelto il titolo =)
Un bacione a tutti, che la Fortuna sia sempre con voi. ;-)

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Capitolo 4
*** Via! ***


4 - VIA!





“Dimmi, caro Erik, so che in questi Hunger Games combatterai insieme alla tua ragazza! Cosa hai provato quando si è offerta alla Mietitura per poter stare insieme a te?” chiese il presentatore della 60° edizione degli Hunger Games. I capelli rossi e gli occhi azzurri emanavano cordialità ed affabilità, ma quella voce monotona e robotica nascondeva un lieve filo di diavoleria.
“Beh, caro Augustus, all’inizio ho pensato che il destino volesse far di tutto per dividerci. Poi ho capito che, al contrario, voleva tenerci uniti fino alla fine. Anche se non potremo sopravvivere entrambi, sono contento di poter stare con lei, al suo fianco quando esalerò l’ultimo respiro!” rispose il giovane Tributo del Distretto 1, senza la minima paura nella voce.
“Sei un ragazzo coraggioso e mi dispiace veramente tanto non potervi rivedere insieme! Ma, chissà, magari le regole verranno cambiate in vostro favore! Dovremo rimetterci alla volontà ed alla bontà del nostro presidente!” continuò il presentatore, facendo un cenno con la testa ad un uomo giovane seduto in prima fila.
“Oh, ovviamente. Ci rimetteremo al grande cuore del nostro grande capo!” esclamò scherzando il giovane Erik, sorridendo alle telecamere e nascondendo il disgusto verso l’uomo. Una luce rossa lampeggiò sopra la sua testa, era ora di cambiare Tributo.
Mentre usciva, la mano di Emily sfiorò la sua, lasciandogli un senso di vuoto nello stomaco. Non temeva di perderla, non sentiva niente. Ma non per coraggio. Quell’ultima settimana di allenamento gli aveva aperto gli occhi, gli aveva mostrato i giganteschi difetti di Emily. Ormai, lui non provava più niente per lei, quella stretta mancata l’aveva dimostrato. Avrebbe recitato ancora un po’ la scenetta dell’innamorato disposto a tutto per proteggere la sua fidanzata, ma sperava di potersi liberare della ragazza il prima possibile. La sua attenzione si era rivolta verso un’altra fanciulla, non sapeva se per puro divertimento o per qualcosa di più profondo. Voleva capirlo ma, per la prima volta in vita sua, aveva paura.
***
Rosaline si sedette sulla poltrona di velluto rosso posizionata sul palcoscenico. Davanti a sé l’uomo più subdolo che avesse mai visto, alla sua destra un suo tirapiedi. Doveva mostrarsi carina e gentile, amorevole ai loro occhi solo per generare nei loro cuori di pietra un senso di perdita il momento in cui sarebbe morta.
“Rosaline Smith. È un onore per me averti qui sul palco di Capitol City. Se non sbaglio, sei la campionessa di apnea del tuo Distretto!” disse esultante Augustus Memory.
La ragazza sorrise e annuì leggermente col capo.
“Si. Considero il mare come uno dei migliori amici che si possa avere. Io proteggo lui e lui protegge me. Quando mi trovo in acqua, mi sembra di essere in una bolla magica in cui il mondo esterno sparisce. Il male, la cattiveria, le paure vengono eliminate dalla dolcezza che mi da il mare.” Rispose Rosaline con un’espressione sognante sul volto.
“Oh si. Sott’acqua vengono rimossi tutti i problemi. Ma se ne creano altri. Come fai a non morire schiacciata dalle correnti, senza la possibilità di respirare. Non hai paura dei grandi predatori che abitano l’oceano?” continuò il presentatore.
“Non ci sono forse anche sulla terra ferma i grandi predatori? Uomini malefici che rendono schiavi gli abitanti dei Distretti. Giovani capi accecati dalla ricchezza e dal potere. Non c’è forse anche sulla terra ferma il problema di essere schiacciati dalla corrente della povertà, della falsità, della crudeltà? Il mare, la terra ferma, l’aria del cielo. Nonostante siano elementi diversi in tutti sono presenti gli stessi problemi. In tutti convivono crudeltà e bontà, paure e bellezze immense” esclamò la ragazza. Tutti gli occhi erano rivolti verso di lei, le bocche leggermente aperte. Gli uomini più chiusi negavano con vigore le affermazioni della giovane, quelli più intelligenti non potevano che darle ragione. Sarebbe stata un’intellettuale coi fiocchi, se non fosse nata in un Distretto. Sarebbe diventata sicuramente famosa, se avesse avuto più nobili origini.
***
Paul scese dal palcoscenico. Non aveva attirato molta attenzione, la mancanza di una voce aveva indispettito il pubblico che lo credeva uno sfacciato a non rispondere alle domande. Jasmine doveva recuperare un po’ della loro simpatia per tutti e due. Salì titubante i quattro scalini, alzò le vesti di cotone azzurro e raggiunse con passo sicuro e fermo la sedia davanti alle telecamere. Sfoderò uno dei suoi sorrisi più dolci, fece un lieve inchino e si sedette, allungando la mano all’uomo rosso che le stava di fianco.
“Jasmine Brave! Sei molto cambiata durante questa settimana!” la presentò Augustus.
“Spero in meglio” esclamò la ragazza arrossendo lievemente. Quel colore che assunsero le sue guance fece addolcire il cuore del pubblico, che la vide come la creatura più dolce e modesta dell’intero mondo.
“Si, effettivamente in meglio. La prima volta che l’ho vista” urlò il presentatore verso la gente di Capitol City “questa giovane donna non era niente più di una ragazzina timida ed insicura. Ed ora, guardatela, è diventata una bellissima ragazza dai modi eleganti e raffinati, ma dall’animo forte”. Jasmine chinò il capo in segno di ringraziamento.
“Voi mi state adulando, signore. Non sono niente più di una povera ragazza modellata dalle mani esperte della Capitale. Se non fosse stato per i miei preparatori, io sarei ancora quell’insulsa ragazzina incapace di parlare” disse sorridendo. Guardò per un momento il suo Mentore, seduto al centro della sala insieme al suo staff di preparatori. Se non fosse stato per i suoi insegnamenti avrebbe fatto scena muta. Doveva ringraziare lui se era riuscita ad addolcire il cuore del pubblico. Gli sorrise prima di rispondere ad un’altra domanda di Augustus Memory.
“In questo poco tempo che sei rimasta qui, sei riuscita a fare amicizia con un giovane uomo, oltre che al tuo compagno del Distretto. Come vi siete conosciuti?”
“Mi ha aiutata la prima sera che abbiamo messo piede nella Capitale. Ho avuto una piccola discussione con un’altra ragazza e lui mi è stato vicino e ha preso le mie parti. È…è un ragazzo su cui si può fare affidamento e sono contenta che abbia scelto me come sua amica” rispose titubante ed imbarazzata. Non era riuscita a restare concentrata sulle telecamere, il profondo affetto che provava per Oliver l’aveva distratta.
Fu contenta quando la luce rossa le diede il segnale per uscire. Riuscì a malapena a trascinarsi dietro le quinte prima di cominciare a tremare vistosamente. Aveva recitato bene, ora poteva concedersi una pausa.
***
Era il suo turno. Oliver eliminò a grandi passi quei pochi metri che lo dividevano dalle telecamere. Si sedette accanto al presentatore, sfoderò il suo fascino sbottonando la camicia.
“Questo ragazzo ha già capito come ammaliare il pubblico!” esclamò ridendo Augustus.
Oliver rise, prima di aggiungere “Una settimana nella Capitale mi ha insegnato come usare i miei Talenti a mio vantaggio!”
“Ed i tuoi cosiddetti Talenti sono veramente tanti. Ho visto alcune riprese dei tuoi allenamenti e, lasciamelo dire, sei fenomenale!”
“Ti ringrazio, ma non è nulla di che. Detto tra me e te, volevo far colpo su una ragazza!”
Il pubblico sgranò gli occhi, il presentatore guardò in volto quel ragazzo misterioso, prima di chiedergli di continuare.
“Non posso rivelarvi la sua identità, la metterei in imbarazzo!” disse guardando la telecamera.
“Ma questa fanciulla conosce i tuoi sentimenti?” chiese Augustus. Il gossip era il suo piatto preferito, prima della luce intermittente avrebbe sicuramente scoperto chi fosse la fortunata.
“No. Non posso dirglielo. La renderei solo infelice. Si preoccuperebbe per me, vorrebbe farmi vincere, si sacrificherebbe. Ed io non voglio!”
“Quindi una fanciulla ha rapito il tuo giovane cuore. Ma restringi il campo. Da quale Distretto proviene?” chiese ancora.
“Troppo facile così! Posso solo dirvi che il suo coraggio è in grado di farle superare egregiamente ogni situazione e la sua bellezza farebbe invidia alle Dee dell’antica Grecia”
“Non sarà per caso la bella Emily del Distretto 1 la tua amata! Lo sai che è già impegnata!” esclamò ridendo Augustus.
“No, non è lei. Per quanto il suo aspetto esteriore sia desiderabile, la fanciulla del mio cuore la supera! Ha qualcosa che a lei manca e che la rende irresistibile agli occhi di chi la conosce!” spiegò Oliver sorridendo e pensando alla sua bella che, di sicuro, stava ascoltando dietro alle quinte.
“Caspita, ragazzo, sei proprio cotto!” urlò il presentatore ed il pubblico rise “magari è quell’adorabile ragazzina che è venuta qui insieme a te?” tentò di nuovo.
“No, non è nemmeno lei! Jessica è simpatica e molto carina, ma non è lei che ha rapito il mio cuore. E, visto che non possiamo continuare all’infinito, direi che si può anche cambiare domanda” propose il ragazzo. Due ragazze erano state eliminate dalla lista delle 12 fanciulle dei Distretti, senza contare le due bambine che erano state scelte non sarebbe stato troppo difficile arrivare alla sua “bella”. Sorrise al pubblico ed iniziò un suo discorso, diventando lui il presentatore e ponendo lui le domande ad Augustus Memory.
La luce rossa mise fine al momento di gossip ed il giovane dovette uscire di scena, seguito dagli applausi del pubblico.
***
“E così, ti sei preso una cotta per un Tributo!” esclamò Jasmine correndo verso Oliver. In una sola settimana il legame tra loro era diventato più forte. Gli allenamenti li avevano uniti, le prove e gli altri Tributi li avevano rafforzati ed i loro caratteri così diversi avevano creato una potente amicizia.
Lui la guardò, affascinato dai suoi occhi azzurri, le sorrise e si incamminò con lei verso la stanza circolare in cui si erano riuniti anche gli altri.
“Dai, non essere timido, dimmi chi è!” continuò la ragazza.
“No” disse lui, ridendo alla sua espressione di sconforto.
“Non ti fidi di me?”
“Certo che mi fido di te. Ma non è necessario che tu sappia questi piccoli pettegolezzi”. Recuperarono Paul, immobile, appoggiato ad una colonna bianca e liscia. Oliver parlò con tutti i Tributi presenti nella stanza, il suo carattere allegro e solare aveva rapito l’attenzione e la simpatia dei giovani, persino dei due dell’1. Jasmine, più timida e riservata, rideva alle battute, ma non parlava molto in quel cerchio di persone estranee.
“Cosa pensi di ottenere con la scena del ragazzo innamorato?” chiese Erik, mettendosi perfettamente di fronte al giovane Oliver. Il riso sparì subito dalle sue labbra screpolate.
“Non voglio ottenere nulla. Ma, potrei girare la domanda a te”
“Io non sto usando nessuna scenetta romantica, non ne ho bisogno”
Oliver sorrise prima di avvicinare la bocca all’orecchio del ragazzo che aveva di fronte.
“Lo sa la tua bella Emily che ti sei innamorato di un’altra?” chiese con un filo di voce. Un ghigno si impossessò del suo viso, mentre quello di Erik divenne scuro ed i suoi occhi verdi cercarono di nascondere la paura che si era impossessata di lui.
“Di cosa stai parlando?” chiese con trattenuta sicurezza.
“Credi che non abbia visto? Durante gli allenamenti, durante i pasti, durante le ore di libertà! Io sono sempre stato con lei e ti vedevo. Ma lei non sarà mai tua” esclamò con un’espressione di sfida disegnata negli occhi. Oliver si rifletteva negli occhi smeraldini del nemico, vedeva chiaramente la sua espressione e non gli sfuggì l’occhiata che sfiorò la sua amica. Furono pochi millesimi di secondo, ma gli bastarono per incastrare Erik.
“Chissà come la prenderebbe Emily. Guarda, sta parlando con Rosaline!” disse Oliver con un sorriso maligno sulle labbra. Fu trattenuto dalla mano ferma e forte dell’interlocutore.
“Cosa vuoi?” chiese con un filo di voce.
“Non so ancora, ci devo pensare. Ma, per questi pochi giorni che ancora staremo qui, stai lontano da lei” rispose il giovane, dirigendosi verso il suo Mentore e la giovane Jessica.
Erik tornò verso Emily, che lo accolse a braccia aperte e con un bacio caloroso che non ricevette risposta.
“Che hai?” gli chiese preoccupata.
“Nulla, sono solo stanco. Vado a letto” disse dirigendosi verso l’appartamento. Non la guardò, non la salutò. L’avrebbe mollata anche su due piedi, non aveva paura delle sue crisi isteriche o delle sue pretese. Ma doveva controllarla e, nel caso che Emily sapesse della sua nuova cotta, doveva trattenerla. Non sapeva perché lo faceva, ma  sentiva suo obbligo proteggere quella ragazzina insignificante che, chissà come, era riuscita a rubargli il cuore. L’avrebbe conquistata, con il tempo, l’avrebbe resa sua. Ma, per il momento, doveva solamente assicurarsi che non le accadesse niente.
***
La divisa degli Hunger Games consisteva in una tuta di cotone aderente verde scuro. Erik allacciò gli scarponi e strinse la piccola pietra che teneva al collo, nascosta sotto la maglietta stretta. I capelli neri vibravano a contatto con l’aria smossa dal ventilatore, i suoi occhi scuri guardavano fisso davanti a sé. Era da solo, non doveva più nascondere le sue emozioni. In poco tempo sarebbe entrato nell’arena e avrebbe dovuto uccidere tutti…tutti, tranne lei. Lei doveva proteggerla. Nascose di nuovo la pietra azzurra che, secondo suo nonno, significava “prosperità”. Rigirò tra le dita un piccolo anello d’oro, un filo d’argento si intrecciava attorno ad esso. All’interno, due piccole lettere ed una data.
- J & K. 31/01/2100 –. Lo strinse più forte in pugno prima di metterlo in tasca, assicurandosi di non perderlo. Quella era la sua arma segreta per assicurarsi l’alleanza con la squadra di Oliver. Nonostante gli stesse antipatico, gli serviva la sua forza. Quel piccolo anello gli sarebbe servito per conquistare la giovane del suo cuore.
***
“Sei pronta?” chiese Theodor Musin, il suo preparatore. Le allacciò la cintura ben stretta e la guardò in volto. Rosaline si guardò intorno, il respiro regolare, gli occhi castani fissi in quelli neri dello stilista. Era stato un buon amico e confidente e lasciarlo le procurava dolore. Le ricordava così tanto il suo Richard. Ora era sicura che non l’avrebbe più rivisto. Il Destino non voleva farle lasciare l’arena, ne era certa. Ed era pronta a seguirlo.
Annuì leggermente con il capo. Theodor frugò qualche secondo in tasca, estrasse una piccola spilla e la mostro alla ragazza che aveva di fronte.
“Una farfalla” esclamò lei.
“Ti rappresenta. Sono sicuro che riuscirai a cavartela, in qualche modo. Arriverai a quella libertà che tanto sogni!” disse lui, abbracciandola. Doveva lasciarla andare, la pedana doveva salire. Si baciarono sulle guance. Una lacrima sfuggì dall’autocontrollo di Rosaline.
“Stammi bene sirenetta!” salutò l’uomo.
“Segui i miei consigli! Se avrai abbastanza sfortuna, l’anno prossimo ti capiterà un Tributo uguale a me!” disse lei sorridendo. I suoi occhi brillarono, nonostante sapesse di andare incontro alla morte lei sorrideva. Aveva un compito, il Destino le aveva mostrato la strada da seguire e non poteva tirarsi indietro. Un ultimo sguardo al suo preparatore e poi buio.
***
Jasmine si sentiva soffocare in quella stanza minuscola e completamente bianca. La presenza di Flint non le dava sollievo, anzi la rendeva più agitata.
“Non voglio lasciarti” disse all’uomo robusto. Lui le alzò il mento con due dita.
“Ti aspetto qui” bisbigliò “non vado da nessuna parte”
“Aspetterai invano” esclamò lei sicura. Era troppo debole per poter sopravvivere nell’arena, nelle sessioni private aveva preso un misero 5. Più della metà dei Tributi l’avevano superata.
“Il Destino ti riserva un futuro su questa terra, ne sono più che certo. Non avrai il lusso di raggiungere il Creatore!”  disse lui, baciandole la mano piccola e lattea. Jasmine lo guardò, senza riuscire ad aprire bocca. Sapeva qualcosa che a lei non era stato detto. Un piccolo cartello si illuminò, il grosso tubo che l’avrebbe condotta nell’arena si aprì. Era ora di partire.
“Arrivederci, piccola e dolce Mimi!” disse Flint. Lei lo abbracciò e pianse. Non voleva lasciarlo per sempre. Non voleva morire, non era ancora pronta. Doveva pensare ai suoi fratelli. Senza di lei, chi avrebbe badato a loro? Sarebbero stati soli in balia del padre. Paura. Era l’unico sentimento che provò quando la luce intorno a sé mancò, lasciandola al più completo buio.
***
“Come pensi di riuscire a proteggerla?” chiese Jensen ad un sicuro Oliver.
“Ho un alleato forte che mi aiuterà!” disse lui.
“Puoi fidarti di lui?”
“No. Ma so che farebbe di tutto per lei!”. Sorrise. Non gli importava di dover condividere la sua piccola stella con qualcun altro, gli importava che lei vivesse.
“Dalle questa se sarà lei a vincere. Voglio che si prenda cura di Anne” disse allungando un foglio spiegazzato. Jensen annuì. Abbracciò Oliver per un ultima volta, spettinò i suoi capelli castani e ribelli, si specchiò nei suoi occhi verdi. Non l’avrebbe più rivisto o, per lo meno, le possibilità adesso che conosceva il suo piano erano veramente misere. Non sapeva perché volesse proteggere una nemica, lei non aveva mai provato un sentimento così potente. Avrebbe visto Oliver sacrificare la propria vita per una mocciosa che, da sola, non avrebbe mai vinto gli Hunger Games. Chissà che tecnica aveva usato per far innamorare di sé i due ragazzi più forti dei giochi.
“Tieni. È un portafortuna. Ti proteggerà” disse slacciando una catenina d’argento e chiudendola nella mano del ragazzo. Un piccolo sole di vetro splendeva alla luce della lampada.
“Grazie di tutto” esclamò Oliver, entrando nell’ampio tubo che l’avrebbe trasportato in un altro posto, un’area controllata completamente da Capitol City.
***
I 24 Tributi erano disposti in cerchio. Dentro un piccolo corno d’oro, provviste, zaini, armi. Fuori una foresta impenetrabile da cui risuonavano suoni allarmanti. I ragazzi si guardarono negli occhi e studiavano la situazione. Cosa dovevano fare, partecipare al massacro iniziale o morire per le avversità della foresta? Un hovercraft passò sopra le loro teste, una voce robotica iniziò il conto alla rovescia. Un timer sonoro che, ad ogni ticchettio, aumentava la paura nel cuore dei ragazzi. Tutte le telecamere erano puntate verso di loro.
3 – 2 – 1 – VIA. I Preferiti ed i ragazzi più forti corsero verso il corno d’oro. I più piccoli ed indifesi si diressero al sicuro degli alberi. Jasmine rimase immobile sul piedistallo, insicura su cosa doveva fare. Paul ed Oliver erano corsi verso il corno, ma lei non era forte come loro, non avrebbe mai retto alla carneficina iniziale. Se fosse andata verso la foresta, invece, li avrebbe persi per sempre e sarebbe rimasta sola ed indifesa. Vide i giovani che venivano trafitti dall’odio dei più forti. Jessica, la compagna di Oliver, fu infilzata con un pugnale e cadde a terra con un tonfo sordo. Paul fu ferito e gli fu tagliato un orecchio. I più spietati erano i due ragazzi dell’1 che, imbracciate le armi, non lasciavano tregua agli altri Tributi. Oliver riuscì a parare bene i colpi di Erik, l’arco ben sicuro sulla spalla e due pugnali tra le mani. Paul e Rosaline iniziarono a correre con gli zaini in spalla. Avrebbe potuto raggiungere loro, ma non si fidava di Rosaline. Non la conosceva ancora bene, qualcosa in lei la spaventava. Forse era quel completo stato di isolamento in cui riusciva a rifugiarsi, forse quella sicurezza o quella mancanza di paura. Rimase ferma finché la vista di un’esultante Emily la rapì. Stava correndo nella sua direzione con una lancia fissa davanti a sé. Doveva scappare. Un colpo la buttò a terra, il corpo di Oliver la proteggeva. Un sorriso si inarcò sulle sue labbra, aveva un alleato potente dalla sua parte, un amico vero.
******
 
