It's all about you.

di ___Ace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Una bella giornata. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Quel ragazzo dell'altro giorno. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Fuori dal normale. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Osso duro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Non sono un ragazzino. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Io amo il miele. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. Mosaico di nozioni. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. Tu cosa farai a natale? ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. Abitudini. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. Finirai per consumarlo. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. La Fenice. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. Serata di Poesie. 1. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. Serata di Poesie. 2. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. Ace. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. Serata di Poesie. 3. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. Quelle Fiamme. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. Non mi sarei di certo aspettato... ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. Non sono niente. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. Deluso. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. Rufy. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. Innamorato perso. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. Io non piaccio a Marco. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23. Lui non é... ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24. La Vigilia di Natale. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25. Bene. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26. Iniziai a sperare. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27. Buon compleanno cuore impazzito. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28. Io potevo farcela. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29. La cioccolata migliore. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30. Mi piaceva tanto. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31. Conversare con una divinità. ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32. Così interessante per te. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33. Quella novità. ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34. Non ha occhi che per te. ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35. Uccidermi per la gelosia. ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36. Indispensabile. ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37. Il resto del mondo può anche bruciare. ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38. Fa la tua mossa. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39. Perdersi e ritrovarsi mille volte. ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40. Per nessuna ragione al mondo. ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41. Fottutissimi mirtilli. ***
Capitolo 42: *** Capitolo 42. Di felicità si può morire? ***
Capitolo 43: *** Capitolo 43. Quel quadro in entrata. ***
Capitolo 44: *** Capitolo 44. Il mio posto nel mondo. ***
Capitolo 45: *** Capitolo 45. Una fottuta maglia. ***
Capitolo 46: *** Capitolo 46. Se capisci cosa intendo. ***
Capitolo 47: *** Capitolo 47. Il casino che stava succedendo. ***
Capitolo 48: *** Capitolo 48. Bomba ad orologeria. ***
Capitolo 49: *** Capitolo 49. Potresti venire da me. ***
Capitolo 50: *** Capitolo 50. Solo dormire. ***
Capitolo 51: *** Capitolo 51. Non chiedevo altro. ***
Capitolo 52: *** Capitolo 52. O. Mio. Dio. ***
Capitolo 53: *** Capitolo 53. Consuoceri. ***
Capitolo 54: *** Capitolo 54. Una ciurma di sbandati. ***
Capitolo 55: *** Capitolo 55. Ogni mia giornata. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Una bella giornata. ***


Capitolo 1. Una bella giornata.
 
Odio la pioggia e sta piovendo. Odio il freddo e c’è un ventaccio assurdo. Odio l’inverno e, indovina, la stagione gelida è alle porte. Fanculo. E che giornata orribile: prima arrivo tardi a lezione e scopro che mi hanno anticipato un esame; poi esco dalla facoltà e mi investe uno tsunami d’acqua, come se il cielo avesse deciso di sommergere la città e fare annegare tutti; inoltre non ho l’ombrello, ovviamente, e cos’altro? Ah, giusto. Stasera Rufy vuole che ceniamo assieme e il frigo è vuoto. Dovrò dimezzare la mia paghetta per offrirgli la cena dato che non si accontenterà solo di una pizza di dimensioni XXL.

Alzai lo sguardo lungo la strada e vidi l’insegna al neon di un’anonima caffetteria.

Al diavolo, ho bisogno di scaldarmi.

Entrai nel locale e mi sentii subito investire dal riscaldamento che, magicamente, attraversò il tessuto bagnato dei miei abiti e mi diede un senso di calore e torpore che mi fecero sentire rinato nel giro di poco tempo. Tutto ciò però, non mi risollevò l’umore e marciai ugualmente con una faccia funerea verso il bancone del bar, scrollandomi di dosso l’acqua dai capelli umidi e appiccicati al collo.
Mi sedetti e, perso nel groviglio di pensieri riguardanti la mia vita incasinata e la tremenda giornata di merda che avevo appena passato, lasciai vagare lo sguardo nel vuoto, come in trance, troppo stanco per concentrarmi sul mondo che mi circondava.

Stamattina l’auto aveva la batteria scarica, magnifico; una matricola mi è venuta addosso senza accorgersene e ha rovesciato il suo schifo di succo sui miei appunti; proprio oggi i professori dovevano decidere di farmi partecipare alle lezioni e pormi domande che non stanno ne in cielo ne in terra e, come se non fosse sufficiente, quel vecchiaccio di mio nonno che mantiene Rufy doveva decidere di chiamarmi e obbligarmi ad andare ad aggiustargli il tetto. Perché piove, ha usato come scusa, e lui è troppo anziano per farlo da solo. Beh, col cazzo che vado.

Sfinito, stressato e innervosito da quegli eventi, quasi mi spaventai quando un’enorme tazza arancione venne posizionata sotto al mio naso, mentre un intenso e dolce profumo di caffè caldo e bollente mi solleticava le narici. Solo allora mi resi conto che il barista mi stava parlando, così sollevai gli occhi su di lui e lo fissai imbambolato mentre mi assicurava che quello lo offriva la casa.
Senza rendermene conto iniziai a sorseggiare la bevanda, sentendomi meglio ad ogni sorsata e dimenticando, a poco a poco, il mio malumore, rincuorato dalla gentilezza fattami da quel tipo con un bizzarro taglio di capelli.
Quando finii di bere il suo apprezzato caffè lo guardai ancora, questa volta senza nascondere il viso dentro la tazza per l’imbarazzo, e ringraziai mentalmente il Cielo per il barlume di fortuna che aveva deciso di concedermi dopo avermi fatto patire come un poveraccio.
«Grazie» mormorai e, quando il suo sorriso si aprì e divenne più ampio, decisi che quella era senza dubbio una bella giornata.
 
 
 
 
Perché non riservare un posticino anche per loro? Quindi ecco come Ace ha incontrato Marco ed ecco dove continuerà ad andare unicamente per vederlo e, come dire, conoscerlo senza esporsi troppo.
E’ una Raccolta che fa riferimento a questa coppia descritta in questa mia long, Il sentimento è reciproco, ma che si può benissimo leggere a parte. Sono comunque ruffiani e coccolosi e avranno molto di cui parlare ^^
Adoro questi due e il loro carattere, spero lo facciate anche voi e che apprezziate il tutto come fa Ace con il caffè **
See ya,
Ace.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. Quel ragazzo dell'altro giorno. ***


Capitolo 2. Quel ragazzo dell’altro giorno.

 

Quel giorno avevo finito le lezioni ad un orario abbastanza decente e, per mia fortuna, il sole, anche se stava già tramontando, sembrava promettere ancora bel tempo per l’indomani. Meglio così, almeno non avrei dovuto camminare sotto la pioggia come mi era toccato fare due giorni prima, anche se tutto ciò lo ricordavo con un sorriso visto quello che mi era capitato.
Affrettai il passo quando, dietro l’angolo, apparve l’insegna del bar nel quale mi ero fermato per sfuggire al temporale, alla ricerca di un po’ di calore e qualcosa di caldo da bere. Anche se quella era stata una giornata infernale, non era comunque da dimenticare e cancellare, non dopo che mi era stata offerta una quantità extra di caffè, amato e sacrosanto caffè, e l’occasione di conoscere la gentilezza degli sconosciuti. Sconosciuti che, ad essere sinceri, non erano affatto male, anche se avevano un ridicolo ciuffo biondo simile ad un ananas in testa.

Entrai, facendo suonare il campanellino collegato alla porta, e sentendomi subito accogliere dall’atmosfera tranquilla e stranamente famigliare che trasmetteva il locale, guardandomi attorno e rendendomi conto in quel momento dell’ampiezza del posto. Parte di esso era illuminata a giorno da grandi vetrate, mentre l’altra era leggermente lontana dal reparto bar e piuttosto scura, ma potei intravvedere un palco, degli amplificatori e dei tavolini con delle sedie apostate sotto di esso. Pensai che, probabilmente, i gestori tenevano aperto anche la sera e avevano quindi organizzato il tutto per una clientela differente da quella che passava di lì durante il giorno.
Continuando a lanciare occhiate a destra e a sinistra, mi avvicinai al bancone e mi appollaiai su uno sgabello, scompigliandomi distrattamente i capelli e adocchiando un contenitore ripieno di biscotti che stuzzicarono il mio appetito.

«Cosa gradisce?» fece la voce calma e cortese del ragazzo che mi stava dando le spalle, intento ad asciugare un paio di tazzine e alcuni bicchieri posti vicino al lavello.
Come avesse fatto ad accorgersi di me era un mistero.
«Un caffé». Dissi la prima cosa che mi passò per la testa, osservando gli avambracci tesi, messi in mostra dalle maniche della camicia arrotolate fino al gomito del barista il quale, con un cenno di assenso, si mise subito all’opera, voltandosi infine per porgermi una tazza pulita e fumante.
Quando mi rivolse la tipica espressione cordiale che la buona educazione dettava, pensai bene di dedicargli un sorriso tanto grande che per un attimo lo lasciò interdetto, mentre con lo sguardo studiava il mio volto con attenzione, facendo poi un mezzo sorriso e indicandomi con un dito a mezz’aria.
«Sei quel ragazzo dell’altro giorno, o sbaglio?».
«Sono proprio io!» sghignazzai fiero, mentre dentro di me mi sentivo lusingato dall’aver scoperto che si ricordava del nostro incontro. Voleva dire che gli avevo fatto una certa buona impressione, tutto sommato.
Sulla sua bocca prese forma un ghigno canzonatorio mentre, con un sopracciglio inarcato, mi squadrava dall’alto in basso.
«Oggi però non piove» mi fece notare, «Come mai da queste parti?».
«Mi andava un caffè» spiegai. E volevo rifarmi gli occhi, aggiunsi mentalmente.
«Questa volta devi pagarlo, lo sai, vero?» chiese, anche se il suo sembrava più un avviso.
«Ma dai, e io che pensavo di essere un caso speciale» scherzai, prendendo un biscotto e facendolo finire direttamente nel mio stomaco.
«L’eccezione è solo per i disperati».
«Allora penso che da ora in avanti non mi offrirai più nulla».
Mi guardò accigliato, «E perché?».
«Beh» feci teatrale, «Perché io sono semplicemente la persona più allegra che esista sulla faccia della terra».
 
 
 
 
Ace che si presenta per quello che è: solare, allegro, sorridente e asdhbsvuoadfyv **
Bene, passiamo alle cose serie come, per esempio, quanto deve essere bello Marco di spalle, cosa che non sfugge al nostro ragazzino intraprendente che ruba i biscotti u.u
Oh beh, ne avrà di tempo per studiarlo!
See ya,
Ace.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. Fuori dal normale. ***


Capitolo 3. Fuori dal normale.

 

Fin dal primo momento in cui avevo visto quel ragazzino mettere piede nel locale avevo subito pensato che doveva trattarsi di un tipo particolare. Un pensiero normale e del tutto meritato, dato che sembrava avere un diavolo per capello, nel vero senso della parola vista la chioma corvina e ribelle che pareva avere vita propria, nonostante fosse gocciolante per la pioggia che scendeva a cascata quel pomeriggio inoltrato. La persona in questione era sul punto di una crisi di nervi, data l’irruenza e il malumore con cui poggiò pesantemente le braccia sul bancone una volta preso posto su uno sgabello, rimanendo con lo sguardo fisso in un punto indefinito davanti a sé e con un cipiglio leggermente irritato a dipingergli il viso.
Sembrava davvero sul punto di ammazzarsi e ciò mi aveva fatto tornare con i piedi per terra, dandomi l’incentivo per interessarmi alla sua causa e fargli capire, con una piccola gentilezza, che non era tutto bianco o nero come poteva apparirgli in quel momento.

Così gli avevo preparato una bella quantità di caffè e versata poi in una tazza fumante e colorata, giusto per dare un po’ di vivacità a quel grigiore che lo circondava e mettendogliela sotto al naso, ottenendo subito la sua attenzione e scontrandomi con un paio di occhi scuri e stanchi.
Subito mi era sembrato indeciso sul da farsi, ma non aveva resistito a lungo e si era fiondato sulla bevanda, facendola sparire in pochi minuti e subendo l’effetto e il cambiamento che avevo sperato.
Alla fine aveva sorriso e mi aveva ringraziato, facendomi sentire in pace con me stesso per essere stato utile a qualcuno che ne aveva un estremo bisogno.
Allora mi aveva colpito quella sua aria trascurata e seria, tanto da fare concorrenza alla mia, ma non immaginavo che si trattasse solo di un raro, anzi, rarissimo momento di smarrimento. Il ragazzino, infatti, era l’immagine della spensieratezza e della vivacità, nonché della pazzia, come ebbi modo di scoprire nelle occasioni in cui lo rividi presentarsi al bar, sempre di passaggio, ma con un enorme sorriso sulle labbra.
La seconda volta che l’avevo rivisto non l’avevo riconosciuto, tanta era l’allegria che sembrava sprigionare e, quando mi ero reso conto chi fosse realmente, ero rimasto per un attimo interdetto e stupito nel vederlo così cambiato, ma non ci avevo dato molta importanza. Lavorare come barista mi aveva aiutato a capire abbastanza bene le persone e se c’era una cosa che avevo imparato era che bisognava aspettarsi di tutto, sempre.

Solo che quel ragazzo aveva le carte in regola per essere catalogato come fuori dal normale. Infatti, in quel momento, si stava bevendo la terza cioccolata calda della giornata, con aggiunta immancabile di panna. Da tenere presente, anche, che si trovava lì solamente da un quarto d’ora.
«Penso sia la migliore cioccolata che abbia mai assaggiato» si complimentò, accennando ad un sorriso nella mia direzione per poi tornare a concentrarsi sulla tazza e sbrodolarsi di panna la punta del naso.
«L’hai detto anche delle due precedenti» gli feci notare con una punta di ironia, senza smuovermi dalla mia posizione e restandomene appoggiato a braccia conserte al bordo del ripiano davanti a lui, osservandolo prosciugare la sua ordinazione con animo.
Fece un mugugno indistinto e alzò le spalle, guardandomi poi con un’espressione speranzosa e stupendomi nuovamente con la richiesta che accompagnò quello sguardo implorante.
«Posso averne un’altra? Questa volta fondente, grazie».
Sospirai rassegnato, imponendomi di non sorridere e mantenere la mia pacatezza davanti a quella stramberia, scuotendo il capo e recuperando la panna dal frigo. Sicuramente ce l’avrebbe voluta, doppia anche.
«Arriva subito».
 
 
 
 

Marco inizia a conoscere Ace per quello che è realmente e ne rimane, come dire, sconvolto? No dai, solamente incredulo, ecco. E’ un tipo che sta sulle sue, sempre posato e tranquillo, ma la sua facciata verrà messa sempre più a dura prova dalla vivacità del nostro ragazzino **
E poi, come non sorridere davanti ad un Ace alle prese con la cioccolata calda? La terza, anzi, la quarta! E con la paaaaaaanna!
Vado a prepararmene una, lol. Fatelo anche voi, mette sempre di buon umore ;D
See ya,
Ace.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. Osso duro. ***


Capitolo 4. Osso duro.

 

Quel ragazzo era un osso duro. Sul serio, nonostante il lavoro a stretto contatto con le persone, pareva sempre stare sulle sue e mantenere un certo distacco. Forse ero io che mi sbagliavo, ma l’avevo studiato bene: oltre ai sorrisi educati e ai soliti convenevoli, non si sbilanciava mai a fare di più e svolgeva semplicemente il suo compito con una calma e una pacatezza invidiabili. Come se niente potesse scalfire quell’aria apatica e quello sguardo sempre attento e silenzioso.
Dovrebbe sorridere di più, pensai tra me e me, mentre seguivo il suo profilo con sguardo discreto, studiandolo da dietro il listino che tenevo alto davanti al mio viso per nascondere il mio interesse.
Oggi sembra più serio del solito, anche se non posso dirlo con certezza visto che per la maggior parte del tempo si fa i benedetti affari suoi senza nemmeno calcolarmi, ma qualcosina di lui sto imparando a capirla. Ciò che più di tutto mi è chiaro è che non gli piace essere disturbato per stupidaggini. Bene, cioè male, io non sono il tipo da discorsi complicati e contorti. Ah, maledizione.

Mentre mi arrovellavo il cervello, grattandomi nervosamente la nuca e facendo varie smorfie piuttosto imbarazzanti, il cartoncino mi venne tolto all’improvviso dalle mani e un paio di occhi sbucarono dal nulla con un’espressione mista tra lo scettico e il divertito.
«Ma che…» provai a dire, cercando nel frattempo di assumere un’aria meno idiota di quella con cui mi ero fatto beccare per salvare almeno un po’ la mia reputazione.
«Ti ho chiesto per tre volte se avevi deciso cosa prendere» spiegò, incrociando le braccia al petto e ghignando beffardo, «E non hai mai risposto».
«Uh? Davvero? Io, ecco… Scusa» improvvisai, accennando ad un sorriso e ricevendo in cambio uno sbuffo esasperato, ma non scocciato come avevo temuto.
Scampato pericolo.
Ad ogni modo, anche dopo che ebbi ordinato, il muso lungo tornò ad impossessarsi dei suoi lineamenti, tanto da farmi ritornare alla mente le mie precedenti ipotesi e idee.
«Oggi il caffè dovrei offrirtelo io» me ne uscii senza volerlo, attirando inevitabilmente la sua attenzione, accompagnata poi da uno sguardo interrogativo e un sopracciglio esageratamente inarcato.
«Si, insomma» borbottai, giocherellando con il piatto dove stava comodamente adagiata una piadina, «Sembri piuttosto disperato».
Allora capì cosa intendevo, rilassando un po’ la postura rigida e avvicinandosi di qualche passo per appoggiarsi con i gomiti al ripiano del bancone e osservarmi mentre davo il primo morso, facendo scomparire metà panino e dandomi l’occasione di notare, come mi aspettavo, una certa sorpresa da parte sua nel vedere il mio modo di sfamarmi.
«Mi sbaglio?» chiesi a bocca piena, strozzandomi con un boccone e dovendo svuotare l’intero bicchiere d’acqua che gentilmente mi porse, ridendo sotto i baffi per la mia goffaggine.
«No» fece semplicemente, ma già più sollevato. Lo capivo perché i suoi occhi non mi stavano guardando con quel suo classico sguardo superficiale e disinteressato. Sembravano vivi e partecipi, attenti a quello che gli capitava intorno.
«Posso aiutare?». Mi sembrava il minimo dopo l’illuminazione che era stata lui per me, anche se a sua insaputa.
A quel puntò fece un mezzo sorriso che mi fece andare di traverso nuovamente il mio spuntino, visto il modo furbo e vivace in cui mi guardò.
«Vedere come ti ingozzi è sufficiente a farmi tornare il buon umore».
 
 
 
 
 
Non mi sto nascondendo perché sono in ritardo, affatto ** dai ragazzi, a parte gli scherzi, penso che la raccolta, se le cose vanno avanti così, dovrei aggiornarla spesso, SALVO IMPREVISTI COME IERI. Scusate comunque se non ve l’ho detto prima ^^
Anyway, Marco, Marco, Marco! Marco è un tipo posato e non si scomoda di certo troppo se non il minimo indispensabile. Ace, al quale si illuminano gli occhi al sol vederlo, è intenzionato a farlo uscire dal guscio e ci riesce, un po’ alla volta, senza nemmeno accorgersene. Come con la piadina, ma caro :3
Voglio precisare che l’ultima frase detta da Marco non è pronunciata con, come dire, affetto o sentimento. E’ sollevata e gentile, meno distaccata del solito, ma non nasconde nulla di più.
Per il momento almeno, abbiate pazienza.
Ringrazio tutti per l’interesse che dimostrate, siete così coccolosi *____________*
See ya,
Ace.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Non sono un ragazzino. ***


Capitolo 5. Non sono un ragazzino.

 

Il campanello della porta suonò e, come di consuetudine, alzai lo sguardo per vedere la faccia del prossimo cliente che avrei servito, immaginando già di chi si potesse trattare vista l’ora tarda del pomeriggio. Infatti mi bastò notare di sfuggita una testa nera e l’insolita altezza di questa per riprendere il mio lavoro e finire di sistemare la lavastoviglie.
Guarda chi arriva più contento che mai, riflettei sarcastico, se penso che la prima volta che l’ho visto sembrava un cane bastonato stento a crederci. Come riesce a mantenere sempre quell’aria spensierata e vivace? Non è mai serio, non sta fermo un secondo e mette a rischio le scorte di cibo e alimenti vari del locale. Pazzesco. Questo ragazzino è imprevedibile.
Sentii il chiaro rumore di uno sgabello strisciare sul pavimento e poi qualcuno vi prese posto. Potei quasi immaginarmi la faccia sorridente che attendeva solo che mi alzassi per attaccare bottone.
E quanto parla poi! D’accordo che lavorando come barista mi ritrovo spesso a chiacchierare, ma qualche minuto di pace mi andrebbe bene e se c’è lui nei paraggi di certo posso scordarmeli.
Non che la sua presenza mi desse fastidio, anzi, inoltre non passava di lì tutti i giorni, solo aveva qualcosa di strano. Non strano in senso cattivo, ma era come se non riuscissi a sentirmi del tutto a mio agio, ecco. Lui era un tipo socievole e cercava sempre di rivolgermi la parola e indurmi a parlare, parlare e parlare, quando io ero sempre stato quel genere di persona a cui piace rimanere ad osservare, piuttosto che buttarsi. E la confidenza che aveva era disarmante, tanto da lasciarmi spiazzato a volte.
Chissà che novità mi porta oggi.

«Ciao!» fece allegro quando mi rialzai, preparandomi mentalmente ad una mezz’oretta di intrattenimento.
«Ciao anche a te. Cosa prendi oggi?». Ecco un’altra cosa che faceva: cambiava sempre ordinazione. Dal caffè al tè, dalla piadina ai biscotti, dalla brioche a una birra.
Ci pensò su per qualche istante per poi chiedermi gentilmente un waffle. Tra tutto ciò che era presente nel menu scelse proprio quello in cui ero meno pratico.
Con un sospiro rassegnato mi misi a lavoro nell’esatto istante in cui lui iniziava a raccontarmi la sua giornata, concentrandosi soprattutto sui professori e chiedendomi se anche io li detestavo come la maggior parte degli studenti.
«Non li sopportavo nemmeno io» affermai senza rendermene conto, lasciandomi scappare qualche parola di troppo e rendendomi partecipe di quei suoi discorsi che non avevano ne capo ne coda. Forse per quello, un po’, mi piaceva ascoltarlo.
«Come sarebbe ‘sopportavo’? Non studi? Che fortuna. Io sono all’ultimo anno e non ne posso…».
Dandogli le spalle non poté vedere il sorriso che mi increspò le labbra. Certo che non andavo più a scuola, che domande. Non si era accorto che, in confronto a me, lui era ancora un ragazzino arrogante mentre io no? Benedetta gioventù.
«Allora?» finì di chiedere, riscuotendomi dai miei pensieri.
«Che cosa?» domandai, voltandomi appena e guardandolo da sopra la spalla, immaginando un enorme punto interrogativo stampato sulla sua faccia e sentendomi stranamente nei guai quando sogghignò con una strana luce negli occhi.
«Non mi stavi ascoltando, ammettilo!» ordinò vittorioso.
Alzai gli occhi al cielo, maledicendomi per essere stato così sciocco da farmi mettere nel sacco e sentirmi per giunta rinfacciare di non essere stato a sentire i suoi sproloqui. Come se lui fosse il più concentrato sulla terra. Nemmeno le contavo le volte in cui si perdeva nel vuoto.
«Ti ho chiesto quanti anni hai per aver già finito l’università, sempre se ci sei andato» disse, cercando di mantenere un contegno serio, anche se era chiaro che l’avermi beccato in fallo lo divertiva parecchio. Apprezzai comunque il suo impegno.
Fu allora che mi voltai e gli presentai un waffle dall’aria attraente, annegato nella cioccolata e con due biscotti al lato del piatto. Davvero, avevo superato me stesso con quel capolavoro.
«Avanti ragazzino, mangia e sta un po’ zitto».
«Ehi!» protestò, alternando lo sguardo da me alla favolosa golosità che rilasciava un profumo delizioso, «Non sono un ragazzino, io ho ventiquattro anni!».
«Appunto» ghignai.
«E tu allora? Non sarai messo tanto meglio».
«Ne ho trentadue».
Rimase con il boccone a mezz’aria per un istante mentre io mi godevo soddisfatto la sua espressione, riprendendomi anche una piccola rivincita su di lui dato che si era permesso di ridere della mia disattenzione.
«Vecchietto» se ne uscì allora con nonchalance e mettendo in bocca il primo pezzetto di waffle, sprizzando poi entusiasmo da tutti i pori. «Cazzo, ma è buonissimo!».
«Vaffanculo!» sbottai allora, lasciando perdere per la prima volta il mio contegno posato, ma il suo commento non poteva di certo restare impunito. «Dammi qua, non te lo meriti dopo questa!».
 
 
 
 
 
Owww, rotolo ogni volta che i miei occhi si chiudono e immaginano questi due assieme a bisticciare **
Solo poche parole, dunque: so perfettamente che Ace ha vent’anni, ma questa raccolta è un estratto della long che ho in corso dove il ragazzo frequenta l’ultimo anno di università, per cui qualche anno in più devo per forza darglielo. Poi, ho cercato qualche informazione, ma oltre al fatto che Marco sia un figo pazzesco non ho trovato la sua vera età. Io immagino sia più grande di Ace e non solo di un paio d’anni, quindi otto mi sembrava il minimo da dargli. Se siete più aggiornati di me vi prego di farmelo sapere così mi posso correggere u.u
Niente waffle per Ace dopo la sua battutona :D
See ya,
Ace.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. Io amo il miele. ***


Capitolo 6. Io amo il miele.

 

«Lo sai che mangiare troppi dolci non è salutare?».
Sollevai gli occhi dal piatto dove si trovavano una quantità industriale di dolcetti che stavo golosamente facendo scomparire come per magia per puntarli in quelli impenetrabili del mio barista preferito, il quale, con una faccia impassibile e sorprendentemente per niente schifata dai miei modi poco ortodossi di nutrirmi, mi fissava con il capo leggermente inclinato in quella sua tipica posizione riflessiva.
«Sono buoni» biascicai a bocca piena come scusa, con il segreto intento di riuscire in un’impresa quasi impossibile: strappargli una risata, «Sarebbe un peccato avanzarli».
Come risultato ottenni solo uno sbuffo sarcastico e un ghigno più simile ad una smorfia che ad un sorriso, ma come inizio non era così male, mi accontentavo.
Dovevo avere pazienza, quel tizio non era di certo uno facile e sicuramente avrei dovuto impegnarmi seriamente se volevo ottenere una qualche possibilità di essere notato o preso in considerazione come possibile compagno di uscite.
Il mio problema attuale, al momento, era un altro: quando l’avevo conosciuto non on mi aspettavo di certo che potesse essere così, come dire, attraente.
Attraente è dire poco. Questo è sexy oltre ogni limite! Guarda che schiena e che culo, pensai, adocchiando per qualche secondo la visuale che mi venne offerta del fondoschiena del biondo quando questo si girò per preparare un caffè ad un cliente di passaggio. Dio! Dio devo smetterla di invocarti, anche se ti sei dimostrato molto generoso con me in queste ultime settimane. Grazie!

Quando terminò il suo dovere e tornò a concentrarsi su di me spostai subito lo sguardo altrove e finsi indifferenza, prendendo un altro dolce e portandomelo alle labbra con l’intento di compiere un’altra magia per farlo sparire, ma qualcuno decise che quello era il momento migliore per interrompermi.
«Aspetta» fece ad un tratto, spostandosi all’interno dello spazio al di là del bancone e prendendo un misterioso vasetto da un ripiano sopra al lavello. «Quello lo devi mangiare col miele» spiegò, indicando il biscotto che tenevo ancora tra le dita con un cenno del capo.
Mi consegnò una piccola ciotola contenente il miele che ci aveva appena versato e un cucchiaino per raccoglierlo e lasciarlo colare sui dolci senza sporcarmi.
Apprezzai il suo suggerimento e, non vedendo l’ora di assaggiare quella nuova combinazione che non avevo mai provato prima, inzuppai direttamente la pasta frolla nella tazzina per poi fare un sol boccone di tutto.
Non avevo avuto dubbi sul fatto che la sua fosse un’idea grandiosa e quella nuova scoperta era sensazionale, davvero. Ovviamente non poteva sapere che quando si trattava di miele io andavo fuori di testa per i troppi zuccheri e mi sbrodolassi immancabilmente bocca e mani comprese. Era più forte di me, ma per quanta attenzione ci mettessi, quella sostanza appiccicosa mi colava sempre addosso. Probabilmente era lei a voler assaggiare me e non il contrario.
«Wow» mormorai, leccandomi le dita soddisfatto e accigliandomi quando lo vidi mettersi una mano davanti alla bocca per soffocare al meglio delle sue capacità un sorriso che minacciava di trasformarsi in una fragorosa risata. Si notava subito quando era divertito, glielo si leggeva negli occhi che, a sua insaputa, svelavano più di quello che lui volesse mostrare. E sembrava un buffo girasole allegro.
«Che c’è?» domandai imbambolato, sbiancando quando, con il pollice, mi diede un buffetto sul naso per togliermi i residui di miele che erano arrivati accidentalmente fino a lì. Avvampai, ma ipotizzai che fosse a causa del riscaldamento e pregai nuovamente il Signore, visto che ultimamente sembrava essere in ascolto, sperando di non essere arrossito per l’imbarazzo.
«Ecco fatto» sorrise, «Fastidioso il miele, vero?».
«Si» soffiai, «Fastidioso».
Benedette tutte le api nonostante l’allergia. Io amo il miele, non c’è niente di meglio al mondo!
 
 
 
 
Oh si, lo amo anche io il miele e sicuramente è quest’ultimo a volerti assaggiare, mio caro Ace! **
Bene, fatta anche questa per oggi e domani sto in vacanza, forse, se non vengo colta improvvisamente da un’illuminazione. Vedremo ;D
Cosa dite? Vi piace Ace? E, come una persona (Brava Flame) ha scoperto, Marco inizia a piacervi? Perché il mio intento e farlo amare. Andiamo, non è pazzesco adorabile anche lui? **
Anche io ho il nasino imbrattato di miele, so aspettando un buffetto u.u
See ya,
Ace.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. Mosaico di nozioni. ***


Capitolo 7. Mosaico di nozioni.

 

Quel giorno sembrava essere iniziato per il verso sbagliato e stavo già programmando di passare un pomeriggio noioso e infinito quando, ad un insolito orario, vidi il nuovo cliente abituale entrare nel bar trascinandosi dietro un pesante zaino nero e un paio di libri in braccio con l’aria di chi preferirebbe spararsi piuttosto che avere a che fare con tutte quelle scartoffie.
Aspettai che, come al solito, si accomodasse nell’angolo più remoto del bancone e che mi rivolgesse il suo classico e inquietante saluto, con tanto di sorriso da un orecchio all’altro e sguardo divertito. Nonostante l’immaginabile quantità di lavoro universitario che sembrava dover affrontare, la sua vivacità non mancò di colpirmi anche quella volta e, curioso di capire cosa lo portasse in un locale pubblico con una pila di libri alle tre del pomeriggio, lo raggiunsi con la scusa di chiedergli se volesse ordinare qualcosa.
«Nah, più tardi magari» rispose, scuotendo il capo, «Devo studiare adesso».
«E un bar ti sembra il posto migliore per farlo?» chiesi allora.
Si strinse nelle spalle e dall’occhiata che mi rivolse capii che stava per lanciarsi in una delle sue contorte spiegazioni.
«La biblioteca sembrava una fiera; le aule, quelle con il riscaldamento funzionante, erano tutte occupate; il mio appartamento non è il top della tranquillità il giovedì e questo rimaneva il mio unico porto di salvezza» sospirò affranto, prima di farmi trasalire sbattendo sul bancone un pesante volume di psicologia per poi aprirlo circa a metà.
Lo guardai per un lungo istante, indeciso se farmi beffe di lui o spedirlo fuori a calci per la sua poca grazia, ma quando tirò fuori dallo zaino logoro un quaderno per gli appunti stracolmo di fogli riempiti con una calligrafia geroglifica, decisi di lasciarlo nel suo angolino a studiare, ricordando come anche io cercassi sempre un posto abbastanza riservato per non essere disturbato.

Nelle ore seguenti scoprii che quel ragazzino si impegnava con tutto se stesso nello studio, tanto  che non mi chiese mai nulla e non accettò nemmeno di fare una pausa. L’unica cosa che apprezzò fu una tazza di caffè che gli piazzai silenziosamente accanto al libro. Per il resto, rimase con la testa sepolta nel tomo fino a quando l’orologio non segnò le sei e un quarto.
«Maledizione!» imprecò improvvisamente, sbuffando stancamente e lanciando la matita sul bancone.
Inarcai un sopracciglio con un mezzo sorriso sulle labbra nel vederlo così indaffarato con i compiti, chiedendogli poi se ci fosse qualche problema e aspettando che mi chiedesse aiuto. Perché sapevo che lo avrebbe fatto, non era capace di non coinvolgere qualcuno nelle sue stramberie.
«Non ci capisco niente» sbottò frustrato, passandosi una mano sul viso.
«Avanti, fa vedere».
Ignorando il suo sguardo stupito, mi avvicinai alla sua postazione e voltai il libro verso di me, scorrendo velocemente le frasi che vi erano scritte.
«Mi piaceva psicologia» svelai, «Dovevi saper leggere tra le righe per trovare la risposta».
«A me sembra di impazzire» affermò sconfortato e stringendosi nelle spalle.
«Per ora sono libero. Se vuoi ti do una mano» proposi, iniziando a slegarmi il grembiule che indossavo per metterlo da parte e appoggiandomi al bancone in modo da ritrovarci faccia a faccia.
Sbatté le palpebre qualche volta di troppo e repressi a stento la voglia di sorridere davanti alla sua malcelata sorpresa, ma poi sembrò riprendersi e concentrarsi sulla materia in questione.
«Dunque» iniziai pratico, «Psicologia: mosaico di nozioni che si arricchisce continuamente…».
Tornando con la memoria ai vecchi tempi in cui anche io ero uno studente fuso, non mi accorsi del timido sorriso e dello sguardo illuminato che il ragazzino nascose prontamente scompigliandosi i capelli corvini.
 
 
 
 
Rotolo, rotolo, rotolo **
Marco quanto sei adorabilmente fintamente disinteressato e indifferente alla bella figura di Ace? Non ti crede nessuno quindi smettila di fare finta di nulla u.u Seriamente, Marco ancora si comporta come se nulla fosse, con normalità, mentre Ace sbava ovunque, ma si darà presto una svegliata. Spero. Dipende. Si, insomma, si vedrà :D
Wiiii, vi lascio a fantasticare :Q___________
See ya,
Ace.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. Tu cosa farai a natale? ***


Capitolo 8. Tu cosa farai a natale?

 

Mi piaceva l’inverno, davvero. Tutto assumeva una sfumatura, in un certo senso, calda. Calda perché, a causa del freddo, si indossavano maglioni pesanti, sciarpe, guanti, cappelli e qualsiasi indumento di lana. Nelle case si accendeva il riscaldamento, il camino o la stufa e non c’era niente di meglio che acciambellarsi nel divano con una coperta felpata e una bella dose di cibo da asporto, che faceva sempre bene e non stonava mai, davanti ad un film o a qualche stupido programma. Coinquilini a parte, era l’ideale per rilassarsi.
E poi c’era la benedetta e sacrosanta cioccolata calda. E quale posto migliore di un bar per prenderne una in pace e tranquillità con una doppia dose di panna e una spolverata di scaglie di cioccolato fondente? Conoscevo il posto adatto e fu con un enorme sorriso che entrai nel suddetto locale dove lavorava una testa d’ananas per la quale avevo sviluppato un inquietante e morboso interesse.
«Oh ciao» salutò, accennando stranamente ad un sorriso e non al tipico ghigno apatico che mi rivolgeva praticamente sempre.
«Ciao!» feci a mia volta e con il mio solito entusiasmo che non mancavo mai di sfoggiare. Prima o poi avrei contagiato anche lui, poco ma sicuro. «Siamo allegri oggi».
«La mia famiglia sta già iniziando a programmare le feste natalizie. Hanno intenzione di iniziare a mangiare non appena scattano le vacanze» spiegò, incapace di stare zitto e trattenendo a stento l’eccitazione che quella notizia sembrava trasmettergli. Chissà, magari erano tanti fratelli e parenti e l’allegria non sarebbe di certo mancata in una grande famiglia.
Lo capivo benissimo, a me capitava lo stesso praticamente da una vita, per questo non faticai a prendere parte alla sua contentezza, ascoltandolo mentre mi spiegava come i suoi, come avevo immaginato, infiniti fratelli si dessero alla pazza gioia con le decorazioni, l’albero, il presepe e, soprattutto, i dolci e tutte le altre pietanze.
Sembrava un’altra persona in quel momento: così rilassato, così socievole, amichevole e maledettamente bello. Mentre parlava muoveva mani e braccia per esprimersi meglio e per aiutarmi ad immaginare la scena descritta, ogni frase che pronunciava era accompagnata da un sogghigno esasperato per le marachelle combinate dai suoi famigliari, ma tutto di lui esprimeva affetto.
Eravamo così intenti a chiacchierare che ci sembrò normalissimo starcene appoggiati al bancone, l’uno sporto verso l’altro con il sorriso sulle labbra a ridere e scherzare. Il miglior momento della giornata, senza dubbio.