Angolo di *L*

Ciaooo! Ricominciata la scuola? Mi dispiace del ritardo, ma mi è appena tornato il computer! =) 
Io per il primo anno vedo gli studenti passare davanti a casa mia all'1 e non ci faccio parte....però è difficile trovare lavoro (un qualsiasi lavoro). Va beh, a voi non interessa nulla di tutto questo! 
Leggete pure con calma, aspetto notizie! Un abbraccio a tutti!

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Capitolo 5
*** Alleanze ***


5 - Alleanze




Gli Hunger Games erano partiti, i combattimenti e la carneficina erano iniziati. Dal corno d’oro giungevano le urla di dolore e paura, dagli alberi i suoni della foresta selvaggia. Jasmine ed Oliver erano ancora fermi in mezzo alla radura, sopra di loro Emily sferrava potenti colpi con la lancia. I colpi di cannone si susseguivano, nel giro di qualche minuto erano già morti cinque ragazzi.
“Perché la difendi? Non vivrà comunque fino alla fine!” urlò Emily, cercando di impossessarsi dei pugnali di Oliver.
“Dovresti iniziare a farti un po’ di fatti tuoi! Pensa alla tua sopravvivenza, invece che alla nostra” controbatté il giovane. Riuscì con un colpo secco a staccarsi di dosso la ragazza e, prendendo l’amica per il polso, la trascinò nella foresta. L’umidità faceva rabbrividire, i suoni gutturali degli uccelli mettevano paura ai giovani Tributi che si avventuravano all’interno di quel posto oscuro. Oliver e Jasmine cominciarono a cercare Paul, ma non ebbero successo. Il ragazzo si era allontanato sanguinante e senza un orecchio, seguito da Rosaline. Il dubbio che fosse già morto giunse spontaneo. Erano rimasti solo loro due, contro tutti gli altri.
“Prendi, questi sono per te. Ho visto che all’allenamento riuscivi ad usarli quindi…prendili” disse Oliver, slacciando i due pugnali che teneva legati alla cintura.
“Cosa c’è nello zaino?” domandò la sua giovane alleata, nascondendo i coltelli negli scarponi.
Lo aprirono. Conteneva un paio di calzini, medicine, fasce, una torcia, un pacchetto di grissini, carne secca, biscotti ed una borraccia vuota.
“Non servirà a molto” si lamentò la ragazza.
“Dobbiamo farcelo bastare. Almeno per un po’. Se riuscissimo a tornare indietro potremmo recuperare qualcosa di più” disse Oliver. Si rimise lo zaino in spalla e, prendendo Jasmine, si addentrò più in profondità nella foresta.
***
Rosaline era riuscita a scampare alla carneficina con qualche misero graffio. Stava seguendo il giovane dell’8, ma l’aveva perso lo stesso istante in cui aveva messo piede nella foresta. Sembrava incantata. Lo zaino pesava sulle sue spalle, la sete si era già fatta sentire ed i piedi poco allenati davano segno di stanchezza. Ma non poteva fermarsi, era pericoloso restare così allo scoperto. Doveva continuare. Almeno fino ad un posto sicuro. Sentì delle voci e si nascose dietro ad un tronco. Nei suoi piani lei si alleava con Erik ed Emily, sarebbe stata una Favorita. Eppure ora stava scappando. Altro che Favorita, se avesse continuato così sarebbe stata da sola per tutta la durata degli Hunger Games! Toccò con le dita tremanti la spilla a forma di farfalla che portava appuntata sul petto. Un rumore. Cercò di calmare i polmoni ed il cuore e trattenne il respiro. Quel suono l’aveva già sentito e sembrava vicino. Era il suono melodioso di un ruscello e, dove c’è un corso d’acqua, solitamente c’è anche un lago, o un mare. Avrebbe potuto fermarsi lì. Si incamminò nuovamente. Dal suono cristallino, il fiumiciattolo non doveva essere troppo lontano, avrebbe potuto bere e riposarsi. Mentre camminava si guardò intorno. Gli alberi erano altissimi e dritti, le chiome folte non lasciavano passare la luce. L’erba rada e umida sul terreno non permetteva la nascita di fiori, né lasciava che piccoli animali creassero delle tane. Se avesse voluto mangiare, Rosaline sarebbe dovuta uscire dalla foresta.
***
“Emily! Emily!” un urlo continuo rompeva il silenzio che si era appena creato vicino al corno d’oro. Una decina di corpi senza vita era ammucchiata vicino ad un grosso albero cavo. Le provviste erano state riposte in tre zaini, uno per ognuno dei rimasti. Armi in spalla e le mani strette per suggellare un patto di alleanza. Erano rimasti in tre: Erik, il ragazzo del Distretto 2 ed il bambino del 4. Gli altri erano riusciti a scappare.
“Emily” continuò ad urlare Erik.
“Sarà morta” lo fermò Thom, il ragazzo del Distretto 2.
“Non c’è. Se fosse morta sarebbe qui!” gli gridò in faccia l’altro. Non gli importava veramente di Emily, ma voleva sapere dove fosse andata. Preferiva tenerla sotto controllo costantemente. Non gli era sfuggito l’attacco iniziale, se Oliver non l’avesse protetta, lei sarebbe già morta. Un sospiro di delusione, un calcio ad uno zaino. Erik guardò il piccolo Ivan.
“Cosa ce ne facciamo di lui?” chiese al coetaneo.
“Non saprei. Non sembra forte, ma sostiene di poterci aiutare!” bisbigliò l’altro. Entrambi guardarono il dodicenne.
“Che sai fare?” gli chiese Erik.
“So pescare. So creare reti. So creare un capanno per rifugiarci” disse il ragazzino.
“Non che ci servano a qualcosa queste cose, ma…credo tu possa comunque rimanere insieme a noi. La ragazza che era con te….” continuò
“Lin” esclamò Ivan.
“Si, lei. Dov’è andata?”
“Non so. Il nostro Mentore le ha detto di fuggire. Lei non è molto brava nel corpo a corpo, ma è un asso sulle lunghe distanze” spiegò il ragazzino. Voleva fare buona figura con loro, con i Favoriti. Voleva essere uno di loro e per farlo doveva dire tutto ciò che sapeva.
“Qui c’è tutto. C’è da mangiare, ci sono le armi. Manca solamente una cosa essenziale” esclamò Thom osservando il corno d’oro.
“Cosa?” chiesero gli altri due in coro.
“L’acqua”. Ivan osservò a lungo i due ragazzi più grandi che, in un momento o in un altro, l’avrebbero sicuramente ucciso. Ma dove poteva andare? Rosaline non lo poteva più proteggere, non sapeva nemmeno se fosse ancora viva. Si offrì per andare a cercare dell’acqua e, preso un secchio, si diresse verso la foresta, sotto l’attento sguardo degli altri due.
***
“Stai bene?” chiese Jasmine. Erano caduti di qualche metro, ma il buio che li avvolgeva impediva di capire dove si trovassero.
“Insomma” fece Oliver, agognante. A tastoni, la ragazza si avvicinò a lui. Toccò il suo viso, le sue braccia e le sue gambe. Non sembrava avesse nulla fuori posto. Prese lo zaino e frugò velocemente, fino a trovare una piccola torcia. La accese e visitò l’amico. La sua espressione lasciava trasparire tutto il dolore che provava. Non aveva comunque deformazioni. Un piccolo taglio sulla testa che fu subito fasciato, una spina incastrata in un fianco che fu tolta. Era ancora intero.
“Nulla di grave” gli disse alla fine della visita.
“Non riesco ad alzarmi” si lamentò Oliver.
“Probabilmente è la botta. Stai giù un momento, cerco un po’ di acqua o qualcosa di freddo per far passare il dolore”. Si alzò, lasciando il giovane alleato da solo ed al buio. I rumori della foresta, ormai, non la spaventavano più. Cominciava a capire l’umore dei poveri animali che abitavano quel luogo tetro, quelle canzoni tutt’altro che melodiose dovevano essere i loro lamenti. Con i piedi tastò il terreno molliccio. Staccò un pezzo di corteccia, prese qualche foglia dai piccoli cespugli che crescevano indisturbati e tornò dal compagno. Appoggiò con delicatezza le foglie umide sulla schiena del ragazzo e staccò con le unghie la resina dalla corteccia. Dall’odore le era sembrato di conoscere quell’albero e, se non sbagliava, quella resina doveva servire come anestetico. Quindi la spalmò dolcemente sui lividi dell’amico.
“Così dovrebbe bastare, prova ad alzarti” disse gentilmente, porgendogli una mano. Oliver non ebbe troppi problemi a tirarsi in piedi, la schiena gli doleva, ma era un male sostenibile.
“Siamo alleati, vero?” chiese
“Ovvio” rispose Jasmine, stranamente sicura di sé. Tornarono a camminare, dovevano trovare un posto in cui riposarsi.
***
Rosaline aveva trovato l’acqua. Era un piccolo lago e, dalle sue profondità, si poteva entrare in alcune grotte. Sempre umide, ma almeno sicure. La ragazza ne scelse una e si stese per riposare. L’umidità era al massimo, in pochi minuti iniziarono a farle male tutte le ossa, ma non le importava. Doveva pensare ad un piano. I più forti, senz’altro, erano Erik, Emily e Thom. Ivan era di sicuro con loro.
“Lin” sentì. L’eco continuò a chiamare il suo nome nella grotta. La ragazza prese una pietra e nuotò verso l’esterno. Aveva riconosciuto la voce del suo compagno di Distretto, ma non poteva sapere se fosse stato solo. Magari era una trappola. Trattenne il respiro a lungo e studiò quella parte di superficie che dalla sua postazione riusciva a vedere. Vide Ivan. Era solo. Uscì dall’acqua e lo chiamò.
“Cosa ci fai qui?” chiese con una nota di malinconia nella voce.
“Ti cercavo!” rispose il ragazzino.
“Si, ma perché?”
“Voglio allearmi con te. Mi fido solo di te!” disse Ivan. Rosaline ci pensò per qualche secondo. Guardò negli occhi quel giovane Tributo. Le ricordava così tanto suo fratello Marc. Accettò la proposta del giovane.
“Possiamo allearci anche con i Favoriti. Prima parlavano di te” confidò “ti temono. Perché ti vedono sicura”
Lei rise “Se sapessero cosa mi passa veramente per la testa non avrebbero paura ad uccidermi” esclamò con tristezza. Quello che loro chiamavano “sicurezza”, non era altro che una maschera che i suoi occhi assumevano quando parlava con gli altri. Quando era calma e tranquilla nonostante le avversità era rinchiusa semplicemente nel suo mondo di fantasia.
“Quindi staremo qui da soli?” chiese ancora Ivan.
“No. Usiamo al meglio le nostre conoscenze, torniamo da loro. Saremo al sicuro ed avremo sicuramente più sponsor!”
Il ragazzino sorrise. Immerse il secchio nell’acqua cristallina del lago e si inoltrò nuovamente nell’oscurità della foresta.
***
Emily era tornata al corno d’oro con le braccia graffiate ed un espressione di puro odio dipinto sul volto. Era sicura che i Favoriti non si sarebbero mossi ma, quando arrivò al luogo di partenza, lo trovò vuoto, silenzioso. Le provviste e tutti gli zaini erano stati spostati. Non era rimasto nulla al di fuori di qualche coltello. Li raccolse e li sistemò in tasca. Legò i capelli ed iniziò a cercare Erik. Non poteva essere andato lontano, non con tutto quel peso sulle spalle. Seguì il percorso di mele che i due ragazzi si erano lasciati indietro. Entrò nella foresta. Non poteva urlare, se l’avessero sentita sarebbe morta all’istante. Doveva riuscire a ritrovare i suoi compagni senza essere sentita, senza fare il benché minimo rumore. Continuò a proseguire sempre dritta, nonostante le mele non ci fossero più. Continuò fino ad una parete di roccia. La terra sotto i suoi piedi si sdrucciolò e la ragazza fece un volo di qualche metro, atterrando in malo modo. Non sentiva più un braccio, la testa le doleva, non riusciva a muovere una gamba. Se fosse rimasta lì sarebbe morta di sicuro, eppure non poteva trascinarsi sulle foglie secche, avrebbe fatto troppo rumore, né tantomeno chiedere aiuto.
“Ti sei persa, principessa?” chiese una voce maschile. La conosceva, ci aveva parlato a lungo.
“Oliver” disse solamente. Non ebbe nemmeno il tempo di urlare che la freccia del giovane le trapassò il cuore. Il corpo della giovane Emily fu mosso dai tremiti, il sangue sgorgava dalla ferita e, nel giro di due secondi, gli occhi verdi e pieni d’odio diventarono vuoti. Era morta.
***
Erik e Thom si fermarono vicino alle rive del fiume. Lì avrebbero avuto riserve d’acqua abbondanti e non avrebbero dovuto far affidamento su un ragazzino. Lasciarono cadere gli zaini che erano rimasti nel corno d’oro, le scorte di cibo e le armi. Non avevano lasciato nulla incustodito. Riempirono alcune borracce d’acqua e bevvero. Si bagnarono la testa ed il corpo. Fuori dalla foresta umida e tetra il sole batteva forte e rendeva ogni cosa incandescente. Stava scendendo la sera, la luce diventava sempre più fioca, il sole stava andando a dormire. Una giovane dai capelli rossi si avvicinò ai due ragazzi di soppiatto. Due lance la fermarono immediatamente.
“Katherine!” urlò Thom, abbracciando la fanciulla rossa che proveniva dal suo stesso Distretto “pensavo fossi morta!”
“Ma quando mai? Si vede che mi conosci poco!” disse lei. La voce acuta, il tono mitigato dalla rabbia per essere stata abbandonata. Erik la esaminò attentamente. I capelli erano lisci e di un rosso brillante, lo stesso colore del fuoco e del sangue. Aveva un viso scheletrico ed appuntito, la carnagione chiara e gli occhi erano grandi e spiritati, dello stesso colore del mare in tempesta.
“Allora, montiamo le tende?” chiese incontrando quegli occhi tanto curiosi. Erik annuì e, alzatosi, sistemò in un angolo tutte le cose rubate agli altri Tributi.
***
La sera era calata, i giovani rimasti avevano trovato un posto sicuro per passare la notte ed i corpi dei Tributi morti erano stati recuperati dagli hovercraft di Capitol City. L’inno di Panem iniziò la sua melodia, nel cielo nero e con poche stelle comparvero uno ad uno i morti della prima giornata.
Emily Keys, Distretto 1; Kristine Mcanzy, Distretto 3; Karen e Yan Percey, Distretto 5; Hugo Long, Distretto 7; Paul Kreen, Distretto 8; Igor Mitrey, Distretto 9; Jessica Young, Distretto 10; Ivanna Youta, Distretto 11; Helen Noose e Kevin Queen, Distretto 12. Undici ragazzi deceduti a causa della carneficina iniziale.
Oliver e Jasmine, al sicuro nella piccola grotta che avevano trovato, si strinsero quando videro le fotografie dei loro compagni morti. Solo la ragazza versò qualche lacrima per l’amico. Oliver la strinse a sé, voleva farla sentire protetta, voleva renderla felice nonostante la cattiveria di quei giochi brutali.
Rosaline, accucciata sul ramo di un albero insieme ad Ivan, guardò le immagini dei morti con soddisfazione. Emily era morta e lei avrebbe potuto tornare indisturbata tra i Favoriti. Sarebbe riuscita senza problemi a sbarazzarsi dei due ragazzi del 2.
Erik guardò il cielo notturno dalla sua postazione di guardia. I gufi si stavano svegliando, mentre gli uccellini cantavano la ninna nanna ai loro piccoli. Il ragazzo guardò i nomi stampati tra le stelle fiero di non essere tra essi. Gli dispiaceva un po’ per Kristine, simpatica e bellissima, e per Emily. Ma sapeva già della sua morte, l’aveva sentito nel momento stesso in cui il suo cuore aveva smesso di battere. E, nonostante i 2 anni che avevano passato insieme ogni minimo secondo, non ci stava male. Si sentiva più leggero.
******