«E tu cosa farai a natale?» chiese ad un tratto.
Ci riflettei per un attimo, indeciso se svelargli o meno tutte le cazzate a cui mi capitava di assistere ogni benedetta volta dell’anno in cui le strade si tingevano di bianco e la gente aspettava ansiosa Babbo Natale. Forse potevo restare sul vago e non scendere nei particolari.
«Beh, le solite cose» dissi evasivo, grattandomi il capo imbarazzato.
Se ne accorse perché iniziò ad insistere per sapere cosa gli stavo nascondendo. A detta sua ero un libro aperto per lui.
Ignorando le palpitazioni che iniziarono a battere nel mio petto, feci un respiro profondo e pregai di non essere tanto sciocco da scandalizzarlo.
«Allora, ogni anno i miei amici decidono di autoinvitarsi nel mio appartamento e dare inizio ad una festa che si protrae fino a dopo capodanno. E non sto scherzando, alcuni hanno il coraggio di trasferirsi da noi e dormire lì. A parte questo non facciamo un granché, se non si conta la quantità illimitata di alcool che circola; giochi illegali; gente in mutande che esce a fare pupazzi di neve; canzoncine di natale storpiate al momento e cantate al megafono in terrazzo e… no, aspetta, questo non te lo racconto». Mi fermai appena in tempo per non rendere nota la più grande sciocchezza che avessi mai combinato e che era finita nella lista delle cose da rifare fino alla morte di quello scapestrato di mio fratello.
«Oh no, non puoi non dirmelo, ormai ci sei dentro!» fece categorico, scuotendo il capo e puntandomi un indice addosso, sfiorandomi il naso.
«E come pensi di convincermi?» lo sfidai sogghignando. Non avevo nessuna intenzione di cedere, nemmeno se era lui a chiedermelo.
Sembrò non aspettare altro e, superando le distanze di sicurezza che io di certo non avrei mai imposto tra noi, arrivò a trovarsi ad una spanna dal mio volto con l’aria di chi sa esattamente ciò che vuole. Meglio così, perché io avevo il cervello in black-out da un pezzo.
«Se non me lo dici» sussurrò serafico e con uno sguardo così abbagliante che per un attimo il tempo sembrò fermarsi. Lui doveva essere la mia maledizione personale, ne ero sempre più convinto.
«Niente cioccolata!». Una pacca amichevole si abbatté sulla mia testa e mi riportò alla realtà, ricordandomi solo in quel momento che dovevo respirare.
Dio mi vuole morto, devo averlo offeso in qualche modo.
«Allora?». Con la faccia di chi sa di averla vinta quel ragazzo con il brevetto per causare infarti aspettava la mia confessione.
Sospirai rassegnato e leggermente deluso, ma quel gioco stava iniziando a piacermi e, di questo ne ero certo, avrei fatto di tutto per vincere la partita e giocare sporco come faceva lui sarebbe stata la priorità.
«Ho attaccato ad un albero di natale una certa quantità di fuochi d’artificio collegati a un detonatore che poi ho attivato. E indovina? L’albero sembrava un razzo. Meraviglioso!».
Mi guardò allibito per qualche istante prima di commentare e farmi ridere come uno scemo.
«Tu, ragazzino, sei un piromane».
«Non sei il primo a dirlo».
 
 
 
 
Non mi matto a cantare canzoncine di natale perché sono stonata, ma fate finta che l’abbia fatto lo stesso ** ad ogni modo con questo capitoletto voglio augurare a tutti un Buon Natale, tanti regali, tanti dolci e taaanto affetto ** si, con il natale sclero :3
Mangiate tanto, ingrassate e poi rotolate per casa, io farò così e non vedo l’ora!
Beh, di certo Marco SA come ammaliare le persone :Q____ mentre Ace (botti di capodanno) SA come divertirsi. Ed essere bello. E caro. E adorabile. Bene, basta.
Da notare che non si chiamano ancora per nome ma lo faranno presto, mlmlml **
Che altro dire, un Grazie a tutti voi che seguite, leggete e recensite e mi fate arrossire e rotolare ogni volta per la troppa gentilezza che non merito. Un abbraccione grandissimo quindi e a prestissimo :D
See ya,
Ace.
 
P.S: un piccolo regalino allegro **
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Capitolo 9
*** Capitolo 9. Abitudini. ***


Capitolo 9. Abitudini.

 

Ormai si poteva dire che la routine facesse parte della mia vita.
La mattina mi alzavo e andavo ad aprire il bar; poi pausa pranzo; il pomeriggio lo passavo al bar, di nuovo; la sera chiudevo e me ne tornavo a casa salvo occasioni particolari in cui tenevo aperto. Feste, compleanni, spettacoli, quello che mi veniva proposto accettavo. Era sempre un modo per uscire dalla monotonia.
Oltre a questo conoscevo ogni abitudine dei miei clienti con i quali mi divertivo a indovinare le loro vite.
C’era il vecchietto delle otto e mezza del mattino che ogni giorno veniva a fare colazione da me, sedendosi sempre nel tavolo centrale a leggere il giornale e ordinando un caffè e un cornetto. Sembrava il classico pensionato. Subito dopo veniva una donna che avevo soprannominato ‘la Nonna delle Nove’ la quale, con una sfacciataggine da far paura, cercava puntualmente di palparmi il sedere quando le portavo la sua ordinazione: cappuccino e brioche. ‘La Principessina’ era una liceale dai buffi capelli azzurri, anche se io ero l’ultimo a poter giudicare le acconciature altrui, che passava da quelle parti verso le undici e un quarto per ordinare un paio di panini da portare via. Era simpatica e ben educata, sempre scortata da una macchina nera che la aspettava in strada. Forse la figlia di qualche pezzo grosso, così le avevo affibbiato quel nomignolo altisonante. Al pomeriggio, però, mi divertivo di più. Innanzitutto, dopo pranzo, venivano a salutarmi dei carpentieri molto simpatici, un gruppo di ragazzoni esaltati e rumorosi, ma brave persone e sempre pronti a fare battute di spirito. Una volta usciti loro, entravano spesso alcune studentesse che si sedevano negli ultimi tavoli a chiacchierare e a bere qualche bibita, giusto per staccare un attimo dallo studio. In contemporanea, come se lo facessero a posta, un gruppetto di ragazzi prendeva posto poco distante e mi offriva la possibilità di vedere come le nuove generazioni cercavano di attaccare bottone, fallendo miseramente. Mi divertivo a chiamarli ‘Cuori Infranti’. Verso le cinque, più o meno, arrivava un tizio con gli occhiali da sole e un buffo berretto in testa con il frontino a nascondergli il viso. Si sedeva accanto alle vetrate e, ora che era inverno, ordinava una cioccolata per poi sorseggiarla da solo e in pace, osservando i passanti e perdendosi nei suoi pensieri. Solitario mi era sembrato il nome più adatto da dargli.

Conoscevo le abitudini di tutti i presenti e anche il nome di alcuni di essi, eppure restava una persona che continuava ad essere una vera incognita.
Era arrivato un giorno per caso e non se ne era più andato. Era difficile da classificare dato che di lui sapevo solo che frequentava l’università, quindi potevo dedurre che fosse uno studente, ma per il resto aleggiava il mistero. Non passava di lì tutti i giorni e nemmeno un giorno si e uno no, con regolarità. Insomma, non aveva orari, semplicemente me lo trovavo davanti agli occhi con quel sorriso aperto e allegro e quello sguardo entusiasta. Altra cosa che mi mandava in confusione era il fatto che non ordinasse mai la stessa cosa. Cambiava sempre, assaggiando di tutto e apprezzando qualsiasi cibo mangiasse. Capirlo non era facile, tanto era imprevedibile. Parlava di tante cose e saltava da un argomento all’altro troppo velocemente, tanto che molte volte non riuscivo a stargli dietro e dovevo concentrarmi e mordermi l’interno di una guancia per non scoppiare a ridere davanti alle sue stramberie o figuracce.
Esattamente quello che stavo facendo in quel momento mentre lui cercava in tutti i modi di raffreddare la lingua che si era scottato nel voler subito bere la cioccolata che avevo appena tolto dal fornello.
«Io te l’avevo detto» gli feci notare sogghignando. Quello potevo permettermelo almeno.
«Non è vero, mi hai detto che calda era più buona» protestò mettendo il broncio e tenendo la lingua tra le labbra e a contatto con l’aria.
Mi strinsi nelle spalle, «Non intendevo che dovevi berla all’istante».
«Potevi spiegarti meglio!» insisté.
Alzai gli occhi al cielo e mi lasciai scappare un sospiro esasperato davanti alle sue lamentele.
«Sei proprio un ragazzino» dissi, godendomi la sua espressione di disappunto che si trasformò prontamente in una serie di velati insulti su quanto gli anziani avessero le ossa fragili.
Se pensava di prendermi a pugni e battermi, si sbagliava di grosso, ma che potevo farci? I piccoletti erano sempre così impulsivi e pieni di sé, ma questo, dovevo ammetterlo, un po’ mi divertiva.
 
 
 
 
Quella delle abitudini mi aleggiava in testa da un po’ e ho trovato il tempo di buttarla giù, finalmente! Il vecchietto, la nonna, i carpentieri e gli studenti sono comparse, ma se avete alcune proposte o idee su chi potrebbero rappresentare fatemi sapere così do loro un nome ^^ mentre indovinate chi sono la Principessina e il Solitario, lol. Sono facili dai ^^
A proposito, Marco inizia a prestare attenzione a Ace, awawawa. Inizia col pensare all’incognita del suo modo di fare per poi ammettere che lo diverte. E col tempo non avrà occhi che per lui, si spera!
Aaaaanyway, passato bene il natale? Quanto avete mangiato? E Quanti regali avete ricevuto? Io sono contenta come un papavero perché sotto l’albero ho trovato Kidd e Ace **
Buon Natale a me :Q____
 
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See ya,
Ace.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. Finirai per consumarlo. ***


Capitolo 10. Finirai per consumarlo.

 

Me ne stavo seduto al bancone, i gomiti sul tavolo e le mani a sorreggermi il capo mentre, con aria rilassata e sognante, ammiravo ogni movimento del barista biondo per il quale tutte le settimane passavo a bere una cioccolata mettendo a rischio il fisico allenato di cui andavo fiero. Pazienza, quel ragazzo ne valeva la pena mi ripetevo.
Quel giorno stavano facendo dei lavori di ristrutturazione al tetto e quando ero arrivato avevo fatto solo in tempo a salutarlo e a ordinare una tazza di caffè prima che venisse richiamato fuori per rispondere ad alcune domande e a parlare con i lavoratori, guardando verso l’alto e coprendosi gli occhi con la mano per ripararli dal sole. Anche se non era così caldo era comunque uscito con le maniche della maglia nera che usava per lavoro arrotolate mentre il resto della stoffa gli aderiva in modo perfetto al petto, finalmente libero da quello stupido e ingombrante grembiule.
Ogni tanto faceva qualche passo lungo il marciapiede, grattandosi distrattamente la testa e smuovendo quel ciuffo bizzarro che, a sua insaputa, attirava l’attenzione di parecchi passanti. Così alto, così disinvolto, così dannatamente figo da non riuscire a staccargli gli occhi di dosso nemmeno per bere quel fottuto caffè che mi stava accanto. Niente da fare, si sarebbe raffreddato, ma anche in quel caso ne sarebbe valsa la pensa visto che attraverso le vetrate potevo godermi indisturbato la sua visuale, riflettendo su quante possibilità avessi di proporgli di uscire e ottenere un si come risposta. Non ne avevo calcolate molte fino ad allora, ma ero deciso a continuare a provare.
E’ così bello, pensai, lasciando andare un sospiro trattenuto troppo a lungo.

«Di questo passo finirai per consumarlo» fece una voce scherzosa e maliziosa allo stesso tempo.
Sobbalzai nel constatare che, esattamente di fronte a me e dall’altra parte del bancone, un ragazzo che non conoscevo stava appoggiato al ripiano e guardava nella mia stessa direzione, come se volesse imitare quello che stavo facendo.
Mi allontanai quel tanto che bastava per non essere faccia a faccia con lui e cercai di ricompormi meglio che potevo, sperando di non arrossire e fingendomi colto alla sprovvista per tentare di salvare quel po’ di dignità che mi rimaneva.
«M-ma di c-chi parli?» chiesi innocentemente e notando che il nuovo arrivato indossava un abbigliamento simile a quello del biondo con l’unica differenza che questo era moro e con una barbetta ispida e scura. Quando mi accorsi dell’acconciatura dei capelli mi chiesi se in quel bar conoscessero il significato della parola parrucchiere o, nel suo caso, barbiere.
Il ghigno che mi rivolse mi preoccupò assai e fece crollare le mie speranze di passarla liscia, lo confermò la risposta che mi diede qualche attimo dopo, accompagnata da un sorrisetto che la sapeva lunga e che rispecchiava la frase ‘chi credi di prendere per il culo?’.
«Non fare il finto tonto con me» disse infatti, indicando la strada con un cenno del capo e incrociando le braccia al petto, «Della testa d’ananas la fuori, di chi sennò?».
Nega, nega fino alla morte!
«Non so di cosa stai parlando» feci indifferente, afferrando la tazza e iniziando a sorseggiare la bevanda ormai tiepida e schifosamente amara. Non avevo nemmeno messo lo zucchero.
«Lo stavi mangiando con gli occhi, ammettilo» insisté l’altro, allargando il sorriso e sporgendosi verso di me con un’espressione insolitamente divertita, troppo forse e ciò mi mise una certa ansia. Soprattutto, mi chiedevo chi diavolo fosse quello e da dove fosse sbucato.
Intuendo il mio disappunto, il moro si schiarì la voce senza spostarsi di un millimetro e mi porse la mano, aspettando che io facessi altrettanto.
«Sono Thatch e quello che stavi sciupando a furia di fissarlo è mio fratello: Marco» confessò in maniera esaltata. Ancora un po’ e si sarebbe messo a saltare sul posto, ne ero certo.
«Oh porca puttana» sussurrai, dimenticandomi persino di dirgli chi ero io e pensando solamente che ero nei guai fino al collo ora che non una persona qualunque, ma il fratello del ragazzo per cui sbavavo si era accorto del mio malcelato interesse. Ragazzo di cui avevo appena scoperto il vero nome, cosa che non mi ero mai soffermato a chiedermi, tanto ero preso da lui.
Marco, com’è strano chiamarlo per nome, trovai il tempo di pensare, ma gli sta bene, non avrei potuto aspettarmi di meglio. Marco.
«Puoi dirlo forte ragazzino!» affermò, sempre sorridente e, stranamente, per niente disturbato dall’accaduto. Sembrava, come dire, contento e non cercò minimamente di farmi il terzo grado o di mettermi in guardia sul fatto che, se avessi toccato uno della sua famiglia, mi avrebbe spezzato le gambe. Insomma, niente di losco.
Ad ogni modo, prima che la situazione degenerasse, il biondo in questione fece il suo ingresso con la sua solita calma e, una volta accortosi chi avevo davanti, si fiondò verso di noi chiedendoci se fosse tutto in ordine.
«Tutto tranquillo!» urlò Thatch iperattivo, ricevendo in cambio un’occhiata ammonitrice dall’altro che, con una certa aria preoccupata e nervosa, mi chiese se quello psicopatico mi avesse per caso infastidito, spiegandomi che a volte poteva essere davvero pesante e logorroico.
Lo rassicurai, leggermente in imbarazzo, dicendogli che non era successo niente di strano e che non doveva farsi problemi per me perché avevo il mio adorato caffè a farmi compagnia.
«Se combina guai avvisami» fece Marco, prima di lanciare un ultima occhiata al ragazzone che aveva osservato con attenzione la scena prima di tornare dai lavoratori e lasciarmi in balia di quegli occhi scuri e che sembravano volermi dire che avevano capito tutto.
Cercai di evitarlo e non prestargli attenzione, ma quello si intromise a forza nei miei pensieri agitati e, alzando il pollice all’insù mi fece andare di traverso il caffè con le sue parole incoraggianti.
«Non temere, ragazzino, il tuo segreto con me è al sicuro» ammiccò, «E poi mi sei simpatico, quindi potrei anche svelarti il modo migliore per portarti a letto il mio fratellino».
Incapace di contenermi, spruzzai il caffè ovunque sul bancone facendo scoppiare l’altro a ridere come un pazzo.
E adesso chi lo risolveva quel casino.
 
 
 
 
 
Non so voi, ma io mi sono innamorata della scena. So che è un controsenso perché l’ho partorita da sola, ma davvero ho ghignato tutto il tempo mentre scrivevo!
E dopo questa posso nascondermi perché a voi può benissimo fare schifo, yeah u.u
Anyway, QUALCUNO si è accorto del segreto di Ace e sempre QUALCUNO ha scoperto il nome della nostra ananas **
Gli ingranaggi iniziano a muoversi, evvai! Fuochi d’artificio!
Questo non c’entra con la storia, maaa… oggi ho visto Prisoners, bellissimo film, e mi sono ulteriormente innamorata di Jake Gyllenhaal, lol **
See ya,
Ace.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. La Fenice. ***


Capitolo 11. La Fenice.

 
«Ehi, Fenice, portamene un’altra!».
Uh? Fenice? Ma che sta dicendo questo, è già ubriaco?
Mi stupii parecchio quando vidi Marco, che bello riferirsi a lui chiamandolo per nome, annuire nella direzione dell’uomo che chiedeva con un sorriso sulle labbra un secondo boccale di birra prima di tornarsene a casa dopo il lavoro.
Quando il ragazzo tornò al bancone riprese a sistemare le solite cose che lo tenevano occupato tra un’ordinazione e l’altra, mentre io continuavo a fissarlo con un’espressione curiosa e il capo inclinato da un lato, nonché una serie di domande che mi frullavano per la testa incessantemente.
Sembrò accorgersene, oppure si sentiva semplicemente osservato, perché mi lanciò un’occhiata veloce e, nel vedermi così assorto, un sorriso fece capolino sul suo volto, probabilmente intuendo l’esatta piega dei miei pensieri.
«Sei davvero un tipo attento» notò tranquillamente, asciugando una serie di bicchieri e guardandomi nuovamente. Stavolta il sorriso si vedeva benissimo e fui tentato di rimanere in silenzio ad ammirarlo, ma non sarebbe stata una buona idea, non in quel momento. Ci avrei ripensato più tardi a casa.
Mi strinsi nelle spalle, «Abbastanza direi».
Annuì e finì di mettere in ordine le stoviglie per poi appendere il canovaccio e appoggiarsi al bancone di fronte a me come aveva preso a fare da un po’ di tempo quando si trovava a chiacchierare con qualcuno. A dire il vero era una cosa che faceva solo con me e questo mi faceva sentire privilegiato e lusingato oltre ogni dire.
«Allora, da dove cominciare?» sospirò, incrociando le dita e fissando il mio piatto, «La conosci la leggenda della Fenice giusto?». Davanti al mio cenno di assenso riprese il suo racconto.
«Si dice che, nell’ora della morte, la Fenice si lasci bruciare e che una nuova vita rinasca poi dalle sue ceneri. E’ un po’ quello che è successo a me. Non che mi sia dato fuoco, ma l’orfanotrofio in cui sono stato abbandonato, qualche anno dopo il mio arrivo, è stato raso al suolo da un incendio». Fece una breve pausa e si morse un labbro leggermente a disagio sotto al mio sguardo sgranato e incapace di formulare una frase, «Io sono l’unico sopravvissuto». Accompagnò il tutto con un sorriso per tentare di alleggerire la tensione, ma capivo benissimo che non doveva essere stato facile per lui affrontare tutto ciò, specie se così piccolo. E solo.

L’istinto fu più forte di me e, senza rendermene conto, gli avevo appoggiato una mano sulla spalla, attirando la sua attenzione e ottenendo l’effetto che volevo: ossia i suoi occhi nei miei e allora gli regalai uno dei miei migliori sorrisi, uno dei più allegri e sinceri, uno dei più aperti e amichevoli. Se lo meritava e servì a far sì che buona parte del peso che accompagnava il suo passato svanisse. Glielo si leggeva in faccia che stava molto meglio, ma non ero del tutto soddisfatto. Mancava ancora qualcosa.
«E così ti chiamano La Fenice per questo?» chiesi, assumendo un’aria pensierosa mentre lui mi fissava in modo interrogativo. Feci finta di pensarci un po’ su mentre lo guardavo dall’alto in basso, come se avessi voluto studiarlo in modo approfondito. In realtà conoscevo a memoria ogni sua sfaccettatura, tanto l’avevo guardato nelle occasioni che mi si presentavano, ma questo non potevo certo dirglielo.
«Secondo me Testa d’Ananas ti si addice di più» sfottei infine, iniziando a ridacchiare quando lo vidi spalancare gli occhi incredulo, ma divertito. Infatti non si trattenne dal darmi del ragazzino irriverente e sfacciato.
«Impiastro» dichiarò infine, ghignando contento, «Sei proprio un impiastro».
«Anche Pennuto ci sta bene, altro che Fenice!».
«Esci dal mio locale!».
 
 
 
 
Rotolo, rotolo, rotolo. Davvero, devo smettere di rotolare, sto prendendo un brutto vizio ultimamente!
Oh, ma ciao! Oggi si parla di Marco, Marco la Fenice. Ommioddio, sbavo. Sul serio, questo personaggio mi piace troppo. Sia per il carattere, per i modi calmi e che, secondo me, nascondono Diosolosacosa. Per non parlare del suo potere e di come possa essere così hfvueqiovfhuqo **
Ad ogni modo, l’idea dell’orfanotrofio è ripresa dall’altra mia long. Ovviamente dovevo citare questo aspetto visto che le vicende che accadono qua sono collegate a quella, ma volevo descrivere come Ace viene a conoscenza di certi particolari. Non potevo mica dire che Marco si trasformava in un pennuto, pensate come ci sarebbe rimasto il nostro piromane! Quindi spero che l’alternativa a questo soprannome particolare possa esservi piaciuta, ho fatto del mio meglio ^^
Ho già parlato troppo, mi dileguo. Un abbraccione a tutti!
See ya,
Ace.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. Serata di Poesie. 1. ***


Capitolo 12. Serata di Poesie. 1.

 

E così tengono aperto anche di sera? Ma pensa. E io che la maggior parte delle volte non so mai cosa fare a casa, ora avrò un buon motivo per uscire ed evitare di sorbirmi le liti tra Penguin e Bepo. Povero Law, magari potrei dirgli di venire con me… Nah, finirei per mettermi nei guai e sicuramente capirebbe il mio unico interesse nel giro di qualche secondo. Il punto ora è: cosa cazzo mi invento per spiegare la mia presenza qui?
Mi guardai attorno e notai come la zona di solito buia fosse illuminata da luci colorate, basse e soffuse, mentre una più forte e chiara era puntata sul palco dove un ragazzo dall’aria timida stava leggendo un foglietto di carta.
Poesie cazzo! Sul serio tengono aperto per questa roba? Dio, all’università mi addormento sempre durante l’ora di italiano. E poi mi chiedono perché mi succede. Mi sembra ovvio, guarda che mortorio!
Mi sedetti al bancone al mio solito posto e osservai torvo una ragazzina dai capelli rossi dare il cambio a quel povero sfigato con gli occhiali per poi schiarirsi la voce e attaccare con il suo pezzo. Inutile dire che la mia faccia era a dir poco disgustata.
«E tu che ci fai qui?».
Da schifata la mia espressione si tramutò per magia in una più sorridente e illuminata non appena mi ritrovai davanti Marco che, facendo buon uso della sua gentilezza, mascherava un’aria interrogativa e stupita. Forse mi sbagliavo, ma sembrava sul punto di scoppiare a ridere, anche se non ne vedevo il motivo.
Mi ricordai in quel momento che dovevo trovare una buona scusa per chiarire la mia visita quella sera e la prima cosa che mi venne in mente fu la più stupida che potessi inventare e forse anche ciò che divertiva così tanto il ragazzo.
«E’ la serata di poesie, no?».
Mi guardò storto per un secondo e con uno sguardo che sembrava chiedermi se fossi serio o se stessi scherzando. Lo confermavano le sopracciglia che a momenti arrivavano all’attaccatura dei capelli e dal mezzo sorriso che sembrava indeciso se trasformarsi in un ghigno o in una piega disgustata.
Mi morsi un labbro e rincarai la dose di stronzate, cercando di sembrare convincente. «Io amo la poesia».
Io e il mio maledetto spirito di sacrificio. Tutto quello che stavo facendo doveva pur valere qualcosa, altrimenti non ci avrei pensato due volte a sotterrarmi.
«Ah. Cioè, bene, allora sei nel posto giusto».
Che figura di merda. Che figura di merda. Che figura di merda.

Avrei tanto voluto coprirmi il viso con le mani, prendermi a pugni, offrire il mio bacato cervello a Law per i suoi contorti esperimenti, invece dovetti fare buon viso a cattivo gioco e fingermi interessato a quelle quattro frasi che, nonostante non capissi, mi obbligavo a commentare di tanto in tanto, facendo scappare qualche sorrisetto sarcastico al biondo che, con fare annoiato, se ne stava mezzo stravaccato sul bancone, reggendosi il mento con le mani per non cadere addormentato. Esattamente le sensazioni che provavo io perciò, notando che praticamente nessuno aveva intenzione di interrompere quelle esibizioni ordinando qualcosa, iniziai a chiacchierare con lui del più e del meno, ricavando un piccolo spazio per noi e arrivando a ricamare battutine divertenti su tutti coloro che proponevano le loro ‘perle’.
«Questo non conosce l’esatto significato del gusto estetico» mi fece notare Marco ad un certo punto, indicando un tizio con degli abiti orribilmente abbinati che stava scendendo dal palco, mentre un alto faceva la sua apparizione più truccato che mai.
«E quel naso da pagliaccio è finto» constatai. Se ne sarebbe accorto chiunque che un naso così rosso e a palla altro non poteva essere che di plastica. Tralasciai per pietà i suoi assurdi capelli azzurri.
«Odio queste serate. Sono infinite e guai se qualcuno fa rumore. Dovresti vedere come vanno fuori di testa gli autori».
«Sul serio?» chiesi, mentre un’idea si faceva strada nella mia testa. Magari un po’ di movimento non sarebbe guastato e sarebbe servito ad animare un po’ gli animi. Dopotutto, chi avrebbe potuto dire di no ad un po’ di sana musica? Giusto per fare una pausa.
«Hai una console da qualche parte?» domandai con tono cospiratore.
Si accigliò un istante prima di indicare un impianto stereo perfettamente funzionante accanto al palco improvvisato. Così, con il lettore musicale a portata di mano e dopo aver spiegato il mio piano a Marco, mi feci accompagnare fino all’obbiettivo e, dopo aver collegato qualche cavo, assaltai il piccolo palcoscenico in legno e strappai dalle mani il microfono a quel clown da quattro soldi, venendo fulminato all’istante da un’occhiata omicida che ignorai bellamente.
«Bene Signori, pausa di cinque minuti. Birra per tutti e un po’ di movimento». Dopo di che diedi il segnale e la musica iniziò a diffondersi per il locale con note sempre più alte mentre sorrisi di apprezzamento apparivano sulle labbra dei presenti.
«Come ti permetti di venire qui e interrompere il mio lavoro?».
Rivolsi un sorriso sornione all’uomo incazzato a pochi passi da me e, indicando il barista che sapevo essere alle mie spalle, feci con aria innocente: «Ho il suo consenso».
Un’occhiata veloce dietro di me e vidi un Marco annuire in piedi vicino allo stereo, soddisfatto del nostro operato e ghignante per il risvolto della situazione ora non più noiosa e monotona.
Mi concessi qualche istante per guardarlo. Poteva essere educato e cordiale quanto voleva e per la maggior parte del tempo, ma aveva appena fatto il bastardo seguendo una mia idea poco corretta. E dovevo ammettere che questo lo rendeva maledettamente sexy.
«Visto?» feci vittorioso.
Un cipiglio offeso fu tutto quello che ebbi come risposta, poi mi voltai e feci per scendere dal palco, ma la musica si abbassò all’improvviso per diventare un lieve sottofondo e una voce che conoscevo benissimo attirò l’attenzione dei presenti con un annuncio che mi fece impallidire.
«Signore e Signori, lasciate ora che questo studente ci delizi con una delle sue poesie, data la sua grande passione per questa materia così affascinante».
Per la prima volta fissai Marco con l’intenzione di ucciderlo e a nulla valse il mio tentativo di svignarmela da lì alla svelta. Ero bloccato in quel buco, con le luci puntate e accecanti, gli sguardi di tutti puntati addosso, un blocco facciale in un’espressione scandalizzata, la mente incapace di elaborare qualcosa e gli occhi divertiti di quel pennuto che sembravano sfottermi silenziosamente.
Deglutii a fatica e sudando freddo. Di certo ora odiavo la poesia con tutto me stesso.
 
 
 
*Premetto subito che io non ho assolutamente niente contro le poesie e i bellissimi capolavori dei più noti e grandi poeti e scrittori.*
Detto questo, passiamo a commentare quanto la materia possa andare a genio a uno come Ace. Ovviamente non potevo descriverlo come un appassionato e nemmeno Marco, per quanto adulto possa essere uno come lui. Eh beh, ovviamente doveva inventarsi qualcosa per spiegare la sua presenza li quella sera e cosa c’è di meglio che ascoltare poesie? Cosa? Sarcasmo pesante. Animiamo la serata con le idee di Ace e buttiamo giù dal palco il mio amato Buggy il Clown. Si, si trattava di lui e ancora si, lo trovo un simpaticissimo voltagabbana (doppia faccia).
Qui abbiamo un bad-boy-Marco e un Ace-improvviso-poeta. Magari la prossima volta vi scrivo anche le rime che si è inventato su due piedi :D
See ya,
Ace.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. Serata di Poesie. 2. ***


Capitolo 13. Serata di Poesie. 2.

 

«E piantala con quel video, avevi detto che l’avresti eliminato!».
«Vuoi scherzare spero! E’ la cosa più assurda che abbia mai visto. Guarda che faccia avevi!».
«Bah, non voglio sentirti!».
Marco proprio non voleva saperne di lasciarmi in pace con quella storia che andava avanti da una settimana ormai e avevo maledetto mille volte le poesie e tutto ciò che mi avevano causato. Probabilmente l’odio era reciproco, visto che avevo fatto una figuraccia davanti ad un sacco di persone e a degli autori da quattro soldi che avevano goduto come dei sadici davanti alla mia scarsa esibizione. Come se tutto ciò non fosse bastato, quel pennuto aveva pure fatto un video che, prontamente, tirava fuori ogni volta che passavo di lì. Prima o poi gli avrei preso il telefono e gliel’avrei lanciato in strada, poco ma sicuro.
A dire il vero, però, più ci pensavo, più il mio momento poetico mi sembrava abbastanza passabile e non così orribile.
«Se un ‘Pennuto’ come amico hai, l’esistenza ti rovinerai. Mi ha cacciato lui in questo impaccio e adesso sto facendo una figura da pagliaccio. La serata era regolare, una birra pronta da scolare. E poi per far stare zitto quel pazzo, mi sono trovato a comporre rime, ma che cazz…».
Ero stato interrotto sul più bello da degli applausi, forzati o sinceramente divertiti non aveva importanza, e mi ero volatilizzato nell’angolo più remoto del bar mentre Marco rideva a crepapelle con il telefono in mano, sollevandolo come un trofeo e riferendomi che aveva appena filmato una scena da oscar e che il materiale in suo possesso avrebbe fatto impallidire i più grandi poeti del passato e del futuro. Poco importava che avessi citato pure lui, a detta sua non gli faceva ne caldo ne freddo perché la pessima figura l’avevo fatta io. E su questo aveva dannatamente ragione.
«Stasera non ti esibisci?» mi domandò scherzoso, «Sono tutti qui per te».
«Se non l’hai notato sto cercando di passare inosservato» ribadii seccamente, indicando il cappuccio che mi tenevo calcato in testa per evitare sguardi e occhiate curiose e derisorie. Soprattutto volevo tenermi lontano da quel clown col naso finto che sembrava volermi sgozzare dopo la mia interruzione dell’ultima volta.
«Oh, andiamo, sei piaciuto a tutti con quella sparata colossale».
Fulminai Marco con lo sguardo e questo sembrò farlo sorridere ulteriormente. Mi seccava il fatto che non prendesse sul serio i miei avvertimenti. Anche se ero più piccolo di qualche anno sapevo anche io farmi rispettare.
«Scordatelo, non farò mai più una cosa del genere in vita mia» affermai categorico. Nemmeno per tutto l’oro del mondo mi sarei reso nuovamente ridicolo.

Fortuna volle che quella sera nessuno si fece male o rischiò di fare figuracce, ci fu solo una piccola pausa, dato che con la mia scorsa idea avevamo dato inizio ad una nuova routine che tutti sembravano apprezzare, ma dopo qualche birra o bevanda calda, le poesie ripresero e io ritornai a sonnecchiare con la testa appoggiata al bancone e con la presenza di Marco a pochi centimetri da me, assonnato e scettico davanti ai sonetti proposti.
«Non è che magari potresti inventarti qualcuna delle tue trovate solo per noi? Almeno per passare il tempo» mi chiese ad un tratto, mentre la mia mente riprendeva vita all’istante e il mio cuore pompava sangue a velocità inaudita.
‘Potresti inventarti qualcosa solo per me’, voleva dire. Ha tentennato per un istante nel pronunciare la frase. Lo so, lo so, ne sono certo! Sono diventato un genio in psicologia e con uno come Law a casa si impara a capire le persone anche se non si vuole.
Lo guardai accigliato, cercando quel tentennamento che avevo udito, ma nel suo sguardo svogliato non riuscii a scorgerlo. Leggergli nella mente era ancora troppo difficile, ma qualcosa iniziavo a capirla e potevo ritenermi soddisfatto di quei piccoli passi.
«Non mi sento molto ispirato» ammisi, «Ma se vuoi posso raccontarti cosa ho combinato lo scorso capodanno».
Il suo sguardo si fece più vivo e attento e si sistemò meglio sul bancone, facendomi segno di continuare e curioso di conoscere il seguito.
«Ho costruito uno spara fuochi d’artificio automatico. E l’ho battezzato Automatic Fire!» dissi in maniera esaltata, quasi saltellando sullo sgabello e facendo comparire sul suo volto un’espressione stupita.
«Automatic cosa?».
«Hai capito benissimo! E dovevi vederlo, era perfetto! E funzionava anche! Certo, un mio amico ha rischiato di perdere una gamba e poi hanno spedito quell’affare giù dal tetto dell’appartamento perché i fuochi avevano iniziato ad esplodere prima del tempo, ma avresti dovuto vedere la cascata di luce che ha creato. Praticamente una facciata dell’edificio è stata ricoperta da scintille!».
Mi fissò allibito per qualche istante mentre io continuavo a spiegargli tutti i progetti che stavo facendo per costruirne uno più grande e potente, quando mi interruppe con una domanda piuttosto strana.
«Posso chiederti che lavoro vorresti fare una volta terminati gli studi?».
«Uh? Beh, di preciso non saprei. Mio nonno vorrebbe che entrassi nella polizia, ma la mia passione sono sempre stati i fuochi d’artificio e gli spettacoli pirotecnici. Prima, però, vorrei girare un po’ il mondo» conclusi orgoglioso e con un sorriso entusiasta.
Sbatté le palpebre finendo per fare un sospiro sollevato. «Grazie al Cielo, credevo avessi istinti terroristici».
 
 
 
 
 
*Premetto subito che io non ho assolutamente niente contro le poesie e i bellissimi capolavori dei più noti e grandi poeti e scrittori.*
In questo capitolo cito in causa la bastardaggine momentanea e velata di Marco e l’immaginazione e la capacità di comporre rime come un Bardo del Medioevo di Ace. La sua ‘splendida poesia’ non è tutta farina del mio sacco, magari. Io l’ho solo storpiata per l’occasione, ma l’originale è tratta dal film Una Notte da Leoni/ Hangover II. Spero apprezziate ugualmente.
«Non è che magari potresti inventarti qualcuna delle tue trovate solo per ME?». Per me. PER ME. Ommioddio. Si Marco, solo per te Ace getterà via la sua dignità. Presto tornerà il punto di vista del pennuto e potremo dire quanto carino è nel cercare di auto convincersi che in realtà… Nah, niente.
Ragazzi, Buona fine e buon inizio a tutti! Bevete come spugne in onore di Kidd, rendetelo fiero; feritevi un arto per la felicità di Law; ballate come disperati per Penguin; coccolatevi per Bepo :3 mangiate per cento come fa Rufy e, soprattutto, date fuoco a qualcosa o improvvisatevi piromani. Sappiamo tutti perché **
Un abbraccione :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. Ace. ***


Capitolo 14. Ace.

 

Ormai non mi stupivo più davanti all’insolito appetito del ragazzino che, con animo, energia e golosità, si abboffava di una quantità piuttosto numerosa e abbondante di biscotti appena sfornati dalla cucina. Che gli piacessero non c’erano dubbi: erano una prelibata ricetta di Thatch che, di tanto in tanto, passava al bar per aiutarmi con i clienti quando da solo mi trovavo in difficoltà e credevo di andare via di testa. Quello, per l’appunto, era uno di quei giorni e, sfortunatamente, il ragazzino aveva commesso l’errore di passare di lì per una cioccolata proprio quando quell’impiastro che avevo come fratello era uscito dal retro con gli ingredienti in mano.
Parlo di sfortuna non perché non gradissi avere la sua presenza tra i piedi, ormai era quasi un’abitudine passare una buona mezz’ora o più a chiacchierare, ma ciò che mi preoccupava era la lingua troppo lunga del cuoco che non mancò di fare una faccia che dire esaltata era dire poco mentre salutava il nuovo arrivato, il quale impallidì all’istante, rispondendo al saluto con un cenno del capo.
Fortunatamente, però, Thatch aveva troppo lavoro da sbrigare date le varie ordinazioni e passò tutto il tempo in cucina senza creare scompiglio o situazioni imbarazzanti. Sapevo che da un po’ mi nascondeva qualcosa e quelle sue battutine e riferimenti che diceva essere puramente casuali mi davano parecchio su cui riflettere. Ma lui era fatto così: era un pettegolo, chiacchierone e logorroico.
Un telefono con un brano dei Nickelback come suoneria iniziò a squillare a pochi centimetri dalle mie orecchie, facendomi notare con la coda dell’occhio come l’ingordo di turno si affrettasse a cercare il cellulare nelle tasche del giubbotto per poi fare una smorfia inorridita nel leggere il numero sul display. Nonostante la poca voglia, rispose con uno strascicato e arrendevole ‘pronto?’.
«ACEEE!».
Un urlò disumano e profondo, nonché incazzato fuori misura, arrivò chiaro e tondo persino a me, facendomi immobilizzare sul posto per fissare allibito il moro che, guardandomi con aria implorante chiedeva silenziosamente aiuto e allontanava la cornetta dai suoi timpani. Chiaro, l’avrei fatto pure io con un acuto del genere.
«Sciagurato, dove ti sei cacciato che non riesco a trovarti da nessuna parte? Porta immediatamente la tua brutta faccia a casa e ripara il tetto, nullafacente che non sei altro!».
«Ma riparatelo da solo!» ribatté il ragazzo tenendo il cellulare tra la testa e la spalla e alzando entrambe le braccia al cielo in un moto di stizza.
«Non osare rispondermi così! Sono tuo nonno e pretendo rispetto dai miei nipoti!».
«Oh, ma falla finita e arrangiati!».
Detto questo, dopo aver roteato gli occhi al cielo, non aspettò altre risposte e chiuse la chiamata, assicurandosi di attivare la modalità silenziosa e riponendo l’aggeggio nei meandri delle sue tasche fonde.

Scossi la testa reprimendo un brivido al ricordo di quella voce. In un certo senso mi ricordava il mio vecchio quando, con i miei fratelli, combinavo qualche guaio ed ero poi costretto a subirmi le sue isterie. Che incubi quei giorni, molto meglio vivere per conto proprio ed essere indipendenti.
L’altro sbuffò stancamente prima di riconcentrarsi nei suoi biscotti, mormorando a bocca piena frasi sconnesse su quanto fosse impiccione e rompiscatole colui che aveva appena chiamato.
Continuando il mio lavoro, un fulmine a ciel sereno mi passò per la mente e ricordai un particolare che non avrei dovuto lasciarmi scappare.
Ace. Ace, dev’essere lui. Oh, beh, wow. Non sapevo nemmeno cosa pensare tanto ero abituato a vederlo come un ragazzino che andava e veniva quando voleva. Quella scoperta mi aveva sconvolto non poco.
Che strano associarlo a un nome, non mi ero mai nemmeno fermato a pensare che, nonostante il riconoscersi e il tempo trascorso, non sapevamo nemmeno i rispettivi nomi. A dire il vero non gli ho mai detto come mi chiamo nemmeno io.
«Senti un po’, pennuto, ne hai altri? Sono deliziosi». Ecco, appunto. Dovevo sorbirmi quei nomignoli insulsi.
Richiamato all’attenzione smisi di fissare la macchinetta del caffè che avevo appena messo in funzione e osservai il suo piatto vuoto, facendo uno sbuffo che assomigliava un più a una risata trattenuta. Ultimamente mi capitava spesso con lui davanti.
«Vado a chiedere in cucina» risposi, raddrizzandomi dalla mia posizione e dirigendomi verso la porta alle mie spalle.
«Marco aspetta, il caf…».
Mi voltai a guardarlo con gli occhi sgranati e sinceramente stupito per l’essermi sentito chiamare per nome. Eppure ero certo di non averglielo mai detto.
«Ehm, il caffè, cioè, la macchinetta… E’ al limite, ecco». In imbarazzo e con il viso che sembrava voler seppellire nel piatto, indicò il caffè che stava colando dalla tazzina, così mi affrettai a spegnerla e ad evitare di sporcare il ripiano. Quando tornai a fissarmi su di lui notai che le sue guance erano leggermente imporporate e ciò, dannazione, mi fece sorridere come un babbeo in modo disarmante.
«Grazie… Ace».
Sollevò di scatto la testa, ma gli avevo già dato le spalle, scomparendo nel territorio di Thatch e venendo fulminato all’istante da una sua occhiata che, in pochi secondi, si fece maliziosa. Non persi tempo a rimetterlo in riga e a scoprire cosa gli frullasse per la mente, non sarebbe servito a nulla. E poi avevo altro a cui pensare.
Ace. Bel nome.
 
 
 
Garp. Mio caro, carissimo Garp, che tempismo e che gentile a fornire informazioni essenziali su tuo nipote al ragazzo che, probabilmente, diventerà tuo genero. Forse sto correndo troppo adesso.
COMUNQUE. No gente, non sono morta, ho solo fatto una pausa perché dovevo recuperare le mie facoltà mentali. Per farvi contenti vi ho fatto scoprire come Marco viene a conoscenza del nome di Ace, spero vi sia piaciuto ** e posso dirvi che da qui in poi il biondastro potrebbe iniziare a, se non sbavare, interessarsi leggermente di più al ragazzino. Basta notare il sorriso idiota che fa nel vedere come arrossisce spudoratamente Ace! Ho finito per oggi, quindi a domani!
Come avete passato capodanno? Spero bene e spero che vi siate ubriacati come si deve u.u
See ya,
Ace.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. Serata di Poesie. 3. ***


Capitolo 15. Serata di Poesie. 3.

 

Avevo sempre trovato l’arte della poesia, delle rime e del comporre sonetti tremendamente noiosa e la paragonavo volentieri ad una perdita di tempo anche se continuavo a tenere aperto il locale almeno una o due volte a settimana affinché gente incompresa potesse esibirsi con quella roba scritta di fretta su qualche foglio di carta. Stranamente tutto ciò attirava un numero consistente di clienti. Nonostante quello, però, la noia era mortale e non c’era modo di evitarla.
O meglio, non c’era stato modo fino a quando quel ragazzino sbandato non aveva avuto la brillante idea di trasformare il tutto in una festa improvvisata. Da quella sera era diventato d’obbligo fare una pausa nel bel mezzo dell’esibizione di qualcuno e distrarsi un po’ con qualche brano musicale, amici e una birra fresca anche se era inverno. Dovevo ammetterlo, aveva avuto un’idea fantastica e il locale aveva acquistato ulteriore successo e ciò andava a mio favore anche se, sinceramente, della notorietà mi importava ben poco se potevo evitare di sorbirmi infinite ore di monotonia. E avevo trovato il modo giusto. Anzi, Ace aveva trovato la soluzione migliore, il merito era tutto suo ed io gli ero grato per questo.
Quando era nei paraggi il divertimento era assicurato. Per le figuracce, per i racconti, per l’imbarazzo che provava quando diceva qualcosa fuori luogo, tutto ciò era fonte di risate per me. Praticamente non riuscivo a trattenermi quando avevo lui di fronte a propormi qualche stramba trovata che agli occhi del mondo intero sarebbe risultata assurda. Forse si, parevano tutte idee leggermente bacate, ma ai miei occhi, invece, erano solo spassose.
In quel momento qualcuno stava blaterando qualcosa riguardo a delle rose rosse e a delle spiagge soleggiate, ma non stavo prestando molta attenzione a ciò che mi succedeva intorno perché, per l’ennesima volta, ero impegnato a cercare inutilmente di tenere gli occhi aperti e non sbadigliare continuamente e sonoramente.
Ace non sarebbe passato quella sera, me l’aveva detto il giorno prima facendomi impallidire per ciò che mi aspettava. Gli dispiaceva, ma aveva una cena di famiglia alla quale non poteva mancare anche se, stando alle sue parole, preferiva farsi un’altra figuraccia sul palcoscenico piuttosto che parteciparvi. Stava di fatto che non era lì e che non mi stava intrattenendo con qualche stupidaggine.
Un vero peccato tenendo conto che avevo appena iniziato ad apprezzare quel tipo di serata da quando aveva preso a prendervi parte anche lui, a modo suo, s’intende. Mi faceva piacere e mi divertiva tanto.
Ultimamente ogni volta che si ferma per un caffè sembra farmi piacere, pensai ad un tratto, scacciando subito dopo dalla mente quel pensiero contorto. Ace è semplicemente simpatico, tutto qui.

La porta si aprì e non degnai il nuovo arrivato fino a quando non mi fu praticamente davanti. Solo allora mi resi conto di un particolare che mi era sfuggito, mentre mi riscoprivo stranamente sveglio e un sorriso prendeva forma sulle mie labbra.
«Credevo avessi detto che stasera non saresti venuto» dissi con fare disinvolto, osservando come Ace, con un ghigno furbo e orgoglioso, si sedeva davanti a me, sospirando rilassato.
«Sono fuggito. Odio le cene importanti e quella in cui mi trovavo non era più una casa, ma una caserma di polizia!» spiegò disgustato, allentandosi distrattamente il nodo della cravatta e sbottonandosi la camicia quel tanto che bastava per riprendere teatralmente a respirare.
Mi resi conto osservando quei gesti così insoliti che non era vestito come un povero disgraziato. Non che di solito mi desse questa impressione, ma vederlo con addosso un completo quasi elegante era strano. Strano e interessante, a dire il vero.
D’accordo, forse stavo guardando con troppo interesse come gli donasse una camicia pulita e come una giacca scura gli risaltasse la forma delle spalle larghe e del fisico slanciato che, a volte, nascondeva sotto strati di maglie e felpe. Era solo stupore per quella sua novità il mio, nient’altro.
«Qui come sta andando?» domandò, ignaro della piega dei miei pensieri.
Alzai le spalle, «Il solito». Mi ero preparato ad un paio d’ore all’insegna della noia più totale ma, anche se sapevo che non sarebbe passato, avevo continuato segretamente a sperare che avesse cambiato idea o che questo suo impegno fosse venuto meno. Non volevo stare da solo, quello era l’unico motivo per cui desideravo vederlo comparire all’improvviso. Evidentemente, qualcuno mi aveva esaudito.
«Animiamo la serata?» chiese ammiccando.
Solo Dio seppe l’effetto che quello sguardo mi causò, facendomi balbettare per la prima volta in vita mia e obbligandomi ad abbassare gli occhi per riordinare le idee e rispondergli.
«Ehm, c-cosa proponi?».
Mi guardò storto per qualche attimo per poi sfoderare il solito sorriso e riprendere il tono cospiratore che, alle mie orecchie, sembrò malizioso in modo disarmante.
«Spegniamo queste luci e divertiamoci, ti va?».
Oh Dio, no. Questo è troppo!
«Marco che hai? Stai male? Sei pallido».
«Va tutto bene, ho solo un po’ caldo» gli assicurai, maledicendomi per quella reazione fuori luogo.
«Che ne dici allora? Attiviamo l’impianto stereo e le lampade stroboscopiche. Sarà un successo!».
Qualche minuto dopo il bar si era trasformato in un pub completo di cibo, bevande e musica e fiumi di gente, attirato dal rumore e richiamati da altri, entravano a curiosare quella nuova abitudine del locale.
Ed Ace, nonostante avesse storpiato l’idea del classico smoking, sostituendo i pantaloni con un paio di jeans sbiaditi e scarpe eleganti con delle Converse alte e consumate, non mi era mai sembrato così attraente come quella notte.
Se non fosse un ragazzino, pensai, probabilmente questa non sarebbe la prima volta che mi ritroverei a pensare a lui in questo modo. Forse non mi sembrerebbe nemmeno così strano, assurdo e allarmante.
 
 
 
 
*Premetto subito che io non ho assolutamente niente contro le poesie e i bellissimi capolavori dei più noti e grandi poeti e scrittori.*
Marco stai male?
Ma no, Ace, sta benissimo! Come potrebbe stare male con… Te? **
E con questo si concludono le serate passate ad ascoltare poesie miei cari ragazzi, ma non vi preoccupate che loro continueranno a vedersi. Anzi, Ace continuerà a spuntare fuori come i funghi **
Ecco Ace che ad una cena indetta da nonno Garp non poteva di certo presentarsi con un cappello e a petto nudo, anche se nessuno avrebbe osato lamentarsi! Ovviamente Rufy era con lui, ma questa è un’altra storia. Quello che volevo era farvi vedere quanto bene stava in camicia :D
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Bene, posso dire che sto passando delle giornate guidate dall’ispirazione e quindi aspettatevi di tutto!
See ya,
Ace.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. Quelle Fiamme. ***


Capitolo 16. Quelle Fiamme.

 

La prima volta che Ace mi aveva parlato del fuoco non ci avevo fatto molto caso. Stava bevendo una birra e blaterava qualcosa riguardo ad un camino acceso nel suo salotto durante il periodo invernale. Allora non avevo capito quanto lui amasse quell’elemento. Si, perché la passione che mostrava per tutto quel calore poteva essere intesa solo come amore. Ne era completamente innamorato e a dimostrarlo era l’espressione, come dire, affascinata che assumeva ogni volta che ne parlava.
L’avevo scoperto quel giorno, quando avevo acceso i fornelli per mettere a scaldare un pentolino di latte per le tre cioccolate che dovevo preparate.
Mi ero voltato verso di lui per chiedergli se ne volesse una, ma mi ero trattenuto dal disturbarlo vedendo come era intento a fissare le fiammelle che prendevano vita al di là del bancone davanti ai suoi occhi. Un altro avrebbe pensato che si fosse incantato o che fosse per natura distratto, ma per me ormai era facile capire la piega dei suoi pensieri e, ricordando di quei suoi discorsi fatti in precedenza, capii subito per quale motivo se ne stava in un silenzio contemplativo.
Andai ad appoggiarmi vicino a lui come facevo di solito tra una pausa e l’altra per ritagliarmi un po’ di tempo libero. Quando facevo ciò, Ace capiva che non ero occupato e che poteva mettersi a chiacchierare quanto voleva e di tutto ciò che gli passava per la testa.

«Guarda quelle fiamme» fece, indicando le piccole fiammelle che uscivano leggiadre dal fornello, «Guarda come si muovono. Hanno vita propria, non ti pare? E i colori! Hai mai visto colori più belli? Nemmeno il più grande artista riuscirebbe a renderli tali. Non importa quanto blu, quante sfumature di giallo o arancio usi, non renderà mai lo stesso effetto».
Come si poteva restare indifferenti davanti a tutto ciò? Sembrava estasiato alla vista del fuoco e lo guardava con gli occhi che brillavano, per non parlare di come lo descriveva. La voce pacata, gentile, calma… Quasi ammaliante. E la bocca. Le sue labbra si sfioravano appena e leggermente ad ogni parola pronunciata per poi fermarsi e rimanere dischiuse  mentre osservava quell’elemento che tanto amava e a cui assomigliava.
I capelli neri come il carbone senza nemmeno una sfumatura tenue; il viso limpido e definito simile a quello di un bambino solo per la miriade di espressioni che esprimeva; gli occhi scuri, ma vivaci e mai stanchi e quelle lentiggini chiare attorno al naso e sulle guance che gli donavano quell’aria sbarazzina e infantile. Il colore arancione che lo seguiva ovunque. E poi Ace era caldo. Caldo, vivo e…
«Attraente» sussurrai, accorgendomi solo in quel momento di aver inconsciamente spostato lo sguardo dal fuoco al ragazzo di fronte a me e di essermi soffermato su di lui per tutto il tempo. Troppo forse.
«Già» confermò, accennando un piccolo sorriso e voltandosi a guardarmi, credendo che il mio commento fosse solo pura approvazione.
Mi schiarii la voce per spezzare quell’attimo di stallo che era venuto a crearsi tra di noi e per evitare che capisse il senso di quella parola, facendo tornare entrambi con i piedi per terra spegnendo il gas ed estinguendo così anche il fuocherello.
Tutto finì con quel gesto, ma ero ancora scosso per quello che era successo: avevo davvero pensato, anche solo per un istante, che Ace fosse attraente?
Dio, è così giovane, pensai, sospirando stancamente e ritornando in me.
Non sarebbe dovuto accadere di nuovo, dovevo mettermelo in testa e smetterla di ripensarci di continuo: Ace era un ragazzino e non avrebbe mai dovuto interessarmi sotto quel punto di vista. Nonostante il fuoco, nonostante la vivacità, nonostante il calore del suo sorriso.
 
 
 
 
Attraente. Sul serio, Marco? Solo attraente? Ti riempirei di parole se la colpa non fosse in parte anche mia. A quanto pare non ho la minima intenzione di farti crollare ai piedi di Ace come succede a me ogni volta che lo vedo.
Pazienza, ho grandi progetti in mente per voi **
Oggi non ho molto da dire sul capitolo, spero però che vi piaccia e che vi riscaldi come ha fatto con me.
Approfitto quindi per RINGRAZIARE TUTTI perché siete estremamente ruffiani e dolci. E io non vi merito, sul serio.
See ya,
Ace.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17. Non mi sarei di certo aspettato... ***


Capitolo 17. Non mi sarei di certo aspettato…

 
Tutto ciò aveva un che di completamente assurdo, ma non solo. Prima di tutto andava contro ogni mio principio e sfondava tutti i paletti che mi ero duramente imposto. Praticamente avevo mandato a puttane settimane intere di autocontrollo e discorsi morali che mi ero ripetuto fino allo sfinimento. Poco importava ormai, dato che, a quanto pareva, avevo appena deciso di fregarmene di tutto e strafare.
Eppure quel pomeriggio ero convinto che la serata sarebbe stata sempre la solita, nonostante Ace mi avesse gentilmente e vivacemente augurato di divertirmi il più possibile e di non stare a pensare troppo al lavoro e alla poca voglia che avevo di uscire a divertirmi con i miei numerosi e assillanti fratelli.
All’inizio era riuscito a tirarmi un po’ su di morale, anche se avrei preferito tenere il bar aperto e chiedergli, anzi no, fargli casualmente sapere, che sarei rimasto a lavorare nella speranza di sentirgli dire che avrebbe fatto un salto a salutarmi. Ad ogni modo mi ero imposto di non tenere il broncio e avevo seguito Thatch e gli altri nel locale di famiglia dove papà era il sovrano indiscusso. Il posto mi piaceva, ma per qualche motivo, probabilmente la stanchezza, mi sentivo un po’ fuori luogo. Certo era che avrei fatto di tutto pur di divertirmi e non pensare alle conseguenze.
E lo stavo facendo, eccome!
Poche ore prima non mi sarei di certo aspettato di ritrovarmi in un parcheggio a baciare Ace come se non ci fosse un domani; come se la mia vita dipendesse da quel contatto; come se solo lui potesse darmi l’ossigeno necessario per continuare a respirare.
Era stata questione di un attimo: per un secondo di troppo il mio sguardo si era posato sulle sue labbra e non ero più stato capace di trattenermi. Avrei voluto fermarmi o staccarmi subito dopo, ma non ne ero stato capace, anche perché Ace non mi stava di certo aiutando con quelle sue mani impegnate ad artigliarmi le spalle. D’accordo, nemmeno io a dire il vero, nonostante una parte della mia mente stesse urlando a squarciagola di smetterla, ero intenzionato a porre fine a tutto ciò e naturalmente spingere il ragazzo contro il muro sul retro per poter approfondire il contatto non era una buon proposito per riprendere il controllo.
A mia discolpa potevo dire che era colpa dell’alcool, ma mi rendevo conto benissimo che non ero così ubriaco come magari avrei dovuto essere. Che casino, non ero ubriaco e nonostante tutto baciavo Ace. Che stupido e idiota.

Ero diviso tra due fuochi: uno, senza dubbio era Ace. Come quel ragazzo riuscisse a farmi sentire così, insomma, in quel modo, non me ne capacitavo. L’altro, più razionale e serio invece, mi diceva di finire tutto, di allontanarmi. Mi allertava che tutto ciò era sbagliato, che non sarebbe servito a niente, che avrebbe solo peggiorato e complicato le cose.
Per quanto volessi riprendere possesso di me, però, non ne ero capace.
Grazie a Dio, anche se quando accadde fui tentato di maledire tutti, delle voci provenienti da una porta aperta sul retro del locale ci riportarono con i piedi per terra e ci diedero un valido motivo per interrompere quel bacio e renderci conto del freddo della notte, del muro al quale stava appoggiato malamente Ace, il quale mi fissava a bocca aperta e con due occhi sgranati per la sorpresa, anche se aveva l’aria leggermente sperduta; del mio battito accelerato e del tempo che stringeva inesorabilmente. Era ora di andarsene. Si, era davvero il momento adatto per non combinare altri disastri.
«Ehm» balbettò Ace, precedendomi e grattandosi la nuca nervoso, «Penso che…».
«Sia ora di andare» conclusi per lui automaticamente, accennando ad un sorriso per non far vedere quanto fossi sconvolto.
Sembrò rilassarsi e credere alla mia apparente tranquillità così, con un po’ di imbarazzo, mi ricordò che lo stavo ancora trattenendo contro la parete. Lo lasciai andare, fissando inebetito il terreno e sentendomi sprofondare quando quel ragazzino, con un’innocenza dannatamente straziante, tornò sui suoi passi per afferrarmi delicatamente il viso tra le mani e posarmi un casto e ultimo bacio sulle labbra per poi andarsene con l’ombra di un sorriso celato dalla poca luce.
Chiusi gli occhi e mi appoggiai alle mattonelle alle mie spalle, alzando il capo verso l’alto e stringendo convulsamente i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Non posso, mi ripetevo, mordendomi un labbro e sentendomi svuotato di qualsiasi cosa, non posso proprio, Ace. Mi dispiace.
 
 
 
 
Buon Salve (?). Toh, non ho mai scritto questa cosa (?) vedo solo che tutti la usano, volevo provarla anche io. LOL.
Comunque. Oh si, Ace e Marco, beh, si sono baciati. So che per molti può essere uno shock. No, per niente. I due si sono incontrati per caso in un locale e hanno passato la serata assieme, divertendosi e ubriacandosi. Si era venuta a creare anche una bella armonia e sintonia. Poi è successo. Eh già, la vita. Ma non è tutto qui.
Se siete interessati, in questo capitolo sono trattati i punti di vista di entrambi nella prima parte. Potete leggerlo anche a metà e solo ciò che riguarda i due, è più che altro per fare ulteriore chiarezza sulla situazione, ovviamente qui non potevo spingermi troppo oltre.
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2348084
Da qui in poi tenetevi forte. La mia vena sadica si è messa in funzione e no, non mi interessa se vi fanno pena perché non cambierò idea u.u
No, davvero, io non sono mai così cattiva, non so che mi succede ;_____________;
Spero che questo pezzetto su Marco vi sia piaciuto, sto usando lui ultimamente perché sto cercando di far venire a galla i suoi complessi perché, alla fine, è lui che non vuole ammettere quanto sia preso da Ace. Ditemi una cosa: avete amato tanto quanto me Ace che, con la sua semplicitá, torna indietro per dare a Marco un ultimo bacio? Io personalmente sono morta.
See ya,
Ace.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18. Non sono niente. ***


Capitolo 18. Non sono niente.

 

Non sapevo se era una buona idea, ma in quel momento ero talmente arrabbiato che non mi ero fermato a riflettere troppo sul da farsi e avevo agito d’istinto. Ero corso via all’istante, scomparendo tra la folla e percorrendo strade a caso, perdendo persino l’orientamento e ritrovandomi nei pressi di un giardino pubblico, probabilmente vicino al centro città dove, ormai, non vi era nemmeno un filo d’erba a causa del rigido inverno. Triste, quel luogo appariva triste e desolato, nonostante qualche passante che attraversava il parco per dirigersi altrove. Io, unica anima in pena, mi sedetti invece su una panchina fredda e umida con l’unica intenzione di lasciare che il gelo della sera mi raffreddasse l’anima perché, ne ero sicuro, avrei potuto incendiare i dintorni se solo avessi iniziato a urlare.
«C’era l’alcool, la musica, il casino e poi là fuori tu eri così vicino ed è successo. Cose che capitano alle feste, no?».
Queste le sue parole. Era questa la frase, o meglio la scusa, che aveva usato per togliersi da ogni impiccio e mettere a tacere qualsiasi speranza che, dopo quello che era successo tra noi, avevo iniziato a nutrire.
Ma che altro avrei dovuto fare? Ci eravamo baciati. Mi aveva baciato, era stato lui ad iniziare. D’accordo, eravamo ubriachi, non sapevamo bene quello che stavamo facendo ma, dannazione, era stato tutto così… giusto. Eravamo solo noi, nessun altro. Solo Marco ed io, uno accanto all’altro. E, diamine se era vero, non mi ero mai sentito così al mio posto con nessuno dei miei amici, per quanto bene volessi loro. Nessuno mi aveva mai fatto sentire così a casa. E proprio ora che credevo di aver trovato quella persona, quel qualcuno che non mi sarei mai aspettato di meritare, tutto mi scivolava dalle mani, tutto andava in fumo e cenere, tutto scompariva, bruciava tra le fiamme della mia rabbia.
Ero arrabbiato, anzi, incazzato nero. Con me, con Marco, con il mondo. Ero stato così stupido. Così stupido! Una cosa del genere avrei dovuto immaginarla prima, mi sarei risparmiato tutto il dolore che stavo provando in quel momento.
Avrei dovuto sapere che Marco non avrebbe mai voluto perdere tempo con un ragazzino. Di certo aveva di meglio da fare ed io non rientravo nella sua lista di interessi a quanto pareva. Non ero abbastanza e non lo sarei mai stato per uno come lui.
«Andiamo, che ti dovrei dire? E’ stato solo un bacio, dannazione!».
Solo un bacio. Ero stato congedato con queste parole: solo un bacio. Non avevo significato altro.

Chiusi gli occhi e cercai di respirare profondamente per calmarmi, ma sembrava non funzionare, così smisi di cercare di trovare delle spiegazioni a quella situazione del cazzo e lasciai che tutta la rabbia e la delusione accumulate fluissero a briglia sciolta nel mio corpo, animandolo e dandomi l’impulso di scagliare un potente pugno alla seduta.
Nessun dolore, nessuno spasmo, nemmeno un graffio alla mano, non sentivo nulla. Probabilmente il giorno dopo avrei avuto un ematoma enorme e violaceo, ma cosa importava? Cosa? C’erano questioni peggiori di quella e una botta non aveva mai ucciso nessuno. Non si poteva dire lo stesso delle condizioni precarie della panchina in quel momento, ma pazienza.
Una cosa che capita, pensai, stringendo i denti e sentendomi malissimo, è stato solo un bacio.
Dio, come facevano male quelle parole. Un’arma micidiale da utilizzare quando e come si vuole, senza lasciare tracce, solo una ferita profonda e difficile da risanare. Solo un vuoto dentro impossibile da colmare. Sarebbe guarita, prima o poi, con il tempo magari e, forse, quando mi sarei ritrovato per caso davanti a quel suo bar non ci avrei fatto caso e avrei proseguito per la mia strada.
In quel momento, però, tutto quello che volevo, anche se sembrava così assurdo, così sciocco da parte mia, era la consapevolezza di essermi sbagliato. Avrei voluto che le cose fossero andate diversamente; avrei voluto che Marco non badasse a certe stronzate e che mi accettasse; avrei voluto avere quel qualcosa in più che, probabilmente, mi mancava. Magari non ero abbastanza bello, o serio, o…
Cristo, che cazzo ne so, magari semplicemente non vado bene, punto. Certo che, porca puttana, tutte a me devono capitare. Che ho fatto di sbagliato, si può sapere?
Poi un pensiero si fece strada nella mia mente chiaro e nitido e sembrò l’unica risposta plausibile a tutta quella situazione di merda.
Marco era un bravo ragazzo e di certo non lo avrei odiato per quello che era successo, dopotutto non era tutta colpa sua, non ero nemmeno sicuro che si potesse parlare di colpa vera e propria. Ci eravamo solo fraintesi. Io avevo frainteso e lui aveva chiarito e, sicuramente, non era stato facile. Ad ogni modo non avrei smesso di stare male solo per quello e nemmeno avrei continuato a frequentarlo perché, per quanto mi riguardava, quello che provavo per lui non era attrazione fisica, non lo era più da un pezzo. Marco mi piaceva, mi piaceva più del lecito e per questo ero rimasto scottato quando mi aveva spiegato come stavano le cose.
Ci sarei anche passato sopra se solo non mi fossi sentito così usato. E, a causa di ciò, era come se fossi un che di spezzato, rotto, insulso. Così ero stato trattato.
Cosa c’era di sbagliato? Lo sapevo, lo sapevo benissimo.
«Non sono niente. Niente» sussurrai e l’unica cosa che mi rispose fu un alito di vento freddo che estinse anche quel po’ di calore che mi era rimasto.
Ero spento.
 
 
 
 
Ieri non sono proprio riuscita a pubblicare il capitolo… che nemmeno era pronto. Comunque, sono qui oggi e vi chiedo di non fucilarmi per l’enorme sparata sui due. No, Marco non ne ha voluto sapere di lasciarsi andare e ha preferito ferire Ace per farsi dimenticare e permettergli di andare avanti. Sul serio, non odiatelo, non è cattivo. So che ci sono più fan di Ace che di Marco, ma la Fenicie non è stupida, è matura invece e, ovviamente, non si può pretendere che tutto vada sempre per il verso giusto. Qualche ostacolo bisogna tenerlo in conto e questo Ace non l’ha fatto, anche se le sue speranze potevano sembrare abbastanza. Marco, invece, semplicemente lo capirete più avanti, ma non pensiate sia senza cuore. Lui, in realtà, è quello che se la passa peggio. Beh, forse sono entrambi alla pari, un colpo del genere, parole del genere, non sono facili da digerire e penso che stare accanto a Ace sia il minimo adesso.
Non preoccuparti ragazzo mio, il tempo guarisce ogni cosa.
See ya,
Ace.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19. Deluso. ***


Capitolo 19. Deluso.

 
Ho fatto solo ciò che era giusto, continuavo a ripetermi, mordendomi freneticamente un labbro e cercando qualcosa da fare per tenermi impegnato ed evitare di pensare troppo al casino colossale che avevo combinato.
Certo, ero stato io a baciare Ace nel parcheggio; ero stato io a intrappolarlo in quella situazione e sempre io mi ero sentito bruciare a contatto con quella bocca. Avrei dovuto immaginarlo che, passando la serata con un ragazzo che ritenevo attraente, per giunta ubriachi marci entrambi, non sarebbe successo nulla di buono. Mi credevo più resistente in realtà.
Ma era stata una debolezza, un attimo di disattenzione e distrazione. Non potevo fermarmi a riflettere che, forse, non volevo fare altro da giorni ormai. Non potevo ammettere che, sempre ipoteticamente, quel ragazzo avesse il potere di accendere le mie giornate, il mio umore e la mia allegria; non potevo dire che fosse esattamente come un fuoco quale era; non poteva pretendere di essere riuscito in un’impresa praticamente impossibile. Eppure, da quando aveva preso ad assillarmi con la sua presenza e quel suo maledetto modo di fare inconsapevolmente tanto aperto e amichevole da sconvolgere, mi sentivo meno annoiato, meno apatico e persino meno serio. Tutto ciò, però, era solo una mia impressione. Perché Ace era un ragazzino e perché, di certo, il nostro interesse reciproco aveva obbiettivi differenti. Probabilmente era curioso nei miei confronti ma, nonostante non avessi nulla contro un rapporto da una botta e via, non ero sicuro di poter arrivare a concedergli tanto. Non a lui.
Ace certo era bello e non mi sarei fatto tanti problemi a mostrargli il mio interesse se ci fossimo conosciuti per caso in qualche locale notturno, ma non era stato così e non mi sarei lasciato andare quando il luogo dove ci eravamo incontrati era il mio bar e non quando ormai ero arrivato a conoscerlo bene. Abbastanza da sapere che, se anche avessi soddisfatto quella sua voglia, sarebbe comunque rimasto in qualche modo, come dire, rovinato. Non sembrava il tipo di persona alla ricerca di una cosa del genere, una botta e via, e di certo non volevo essere io a renderlo tale. Per cui avevo fatto la cosa migliore ad allontanarlo.
L’avevo ferito, chiaro che l’avevo fatto, ma era stato unicamente per il suo bene. Probabilmente anche per il mio, per evitare coinvolgimenti sentimentali.
Allora, visto che ero convinto di essere nel giusto, perché continuavo a sperare di vederlo entrare ogni volta che il campanello della porta suonava quando questa si apriva, rimanendo deluso quando il cliente che si presentava non aveva dei capelli corvini scompigliati e delle lentiggini sulle guance?
La verità era che sapevo benissimo ormai di essermi sbagliato. Me l’aveva detto chiaro e tondo, sbattendomi in faccia con rabbia quello che provava e che io mi ero rifiutato di vedere, permettendomi di calpestarlo senza rispetto. Non gli fregava niente del locale, delle poesie, della cioccolata o di passare il tempo, affatto.

«Non hai ancora capito che per me non si è trattato solo di questo? Sul serio non ti è mai passato per la mente che delle poesie non me ne fregasse un emerito cazzo e che mettessi piede in quel tuo fottuto locale unicamente per vederti? Sei così cieco, Marco?».
Deglutii amaramente ripensando alle sue parole e a quello che significavano.
Ace passava di qui solo per me.
Disarmante nella sua chiarezza. La consapevolezza di quella riflessione fu come uno schiaffo in faccia diretto e improvviso.
Solo. Per. Me.
Ace non era un ragazzino ed io avrei dovuto capirlo tempo addietro. Nonostante quei pochi anni di differenza, che mai mi erano sembrati così insulsi come in quel momento, sembravo avere più cose in comune con lui che con tutti gli altri amici che conoscevo, solo avevo sempre evitato di pensarci e affrontare l’aspetto che, a quanto pareva, Ace era un uomo. Forse, se l’avessi capito e accettato prima, non mi sarei ritrovato con lo sguardo perso senza sapere cosa fare o come agire. Forse, se solo fossi stato meno egoista o cieco, a quell’ora il ragazzo si sarebbe trovato come al solito davanti a me a parlare di sciocchezze, ma almeno l’avrei avuto accanto.
Invece, per quanto desiderassi il contrario, da quella porta continuavano a entrare unicamente ombre ed io continuavo a sentirmi maledettamente in colpa e solo.
Il riscaldamento, come a volersi prendere gioco di me, sembrava essersi spento mentre il freddo si faceva sempre più pungente, come a sottolineare il fatto che il calore al quale ero abituato era sparito.
E forse, anzi, molto probabilmente, non sarebbe più tornato.
 
 
 
 
 
Ed ecco Marco come l’ha presa. All’inizio pensa, vuole convincersi, di essere nel giusto, ma capisce, piano piano, che ha completamente sbagliato, anche se le sue intenzioni erano buone.
Ha agito così perché era convinto che Ace cercasse solo una relazione casuale, momentanea, una cosiddetta botta e via, invece si sbagliava. L’ha capito tardi, però, e adesso non può fare altro che sentirsi deluso e in colpa. Aveva paura che, se avesse concesso a Ace anche solo una notte, conoscendo il carattere buono e innocente, diciamo, dell’altro, poi avrebbe fatto peggio. Insomma, non voleva che poi il ragazzo ci rimanesse male e soffrisse e, forse, anche Marco temeva di affezionarsi troppo da non riuscire più a farne a meno.
Spero di essermi spiegata, non sono molto espansiva oggi ^^
Ace passava di li solo per lui. Che tenero e adesso si ritrovano entrambi tristi ;______;
ah si, questo è Ace nel capitolo precedente, al parco!
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Un bacione e non siate depressi **
See ya,
Ace.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20. Rufy. ***


Capitolo 20. Rufy.

 

Quel pomeriggio era tetro e buio, nonostante le luci e l’impianto elettrico funzionanti. Fuori pioveva, il cielo era grigio e terso e l’atmosfera era peggio di un funerale. O meglio, quello era il riflesso del mio aspetto che aveva preso a ritornare schivo e riservato data l’assenza di, beh, dato che il freddo inverno sembrava essere arrivato, investendo la città con il suo gelo.
Non uno spiraglio di luce, solo enormi gocce d’acqua, ombrelli dai colori spenti e le strade bagnate. Persino le pareti del locale sembravano umide.
Sospirai pesantemente, sistemando svogliato alcune tazze che avevo dimenticato di riordinare in precedenza. In realtà le avevo lasciate lì apposta nella speranza che mi ritornassero utili; una arancione in particolare che continuavo a rigirarmi tra le dita e che, inconsciamente, avrei voluto riempire con del caffè da offrire a un povero universitario con la giornata storta.
Mi passai stancamente una mano sul volto, dandomi mentalmente dello stupido per il continuo stato di delusione in cui mi trovavo da giorni.
Ace non era può tornato al bar, nemmeno per sbaglio.
Coglione.
Un insulto al giorno, forse anche più di uno, mi ricordava quanto mi meritassi quella sensazione d’animo sgradevole e funerea.
Successe tutto mentre ero intento a rovistare nelle mensole alla ricerca di qualcosa con cui tenermi impegnato, dato il ritorno della monotonia nella mia vita. Il campanello alla porta suonò e, con la speranza mascherata dall’abitudine, diedi un’occhiata veloce alle mie spalle, sentendo lo stomaco capovolgersi e il respiro mozzarsi nel vedere una zazzera nera farsi avanti sorridente e spensierata. Solo dopo, guardando meglio, mi resi conto con dispiacere che non si trattava di Ace, ma soltanto di qualcuno che ci assomigliava molto. Questo, però, era più basso e magrolino, con un giubbetto gocciolante per la pioggia rosso acceso e lo sguardo vispo.
Dio, gli somigliava terribilmente invece e ciò non fece altro che aumentare il mio malumore.
Si sedette al bancone e, con disinvoltura, ordinò una cioccolata con doppia panna, un piattino di biscotti, un panino e una fetta di torta. Per i miei gusti somigliava fin troppo a lui.
In silenzio e con lo sguardo basso iniziai a servirgli ciò che aveva chiesto, ignorando i suoi sorrisi allegri e rimuginando per i fatti miei. Avevo ripreso a farlo, ignorare la gentilezza degli altri intendo. Era come se non meritassero le mie piene attenzioni. Niente le meritava più.
«Tu sei Marco, giusto?» fece ad un certo punto il piccoletto, cogliendomi alla sprovvista e facendomi corrugare la fronte.
«Ci conoscia…».
«Io sono Rufy, il fratello di Ace. Piacere di conoscerti! Ho immaginato subito che fossi tu, sai, sei l’unico che corrisponde alla descrizione fattami! Però, hai dei capelli davvero buffi! Ace mi ha raccontato che…».
Sbiancai e smisi di ascoltarlo e di capire le sue parole nell’esatto istante in cui fece il nome di Ace.
Suo fratello. Mi aveva parlato di lui quella sera e mi aveva sinceramente stupito il fatto di non esserne venuto a conoscenza prima, ma avevo pensato che poteva aver avuto i suoi buoni motivi. Non immaginavo di certo che stavo per scoprirli.
«… Così ho deciso di passare da te e conoscerti di persona. Inoltre mi ha detto che si mangia benissimo qui e non vedevo l’ora di assaggiare i tuoi waffle! A proposito, potresti farmene uno? Grazie!».
Spiazzato. Questo era il modo in cui mi sentivo. Quel piccoletto, come il fratello, aveva il potere di lasciarmi perplesso e senza parole davanti alla semplicità con cui si esprimeva e si relazionava con la gente che praticamente nemmeno conosceva. Sembrava pronto a fidarsi ciecamente di me nonostante non mi avesse mai visto. Come ci riuscisse era un mistero o forse una caratteristica di famiglia.
«Si. Certo» risposi automaticamente.

«E’ davvero buonissimo! Ace aveva ragione anche su questo!» mormorò tra sé quando assaggiò il waffle che gli avevo preparato e messo sotto al naso ancora caldo.
Lo guardai accigliato, «E su così altro aveva ragione?».
«Su di te» rispose con tono ovvio, «Sei esattamente come ti ha descritto: una testa d’ananas ambulante» scherzò, facendomi immaginare Ace mentre diceva quella frase. Era tipico di lui non perdere l’opportunità di beffeggiarmi solo per sentirsi superiore e compensare la nostra differenza d’età.
Sorrisi amaramente, «Se avesse detto qualcosa di diverso non sarebbe stato da lui».
«Ha anche detto un’altra cosa in realtà» aggiunse, alzando la testa e incrociando i suoi occhietti neri con i miei e leggendo nel mio sguardo la tacita richiesta di continuare. Quello che vide sembrò farlo contento perché sorrise.
«Emani calore» disse semplicemente, facendomi mancare la terra sotto ai piedi. Ace pensava che io fossi… Caldo? Caldo, come? Quanto? Abbastanza per entrambi? Perché da giorni mi sentivo freddo e avrei dato non so cosa per un po’ di quel calore.
Del suo calore.
«Infatti mi sei simpatico e sei anche molto gentile. Non capisco proprio il perché del vostro litigio, insomma, dopotutto è chiaro che vi volete bene e che…».
«Scusami, ehm, Rufy… Cosa hai detto?».
Mi guardò come se fossi stupido, spiegandomi poi che, secondo lui, eravamo due idioti. Stando alle sue parole, Ace pareva incazzato con il mondo e rispondeva male persino a lui, mentre io, da quel che aveva notato, sembravo perso e irrecuperabile.
«Esattamente come gli innamorati, hai presente?».
«Senti, posso sapere perché sei qui? La verità, su» lo esortai gentilmente.
Mi guardò stranito per qualche secondo, poi mise da arte il piatto e le varie pietanze per assumere un atteggiamento serio che stonava un po’ con quel suo aspetto infantile.
«Voglio molto bene a mio fratello, lui è il mio eroe e farei di tutto pur di vederlo costantemente con il sorriso stampato in faccia. Da un po’ non è più così e so che tu c’entri qualcosa».
«Cosa te lo fa pensare? Perché dovrei essere così influente nel suo umore?».
Perché dovrei importare così tanto per lui dopo che l’ho ignorato, respinto, ferito e… Allontanato.
«Lo so perché Ace, da quando ti ha conosciuto, è diventato il ragazzo più solare sulla faccia della terra».
Una pugnalata alle spalle avrebbe fatto meno male di quella confessione che speravo con tutto me stesso di sentire, ma che temevo di affrontare.
 