L'ANGOLO DI *L*

Ciaoooo!! Dopo tanto tanto, ma veramente tanto tempo sono tornata! Contenti?? (domanda retorica, non rispondete)
Cooomunque! Ho avuto qualche problema con il computer (non ancora risolti in realtà), ma sono riuscita ad aggiornare quella che io oso chiamare STORIA. 
Spero vi piaccia (o, più che altro, che non vomitiate troppo! =P )
Un bacionee!!

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Capitolo 6
*** Il Destino ***


6 - Il Destino




Il sole risplendeva, era la seconda giornata che i Tributi passavano nell’arena. Undici di loro erano già tornati nei propri Distretti, dalle proprie famiglie, almeno con le loro anime. Gli altri avrebbero dovuto patire ancora a lungo, finché i cittadini di Capitol City non si sarebbero stancati di vederli. Erik, Thom e Katherine accesero il fuoco per preparare la colazione. Non temevano imboscate da parte di altri Tributi, loro erano i Favoriti e solo gli stolti si sarebbero messi contro di loro. Un fumo leggero si diresse verso il cielo sereno, l’odore di bacche, fiori e pesce si sparse per qualche decina di metri.
“A noi” urlò Katherine, alzando la borraccia per l’acqua e prendendone una lunga sorsata.
Gli altri la imitarono, pur senza urlare.
Rosaline ed Ivan, dall’alto del loro albero, sentirono sia il profumo di cibo che il brindisi allegro. La ragazza impugnò il piccolo arco che il compagno portava a tracolla, costruì velocemente qualche freccia e si incamminò verso il luogo dei festeggiamenti. Solo i Favoriti potevano essere così sciocchi da accendere un fuoco ed iniziare una festa in piena regola sulle rive del fiume. Osservò protetta dalla chioma di un albero. Erano solamente in tre, come già aveva previsto.
“Quello più alto, Thom, è il capo” bisbigliò il giovane Ivan. La vicinanza con il ragazzino le diede fastidio, quando cacciava o pescava era sola. I mocciosi la distraevano e lo stesso stava facendo quel ragazzino.
“Ho bisogno di spazio” disse facendogli capire di allontanarsi anche di qualche metro da lei. Quando tornò a mirare, l’allegra combriccola era già scomparsa. Si guardò in giro, ma non trovò più nessuno. Così, con uno sbuffo, scese a terra, maledicendo l’intrusione di Ivan.
“Cosa facciamo?” le chiese il dodicenne quando l’amica toccò terra.
“Iniziate a dirci da quanto tempo ci spiate” rispose la voce acuta di Katherine Williams. Rosaline si girò di scatto, ma la ragazza del 2 fu più svelta ed estrasse un coltello lungo ed affilato.
“Volevamo unirvi a voi” disse Rosaline.
“E per unirvi a noi pensavate di ucciderci?” continuò l’altra “forse non avete capito bene chi siamo noi!”
“Un gruppo di incoscienti che si crede alla vetta del mondo, ma senza un reale potere” fece la ragazza, la schiena dritta e gli occhi castani fissi in quelli blu di Katherine.
“Ti credi tanto furba. Ma sei molto sopravvalutata!” urlò la giovane rossa, saltando alla gola della rivale e sfiorando con il coltello il suo viso. Un leggero rivolo di sangue colò dalla guancia di Rosaline.
“O forse sei tu che mi sottovaluti!” bisbigliò la ragazza, spingendo all’indietro l’avversaria e facendola cadere a terra. Tese l’arco e puntò la giovane nemica, pronta a scoccare la freccia che l’avrebbe uccisa.
***
Oliver andò in ricognizione. Aveva trovato qualche bacca, ma non bastava per rimettersi in forze dopo un’intera giornata di digiuno. E poi, avevano bisogno d’acqua. Secondo le informazioni suggerite dalle voci della foresta, i Favoriti erano proprio sulle rive dell’unico fiume della zona. Sarebbero morti o di sete o per mano loro. La voce di Jasmine lo richiamò all’accampamento che erano riusciti a costruirsi. Un tetto sopra la testa, un piccolo tavolo, un fuocherello acceso. La ragazza appuntiva i piccoli paletti che servivano per la difesa, mentre gettava qualche legnetto secco sul fuoco e bolliva una pentola contenente un liquido rosato.
“Cos’è?” chiese Oliver assaporandone l’odore amaro.
“Succo di ribes” disse lei, lanciando un paletto a grande velocità e colpendo uno scoiattolo sfortunato. Il ragazzo sgranò gli occhi, non se lo sarebbe mai aspettato da lei.
“Cosa pensavi che da noi non si caccia? Ho cinque fratelli più piccoli da mantenere, è normale che mi fossi trovata un secondo lavoro!”
“Certo, non ti giudico! Solo che…” fece il ragazzo, senza riuscire a trovare le parole giuste per continuare il tuo discorso.
“Solo che non te lo saresti mai aspettato da una ragazzina timida e gentile come me” finì lei con un sorriso “le apparenze ingannano”
Oliver annuì, ancora scosso per la precisione con cui il paletto di legno aveva colpito l’animale, quell’unica forma di vita che vedevano da ore.
“Mangi?” chiese Jasmine, offrendo una coscia cruda dell’animale. Lui negò con la testa e tornò ad escogitare un piano per poter prendere l’acqua.
Il rumore di un ramo spezzato attirò l’attenzione dei due Tributi che si girarono all’unisono. Una ragazza si avvicinava furtiva al loro zaino, la loro unica ancora di salvezza. Fu un solo attimo, poi la giovane cadde all’indietro ed i suoi occhi grigi divennero bianchi. La freccia di Oliver aveva colpito il suo cuore ed il colpo di cannone partì nel momento stesso in cui l’ultimo respiro fu esalato.
***
“Non so se ti conviene ucciderla” disse la voce possente di Thom. Il suo ghigno faceva ribollire il sangue della giovane Rosaline, ancora in piedi e con la freccia puntata alla gola di Katherine. Guardò un attimo i due nuovi arrivati ed abbassò l’arco.
“Rosaline” fece in tono monotono Erik.
“Erik” lo imitò lei.
“Oh, ecco dove eri finito tu! Sei andato a rifugiarti dietro le sottane della tua amichetta” urlò Thom, prendendo il giovane Ivan dai capelli.
“Lascialo andare” disse Rosaline con tono calmo. Nei suoi occhi si leggeva una sicurezza immensa, le sue labbra erano curvate in un sorriso ironico.
“Altrimenti?” chiese il ragazzo, ridendole in faccia. Gli occhi di Rosaline incontrarono quelli di Erik. Nel giro di due secondi avevano estratto entrambi le armi e prendendo i Tributi del 2 alla sprovvista li uccisero. Una freccia conficcata nello stomaco di Katherine che si lamentava ancora nonostante i tremiti. Uno squarcio nella gola di Thom, causato dalla lama affilata della lancia di Erik. In un moto disperato Katherine lanciò il coltello, poi anche le ultime forze la abbandonarono ed il suo corpo si spense.
“Grazie, non sopportavo più le chiacchiere di quei due!” esclamò il ragazzo, tastando il graffio provocato dal coltello.
“Nulla. Ivan stai bene?” chiese al dodicenne immobile per la paura. Un cenno di assenso rassicurò la compagna. “Stai sanguinando” disse poi al giovane uomo che le stava di fronte.
“Un graffio” rassicurò lui. Ma non era così. La lama del coltello era riuscita ad incidere il muscolo ed il sangue usciva a fiotti dal braccio del ragazzo. Nel giro di qualche ora sarebbe morto dissanguato.
***
“Abbiamo bisogno d’acqua” si lamentò Oliver.
“Andiamo a prenderla” disse semplicemente Jasmine. Lui la guardò. Come poteva essere così imprudente?
“Invisibili. Il mio Mentore mi ha insegnato come riuscirci, non è difficile. Gli alberi sono dalla nostra parte!” spiegò.
Si arrampicò velocemente sul tronco più basso, raggiunse il primo ramo e si disperse tra le foglie della chioma folta. L’unico rumore era il fruscio del fogliame, ma avrebbe potuto essere anche il vento. Caricato lo zaino in spalla, Oliver la imitò, anche se con parecchie difficoltà. Lui era più pesante di Jasmine, meno esperto e, sicuramente, non era invisibile. La sua agilità sulla terra ferma non lo aiutava sui rami, le vertigini ed un forte senso di nausea si impossessarono velocemente di lui.
“Vai avanti tu” urlò alla compagna, che aveva già percorso qualche albero.
“Non ti lascio solo” disse lei, tornando indietro ed aiutando l’amico.
Averla così vicina lo fece arrossire. Il giorno precedente, nonostante avessero dormito insieme, non aveva ancora chiaro che fossero solo loro due.
“Hai caldo?” gli chiese lei stupidamente. Lui scosse la testa. Vedeva solo lei, sentiva solo la sua voce ed il suo profumo. Tutto il resto era scomparso. La nausea, l’altezza, la foresta, l’arena. Esistevano solo loro due. Ragionando con il cuore e sconnettendo il cervello chiacchierone, Oliver accarezzò i capelli biondi di Jasmine e la baciò. Un bacio fulmineo ma che bastò a mettere le carte in tavola. La ragazza si allontanò di scatto. Come aveva potuto baciarla, tradire la sua amicizia? Lui era solo un amico, non poteva essere nulla di più.
“Mimi” riuscì a sentire prima di saltare da un ramo all’altro più velocemente possibile.
***
“Non so cosa fare” urlava Rosaline, messa alle strette dalla ferita dell’alleato. Aveva provato a fasciarla, disinfettarla, annacquarla, ma non aveva funzionato nulla. Il sangue continuava ad uscire copioso e l’amico stava sempre più male. Gli era anche salita la febbre.
“Lascia stare. Grazie per tutto, cerca di vincere e di a mio padre di fare meno cazzate e prendersi più responsabilità!” disse Erik in tono tragico.
Ivan faceva avanti ed indietro dalle acque del lago poco distante, riempiva una bacinella ricavata dalla corteccia di un albero e la portava al capezzale degli amici.
“Sta morendo?” chiese alla compagna di Distretto, osservando il viso pallido del giovane.
“Credo di si” rispose lei, asciugandosi la fronte con una manica della tuta lurida e sporca. Appoggiò un pezzo di stoffa bagnata sulla fronte del ragazzo e si riposò. Non poteva fare più di così, se il Destino voleva la morte di Erik, lei non poteva mettersi in mezzo.
***
Il suono del ruscello, l’aria più calda, la vista del sole. Jasmine correva veloce tra i rami e non riuscì a fermarsi quando finirono. Fece un salto di due metri, riuscendo a centrare la pozza d’acqua che formava un lago cristallino. Non era capace di nuotare ed ebbe difficoltà a tornare in superficie. Chiese aiuto, sicura che fosse un’idea sbagliata. Secondo le voci degli altri Tributi, sulle rive del lago si erano appostati i Favoriti. E chiamare aiuto li avrebbe sicuramente portati da lei. Ma preferiva morire uccisa da una lancia piuttosto che affogare. Le mancarono le forze, le correnti erano troppo insistenti per il suo corpo affamato e mingherlino. I suoi muscoli erano stanchi. Affondò nelle acque calde del lago, il fondale sembrava lontano. Perse i sensi, sapeva che la morte era vicina e l’accolse, rivedendo per l’ultima volta le immagini dei suoi famigliari.
Uno schiaffo e qualche spintone svegliarono Jasmine, sdraiata inerme sull’erba fresca. Si girò e vomitò gran parte dell’acqua ingerita. Aprì gli occhi, insicura di dove si trovasse o con chi fosse. Si guardò intorno, ma non vide nulla di sospetto. Era sulle rive del lago, magari la corrente l’aveva portata fino a lì. Ma chi l’aveva svegliata? Si alzò barcollante e guardò verso il fuocherello scoppiettante. Aveva trovato i Favoriti. Ma non erano messi molto meglio di lei, sembravano bisognosi di aiuto. Il dodicenne del Distretto 4 lo conosceva, più di una volta si era allenata con lui. Si chiamava Ivan ed era un ragazzino simpatico, ma molto fifone. Per poter riconoscere gli altri due dovette avvicinarsi e saltò all’indietro spaventata quando scoprì le loro identità. Durante gli allenamenti l’avevano spesso sfidata e lei, piccola ed insicura, aveva sempre perso. La femmina, Rosaline, era intelligente. Riusciva a trovare tutti i punti deboli dell’avversario prima ancora che quello si muovesse. Ed il ragazzo, Erik, era agile e furbo. Nonché forte. Il più forte del campus nel corpo libero. Però non la stavano attaccando. Guardò meglio: Rosaline stava accucciata in un angolo, davanti a sé aveva una sottospecie di bacinella piena d’acqua. E con un pezzo del suo vestito bagnava la fronte al ragazzo. Jasmine si avvicinò, i timori iniziali erano svaniti, quei due avevano bisogno d’aiuto.