 
 
Va bene, devo stare calma perché con la schiettezza di Rufy, Ace incazzato e Marco che si sente sprofondare di felicità nel sentirsi dire certe cose, credo che potrei rotolare fino alla morte.
Con questo non voglio dire che le cose si sono risolte eh, ho intenzione di farli, e farvi, penare prima di chiarire tra loro. Almeno un pochino, dai, quel che basta per chiarire i sentimenti di entrambi perché fino ad ora sappiamo che Ace è, era, preso tantissimo da Marco e quest’ultimo sembra costantemente indeciso. Chiarisco che lui, Marco, essendo più grande, e di conseguenza maturo, non è alla ricerca di una relazione effimera, da un giorno all’altro. E’ chiaro che nel profondo, magari inconsciamente, desidera qualcosa di stabile, l’unico problema è che lui non sa cosa vuole Ace invece, il quale, essendo giovane, spensierato e scapestrato, potrebbe benissimo volere solo sano sesso. Lol, che discorsi che sto facendo, ma ci tengo a chiarire tutto. Infatti, andando avanti, scopriremo cosa prova Ace, anche se mi sembra chiaro, e come si sente Marco.
Passando ad altro, che dite? Vi è piaciuta l’entrata di Rufy? Chi credeva che fosse Ace, all’inizio? Mi sento idiota a chiedervi certe cose, ma lo faccio lo stesso ^^
Ora me ne vado a pensare ad un modo per continuare questa cosa perché ho finito i capitoli pronti, disastro! Nah, non è vero, lo farò stanotte perché sto leggendo Lo Hobbit e voglio andare avanti col libro. Che vergogna :D
See ya,
Ace.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21. Innamorato perso. ***


Capitolo 21. Innamorato perso.

 

La giornata si trascinava lenta come le altre, i clienti erano sempre gli stessi e il tempo era scandito dalle lancette dell’orologio appeso alla parete. Le ore non volevano saperne di scorrere più veloci e la mia pazienza si stava, piano piano, esaurendo dato che, da un paio di pomeriggi, ero costretto a sopportare la presenza della persona più irritante della famiglia. Il sottoscritto in questione, insinuando qualcosa riguardo la mia faccia scazzata e il mio allarmante menefreghismo, a detta sua, salito a sfiorare livelli epici, si era autonominato mio sostenitore e non c’era stato verso di tenerlo fuori dal locale. Così, anche stando in cucina, non poteva evitare di deliziarmi con le sue insinuazioni fuori luogo e con le sue teorie, ipotesi e sproloqui campati per aria.
Thatch sapeva essere una vera spina nel fianco, e non solo, quando voleva. Era logorroico e difficilmente rimaneva zitto per più di cinque minuti, inoltre vantava la capacità di saper leggere la realtà tra le righe, volgendo tutto a suo vantaggio e approfittando di ogni situazione per mettere in imbarazzo, prendere in giro o urtare i nervi con le sue frecciatine maliziose me o gli altri nostri fratelli. Persino con nostro padre non si risparmiava!
Per questo non mi stupii quando decise di scoprire cosa aveva causato il malumore che aleggiava attorno a me da giorni. E, purtroppo, non ci mise molto ad arrivare alla giusta conclusione.
«Non vedo il ragazzino impertinente» fece ad un certo punto dopo aver sondato la stanza, «Che fine ha fatto?».
Mi strinsi nelle spalle e feci finta di nulla, sperando che lasciasse perdere il discorso e mantenendo la calma per non irrigidire la postura e dargli modo di capire che quell’argomento era tabù per me. Ovviamente tutto fu vano perché non sembrò intenzionato a mollare.
«Passava spesso da queste parti» disse, inarcando un sopracciglio e seguendo i miei movimenti attentamente, «E’ molto strano che non sia già qui. Non trovi anche tu?».
Continuando a rimanere in silenzio con le labbra serrate lo ignorai e finsi di essere indaffarato a svuotare la lavastoviglie, sentendo la sua presenza gravitarmi attorno.
«Magari è successo qualcosa che noi non sappiamo» insisté, scandendo bene le parole in modo tale da farle arrivare chiare e tonde alle mie orecchie. Sapevo dove voleva andare a parare. «Non sei preoccupato?»
«No Thatch, non sono preoccupato per Ace, d’accordo? Ora piantala» risposi, trattenendo a stento il tono di voce normale e piatto.
A lui, invece, brillarono gli occhi. «Oh, quindi è così che si chiama!» trillò esaltato, «E dimmi, lo conoscevi bene?».
Alzai gli occhi al cielo e non riuscii a trattenere uno sbuffo seccato. «Un po’».
«Un po’ quanto?».
Abbastanza da sapere che ho fatto una cazzata colossale e che non passerà da queste parti per molto, molto tempo, pensai amaramente. Il posto vuoto al limite del bancone era sempre libero, eppure, ogni volta che lo guardavo, speravo di vederlo occupato. Poi mi ricordavo di come l’avevo trattato e mi rendevo conto che non potevo pretendere di rivederlo lì come se niente fosse. Ad ogni modo mi mancava. Mi mancava davvero ed io ero stato un completo idiota.
«Non ha importanza» mormorai stancamente, dando poi le spalle al moro che si era fatto più curioso che mai. Non riuscì, però, a cavarmi altro di bocca. Non ero in vena di parlare.

«Sai fratellino, Ace, a pensarci bene, non era affatto male» disse casualmente dopo un paio di minuti.
«Thatch». Perché doveva essere così insistente?
«Sul serio, aveva qualcosa di, come dire, attraente. Quegli occhi scuri, i tratti definiti, il fisico scolpito…».
«Thatch». Ero al limite, me lo sentivo.
«Che c’è? Non posso fare un apprezzamento? Anzi, sai che ti dico? Visto che a te non interessa potrei farci un pensierino io».
«THATCH!». Ecco, un disastro dietro l’altro.
Mi guardò stupito e rimase finalmente zitto per qualche istante, come tutto il resto del locale, ammutolito dal mio urlo. L’effetto non durò a lungo perché, troppo presto, riprese il suo solito cipiglio malizioso e bastardo. Senza rendermene conto avevo detto troppo e gli avevo appena dato tutte le risposte che voleva.
«Oh cazzo, sei proprio innamorato perso».
«E’ così grave?» gli chiesi preoccupato, appoggiando le braccia al bancone e abbassando la testa. A che serviva fingere ormai?
«Temo proprio di si» annuì, prendendomi in giro, «Gravissimo. Finalmente un ragazzo attira la tua attenzione e tu che fai?» chiese poi, guardandomi storto.
«Mi comporto da coglione» risposi. Un po’ perché era vero e un po’ per evitare di dargli la soddisfazione di insultarmi.
«Dieci punti a Grifondoro!» approvò con animo, battendo una mano sul bancone e facendo sussultare le persone li vicino che lo guardarono malamente.
Scossi il capo con esasperazione. Di certo non sarebbe passato molto tempo prima che la notizia si diffondesse in famiglia.
«Non ti preoccupare, testa d’ananas» mi riprese l’altro, con la faccia di chi la sa lunga e che sta per dire qualcosa di terribilmente imbarazzante, «Nonostante la vecchiaia potresti essere ancora in grado di regalargli qualche nottata di sesso non appena farete pace».
 
 
 
 
Thatch, Ammmmmmore!
Ehm, okay, va bene, io penso che non servano tante parole dopo la sparata colossale di questo capitolo, quindi vi lascio rotolare in santa pace perché io non sto facendo altro! Oh si, Marco è innamorato, innamorato perso e chi meglio di Thatch poteva accorgersene? Quell’uomo è un miracolo, ve lo dico io! Non so cos’abbia in mente di fare, ma state sicuri che non sarà niente di normale.
Il ‘dieci punti a Grifondoro’ spero vi piaccia, uso la stessa battutona per approvare qualsiasi cosa, come appunto fa Thatch quando Marco ammette di essere un emerito coglione, perdonate i termini u.u credo anche che cambierò rating più avanti, lol.
Ecco i due ragazzoni, awww **
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A presto e grazie infinite a tutti, siete dolcissimi e troppo ruffiani **
See ya,
Ace.

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Capitolo 22
*** Capitolo 22. Io non piaccio a Marco. ***


Capitolo 22. Io non piaccio a Marco.

 

Almeno una volta alla settimana ero solito andare a prendere mio fratello Rufy a scuola e a scarrozzarlo in giro per i centri commerciali, o al cinema, o dovunque il suo spirito libero decidesse di andare per passare una giornata in sua compagnia. Da quando non vivevamo più sotto lo stesso tetto avevamo perso molte opportunità per stare assieme a organizzare pazzie per mandare fuori di testa il vecchio nonno Garp e Rufy aspettava con ansia malcelata il giorno in cui avrebbe compiuto la maggiore età per trasferirsi a vivere con me, nonostante l’appartamento fosse al completo.
Per lui non vi erano problemi o ostacoli insuperabili, quello che voleva riusciva sempre ad ottenerlo lottando con tutte le sue forze fino alla fine e riuscendo nelle sue imprese. E ciò che più desiderava era passare tutti i giorni possibili con me.
Inutile dire che gli volevo molto bene e che lui significava probabilmente l’unico punto fermo, l’unica luce che brillava nella mia vita. Era la certezza assoluta che qualcuno mi apprezzava; la sua presenza mi ricordava che non ero solo; il suo sorriso mi metteva di buon umore, sempre, e l’affetto che mi dimostrava mi assicurava che qualcosa dovevo pur valere.
Per questi motivi avrei sempre fatto di tutto per il suo bene e non ci avrei pensato due volte a dare la vita se mai si fosse trovato in pericolo. Lui lo meritava, anche se ciò non sarebbe di certo bastato per ringraziarlo dell’illimitato amore fraterno che mi dava.
«Ace, cosa facciamo oggi?» mi sentii chiedere mentre con la coda dell’occhio lo vedevo agitarsi sul sedile davanti.
«Non saprei, tu cosa proponi?».
«Mi porti a bere una cioccolata? Da Marco magari».
Quasi feci un incidente nel sentirgli nominare quel nome.
«Scusa, che hai detto?» chiesi allibito, mantenendomi comunque concentrato sulla strada e tenendo d’occhio i semafori per non rischiare di distrarmi e passare con il rosso come quando ero stato bocciato la prima volta all’esame per la patente.
Rufy si fece subito piccolo piccolo, sprofondando nel giubbotto e guardando ostinatamente fuori dal finestrino come se niente fosse, alla ricerca di qualche appiglio che potesse toglierlo dai guai.
«Beh, insomma, mi avevi detto che gestiva un bar» si giustificò con voce sommessa, «Ho pensato che sarebbe stato carino andarci».
«Rufy» iniziai, non sapendo bene cosa dire, «Non mi va molto».
«Perché?» domandò, voltandosi verso di me con due occhi grandi e imploranti, «Giuro che mi comporto bene».
«Non si tratta di te, è più complicato».

Cosa potevo dirgli? Giusto poco tempo prima gli avevo raccontato quasi tutti a riguardo e adesso mi ritrovavo con un pugno di mosche in mano senza la minima idea di come riuscire ad abituarmi alla cosa. Anche io avrei tanto voluto andare da Marco e, se non mi fossi sentito tanto arrabbiato e preso in giro probabilmente l’avrei fatto, ma la situazione era diversa e molto più complessa di quanto persino io potessi immaginare.
Credevo di essere capace di superare la cosa ed ero convinto di potermi lasciare tutto alle spalle dopo aver sbollito il malumore che l’ultima discussione avuta con, con, con quello mi aveva causato, invece mi sbagliavo di grosso. Continuavo a ripensarci e a chiedermi dove avevo sbagliato e cosa in me non andasse per essere stato rifiutato in quel modo. Persino il fratello, come si chiamava, Thatch aveva capito senza nemmeno conoscermi quello che Marco mi faceva provare, possibile che proprio il diretto interessato se ne fottesse altamente? Non ci credevo affatto, tantomeno dopo il bacio che lui, precisiamo, mi aveva dato. Quello non era stato niente come insinuava, ne ero convinto. A quanto pareva, però, non ero abbastanza ai suoi livelli.
Strinsi le mani sul volante in un moto di stizza.
Era tutta la vita che faticavo a ritenermi abbastanza importante da meritare di respirare e, quando avevo iniziato a credere che la mia presenza nel mondo contasse qualcosa, ecco che mi ritrovavo a terra calpestato. Un modo poco gentile, ma chiaro, per farmi capire che di me non aveva bisogno nessuno.
«Fratellone?».
Eccetto forse Rufy, anche se dimostrava già di potersela cavare da solo nella dura lotta della vita.
Cercai di spianare il cipiglio corrucciato che avevo assunto e gli rivolsi un piccolo sorriso, «Dimmi».
«Tu piaci a Marco, perché allora non vuoi andare da lui?».
Perché non vado? Ci ho provato a dir la verità, ma non è stato abbastanza e a che serve continuare se non sono ben accetto? A niente.
«Io non piaccio a Marco» scandii lentamente, quasi come se dovessi imprimermi a forza quelle parole nel cervello. Parole che, una dopo l’altra, erano un duro colpo da digerire.
Riportando l’attenzione sulla strada e cercando di non badare allo stomaco aggrovigliato e chiuso per via di quell’orribile stato d’animo in cui mi trovavo, non udii il flebile sussurro di Rufy che, infossando il viso nella sciarpa di lana, si premurò di contraddirmi.
«Se solo sapessi quanto gli piaci».
 
 
 
 
Oh, si tesoro, se solo sapessi QUANTO è innamorato!
Ace, piccolo e dolce Ace, non sentirti così abbattuto, sei un qualcosa di così adorabile e assolutamente essenziale per il mio di respiro! fai come Rufy, esempio di buona volontà, non mollare e vedrai che tutto si sistemerà perché ti voglio troppo bene per vederti infelice ;_____;
Beh, mi sento così triste, anche se Rufy sta lasciando sprazzi di speranza ovunque dato che ha fatto una bella chiacchierata con Marco, aww :3 piccolo furbastro!
Non preoccupatevi, gli ingranaggi sono in moto e la ‘Mano del Destino’, (Woah, ciao Tia Dalma, LOL), si sta preparando per metterci lo zampino!
Non volevo fare la rima, scusate ^^
See ya,
Ace.

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Capitolo 23
*** Capitolo 23. Lui non é... ***


Capitolo 23. Lui non é…

 

«A presto allora».
«Arrivederci».
Distaccato, serio, quasi lapidario e per niente cordiale.
Diedi le spalle al cliente clandestino nell’esatto momento in cui non vidi altro motivo per non fare altrimenti e tornai ad occuparmi di cose più importanti, gettando distrattamente nel cestino a pochi passi da me un foglietto di carta bianco sul quale era stato scritto di fretta un numero di telefono.
«Non credo ai miei occhi» fece la voce fastidiosa e sinceramente stupita di Thatch, insinuandosi nei miei pensieri con forza, «Tu che butti nel cesso un chiaro invito che ha per finalità una notte di svago? Che Dio mi aiuti!».
Sospirai, roteando gli occhi al cielo e ignorando quel suo commento poco gentile nei miei confronti con il quale mi aveva appena descritto come uno di facili costumi. Io non ero affatto così, perché doveva continuare ad insistere nel rivangare storie del passato?
«E’ successo solo una volta» gli feci notare, anche se, molto probabilmente, avrei dovuto ripeterglielo fino all’infinito prima di fargli entrare in testa quel fatto.
Ad ogni modo, aveva tutto poca importanza, nonostante avessi capito fin da subito che colui che se ne era appena andato non aveva fatto altro che fissarmi e lanciarmi occhiate eloquenti da quando era entrato. Non ne ero minimamente interessato e tutto ciò quasi mi faceva schifo. Come poteva anche solo pensare di poter attirare la mia attenzione? Non aveva niente di particolare, tranne una faccia da schiaffi e quegli occhi avrei voluto cavarglieli perché sentirmeli addosso costantemente mi aveva disgustato oltre ogni dire. Praticamente quando era sparito mi aveva fatto un favore e, sicuramente, non l’avrei richiamato.
Con Ace era diverso, invece. Era successo per caso e senza che entrambi ce ne rendessimo conto e, come era entrato nella mia vita, era anche riuscito prima a strapparmi qualche sorriso, poi una risata completa e, infine, aveva catturato il mio totale interesse. Non era banale o stupido; le cose che diceva le pensava davvero ed era determinato a portare a termine qualsiasi obbiettivo si prefissasse. Rimanere indifferenti davanti a tutta la sua allegria era impossibile, infatti non ero riuscito a stargli alla larga e mi ero lasciato contagiare da quella sua aria infantile e maledettamente amichevole. E poi ascoltarlo mi faceva piacere: non mi annoiava e chiacchierava di qualsiasi cosa senza pensieri o senza farsi problemi nel dire quello che pensava. Mi prendeva pure in giro e metteva il broncio quando non riusciva a sfottermi come avrebbe voluto. Lo trovavo buffo quando me lo ritrovavo davanti agli occhi intento a mangiare qualsiasi cosa e il rossore che gli imporporava le guance quando mi avvicinavo più del lecito per spiegargli un passo complicato di psicologia mi riscaldava nel profondo. E non ricordavo nemmeno tutte le volte in cui ero stato tentato di scompigliargli i capelli per le sue pessime battute. Per non parlare della bocca, ciò che mi aveva tratto in inganno e a cui, alla fine, non avevo saputo fare a meno, avventandomi su di essa come se non ci fosse nulla di più importante o essenziale. Con Ace ogni gesto, ogni parola era normale, spontanea. Ogni sorriso, ogni sguardo, anche solo rimanere in silenzio l’uno accanto all’altro ad osservare i clienti o ad ascoltare poesie, tutto risultava diverso, piacevole. Le chiacchierate infinite su argomenti di dubbia moralità, gli scherzi, il fatto di chiamarci per nome, le occhiate furtive che ogni tanto mi lanciava e che anche io gli dedicavo, i piccoli contatti, qualsiasi cosa che avesse a che fare con lui assumeva tutta un’altra sfumatura. La mia vita si era a poco a poco modellata e, mi stupivo ad ammetterlo, era diventata più colorata e meno grigia. Era più arancione, più calda e più solare.
Me ne ero reso conto troppo tardi, però e ormai Ace non faceva più parte delle mie giornate. Non che prima fosse sempre presente, ma passare dall’avere la certezza che l’avrei rivisto all’essere certo di non rivederlo più mi faceva sentire piuttosto male. Non mi piaceva e non riuscivo a capacitarmene e a farmene una ragione. Era come se lui fosse stato un sogno, a volte temevo persino che fosse così perché non c’era più. Mi ero risvegliato ritrovandomi di nuovo avvolto dal torpore di una vita monotona e senza un vero obbiettivo, senza quel qualcosa che mi faceva sorridere, senza una luce.
Non lo sopportavo, mi sentivo continuamente contorcere lo stomaco e il pensiero di lui lontano non mi dava pace. Ricordare che tutto ciò era successo per colpa mia, inoltre, mi faceva pensare che mi meritassi tutto quello schifo.
Sospirai per l’ennesima volta quel giorno. Ormai quel ragazzino era sempre per la mia testa, esattamente l’effetto che aveva sperato di farmi venendo a trovarmi al bar. Come mi ero ripetuto, ormai era parecchio tardi.

«Tutto sommato non era male» stava dicendo intanto Thatch alle mie spalle, «Una scopata poteva starci. Da quando sei diventato così schizzinoso?».
Gli rivolsi l’occhiata più scettica di cui fui capace e sperai che questo gli bastasse come risposta alla sua domanda idiota e priva di senso e moralità. «Sei così disperato da voler accettare lo squallido invito di uno sconosciuto?» chiesi poi. Il tono volutamente velenoso e diretto a punzecchiarlo.
Fece un leggero sbuffo e sventolò la mano come a volermi zittire, «Non cambiare discorso, voglio solo sapere cos’aveva quello che non ti andava bene».
«Che vuoi che ti dica? Non mi interessava, punto e basta» sbottai scocciato.
«Oh, andiamo» insisté, dandomi una leggera gomitata e facendomi l’occhiolino, «So che anche tu l’avevi notato».
«Ti sbagli» dissi glaciale.
Quello non è lontanamente paragonabile.
«Non fare il timido, con me puoi confidarti. L’hai evitato perché non credi di essere all’altezza? Beh, d’accordo, sei stato a riposo a lungo, ma questo non significa che tu non sia un buon partito, caro fratello».
Non ha niente di speciale, non potrei mai.
«Non sono interessato, ora piantala».
«Dimmi perché almeno! Cosa aveva? Il naso storto? Troppo basso? Troppo gay?».
«Dannazione, Thatch! Lui non é…». Mi bloccai all’improvviso ritrovandomi con le mani legate e capendo solo in quel momento dove quel bastardo voleva andare a parare fin dall’inizio.
«Non è cosa?» chiese allora con gli occhi che traboccavano di vittoria e malizia, «O forse dovrei dire: non è chi?».
Strinsi i pugni e tornai alle mie faccende per ignorarlo. Me l’avrebbe pagata, prima o poi.
«Va’ al diavolo» mormorai.
Lui non è Ace.
 
 
 
Saaalve!
Lo so, ieri non ho aggiornato, ma non ce l’ho proprio fatta, chiedo scusa! Spero con questo di essermi fatta perdonare, dato che ho messo a nudo cosa vuole Marco e a cosa pensa da giorni e giorni e giorni. Ace. Nessuno è come Ace e nessuno prenderà il suo posto praticamente. Awww, solo io trovo tutto questo così dolce? Cioè, non è lontanamente paragonabile. Dio, vuol dire che Marco non ha intenzione di dimenticarselo e spera ancora di poter rimediare.
Domandina del giorno: quanti di voi stravedono per Trafalgar? Io si. E guardate un po’ cosa mi è arrivato oggi da Hong Kong con furore:
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Posso morire felice e vi dico solo che ho anche Kidd tra la mia collezione. Cosa molto pericolosa per una fan girl D:
Nah, è la meraviglia **
See ya e un abbraccio a tutti :3
Ace.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24. La Vigilia di Natale. ***


Capitolo 24. La Vigilia di Natale.

 

Se fosse stata una sera normale e comune come le altre probabilmente non ci avrei pensato molto prima di alzarmi dalla sedia, ignorare gli sguardi stupiti dei presenti più attenti e meno sbronzi, afferrare la giacca al volo e catapultarmi fuori casa in direzione di uno dei quartieri non del tutto malfamati, o meglio non ancora del tutto, con l’intenzione di mettere fine a quel senso opprimente che mi sentivo nel petto, un misto di agonia, ansia, malinconia e una bella fetta di senso di colpa. Sicuramente sarei saltato in macchina nell’esatto istante in cui l’idea mi era affiorata nella mente e avrei raggiunto Ace nel giro di pochi minuti.
Il problema, però, era che quel momento non era affatto come gli altri, ma si trattava niente di meno che della Vigilia di Natale.
Ero seduto a tavola alla destra di quel vecchio che, a settant’anni suonati, se ne stava comodo a bere e a mangiare qualsiasi pietanza prendesse posto davanti ai suoi occhi senza la minima preoccupazione per la sua dieta sana ed equilibrata consigliata dal dottore. Accanto a me c’era Thatch che, più morto che vivo, batteva con frequenza una mano sul tavolo in preda alle risa isteriche mentre davanti a lui Izou insegnava a Vista come farsi la ceretta senza restarne completamente sconvolto per via dell’iniziale e atroce dolore descritto dal primo come un leggero pizzicorino. Inutile dire che la cosa si stava rivelando più complicata del previsto e che Izou stesse perdendo la pazienza. A breve avrebbe abbandonato quella missione impossibile e si sarebbe dato all’alcool per non abbattersi. A detta sua, eravamo tutti troppo presi da noi stessi per capire l’arte della cura estetica che lui, invece, adorava e venerava in modo maniacale.
«Non mi stupirei se dentro ai nostri regali trovassimo strisce depilatorie e creme idratanti!» stava commentando Jaws, accompagnando il suo commento con un sorso di birra. L’ennesimo per la precisione. Thatch, intanto, non la smetteva di ridere e a poco sarebbe rotolato sul pavimento senza accorgersene. Io, di certo, non avrei mosso un dito per impedire che ciò accadesse.
Fu durante l’allegria generale che aleggiava in casa che, mentre me ne stavo appoggiato svogliatamente allo schienale della sedia, inclinandola fino all’inverosimile, mi ritrovai a pensare a cosa stesse combinando nel frattempo quel piccolo piromane mancato. Ero convinto che, come terrorista, avrebbe fatto carriera.
Chissà se quest’anno vedremo un albero di natale volare sopra le nostre teste. Se così fosse saprei a chi dare la colpa, pensai divertito, sogghignando nel ricordare gli assurdi racconti a cui ero stato sottoposto alcune settimane addietro e immaginando come stesse passando la serata, se era in compagnia, o con la sua famiglia. Da solo era da escludere, Ace era una persona troppo solare per non avere amici con cui festeggiare il natale.
La risata tonante di mio padre attirò la mia attenzione e notai con imbarazzo che Izou non aveva esitato a spogliarsi per mostrare a tutti come fosse liscia e vellutata la sua pelle, al che mi misi una mano davanti agli occhi e pregai il Cielo di non rivedere più una cosa del genere. Anche i miei parenti non scherzavano con le sciocchezze ed erano ormai anni che avevo imparato a convivere con le stupidaggini, ma questa stava superando ogni limite.
«E questo è solo il petto, aspettate di vedere l’inguine come viene bene!» stava insistendo il ragazzo, fermamente convinto di quello che diceva. Fortunatamente qualcuno la pensò come me e decise di mettere fine a quello spogliarello improvvisato. Nonostante tutto, Thatch non sembrava dar segno di ripresa e si aggrappava energicamente alla tovaglia per non perdere l’equilibrio. Tutti gli altri ridevano, si abbracciavano, scherzavano tra loro e l’aria famigliare e affettuosa che aleggiava in quell’enorme casa mi fece improvvisamente rendere conto di una cosa.
Vorrei che Ace fosse qui. Si, vorrei proprio che vedesse tutto questo. Dovrebbe vederlo, sono certo che gli piacerebbe e potrebbe persino ricavare delle idee folli per i suoi progetti illegali. Magari qualcuno dei miei fratelli gli darebbe persino una mano e farebbero amicizia e il babbo lo troverebbe simpatico, forse potrebbe persino piacergli. Dovrebbe proprio esserci…
Ma Ace aveva la sua di famiglia a cui pensare e da cui farsi volere bene, cosa che, a quanto pareva, io mi ero rifiutato di fare. Solo allora mi rendevo conto quanto ero stato stupido anche solo a pensare che il suo interesse fosse solo attrazione fisica nei miei confronti. Cosa mi era passato per la testa? Ormai potevo dire di conoscerlo, ma non avevo tenuto conto del suo carattere quando era stato il momento, deciso a non creare nessun tipo di legame e togliendomi dall’impiccio. Avevo sbagliato e, se solo mi fossi fermato un attimo, avrei tenuto conto di tutte quelle piccole cose che non avevo calcolato. Un ragazzo così solare, buffo, un po’ goffo e timido, divertente e che si metteva si imbarazzo con le sue stesse parole non poteva di certo essere il tipo da una notte soltanto. Soprattutto, avrei dovuto essere più attento quando mi aveva baciato prima di andarsene, quella dannata sera che aveva incasinato tutto. Era stato così maledettamente sincero e semplice e, diamine, dolce da farmi sentire un verme.
Mi morsi un labbro e strinsi i pugni, nascondendo le mani sotto al tavolo e cercando con lo sguardo qualcosa che mi trattenesse fermo a tavola, perché sentivo che stavo per fare una cazzata colossale.

«Ehi, possiamo accendere qualche fuoco d’artificio anche stasera?» chiese qualcuno nella sala.
Ace ama i fuochi artificiali, sicuramente ne starà combinando una delle sue. Magari la prossima volta potrebbe raccontarmi…
Mi rabbuiai all’istante.
Non mi racconterà nulla dato che non mette piede al bar da, beh, da una vita più o meno. Dio, se solo potessi parlargli e spiegargli come stanno le cose! Mi basterebbero dieci minuti, forse meno, e potrei chiarire e sperare di recuperare almeno in parte la sua amicizia, sempre se vorrà ascoltarmi. No, sto cazzo, lui deve starmi a sentire. Mi ascolterà e lo farà stasera stessa!
Senza rendermene conto ero già in piedi e, nella foga del momento, urtai il castano vicino a me e lo feci ruzzolare a terra tra le risate generali e sempre più chiassose. Grazie agli alcolici nessuno si rese conto delle mie intenzioni e, declinando l’invito di alcuni a giocare a poker, assicurando loro che li avrei fatti finire al verde un’altra volta, scesi in garage a prendere la macchina e partii velocemente seguendo le indicazioni che mi erano state date dal piccolo Rufy.
Ace, mi spiace. Mi spiace davvero tanto. Posso immaginare che non serva a niente dirtelo, non dopo il modo in cui ti ho fatto sentire. Ti ho baciato e poi ho liquidato la cosa come se non fosse successo niente. Come se tu non fossi niente. Scusami, davvero, ma non avevo scelta, non sapevo come affrontare la cosa. Non immaginavo di piacerti tanto e non credevo che tu fossi riuscito ad arrivare a riscaldare le mie giornate. A dir la verità non me ne sono reso conto fino a quando non te ne sei andato. Non smetto mai di fissare quella porta sperando di vederti entrare e, ogni volta che questo non succede, mi sento un vero schifo. Sul serio, Ace, scusa. Scusa, mi dispiace. E il nostro non è stato solo un bacio. E tu non vali così poco. Ed io credo stare impazzendo.
Un sacco di frasi si sovrapponevano tra loro nella mia mente mentre pensavo a cosa dirgli una volta che me lo sarei ritrovato di fronte, ma non avevo tenuto conto di molte cose e delle circostanze in cui l’avrei trovato e, soprattutto, di come mi sarei sentito io.
Infatti, quando arrivai e i suoi occhi incontrarono i miei davanti l’uscio di casa sua, mi chiesi se quella, in realtà, non fosse stata una pessima idea.
Nel frattempo, a casa mia, Thatch non aveva mai smesso di ridere.
 
 
 
 
 
Dehehe, si lo so, ho saltato anche ieri, ma succede no? No? No, non succede. Beh consolatevi nel sapere che è stata una giornataccia come poche e mettermi a scrivere rischiando di fare peggio non mi andava proprio. Comunque spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo, che è anche piuttosto lunghetto e non dovrei divulgare così tanto, ma Barba Bianca e compagnia bella mi piacciono tanto e scrivere di loro mi mette sempre di buon umore, soprattutto per le scenate che mi combinano :D
Awww, ma caro Marco, corri da Ace, afferralo per la collottola, sbattilo al muro e bacialo! Che cazzo, non ne posso più di questo tira e molla D: ma devo andare con calma. DEVO.
Che altro dire? Scusatemi all’infinito? ** sappiate che io vi voglio taaanto bene, si si :3
Ora smetto di cercare di comprare il vostro affetto e la vostra simpatia e passo ad altre cose. Dunque, tenendo presente che io AMO questi due ragazzi e che, secondo me, Ace se lo fa SOLO Marco, sto pensando da qualche giorno di scrivere qualcos’altro su di loro perché in giro non c’è molto e la cosa mi fa deprimere ;_________; solo che non ho ancora bene chiaro in mente nulla, quindi se avete dei mini consigli fatemi sapere ^^ oppure ditemi solo se sarebbe meglio una ff AU oppure incentrata su One Piece. Se avete voglia, non siete obbligati, sia chiaro ^^
Bene, me ne vado e passerò la serata a continuare la raccolta per non trovarmi più impreparata, lo giuro!
Un abbraccione a tutti :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25. Bene. ***


Capitolo 25. Bene.

 

«Ti consiglio di metterti una maglia, Ace».
«Ma chi c’è?».
Law aveva ghignato sadicamente e una luce per niente tranquillizzante aveva brillato nei suoi occhi chiari mentre si dirigeva in cucina, non prima però di avermi lanciato addosso una maglietta raccattata da terra.
«Il tuo regalo di Natale» aveva sghignazzato, scomparendo alla mia vista.
Così, con un’alzata di spalle, mi ero infilato l’indumento e avevo saltellato lungo il corridoio d’entrata fino alla porta d’ingresso, pensando che, molto probabilmente, i ragazzi mi avevano comprato qualcosa su internet e se l’erano fatto spedire da chissà dove con un pacco postale. Di certo non mi aspettavo di trovarmi davanti un uomo in carne ed ossa. Anzi, sinceramente andava oltre ogni mia aspettativa, per questo, quando avevo realizzato che di fronte a me c’era Marco, mi ero sentito l’aria mancare e le gambe cedere sotto il mio peso. Dio volle che riuscissi ad appoggiarmi in tempo allo stipite della porta, facendo si che il muro mi sorreggesse.
«M-Marco!» avevo balbettato con una voce acuta che quasi toccava il limite dell’isteria, senza smettere di fissarlo come se avessi visto un fantasma. Più o meno la situazione era quella, cioè, che diavolo ci faceva lì a quell’ora? Se non erravo mi aveva detto che la sua famiglia avrebbe festeggiato alla grande. Quindi, perché allontanarsi per… per cosa? In più, a dir la verità, una parte di me si sentiva tremendamente in imbarazzo per il modo assurdo in cui ero abbigliato. Non credevo che presentarmi con dei jeans strappati in più punti, usurati addirittura, e un cappello da cowboy assurdamente arancione fosse la cosa giusta da fare, ma ormai Law mi aveva fregato e non potevo farci nulla. Almeno si era degnato di farmi mettere una maglia.
Per tutta risposta il biondo non aveva fatto altro che continuare a guardarmi, accennando ad un sorriso e riferendosi al fatto che quella non era la prima volta che ci incontravamo per caso. Oh, me lo ricordavo bene, forse anche troppo e avrei dato non so cosa per dimenticarlo. Non perché mi fossi pentito, ma perché tutto ciò mi faceva dannatamente male.
Il silenzio che era seguito e la tensione che si era creata si potevano benissimo tagliare con un coltello tanto erano pesanti ma, quando meno me l’aspettavo e quando lui stava dando cenno di volersene andare, spuntò Rufy alle mie spalle e pensò bene di spiazzarmi chiamando Marco per nome e dandomi a intendere che i due si conoscevano. Non ebbi l’opportunità di chiedere ulteriori spiegazioni perché quell’impiastro che mi ritrovavo come fratello aveva trascinato l’altro dentro l’appartamento e l’aveva presentato a tutti come il mio futuro fidanzato, invitandolo poi ad unirsi alla combriccola e festeggiare in loro compagnia, dimenticandosi totalmente di chiedere il mio parere.
Quando rimasi solo all’entrata mi appoggiai alla parete, incapace di muovermi e ritrovandomi a detestare quella situazione. Forse, detestavo persino Marco.
Perché venire qui? mi chiedevo, per quale motivo ha deciso di presentarsi davanti casa mia la notte di Natale? Non aveva altri con cui stare? Non ha pensato che, forse, anche io ho una famiglia e che sto cercando di smetterla di continuare a pensare a quella sua maledetta faccia? Non credevo potesse essere così egoista: prima mi tratta come un ripiego dovuto all’alcool e poi si presenta qui come se niente fosse. Aspetta, ha pure fatto comunella con Rufy! Di questo passo finirò per odiarlo. E’ stato chiarissimo nel dirmi che non conto niente, quindi perché scomodarsi? Perché, cazzo!

Ad ogni modo non potevo certo restarmene lì a diventare matto per trovare una risposta a tutte le domande che da un pezzo mi assillavano e, di certo, non mi sarei rovinato anche il Natale. Ci ero già rimasto male abbastanza, perciò avevo deciso che avrei fatto finta di nulla e che sarebbe bastato rimanere dall’altra parte della stanza per evitare di stargli troppo vicino. Non mi andava e non ero costretto a farlo se non volevo.
All’inizio fu abbastanza difficile, soprattutto quando, a mezzanotte, dovemmo scambiarci gli auguri. Dire che era come se la mia pelle stesse andando a fuoco era dire poco e desiderai tanto potermi prendere a schiaffi per non aver interrotto quel contatto il più in fretta possibile, lasciando invece che le nostre mani si stringessero e che le dita si sfiorassero lentamente prima di separarci definitivamente. Non ero stato forte abbastanza.
Non volevo cedere, non volevo, non ne valeva la pena e lui era stato molto chiaro nel dire quello che pensava di me, ma non riuscivo a zittire quella piccola sensazione di felicità e benessere che mi dava saperlo lì la Vigilia. Cercavo di mettere a tacere quella vocina, ma tutto fu vano quando qualcuno decise di accostarsi a me per aprirmi gli occhi con la sua sconfinata intelligenza, nonché mista a furbizia, malizia e capacità di calcolo.
«Hai intenzione di restartene qui tutto imbronciato o pensi di lasciarti andare?» mi chiese Law, dandomi una leggera gomitata sul fianco e indicandomi con un cenno del capo il ragazzo biondo davanti a noi.
Gli rivolsi un’occhiata sarcastica, «Non sono in vena di festeggiamenti» risposi acido, ma ciò servì solo a far sì che il suo ghigno si allargasse.
«Sai, Ace, se non l’hai ancora capito, quel ragazzo è qui solo per te». Davanti al mio sguardo perso e al fremito delle mie labbra sospirò e riprese il suo discorso, contento di avere la mia attenzione. «Non so se mi spiego, ma ha deciso di lasciare la sua famiglia nel bel mezzo dei festeggiamenti per raggiungerti. Non credi che un po’ di gentilezza da parte tua se la meriti?».
Ace, stupido e idiota! Perché non ci hai pensato prima? Era ovvio ed era sotto ai miei occhi fin dall’inizio! Dio solo sa che razza di festa avranno organizzato a casa sua e lui ha deciso lo stesso di assentarsi per, per… porca puttana! Per venire qui.
Deglutii a fatica.
Per me.
A giudicare dall’espressione soddisfatta che fece il mio coinquilino, doveva essere riuscito nel suo intento, ossia quello di farmi ragionare e vedere le cose sotto un altro punto di vista, magari più piacevole e meno ostile. Tutto sommato non aveva tutti i torti ed io non ero obbligato a portare avanti una guerra che non aveva senso e forse, se non ci pensavo troppo, avrei potuto anche godermi la serata e cercare di rimediare almeno in parte a tutto il casino che era successo. Pensandoci bene, anche se faticavo ad ammetterlo a me stesso a causa di quel pizzico di orgoglio che non voleva lasciarmi, non mi sarebbe dispiaciuto riallacciare un po’ i rapporti. Niente di simile a prima, ma mi mancava non passare al bar per una cioccolata e mettermi a chiacchierare con Marco di sciocchezze. Nonostante tutto lui mi aveva sempre ascoltato e accettato volentieri la mia compagnia, quindi perché non rifarlo qualche volta?
Ed ecco come mi ritrovai ad avvicinarmi e a comportarmi come se tutto fosse alla normalità, ridendo e scherzando e stupendomi sempre di più nel vedere come Marco non sembrasse minimamente toccato dalle stramberie che avvenivano in quel salotto e dai comportamenti incivili dei miei coinquilini, di mio fratello e dei miei amici. Non sbuffò e non si spaventò mai, sfoggiò sempre e solo un sorriso sinceramente divertito e rispose sempre in modo gentile ed educato, guadagnandosi la simpatia di tutti e cercando, di tanto in tanto, il mio sguardo che, puntualmente, mi premuravo di non spostare altrove per fargli capire che andava bene, che io stavo bene e che tutto andava bene.
 
 
 
 
Alzi la mano chi mi credeva dispersa! Ma no, sono qua e, come avevo detto, ho qual cosina di pronto sul punto di vista dell’adorato Ace che, dopo aver passato buona parte della serata a bestemmiare tra sé, si rende conto, grazie a qualcuno, che Marco, alla fine, ha mollato baracca e burattini per andare DA LUI. Awwwww, rotolo **
Qualche piccola spiegazione: Ace condivide l’appartamento con Law, Penguin e Bepo e, da Natale a Capodanno, Rufy e i suoi amici si trasferiscono, nel vero senso della parola, in casa loro a festeggiare, LOL.
Spargo cioccolata e caramelle ovunque, non vedo l’ora di arrivare ad un certo punto e far squagliare anche voi **
Un abbraccione e grazie a tutti :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26. Iniziai a sperare. ***


Capitolo 26. Iniziai a sperare.

 

Le cose stavano andando meglio di quanto mi ero aspettato.
All’inizio era stato strano e imbarazzante ritrovarmi in quell’appartamento in mezzo a gente che non conoscevo e con la consapevolezza di non poter sperare nell’aiuto di Ace che, come avevo immaginato non appena l’avevo visto, se ne stava in disparte e si comportava come se non esistessi. Come dargli torto, dopotutto ero stato un emerito egoista presentandomi a casa sua la notte di Natale non pensando minimamente a quello che poteva provare lui, tanto ero desideroso di rimediare ai miei errori.
Fortunatamente, dopo la mezzanotte, la situazione sembrò smuoversi e l’aria si fece più respirabile e meno tesa. Gli amici di Ace erano ragazzini vivaci e allegri, un po’ scapestrati e incuranti del pericolo, ma angioletti se paragonati ai miei fratelli che, a conti fatti, avrebbero dovuto essere degli adulti fatti e finiti, quando invece si comportavano ancora come mocciosi immaturi. Non fu difficile quindi adattarmi e entrare in confidenza con loro, in più erano simpatici e non sembravano avermi preso in antipatia. Non potevo dire lo stesso di coloro con l’aspetto più burbero e minaccioso, ma a metà serata ero riuscito a capire che quello era semplicemente il loro modo di fare e si comportavano con tutti nello stesso modo, quindi dedussi di non essere al centro del loro mirino e mi tranquillizzai.
Rufy era la persona più attiva che avessi mai conosciuto e saltava da una stanza all’altra senza mai stancarsi e chiedendomi di partecipare a tutti i giochi che lui e un altro ragazzo con un lungo naso si inventavano al momento. Tra questi mi fecero partecipare ad una gara di tiro al bersaglio che vinsi senza tanti sforzi. Ero il meno brillo e le mie facoltà mentali erano abbastanza intatte da riuscire a prendere la mira e colpire una decina di bottiglie vuote con una pistola a pallini.
Tutto migliorò quando incrociai per caso lo sguardo di Ace che, con mio stupore, non cercò di spostarlo altrove per evitarmi, ma accennò invece ad un piccolo sorriso di incoraggiamento. Solo allora iniziai a sperare che le cose si potessero ancora sistemare.
L’imbarazzo, però, non mancò di accompagnare la serata perché, ad un certo punto, Rufy e un suo compagno con i capelli rossi e l’aria che prometteva solo guai, iniziarono a schizzare acqua ovunque con l’intenzione di fare una doccia improvvisata ai presenti, colpendo in pieno un mio piede, il ragazzo con il violino e i capelli afro, una delle due ragazze, Rufy stesso, quello che si chiamava Usopp e la maglia di Ace. Fu quando, su consiglio di un certo Trafalgar Law, decise di togliersela che mi accorsi di quanto caldo faceva in quella stanza. O ero io, o il riscaldamento era esageratamente alto, troppo forse.

L’avevo immaginato e l’avevo anche capito che Ace non era più un ragazzino ma, dannazione!, restare al mio posto e non attraversare il salone per intrappolarlo tra me e la parete fu parecchio difficile. Quando poi si voltò dalla mia parte mi premurai bene di guardare altrove e far finta di nulla. Sperai solo di non essere arrossito, sarebbe stato umiliante.
Per il resto tutto era andato per il meglio e, senza altri intoppi, era arrivata per me l’ora di ritornare a casa con un cappello da Babbo Natale ben calcato in testa e un piatto pieno di dolci e pietanze varie che Sanji, quello addetto alla cucina, aveva tanto insistito affinché le accettassi. Un modo per ringraziarmi per avergli svelato un piccolo ingrediente segreto che aggiungevo ai miei waffle.
Fu Ace ad accompagnarmi all’uscita e mi sembrò per un attimo che tutto fosse tornato come prima: stavamo chiacchierando normalmente come avevamo sempre fatto.
«Scusami il disturbo, non era mia intenzione venire qui a creare scompiglio» gli dissi prima di andarmene.
«Non preoccuparti, scusaci tu se ti abbiamo traumatizzato» rispose sorridendomi.
«Niente che non abbia già visto» scherzai, «Ora sarà meglio che vada. Grazie per, beh, per…».
Per non avermi mandato via. Per avermi lasciato provare a sistemare le cose. Per la serata. Per il calore che mi mancava troppo. Per tutto. Grazie, grazie davvero.
Avrei dovuto dire qualcosa, ma tutto quello che mi passava per la testa mi sembrava sciocco, scontato e banale, perciò lasciai la frase a metà e rimasi in silenzio, guardando nel frattempo il ragazzo davanti a me e sentendomi bene dopo tanti giorni nel rivedere quei capelli scompigliati che spuntavano da sotto il cappello; gli occhi allegri; il mezzo sorriso che era riuscito a contagiarmi; quelle stupide lentiggini che gli davano quell’aria costantemente infantile, anche se tutto era poi messo in discussione dalla sua stazza. E quelle labbra. Solo per un secondo mi soffermai su di esse e il tempo sembrò fermarsi e il cuore aveva preso a battere un po’ più forte e tutto in me mi gridava di azzerare le distanze e baciarlo.
Ma non lo feci e, riprendendo fiato, mi fermai prima di commettere altri disastri.
«Buonanotte Ace» sussurrai solo, incamminandomi per assicurarmi di mettere più distanza possibile tra noi e, dandogli le spalle con un ultimo accenno di sorriso, me ne andai, sperando inconsciamente di poterlo rivedere presto al bar per una cioccolata.
 
 
 
 
Anche io sto iniziando a sperare e anche a sclerare male u.u oh, ma non preoccupatevi ragazzoni miei cari, ho intenzione di stravolgere per bene la vostra vita, anche perché siete una coppia così vhfuivwhfdvuiow **
Io se fossi stata in Ace non avrei desiderato altro che un bacio e se fossi stata Marco non mi sarei limitata solo a quello. Dio, Dio, salvami u.u
Aaaaaanyway, siete contenti? Che ne pensate? Awww, nah, niente pace fatta, muahaha :D chi lo sperava? Chi se lo aspettava?
Sappiate solo che so che direzione dare alla raccolta, oh si, grandi cose all’orizzonte e il rating boh, dovrei alzarlo solo per le imprecazioni che butto in mezzo di tanto in tanto. So che vorreste altro, lo so, piccoli perversi che non siete altro, ma pazientate, prometto che forse vi esaudirò :3
Poooi. Beh, devo ringraziarvi immensamente per la botta di recensioni che non mi aspettavo e che non merito. Cioè, siete meravigliosi, io non ho parole e siete anche così ruffiani, coccolosi, fuori di testa e fottutamente adorabili. Sto rotolando giorno e notte e per colpa vostra mi verrà il diabete.
GRAZIE PER TUTTO.
No, non siamo alla fine, per quella dovrete aspettare ancora ^^
See ya,
Ace.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27. Buon compleanno cuore impazzito. ***


Capitolo 27. Buon compleanno cuore impazzito.

 

«Buon compleanno!».
«Tanti auguri Ace!».
«Vieni qui ragazzone!».
Stupito, incredulo, sorpreso. Non sapevo bene come mi stavo sentendo in quel momento, quando io ero più che pronto a fare gli auguri di un felice anno nuovo a tutti e non ad augurare un buon compleanno al ragazzo moro, fradicio di spumante dalla testa ai piedi che ringraziava tutti con imbarazzo e modestia.
«Ehi, ma tu lo sapevi?» mi chiese Thatch, dandomi una gomitata alle costole che riuscì a riscuotermi dalle mie riflessioni e a farmi rispondere con un flebile sussurro negativo.
No, non lo sapevo che il primo giorno di gennaio era il compleanno di Ace, non me lo aveva mai detto ed io non me l’ero di certo andato a immaginare. Per la testa avevo ben altre cose.
Quando Rufy mi aveva invitato a passare con loro anche la festa di Capodanno ero piuttosto indeciso su cosa fare, soprattutto perché non sapevo come l’avrebbe presa suo fratello maggiore, nonché padrone dell’appartamento, ma i suoi amici avevano insistito tanto che ero quasi convinto di accettare. Quasi però, fino a che non avevo visto Ace sorridermi, trasmettendomi in quel momento mille parole e facendomi capire che andava bene, che potevo passare a salutarli se mi andava. E così avevo fatto, aiutato con una leggera spinta da quell’impiastro di Thatch che poi non ne aveva voluto sapere di andarsene e si era imbucato alla festa legando fin troppo con Rufy e compagnia.
Ed ora ci trovavamo sul tetto dell’edificio con i fuochi d’artificio sparati uno dopo l’altro in cielo dall’Automatic Fire Due a guardare come tutti si apprestassero a fare gli auguri al festeggiato, incapace di avere anche solo cinque minuti per respirare perché era costantemente afferrato e sballottato da una parte all’altra, soffocato dagli abbracci della sua famiglia.
Non l’avevo mai visto così felice, mai, ne ero certo. Sorrideva ininterrottamente e gli occhi brillavano di affetto e amicizia ogni volta che qualcuno gli si avvicinava. E quando scartò il regalo dei suoi coinquilini, estraendo una collana di perle rosso fuoco da una piccola scatoletta, avrei tanto voluto correre ad abbracciarlo quando lo vidi tremare per l’emozione, incapace persino di spiccicare qualche parola. Quello doveva essere stato per lui un momento davvero speciale e fui contento perché se c’era qualcuno che si meritava di essere felice quello era lui.
Una volta che la calca di gente iniziò a calmarsi e a concentrarsi sui fiocchi di neve che avevano iniziato a scendere lenti ma costanti sulle nostre teste e sui fuochi che offrivano uno spettacolo magnifico, presi un respiro profondo e mi avvicinai al ragazzo entusiasta che continuava a sorridere come un bambino.

Thatch fu il primo a raggiungerlo e, con una confidenza imbarazzante, tipica di lui, abbracciò Ace con animo tanto forte da sollevarlo da terra, urlandogli nelle orecchie i suoi auguri e scherzando sul fatto che fosse appena invecchiato.

Prima che combinasse altri disastri decisi di toglierlo di mezzo con una spinta e mi parai davanti al festeggiato, rivolgendogli un’occhiata scherzosa e curiosa allo stesso tempo.
«Non hai nulla da dirmi?» gli chiesi, inarcando un sopracciglio e notando come le guance si tingevano leggermente di rosso. Non era per il freddo e, se solo avessi potuto, gli avrei carezzato gli zigomi con il pollice, giusto per rendermi conto di quanto morbida fosse la pelle punteggiata di lentiggini.
«Ecco, beh, a proposito di questo…» fece con malcelato nervosismo, passandosi una mano fra i capelli corvini, «Sorpresa?» finì con l’improvvisare.
Alzai gli occhi al cielo e stirai la bocca in un mezzo sorriso che non riuscii a trattenere. Ace era tutto fuorché prevedibile.
«Avresti potuto dirmelo» dissi, stringendomi nelle spalle e notando il mio respiro condensarsi e fondersi con la nuvoletta di fumo che aveva appena creato lui. Sul serio, se mi avesse avvisato per tempo avrei potuto fargli un regalo o almeno non ritrovarmi così preso alla sprovvista.
«N-non era importante» mormorò, spostando lo sguardo altrove. Le pupille scure si muovevano velocemente nello spazio attorno, irrequiete.
«Siete i migliori e non conosco nessuno più innamorato di voi!» sentii urlare Rufy in lontananza e, guardando verso di lui, lo vidi intento ad abbracciare il tizio dai capelli rossi e quello con il cappello bianco a macchie, quello inquietante, mentre il primo sbraitava a voce altra insulti verso le insinuazioni del piccoletto e si allontanava a grandi falcate. Rufy, per tutta risposta, prese a seguirlo e a imitarlo, facendo scoppiare tutti a ridere, Thatch compreso che lo raggiunse per dargli man forte.
Nel frattempo Ace si era schiaffato una mano sul viso per non assistere alla scena, ma notai che stava sghignazzando ugualmente tra sé.
«Ace» mi ritrovai a dire, mordendomi il labbro inferiore per l’indecisione. Non so dove, ma riuscii a trovare un minimo di coraggio per avvicinarmi di un passo, ritrovandomi a pochi centimetri di distanza. Ancora non avevo bene in chiaro cosa avrei dovuto dire o fare in quell’occasione.
Mi guardò interrogativo, il sorrisetto sempre presente che rispecchiava il suo umore allegro e, finalmente, di nuovo solare.
Dio, quanto mi é mancato, mi ritrovai a pensare, lasciando vagare lo sguardo sulla sua figura.
Chiusi le distanze tra di noi passandogli un braccio attorno alle spalle e tirandolo leggermente verso di me, quel tanto che bastava perché i nostri petti si sfiorassero.
«Buon compleanno» sussurrai, non azzardandomi a stringere la presa e lasciandogli la possibilità di allontanarsi o sciogliere quel mezzo abbraccio dettato più dal bisogno di sentirlo vicino che dall’istinto. Volevo tanto che le cose si sistemassero e, se dovevamo essere amici, tanto valeva iniziare con piccoli passi. Quello che stavo facendo non era poi tanto esagerato, giusto?
Rimase interdetto e si irrigidì per un attimo, ma si rilassò quasi subito e, poggiando la fronte sulla mia spalla mi ringraziò con voce tranquilla e per niente infastidita.
Non importavano i fuochi d’artificio nel cielo, non importavano Thatch e Rufy che rotolavano a terra per le risate, non importava quel rosso iracondo che si sgolava con gli insulti e poco mi interessava vedere come tutti iniziassero a lanciarsi piccoli grumi di neve fresca.
Mi importava solo Ace e quel piccolo fremito che percepivo al di sotto della sua giacca all’altezza del petto.
Non ne avevo la certezza, ma assomigliata moltissimo al battito di un cuore impazzito.
 
 
 
 
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA.
*prende fiato*
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA.
Va bene, basta. Sarò seria perché voglio lasciare i commenti a voi, chi ovviamente avrà voglia di farlo.
Ci tengo a chiarire che i due ragazzi non sono stretti in un affettuoso abbraccio, ma solo in un qualcosa che ci assomiglia e che è comunque molto sul distaccato quasi attaccato. Marco, come ha detto, lascia a Ace la possibilità di allontanarsi, non lo vuole obbligare, ma il nostro piccolo festeggiato non si tira indietro a accetta gli auguri lasciandosi cullare da quel piccolo, ma dolce, contatto.
Mettetevela via, NON si baciano.
Ah si, il titolo, ormai l’avrete capito, riprende sempre una frase o una parola del testo. Stavolta ero partita con il Buon Compleanno, ma cuore impazzito mi piaceva tanto, quindi li ho messo entrambi.
Detto questo spero di aver reso bene il tutto e di avervi fatti contenti, davvero.
Per chi fosse interessato, io lo metto per qualsiasi evenienza, in questo capitolo della long la serata è spiegata nel dettaglio e potrete trovare qualche riflessione dal punto di vista di Ace, esattamente all’inizio, e anche di Marco, il terzo, dove racconta come il caro Thatch l’abbia seguito e sfottuto spudoratamente, LOL.
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2407786
Bene gente, vi auguro buona serata e vi avviso che forse, se non mi prendo avanti stasera, domani non aggiornerò la raccolta, quindi ci si vedrà lunedì. Non è certo, ma comunque vi avviso ^^
Un abbraccione e grazie mille a tutti **
See ya,
Ace.

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Capitolo 28
*** Capitolo 28. Io potevo farcela. ***


Capitolo 28. Io potevo farcela.

 

I fuochi d’artificio avevano sempre suscitato un certo fascino su di me sin da quando ero piccolo e li guardavo da dentro casa, con il naso appiccicato alla finestra, i palmi premuti contro il vetro e gli occhi irrequieti che passavano da un’esplosione all’altra, pieni di meraviglia per tutti quei colori, quelle scintille e le forme che alcune di esse assumevano.
Erano un qualcosa di spettacolare: filavano in alto nel cielo scuro, scomparendo alla visuale per poi scoppiare e illuminare la notte con miriadi di stelle luccicanti e brillanti, cadendo lentamente sopra le teste di coloro che li guardavano con il naso all’insù. Me ne ero completamente innamorato e l’attività di piromane, come i miei amici si divertivano a definirla, era diventata il mio passatempo preferito. Natale, Capodanno, compleanni, serata a caso, ogni occasione era buona per lanciare in orbita i miei fuochi d’artificio. Miei perché la maggior parte li fabbricavo io in gran segreto nel garage sotto l’appartamento, aiutato qualche volta da Rufy o da Penguin, a seconda dei casi e di quanta voglia avessi di stare in compagnia.
Amavo dedicarmi a loro: era come se sentissi la passione, l’energia, la meraviglia scorrermi nelle vene, passarmi attraverso le mani che lavoravano veloci nel fabbricare quei botti e creandoli dal nulla quasi ad occhi chiusi. Era come se fossero parte di me, ognuno di loro nascondeva una mia emozione, un mio pensiero, una frase, tutti avevano qualcosa di speciale, tutti erano stati fatti in determinati momenti e situazioni particolari. Tutti erano speciali.
E, quando esplodevano nel cielo rendendomi fiero e catturando l’ammirazione dei presenti, mi facevano sentire esattamente così: speciale nella mia anonimità.
Proprio in quel momento, la mia ultima invenzione, uno spara-fuochi automatico, aveva appena fatto partire con un sibilo uno dei fuochi di medie dimensioni che riconobbi all’istante, spedendolo più in alto del previsto e facendomi trattenere il respiro. Dopo qualche secondo ci fu il botto e il fuoco esplose con una fiammata di colore arancione per poi passare al rosso e terminare con un’ondata di azzurro, creando una cascata nel cielo che mi fece sussultare nel profondo.
Quello l’avevo fatto pensando a Marco.
Ero ancora stretto in quella specie di abbraccio improvvisato che tanto mi aveva stupito, quanto fatto piacere. Non avevo pensato che dirgli del mio compleanno fosse importante, dopotutto, nemmeno ero certo che sarebbe venuto o meno, in più non vedevo come l’argomento potesse interessarlo. Ma poi mi aveva spiazzato quando mi ero ritrovato il suo braccio a circondarmi le spalle e ad attirarmi verso di lui, vicino, al caldo, augurandomi un buon compleanno nel miglior modo possibile.
All’inizio volevo fermarlo, ma all’ultimo non ero riuscito a farlo. Era stato più forte di me, soprattutto perché mi accorsi di un particolare piuttosto importante che avrei voluto ignorare, ovvero il mio cuore che aveva preso a battere così forte da fare quasi male, come se volesse uscirmi dal petto. Lo sentivo battere chiaramente, tanto che temetti che il suono fosse udibile anche agli altri, ma sapevo che ciò era impossibile. Nonostante tutto, decisi di ascoltarlo, faceva troppo casino per fare finta di nulla, così gli avevo appoggiato la fronte nell’incavo del collo, vicino alla spalla, e li ero rimasto, nascondendo un piccolo sorriso. Felice, soddisfatto, divertito che fosse non aveva importanza, sapevo solo che in quell’istante stavo maledettamente bene.
Era sbagliato, non era giusto nei miei confronti, mi ripetevo che dovevo avere più considerazione di me stesso e non lasciarmi trattare come se non valessi nulla. Avrei dovuto essere freddo, schivo, disinteressato ma, dannazione, era così difficile. Ero stato male, tanto, nonostante l’accaduto non fosse stato poi così importante e il nostro legame semplice conoscenza, ma continuare ad essere arrabbiato a cosa mi sarebbe servito? Avrei cambiato qualcosa? No, niente. E, dato che potevamo avere la possibilità di essere almeno semplici amici, tanto valeva coglierla al volo invece che buttare tutto all’aria per un fraintendimento. Io potevo farcela, potevo essere forte e affrontare la cosa con maturità, come era giusto che fosse. E così avrei fatto.

Per questo lasciai che Marco mi abbracciasse, se così si voleva dire, e mi godetti ogni minimo istante di quel momento, anche quell’augurio sussurrato sommessamente, quasi con paura, ma con una dolcezza infinita.
Era questo che mi metteva al tappeto di lui: Marco, ogni volta che io ero nei paraggi, cambiava totalmente. Quando si rivolgeva a me, quando mi guardava, quando mi ascoltava, quando mi parlava o anche solo quando si trovava vicino i pilastri della sua solita espressione pacata e spesso annoiata cadevano e lasciavano spazio a una miriade di emozioni e sentimenti. Allora sorrideva, era partecipe, mi rimproverava, mi dava dell’idiota, mi sfotteva per la mia età, mi prendeva in giro e sbuffava davanti ai miei racconti e alla mia mania di parlare troppo. Mi considerava degno della sua attenzione. E poi, in quegli ultimi tempi, l’avevo scoperto capace di una dolcezza così semplice e celata tra le righe che mi ero sentito folgorare. Lui non si esponeva mai troppo, ma bisognava saper leggere tra le righe quello che pensava, diceva o faceva.
Proprio come la psicologia.
Mi sarebbe bastato solo un po’ della sua attenzione, me lo sarei fatto andare bene, come in quel momento, vicino a lui, lasciando da parte le incomprensioni e i sentimenti contrastanti. Ci tenevo troppo per mettere un punto a tutto ciò, sentivo che ne valeva la pena e, anche se le cose non sarebbero state più semplici come prima, io ci avrei provato ugualmente.
Quando sciolse l’abbraccio mi sorrise con fare altezzoso, come quando eravamo al bar e stava per dire qualcosa che mi avrebbe fatto arrabbiare, nonostante fosse lui dalla parte della ragione. Faceva sempre quella faccia quando stava per prendermi allegramente per il culo.
«Avrai anche un anno in più, ma resti sempre un ragazzino» ammiccò.
Probabilmente fu un gesto un po’ infantile, ma gli feci una linguaccia e mi imbronciai, ritrovando la mia vena sarcastica e sfottendolo a mia volta. Non sia mai che mi faccia mettere i piedi in testa.
«Geloso della mia giovinezza, vecchietto?» ghignai.
Uno scappellotto sulla nuca fu la sua risposta, seguita dopo poco dalla risata di entrambi.
Forse mi sbagliavo. Forse le cose potevano davvero tornare come prima.
 
 
 
 
Buonaseeera ^^
Ecco, sapevo che ieri sarebbe stato impossibile aggiornare, ma eccomi qui oggi, come promesso, addirittura con il punto di vista del tanto amato Ace!
Allora, una panoramica dei suoi pensieri ci stava diciamo, dato che non si sa ma come possa reagire davanti a certe cose, ma mi sembra carino spiegare bene gli stati d’animo di entrambi quando hanno qualche contatto tra loro.
Comunque, qui ho voluto far capire che, anche se Ace ha sofferto, anche se ci è rimasto male, anche se ha provato a dimenticare Marco, non ce l’ha fatta, non ci riesce. Non ha nemmeno molto senso, a dire la verità perché, ci tengo a rivangare e precisare che i due non erano fidanzati, non avevano fatto nessuno voto di appartenenza l’uno all’altro e, praticamente, tra loro non c’era nulla di concreto. Un bacio a volte può scappare tra amici, che poi rovini le cose o meno dipende dalle persone. Qui Ace era mezzo cotto di Marco, quindi è stato inevitabile per lui restarci male davanti alla negazione del biondo, ma la reazione è stata un po’ esagerata se si guarda bene il tutto. Che Marco abbia sbagliato poi è un’altra questione, ma penso che nel momento di rabbia, il moro abbia anche avuto tutto il diritto di sclerare male. Ripensandoci capisce che serbare rancore non ha senso, quindi meglio essere amici o quel che si riesce a ricostruire.
Spero di essere stata chiara ^^
Con questo non sto dicendo che i due ora saranno una coppietta felice, ma state certi che dal prossimo capitolo si rivedranno al bar. Siete contenti? Lo spero, perché ci stiamo avviando verso una nuova situazione, aww **
Ora me la mocco e prometto che risponderò presto anche alle recensioni che ho lasciato in sospeso! Scusate, non pensate che non vi apprezzo, solo che ultimamente sono parecchio incasinata ;_____________;
un abbraccione grandissimo a tutti!
See ya,
Ace.
 
P.S: A voi Ace che sogghigna **
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Capitolo 29
*** Capitolo 29. La cioccolata migliore. ***


Capitolo 29. La cioccolata migliore.

 
Le feste erano finite, le lucette di natale scomparse, le insegne colorate rimesse a prendere polvere nei magazzini e i cappelli da Babbo Natale erano ritornati negli armadi. Per strada la gente era ritornata alle proprie abitudini, nonostante la neve imbrattasse ancora le strade e i marciapiedi. L’inverno non voleva saperne di andarsene, ma io di certo non mi lamentavo perché in giornate grigie, nuvolose e fredde come quella mi veniva sempre voglia di una capiente tazza di cioccolata con sopra una montagna di panna montata.
Ormai era fine gennaio e in quel mese non avevo fatto altro che combattere con me stesso e andare alla ricerca di un posticino tranquillo dove fermarmi dieci minuti per fare una pausa dallo studio, dato che ero sotto esami fino a metà febbraio. Avevo setacciato ogni angolo vicino alla sede universitaria, ma senza grandi risultati. La cioccolata migliore la trovavo in un solo e unico bar: quello di Marco.
Forza, cosa potrebbe succedere di male? Entro a testa bassa, cerco di non farmi notare, ordino qualcosa di caldo, pago, ringrazio e filo via come se niente fosse. Non è detto che debba per forza mettersi a chiacchierare con me, insomma, forse nemmeno si accorgerà della mia presenza. E poi, che m’importa? Abbiamo deciso che saremo stati amici, quindi penso di avere anche il diritto di passare dalle sue parti qualche volta, mica è un reato. Gli dirò semplicemente che mi mancava la sua cioccolata. No, no assolutamente, pessimo inizio. Però, più o meno, l’idea è quella…
Sbuffai sonoramente, deglutendo a fatica e cercando di calmare quell’ansia che aveva preso a ballarmi nello stomaco dato che mancavano circa un centinaio di metri al locale dove lavorava Marco. Peggio di quando mi trovavo davanti alla commissione d’esame.
Avanti, Ace! Sei forte, ce la puoi fare! Tu sei Pugno di Fuoco, che cazzo! Quello che durante le risse spedisce a gambe all’aria chiunque con un destro micidiale; quello che fabbrica fuochi d’artificio in garage e accende le griglie con l’alcool! Hai venticinque anni, per la miseria, devi solo entrare in una fottuta caffetteria a testa alta e mettere tutti a novanta.
No, aspetta, questo meglio di no, lasciamo perdere, non ho bisogno di pensieri poco casti proprio adesso, per l’amor di Dio!
Gonfiando il petto e stringendo i pugni, sconnettendo il cervello per alcuni secondi e smettendo di pensare alle conseguenze negative, mi decisi a compiere gli ultimi passi per coprire le distanze che mi separavano dal locale e per andarmi a prendere la mia meritata cioccolata.
Entrai aprendo piano la porta, quasi come se temessi di fare rumore e, nell’esatto istante in cui il campanellino sopra la mia testa suonò, lo maledissi per il casino che fece. Sicuramente avrebbe attirato gli occhi di tutti su di me. Invece, con mio grande sollievo, la sala era praticamente vuota e nessuno dei pochi che stavano seduti tranquillamente ai tavoli si voltò a guardarmi. Non vidi, però, nemmeno due occhi famigliari intenti a fissarmi come al solito quando gettai occhiate furtive in direzione del bancone.
La testa d’ananas non c’era, nessun ridicolo ciuffo biondo sventolava di qua e di là, nemmeno la sua faccia annoiata, nulla. Non c’era nessuno.
Corrugai la fronte mentre mi dirigevo verso quello che un tempo era stato il mio angolino personale, cercando anche di capire se mi sentivo sollevato o deluso nel constatare che tutto il mio coraggio alla fine era stato vano. Quanto poi mi dispiacesse che il biondo non fosse presente era un altro discorso che preferii non toccare.
Iniziai a tamburellare distrattamente le dita sul ripiano in legno, indeciso se andarmene e tornare un’altra volta o prendere comunque qualcosa dato che ormai avevo fatto la strada quando, all’improvviso, dall’altra parte del banco sbucò Marco in tutta la sua stazza.

Successe tutto di fretta e con tale sorpresa che quasi ebbi un infarto vedendolo spuntare così dal nulla come se niente fosse e, se lui sbiancò facendo un passo indietro e urtando il ripiano degli alcolici, io finii direttamente per sbilanciarmi e cadere a terra, sgabello e porta salviette compreso, afferrato nel tentativo di aggrapparmi a qualcosa.

«Che male, che male, che male!» mormorai, cercando di massaggiarmi la tempia con la mano libera e provando allo stesso tempo a liberarmi della sedia che mi teneva mezzo imprigionato al suolo. Certo che come inizio andava proprio male.
«Ace! Tutto a posto? Stai bene?».
Lo sgabello infernale magicamente sparì dal mio petto e mi riscoprii capace di essere di nuovo libero di muovermi mentre un paio di braccia mi aiutavano con gentilezza a mettermi seduto e un paio di occhi chiari mi sondavano attenti e preoccupati in cerca di qualche segno o contusione grave.
Dita che non erano le mie mi sfiorarono i capelli, scendendo poi a tastare la base della nuca, controllando che tutto fosse a posto e che non mi fossi tagliato, per poi passare alle spalle, al petto e per finire al viso dove si posarono leggermente sopra le mie guance, tentennando per qualche istante. Solo allora gli occhi di Marco incontrarono i miei che, fin da quando mi ero reso conto della situazione, non si erano spostati da lui neanche di un centimetro.
Sorridere fu più forte di me. Dopotutto, avevo appena visto quanto si fosse preoccupato per le mie condizioni, come potevo non esserne, almeno, compiaciuto?
Forse eravamo vicini, troppo vicini, di questo sembrò accorgersene e, scostando le mani, si allontanò quel tanto che bastava per non rendere il tutto più imbarazzante di quanto già non fosse, grattandosi nervosamente i capelli per l’imbarazzo.
«Niente di rotto spero» improvvisò, guardandomi dubbioso.
Ci pensai su per un attimo, provando ad alzarmi. La smorfia che feci bastò a confermargli che qualcosa non andava, infatti il mio deretano aveva visto giorni migliori.
«E’ solo una botta, passerà presto» lo assicurai.
Sembrava indeciso se credermi o no, ma poi il suo sguardo cadde sul porta salviette distrutto, i tovaglioli sparsi per terra e lo sgabello lì accanto e scoppiò a ridere, prima sommessamente, poi sempre più divertito fino a che non guardò la mia faccia per poi scuotere il capo e rialzarsi.
«Certo che sei proprio un imbranato» disse, porgendomi la mano per aiutarmi a rimettermi in piedi.
«Parla quello che spunta fuori come i funghi» ribattei piccato, ma accettando comunque il suo aiuto, «E’ colpa tua se sono caduto, praticamente mi hai fatto fare un mezzo infarto!».
«Non sapevo fossi tu» rispose tranquillo, tirandomi su senza sforzo e rivolgendomi un mezzo sorriso incerto. Sapevo cosa voleva dire: non mi stava aspettando e la sorpresa era stata spiazzante anche per lui.
«Se mi offri una cioccolata ti perdono» borbottai, fingendomi ancora un po’ offeso. In realtà in quel momento non poteva esserci nessuno più contento di me.
«Ti ricordo che mi hai distrutto un porta salviette. Siamo pari».
Guardai l’oggetto del nostro dibattito giacere a terra ormai di nessuna utilità ed ebbi una visione inquietante di me stesso sfracellato sul pavimento. Decisamente poco invitante.
Perciò lo guardai scettico, scontrandomi con il suo sguardo ancora meno accondiscendente. «Avrebbe potuto esserci il mio cadavere al suo posto» gli feci notare.
Sbuffò esasperato, alzando gli occhi al cielo e tornandosene dietro al bancone.
«Ragazzino, se vuoi una cioccolata vedi di non tirarla per le lunghe». Cercava di sembrare indifferente, ma capivo benissimo che era contento di rivedermi quanto lo ero io. Alla fine quegli incontri erano mancati a entrambi.
Mi strinsi nelle spalle, nascondendo un sorrisetto e recuperando tutto quello che avevo trascinato per terra con me.
Non è andata così male tutto sommato, pensai allegro.
 
 
 
 
 
Qui tipo ci stava alla grande una panoramica dei pensieri poco casti di Marco mentre tastava preoccupato il corpo viuvbwsui di Ace **  un pezzo speciale va alle guance e alle lentiggini, oh Dio, posso morire felice! Sparatemi!
Lo farò, devo farlo, assolutamente! Arriverò anche a quello, con calma, ma ci arriverò!
Sono contenta, finalmente si ritorna al bar, yeee! E, ovviamente, un commento sarcastico ai capelli di Marco ci stava per inaugurare la cosa :D comunque non è questa la novità, ma vi prometto che la vedrete tra uno o due capitoli massimo, dipende come mi gira ** A proposito, domanda importante: qualcuno sa dirmi di che colore sono effettivamente gli occhi di Marco? Perché io ho provato ad attivarela mia vista da falco e su alcune immagini tratte dalla battaglia a Marineford mi sembrano azzurri, ma su altre non lo sono. Quindi, che cazzo faccio? Intanto li ho messi chiari, se gentilmente mi date la vostra opinione o mi assicurate il colore esatto cambio e sistemo oppure lo lascio se ho azzeccato! Grazie in anticipo! ^^
Ora scappo perché tipo devo finire di vedermi la terza stagione di Sherlock che ho atteso con ansia, inoltre sono innamorata della serie, shippo qualsiasi cosa respiri la dentro e,bhe, meglio che vada **
Un abbraccione a tutti!
See ya,
Ace.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30. Mi piaceva tanto. ***


Capitolo 30. Mi piaceva tanto.

 

Maledetto affare, ma guarda se doveva rompersi proprio oggi. Fortuna che il bar è praticamente vuoto, altrimenti sarebbe stato un bel disastro. E questa che roba è? Da dove si è staccato quest’altro pezzo? Dio, dovrò chiamare Thatch e dirgli di venire a dare un’occhiata. Se si può aggiustare bene, altrimenti dovrò comprare una nuova lavastoviglie. Certo che è una bella scocciatura, ma almeno non passo tutto il pomeriggio ad annoiarmi. Ormai non succede più nulla di interessante.
Il campanello all’entrata annunciò l’arrivo di un nuovo cliente, ma non mi scomodai nemmeno ad alzarmi per controllare chi fosse. Avevo smesso di farlo dato che nel giro di un mese circa Ace non era ancora passato da quelle parti.
Non l’avevo più rivisto dopo la notte di capodanno, quando avevamo festeggiato pure il suo compleanno e mi dispiaceva che le cose fossero giunte alla fine. Aveva detto che potevamo essere amici, me l’aveva proposto lui e, sinceramente, io avevo sperato che tutto ciò significasse vederlo ritornare di nuovo nel mio locale per quattro chiacchiere e una cioccolata calda, o qualsiasi altra cosa a seconda della stagione.
Invece nulla, nemmeno una volta.
Che potevo aspettarmi? Avrà avuto da fare con l’università, oppure ha trovato lavoro, o peggio un posto migliore dove fermarsi a fare una pausa e a bere qualcosa. Magari un luogo dove i baristi sono gentili e sempre col sorriso e se decidono di baciarti poi non ti voltano le spalle come se niente fosse. Però, cazzo, siamo amici, no? Me l’ha chiesto lui, quindi perché ora non si fa vedere? D’accordo, io sono stato un gran bastardo, ma se aveva intenzione di cancellarmi dalla sua vita avrebbe anche potuto dirmelo in faccia senza recitare la parte della persona altruista.
Qualcuno tamburellò sul bancone nell’attesa di essere servito e mi ricordai che non mi ero ancora alzato, rimanendo invece accucciato davanti alla lavastoviglie che mi aveva appena abbandonato. Allora feci tutto alla svelta, rimettendo in ordine i canovacci sparsi a terra nell’intento di asciugare il pavimento, dato che quell’affare rompendosi aveva perso acqua ovunque, richiusi lo sportello e mi alzai di scatto, forse troppo velocemente.
Fu il caos.