“Cosa è successo?” chiese alla ragazza.
“L’hanno ferito con un coltello” rispose lei senza forze. Sembrava affamata, se avesse voluto avrebbe potuto anche mangiare Jasmine.
“Avete un ago o qualcosa di appuntito?” domandò nuovamente. Ivan si avvicinò agli zaini e recuperò una piccola scatola. Al suo interno c’erano bende, disinfettante ed un sottile pezzo di ferro.
“Può andare bene, grazie” disse guardando il ragazzino.
“Cosa pensi di fare?” esclamò allarmata Rosaline.
“Il mio lavoro. Cucio!”
Sterilizzò quell’ago improvvisato sulla fiamma del fuoco, come filo usò dell’erba intrecciata. Abbassò piano la fasciatura inzuppata di sangue, lavò la ferita per vedere le due estremità da cucire e si fermò. Le condizioni del braccio erano pessime, un chirurgo avrebbe deciso di tagliarlo per evitare la diffusione del veleno.
“Posso vedere il coltello?” chiese guardando Rosaline. Lei glielo passò, lentamente. Non capiva cosa volesse provare a fare quella ragazzina, quel medico improvvisato.
“Questa sostanza sulla punta è veleno. Proviene da un fiore. Avrò bisogno di quello stesso fiore per combatterlo” spiegò concentrata “Dovrebbe essere di colore rosa, è piccolo e ha tre fasce di petali. Se non sbaglio cresce vicino ai posti caldi. Di solito sui vulcani, ma qui dovrebbe esserci una corrente di acqua calda”
Non fece nemmeno in tempo a finire la frase che Rosaline ed Ivan si alzarono e si allontanarono dai due ragazzi, diretti verso la grotta sotterranea che avevano scoperto solo la giornata precedente. A memoria, Rosaline ricordava di aver sentito la mano scottare, era sicura che la corrente calda dovesse essere lì vicino.
Si buttò in acqua senza esitare, non sapeva perché stava aiutando quel giovane con la sua stessa voglia. Lo chiamava Destino, ma forse era qualcosa di diverso. Sentiva di essere in qualche modo unita a lui, provava un sentimento diverso. Non era amore, no, quello lo conosceva. Era singolare, meno dolce o selettivo, più comune. Era amicizia. Ivan era rimasto indietro. Non si preoccupò troppo per lui, tutti nel Distretto 4 sapevano nuotare. Si spostò velocemente sott’acqua, raggiunse la grotta e rintracciò il punto esatto della fonte di calore. Poco più avanti la roccia terminava in un precipizio. Aria bollente saliva dalle profondità buie di quel burrone. Non serviva scendere fino in fondo, Rosaline lo vide subito quel particolare fiore rosa. Doveva essere lui, non poteva essere altrimenti. Tornò indietro con due di quei rampicanti spinosi tra le labbra, nuotò veloce tanto da rimanere senza fiato. E poi corse sulla terra ferma, fino a raggiungere quella strana infermiera che non si era distinta al campus ma che, a quanto sembrava, aveva delle doti nascoste. Una lattina d’acqua stava bollendo sul fuoco, Erik tremava e goccioline di sudore gli imperlavano il viso. Appena li vide arrivare Jasmine prese i fiori e li spremette nell’acqua. Aggiunse una polverina bianca e mischiò con un bastone, finché il contenuto della lattina divenne denso. Poi lo versò sul muscolo del ragazzo agonizzante, stendendolo con qualche foglia verde. Il sangue aveva smesso di scorrere, forse per il calore di quella singolare pomata. Lentamente la febbre diminuì, così come i  tremiti.
“E’ morto?” chiese Rosaline. Jasmine pose la testa sul petto del ragazzo e sentì il cuore.
“No” disse solamente. Un sospiro di sollievo provenne dalla diciassettenne, che si voltò verso gli zaini, l’angolo di Ivan come lo chiamava lei. Ma lui non c’era. Scattò in piedi allarmata, dov’era finito? Cominciò a chiamarlo, corse di nuovo verso il lago, urlò il suo nome, ma di lui nemmeno l’ombra. Poi arrivò. Il colpo di cannone. Nel suo cuore, Rosaline sapeva che quel colpo non era stato sparato per Erik, o per un altro Tributo. Era stato sparato per Ivan. Pianse lacrime amare, lui si fidava di lei e lei lo aveva lasciato morire. Aveva permesso all’acqua, al suo elemento, di portarlo via, l’aveva tradito. Non riuscì a tornare all’accampamento, rimase ferma sulle rive del lago, a piangere e ripensare al suo giovane amico. Nonostante lo conoscesse a malapena, il legame invisibile dell’amicizia l’aveva legato a lei. E non si sarebbe sciolto con la sua morte. Si tuffò in acqua, voleva per lo meno ritrovare il suo corpo. Voleva riportarlo a riva, così che l’hovercraft di Capitol City potesse riportarlo alla sua famiglia. Per la prima volta, l’acqua le era nemica.
***
Erik si svegliò dal suo stato di coma. Non riusciva a muovere il braccio, ma almeno era riuscito ad aprire gli occhi. Era notte, le stelle brillavano nel cielo ed il fuoco si stava spegnendo. Rosaline ed Ivan erano spariti ma, al loro posto, c’era lei. La ragazza che aveva rapito il suo cuore e non l’aveva ancora restituito. Sapeva che si chiamava Mimi, ma nulla di più. Il suo compagno di avventure doveva essere morto, altrimenti non l’avrebbe mai lasciata. Sorrise. Oliver non gli avrebbe più messo i bastoni tra le ruote, finalmente aveva campo libero con lei. Si alzò seduto con molta fatica e tese la lancia. Nonostante il suo cuore la credesse innocente prima di ogni altra cosa, lui non poteva sapere cosa ci facesse realmente lì. Lentamente puntò la lancia alla gola di Jasmine, ma senza risultato. Lei, prontamente, estrasse i coltelli e bloccò l’arma di Erik.
“Guarda chi si è svegliato! Stai bene?” chiese con la voce impastata dal sonno. Buttò ancora qualche legnetto sul fuoco prima di alzarsi e stendersi. Si era addormentata quando aveva il compito di vegliare sul Tributo agonizzante. Rosaline non era ancora tornata, Oliver si era perso per la foresta. L’avrebbe voluto al suo fianco, eppure era contenta anche che fosse lontano. Con quel bacio aveva diviso le loro strade.
“Cosa fai qui con noi?” domandò ancora Erik.
“Ho sentito la paura di Rosaline e sono arrivata. Lei ha salvato me ed io te” disse toccando la ferita. Il sangue aveva ricominciato il suo corso e sgorgava abbastanza copioso.
“Farà male” continuò la giovane, estraendo l’ago e sterilizzandolo nuovamente sul fuoco. Come filo usò una manciata di fili d’erba intrecciati tra loro. Iniziò a bucare la carne, sentì le grida di dolore trattenute dal ragazzo. Ma era per il suo bene, avrebbe dovuto cucirgli la ferita se non voleva perdere il braccio.
***
Oliver si appoggiò al tronco di un albero. Era notte, era stanco, ma non poteva fermarsi a riposare. Doveva ritrovarla, doveva proteggerla. E poi doveva bere. Continuava a ripetersi di resistere e muoveva macchinalmente i piedi. Prima uno, poi l’altro. Ormai sentiva il corso del fiume vicinissimo, stava arrivando. Guardando il cielo si era assicurato che Jasmine fosse ancora viva. Erano morte quattro persone quel giorno: Thom Tomphson e Katherine Williams, Distretto 2; Ivan Green, Distretto 4; Melody Rivers, Distretto 6.
Oliver cadde a terra, esausto. Era notte, voleva dormire. Allungò una mano e quando la ritrasse era fredda e bagnata. L’acqua. Era riuscito ad arrivare al fiume. Si catapultò sulle rive con l’ultima riserva di forze che gli erano rimaste e svenne.
***
Rosaline aveva finalmente trovato il corpo del suo piccolo amico. Non era affogato perché non sapeva nuotare, sulla caviglia aveva uno strano segno. Come se un grosso animale l’avesse trascinato verso i fondali. Lì dove effettivamente era rimasto per tutto il pomeriggio. Lo distese sull’erba umida, gli chiuse gli occhi. La sua espressione dava uno stato di pace che negli Hunger Games non doveva nemmeno esistere. Gli giunse le mani davanti al petto e vi inserì uno dei fiori rosa che erano andati a cercare. Pianse. Ma poi capì che Ivan aveva trovato ciò che a lei mancava da anni: la libertà. Ora lui non era più sottoposto a stupide leggi e regole. Si alzò, sapendo che l’hovercraft non sarebbe mai atterrato vicino ad un Tributo ancora in vita. Passeggiò sulla riva del fiume, pensando al futuro. Quel misero futuro che le prospettavano gli Hunger Games, comunque. Inciampò in qualcosa di duro, forse un sasso o forse….un corpo. Rosaline girò quel ragazzo senza sensi, lo esaminò. Era vivo. Provò a svegliarlo, ma nulla. Lo prese dai polsi e provò a trascinarlo. Solo quando il suo corpo le cadde di mano la prima volta la vide: una piccola fragola rossa. Un altro ragazzo con la stessa sua voglia. Lo trascinò con fatica verso l’accampamento.
***
“Rosaline!” urlò Jasmine vedendo la ragazza tornare. Era sudata e portava qualcosa con sé. La ragazza ripose l’ago e finì di fasciare il braccio di Erik, prima di avvicinarsi alla nuova vittima. Oliver. Alla fine, era riuscito a ritrovarla. Anche se ancora non lo sapeva.
“Che gli è successo?” chiese inginocchiandosi sul corpo dell’amico.
“Non so. L’ho trovato sulle rive del fiume” rispose Rosaline.
Jasmine sentì il cuore ed i polmoni, entrambi funzionanti. Si alzò e, con l’aiuto di una torcia, esaminò il terreno. Doveva cercare un fiore molto comune nelle zone umide il cui profumo aiutava il cervello a riattivarsi. Lo trovò ai pressi di una piccola grotta.
Oliver fece fatica a riaprire gli occhi e molto di più a mettere a fuoco la scena. Non riusciva a capire se fosse un sogno o la realtà. Davanti a sé c’erano Rosaline ed Erik, i Preferiti, e poi Jasmine. Scattò verso il suo fianco.
“Cosa fai qui con loro? Potrebbero ucciderti da un momento all’altro” le disse, osservando soprattutto il Tributo dell’1. Non si fidava di lui, ma più per una questione di cuore che per qualcosa di ragionato.
“Mi hanno salvata” esclamò la ragazza con un sorriso “e sono miei alleati, ora”. Lui la guardò con la paura dipinta negli occhi. Lo stava lasciando o voleva che anche lui si unisse a loro. La risposta venne veloce. Jasmine allungò la mano e lui la strinse. Anche lui era entrato a far parte di quel ristretto gruppo.
“Bene. Quanti siamo rimasti in tutto?” chiese Erik, che si era perso le ultime uccisioni.
“In dieci se non sbaglio” rispose seccamente Oliver. Si guardarono a lungo, poi Rosaline parlò.
“Il Destino si è compiuto e ci ha fatti riunire”
“Non è il destino che ci ha fatti incontrare, ma le urla di Katherine e la vicinanza all’acqua. Come noi altri avranno fatto gruppo” contestò Erik. Quella storia del Destino gli dava fastidio.
“Si, ma altri non sono noi. Credi sia una coincidenza che tutti abbiamo una voglia a forma di fragola sul corpo?” continuò la ragazza indisturbata. Gli altri la guardarono, curiosi. Lei alzò i pantaloni della tuta e mostro il piccolo segno rosso disegnato sulla caviglia. Jasmine la imitò, alzando la maglietta e mostrando la sua voglia, sul fianco sinistro. Oliver allungò il polso. Nonostante i graffi, la sua fragolina era ancora ben visibile. Erik guardò sorpreso quello stesso disegno su tutti e tre i ragazzi che aveva di fronte ed abbasso un poco il collo della maglietta, mostrando la sua voglia.
“Visto che le coincidenze non esistono, secondo me era Destino che noi ci incontrassimo e ci alleassimo” concluse entusiasta la giovane del 4. Attizzando il fuoco, gli altri la guardarono e le sorrisero. Nei loro pensieri si ripeteva solo una frase “che strana ragazza”, ma i loro cuori la consideravano già un’amica fedele e preziosa.
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Capitolo 7
*** L'anello ***