Mi ritrovai davanti gli occhi scuri e caldi di Ace, il quale se ne stava seduto al solito posto come se non se ne fosse mai andato, guardandomi come se avesse appena visto un fantasma. Mi sorpresi così tanto che finii col fare un salto indietro e sbattere contro una delle mensole dove un paio di bottiglie tintinnarono tra loro, minacciando di rovesciarsi e rompersi in mille pezzi, mentre per il moro fu tutto più complicato. Evidentemente non si aspettava di vedermi comparire di fronte a lui nel giro di un secondo e dovevo averlo spaventato parecchio perché si ritrasse con uno slancio e finì per sbilanciarsi, ritrovandosi a terra in un groviglio di gambe, salviette e sgabello compreso. A giudicare dal rumore che aveva fatto non doveva essere stata una bella caduta.
Reagii senza nemmeno rendermene conto, giusto il tempo di aggirare il bancone e gli ero accanto, togliendogli di dosso la sedia in metallo e inginocchiandomi a terra per aiutarlo a tirarsi su.
«Che male!» si stava lamentando con una smorfia sul viso, mentre con una mano si massaggiava la nuca.
Non capii nemmeno cosa mi stesse passando per la testa in quel momento, probabilmente ero solo preoccupato, tanto, e in pensiero. Poteva benissimo essersi rotto qualcosa nell’impatto col pavimento e questo mi rendeva nervoso e in ansia.
Fu così che, senza rifletterci su, non aspettai una sua risposta e presi a passargli le mani ovunque.
Prima fra i capelli, alla ricerca di qualche taglio o di una ferita, poi la base del collo, quello che mi preoccupava di più, ma fortunatamente sembrava essere a posto. Da lì passai alle spalle, rendendomi vagamente conto di quanto fossero larghe e forti, di sicuro niente le avrebbe scalfite. Scesi sul petto e, Dio, le dita iniziarono a tremarmi mentre il respiro si faceva più corto.
Sono preoccupato, sono solo preoccupato, mi ripetevo, tentando di rimanere lucido.
Ace aveva un corpo bellissimo e potevo dirlo con certezza perché mi ero soffermato più volte a osservarlo. Non era mingherlino o smilzo e, se non per pochi centimetri, era alto quasi quanto me e robusto quel tanto che bastava per attirare l’attenzione e far si che mi incantassi quando lo guardavo. A Natale era successo questo, era bastato che si togliesse la maglia per sentirmi andare a fuoco e ritrovarmi automaticamente con il cavallo dei pantaloni piuttosto stretto.
Scacciai quei ricordi e tornai a concentrarmi sul ragazzo ancora dolorante e accorgendomi che, senza volerlo, le mie mani erano finite sul suo viso e gli stavo accarezzando lentamente le guance arrossate dove spiccavano quelle deliziose lentiggini che adoravo e che tante volte avevo desiderato toccare. Mi piaceva il viso di Ace e anche la sua pelle. Mi piaceva tanto.
Incrociai i suoi occhi ipnotici e mi sentii in trappola, senza via d’uscita, ma non mi dispiaceva affatto e, se avessi potuto, sarei rimasto ad accarezzarlo per tutto il tempo.
Dio mio, Ace, che mi hai fatto.
Con tutta la volontà d’animo di cui disponevo evitai di guardare le sue labbra, sicuro che, se solo l’avessi fatto, avrei finito per assalirlo lì, sul pavimento e incurante dei presenti. Mi scostai da lui come se avessi appena messo le mani nel fuoco, grattandomi la testa imbarazzato e chiedendogli se fosse tutto a posto per sviare l’attenzione altrove e spezzare quel momento di stallo che era venuto a crearsi.
La faccia che fece, non del tutto convinta, in risposta alla mia domanda mi fece mordere un labbro per trattenere una risata. Così conciato era proprio buffo, ma non volevo infierire oltre dopo la figuraccia che aveva appena fatto.
Non ci riuscii e bastò un’occhiata intorno a noi per farmi scoppiare a ridere senza ritegno, seguito poi da lui che approfittò per togliersi di dosso alcune salviette che gli erano finite sopra ai vestiti.
«Certo che sei proprio un imbranato» dissi infine, porgendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.
«Parla quello che spunta fuori come i funghi» ribatté offeso e blaterando qualcosa riguardo a un infarto.
«Non sapevo fossi tu». Ed era vero, se solo lo avessi saputo la sorpresa sarebbe stata tale, ma non avrei mai rischiato di attentare alla sua vita.
«Se mi offri una cioccolata ti perdono» borbottò, mettendo il broncio e sporgendo deliziosamente un labbro in fuori.
Spostai immediatamente lo sguardo altrove per non trovarmi ad affrontare situazioni scomode, dato che i pantaloni minacciavano di restringersi da un momento all’altro, e mi cadde l’occhio sulla fine disastrosa che aveva appena fatto il mio porta salviette.
«Ti ricordo che mi hai distrutto un porta salviette. Siamo pari» gli feci notare.
«Avrebbe potuto esserci il mio cadavere al suo posto» rispose scettico, anche se non trovò la mia approvazione perché ero intenzionato a non dargli soddisfazioni. Non l’avevo mai fatto e i nostri battibecchi per un nonnulla mi erano sinceramente mancati.
«Ragazzino, se vuoi una cioccolata vedi di non tirarla per le lunghe» lo avvisai, tornandomene a lavoro dietro al bancone con l’ombra di un sorriso in volto.
Finalmente le mie giornate avrebbero ripreso un po’ di colore.
 
 
 
 
 
*si schiarisce la voce*
ALLORA!
A grande, grandissima, ENORME richiesta, ecco un capitolo dove possiamo notare, anche se non in modo approfondito, i pensieri leggermente poco casti di Marco. Lasciate adesso che ve lo dica, siete dei perversi però *O* non preoccupatevi, lo sono anche io, quindi spero che le cose vadano anche oltre, LOL ^^
Comunque! Io spero sinceramente che vi abbia soddisfatti almeno un pochino, a mia discolpa posso dire che non sono molto ferrata nel rating rosso e che il mio limite massimo può essere l’arancione tenue o leggero. Scusate, ma non so che farci, è un problema mio ;___;
Marco stava giocando con la lavastoviglie infernale, per questo era nascosto :D e stava anche pensando a Ace con l’umore un po’ scazzato perché non l’aveva più visto e si sentiva un po’ preso in giro dato che erano rimasti d’accordo di essere amici. Povero, in realtà era solo frustrato perché sentiva la sua mancanza e voleva quindi avere per una volta la ragione dalla sua parte dato che non è un ragazzino, ma un adulto fatto, finito e figo.
Poi Ace arriva e, sorpresa, si ritrova con le mani in pasta ** in tutti i sensi. Le guance di Ace non potevo non citarle, le amo e amo l’idea che Marco le accarezzi. State buoni, per assaggiarle ci sarà tempo, If you know what I mean.
Ci tengo a sottolineare e a far notare che Marco non voleva solo assalire Ace, ma violentarlo all’istante, solo che mi sembrava brutto dirlo, ho preferito qualcosa di più tranquillo e meno disperato. Cosa che si, arriverà u.u
Uhm, che altro dire…? (Immagino abbiate capito perché i pantaloni si stringono) Un applauso al cambiamento di rating che fila al secondo livello: giallo, yeee. Si, insomma, non è granché, ma i pensieri di Marco, anche se non tanto spinti, si riferivano chiaramente a qualcosa.
Le battute finali sono più  meno le stesse e marco si domanda cosa gli ha fatto Ace perché capisce che ormai non può farci più niente e lo ammette anche: Ace gli piace.
Vado, spero che il capitolo vi sia piaciuto e se avete consigli sul rendere tutto in modo più chiaro fatemi sapere, è tutto ben accetto :D
Oh, e per la novità dovrete darmi qualche giorno in più forse, perché vorrei dedicare qualche altro momento imbarazzante o divertente tra i due, ma più tardi deciderò ^^ a proposito, domanda: SOLO IO STO MORENDO PER L'ULTIMA PAGINA DEL CAPITOLO 735? Cioé, il pensiero di LUI! Dio, sto per piangere ;_________;
Un abbraccione grande **
See ya,
Ace.

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Capitolo 31
*** Capitolo 31. Conversare con una divinità. ***


Capitolo 31. Conversare con una divinità.

 

Allora, dai, questo non è difficile, pensai tra me e me, sfogliando le pagine sottolineate ed evidenziate del libro che tenevo davanti agli occhi leggendo gli ultimi paragrafi.
In poche parole si può dire che l’essere umano ha sempre una reazione quando viene a contatto con elementi estranei e, in questo caso, dannosi per il suo sistema, ripetei mentalmente, queste reazioni sono differenti e non sempre possono essere sufficienti per eliminare determinati agenti patogeni delle varie malattie. Per questo motivo si ricorre alle vaccinazioni. Poi, ah, ecco! Qui mi spiega che con q-questa tecnica si a-allena il corpo a riconos…
Era impossibile, non potevo andare avanti in quel modo, tutto aveva un limite, accidenti. Era la terza volta che ricominciavo da capo, nel tentativo di memorizzare al meglio le informazioni principali e ripassare un volume intero di scienze umane per un esame che avrei sostenuto a breve e, per la miseria, avevo pensato che venire a studiare al bar sarebbe stato semplice e non avrei rischiato di distrarmi troppo, invece mi stavo rendendo conto che avevo sbagliato totalmente i miei calcoli.
Praticamente rimanere concentrato, nonostante mi fossi ritirato nell’angolo più remoto del bancone e cercassi in tutti i modi di posare lo sguardo solo sui fogli pieni di appunti e definizioni, puntualmente, ogni volta che guardavo altrove con l’intento di ripetere le nozioni, mi ritrovavo a perdere completamente il filo del discorso e a cadere in una specie di trance in cui l’unica cosa che importava era quel fottuto pennuto.
Stava succedendo di nuovo in quel preciso istante: era bastato distrarmi un attimo ed ecco che mi ritrovavo a osservare Marco che, inconsapevole di tutto, stava spolverando tranquillo alcune mensole abbastanza in alto, per questo, di tanto in tanto, doveva alzarsi in punta di piedi e allungare le braccia, regalandomi la visuale perfetta dei fianchi, che magicamente rimanevano scoperti sotto le pieghe della maglia, e del suo fondoschiena.
R-reazioni differenti e… e il corpo riconosce… oh ma che cazzo! Devo concentrarmi, devo concentrarmi e smetterla di guardarlo. Dunque, dov’ero? Ci sono determinati metodi per evitare… chissà com’è abbracciarlo stretto, deve essere sicuramente il paradiso. Dio, ultimamente ti invoco spesso e parlo parecchio con te, siamo amici ormai, no? Perché, sai, non mi dispiacerebbe se mi aiutassi a calmare i miei bollenti spiriti. Insomma, sono cose del tutto normali, ma non è possibile che una certa parte del mio corpo sia sempre così sveglia. Cioè, è imbarazzante dopo un po’, non credi? Per un secondo smisi di pensare, tendendo le orecchie.
Probabilmente è come dici tu, la colpa è di Marco. E’ talmente figo che gli salterei addosso anche se fosse vestito da Principessa delle Fiabe.
Mi resi conto di essere arrivato al limite quando mi accorsi che conversare con una divinità cristiana non era cosa da tutti i giorni, soprattutto se credevo di ottenere addirittura delle risposte, nonché la convinzione che qualcuno mi ascoltasse sul serio. Di certo stavo impazzendo, non c’era altra spiegazione.
Ad ogni modo smisi di cercare di studiare, tanto non sarebbe servito a nulla e alla fine sarei comunque stato costretto a chiedere aiuto a Law, il quale mi avrebbe obbligato a stare sveglio fino a notte fonda per assicurarsi che imparassi alla perfezione ogni singola pagina di quel fottuto libro. Pazienza, almeno avrei avuto il tempo di guardare ancora un po’ la mia fissazione, come la chiamavano gli altri.

Appoggiai la guancia su una mano, sorreggendomi con il gomito e, sospirando con aria sognante, ripresi da dove avevo lasciato a rimirare come quel maledetto ragazzo risultasse essere così attraente senza nemmeno rendersene conto. Mi ero sempre chiesto come faceva ad essere così tranquillo e scatenare nello stesso tempo un uragano di emozioni dentro di me, tra le quali spiccava la voglia matta di fare qualsiasi cosa pur di stargli il più vicino possibile, anche solo per respirare la stessa aria, toccare le stesse cose, o meglio ancora, toccarsi a vicenda.
Chiusi gli occhi per un istante, cercando di calmarmi. I pantaloni non dovevano stringersi per nessun motivo al mondo. No, non dovevo permetterlo, pena: una figuraccia colossale.
«Ehi». Un sussurro vicinissimo mi ridestò e, aprendo di scatto gli occhi, mi si mozzò il respiro nel ritrovarmi il viso ghignante di Marco a pochi centimetri, troppo pochi per permettere al mio cervello fuso in precedenza di ragionare lucidamente.
Troppo vicino, troppo bello.
«Posso farti compagnia?».
«Tutto quello che vuoi» soffiai senza togliergli gli occhi di dosso.
Il sorriso si allargò e un sopracciglio curioso si inarcò in modo delizioso, facendomi rendere conto della mia risposta assolutamente fuori luogo e di certo male interpretata.
«No, cioè, io volevo dire che, insomma, si, ecco, p-puoi farmi compagnia s-se non hai niente da fare e se non ti scoccia!» iniziai a dire con una voce quasi isterica, nascondendo la faccia tra i libri e raccogliendo freneticamente le mie scartoffie, in modo da non fargli notare quanto fossi diventato rosso. Per la vergogna.
«Ho finito di studiare, ma pensa! Il pomeriggio mi è volato e t-tu, tutto bene? Te l’ho chiesto anche qualche ora fa, ma adesso potrebbe essere diverso. Si, insomma, io, io sono stanchissimo! Come, c-cosa mi racconti?».
Sono un disastro! Ammazzatemi, qualcuno mi uccida, per favore!
Marco sembrava la persona più divertita sulla faccia della terra e non smise un attimo di guardarmi, mentre io non chiedevo altro che l’arrivo miracoloso di un qualche cliente assetato per non essere più al centro della sua attenzione.
«Sai, Ace» fece sorridente, inclinandosi sul bancone per essere più vicino. Ancora pochi centimetri e sarei morto all’istante.
Mi zittii e aspettai che continuasse, pregando qualunque entità in ascolto per non fare cose azzardate.
«Sto bene, non sono stanco e mi fa piacere farti compagnia».
Sai una cosa, Dio? Credo di aver capito che forse non ti sto così antipatico.
 
 
 
 
 
Ma vi prego baciatevi che io sto diventando matta! Ho capito che Marco è un pezzo di figo e che tu, Ace, hai seri problemi di concentrazione, altro che narcolessia, sei un pervertito, ammettilo e Marco questo sembra averlo capito perché non solo fa di tutto per fare lo spaccone, stronzo e super fiol, ma addirittura rincara la dose non perdendo l’occasione per metterti in imbarazzo! Dio, Dio salvami!
Allora gente, intanto ciao e scusatemi, ma anche io seguo questi due in modo maniacale e non faccio altro che cercare di renderli il più umani e veri possibile, anche se a volte dovermi fermare sul più bello mi scoccia u.u
Anyway, ci tengo a precisare che io credo in Dio e sono fermamente convinta che lui ci ascolti e si, anche a me piace l’idea di conversarci assieme qualche volta. Detto questo preciso anche che ognuno è libero di credere, pensare, dire quello che vuole, non giudico nessuno e il mio era solo un punto di vista personale. Pace e Amore, quindi.
Poi, mi pareva giusto dare una sbirciatina anche ai pensieri poco casti, che ultimamente sembrano avere un successone, di Ace. Di certo lui mi sembra quello meno santo tra i due, LOL.
Beh, i due hanno ripreso a vedersi, infatti il bellissimo piromane va a studiare al bar, ma la sua attenzione sembra essere attirata da altro :D
La Principessa delle Fiabe era un costume di Carnevale. Si, da piccola mi sono vestita in quel modo per andare in maschera, ma erano altri tempi ed era prima che conoscessi l'esistenza del cosplay di Trafalgar Law, LOL.

Che ne pensate? Spero vi sia piaciuto anche questo ^^
Vi lascio con questa immagine che secondo me è tipo l’icona dell’imbarazzo tra i due. Ma neanche imbarazzo, che dico, è tutto! Cioè, è il respiro profondo prima del balzo; è l’attimo fuggente; potrebbe essere addirittura il sesso stesso descritto con un solo sguardo! Personalmente me ne sono innamorata all’istante.
*ho appena avuto l’illuminazione per una bomba, aspettate e godrete vedrete*
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Un abbraccione e un grazie speciale a tutti :3
See ya, Ace.
 

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Capitolo 32
*** Capitolo 32. Così interessante per te. ***


Capitolo 32. Così interessante per te.

 

Quel pomeriggio avevo i nervi a fior di pelle ed ero costantemente vigile e in allerta, pronto ad evitare qualsiasi incontro tra i due e risparmiarmi il disagio di situazioni e discorsi imbarazzanti e fuori luogo. Volevo bene a mio fratello, ma non ero certo di volergliene abbastanza da permettergli di mandare all’aria il rapporto che, per volontà e bontà divina, ero riuscito a recuperare con Ace. Per quel motivo l’avevo rinchiuso in cucina a sfornare una quantità infinita di dolci e schifezze varie con l’ordine preciso di non azzardarsi a mettere fuori il muso. Avevo già un’idea su come disfarmene poi: metà l’avrei data al ragazzino e l’altra gliel’avrei consegnata per darla a Rufy, dato che, da quel che avevo capito, quel piccoletto mangiava per un reggimento.
Non ero sicuro di potermi fidare del tutto della parola di Thatch, così me ne stavo in guardia, pronto a rispedirlo nel retro a calci se solo avesse dato segno di volersi fermare a chiacchierare con noi e interrompere quei nostri momenti di intesa.
Ace aveva ripreso a venirmi a trovare durante i pomeriggi. Non lo faceva spesso e con costanza, ma almeno due o tre volte la settimana lo vedevo e si tratteneva sempre un po’ di tempo in più rispetto alle altre volte. Quando studiava, poi, passava addirittura l’intero pomeriggio al bar, sorridendomi di tanto in tanto o lanciandomi occhiate stanche quando vedeva che lo osservavo mentre, con impegno e buona volontà, faceva di tutto per portarsi avanti ed essere preparato negli studi. In quei momento sapevo che dovevo lasciargli il suo spazio, così mi tenevo impegnato con gli altri clienti o pulendo e sistemando la sala, godendomi le sue espressioni di gratitudine quando gli lasciavo una tazza di caffè fumante passandogli accanto con altre ordinazioni. Un pensiero per lui lo facevo sempre e sapere che era a pochi passi da me, nonostante non ci parlassimo in quelle ore, mi faceva sentire bene.
Mi ero accorto che qualcosa era cambiato, ma non in modo negativo. L’imbarazzo iniziale era andato via, via, scemando e mi rendevo conto ogni giorno che passava che tra di noi l’intesa si faceva sempre più salda e profonda. A volte con poche parole arrivavamo al nocciolo della questione, ci capivamo alla svelta, addirittura bastava uno sguardo per sapere esattamente come ci sentivamo o a cosa stavamo pensando.
Mi sentivo sempre più sicuro e a volte faticavo addirittura a trattenermi davanti a lui, dovendo restarmene fermo e con le mani saldamente aggrappate al bancone o impegnate altrove per non lasciarle libere di sfiorargli i capelli, le guance, le labbra e il viso. Dovevo stare attento perché era sempre più difficile.
Ace invece sorrideva, scherzava, mi sfotteva come al solito, arrabbiandosi quando lo mettevo alle strette nei nostri battibecchi fatti di botta e risposta e arrossiva. E, quando questo accadeva, io mi ritrovavo a pensare inevitabilmente a come avrebbe potuto essere vederlo in quello stato di totale imbarazzo in una situazione diversa, magari più intima, solo lui ed io.
Poi mi costringevo a fare un respiro profondo e ad allontanarmi, lasciando ad entrambi il tempo di sbollire la pressione e riprendere lucidità perché, ne ero certo, quell’alchimia che provavo io doveva per forza sentirla anche lui.

«Ehi, pennuto, ti serve una mano?» mi sentii domandare, pensando che si, forse avevo proprio bisogno di un aiuto in quell’impresa suicida.
«Per favore» risposi allora, vedendo arrivare Ace nel giro di pochi secondi e porgendogli un vassoio dove erano posizionati alcuni bicchieri in equilibrio precario, mentre io ne afferravo un altro con alcuni piatti e bottigliette stappate di vetro, dirigendomi poi verso il bancone e seguito a ruota da lui.
«E volevi portare tutta questa roba da solo?» fece dubbioso. In effetti l’idea iniziale era stata quella, ma a quanto pareva non ero stato l’unico a capire che, molto probabilmente, non sarei riuscito a fare nemmeno quattro passi senza rovesciare tutto. Il gruppo di studenti che se ne era appena andato aveva fatto parecchie ordinazioni e fare due giri non mi andava molto. Fortunatamente ci aveva pensato Ace a improvvisarsi cameriere.
Mi strinsi nelle spalle, riponendo tutto nel lavandino e il ragazzo fu così gentile da restarmi vicino e passarmi il resto delle stoviglie, affinché fossero tutte al sicuro da cadute drastiche. Poi, senza che glielo chiedessi, recuperò i vassoi e li ripose sulla mensola alla sua destra dove li lasciavo di solito, stupendomi non poco.
«Come lo sapevi?» mi venne spontaneo chiedergli.
Si accigliò un istante, rendendosi conto del suo azzardo, «Beh, di solito li metti sempre su questa mensola perché così li hai a portata di mano» si giustificò, «Pensavo che fosse il loro posto».
«Infatti» mormorai, mentre nella mia testa mi stavo rendendo vagamente conto che Ace aveva praticamente appena confessato di prestare attenzione a me e a quello che facevo. Inutile dire che tutto ciò mi diede un pizzico di sicurezza in più, tanto da decidermi a provare a metterlo alle strette. Volevo dannatamente vederlo arrossire.
«E cos’altro sai?» gli domandai, incrociando le braccia al petto e sfidandolo a rispondere.
Non si fece intimorire e sembrò capire le mie intenzioni perché mi imitò e rispose pacatamente con l’ombra di un sorrisetto divertito.
«La macchinetta del caffè ha bisogno di due leggeri colpetti prima di funzionare; prima di mettere tutto in lavastoviglie preferisci dare una sciacquata per maggior sicurezza; hai una specie di ricetta segreta per fare i waffle e i canovacci li tieni sempre alla tua sinistra, anche quelli a portata di mano. Devo continuare?».
«No» dissi semplicemente, facendo un passo avanti e accostandomi a lui in modo da essere faccia a faccia, «Sei stato chiarissimo».
Sorrise vittorioso, «Non te l’aspettavi, ammettilo!».
Lo guardai eloquente e con tutta l’intenzione di metterlo in imbarazzo, infatti la mia espressione lo fece bloccare e riflettere su quello che aveva appena detto.
Quando sembrò volersi sopprimere con le sue stesse mani, fu troppo tardi.
«Hai ragione, non mi aspettavo di essere così interessante per te» feci ammiccando e godendomi la sua espressione finalmente imbarazzata e così maledettamente attraente. Nemmeno mi preoccupai del fatto che fossimo ancora vicini e estraniati dal resto del mondo. In quel momento c’erano solo in nostri occhi intrecciati gli uni agli altri. I nostri respiri quasi fusi.
«Il magazzino è libero se volete concludere il discorso altrove».
La fastidiosa voce sarcastica, maliziosa e divertita di Thatch fece sussultare entrambi, riportandoci alle realtà e facendomi ricordare che avrei dovuto chiuderlo a chiave in cucina la prossima volta per evitare interruzioni da parte sua nei momenti sbagliati.
Ace abbassò il capo e, arrossendo violentemente tutto d’un colpo, borbottò qualcosa di incomprensibile e tornò a sedersi dall’altra parte del bancone, mentre io fulminavo quell’impiastro dai capelli cotonati che aveva preso a blaterare sciocchezze mettendoci in mezzo qualche frecciatina diretta esclusivamente a noi due.
«Oppure, Marco, potresti mostrare a Ace il tuo appartamento. Scommetto che non l’ha mai visto e potrebbe essere una buona idea dato che abiti esattamente qua sopra al secondo piano».
Poco importavano le battute di Thatch perché ne io ne Ace lo stavamo ascoltando, impegnati com’eravamo a spogliarci con lo sguardo.
 
 
 
 
Dio, salvami adesso!
Appena avrò la statuina di Marco ci penserò io a metterla accanto a quella di Ace e a far si che tutti i giorni si scambino un bacio di plastica o quello che é. Brutte cose per una fan girl, brutte, brutte^^
Anyway, salve gente, soddisfatti? Stavano per baciarsi? E INVECE NO!
Ciao Thatch, quanto caro e furbo sei :3 giuro che le tue battutine le adoro, sai sempre cosa dire, anche se nessuno ti ascolta perché impegnato a fare altro, neh?
Sarò breve perché devo tipo scrivere il prossimo capitolo della raccolta, rivedere l’ultimo della long e finire di scrivere quello successivo per regalare gli Spoiler Free a chi la segue. E. non. Ho. Tempo.
Risponderò appena posso a tuuutte le recensioni, I promise! Spero solo che anche questo capitolo vi sia piaciuto perché, tipo, questi due per tre quarti del tempo sono impegnati a mangiarsi vivi con gli occhi, ma particolari **
Per qualsiasi cosa sapete dove trovarmi, ora vi saluto e vi mando un abbraccione grandissimo e un Grazie infinito per la vostra gentilezza di lettori e recensori!
See ya,
Ace.

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Capitolo 33
*** Capitolo 33. Quella novità. ***


Capitolo 33. Quella novità.

 
«Un cappuccino».
«Per me una cioccolata con panna».
«Mi scusi? Potrebbe portarmi una bustina di zucchero?».
«Due waffles alla marmellata, grazie».
Avevo la netta sensazione che di li a poco sarei impazzito. Come mai, tutto d’un tratto, il locale aveva iniziato ad attirare così tante persone in un giorno? Non mi sembrava fossero in programma avvenimenti importanti o altre feste, insomma, la più vicina era San Valentino, ma mancavano ancora delle settimane e Natale era ormai passato. Non capivo, quindi, cosa ci facessero tutti nella mia caffetteria. Si erano messi d’accordo? Non era mai stato un luogo così caotico, anzi, considerando che il locale era mio e che lo gestivo da solo, salvo qualche volta l’aiuto di Thatch, tra quelle pareti aveva sempre regnato la calma e la tranquillità. Un luogo dove chi voleva prendersi cinque minuti di pausa e starsene in pace a rilassarsi poteva farlo comodamente. Con quel casino, invece, tutto si complicava.
Soprattutto per me perché mi ritrovavo a dover correre da un tavolo all’altro e a dividermi in dieci per fare tutto il lavoro e assicurarmi che i clienti fossero serviti, riveriti e soddisfatti al meglio. Il che era una vera e propria impresa.
Se la situazione fosse andata avanti in quel modo anche nei giorni a venire, potevo dire addio ai momenti di calma che sfruttavo per chiacchierare con una persona in particolare.
A proposito, dov’era?
Dopo aver consegnato le ultime ordinazioni ai rispettivi proprietari mi incamminai verso il banco bar, alzando lo sguardo verso un punto in particolare e trovandovi come di consuetudine la figura slanciata e rilassata di Ace che, intento a sorseggiare la sua cioccolata, mi rivolse un’occhiata di incoraggiamento quando gli passai accanto, intuendo probabilmente il mio bisogno di aiuto. Avrei dato chissà cosa pur di potermi ritagliare dieci minuti di tempo libero per stravaccarmi sul ripiano di fronte a lui e stare a sentire che sciocchezze aveva da raccontarmi, ma uno strano odore arrivò alle mie narici e mi fece rizzare i capelli sulla nuca.
Senza prestare altra attenzione al ragazzino che sembrava in procinto di dire qualcosa, schizzai in cucina a controllare cosa diavolo stesse combinato quello squinternato di mio fratello. Non appena varcai la soglia venni investito da una nuvola di calore e notai del fumo alzarsi fluttuando dai fornelli, mentre Thatch tentava di far diradare tutta quella condensa sventolando un canovaccio.
«Ma cosa combini, idiota?» sbottai, incapace di trattenermi e andando ad aprire le finestre per far uscire il fumo.
«Non sono stato io!» si giustificò intanto l’altro, «Stavo friggendo le patate quando l’olio nella pentola ha preso fuoco! Così gli ho lanciato sopra una caraffa d’acqua per spegnerlo!».
«Non dire altro, ti prego». Sbuffando esasperato iniziai ad aiutare quell’impiastro nel pulire il macello che lui, perché ero certo che avesse omesso alcuni particolari nella sua storia, aveva combinato, perdendo tempo prezioso e ritrovandomi costretto a fare tutto di fretta per poi ritornare in sala tutto affannato, pronto a ricevere lamentele per il mio ritardo.

Rimasi, invece, piuttosto stupito nel vedere come l’atmosfera fosse tranquilla come l’avevo lasciata prima di assentarmi e che qualcuno aveva preso il mio posto alla cassa, battendo scontrini e elargendo sorrisi allegri a destra e a manca, trasmettendo il buon umore a tutte le persone che si ritrovavano a pagare il conto. Questi poi, uscivano dal bar tutti felici e spensierati, promettendo che sarebbero tornati presto.

Certo che Ace non finiva mai di stupirmi e quel grembiule arancione gli donava parecchio, tanto che rimasi alle sue spalle a guardare come se la cavava bene anche senza le mie direttive.
Quando l’agitazione sembrò placarsi finalmente si accorse di me e, voltandosi nella mia direzione con una certa timidezza, si scusò per la sua iniziativa, raccontandomi che due signore di età avanzata si stavano lamentando in attesa di poter pagare e lui, per evitare lamentele varie, si era dato da fare per, a detta sua, salvare il locale e pararmi il culo.
«Spero non ti dispiaccia» disse infine, passandosi una mano tra i capelli, cosa che avrei voluto fare io ma ch mi ero sempre imposto di non azzardarmi minimamente a provarci.
Scossi il capo, sinceramente divertito da ciò e dando voce ai miei pensieri su quanto tutto quello mi facesse piacere.
«Ti sta bene, sai?» feci con disinvoltura, riferendomi al grembiule che aveva indossato. A quanto pareva mi osservava davvero con attenzione per conoscere le postazioni di tutti gli oggetti attorno a noi.
Se lavorasse qui sono certo che non gli servirebbero nemmeno i miei consigli, pensai, riflettendo tra me e me e venendo colpito da un’idea illuminante che mi fece parlare senza attendere oltre.
«Potresti lavorare qui» proposi di getto, incapace di trattenermi, «So che con l’università devi stare dietro allo studio, ma potresti farlo durante i tuoi giorni liberi e le sere in cui il bar è aperto». Incredibile, avevo persino elaborato una soluzione per i suoi orari pur di rendergli tutto più semplice e convincerlo ad accettare la mia offerta.
Vedendo che non rispondeva continuai con la mia spiegazione, cercando di risultare il più determinato possibile. «Prendilo come un lavoretto par time. Ovviamente non sei obbligato, ma mi servirebbe una mano e, beh, di te mi fido e poi sei cliente fisso da un pezzo ormai».
Probabilmente non assumerei nessun altro se  dovesse rifiutare. Nessuno conosce il locale meglio di lui e nessuno si è mai interessato tanto. Lui, invece, ha persino rivoluzionato quei noiosi incontri di poesie.
Contrariamente a quello che speravo, però, Ace continuava a rimanere in silenzio, non accennando a volermi rispondere e facendomi temere di aver esagerato e di essermi spinto troppo oltre.
«Ma se non puoi non preoccuparti, ti capirei».
Come ho potuto essere così egoista! Non ho nemmeno pensato al fatto che…
«Accetto».
Avevo sentito bene? Dio, avrebbe davvero lavorato con me da quel giorno in poi? Sul serio avevo appena ottenuto la possibilità di passare praticamente ore e ore, persino giornate intere in sua compagnia?
«Perfetto» dissi entusiasta e porgendogli la mano che strinse con forza e malcelata soddisfazione che gli lessi negli occhi. Non vedevo l’ora di iniziare quella novità che aveva appena stravolto da cima a fondo la mia normalità. Niente sarebbe più stato come prima, anzi, avevo la vaga idea che sarebbe andata persino meglio.
Ace, incapace di trattenere il buonumore e l’emozione, si era offerto di iniziare subito, dato che ormai l’aveva praticamente già fatto in mia assenza e, mentre ci stavamo accordando sui compiti che avrebbe dovuto svolgere, entrambi senza smettere di guardarci negli occhi e sorridere come degli idioti, arrivò Thatch con in mano un vassoio di dolci che appoggiò sul bancone, rivolgendoci poi un’occhiata attenta. Ovviamente l’attenzione gli ricadde quasi immediatamente sul grembiule del ragazzino.
«Lasciami indovinare» fece, trattenendo a stendo un ghigno, «Ti ha offerto un lavoro». E, non appena ottenne la risposta affermativa da entrambi, impazzì letteralmente, aggredendo Ace e abbracciandolo stretto come se fossero amici di vecchia data, congratulandosi con lui a modo suo.
«Grazie a Dio una buona notizia! Ci pensi? Lavoreremo assieme e ci vedremo praticamente sempre! Pensa a quanto ci divertiremo! E magari quando hai il turno al mattino la sera prima potresti fermarti a dormire da Marco, tanto a lui non dispiace, vero fratellino?”.
 
 
 
 
Fatta anche questa ed ecco arrivata la novità che metà gente forse sapeva già dato che l’ho svelato ieri sulla long ma, come ho già detto, questa raccolta, ormai ff a tutti gli effetti dato che mi sono lasciata prendere la mano, segue gli avvenimenti di quell’altra fic più complessa e strapiena di personaggi che spuntano fuori come funghi, ma va bene. Qui si parla esclusivamente del rapporto Marco/Ace che, personalmente, amo.
Uhm, che dire, scusate se non ho aggiornato ieri ma non ce l’ho proprio fatta! Spero comunque di essermi fatta perdonare con questo ^^ finalmente i due avranno tuuutto il tempo per stare assieme, farsi compagnia, prendersi in giro, rotolare nell’imbarazzo, eccetera, eccetera.
Caro Thatch che trovi soluzioni per tutto **
Un applauso alla lingua lunga di Marco che propone le sue idee senza pensarci e un mazzo di fiori a Ace che, oltre a ottenere un lavoro, ha anche la possibilità di rifarsi gli occhi quando vuole. Bravi, proprio bravi!
E ora ditemi: da uno a dieci, quante pensate ne combineranno questi due (tre) ora che si troveranno a stretto contatto praticamente sempre?
E smettetela di fare pensieri poco casti, ho capito che fanno scalpore, ma stiamo calmi vi prego! Di certo li metterò in mezzo all’insalata di cazzate, statene certi! ^^
Un abbraccio e grazie a tutti! E le recensioni, per chi vorrà lasciarle, sappiate che le leggo, le amo e le apprezzo tantissimo, dalla prima all’ultima e, anche se non subito come detta la buona educazione, risponderò sempre a tutte, non preoccupatevi **
See ya,
Ace.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34. Non ha occhi che per te. ***


Capitolo 34. Non ha occhi che per te.

 

«E finalmente, a sedici anni, ha fatto coming out ubriacandosi come un marinaio e baciandomi!».
«Che c-cosa?» biascicò il moro, reggendosi a stento in piedi e dovendosi appoggiare al bancone per non inciampare e finire a terra assieme al castano che, annuendo convinto, gli aveva passato un braccio attorno alle spalle.
«Oh si, amico, e non ti dico che casino! Nostro padre ha rischiato un infarto e io sono quasi soffocato dalle risate! Per non parlare di lui, poveretto, non ha avuto il coraggio di parlarmi per un mese!».
Capendo che zittire Thatch, dopo che aveva preso il via di sbandierare le imbarazzanti figure delle mia infanzia a Ace, sarebbe stato impossibile e inutile, misi da parte il bicchiere di rhum e mi attaccai direttamente alla bottiglia. Tanto, ormai, la mia reputazione era andata a farsi fottere.
«Q-quindi tu e-e Marco…» iniziò a dire Ace, facendomi andare di traverso il sorso. Stava traendo le conclusioni sbagliate. Certo, avevo baciato Thatch, ma solo perché era sempre stato il mio eroe fin da piccolo e mi era sembrata un’idea carina dimostrargli il mio affetto. Non ero innamorato di lui, ma sapevo che mi potevo fidare e che mi avrebbe aiutato a uscire da quella fase sempre un po’ complicata per chiunque e così era stato. A parte figure di merda e battute poco divertenti, si intende. Adesso, a distanza di anni, la mia stima per lui era rimasta immutata dato che era pur sempre mio fratello, ma era ben lontano dall’essere il mio mito. Era corretto dire che da idolo era diventato la mia disperazione.
«Che? Ma no, figurati! So che sono un bel partito, e anche tu sinceramente, ma io preferisco le donne».
Probabilmente il ragazzino fece una faccia sollevata o qualcosa del genere che non vidi perché l’idiota accanto a lui pensò bene di dargli un’amichevole pacca sulla spalla che quasi lo fece cadere per poi tranquillizzarlo a modo suo.
«Non preoccuparti, è acqua passata e all’epoca era ancora inesperto, ma adesso è cresciuto e ho sentito dire che non è niente affatto male. Detto tra noi» aggiunse con fare cospiratore e lanciandomi occhiate maliziose, «Non ha occhi che per te».
«Chi vuole fare un altro giro?» gridai, sbattendo malamente la bottiglia sul ripiano, «Thatch, su, vai a prendere da bere in magazzino». Dovevo assolutamente evitare discorsi del genere, ne avevo già sopportati abbastanza.
«Ma io veramente…».
«Vai».
Borbottando frasi sconnesse, il ragazzo troppo cresciuto traballò in equilibrio precario verso la cucina, scomparendo dietro la porta e dandomi modo di sospirare rilassato. Non avrei mai dovuto accettare di festeggiare in quel modo il nuovo impiego di Ace, soprattutto se la festa consisteva nel rinchiudersi dentro al bar e far fuori tutti i liquori di cui disponevo. Insomma, eravamo solo in tre, accidenti, come poteva pretendere che riuscissimo a reggere tutto quell’alcool?

Degli strani versi attirarono la mia attenzione e mi ritrovai a guardare Ace che, appoggiando il suo bicchiere su uno sgabello per non farlo cadere, si tappava la bocca per non scoppiare a ridere, cosa che gli risultava sempre più difficile ogni volta che incrociava il mio sguardo incredulo. Volevo chiedergli cosa ci fosse di così tanto divertente, ma mi precedette sul tempo.