7 - L'anello




Il mattino ha l’oro in bocca. Ma forse in quegli Hunger Games si poteva affermare che il mattino porta con sé il profumo di pesce e mirtilli. Uno dei più dolci risvegli dell’intera settimana, sicuramente. Jasmine ed Erik aprirono gli occhi nello stesso istante e la prima cosa che videro fu la colazione pronta sui piatti ed i loro compagni in acqua a rinfrescarsi.
“Li raggiungiamo?” chiese il ragazzo, offrendo una mano alla giovane ancora stesa sull’erba. Lei lo guardò e gli sorrise, arrossendo leggermente. Prese la sua mano e si alzò, dirigendosi insieme a lui verso l’acqua fresca del lago.
“Buon giorno, dormiglioni! Se foste stati da soli, probabilmente vi avrebbero già uccisi entrambi!” rise Rosaline, immergendosi nel liquido chiaro. Jasmine rimase accucciata nel suo spazio di riva, non se la sentiva di scendere oltre. Guardava gli altri giocare e ridere, schizzarsi e scendere nelle profondità. Osservava quei nuovi amici. Oliver lo conosceva dal primo giorno in cui aveva messo piede a Capitol City. Era simpatico, si, era il suo migliore amico senza dubbio, ma nulla di più. Non voleva spezzare quel legame così puro per crearne uno diverso, più debole. Rosaline era la ragazza più intelligente e misteriosa che avesse mai visto. Quando erano ancora al campo di addestramento la vedeva appartarsi dal resto dei ragazzi e leggere un libro. Era fantasiosa e raccontava storie fantastiche. Si poteva viaggiare con il pensiero quando lei parlava. Erik era quello che conosceva di meno. Oliver le diceva spesso che di lui non ci si doveva fidare, eppure le suscitava un senso di fiducia che la stimolava ad avvicinarsi di più a lui. E poi era carino. Più di tutti i suoi amici al Distretto messi insieme.
Gli uccelli si spostarono tutti insieme e volarono dalla parte opposta del fiume, segno che si stava avvicinando qualcuno. Jasmine prese di scatto i coltelli, pronta a difendersi. Non aveva mai ucciso un essere umano prima d’allora, ma era certa che ci sarebbe riuscita in preda al panico. Una ragazza robusta ed alta si avvicinò al gruppo, una spada in bilico sul fianco ed un coltello tra le mani. Si avvicinava correndo. Jasmine provò a lanciare il primo coltello, senza successo. Non sarebbe mai riuscita a colpire un suo simile. Un urlo uscì dalle sua labbra nello stesso momento in cui la ragazza le fu troppo vicina. Chiuse gli occhi per non vedere la morte in faccia e li riaprì dopo qualche secondo, stupendosi di non sentire dolore. La ragazza che l’aveva attaccata era distesa a terra, un pugnale conficcato nella testa, gli occhi aperti che riflettevano come uno specchio l’immagine del lago. Con la coda dell’occhio guardò i ragazzi che aveva alle spalle, cercando di capire quale dei tre l’avesse salvata.
“Grazie” bisbigliò alle spalle muscolose di Erik.
“Se non sbaglio mancavo solo io a salvarti” rise lui, allontanandosi dalla ragazza. Lei sorrise. Era la prima volta che sorrideva da quando erano nell’arena. Si alzò e si avvicinò alla giovane robusta distesa sopra una pozza di fango. Nonostante avesse cercato di ucciderli, non meritava di essere lasciata così. Le chiuse gli occhi, le giunse le mani sul ventre e le decorò i capelli mossi con qualche fiore giallo. L’hovercraft sarebbe arrivato presto a recuperarla e lo zaino o le armi non le sarebbero più servite, così furono sequestrate da Jasmine. La spada era troppo pesante da sollevare, ma i coltelli ed i pugnali erano maneggevoli. Sarebbe riuscita a procurare del cibo e a rendersi utile. Guardò il contenuto dello zaino, erano rimasti una manciata di biscotti secchi ed un sacco a pelo. Molto utile considerando che le nottate erano diventate gelide dopo la prima notte. Sistemò il tutto insieme agli altri zaini e tornò nel suo posticino in acqua, lasciando tempo alla capitale per poter prendere il cadavere.
 
Era mezzogiorno, il sole era bollente ed il gruppo aveva dovuto spostarsi nella foresta, lontano dall’acqua ma al sicuro dal calore. Gli alberi erano più radi nella parte in cui si erano appostati ed il silenzio era tombale, pietrificante. Rosaline accese il fuoco mentre Oliver ed Erik andarono a far legna. Jasmine andò a caccia, i pugnali ben stretti tra le mani, i paletti legati alla cintura. Per un pelo mancò un grosso uccello, facendo scappare anche tutti gli altri. Non si era concentrata abbastanza. “Per potersi muovere nella foresta bisogna essere invisibili” le aveva detto il suo Mentore. Salì su un albero e si accucciò, in attesa della sua preda. Per caso i due compagni di squadra passarono sotto di lei.
“Non hai molte speranze con lei” disse Erik, piegandosi a raccogliere un bastoncino.
“Nemmeno tu, per quello” replicò l’altro.
“Non vedi come mi guarda? È già cotta!”
“Illuso”.
“E poi ho un asso nella manica. Non saprà resistere al mio fascino!” continuò il Tributo del Distretto 1, stringendo l’anello ancora ben chiuso nella sua tasca. Doveva solo trovare il momento giusto per darglielo e parlarle. Quando Rosaline e quel guastafeste di Oliver non erano presenti.
“Dai arma segreta, torniamo indietro prima che Lin ci venga a cercare armata di un’ascia” rise Oliver, immaginandosi la scena in cui l’amica li rincorresse armata per un loro misero ritardo.
“Era ora!” urlò la ragazza ancora in parte ad un fuoco morente “pensavo vi foste persi tra gli alberi”
“Oh, tranquilla, noi del 10 abbiamo un eccellente senso dell’orientamento” esclamò Oliver fiero.
“Certo, così come un ego enorme!” disse l’altro con tono ironico. Uno sguardo fulmineo bastò per far prendere ad entrambi direzioni diverse.
Il verso di un uccello ruppe il nuovo silenzio. Sembrava una melodia, lunga ed orecchiabile. Oliver fischiò quattro note che subito furono ripetute dagli uccelli.
“Sono Ghiandaie Imitatrici” spiegò il giovane ai due compagni “nel nostro Distretto le usiamo per richiamare gli animali”
“Molto interessante” fece Erik sarcastico. Quando Jasmine arrivò con un tacchino mezzo spennato i tre le furono subito addosso, voraci come bestie selvatiche. Non ebbe nemmeno il tempo di cuocerlo completamente che i ragazzi lo avevano divorato in pochi bocconi.
“Per fortuna che abbiamo mangiato anche questa mattina, altrimenti altro che tacchino…avrebbero mangiato anche me!” rise Jasmine, pulendo l’ultimo osso dell’animale.
“Rimaniamo in otto” esclamò Erik dopo un attimo di silenzio “se almeno uno di noi vuole tornare vivo nel proprio Distretto dobbiamo cercarli”
“Non si sta male qui” disse piano Jasmine. Era quasi meglio rimanere nell’arena con qualche amico che tornare a casa da suo padre, nonostante pregasse ogni singolo minuto per i suoi fratelli.
“Non parlare a voce alta, altrimenti questa foresta diventerà presto un inferno” la redarguì Rosaline. Detto fatto. Una scossa di terremoto smosse il terreno, gli alberi più alti si inclinarono, alcuni di essi si ruppero e caddero. Non fu molto il tempo per spostarsi. I quattro ragazzi riuscirono a recuperare le armi e poi fuggire a gambe levate. Erano diventati come tutti gli altri Tributi, non avevano più nulla. Continuarono a correre e, in qualche ora, rispuntarono nella prateria da cui erano partiti due giorni prima. Il corno d’oro risplendeva sotto il sole. Jasmine per prima uscì dalla foresta per ripararsi sotto ad esso. La foresta era diventata una minaccia, non potevano rimanere lì. Corsero insieme giusto in tempo per evitare i pesanti rami di un albero appena caduto. L’unico problema di quella prateria era l’assenza di un rifugio. Chiunque avrebbe potuto attaccarli e scappare tra gli alberi. Il terremoto cessò, probabilmente i tecnici degli Hunger Games avevano ottenuto quello che volevano. I ragazzi si guardarono intorno, alla ricerca di possibili nemici nei dintorni. Una freccia fu la risposta alle loro paure. Era stata scagliata da lontano o con poca forza, lo si poteva capire dal fatto che non aveva creato un grosso foro nel corno e la punta era ancora intatta. Guardarono verso il punto di foresta da cui era stata lanciata la freccia, ma non videro nulla. L’orecchio attento di Oliver riuscì a percepire la nuova freccia, ma non sarebbe riuscito a far scansare abbastanza in fretta Jasmine, così la protesse con il suo corpo. La punta entrò in profondità, sfiorando il cuore. Jasmine gli reggeva la testa mentre i due alleati cercavano ancora la fonte di quei colpi. Avevano individuato qualche albero le cui foglie si muovevano, ma non potevano colpire a caso. Avrebbero perso armi e nulla di più.
Mentre Oliver cercava di respirare, sdraiato a terra e con la testa appoggiata alle ginocchia dell’amica, Jasmine piangeva disperata. Le avevano portando via il suo migliore amico.
“Perché ti sei messo in mezzo?” chiese con la voce rotta dai singhiozzi. Lui la guardò, le accarezzò le punte dei capelli e le sorrise.
“Perché sei importante per me” rispose con un filo di voce. Poi chiuse gli occhi ed il suo cuore smise di battere. Il colpo di cannone arrivò puntuale e l’hovercraft comparve nel cielo nuvoloso. Un secondo colpo segnalò che anche l’altro ragazzo, quello che li aveva colpiti, era morto. Ed il suo cadavere cadde da un albero, sfracellandosi a terra e provocando un sonoro tonfo.
Erik e Rosaline corsero velocemente verso la loro amica singhiozzante. Dovettero portarla via a forza dal cadavere di Oliver. Un pezzo di loro rimase là insieme a lui, ma non piansero per la perdita. Erano gli Hunger Games, era normale che la gente morisse! Portarono Jasmine all’interno della foresta, facendo attenzione ai tronchi che intralciavano la strada. Erano rimasti solamente loro tre contro altri tre Tributi. Ormai erano agli sgoccioli e Capitol City avrebbe usato sicuramente tutta la sua tecnologia per rendere i giochi più entusiasmanti. Avrebbe scatenato tutte le sue creature più demoniache.
Stretta al collo di Erik, Jasmine continuava a piangere. Pensava ad Oliver, a tutte le volte che l’aveva salvata, agli allenamenti svolti insieme, alle cose che le aveva insegnato. E poi pensò alla sua sorellina, Anne, che sarebbe rimasta da sola. Se fosse morta lei, in ogni caso, i suoi fratelli avrebbero avuto qualcuno. Doveva essere lei nell’altro mondo, non Oliver. Perché si era messo in mezzo?
“Mimi, stai bene?” chiese Erik quando finalmente poterono fermarsi ed appoggiò a terra il corpo scosso dai fremiti della ragazza. Lei non riuscì nemmeno ad alzare gli occhi verso di lui, continuava a pensare ad Oliver, a quello che le aveva detto. Per lui era importante. Non si poteva dire che non l’avesse dimostrato. Ma non si aspettava che sarebbe morto per proteggerla, soprattutto non dopo che era fuggita dopo il bacio. Si trascinò verso un luogo più appartato, non voleva compagnia, aveva bisogno di solitudine. Nonostante ritenesse Rosaline ed Erik due buoni amici, non li voleva al suo fianco, loro non potevano capire.
Mentre Jasmine piangeva da sola dietro ad un albero, Erik andò a caccia e Rosaline costruì una capanna per proteggersi dal vento sempre più forte. Era pomeriggio, ma il sole non raggiungeva quel punto della foresta e faceva freddo. La ragazza intrecciò i rametti secchi e li fissò in modo che non cadessero al primo soffio. Poi si stese al sicuro dalle telecamere di Capitol City. Lì, nessuno li avrebbe mai visti. Ma lì, sarebbero stati una preda facile per i tre Tributi rimasti in gioco. Erano necessari dei turni di guardia per assicurarsi la sopravvivenza.
 
Le stelle erano già sorte quando Jasmine riuscì a tornare nel gruppo con un’espressione più serena. Aveva pianto tutte le sue lacrime ed aveva dato l’addio definitivo ad Oliver, ora doveva ricominciare a vivere quegli ultimi attimi che la separavano da lui. Vide con sorpresa e gioia la capanna, il fuoco acceso e, soprattutto, la cena abbondante sulle fiamme. Sorrise ai due componenti del gruppo e si sedette accanto a Rosaline, che la strinse forte a sé. Le dava sicurezza e calore.
“Meglio?” le chiese piano. Jasmine annuì.
“Vuole una coscia di cinghiale, signorina?” domandò in tono galante Erik, ridendo di se stesso. Anche le due ragazze risero, addentando la succulenta preda.
Quella sera non parlarono molto, più che altro cercarono di non creare lunghi silenzi deprimenti. Segnarono i turni di guardia e si ritirarono presto. Il primo turno sarebbe stato quello di Rosaline, che si accampò vicino al fuocherello acceso, le mani che cercavano calore nel gelo della sera. Gli altri due entrarono nella capanna.
“Mi dispiace per Oliver, so che eravate molto uniti” disse piano Erik.
“E’ andato in un posto migliore” fece Jasmine alzando le spalle.
Il ragazzo aprì bocca un paio di volte, senza riuscire a dire nulla. Avrebbe voluto confortarla, ma non trovava le parole ed il suo corpo sembrava diventato di pietra. Si ricordò dell’anello e sorrise a se stesso.
“Credo di avere una cosa che ti appartiene” esclamò estraendo il piccolo cerchio d’oro dalla tasca dei pantaloni. Lo girò due volte tra le dita, prima di porgerlo all’amica.
“Apparteneva a tua madre?” si informò. Lei annuì, negli occhi brillava una scintilla di gioia “raccontami di lei” continuò Erik.
“Era una donna bellissima, con gli occhi blu ed i capelli del colore del grano. Mio padre dice che era la più bella di tutto il Distretto. Io ricordo che era molto premurosa. Ogni volta che io o i miei fratelli ci facevamo male lei pensava subito a curarci. Era un’infermiera abile e mi ha insegnato molte cose. Anche a cucire. Era adorata da tutte le sue colleghe al filatoio, era dolce, simpatica, burlona e molto estroversa” raccontò la ragazza, sorridendo ad ogni ricordo della madre che le passava per la testa.
“Le somigli?”
“Forse nell’aspetto fisico. Ma nel carattere siamo opposte. Avrei sempre voluto essere come lei ma…lei era perfetta ed io…beh, io sono io!” disse assumendo un’espressione di rassegnazione.
“Non so come fosse tua madre, ma posso dire che anche tu sei perfetta” si lasciò sfuggire il ragazzo. Jasmine lo guardò, sorpresa. Lo vide arrossire nella poca luce che filtrava dai rami ed arrossì anche lei.
“G-grazie” riuscì solo a dire. Abbassò il viso ed osservò l’anello che aveva in mano. Finalmente si era riunita a quell’ultima parte che le rimaneva di sua madre. E tutto grazie a quel ragazzo.
“Dove l’hai trovato?” chiese dopo qualche minuto di silenzio “l’avevo perso”
“Diciamo che conoscevo la mia compagna e sapevo di cos’era capace. Mi ha raccontato il piccolo malinteso tra voi della prima sera e mi sono ricordato che tu cercavi qualcosa. Era incastrato in un tombino pieno di cartacce” sorrise. Era bellissimo con quei denti candidi e la pelle leggermente abbronzata. Sembrava un adone dell’antica Grecia.
“Raccontami un po’ di te. Io ti ho parlato di mia madre, parlami della tua” disse Jasmine per togliersi dall’imbarazzo.
“Beh…non l’ho mai conosciuta. È morta il giorno in cui io sono nato. Un parto difficile. Mio padre non parla mai di lei, forse non l’amava davvero o forse soffre ancora troppo. So che era una bella donna e di nobili origini, nel senso che era molto ricca” spiegò sorridendo “non era buona d’animo come la tua, era piuttosto esigente e caparbia, a quanto ho sentito dire. E spesso cambiava strada quando vedeva un barbone. Diciamo che la caratteristica del Buon Samaritano non l’ha nessuno nella mia famiglia”
“Magari era caparbia o voleva sembrare viziata per nascondere qualcosa di più profondo. Se non sbaglio tuo padre è sindaco. Magari alla moglie di un sindaco non è permesso essere gentile con tutti, deve essere sempre al centro dell’attenzione!” esclamò Jasmine, perdendosi nelle sue fantasie romantiche.
“Perché vuoi vedere il buono negli altri anche quando non c’è?”
“Perché non voglio credere che al mondo ci sia solo male. Ognuno ha qualcosa di eccezionale in sé. Per esempio, Oliver credeva che un giorno sarebbe finita la guerra, Rosaline racconta storie magnifiche, tu sei in grado di proteggere le persone in difficoltà…”
“E tu sei magnifica” finì lui. Non gli sfuggì l’imbarazzo che si impossessò di lei, i suoi occhi azzurri gli sfuggivano. Con l’indice le alzò il mento, voleva inebriarsi di quel blu così puro, quel rosso che tingeva le sue guance pallide, quelle piccole lentiggini che circondavano il viso, quelle labbra rosee che avrebbe tanto voluto baciare. E lo fece, eliminando ogni pensiero dalla sua mente. Lentamente i loro visi si avvicinarono e le loro labbra si unirono. Un bacio puro che non desiderava altro e che voleva godersi il momento. Un bacio romantico che allontanava tutte le paure. Un bacio incredibile che non sembrava parte della realtà. Fu proprio perché non sembrava reale che Erik cercò la mano di Jasmine e, quando la trovò, le loro dita si intrecciarono, si strinsero per darsi sicurezza reciproca. Non serviva altro per renderli felici e completi. E quando le labbra si staccarono, si incontrarono gli occhi che, silenziosamente, parlavano e brillavano. La notte era ancora giovane, non serviva dormire per riposare. Passarono quel momento di veglia in cui Rosaline aveva il turno abbracciati l’uno all’altra, bisbigliando tra loro e ridendo in silenzio, per non essere sentiti, per non essere scoperti. Capitol City non meritava la loro storia d’amore, era troppo vera e pura per i loro occhi. Troppo bella, troppo grande, troppo irreale, troppo magnifica, fantastica, eccezionale…troppo e basta.
E mentre i due piccioncini restavano stretti nella capanna, Rosaline sorrideva felice davanti agli ultimi rametti infuocati. Nemmeno la sua fantasia avrebbe potuto creare una coppia più azzeccata di Erik e Jasmine. Si godette quel momento di gioia perché sapeva già che non sarebbe resistito ancora a lungo.
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Capitolo 8
*** Gli ibridi ***


8 - Gli ibridi





Passarono intere giornate senza che qualcuno morisse. I Tributi non avevano nessun’intenzione di uscire dai loro nascondigli per affrontare gli altri e poi morire. Era praticamente certo che la capitale si stesse annoiando, in poco tempo sarebbe ricorsa alle sue tecnologie.
Rosaline ed Erik cacciavano sott’acqua, quel giorno, mentre Jasmine pensava al fuoco. Ogni tanto buttava l’occhio nella loro direzione e sorrideva fra sé. In quei pochi giorni di terrore aveva trovato la felicità e doveva ringraziare quel ragazzo ancora così misterioso per lei ma pur sempre così perfetto. Erik la faceva sentire viva.
Il rumore di rami spezzati invase la foresta prima silenziosa. Jasmine afferrò al volo i suoi pugnali e si girò nella direzione dei rumori, pronta a colpire. Attese in silenzio e con il fiato sospeso, ma non uscì nulla. Forse si era sbagliata. Tornò con la mente al fuocherello acceso, lo smosse con un bastone e poi si stese a pancia in su e chiuse gli occhi per qualche secondo. Un dolore lancinante le perforo la gamba, lanciò un urlo acuto ed aprì gli occhi di scatto. Un grosso orso grigio stava ritto su due zampe, gli artigli insanguinati e pronti a colpire un’altra volta. Aveva due profondi occhi verdi ed un piccolo braccialetto argento veramente famigliare intorno al polso. Provò ad alzarsi per sfuggire alla nuova zampata, ma non fu abbastanza veloce e la forza con cui la colpì l’orso la mandò a sbattere contro una pietra. Svenne all’istante.
Sentendo le urla di allarme, Rosaline ed Erik corsero subito a difendere l’amica. Si bloccò il cuore ad entrambi quando videro l’immenso animale che pattugliava la zona. Rosaline cercò l’arco ed incoccò una freccia, insicura di riuscire a colpire qualche organo vitale, Erik recuperò la lancia e qualcuno dei coltelli di Jasmine. L’orso si girò nello stesso momento in cui il ragazzo afferrò l’arma. I suoi occhi verdi e profondi gli erano famigliari e quel braccialetto argento poteva essere stato fabbricato solamente nel suo Distretto. Dentro di sé sapeva chi fosse quell’essere, o per lo meno chi era prima della trasformazione ad opera di Capitol City.
“Emily” disse piano. L’ibrido lo guardò fisso un attimo, poi mostrò le zanne e stese gli artigli, dirigendosi nella sua direzione. Indietreggiò di qualche passo, nonostante sapesse che quella cosa non era la sua vecchia compagna, non riusciva ad ucciderla. Fu Rosaline ad attaccare. Nello stesso momento in cui l’orso le diede le spalle. Si aggrappò alla sua schiena e si arrampicò fino a raggiungere il cranio. Con molta fatica gli infilzò l’occhio con una freccia. Sangue nero sgorgava dalla ferita, ma il dolore non fermò l’animale anzi, lo rese ancora più cattivo. Buttò a terra la ragazza e la trafisse con i suoi artigli. Ci vollero diversi secondi prima che Erik si decidesse a reagire. Spinto dalla sete di vendetta contro la capitale si buttò contro l’ibrido, la lancia davanti a sé, e trafisse il suo stomaco. L’occhio verde si spense subito, un grugnito d’odio segnò la morte della creatura. Con un sospiro di sollievo, Erik si gettò sul corpo delle sue amiche. Sentì il polso di Rosaline, capendo subito che per lei non c’era più nulla da fare: era morta. Poi si spostò su Jasmine. Lei respirava ancora nonostante fiotti di sangue uscissero dalla sua gamba, la ferita era profonda e si era già infettata. Il ragazzo si strappò una manica della felpa e la strinse su quel mare di sangue. Provò a svegliare la giovane, ma non ci riuscì. Allora decise di nasconderla nella capanna, lontana da insetti fastidiosi o animali curiosi e corse verso il lago in cerca di acqua. Doveva riuscire a disinfettargliela, come lei aveva curato lui quando era in fin di vita. L’unico problema era che lui non era un medico e non sapeva nulla sulle piante. Prese delle foglie da un albero e cercò di tamponare il sangue, mentre con l’acqua pulì i detriti di terra e sporco. Una cosa la sapeva: per cicatrizzare, il fuoco può essere un buon aiutante. E Jasmine era ancora svenuta, non avrebbe sentito troppo male. Ravvivò le fiamme e, con l’aiuto del braccialetto d’argento dell’orso, cercò di fermare il flusso di sangue. Provò a fare quell’operazione tre volte e, quando stava per darsi per vinto, vide che l’emorragia era terminata. Con un sospiro di sollievo si stese vicino a lei, ancora completamente sommersa nel mondo dell’oscurità. E si addormentò, nella speranza che nessun altro ibrido di Capitol City sarebbe venuto a reclamare le loro anime o, per meglio dire, i loro corpi succulenti.
Jasmine lottava contro i suoi spiriti interiori. Si trovava a casa, nel campo in cui aveva visto una volta sua madre. Guardava come spettatrice esterna una discussione che avveniva tra i suoi genitori, una bambina di circa quattro anni guardava nascosta dietro ad un masso. E piangeva. Jasmine provò ad avvicinarsi a lei.
“Cosa fai qui?” le chiese, ma non ottenne una risposta. La bambina non si girò nemmeno verso di lei, come se non l’avesse sentita.
“Ehi, piccola” disse ancora, cercando di smuoverla per la spalla. Ma la sua mano non era più solida, trapassò il corpo della bimba senza causarle il benché minimo cambiamento. Era diventata un fantasma? Fino a pochi minuti prima si trovava nell’arena degli Hunger Games, aveva lottato contro un orso e, probabilmente, era morta. Vedeva sua madre, ragione in più per credere di essere in un altro mondo. Ma perché suo padre era lì? Era deceduto anche lui? E la bambina? Le ricordava qualcosa, come un pezzo del suo passato. Le…le somigliava. Sembrava lei all’età di quattro anni. Poi capì: era un ricordo. L’unico litigio tra i suoi genitori, l’unico che vide in prima persona. Suo padre che picchiava sua madre, la fiaschetta d’argento che si scolò andandosene. Sua madre che piangeva. Lei che andava a consolarla. Lo rivedeva con i suoi occhi, lo riviveva un’altra volta e, come la prima, stava male. Era riuscita a seppellire quel ricordo, era riuscita a dimenticare i lividi sul corpo di sua madre. Ma non poteva dimenticare il fatto che, da quando sua madre era morta, lei era diventata il bersaglio preferito del padre. Pianse. Poi il paesaggio cambiò. Erano al funerale di sua madre. Jasmine aveva già otto anni, teneva per mano Isidore, la sorella di sei anni. Tutti gli amici del Distretto li accerchiavano. L’unico a non essere presente era il padre.
“Dove va mamma?” le aveva chiesto Andrew, il fratellino di soli quattro anni.
“Va nello stesso posto in cui stanno i nonni. E Tobias” e gli sorrise. Nonostante la vita la voleva buttare a terra, lei sorrideva sempre, era sempre stata forte. Forse doveva seguire quell’esempio. Avrebbe dovuto risvegliarsi, tornare da Erik e Rosaline, che la stavano sicuramente assistendo. Chiuse gli occhi e li riaprì, ma non successe nulla. Ci riprovò, ancora ed ancora, ma rimase in quel cimitero scarno, senza fiori e senza nulla di vivo. Allungò la mano verso la sua versione in miniatura ed i personaggi di quel sogno scomparvero. Una nuova scena: erano a casa. Lei apparecchiava la tavola, sorrideva e ballava mentre spazzava i pavimenti. I suoi fratelli giocavano fuori dalla finestra, il sole era alto ed i fiori davano colore a tutta la casa. La se stessa del ricordo aveva più o meno quindici anni, quindi era un ricordo vicino. La porta sbatté con forza, suo padre entrò. Ricordava quella scena.
“Via, scappa” urlò piangendo, ma la Jasmine in bianco e nero non poteva sentirla, era solo un ricordo e non poteva cambiare.
“Ti prego, vattene” continuò, cadendo a terra, nascondendo il viso tra le mani.
“Papà, sei già tornato” disse la Jasmine del ricordo. Lui la guardò, puzzava di alcool ed i suoi occhi erano dispersi nel nulla. Era più che ubriaco, non riusciva nemmeno a capire cosa stesse facendo. Prese la figlia per un polso, bevve un altro sorso dalla sua fiaschetta d’argento e la buttò sul divano, cominciando a spogliarla. Jasmine si coprì le orecchie, non voleva ricordare le urla di terrore o quelle di eccitazione del padre. Voleva andarsene da quel ricordo. Provò ad uscire dalla porta, ma non riuscì, era come in trappola.
“Basta!” urlò, seppure consapevole che nessuno potesse sentirla.
La scena cambiò ancora. Jasmine si chiese per quanto tempo ancora la sua mente le volesse far del male, prima di lasciarla andare al regno dei morti o riportarla in quello dei vivi. Questa volta si trovava nell’arena. Non erano passati nemmeno tre giorni da quel ricordo: il bacio con Erik.
“Perché vuoi vedere il buono negli altri anche quando non c’è?” chiedeva il ragazzo del ricordo.
“Perché non voglio credere che al mondo ci sia solo male. Ognuno ha qualcosa di eccezionale in sé. Per esempio, Oliver credeva che un giorno sarebbe finita la guerra, Rosaline racconta storie magnifiche, tu sei in grado di proteggere le persone in difficoltà…”
“E tu sei magnifica”. Jasmine era arrossita nuovamente, quelle parole le ridavano coraggio. Non aveva solo i suoi fratelli per cui combattere, aveva anche lui.
Il bacio si sfocò e si ritrovò in un grande prato. Una casetta ben tenuta e di nuova costruzione era animata da voci di diversi bambini. Jasmine si avvicinò. Nel giardino fiorito due bambini giocavano con le spade, una ragazza li guardava sorridente mentre sferruzzava una sciarpa. Una bambina lanciava in cielo la sua bambola e correva nel punto in cui era caduta. Altre due, si spingevano su un’altalena colorata. Le loro risa riempivano l’aria. Una donna guardava la scena compiaciuta, sul grembo aveva un libro aperto.
“Mamma, quando torniamo a casa?” chiese un bambino castano con profondissimi occhi blu.
“Tra qualche minuto, Erik, perché non vai a giocare con gli altri?” disse la donna, con un gigantesco sorriso.
La scena svanì e rimase solamente il buio. Un buio agghiacciante, eppure pieno di vita. Sembrava lo stesso buio di quando si chiudono gli occhi, la sera, quando ci si vuole addormentare. E Jasmine provò ad aprirli. E, dopo i diversi tentativi senza esito, ci riuscì. Rivide i rametti della capanna, rivide l’erba, sentì di nuovo quei profumi che caratterizzavano la foresta. Era ancora viva. Provò a muoversi, ma dovette fermarsi. Un dolore lancinante le pervadeva la gamba ogni volta che cercava di alzarsi. La guardò. Era fasciata, doveva essere stato l’orso. Non ricordava molto dell’attacco, solo che picchiò la testa e svenne. Jasmine si guardò attorno, in cerca di Rosaline o di Erik, ma di loro non c’era nemmeno l’ombra. Provò a buttare un occhio all’esterno, era sera e l’inno di Capitol City stava terminando. Il fuoco scintillava ed emanava uno strato di calore, l’odore di carne bruciata le arrivò subito alle narici, facendo brontolare il suo stomaco.
“Oh, finalmente ti sei svegliata! Credevo che fossi morta!” esultò Erik. Lei lo guardò con un’espressione stupita.
“Dov’è Lin?” chiese solamente. L’espressione del ragazzo si rabbuiò.
“E’ morta. Per uccidere l’orso” disse lui. Jasmine si portò le mani alla bocca, era già la seconda persona che moriva per lei. Che si metteva in mezzo perché lei non morisse. E ancora non capiva il perché. Lei non era fatta per stare nell’arena, avrebbe dovuto morire il primo giorno, per mano di Emily. Tutti quegli amici sacrificati per la sua vita non ci sarebbero stati.
“N-non è colpa tua” continuò Erik, avvicinandosi a lei e stringendola a sé “in ogni modo dovevamo ucciderlo quell’ibrido”
“Ibrido?”
“Si. Un miscuglio di codici genetici. Era un orso, si, ma aveva anche qualcosa di Emily”
Gli occhi, ecco dove li aveva già visti e perché le erano così famigliari.
“Hai fame?” chiese ancora il ragazzo, offrendole la coscia di quello che sembrava un coniglio. Lei annuì, mostrando un falso sorriso. Era viva, eppure dentro era morta, completamente e profondamente morta. Mangiò con voracità, senza assaporare il gusto della preda.
“In quanti rimaniamo?” chiese la ragazza con la bocca piena.
“In quattro” rispose lui, osservandola. Quella ragazza così indifesa riusciva a smuovere un intero mondo. Almeno, il suo mondo di certo. Quando si era offerto alla Mietitura, Erik avrebbe giurato che, se si fosse presentata l’occasione, avrebbe ucciso chiunque, anche Emily. Tutto per arrivare alla vittoria e per essere famoso. Ma in quel momento, vicino a lei, era certo che si sarebbe sacrificato per concederle la vittoria. L’aveva cambiato. Le scostò una ciocca di capelli, le accarezzò il viso e la baciò. Voleva farle capire che lui era vicino e che non se ne sarebbe mai andato. Un corvo gracchiò, il fuoco, lentamente, si spense. Jasmine ed Erik non si staccarono, quel bacio appassionante continuò. Il ragazzo iniziò a slacciare la felpa della giovane che, presa alla sprovvista, si fermò e lo guardò. Quegli occhi neri la rapivano, completamente. Scollegò il cervello e lasciò il cuore al comando. Era negli Hunger Games, non sapeva se fosse sopravvissuta abbastanza a lungo da potersi innamorare ancora. Con calma gli tolse la maglietta, sentendo con le mani i muscoli sul suo torace. Si lasciò baciare e coccolare, sembrava di essere in un altro mondo. Lui diede il tempo, lento, sensuale. Le bisbigliò parole romantiche all’orecchio, facendola ridere. Gli piaceva così tanto il suo sorriso. Ed il suo sapore. Sapeva di fragola. Doveva essere il suo sapore naturale visto che nell’arena non avevano bagnoschiuma o essenze pregiate per lavarsi. Era…buona. Finì di spogliarla, la guardò qualche secondo beandosi della sua espressione e chiedendole il permesso.
 