«Non posso credere che tu abbia baciato Thatch!» dichiarò, lasciandosi andare e ridendo senza ritegno, adagiandosi con i gomiti sul bancone vicino a me e nascondendo il viso tra le braccia.
Alzai gli occhi al cielo e sospirai esasperato. Dovevo aspettarmelo che non avrebbe dimenticato la faccenda tanto facilmente. «Andiamo, ero un ragazzino» cercai di giustificarmi, anche se sapevo che sarebbe servito a poco con una testaccia dura come la sua.
«Questo non cambia le cose» mormorò tra un ghigno e l’altro, «Dio, avrei voluto vederti».
«Io non credo» dissi, rivolgendogli un’occhiata sarcastica e pensando bene di rispondergli per le rime, «Saresti stato geloso».
L’effetto fu immediato e Ace sollevò il capo di scatto, punto sul vivo e, aggrottando le sopracciglia, drizzò le spalle, per quanto le sue facoltà non del tutto annebbiate potessero permettergli, e mi puntò un dico contro, badando bene di non toccarmi. O meglio, non ancora.
«S-se pensi di essere sempre al centro del mondo con quell’aria da uomo i-irraggiungibile, beh, ti sbagli di grosso perché no… che diamine!».
Mi alzai per afferrare Ace giusto in tempo prima che il suo bel visetto inebetito si sfracellasse sul pavimento, artigliandogli la stoffa del grembiule che ancora indossava e della maglia, riuscendo per un pelo a rimetterlo in piedi con uno strattone. Non gli evitai però una botta sulla schiena che prese quando lo intrappolai tra me e il bancone.
Inaspettatamente a quello che avevo pensato, scoppiò a ridere, di nuovo, rovesciando la testa all’indietro e regalandomi la visuale del suo sorriso e della linea perfetta del collo, inconsapevole che in quel modo e in quella situazione, in cui nelle mie vene circolavano sangue e altre sostanze, mi stava mettendo in difficoltà.
«P-penso di essere un po’ ubriaco» constatò, guardandomi con le palpebre pesanti e sorridendo come un cretino. Un altro aspetto che notai con piacere era che Ace, quando beveva troppo, iniziava a balbettare in un modo adorabile che lo rendeva ancora più infantile se si aggiungevano le lentiggini.
Davanti a quella sua buffa espressione era impossibile non sogghignare. «Solo un po’? Ragazzino, non sai che questa roba è per i grandi?» sfottei.
«Fanculo, io posso sopportarlo benis-simo» ribatté, poggiandomi le mani sulle spalle per sporgersi verso di me e, cogliendomi totalmente impreparato, mi posò le labbra sulla gola.
Chiusi gli occhi e mi morsi con forza un labbro, stringendo la presa sui suoi fianchi quando mi resi conto che le mie dita non si erano ancora staccate da lui.
«Visto? Sta andando bene» mormorò intanto, mordendomi la pelle. Era così vicino che mi sarebbe bastato abbassare il viso per catturare le sue labbra e intrattenerle in altri modi e, ne ero certo, l’avrei fatto se non fosse stato per un unico e fastidioso particolare.
«Ehi, ragazzi! Non indovinerete mai, ma ho trovato que… Oh, ciao! Vi ho interrotti sul più bello immagino» scherzò Thatch con un’alzata di spalle mentre Ace sembrava riprendere possesso delle sue facoltà mentali e fisiche, spingendomi lontano da lui e boccheggiando come un pesce.
«Sarà meglio che vada! Buonanotte!» dichiarò isterico con il sottofondo delle risate di quell’idiota a cui avrei fatto passare un brutto quarto d’ora.
«Non fatevi riguardi per me! Posso stare a guardare, non mi impressiono mica».
«Oh, maledizione, Thatch!».
Non sarebbe mai cambiato.
 
 
 
 
Well, well, well!
Lo so, ho saltato anche ieri, ma se solo sapeste quello che sto facendo mi capireste.
Ad ogni modo spero di essermi fatta perdonare con questo, LOL. I tre ragazzi festeggiano il nuovo collega di lavoro e, su proposta di Thatch, un brindisi tra l’altro ed ecco che tutti perdono un po’ di lucidità. E non solo. E magari fossero stati solo loro due, magari!
Ci tengo a precisare di nuovo che Marco non è in nessun modo innamorato di Thatch. Va bene? Mi è solo sembrato carino pensare che il suo primo interesse fosse stato il suo fratellone acquisito che tanto ammirava e venerava durante la tenera età dell’infanzia fino all’adolescenza. L’ha baciato per affetto, per capire se stesso, per rendersi conto di molte cose ed era certo di trovare in Thatch comprensione e amicizia. Infatti non si è sbagliato. Non aveva messo in conto, però, i guai che ne sarebbero derivati, tipo le frecciatine o le battutine, ma sono cose che capitano, LOL. Quindi Marco è totalmente di Ace.
Thatch, solo per precisare, è attratto dalle donne perché, per essere coerente con la long, la prima volta che viene nominato accade mentre fa il filo ad alcune ragazze ma, come ha detto lui stesso in passato in questa raccolta, per Ace un pensierino l’avrebbe fatto. I ragazzi non gli dispiacciono, però, se deve scegliere, semplicemente preferisce le femmine.
Un Ace disinibito ci stava e Marco, stavolta, ci è andato molto vicino **
Risponderò alle recensioni, giuro che lo farò! ;_______________________; salvo imprevisti dovrei aggiornare senza problemi, ma se dovessi saltare qualche giorno non odiatemi perché sto per farvi una sorpresa, quindi sono scusata ^^
Un abbraccione grandissimo e grazie a tutti :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 35
*** Capitolo 35. Uccidermi per la gelosia. ***


Capitolo 35. Uccidermi per la gelosia.

 

E quello da dove sbuca? Ah, ma che m’importa! Quello che voglio sapere è come si permette di comportarsi in quel modo, sotto il mio naso per giunta! E Marco, bah! Quel, quel, maledizione! Tutto sorrisi e moine con il nuovo arrivato quando l’altra sera stava per… Fanculo, questo è veramente troppo!
Lanciando occhiate furenti ai due ragazzi che stavano confabulando come se si conoscessero da una vita seduti in disparte a uno dei tavoli, sorridendosi come vecchi amici e chiacchierando animatamente, portai le ordinazioni all’unico cliente presente in quel momento oltre all’impiastro che ci stava provando spudoratamente con Marco, poggiando il tutto davanti al naso del povero vecchio e senza scusarmi per averlo spaventato. Ero incazzato ed ero certo che la giornata sarebbe andata peggiorando se quella sottospecie di sanguisuga non se ne fosse andata alla svelta. A pensarci bene, non si sarebbe risolto niente nemmeno in quel caso, avrei comunque continuato ad essere arrabbiato con la testa d’ananas che sembrava avere le pigne davanti agli occhi per non accorgersi del mio stato d’animo.
Ah no, aspetta, pensai sarcastico, trafficando con la macchinetta del caffè, ha il suo nuovo amichetto a cui prestare attenzione.
Le loro risate mi arrivarono chiare e nitide e quasi rovesciai per terra il barattolo con il caffè in polvere, digrignando i denti e sbattendo qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani fino a che non raggiunsi il limite e, con la scusa di riempire un vassoio, mi ritirai in cucina con la speranza di sbollire il fastidio che quella situazione mi stava suscitando.
Certo, non potevo vantare alcun diritto su Marco e lui poteva essere libero di fare quello che voleva, per carità, ma almeno un po’ di rispetto nei miei confronti poteva anche dimostrarlo, invece sembrava che non appena gli capitasse l’occasione preferisse calpestarmi e mettermi da parte invece di lasciarmi intendere quanto fossi inutile.
Con questi pensieri per la testa afferrai una sedia pieghevole e mi accomodai su di essa con le braccia incrociate e il broncio, iniziando a mangiare un biscotto al cioccolato dietro l’altro, quelli che Thatch aveva appena sfornato. Non gliel’avevo mai detto, ma erano i miei preferiti.
«Cosa ti porta nel mio regno, sentiamo?» domandò quello, ritornando dal magazzino con due pacchi di zucchero e uno di farina in mano.
Mi strinsi nelle spalle e risposi con la prima scusa che mi venne in mente e che, guarda caso, si avvicinava anche alla verità.
«E’ una giornata pesante. Volevo fare una pausa».
Thatch, studiandomi con un sopracciglio alzato e l’aria pensierosa, si avvicinò alla porta e guardò attraverso il vetro, sorridendo dopo poco e sghignazzando tra sé.
«Oh, vedo che Marco ha compagnia» fece disinvolto, tornando verso di me e iniziando a preparare la pasta per un dolce sotto ai miei occhi.
«Lo conosci?» domandai dopo qualche minuto di silenzio, interrompendo la melodia che il cuoco si era messo a canticchiare nell’attesa di essere interrogato. Ero certo che non vedesse l’ora di rispondermi.
«Certo che lo conosco e si, anche il pennuto la fuori lo conosce piuttosto bene».
La pasta frolla dei biscotti mi andò di traverso, così mi vidi costretto a tossire per riprendere fiato sotto lo sguardo divertito del castano che, con una finta espressione di terrore, mi chiese se per caso non avessi intenzione di uccidermi per la gelosia.

Una volta calmatomi gli rivolsi una faccia sarcastica e, alzando gli occhi al cielo, scossi il capo in segno di diniego, spiegandogli che no, non avevo nessuna intenzione di morire giovane e che, soprattutto, non ero affatto geloso.
«Anzi» aggiunsi poi, per rendere chiaro il concetto, «Non mi interessa proprio. Perché dovrebbe? Insomma, Marco è libero di fare quello che vuole e se conosce quel tizio è normale che ci parli assieme. Per esempio, anche lui ed io siamo amici e guardaci: chiacchieriamo, scherziamo, ci prendiamo in giro…».
«Vi abbracciate, vi baciate, vi consumate con lo sguardo ogni volta che potete, si, ho presente. Vuoi che continui? Perché la lista è lunga, intendiamoci…».
«Thatch, stai zitto» dissi solamente, capendo che con lui non avrei potuto confidarmi e raggiungere il nocciolo della questione. La verità era che tra me e Marco era un continuo tira e molla e ogni volta che pensavo di poter arrivare a sistemare le cose ecco che tutto veniva stravolto ed io rimanevo con l’amaro in bocca, per l’ennesima volta.
«Forza, torna a lavoro e porta questo al ragazzo con cui sta parlando quella testaccia bionda, è il suo preferito». Così dicendo, Thatch mi piazzò in mano un piatto con sopra una fetta di crostata di more che aveva appena tirato fuori dal frigo, facendomi segno di alzarmi e di sbrigarmi. Per quanto mi riguardava avrei preferito spaccarglielo in testa il piatto, ma sapevo che non avrei di certo fatto una bella figura, in più sarei stato licenziato per cui, facendo ricorso a tutto il mio autocontrollo, uscii dalla cucina accompagnato dalla risata leggera del moro e mi avviai verso uno dei tavoli situati verso la zona del palco dove Marco e il suo stupido interesse stavano parlando fitto, fitto.
Non appena mi vide, il pennuto sorrise allegramente, come faceva sempre quando arrivavo al bar per iniziare il mio turno. Quando accadeva mi sentivo riscaldare come se fossi stato sotto al sole in piena estate, mentre in quel momento non riuscii a fare altro che a sbuffare e improvvisare un’espressione cordiale, più simile ad una smorfia che ad altro.
«Ace, dove ti eri cacciato? Vieni, voglio presentarti una persona».
Io voglio commettere un omicidio.
«Izou, lui è Ace, il mio nuovo aiuto cameriere».
Il tuo passatempo, semmai.
Il ragazzo che rispondeva al nome di Izou si voltò a guardarmi, lasciando scorrere gli occhi su di me come se fosse uno scanner, sondandomi da capo a piedi e facendo un sorrisetto piuttosto inquietante. Non sapevo bene perché, ma vedermi osservato in quel modo mi faceva sentire tremendamente a disagio, un motivo in più per andarmene quindi.
«Molto piacere» fece con una voce fastidiosamente gentile, «Io sono il suo…».
«Piacere di averti conosciuto, ma ora devo andare, in cucina hanno bisogno di me. Questo lo offre la casa, stammi bene!» esalai tutto d’un fiato e trattenendo a stento le cattive maniere, così poggiai in mezzo al tavolo il dolce e volai letteralmente fuori dalla sala, raggiungendo Thatch e investendolo in pieno non appena varcai la soglia, rischiando di finire a terra e trascinarmelo dietro. Il bastardo aveva osservato tutto dalla piccola finestrella sulla porta e stava morendo dalle risate dato che gli ero finito addosso, rendendo il tutto ancora più comico per lui.
«E’ stato così esilarante! La tua faccia, Ace, dovevi vederla! Sembravi sul punto di scannare vivo quel poveretto!».
«Che si strozzi con la crostata!» sbottai, ormai stanco di nascondere l’evidente nervosismo che ciò mi procurava. Tanto ormai Thatch aveva un radar incorporato per questo genere di cose e fingere che non mi importasse nulla lo divertiva solamente di più.
«Si può sapere qui che succede?». Marco fece il suo ingresso in quel momento con una faccia preoccupata e, notando suo fratello nel bel mezzo di un attacco di risa isteriche e me nell’intento di piegare a metà un mestolo di metallo leggero, cosa in cui stavo riuscendo abilmente, scosse il capo, lasciando andare un sospiro esasperato.
«Oh, beh, allora io vi lascio e vado a salutare Izou. E’ un po’ che non lo vedo». Sghignazzando come di consuetudine il castano se ne tornò nell’altra stanza, lasciandomi da solo in compagnia della mia prossima vittima. Avrei spezzato quel pennuto proprio come avevo appena fatto col mestolo, poco ma sicuro.
«Ace, va tutto bene?» mi chiese con un mezzo sorriso.
«Benissimo» gli assicurai, guardandolo come un pazzo omicida. Doveva aver capito che il mio era tutto sarcasmo perché, mordendosi un labbro senza smettere di ghignare tra sé, afferrò uno dei biscotti, dei miei biscotti, al cioccolato che erano rimasti sulla ciotola e, portandoselo alla labbra, pensò bene di farmi pentire del mio comportamento avventato.
«Meglio così, perché Izou è mio fratello e mi fa piacere sapere che vai d’accordo con la mia famiglia».
Non sapevo se stavo arrossendo più per la scoperta appena fatta o per la reazione della mia mente alla vista del biscotto, ma non ebbi tempo di rielaborare il tutto perché Marco uscì dalla cucina, dandomi le spalle senza smettere di sorridere.
Certo che sei proprio uno stupido, Ace.
 
 
 
 
 
Il capitolo è troppo lungo, il capitolo è troppo lungo, il capitolo è troppo lungo!
Scusate, ho provato a tagliarlo ma non aveva senso e volevo lasciare spazio a Ace geloso e anche così il suo stato d’animo mi sembra troppo poco ;____________;
Ad ogni modo oggi ci sono, trollol, e da notare che ho risposto a tutti, yeee, sparge caramelle in giro **
Chiarisco subito che a me Izou sta simpatico, non so se l’ho già detto, ma mi dispiace vederlo sempre messo in mezzo e descritto come una battona, cioè, poveretto! Così gli ho dato la parte divertente nel capitolo della Vigilia e in questo, dove stava per dire lui era il suo parente preferito, ma non ha potuto renderlo noto :D
Penso che arriverà anche il punto di vista di Marco, dopotutto voglio sapere cosa si sono detti nel frattempo i due **
Un abbraccione e un grazie a tutti :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 36
*** Capitolo 36. Indispensabile. ***


Capitolo 36. Indispensabile.

 

«Sono molto arrabbiato con te, Marco».
Una voce alle mie spalle aveva attirato la mia attenzione e, non appena mi ero voltato in direzione del nuovo arrivato, avevo fatto un largo sorriso in saluto ad un’espressione scherzosa e fintamente offesa che mi aveva fulminato in quel momento.
«Non sei più venuto a trovarmi. A casa si domandano tutti se tu sia ancora vivo o no».
«Mi dispiace Izou, ho avuto da fare».
«Oh, lo immagino», ammiccò malizioso, «Infatti ora mi offri un caffè e mi racconti tutto».
Ed ecco come mi ero ritrovato seduto ad un tavolo a chiacchierare animatamente con il meno impiccione dei miei numerosi e asfissianti fratelli che, a quanto pareva, erano tutti al corrente dei fatti personali e privati della mia vita. Stando alle parole di Izou, in famiglia non si faceva altro che vociferare riguardo a dei cambiamenti del mio carattere e del mio comportamento. A detta loro, qualcosa bolliva in pentola. Strano, sapevano più cose loro che io stesso.
«Farvi i cazzi vostri mai, vero?» gli chiesi sarcastico, sapendo che non esistevano persone di più pettegole quei balordi, anche se il primo premio per la bocca più larga andava senza dubbio a Thatch. Ero certo che ci fosse il suo zampino sotto.
Izou alzò gli occhi al cielo e mi fece cenno di stare zitto con un movimento elegante della mano, guardandomi poi di sottecchi e iniziando a interrogarmi sulle novità che la corrente aveva portato fino alle sue attentissime orecchie.
«Allora, lui chi è?» mi domandò per l’appunto, puntellando il gomito sul tavolo e sorreggendosi il viso con la mano, aspettando che iniziassi a confidarmi. Tra tutti, lui era il meno idiota ed era sempre stato una specie di confidente per tutta la famiglia. Sapeva cosa dire e cosa fare per tirare su il morale di chi era triste e aiutava chi aveva un problema a risolverlo, spargendo consigli a destra e a manca o ascoltando semplicemente qualcuno che voleva sfogarsi. Era un bravo ragazzo, un po’ bizzarro e fissato con certe cose da donna, ma buono tutto sommato. Con Thatch, invece, nonostante tra me e lui ci fosse sempre stata un’intesa speciale, era diverso. Lui era più il tipo che agiva e non stava a farsi mille domande, semplicemente prendeva l’iniziativa e andava fino in fondo a testa alta.
«E’ capitato per caso» iniziai, giocherellando con il porta salviette e sorridendo dolcemente nel ricordare la prima volta che avevo incontrato quel ragazzino, «Gli ho offerto un caffè e non se ne è più andato».
Izou inclinò il capo e mi incitò a continuare, attento e interessato.
«Non so come mai, ma in qualche modo mi ci sono affezionato» spiegai, cercando le parole giuste per esprimere quello che non avevo mai detto ad alta voce, «E’ una persona così solare e allegra, non smette mai di sorridere, anche se è un piantagrane».
Il mio fratellino rise sommessamente per poi ricomporsi e riprendere da dove avevamo lasciato. «Vai avanti, sei adorabile quando parli di lui» mi incitò, ricevendo in cambio una smorfia imbarazzata. Se c’era una cosa che mi metteva a disagio era sentirmi definire in quel modo. Dannazione, avevo trentadue anni, non sedici!
«Beh, non so cos’altro dire» ammisi, passandomi distrattamente una mano fra i capelli, «Sai, per me averlo intorno è diventato normale, insomma, come se facesse parte delle mie giornate, come se non dovesse essere altrimenti. E’, come dire?».
«Indispensabile?» propose, sorridendomi in modo comprensivo.
«Si» sussurrai, annuendo col capo, «Esatto».
«Oh, Marco» sospirò con aria sognante, «Sei fottutamente tenero. Credo che mi verrà il diabete dopo questa confessione».
Scoppiammo a ridere, ma la nostra ilarità fu interrotta da un lieve trambusto proveniente da dietro il bancone del bar, esattamente dove avevo lasciato quell’impiastro di cui stavo parlando.
Corrugai la fronte e lanciai un’occhiata veloce verso di lui, vedendolo sparire in cucina con un vassoio e l’aria irritata, dato che sembrava voler buttare giù la porta. Cosa diavolo gli era preso?
«Ehi, non mi hai ancora detto come si chiama» si ricordò improvvisamente il ragazzo di fronte a me, «E nemmeno se è carino!».
«Si chiama Ace» risposi, sogghignando poi per la risposta seguente, «E credimi, dire carino è troppo poco».
«Non ne dubito dato che per piacere a te bisogna essere di un altro mondo» scherzò, illuminandosi l’istante successivo, «Quando lo presenterai al babbo e agli altri?».
Lo guardai come se avesse appena detto un’eresia. Presentarlo alla mia famiglia, a quei pazzi scatenati e privi di educazione, era fuori discussione, nemmeno se mi avessero pregato in ginocchio. Per non parlare del babbo. Quello metteva paura a chiunque non appena si veniva a sapere che era il sindaco della città. E poi, se volevamo essere pignoli, Ace ed io eravamo semplicemente amici.
Per il momento, pensai senza volerlo.

«Non esiste, non sa nemmeno chi è nostro padre, pensa se lo scoprisse come ci resterebbe. Sarebbe terrorizzato, per non parlare dei nostri fratelli. Thatch è già abbastanza difficile da sopportare da solo, figurati se fosse assieme a Vista, Jaws e compagnia».
«In effetti sarebbe un bello spettacolo» mormorò il ragazzo tra sé e sé, «Ad ogni modo vorrei conoscerlo. Posso?».
L’avrebbe conosciuto molto presto dato che il diretto interessato si stava dirigendo proprio verso di noi, così colsi l’occasione al volo per prendere due piccioni con una fava e gli feci cenno di avvicinarsi. Sorridergli fu normale e scontato per me, dato che mi ritrovavo a farlo ogni volta che era nei paraggi, anche solo dopo esserci scambiati qualche occhiata. Mi metteva di buon umore, ecco. In quell’occasione, però, non ricambiò l’allegria e sembrò sforzarsi di apparire gentile.
«Ace, dove ti eri cacciato? Vieni, voglio presentarti una persona» lo chiamai. La sua faccia, però, mi preoccupava parecchio.
«Izou, lui è Ace, il mio nuovo aiuto cameriere» dissi subito dopo, presentandoli e trattenendo una risata quando il primo sondò il nuovo arrivato da capo a piedi, come di consuetudine quando faceva nuove conoscenze, catturando i dettagli e facendosi un’idea del soggetto. Quel comportamento aveva messo a disagio persino me la prima volta che avevo conosciuto la mia nuova famiglia.
«Molto piacere» fece Izou con voce cordiale, «Io sono il suo…».
«Piacere di averti conosciuto, ma ora devo andare, in cucina hanno bisogno di me. Questo lo offre la casa, stammi bene!». Ace, come una macchinetta, lasciò sul tavolo un piatto con alcune fette di crostata e si dileguò letteralmente da sotto i nostri occhi, scomparendo nel retro da dove provenivano le grasse risate di Thatch. Qualcosa non andava, era ovvio.
«… Il suo adorato fratello. Uhm, ho fatto qualcosa di sbagliato?» mi sentii chiedere, incontrando lo sguardo spaesato di Izou, il quale era rimasto piuttosto sorpreso da quella reazione quanto me.
«Scusami, vado a vedere cosa diavolo stanno combinando».
«Sai una cosa? Penso che il tuo ragazzo sia geloso. Comunque ottima scelta, è proprio un bel vedere» sogghignò alle mie spalle, ma decisi di non dargli retta. Ace non poteva di certo essere geloso, non di mio fratello. Andiamo, era una cosa assurda, perché mai avrebbe dovuto?
Entrando in cucina, però, mi convinsi ad ammettere che un problema c’era sicuramente e, ignorando le risate del cuoco che, grazie al Cielo, ci lasciò presto da soli, mi presi qualche attimo di tempo per osservare meglio il ragazzo dall’aria incazzata che stava in piedi di fronte a me, intento a distruggere un mestolo innocente.
Mi ritrovai a pensare che tutta la sua reazione non aveva senso, o meglio, ai miei occhi non lo aveva perché, ragionandoci bene e mettendomi nei suoi panni, capii che dal suo punto di vista quello che aveva visto tra me e Izou poteva benissimo essere inteso come un affiatamento particolare. Quasi ebbi la tentazione di ridacchiare, ma cercai di trattenermi meglio che potevo.
Ace geloso di me, chi l’avrebbe mai detto!
«Ace, va tutto bene?» chiesi sorridendogli.
«Benissimo» mi assicurò con fare omicida.
Attraente, semplicemente questo era e, per non rischiare di commettere errori, decisi di intrattenermi con i biscotti sopra al tavolo, mordicchiandone uno e guardandolo con tranquillità e disinvoltura.
«Meglio così, perché Izou è mio fratello e mi fa piacere sapere che vai d’accordo con la mia famiglia». Detto questo mi voltai dalla parte opposta e, lanciandogli un ultimo sguardo divertito da sopra la spalla, ritornai in sala.
Scoprire che Ace era in qualche modo geloso mi aveva fatto sentire stranamente bene, anche se continuavo a preferirlo quando era in imbarazzo e, in quel momento, avrei dato qualsiasi cosa per baciarlo e vederlo arrossire ulteriormente ma, ancora una volta, mi trattenni.
Prima o poi perderò il controllo, lo sento.
 
*Special*
«Ciao dolcezza, anche tu qui?».
«Ma guarda un po’» fece il moro, sollevando un curato sopracciglio sarcastico mentre afferravo una sedia per sedermi davanti a lui e soffiargli un pezzetto di torta, «Thatch, ci si rivede finalmente».
«Allora, che ne pensi?».
«Penso che Ace straveda per Marco e che il nostro caro pennuto si stia innamorando» affermò, riappropriandosi della forchetta che gli avevo rubato e riprendendo a mangiare con calma.
«Lo sapevo, lo sapevo!» esultai, schioccandogli poi le dita davanti agli occhi per attirare la sua attenzione, «Avvisa gli altri per me, d’accordo? Digli che sta andando tutto a gonfie vele!».
Izou sondò il mio sguardo per qualche istante, decidendo il da farsi e mordendosi distrattamente un labbro. Si fingeva indeciso ogni volta che doveva fare il lavoro sporco, ma sapevo che avrebbe comunque fatto la spia. Quel ragazzo era una vera volpe, nonché il peggior pettegolo della famiglia. Solo che questo, i più stolti, non l’avevano capito.
«Per favore» aggiunsi, dandogli un buffetto sulla guancia.
«D’accordo» mormorò infine, «Lo farò». Così dicendo, senza che glielo ricordassi, alzò il pugno e lo fece cozzare contro il mio, tornando a fare finta di nulla non appena Marco uscì dalla cucina con l’aria soddisfatta.
«Che cazzone che è diventato» borbottai fiero, felice di constatare come il biondastro tenesse le redini del gioco. Gli avevo insegnato bene, a quanto pareva.
«Ha imparato dal peggiore».
«Chiudi il becco, so di essere affascinante» dissi, rivolgendomi a Izou e guardandolo in modo eloquente. «E so che anche tu lo pensi».
«Mi dispiace, tesoro» ghignò malizioso, o lo sarebbe stato se non mi avesse scoccato un’occhiata sadicamente divertita, «Ma in quanto a fascino penso che Ace batta tutti».
*
 
 
 
 
 
Sei fottutamente tenero, Marco, davvero. Io non ho occhi che per te, lo ammetto e se Oda mi regala i diritti sul tuo personaggio giuro che ti faccio sposare Ace, lo giuro.
Oh, beh, buongiorno! Da me piove, da voi? Comunque applausi per il punto di vista del Pennuto, yeee ** Prometto che i prossimi capitoli cercherò di restringerli, non so perché questi ultimi siano diventati un papiro, davvero o.O
Ad ogni modo Izou, tesoro, sei il consigliere di famiglia, ma sei anche un bel bastardo dato che tu e Thatch fate comunella. Piccoli impiastri. Riguardo a questo non ho resistito e li ho aggiunti così, tanto per far capire che tutti si stanno interessando alla vita privata dei nostri adorati ragazzi, compresi quelli che, all’apparenza, sembrano buoni e gentili. Thatch, sempre con il suo solito savoir faire, si passa informazioni con Izou che, senza peli sulla lingua, smonta le arie che si da con una battuta. E come dargli torto? Ace è fuievfuiws **
Il comportamento velatamente carico di chiamatelocomevolete tra i due fratelli è voluto. Sono entrambi dei maniaci e me li immagino prendersi in giro a colpi di frecciatine maliziose e battutine poco caste, basta vedere come si salutano. Non dovrei aggiungerli più se l’occasione non lo richiede. O meglio, se voi non lo richiedete, quindi li salutiamo tenendo presente che tra i due ci sia un certo legame ^^
Dovevo parlare di Ace e Marco. Dunque, beh, il pennuto é proprio un badass, cioè, si diverte a vedere il suo ragazzino imbarazzarsi e arrossire. Che visione! Non oso immaginare che altro combineranno!
Bene, me ne vado, questo capitolo è stato infinito, vedrò di darmi una calmata :D
Un abbraccione e un GRAZIE A TUTTI!
See ya,
Ace.

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Capitolo 37
*** Capitolo 37. Il resto del mondo può anche bruciare. ***


Capitolo 37. Il resto del mondo può anche bruciare.

 

Va bene, va bene Ace, mantieni la calma, non c’è motivo di essere tesi. Dopotutto, sono solo i tuoi soliti amici, quelli che non perdono occasione per fare figure di merda; quelli che, appena possono, ti mettono in imbarazzo; quelli che se ne vanno senza pagare. No, aspetta, stavolta non possono farlo, non quando il locale dove decidono di venire è quello di Marco!
A pensarci bene, informare Penguin del mio nuovo lavoro non era stata una buona idea. Avrei dovuto rifletterci meglio e avrei dovuto dirlo a Law se volevo sperare di mantenere un po’ di privacy, invece l’avevo spifferato al peggior chiacchierone della compagnia e, nel giro di una notte, praticamente il mondo intero era venuto a saperlo. Per non parlare di Rufy. Non appena ne era venuto a conoscenza mi aveva telefonato a casa, alle tre del mattino, e aveva preteso che gli raccontassi tutto. Poi aveva esultato e urlato nella cornetta per una decina di minuti fino a che Law non aveva perso la pazienza, decidendo di strapparmi il telefono di mano, spegnerlo e staccare persino la spina in modo da non essere più disturbato durante le sue uniche ore di pace.
Era stato inevitabile, poi, far cambiare idea a quel piccoletto e così, in quel momento, se ne stavano tutti seduti ad un tavolo nell’attesa che il mio turno finisse, mettendo intanto qualcosa sotto ai denti, rendendo Thatch ben felice di cucinare le sue specialità per poi unirsi a loro come se si conoscessero da una vita.
Grazie al Cielo avrei finito a breve, almeno sarei riuscito ad evitare il più possibile i commenti di quel ragazzo che sembrava essere a conoscenza di troppe cose a mio parere e meno le rendeva note ai miei amici, mio fratello compreso, meglio era per la mia reputazione e sanità mentale. Da non dimenticare anche la tranquillità in appartamento.
«Ragazzi, ho finito! Quando volete possiamo andare» esultai, ma dovetti aspettare ancora una mezz’ora prima che tutti fossero in comodo di alzarsi e uscire dato che volevano finire di mangiare e restare il più possibile dentro al caldo a farsi gli affari miei. Si, perché i loro sguardi, anche se di soppiatto, non abbandonavano quasi mai la figura mia e di Marco, il quale, ogni volta che si avvicinava per parlarmi, sembrava essere piuttosto a disagio da tutta quell’attenzione nei nostri confronti. Avrei voluto rassicurarlo, ma non mi azzardavo ad espormi troppo, altrimenti avrei dato inizio ad una serie infinita e stressante di battutine e insinuazioni, cosa che volevo evitare in ogni modo.
Una volta che tutti furono d’accordo uscimmo in strada, dando modo al pennuto di chiudere il locale ma, contro il suo volere, venne costretto da Thatch e da Rufy a non andarsene direttamente a dormire. In poche parole non valsero a nulla le sue proteste perché qualcuno aveva già deciso che la sua serata non sarebbe finita in quel modo, ma altrove. Assieme a quei pazzi che Dio solo sapeva cosa avevano in mente di fare.
«Potremo andare da papà, che ne dite?» disse Thatch ad un tratto, proponendo la sua idea e attirando su di sé l’attenzione particolare dei presenti. Cosa intendeva con quelle parole?
Guardai Marco con aria interrogativa, ma non ottenni risposta perché lo vidi schiaffarsi una mano sul viso mentre cercava, senza successo, di pestare un piede all’uomo accanto a lui per farlo tacere.
Corrugai la fronte, chiedendomi il perché di quel comportamento così strano. I suoi genitori addottivi forse gestivano un locale, ma che problema c’era a renderlo noto? Sarebbe stato carino andarci.
Magari non vuole farsi vedere con me, pensai, sentendomi per un momento vacillare. Poteva benissimo essere quella la ragione di tanto nervosismo. Probabilmente non me l’aveva mai detto perché sperava di tenermi fuori dalla sua vita mentre io non facevo altro che pregare ogni notte che le cose prendessero una piega diversa e migliore.
«Il Moby Dick, non lo conoscete? Si? Bene, in poche parole il gestore è il nostro babbo».
Uh? Il Moby Dick? Certo, ci siamo stati qualche volta, non è male. E’ dove Marco mi ha bacia… Aspetta, sta parlando proprio di quel locale? Dio, no, no ma perché?, pensai affranto. Dopo l’ultima volta e dopo il casino che si era creato proprio lì, l’idea di ritornarci non mi allettava molto. Il problema, però, era un altro e ben peggiore. Infatti una brutta sensazione mi colpì come un fulmine a ciel sereno e la consapevolezza delle parole di Thatch lampeggiarono nella mia mente come un’insegna al neon.
Fermi tutti! Ha appena detto che il loro genitore gestisce un locale, dunque, se quel locale è niente meno che il Moby Dick e tenendo conto che è di proprietà del sindaco, allora vuol dire che…

«A-aspetta» balbettai, deglutendo a fatica e incrociando lo sguardo con quello di Marco, il quale sospirò arrendevole, «Il sindaco di Sabaody è tuo padre?».
«Ehm, si?» mormorò, grattandosi distrattamente i capelli e accennando ad un sorriso insicuro davanti la mia espressione allibita e incredula.
Quello era un problema bello e buono, insomma, ero innamorato, perché ormai era palese, del figlio della massima autorità della città, per di più uno degli uomini più potenti sulla faccia della terra ed io, beh, ero nella merda fino al collo.
E adesso che faccio? Se prima la possibilità di, ehm, conoscere la sua famiglia mi era sembrata remota, adesso non esiste proprio! Scherziamo? Cioè, io fabbrico illegalmente fuochi d’artificio in garage, che cazzo! Rischio ogni volta di far saltare in aria l’intero edificio, non so se rendo l’idea! Con che faccia mi presento davanti al vecchio? Sono un criminale, tirare pugni è il mio pane quotidiano e mio fratello conosce la caserma della polizia come le sue tasche, tanto che quando ha fatto la cresima ha chiesto a Smoker, capo indiscusso, di fargli da padrino! E Marco…
Ignorando Penguin e Bepo che si erano avvicinati per sorreggermi in caso di qualche attacco noto solo a loro che studiavano medicina, mi accorsi per caso quanto il biondo fosse nervoso. Si mordeva un labbro, indeciso su cosa dire, ma ciò che mi colpì di più fu la sua espressione implorante, come se avesse intuito tutti i miei pensieri, come se temesse che potessi cambiare idea sul suo conto per timore di suo padre. Davvero avrei potuto metterlo da parte per i suoi famigliari? Non l’avevo fatto ne quando avevo conosciuto Thatch, ne con Izou, nonostante avessi desiderato in un primo momento di sopprimerlo. Che differenza poteva fare suo padre?
Non fa differenza, pensai, sorridendo leggermente, nessuna differenza, davvero. Non mollerò tutto per un vecchiaccio, assolutamente! Quello che m’importa è conquistare quel pennuto di suo figlio, il resto del mondo può anche bruciare per quanto mi riguarda.
Feci un respiro profondo e mi ricomposi, drizzando le spalle e avvicinandomi a lui, deciso a fargli capire che per me non c’era problema. Quella scoperta non avrebbe cambiato niente, figuriamoci. Mi ero impegnato troppo per avere quel rapporto, quell’amicizia con Marco e per niente e nessuno l’avrei gettata via.
«Non volevo che venissi a saperlo così» spiegò dopo qualche minuto di silenzio tra noi, «Sai, di solito le persone tendono sempre ad allontanarsi quando scoprono di chi sono figlio».
Eh certo, mi pare ovvio, pensa se al posto di creare fuochi trafficavo droga! Avrei dovuto mollare la mia attività!
«Che sciocchezze!» sbottai, cogliendolo alla sprovvista e sorridendogli allegro per tranquillizzarlo, «Non vedo proprio quale sia il problema!».
Mi guardò per qualche istante mentre il suo viso si rilassava in un’espressione sollevata e grata. «Grazie, davvero».
«Forza allora, tutti al Moby Dick!» decretò Rufy, avviandosi verso il parcheggio seguito da tutti quanti.
Camminando spalla a spalla con Marco mi sentii in dovere di rassicurarlo ulteriormente così, prendendolo in giro con fare scherzoso, gli diedi una spallata per infastidirlo come facevo di solito al bar. Così, giusto per giocare. E per attirare l’attenzione su di me e sentirmi ardere ogni volta che il suo sguardo si posava sul mio.
«Non pensare di liberarti di me tanto facilmente» lo minacciai, vedendolo sorridere per poi dedicarmi uno sguardo canzonatorio.
«Anche perché non ti lascerei andare così facilmente» mi informò.
Mi sentii morire e rinascere nello stesso istante, tanto che il mio stomaco sembrò attorcigliarsi e credetti per un momento che delle farfalle ci stessero volando all’interno, ma nonostante tutto cercai di trovare una risposta che non mi facesse sembrare tanto stupido da dare, senza però riuscirci e dando modo a qualcun altro di dire la sua sotto l’aria divertita del pennuto.
«Non temere Ace» fece Thatch qualche passo più avanti di noi, ghignando sommessamente, «Il babbo non ti impedirà di scoparti Marco quando più ti aggrada, anzi, conoscendolo bene vorrà vedervi sposati il prima possibile».
 
 
 
 
 
Il capitolo, anche oggi, è fottutamente troppo lungo! Oh, beh, pazienza, preferisco aggiungere che togliere e rischiare di sbagliare, spero solo di non annoiarvi!
Allora, ecco come Ace viene a conoscenza dell’identità del caro e simpaticissimo babbo di Marco e Thatch :D
Una di voi mi aveva detto che le sarebbe piaciuto vedere la reazione di Ace nel ricevere questa notizia, beh, eccola qua :D
‘Quello che m’importa è conquistare quel pennuto di suo figlio, il resto del mondo può anche bruciare per quanto mi riguarda.’
Con questo non voglio dire che Ace vuole vedere il mondo andare in rovina, anzi, ma è solo un modo per esprimere quanto ci tenga a Marco e quanto sia determinato. Non so, io lo trovo adorabile e molto dolce :3 e Marco che non voleva perdere Ace ;__________________; e che gli dice che NON LO LASCERA’ ANDARE!
Anyway, ci vediamo domani, spero, (con la long sicuramente, mi faccio pubblicità, restate sintonizzati mi raccomando, LOL).
Un abbraccione e un grazie infinite a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori!
See ya,
Ace.
 

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Capitolo 38
*** Capitolo 38. Fa la tua mossa. ***


Capitolo 38. Fa la tua mossa.