La nottata romantica terminò con le prime luci del sole. Quando Jasmine aprì gli occhi, Erik non era più al suo fianco. Si rivestì di fretta, cercando di non peggiorare le condizioni della gamba e, lentamente, uscì allo scoperto, stropicciandosi gli occhi a causa della luce intensa. Era strano che fosse così forte in quel punto della foresta, per tutta la settimana passata l’alternanza giorno/notte non si era nemmeno vista. La ragazza si guardò attorno in cerca di nemici o dell’amico scomparso. Sentì un dolce profumo di frutta ed i suoi occhi cristallini incontrarono quelli scuri del compagno.
“Ben svegliata, dormigliona. Ti ho preso qualcosa per fare colazione” disse Erik con un sorriso. Le porse una mela e si sedette al suo fianco, in attesa di nemici da uccidere per proteggerla. Erano quattro i Tributi ancora in gioco, ancora due ragazzi da uccidere. Se non aveva fatto male i conti, all’appello mancavano il ragazzo del Distretto 3 e quello dell’11. Alla Mietitura non erano sembrati forti, ma tutti nascondono qualcosa. L’esempio più vicino era Jasmine. Timida e gentile all’esterno e cacciatrice ribelle all’interno. Le Ghiandaie Imitatrici canticchiarono un motivetto leggero, melodioso. Segno che un Tributo si trovava nelle vicinanze. Erik caricò Jasmine sulla schiena e si allontanò verso il lago, cercando di non fare rumore. Doveva prima capire da dove provenisse il suono, non poteva colpire alla cieca e farsi localizzare. Piano, lasciò scivolare la ragazza verso l’acqua, imbracciò la lancia e saltò nel liquido cristallino. Era necessario il più completo silenzio. Quel che Erik non sapeva, però, era della presenza di un animale pericoloso, nei fondali oscuri del lago. Quella stessa creatura che aveva ucciso il suo primo alleato, Ivan Green.
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Capitolo 9
*** Solitudine ***


9 - Solitudine






Il mostro del lago allungò le sue lunghe braccia ed afferrò la caviglia del giovane Erik, che venne trasportato senza troppi complimenti sotto il pelo dell’acqua. Jasmine non si accorse subito dell’accaduto, sentì solamente qualcosa afferrarle la gamba e dovette lottare con tutte le proprie forze per rimanere ancorata al suolo. Fu in un secondo momento che si accorse della scomparsa del compagno, insieme alla sua scarpa. Si guardò intorno, capendo immediatamente che quel qualcosa che l’aveva trascinata giù era Erik. Impugnò i suoi pugnali, ma non poteva tirarli a caso, avrebbe sicuramente colpito anche lui. Cosa poteva fare? Si torturò a lungo, scervellandosi in cerca di una risposta, ma non le venne in mente niente. Tuffarsi nella speranza di recuperarlo, praticamente sicura di affogare nel tentativo o restare immobile sulla riva del lago in attesa della sua fine? Si tuffò. Assicurò un ramo lungo sotto una pietra e scese in profondità, più trascinata dalla corrente che per opera sua. Cercò di scrutare nel buio, ma non vide nulla. D’un tratto due fessure gialle si aprirono davanti a lei. Jasmine si avvicinò a quei due fari luminosi, accorgendosi troppo tardi che si trattava di due grandi occhi. Qualche bolla di ossigeno venne dispersa in acqua, i suoi polmoni stavano per scoppiare nel tentativo di tornare in superficie. Aveva fallito, non aveva trovato Erik e stava per morire affogata. Seguendo l’istinto di sopravvivenza salì aggrappandosi al lungo ramo ed uscì dall’acqua qualche secondo prima che il mostro le afferrasse la caviglia. Cercò di riprendersi. Distesa sulla pietra umida vomitava acqua. Le sue lacrime salate si unirono alle gocce dolci sul terreno. Era sola. E non sapeva cosa fare. Guardò il cielo dalle mille sfumature di giallo, la luce del sole la accecava. Il rumore che li aveva fatti nascondere tornò. Due grida sovrumane ruppero il silenzio, gli uccelli scapparono dai loro nidi, spaventati. Jasmine spiò leggermente verso la radura in cui, solo poco prima, erano accampati. Due ragazzi grandi e grossi, muscolosi ed armati, si stavano fronteggiando. Uno, il più scuro di carnagione, imbracciava una lama affilata, mentre l’altro stendeva davanti a sé due coltelli. Giravano attorno ad un cerchio immaginario, si guardavano negli occhi, si affrontavano con gli sguardi, ma non con i corpi. Poi il ragazzo più abbronzato fece un passo indietro e l’altro gli fu subito addosso. Allora partì una lotta all’ultimo sangue. Jasmine restò a guardarli, trattenendo la sensazione di nausea e di vuoto sotto di lei. Non le era piaciuto quando Oliver, Rosaline o Erik avevano ucciso, seppure per difendere loro stessi e lei. Ma l’aveva accettato, perché in fondo era questione di vita o di morte. Ma in quel momento, a quel modo, beh, le faceva accapponare la pelle. Pensare che Capitol City aspettava interi mesi solamente per poter vedere quella carneficina la faceva star male. Nemmeno lei, di cuore aperto e sempre pronto a trovare belle parole per tutti, riusciva a vedere il lato buono di quelle persone. Vedeva solo nero, buio e male nei loro cuori. Aspettò ancora nascosta dietro al masso. Una pozza di sangue si era già accumulata nel punto in cui stavano combattendo, eppure nessuno dei due sembrava ferito mortalmente. Se fosse stata solo un po’ più coraggiosa, avrebbe utilizzato quel momento di distrazione per trafiggerli. Ma non ne era capace e rimase zitta e ferma nel suo angolino. Le nocche bianche per la forza con cui stringeva i pugnali. Continuò a guardare, ancora e ancora. Quei due Tributi sembravano più agguerriti che mai, forse pensavano di essere gli ultimi due sopravvissuti, non sapevano che mancava anche lei. Ma se ne sarebbero accorti presto. Quando il vincitore non avrebbe visto l’hovercraft di Capitol City alla morte del nemico. Forse era meglio farsi vedere, attaccare. Nel momento che erano di spalle. Un urlo acuto le gelò il sangue nelle vene. Sembrava un urlo disumano, fatto da Satana in persona. Non era di paura era…di divertimento. Un’altra occhiata dal suo nascondiglio e Jasmine vide il Tributo più chiaro infilzare ripetutamente quello più abbronzato, steso a terra ormai morto. E nonostante la vita avesse lasciato quel povero ragazzo, l’altro continuava a trafiggerlo, non abbastanza contento del suo lavoro. E rideva. Una risata di pazzia. Ma alla fine, quasi tutti i vincitori degli Hunger Games diventavano matti, lo sarebbe diventata anche lei se avesse sconfitto quel ragazzo. Dopo tutta la morte che si vedeva nell’arena era una cosa normale, impazzire. Oppure si finiva sotto le dipendenze dell’alcool, o della droga. Nel suo Distretto ne aveva visti tanti finire sotto terra per aver bevuto un bicchierino di troppo o fumato una fogliolina che non andava bene. Beh, ormai non doveva più preoccuparsi di come sarebbe diventata una volta fuori dall’arena, ormai era più che certa di non essere in grado di uscire, da quell’arena. Il Tributo che doveva uccidere era più grosso, più alto, più muscoloso e più battagliero di lei. Senza considerare il fatto che cercava sangue fresco e la sua nuova vittima. I suoi occhi erano chiari o, per lo meno, lo erano sicuramente stati un tempo. In quel momento erano rossi, sembravano iniettati di sangue. La faccia era contorta in una smorfia di successo, sembrava più che altro il viso di un demone. E i denti erano appuntiti e…sporchi di sangue, come se avesse bevuto il liquido rosso dal corpo della sua vittima. A Jasmine ricordava il protagonista di un vecchio libro che aveva letto qualche anno prima, Mr Hyde, il nome doveva essere quello.
“So che ci sei!” urlò il giovane con una voce demoniaca. A Jasmine si fermò il cuore. Poi si alzò, si lisciò i capelli e spolverò i vestiti. Era pronta a raggiungere i suoi amici. A raggiungere sua madre. Uscì allo scoperto.
“Sono qui” disse con l’unico briciolo di coraggio che aveva in corpo. Il ragazzo la guardò e si mise a ridere. Una risata malvagia. Non seppe nemmeno lei come, ma il suo braccio si alzò ed il pugnale che teneva stretto in mano si staccò da lei. Andò a conficcarsi con forza nel cuore del nemico, facendo terminare quella malefica risata, facendo terminare ogni cosa. Nemmeno quando guardò il corpo steso a terra riuscì a capire cosa fosse successo. Una strana forza si era impossessata del suo braccio. Le aveva fatto scagliare il coltello con una precisione che non le apparteneva. Però ci era riuscita. L’ultimo Tributo rimasto oltre a lei era lì, a terra, morto. Lei era ufficialmente la vincitrice dei 60° Hunger Games! Non ebbe il tempo di esultare, non ci sarebbe riuscita comunque. L’hovercraft di Capitol City arrivò a prenderla ma, prima che Jasmine riuscì a salire a bordo del veicolo, sentì un brivido percorrerle la spina dorsale ed ebbe la sensazione che qualcuno la stesse baciando. Un bacio piccolo, sulla guancia, freddo e umido. Sorrise e si lasciò anestetizzare senza problemi.
 
Quando Jasmine riaprì gli occhi si trovava in una delle stanze dell’ospedale di Capitol City. La gamba era ancora fasciata, nel braccio era inserito l’ago per la flebo. Sentiva la testa pesante e non le era ancora passato il senso di nausea. Si toccò la testa con la mano libera, il viso, il collo. Con sorpresa trovò una collana che non le era mai appartenuta. La sfilò da sotto il camice ed estrasse una piccola pietra blu. C’era un’incisione, ma non riuscì a capire il suo significato. Jasmine la guardò, sorridendo. L’aveva già vista, quella pietra. L’aveva vista dondolare sul petto di Erik. Doveva avergliela data per proteggerla, la notte che rischiava di morire. E l’aveva protetta, senza ombra di dubbio. Provò a ripensare all’ultima giornata passata nell’arena. I ricordi che aveva non combaciavano e non erano in ordine temporale. Ricordava di essersi alzata dopo non sapeva nemmeno quanto tempo di buio. Aveva cercato Erik, aveva fatto colazione. Poi quel ramo spezzato. Erik l’aveva portata fino al lago, per nascondersi. Poi c’era uno strato di nebbia nella sua mente. Più si sforzava a ricordare, più la testa le faceva male. Un dottore entrò nella stanza, il camice era azzurro, come i suoi occhi.
“Allora, vedo che ti sei svegliata. Ti fa ancora male la gamba, signorina Brave?” chiese con malcelata dolcezza.
“No, è a posto. Non può staccarmi la flebo? Gli aghi mi fanno venire la nausea” disse lei, osservando quell’uomo. Se non avesse saputo che era un cittadino di Capitol City, avrebbe potuto anche pensare che si trattasse del fratello del signor Brown, il farmacista del suo Distretto. Gli somigliava molto.
“La flebo serve per tenere sotto controllo i tuoi dolori” continuò il dottore, controllando il cuore della paziente “ricordi qualcosa dell’altro ieri?”
“L’altro ieri? Vuol dire che ho dormito più di 24 ore?”
“Si. Ma è normale quando si è costretti ad ingurgitare medicine e calmanti. Non preoccuparti, avrai tutto il tempo per riprenderti. Allora, non hai ancora risposto” disse ancora il medico.
“Più o meno” rispose Jasmine “ricordo di essermi alzata e che io ed Erik ci siamo nascosti. Ma poi non riesco a ricordare niente e mi fa male la testa quando ci provo”
“Pian piano ci riuscirai. Se hai bisogno di aiuto, potranno dirti tutto i tuoi famigliari. O il tuo Mentore. Quando toglieremo i calmanti i ricordi ricompariranno, probabilmente tutti insieme, forse un po’ per volta”
“I miei fratelli sono qui?” chiese, interrompendo il discorso dell’uomo.
“Si, sono rimasti a dormire sulle panchine tutta notte. C’è anche tuo padre” rispose lui.
“E c’è anche Flint?”
“Certo. È stato il primo ad arrivare”
“Può farlo entrare? Solo lui però” disse, pregando con lo sguardo quell’uomo così diverso dalle sue aspettative. Il dottore uscì dalla porta e, qualche minuto dopo, il ragazzo alto e muscoloso, dai lunghi capelli neri che l’aveva accolta sul treno per Capitol City entrò nella stanza con un mazzo di fiori rosa e rossi.
“Buon giorno” disse gentilmente, con un tono di voce flebile. Si capiva che aveva pianto.
“Ciao” sorrise lei “alla fine ci siamo rivisti”. Flint Himmoy si avvicinò al letto di Jasmine, le strinse la mano tra le sue e lasciò cadere qualche lacrima sulle lenzuola candide.
“C’è stato un momento in cui pensavo di perdere anche te” piagnucolò.
“Solamente uno?” rise la ragazza “io pensavo che ci avrei lasciato le penne praticamente….sempre! Quando mi ha attaccato Emily, all’inizio, quando stavo per annegare, quando un orso mi ha azzannata, quando Erik ha cercato di trascinarmi sul fondo del lago con lui….” Contò sulle dita “credo si possa considerare un miracolo il fatto che sia ancora qui”
Flint la guardò. Quella ragazza riusciva a portare il buonumore nonostante la tristezza, sarebbe riuscita a riportare il sole durante la tempesta anche senza saperlo.
“Pensavo non ti ricordassi quasi niente dell’ultimo giorno nell’arena”
“Già, lo pensavo anche io. Ma l’immagine di me che cado nell’acqua e la sensazione che fosse Erik a portarmi giù si è impossessata di me. E, sinceramente, non mi sono nemmeno accorta di dirlo” sembrava piuttosto spaventata e confusa.
“Ti ho portato dei cioccolatini” esclamò Flint, cercando di cambiare argomento “so che ti piacciono. Durante la settimana di convivenza ne hai mangiati a scatole”. Rise. Una risata forzata ma che fece tornare il buon umore alla ragazza. Jasmine ringraziò, prima di addentare una di quelle squisitezze. Il cioccolato si scioglieva in bocca.
“Ora ti lascio, il dottore mi ha detto che devi riposare molto” disse. Le diede un bacio sulla fronte e, con un sorriso, si chiuse la porta alle spalle.
Quel bacio sulla fronte le fece venire in mente un’altra sensazione. L’aveva provata prima di salire sull’hovercraft, lo ricordava bene. Quella sensazione che qualcuno fosse insieme a lei, quel brivido che aveva sentito, quel bacio freddo. Il suo cuore le ripeteva che era stato il fantasma di Erik. E che era stato lui a darle la forza per uccidere l’altro Tributo. Altrimenti lei sarebbe rimasta ferma. Sorrise, si morse il labbro inferiore, strinse la pietra blu tra le mani e tornò a dormire.
 
Quando si risvegliò una lettera stropicciata era adagiata sul comodino al suo fianco. Jasmine si guardò intorno e, quando vide che la stanza era completamente vuota, la aprì. Iniziò a leggere.

Cara Mimi, se stai leggendo questa lettera significa che io sono morto, mentre tu sei ancora viva. Sono contento che sia così, non avrei accettato nessun altro sul podio. Sappi che ti ho amata sin dal primo momento in cui ti ho vista. Eri così indifesa. Eppure, nello stesso tempo, così coraggiosa! Ti sei lanciata al collo di una ragazza più grande e vistosamente più forte per difendere un oggetto a te caro. Mi dispiace solo che non sei riuscita a ritrovarlo. Ti ricordi gli allenamenti? Avevi paura di tutti e ti nascondevi dietro di me. Eppure, non reclinavi nemmeno una sfida. E le hai vinte tutte! Sei riuscita a battere ogni singolo ragazzo, in quel centro d’addestramento, in ogni singolo stand. Anche me. Non pensavo ci saresti mai riuscita, immaginavo di essere più forte di te. Ma, a quanto pare, mi sono sopravvalutato, mentre ho sottovalutato te! Anche se i miei buoni motivi li avevo! Sembravi così innocente! Chi poteva pensare che dietro a quello strato di santità si nascondesse un leone! Forse è stato proprio quel leone a rubarmi il cuore. Non mi interessa di essere morto, ti guarderò e ti proteggerò anche da qui in alto. Spero solo di esser morto per difenderti! Voglio essere ricordato per aver fatto qualcosa di buono, in vita mia.
Ora passiamo alle cose più serie. Nei mesi che verranno farai un giro per tutti i Distretti. Capitol City sfoggerà la stella di questi Hunger Games. Ho un grosso favore da chiederti: quando passi per il 10 prendi mia sorella Anne e portala con te. Con la mia morte, lei si trova da sola. Ha solo 5 anni, non riuscirà a sopravvivere. Non so come farai, ma so che ci riuscirai, perché tu sei tu, e non avrei potuto trovare qualcuno di migliore!
Ti amo, il tuo nuovo angelo custode,
Oliver Parker.

Jasmine lesse due volte la lettera, rise ricordando l’allenamento e le battute senza senso dell’amico. Lui era morto per difendere lei e quindi era in debito. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per dare una vita agiata alla piccola Anne. Era diventato compito suo.
Nascose la lettera sotto al cuscino quando sentì la porta aprirsi. Il dottore ed un’infermiera entrarono trasportando un carrello d’acciaio. Piatti maleodoranti si stavano avvicinando al suo letto.
“E’ ora di pranzo” annunciò l’infermiera con un sorriso a trentadue denti. Jasmine si impose di sorridere, ma quell’odore di marcio la nauseava.
“Ho ricontrollato un’altra volta le tue analisi. La prima volta avevo pensato che ci fosse qualcosa di sbagliato, mi sono detto non può essere, è solo una ragazzina. Ma ho pensato male” iniziò il dottore, aprendo una cartella gialla.
“Che c’è?” chiese Jasmine. Possibile che il suo viaggio per i Distretti sarebbe stato annullato a causa di un decesso improvviso della protagonista?
“Beh, cara, sembra proprio che tra 9 mesi la tua famiglia si allargherà!” annunciò felice l’infermiera. A quel sorriso seguì lo sguardo incandescente del primario. Jasmine li guardò entrambi senza capire.
“Diventerai mamma” spiegò l’uomo dal camice azzurro. La ragazza trattenne il fiato. Come poteva essere? Poi ricordò della notte di passione passata con Erik e sorrise.
“Che bella notizia” disse, massaggiandosi il ventre. Aveva già in mente anche il nome: lo stesso del compagno, se fosse stato maschio, quello di sua madre se fosse stata una femmina.
“Scusate ma…vorrei riposare. Sono stanca” disse, tirando il lenzuolo sopra la testa. Voleva rimanere sola. Sarebbe diventata mamma. Alla fine qualcosa di Erik, qualcosa di veramente profondo, l’aveva tenuto con sé. E l’avrebbe visto ogni giorno della sua vita. Non sarebbe stata mai più sola, da quel momento in poi sarebbero stati in due.
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Capitolo 10
*** Erik Phelps ***


EPILOGO: Erik Phelps




Distretto 8, una ragazzina teneva per mano un bambino di 4 anni, la giovane madre si trovava dietro e camminava piano. La vecchia ferita alla gamba le faceva ancora male. E poi, voleva godersi ogni singolo attimo di quell’estate. Il sole caldo, gli uccellini che cantavano sereni, il vento che faceva frusciare le foglie degli alberi, il suono che facevano. Sorrise a se stessa per essere nata in quel Distretto, in fin dei conti era bello. E puro. Camminarono a lungo, fino a raggiungere una piccola casetta di legno, posta esattamente al centro di un gigantesco giardino. Scivoli colorati, altalene e giochi davano gioia e vitalità. Per non parlare delle voci dei bambini già presenti. Sembrava una festa! Colori e giochi si univano insieme per formare un girotondo di felicità e purezza. Quella purezza che era concessa solamente ai bambini, a Panem. Quella purezza che lei aveva perso lo stesso giorno in cui sua madre era morta. Non avrebbe permesso che succedesse anche a suo figlio. La donna si sedette sulla panchina lucida e guardò la ragazzina di soli 10 anni far spiccare il volo al bambino. Aprì un libro e si accucciò. Lo strano caso di Dr Jekyll e Mr Hyde, questo era il titolo. Al suo interno c’era una fotografia. Ritraeva suo figlio da piccolo. Il suo bellissimo e perfetto figlio.
“Jasmine, possiamo scendere verso il lago?” chiese la ragazzina con il fiatone.
“No, restate qui vicino. Per favore Anne” rispose lei, implorandola con gli occhi. Il lago le faceva ancora paura. Sebbene fossero passati 5 lunghi anni, non era ancora riuscita ad affrontare neppure la più piccola pozza d’acqua. Troppi ricordi le risalivano alla memoria quando ne vedeva una. La ragazzina corse verso il bambino rimasto solo. Somigliava ogni giorno di più ad Oliver. I capelli castani, gli occhi verdi, lo stesso sorriso, lo stesso carattere. C’erano dei giorni in cui non riusciva nemmeno a guardarla, le faceva troppo male. Ma altri le dava una gioia infinita la presenza di quella ragazzina. Il fatto che non si trovava nei registri del Distretto le assicurava una lunga vita felice e senza preoccupazioni. Per quanto riguardava suo figlio, beh, se aveva anche solo un briciolo del carattere del padre, se la sarebbe cavata senza problemi. Ed Erik era perfettamente identico a suo padre! Dagli occhi furbetti allo sguardo sbarazzino, dal modo di vestire a quello di comportarsi.
Jasmine aprì il libro e ricominciò a leggere. Nonostante l’avesse letto tante volte, quel libro le piaceva, le ricordava che ogni persona aveva la sua parte cattiva, ma che c’era una parte buona molto più grande. Arrivò alla pagina centrale, in cui era inserito un foglio di carta stropicciato. La donna lo stese per bene e lo aprì. L’inchiostro si era scolorito, erano passati tre anni da quando l’aveva ricevuto. La prima ed unica lettera scritta dal suo cosiddetto suocero.
Cara signorina Brave,
mi chiamo George Phelps e sono il padre di Erik, il Tributo del Distretto 1. Credo lei si ricordi perfettamente del mio ragazzo, constatando che fonti vicine mi hanno comunicato che lei porta in grembo suo figlio, ovvero mio nipote. Non sapendo se queste voci corrispondano a verità, le ho scritto questa lettera. Vorrei avere una rapida risposta. Le giuro solennemente che farò tutto ciò che è in mio potere per essere un buon nonno, se questo sarà effettivamente confermato. Nel frattempo, le auguro la più grande felicità, a lei ed al suo bambino.
Con affetto,
George Phelps, sindaco del Distretto 1 di Panem.
Questo era scritto con una grafia sottile e poco aggraziata sul foglio di carta. Si capiva che l’aveva gettato nel cestino e poi, per un ripensamento, l’aveva imbustato. Jasmine si ricordava perfettamente della sua risposta: gentile signor Phelps, non deve preoccuparsi. Nonostante io sia incinta, il padre del mio bambino non era effettivamente suo figlio. Non si preoccupi quindi di dover portare il pesante fardello di essere nonno, perché non le spetta. Distinti saluti, Jasmine Brave.
Una risposta che aveva considerato corta, concisa e sufficiente. Non aveva mentito totalmente. Quando erano soli Erik le aveva raccontato che non si considerava figlio di suo padre. Tra i due era nata una disputa, un vuoto incolmabile e non doveva essere lei a ripianare i rapporti, non ancora per lo meno. E poi, non aveva voglia di rivedere subito quell’uomo che l’aveva accolta nel suo Distretto con occhi di sfida e parole pesanti. Quell’uomo non poteva essere il nonno di suo figlio.
“Mamma, quando torniamo a casa?” chiese Erik. I suoi occhi blu erano profondi e riflettevano l’immagine di una Jasmine pensierosa. Aveva già vissuto quella scena, qualche anno prima, quando era ancora un Tributo.
“Ancora qualche minuto, tesoro. Qui sto bene, sento di essere vicina a tutto. Vai a giocare con gli altri bambini” sorrise lei. Guardò per qualche secondo il figlio allontanarsi con un’espressione di disappunto dipinta in viso.
Jasmine guardò verso il cielo, le nuvole assumevano le forme più strane. Un corsaro, un cagnolino, un uccello, una farfalla. Quella stessa farfalla appuntata sulla felpa di Rosaline. O zia Lin, come la chiamava Erik. Quante volte aveva raccontato la storia di quegli Hunger Games ai due bambini, rivivendo le avventure, le serate a riscaldarsi davanti al fuoco, le battaglie. Una folata di vento le scompigliò i biondi capelli rinchiusi in una treccia. Qualche petalo di un fiore profumato e lilla volarono sulla sua gonna.
La donna appoggiò appena la testa sullo schienale della panchina e chiuse gli occhi, assaporando l’odore del vento, godendo del suo tocco sul viso. Si addormentò. D’un tratto era di nuovo giovane e si trovava sulle rive del mare. Rosaline stava sdraiata su una barca, la rete da pesca  calata nelle profondità delle acque. Stava leggendo un libro. La solita Rosaline!
“Lin” urlò a gran voce, ma lei non riusciva a sentire. Era assorta tra le pagine di quel volume ingiallito.
“La raggiungiamo?” chiese Oliver, arrivandole alle spalle. Era lui, non poteva sbagliarsi. I capelli castani, gli occhi smeraldini, il sorriso splendente.
“Ma io non so nuotare” disse lei, ma l’amico era già lontano, in acqua.
“Ci potresti riuscire, se solo lo volessi” esclamò un’altra voce. Jasmine si girò, di scatto, ed incontrò le labbra di Erik. Non poteva crederci, lui era veramente lì insieme a lei.
“Ho paura. L’acqua ti ha portato via” disse piano.
“E’ stata Capitol City a portarmi via, non l’acqua” le rispose “so che hai conosciuto mio padre. Come ti è sembrato?”
“Distaccato. Non sembrava un uomo addolorato per la perdita di un figlio” rispose.
“Sa fingere. Solo ora capisco quanti sbagli ho commesso anche io nei suoi confronti. Vorrei avere la possibilità di chiedergli scusa” sussurrò con una nota di malinconia nella voce “come sta nostro figlio? Deve essere un ometto ormai” aggiunse poi.
“Già, ha 4 anni, ed è bello come te” bisbigliò la ragazza con un sorriso di felicità.
“Vorrei tanto parlargli o toccarlo o giocare con lui. Mi dispiace lasciare tutto il peso su di te”
“Non è un  peso. Tu sei morto per salvare noi due, se non fosse stato per te, né io né Erik esisteremmo”
“Gli hai dato il mio nome!” esclamò sorpreso
“E che altro nome avrei dovuto dargli? Ti somiglia così tanto che ho pensato giusto farti rivivere in lui”
“Scommetto che è coraggioso. Gli racconti mai di me…di noi?” chiese guardando i due amici sulla barca in mezzo al mare
“Si, molto spesso. E so che anche lui vorrebbe tanto conoscerti” rispose Jasmine.
“Ti sei sposata?”
“No. Siamo io, Erik, ed Anne, la sorellina di Oliver”
“Avresti dovuto trovare un uomo che ti rendesse felice, sposarti ed avere una famiglia!” esclamò il ragazzo.
“Ma ho avuto tutto…beh, magari non il matrimonio. Ho trovato l’uomo della mia vita, sono felice ed ho una splendida famiglia” rise lei. Si guardarono negli occhi e si baciarono. Un bacio freddo, che sapeva di morte e di distacco.
“Vai da lui, torna dal nostro piccolo e digli che il suo papà gli vuole tanto bene. Che gli dispiace non poterlo conoscere, ma quel Destino di Rosaline non voleva che le nostre strade fossero unite. Digli che lo proteggerò sempre dall’alto e che gli do un compito: di proteggere la sua mamma e di renderla sempre felice”. Le porse un fiore azzurro.
Una lacrima scese dalla guancia di Jasmine. Prese la mano del ragazzo amato, la strinse. Era fredda come il ghiaccio.
“Torna da lui. E non dimenticare” disse, toccando il suo naso con il suo “ti amo, piccola coraggiosa. E ti amerò per sempre, nonostante la morte ci separi, ti aspetterò!”
“Ti amo anche io e non ti dimenticherò mai! Ti raggiungerò, prima o poi” sussurrò.
Un altro bacio, più corto, a fior di labbra.
Jasmine si svegliò di soprassalto. Aveva i brividi che le percorrevano la spina dorsale e teneva stretto tra le dita un fiore azzurro. La donna sorrise.
“Mamma, sono stanco, andiamo a casa?” chiese ancora il piccolo Erik.
“Si, andiamo” convenne lei. Gli avrebbe parlato ancora di suo padre, delle sue parole. L’avrebbe fatto presto, ma non quel giorno. Quel giorno aveva un altro compito: doveva andare fino al Distretto 1. Era ora che suo figlio incontrasse il nonno. Doveva mettere da parte il suo orgoglio ferito o le menzogne che si era creata contro di lui, era suo diritto conoscere suo nipote e lei non poteva impedirglielo. E poi, avrebbe potuto conoscere qualcosa di più su Erik, il suo Erik. Sentì un brivido sulla fronte, sembrava uno dei baci del sogno, glaciale. Sorrise. Sapeva di fare la cosa giusta.
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L'angolo di *L*

Olaaa!!!!!!!! =) Siamo già arrivati alla fine anche di quest'avventura! Anche se, effettivamente, è finita con lo scorso capitolo! =)
RIngrazio tutti quelli che hanno perso tempo a leggerla, "Hope 13", "Clato_Peetiss" e "Radioactive" per avermi dato le loro opinioni positive e tutti gli altri che, anche senza farsi sentire pubblicamente, mi hanno spronata! =)
Un bacione gigantesco a tutti!!! Spero (poveri lettori ignari) di tornare presto con un'altro scritto *buuu di sottofondo* =P
Ciaoooooooo

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