 

«Dacci un taglio, idiota!».
«Ma guardalo» sghignazzò Thatch con fare maligno, «Sembra un angioletto. Non posso non svegliarlo!».
A quanto pareva a metà serata Ace era crollato dal sonno in un angolino, il suo angolino, remoto del bancone e stava dormendo beatamente con l’espressione più rilassata che gli avessi mai visto sfoggiare. Seduto sullo sgabello, le braccia sul ripiano e la testa affondata in esse, se ne stava raggomitolato lì, sorridendo e sognando chissà cosa, magari fuochi d’artificio ed esplosioni varie. Non aveva importanza, tutto sommato, perché mi ritrovai a pensare che aveva un’aria tremendamente adorabile e che svegliarlo sarebbe stato un vero peccato.
Per quello dovevo fare di tutto per impedire a quello squinternato di mio fratello di rovinare il suo più che meritato riposo con delle sciocche trovate infantili.
«Avanti, solo un po’ di panna sulla faccia, non se ne accorgerà nemmeno!» stava insistendo Thatch con la testa completamente dentro al frigo, «Più tardi potrai sempre pensarci tu a…».
«Ti prego stai zitto!» lo ammonii, alzando la voce più di quanto volessi e attirando l’attenzione di qualche testa rivolta nella mia direzione. Fortunatamente quella sera i presenti allo spettacolo di poesie erano pochi, almeno non avrei avuto molto da fare. Forse era per quello che Ace aveva pensato di prendersi una pausa più che meritata. Dopotutto, quel ragazzo lavorava quasi tutti i pomeriggi senza mai lamentarsi e con un entusiasmo da invidiare. Si faceva carico di qualsiasi cosa, prendeva dieci ordinazioni alla volta, le ricordava tutte, e serviva i clienti nel giro di pochi minuti. Praticamente correva da una parte all’altra del locale senza fermarsi mai e, quando lo faceva, mi ritrovavo a godere della sua compagnia e questo mi rendeva di buon umore in una maniera decisamente preoccupante. Era stato così i primi giorni, ma poi qualcosa era cambiato. Mi era bastato vedere come avesse preso la notizia riguardante l’identità di mio padre e tutto il mio mondo sembrava essersi messo a in ordine, come se in quel momento avessi trovato il mio giusto posto. Credevo che mi avrebbe allontanato o che avesse smesso di essere tanto aperto e amichevole nei miei confronti, invece no, se ne era altamente fregato e si era comportato come se niente fosse successo, assicurandomi che non mi sarei liberato di lui tanto facilmente. Quello, per quanto mi riguardava, era certo e rispondergli che non l’avrei lasciato andare come se niente fosse era stata la cosa più normale e sincera che avessi mai detto e non me ne ero affatto pentito. Era giusto che lo sapesse, fargli capire quanto contasse per me tutto quello era stata la cosa migliore da fare.
«Bene, allora userò i coperchi delle pentole. Vado in cucina a prenderli, tu aspettami» decretò Thatch, non ancora arresosi all’idea di permettere al ragazzino di riposare.
«Non puoi semplicemente lasciarlo in pace?» gli chiesi sospirando, guardando il moccioso che dormiva beato e lasciando che un sorriso intenerito mi si dipingesse in volto. Sembrava così sereno in quel momento, senza pensieri per la testa, libero di rilassarsi senza preoccupazioni. Senza rendermene conto mi ritrovai a scostargli una ciocca di capelli dal viso con l’intenzione di mettere in risalto le lentiggini nascoste, sfiorandogli il naso e le guance.
Sul serio Ace, che mi hai fatto.
«E’ una cosa seria allora».
Sussultai e ritrassi di scatto la mano nel sentire la voce di Thatch così vicina, infatti me lo ritrovai a pochi centimetri da me, appoggiato al bancone come avevo fatto io e intento ad osservarci con aria critica e pensierosa.
Aprii la bocca per ribattere e smentire le sue parole, ma la richiusi subito dopo. Ero sempre stato un tipo abbastanza coerente con quello che dicevo, pensavo e facevo, quindi non avrei di certo negato, non dopo che avevo faticato per capirlo, di provare qualcosa per Ace. Perché sarebbe stato come mentire e contrariare i miei sentimenti. Perciò rimasi in silenzio, sospirando e scuotendo lievemente il capo.
«Ti sei reso conto, vero, che lui stravede per te?» mormorò sovrappensiero, intervallando lo sguardo da me alla testa mora che sonnecchiava.
I nostri occhi si incontrarono e gli permisi di leggere come quella consapevolezza mi facesse sentire bene. Dire che ero ad un passo dall’esultare era dire poco, mi trattenevo solo perché non ero più un ragazzino. Insomma, certe scenate potevo evitare di farle.
«Accetta il mio consiglio allora: smettila di farti mille domande e fa la tua mossa».

Quando il locale si fu svuotato e dopo che ebbi passato il resto del tempo a tenere lontano Thatch da quello che avevamo scherzosamente soprannominato Bello Addormentato nel Bar, sbattei fuori anche lui e, ignorando le sue frecciatine e insinuazioni del tutto fuori luogo, gli chiusi la porta in faccia e lo salutai con la mano attraverso il vetro, sfoggiando un’espressione strafottente. Inutile dire che lui non si fece scoraggiare, alzando i pollici in aria e ordinandomi di ‘far vedere al ragazzino chi comandava’.
Alzai gli occhi al cielo, dandogli le spalle e spegnendo le luci, lasciando accese solo quelle posizionate sopra al bancone dove Ace continuava bellamente a dormire. L’avrei volentieri lasciato riposare, ma era tardi e avrebbe dovuto tornare a casa.
Mi morsi un labbro, pensando che non era costretto a farlo per forza, ma non avevo idea di come l’avrebbe presa se gli avessi proposto di restare.
Lo affiancai e, stampandomi in faccia un sorriso cordiale, iniziai a picchiettargli la schiena, chiamandolo sommessamente e vedendo come, lentamente, sbatteva le palpebre con l’aria intontita e si guardava in giro, soffermandosi su di me e guardandomi stranito. Trattenni a stento il divertimento. Ace era assurdamente devastato quando si risvegliava.
Dopo aver riflettuto sulla situazione per qualche istante, si volse verso l’orologio e sembrò voler sparire altrove quando lesse l’ora. Inutile dire che iniziò a farsi mille problemi che non erano affatto necessari dato che a me non importava affatto se per quella sera aveva staccato due ore prima e nemmeno il fatto che avesse dormito non mi scalfiva per niente. Provai a spiegarglielo, ma mi pregò di non giustificarlo perché per lui sarebbe stato peggio.
«Va bene. Che vuoi che faccia?».
Il suo sguardo si posò per un unico istante sulla mia bocca, svelandomi la direzione dei suoi pensieri, ma fu solo un attimo perché poi riprese ad incolparsi inutilmente. Secondo lui dovevo arrabbiarmi, era sicuro di meritarlo, e non voleva dare l’impressione di stare approfittando della nostra amicizia per essere giustificato ogni volta che sbagliava. Il punto era che non riusciva a capire che cinque minuti di ritardo non cambiavano nulla e poi sapevo che si impegnava nei suoi doveri, l’avevo visto studiare duramente per gli esami, quindi non ero di certo propenso a pensare che fosse un lavativo, assolutamente.
Gli scompigliai i cappelli e cercai di calmarlo, assicurandogli che non c’era nessun problema e che se mai avessi deciso di sgridare qualcuno, il primo della lista sarebbe stato senza dubbio Thatch.
Fortunatamente sembrai convincerlo e si rilassò visibilmente, ringraziandomi e, dopo un lungo silenzio, augurandomi la buonanotte, alzandosi e dirigendosi incerto verso l’uscita.
Non volevo che se ne andasse e mi ritrovai a guardarmi attorno per cercare qualcosa, qualsiasi scusa, per trattenerlo oltre. L’attenzione ricadde sul suo cappotto abbandonato sullo sgabello accanto così, sorridendo vittorioso, lo richiamai indietro, notando come le sue guance si coloravano di un tenue rossore.
«Allora b-buonanotte» mormorò non appena mi fu di nuovo accanto, spostandosi per recuperare la giacca. Fu in quel momento che decisi il da farsi, ricordando come da piccolo, quando giocavo a scacchi con i miei fratelli, fossi solito a vincere sempre con le mosse giuste. Tutto stava nel decidersi ad agire senza ripensamenti.
Ed io non ho intenzione di lasciarti andare.
Smisi di riflettere e, leggendo lo stupore sul suo viso, lo afferrai per la manica della maglia per attirarlo verso di me, più vicino. In un attimo le mie mani furono sul suo viso che tanto avevo osservato nei dettagli e, l’istante successivo, stavo premendo le mie labbra sulle sue.
Con calma, senza fretta, senza pretese, dandogli modo di respingermi se avesse voluto, anche se dentro di me speravo vivamente di non essermi sbagliato nel dare ascolto alle parole di Thatch. Desideravo davvero che Ace mi ricambiasse, perché ero arrivato al limite e non sarei più riuscito a tenermi tutto dentro e a nascondere quello che ormai era chiaro come il sole. Non volevo nemmeno continuare a fingere, era giunto il momento di decidere, di fare la mia mossa.
Quella notte al bar c’eravamo solo lui, io e quel bacio.
 
 
 
 
 
Buongiorno ^^
Ehm, beh… Evviva?
Forza, io porto l’alcool e voi da mangiare e facciamo festa perché, gente, Marco ha smesso di lottare e Ace, beh, mi sembra inutile dire che lui non stava aspettando altro da praticamente il primo capitolo, LOL. Bene, quindi spargiamo caramelle, biscotti al cioccolato, torte e quant’altro :D
Allora, vorrei comunque avvisarvi che il capitolo si, è finito qui, ma continua e sarà descritto dal punto di vista di Marco. So che può essere strano, ma come ho già detto in passato questa raccolta (ormai long, LOL) segue gli avvenimenti dell’altra long, quindi il pensiero completo di Ace, per chi fosse interessato a spoiler arsi il tutto, lo trova nell’ultimo capitolo che ho pubblicato. Ad ogni modo questo continua perché non posso non raccontare il resto, aww **
Non ho un’immagine, perché ci sarebbe stata da Dio qui, dei due che si adatti al momento. e mi dispiace, ma proverò a cercarne una, in caso se qualcuno trova un possibile qualcosa me lo faccia sapere perché questi due lo meritano! Sono adorabili, sono tuuutto, io sto scleraaando, bene.
Uhm, che altro? Nulla, restate sintonizzati per la continuazione che arriverà presto. Speriamo ;D
Un abbraccio e Grazie a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori!
See ya,
Ace.

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Capitolo 39
*** Capitolo 39. Perdersi e ritrovarsi mille volte. ***


Capitolo 39. Perdersi e ritrovarsi mille volte.

 

Ace era così, come dire, Dio!, non trovavo nemmeno le parole per descriverlo. Era come se fossi appena venuto a conoscenza di un qualcosa di nuovo, unico, che mai avevo provato prima e di cui era consapevole che non ne avrei più potuto fare a meno. Era tutto, tutto ciò di cui avevo bisogno, tutto ciò che desideravo.
Ace era così caldo, e dolce, e, dannazione, io stavo perdendo la testa.
Mi ero imposto di non interessarmi a lui quando mi ero reso conto che ai miei occhi ormai non era più un semplice moccioso con la testa fra le nuvole; avevo deciso di mantenermi distaccato quando avevo pensato per la prima volta che fosse attraente; avevo perso il controllo baciandolo e sentendomi bruciare fin dentro nell’anima, rovinando tutto per timore che quell’interesse crescesse e diventasse troppo grande per poterlo sostenere; in un qualche modo le cose si erano sistemate, io avevo fatto di tutto perché ciò accadesse e così era stato; Ace si era dimostrato fin troppo maturo e intelligente, troppo per continuare a ritenerlo un ragazzino, troppo per continuare a fare finta che quello che provavo nei suoi confronti fosse semplice curiosità o amicizia. No, non si trattava solo di quello, ma di altro. C’era attrazione, c’era desiderio, c’era un disperato bisogno da parte mia di poter continuare a godere di tutta l’allegria che sempre lo accompagnava; volevo avere la possibilità di vedere quel sorriso sulle sue labbra, quello sguardo prima imbarazzato e poi arrogante; volevo essere certo di non passare più nemmeno un singolo giorno senza di lui.
Voglio di più.
E baciarlo era come perdersi e ritrovarsi mille volte; mi sentivo così bene, così a mio agio, così al mio posto che, ne ero certo, se mi avesse allontanato non avrei retto. Mi sarei spezzato, senza dubbio, quindi, in quel momento, sperai e pregai intensamente affinché tutto andasse per il meglio. Lo desiderai così tanto. Così tanto!
E poi sciolsi il contatto di mia spontanea volontà quando capii che non avrebbe corrisposto, sentendomi gelare quando lo vidi con un’espressione allibita, mista a incredulità e incapace persino di formulare una frase. Non aveva mosso un muscolo; certo, non mi aveva respinto, ma nemmeno accettato o incitato a continuare. Era come impietrito e scosso.
In quel momento mi sentii un vero e completo idiota e quasi mi parve di sprofondare nella delusione, tanto che non mi venne in mente nulla di sensato da dire per rompere quel silenzio straziante e alleggerire l’atmosfera che si era creata e.
Alla fine lasciai scivolare le braccia lungo i fianchi, stringendo involontariamente i pugni e maledicendomi mentalmente per aver agito senza pensare. Quante volte mi ero ripetuto che non era mai una buona idea seguire l’istinto? Chiusi gli occhi e volsi il capo verso il soffitto, respirando profondamente e cercando di calmare l’uragano che sentivo dentro di me, lasciandomi scappare un sorriso amaro e triste.

«Scusami» sussurrai solamente. Fu il meglio che riuscii a fare.
«Mi stai chiedendo di mostrarmi indifferente dopo questo?» mi sentii chiedere, sussultando impercettibilmente. Cosa avrei potuto rispondere? Che volevo fingere che nulla fosse accaduto come in passato, quando avevo sminuito il nostro primo bacio? Assolutamente no, non l’avrei fatto una seconda volta, non quando mi ero reso conto di quanto lui fosse importante.
Non posso essere indifferente, Ace, non più, avrei voluto dirgli. Guardati, sei così bello, così solare, così maledettamente… Maledettamente disarmante! Sei, sei il fuoco ed io mi sento ardere ogni volta che ti vedo, ci credi? Dio, faccio ancora fatica a capacitarmene, ma so che è così. Lo è, lo è davvero e credimi, le cose sono cambiate dall’ultima volta. Tu mi sei entrato nelle vene, per l’amor del Cielo! Ace, sul serio, sei… Sei…
«Non ci riesco» mormorò serio ed io mi sentii crollare. Era ovvio che non potesse più far finta di niente, non dopo che l’avevo messo così tanto in difficoltà. Insomma, l’avevo ferito una volta, perché avrebbe dovuto fidarsi di me quindi? Non poteva dimenticare e di certo, da quel momento, le cose sarebbero cambiate. Non ci saremo più comportati come al solito, come… Come ci comportavamo, a proposito? Cos’eravamo noi? Amici? No, troppo attratti l’uno dall’altro e troppo impegnati a cercarci con lo sguardo, a punzecchiarci di continuo, a chiacchierare fino a tardi e a non essere mai troppo lontani.
Quel rapporto, quell’intesa, quella complicità, tutto quello che avevamo costruito, dopo quel mio ennesimo errore sarebbe scomparso. Avevo osato troppo ed era giusto che pagassi. Lui aveva tutte le ragioni del mondo per non ignorarmi e guardarmi con disprezzo.
«Non ci riesco proprio».
La mani di Ace sul mio viso furono una sorpresa inaspettata, ma ancora di più lo furono le sue labbra che trovarono le mie subito dopo, trasmettendomi una scarica elettrica e un calore magnifico che mi fece riprendere a respirare. Non ero mai stato così felice di essermi sbagliato e di aver capito male le parole di qualcuno. Ace non riusciva ad essere indifferente a me, proprio come io non riuscivo a fare lo stesso con lui. Lo avevano capito tutti, ormai, tranne noi, i diretti interessati, troppo impegnati a creare problemi dove non serviva per raccogliere il coraggio e fare la prima mossa. Forse, pensandoci bene, avevamo giocato una partita a scacchi fin dall’inizio, mangiandoci le pedine a vicenda e, alla fine, avevamo fatto scacco matto. Difficile decretare un vincitore quando entrambi avevamo ottenuto il nostro premio tanto ambito. E tutto era sempre stato sotto i miei occhi, chiaro come il sole, ma solo allora me ne resi conto. Assurdo, decisamente assurdo.
Quel momento era fottutamente perfetto.
Ero euforico, contento, soddisfatto, felice e determinato ad avere di più. Di certo si sbagliava se credeva che mi sarei limitato a divorarlo di baci quella sera. Una cosa era certa: non gli avrei permesso di uscire dal locale.
Gli artigliai i fianchi e lo avvicinai a me, sorridendo quando mi circondò il collo con le braccia. Oh si, era adorabile quel ragazzino, lo era sempre stato, ed era anche così attraente.
Lasciai vagare le mani senza controllarle, pensando solamente che tutta quella stoffa tra noi era superflua e che dovevo decidermi a fare qualcosa per sbarazzarmene il più in fretta possibile. Innanzitutto, la maglia e i pantaloni non gli servivano, nemmeno a me a dire il vero, ma ci avrei pensato dopo.
Stavo quasi per iniziare a mettere in pratica quelle riflessioni decisamente poco caste quando Ace si staccò di qualche millimetro, perché mi aggrappai alla sua camicia rischiando quasi di strapparla per non permettergli di allontanarsi oltre, prendendo fiato e guardandomi in un modo che mi scaldò fino in fondo. C’erano un sacco di pensieri, di emozioni, di parole non dette, tutto racchiuso in quegli occhi che tante volte mi mettevo a cercare durante le giornate. E, puntualmente, ogni volta che li incontravo, mi sentivo a casa.
«Resta da me» proposi, anche se la mia era più una decisione già presa che una domanda, e  il cenno affermativo che fece in seguito mi rallegrò ulteriormente. Almeno non avrei dovuto adoperarmi a caricarmelo in spalla e a trasportarlo di peso al piano di sopra. Perché si, l’avrei fatto se fosse stato necessario.
Ace, in quel momento, perse il suo di autocontrollo e arrossì vistosamente, sbattendo più volte le palpebre e passandosi distrattamente la lingua sulle labbra, indeciso su cosa dire o fare.
Feci un respiro profondo per calmarmi e decidermi a togliergli le mani di dosso. Una cosa era certa, se continuavamo in quel modo l’appartamento al piano di sopra non l’avremo mai raggiunto.
 
 
 
 
 
 
Buonaseeera gente!
No, no, no, ma non dovevate pensare che oggi sarebbe saltato tutto! E’ un po’ tardi, lo so, ma lasciarvi senza la continuazione?
A dir la verità ero curiosa di vedere cosa veniva fuori dal punto di vista di marco, quindi, beh, ecco. Cosa dire? Applausi? **
A parte gli scherzi, io non so bene cosa ho scritto, davvero, cioè, Marco voleva davvero strappare i vestiti a Ace, non so se rendo, e il ragazzino è sempre stato un po’  in imbarazzo davanti a certe situazioni. In questo capitolo c’è il pennuto che è determinato dome un carro armato, chissà se nel prossimo anche Ace la smetterà di tremare **
Uhm, volevo solo dire, insomma, visto che alcuni di voi hanno apprezzato il ricordo di marco riferito alle partite a scacchi con i fratelli io ho pensato di reinserire il concetto e vorrei spiegare a tutti il perche anche. Dunque, a parte che giusto ieri sono entrata in possesso di TUTTE le puntate di One Peice, dalla 1 alla 631, SUL SERIO, riguardando quelle di Marineford, perché sono masochista, ma anche perché volevo vedermi Ace e Marco che, anche se da lontano, si mangiano con gli occhi ogni due per tre, la nostra Fenice, quando devia un colpo dell’Ammiraglio Kizaru indirizzato a Barbabianca, dice una cosa che personalmente adoro: «Non puoi mangiare il re alla prima mossa».
Ma io ti faccio un monumento.
Ad ogni modo spero che vi sia piaciuto ^^ è, finalmente o accidentalmente, più corto degli ultimi, ma mi rifarò col prossimo perché temo che avrò mooolte cose da descrivere, if you know what I mean.
Con questo vi do la buonanotte, ringrazio tutti, i vecchi e i nuovi lettore e un abbraccione grandissimo!
See ya,
Ace.

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Capitolo 40
*** Capitolo 40. Per nessuna ragione al mondo. ***


Capitolo 40. Per nessuna ragione al mondo.

 

«Beh, puoi permetterti il lusso di dormire fino all’ultimo minuto».
Avevo chiuso a chiave il bar mentre Ace si era occupato di spegnere le luci rimanenti e di inserire l’allarme, poi gli avevo fatto strada lungo il corridoio nel retro fino alle scale che portavano ai piani superiori dove si trovavano due appartamenti: il mio e uno ancora vuoto dove, di tanto in tanto, si fermava Thatch.
«E’ piuttosto comodo, in effetti» ammisi, infilando la chiave nella toppa e aprendo la porta per poi invitarlo a entrare. Certo, era comodo avere la caffetteria sotto casa, si evitavano un sacco di problemi e fastidi vari, in più, come aveva scherzosamente notato, ero libero di dormire fino a tardi. Avevo la vaga sensazione, però, che non fosse veramente interessato a parlare dei benefici della mia abitazione, ma lasciai perdere e, sorridendo mestamente, chiusi la porta alle nostre spalle e provvidi ad accendere la luce.
«Vai pure avanti, io sistemo queste cose e arrivo» lo avvisai, facendogli cenno di precedermi e fare come se fosse a casa sua, mentre riponevo mazzi di chiavi e cappotti al solito posto, cercando di ignorare come potevo l’ansia crescente che sentivo montarmi nel petto.
Pensare al fatto che nell’altra stanza ci fosse Ace e non uno sconosciuto non mi aiutava per niente, anzi, peggiorava la situazione dato che, personalmente, mi ero immaginato quella circostanza un sacco di volte, ma non sapevo cosa aspettarmi, cosa lui si aspettasse. Per quanto ne sapevo avrei potuto non essere abbastanza.
Mi appoggiai al muro e iniziai a fissare il soffitto azzurro. Dovevo calmarmi e smetterla di preoccuparmi per delle sciocchezze. Da quando mi facevo prendere dal panico in un momento simile? Mica era la prima volta, dannazione!
Con Ace si, mi ritrovai a pensare, sentendomi spaesato non appena realizzai la veridicità di quella riflessione. Era tutto nuovo, tutto da scoprire e Dio solo sapeva come si stava sentendo lui in quel momento dall’altra parte della parete. Se lo conoscevo bene di certo si stava dando mentalmente dell’idiota senza smettere un attimo di arrossire e balbettare frasi senza senso.
Sorrisi sommessamente, almeno eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.
Scossi il capo e feci un respiro profondo, tranquillizzandomi e imponendomi di non lasciarmi influenzare in quel modo dall’insicurezza così, drizzando le spalle, percorsi il corridoio d’entrata e arrivai in salotto, mordendomi un labbro per impedirmi di ridere davanti alla scena che mi si presentò di fronte.
Ace mi dava le spalle e gironzolava per la stanza, curiosando di qua e di la e fermandosi di tanto in tanto per passarsi una mano sul volto nel tentativo di placare il suo animo irrequieto. Appariva così disarmato e vulnerabile in quel momento che rimasi a fissarlo con un fastidioso dubbio a girarmi per la testa.
E se prima fossi stato troppo precipitoso? Se lui non volesse andare oltre? Perché è di questo che si parla, non siamo qui da me per bere un caffè, questo è chiaro. Ah, che posso fare?
Sarebbe bastata una sua parola e l’avrei lasciato andare, ovvio. Non l’avrei mai costretto a restare con la forza, assolutamente. A che scopo? Farmi odiare ulteriormente? Ace era libero di scegliere come vivere la sua vita, era libero di fare tutto ciò che voleva e andare ovunque desiderasse. Non c’erano limiti, non c’erano catene, decideva lui il suo destino. Ed io ci tenevo troppo per costringerlo contro la sua volontà, non ero egoista fino a quel punto. Avrei preferito mille volte vederlo felice delle sue scelte che triste per aver seguito gli ordini degli altri.
Così lo chiamai, rivelando la mia presenza e godendomi per un istante la sua espressione smarrita e stupita quando si voltò a guardarmi, colto di sorpresa. Tentò goffamente di nascondere l’imbarazzo e di risultare sicuro, ma i suoi occhi irrequieti e il rossore sulle guance svelavano tutt’altro.
«Ehi» iniziai, sondando il suo sguardo alla ricerca di qualche tentennamento e ponderando bene le parole. Cosa avrei potuto dire in quel caso? Come ci si comportava quando si desiderava qualcuno tanto da star male ma, allo stesso tempo, non si aveva la certezza di essere ricambiati? Avrei tanto voluto avere una risposta per schiarirmi le idee.
Non devi sentirti in obbligo, davvero, io ti capirei, ti capirei sempre come capisco quando hai fame e vuoi altri biscotti; come capisco quando stai per addormentarti; come capisco quando vorresti ammazzare Thatch e come mi rendo conto quando mi cerchi. Ti capirei e vorrei solo vederti allegro come sempre.
Avrei potuto dire tante cose e sbagliare completamente, ma almeno ci avrei provato e l’avrei fatto, ne ero certo, ma, ancora una volta, venni preceduto da Ace che, prendendomi in contropiede e roteando gli occhi in un moto di stizza come se avesse appena mandato a fanculo tutto il mondo, mi raggiunse con pochi passi, abbracciandomi di slancio e incastrandosi perfettamente tra le mie braccia che lo accolsero con tutto l’entusiasmo di cui erano capaci mentre, senza fatica e con semplicità, le sue labbra trovavano le mie. In quel momento decisi che no, per nessuna ragione al mondo, l’avrei lasciato andare.

Affondai le dita fra i suoi capelli, un gesto che avevo desiderato di poter fare fin dalla prima volta che l’avevo visto, mentre le mie mani gli avevano sollevato la maglia ed erano corse ad accarezzare tutti i centimetri di pelle rovente possibili, dai fianchi alle spalle.  Non avevo idea di come ci fossero arrivate. La sua schiena si inarcò a contatto con le mie dita e di conseguenza Ace mi morse un labbro, rischiando seriamente di farmi perdere la testa definitivamente.

Quando poi infilò le dita nei passanti dei jeans, attirandomi più  vicino a sé e sfiorandomi il bacino con i pollici, mi si mozzò il respiro e mi ritrovai a boccheggiare, sentendo la pelle d’oca e i brividi correre lungo la spina dorsale. Dio, tutto ciò era pura estasi. Ace era la follia stessa, era tutto, tutto, tutto.
«Ace» mormorai, cercando di riprendermi, «Ne sei proprio sicuro?».
«Che domande!» sbottò prima ancora che finissi la frase, deglutendo a fatica e togliendosi la maglia con gesti frenetici, finendo quello che avevo iniziato a fare io e lasciandola ricadere a terra. Avevo già avuto modo di farmi un’dea del suo fisico, ma in quel momento, finalmente, avrei potuto scoprirlo nei dettagli e imprimerlo nella mente. Mi sembrava giusto, però, pareggiare i conti dato che io avevo sempre badato a rimanere vestito in sua presenza, così la mia maglietta finì a fare compagnia alla sua.
«Hai così tanta fretta?» scherzai, fingendomi indifferente davanti allo sguardo che mi rivolse. Mi sentii sollevato, in un certo senso, perché non fu difficile per me leggere nei suoi occhi tutto il desiderio che stavo provando anche io allo stesso modo e nello stesso istante.
Sembrò riscuotersi dai suoi pensieri, rivolgendomi poi un’occhiata di fuoco, «Chiudi il becco, ti prego».
A quanto pareva non ero l’unico ad essere impaziente, così lo attirai verso di me afferrandolo per un braccio e avvicinando il viso al suo, pensando a quante volte mi ero perso a fantasticare su di noi, desiderando di poter essere così vicini, così liberi. Ace sorrideva e non c’era niente di più bello. Sorrideva e mi guardava in un modo così diretto e privo di imbarazzo che, per un attimo, temetti di ritrovarmi ad arrossire come faceva sempre lui in certi casi. Dimenticavo spesso che non era più un ragazzino come avevo continuato a vederlo fino a qualche mese prima. A quel pensiero il mio cuore prese a battere più forte, sarebbe di certo stata una lunga notte.
«Sai una cosa?» sussurrai, ipnotizzato dalla quella bocca così invitante, «Non vedevo l’ora» gli confessai infine, riprendendo da dove avevamo interrotto. Sicuramente non avremo avuto il tempo ne l’interesse per raggiungere la mia camera da letto, ma almeno eravamo arrivati in appartamento, quello era già un traguardo.
Sospiri spezzati; le mani ovunque; i pantaloni che sparirono nel giro di qualche secondo, senza che io me ne accorgessi o che me ne rendessi conto; baci; carezze e Ace che rotolava a terra.
Un momento, che cosa?
Sbattei le palpebre e osservai come il ragazzo moro si stesse massaggiando la testa con una smorfia per niente gratificata sul viso, imprecando sommessamente e lanciandomi un’occhiataccia quando si decise ad aprire gli occhi. Davanti al mio disappunto si imbronciò, incrociando le braccia al petto e spostando l’attenzione altrove.
Trattenendo a stendo una risata e mascherando il mio divertimento, senza riuscirci del tutto, mi schiarii la voce per fare chiarezza sull’accaduto.
«Ehm, posso sapere come ci sei finito lì?».
«Come sono finito…? Questa è bella, sei stato tu a non farmi spazio. Si, bravo, ridi pure adesso, avanti!».
Mi accomodai a pancia in su sul divano, passandomi una mano tra i capelli scompigliati e lanciando di tanto in tanto qualche occhiata al moccioso ancora offeso sdraiato sul tappeto pochi centimetri sotto di me. Certo che non avrebbe mai smesso di stupirmi. Solo lui poteva scivolare sul pavimento in un momento del genere.
«Ma sentilo! Testa d’ananas, guarda che io sono sempre qui, brutto… Ehi, c-che f-fai?». Vedere la sua espressione cambiare in modo repentino fu adorabile, accentuata dalle parole sconnesse che iniziò a balbettare quando scesi dal divano e mi distesi su di lui, iniziando a baciargli il collo e a scendere lentamente più in basso, deciso a fargli venire la pelle d’oca. Era tutto così giusto, normale e perfetto, come se l’avessimo fatto migliaia di volte.
«M-Marco» mormorò a mezza voce, rovesciando la testa all’indietro e sospirando.
«Ace» risposi ghignando, puntellandomi sui gomiti per sollevarmi un poco e guardarlo in faccia, notando come arrossiva per l’ennesima volta, mordendosi un labbro  per l’imbarazzo. «Comunque sono ancora offeso» sbottò infine, facendomi inarcare un sopracciglio. Non credevo minimamente a quello che aveva detto e sembrò capirlo perché un mezzo sorriso spuntò sul suo volto.
«Sei proprio un ragazzino» decretai, soffocando le sue proteste con un bacio e lasciando che il fuoco che alimentava entrambi ci avvolgesse e ci accompagnasse per tutta la notte.
Ace, sei tutto.
 
 
 
 
 
 
 
Buonasera ^^
Allora io, ehm, ecco si, insomma, diciamo che, beh, non so cosa dire, sinceramente. Cioè, so che non è esattamente pieno di particolari e altre cose del genere che le vostre menti possono benissimo immaginare liberamente ma, come ho già spiegato e ribadito, ho un blocco e mi dispiace, mi dispiace tanto perché loro meritano tantissimo, ma non riesco ad andare troppo oltre quando si tratta di queste cose. Quindi perdonatemi e tenete presente che questo è il capitolo più lungo, dai. Consoliamoci come possiamo ;______________; come dico sempre, spero che le riflessioni, le emozioni che provano entrambi e i loro pensieri siamo abbastanza per rendere bene il tutto e farvelo apprezzare, ci ho provato davvero e tipo ho pensato e ripensato e cancellato e riscritto frasi su frasi. Spero di aver reso bene il tutto e qualsiasi consiglio o critica costruttiva sono ben accetti, dopotutto ho un sacco da imparare ^^
Passando a Marco. MARCO. Io credo, come una di voi ha notato una volta, facendo una bellissima battuta su una recensione, Marco lo chiamano La Fenice solo per le sue capacità rigenerative? Cioè, perché, come ha espresso lei, potrebbero esserci anche altri motivi collegati, Poker Face .____________. Pensieripococasti-on.
Ace, tesoro, che si spoglia dalla fretta e che rotola non si sa come giù dal divano. Mi dispiace, non ho resistito, dovevo inserire qualcosa di stupido in tutta la scena, quindi non mi pento e potete uccidermi, ma dovevo farlo per forza :D Il tutto si conclude con un pensiero di Marco che ripete ancora una volta quanto sia speciale Ace per lui. È tutto, semplicemente.
E ora dormite sonni sereni dopo questa consapevolezza che si, dopo una lunga attesa, il momento tanto atteso è arrivato. Stappiamo bottiglie di vodka, liquori, grappe e facciamo festa in loro onore. Sicuramente, appena Thatch verrà a saperlo, perché lo scoprirà, e di conseguenza lo dirà ai quattro venti, ci sarà un festone assurdo. Yeee **
Bene, ora vado e, niente, a domani. Chissà come sarà il loro risveglio :D
Un abbraccione a tutti e un grazie speciale a tutti coloro che mi dedicano tempo prezioso della loro vita per recensire ogni capitolo. Siete tutti fantastici, vi adoro e non ci sono parole per dirvi quanto vi sono grata.
Grazie, come sempre, anche ai vecchi e ai nuovi lettori ^^
See ya,
Ace.

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Capitolo 41
*** Capitolo 41. Fottutissimi mirtilli. ***


Capitolo 41. Fottutissimi mirtilli.

 

Stavo dormendo placidamente, rilassato come non mai, quando, come ogni mattina, iniziai a rendermi vagamente conto che, piano, piano, il giorno mi stava strappando dalle braccia del sonno, trascinandomi nel dormiveglia e dandomi modo di elaborare il tutto per poi aprire le palpebre e svegliarmi. Quella mattina non era diverso e ogni cosa era al suo posto, me compreso. Mi sentivo al caldo, probabilmente sommerso da coperte, nessuna luce filtrava dalle finestre, infastidendomi e il silenzio che regnava era molto piacevole. Tutto nella norma, anche se stavo un po’ stretto, intrappolato tra mucchi di cuscini. Da quando ne avevo così tanti? E il mio letto non era posizionato a ridosso del muro, quindi come potevo stare scomodo?
Con la mente ancora annebbiata dal sonno, però, non raggiunsi subito le conclusioni esatte e continuai a bearmi ancora per qualche minuto di quel calore e quella morbidezza che sentivo, accoccolandomi in quel cantuccio e affondando il viso tra la stoffa delle coltri e qualcos’altro di soffice e profumato. Varie cose erano strane, ma continuai a non farci caso e, nell’intento di seppellire un braccio sotto al cuscino, mi ritrovai ad abbracciare qualcosa di più consistente che non avrebbe dovuto esserci. Nel sonno corrugai la fronte, biascicando qualche parola sconnessa e chiedendomi cosa diavolo ci facesse un bracciolo del divano sul mio materasso e perché ci fosse odore di cioccolata ovunque. Quando mi resi conto che quella cosa si muoveva impercettibilmente, alzandosi e abbassandosi, mi ritrovai a sbarrare gli occhi di scatto, sbattendo le palpebre più volte per abituarmi all’oscurità nella stanza e cercando di orientarmi.
I ricordi mi investirono nell’esatto istante in cui mi accorsi di trovarmi in un divano, premuto contro lo schienale dal corpo addormentato di Marco che, inconsapevole di tutto, dormiva beato su un fianco, rivolto verso di me e con il mento appoggiato sulla mia testa. Il calore che sentivo veniva da lui e da un paio di coperte che aveva usato per coprirmi e per non farmi sentire freddo. Avevo tanto desiderato di potermi risvegliare un giorno con lui accanto che, in quel momento esatto, mi sentii esplodere il petto per la velocità con cui il mio cuore prese a battere.
Non riuscivo a muovermi molto, perciò non potei controllare la situazione che ci circondava, ma riuscii a notare i capelli disastrati di entrambi, i cuscini sparsi a terra, mentre noi eravamo avvinghiati in un intreccio di braccia e gambe. Come avrei fatto a liberarmi ancora non lo sapevo, ma non me ne preoccupai minimamente, per quanto mi riguardava avremo potuto anche rimanere così per tutto il giorno.
Con la mano che avevo mosso involontariamente per circondargli un fianco, corsi a sistemargli alcune ciocche di capelli che gli ricadevano davanti agli occhi, accarezzandogli le guance e il mento, avvicinandomi poi ancora un poco per sfiorargli in naso con il mio. Mi soffermai un istante sulle labbra dischiuse, sorridendo al pensiero di quanto fossero dolci, e morbide e invitanti. Era stato fantastico, non c’erano altre parole. Avevo creduto di non essere abbastanza, di essere inadeguato, un ragazzino, invece no, al contrario, era stato tutto così giusto e perfetto. Marco era perfetto. Era stato così, Dio, c’erano parole per poterlo descrivere? Sapevo solo che avrei dato qualsiasi cosa pur di potergli restare accanto, senza mai cambiare nulla. Certo, avevo una paura fottuta che dopo quella notte le cose tornassero alla normalità, ma ero pronto a giocarmi il tutto per tutto e non mi sarei dato per vinto.
Quando alzai gli occhi sul suo viso sussultai nel ritrovarlo sveglio, intento a fissarmi con quelle pupille chiare e attente a registrare ogni mio movimento.
Rimasi incantato per qualche istante, decidendo se fosse il caso di sotterrarmi o provare a trovare una scusa plausibile alle mie mani sul suo viso.
«Ciao» me ne uscii infine, mordendomi la lingua per non averci riflettuto oltre. Sul serio, mi risvegliavo dopo una notte indimenticabile con accanto il ragazzo che non avevo fatto altro che desiderare dal primo istante e tutto quello che mi veniva in mente di dire era uno stupidissimo ciao?
A discapito di tutto, però, Marco non si lasciò scoraggiare dal mio crescente imbarazzo, e pensò bene di farmi salire la pressione come solo lui sapeva fare, chiudendo le distanze e baciandomi lentamente, in un modo quasi struggente. Quando provai ad aggrapparmi a lui come se fosse la mia ancora di salvezza con l’intento di chiedere di più, però, si staccò.
«Buongiorno» sorrise, mentre io restavo per la seconda, o era l’ennesima?, volta senza parole, «Dormito bene, ragazzino?».
Aprii la bocca con tutta l’intenzione di rispondergli per le rime e farlo cadere giù dal divano se fosse stato necessario, ma la sua risata mi precedette e dovetti starmene zitto perché mi ritrovai stretto in un abbraccio che mi tolse quasi il respiro.
«Idiota, spostati, n-non riesco a muovermi» lo rimproverai, tentando inutilmente di distanziarlo di qualche centimetro. Niente da fare, non sembrava averne l’intenzione e in breve tempo mi ritrovai sopraffatto dalla sua stazza. Ero in trappola, di nuovo. Perché, perché non riuscivo mai a metterlo alle strette come faceva lui con me? Dannazione, se solo avessi avuto le braccia libere!
«Uh? Cos’è quella faccia Ace?» fece scherzoso, inclinando il capo e sorridendo davanti al mio broncio.
«Chiudi il becco, Marco!».
«Sai, è ancora presto e non andremo a lavoro che tra qualche ora. Quindi…». Un bacio lento, poi un altro ancora.
«Q-quindi c-che cosa?». Come ci erano finite le mie mani sul suo sedere?
«Abbiamo tempo».

Non avevo voglia di alzarmi, mi sentivo stanco e spossato, o forse no? Non mi era molto chiaro come mi sentissi in quel momento, sinceramente un po’ di stanchezza iniziavo a provarla, ma svanì tutto non appena fiutai un delizioso profumino proveniente dalla cucina dove Marco si era rinchiuso dopo avermi dimostrato cosa intendeva lui per buon risveglio.
Sospirai, lasciando ricadere il capo sul cuscino e rannicchiandomi sotto la coperta, sorridendo tra me e me. Mi sembrava quasi impossibile che le cose stessero andando così bene, senza problemi o intoppi, ma era meglio così, un po’ di pace e tregua mi serviva proprio ed ero intenzionato a godermi la giornata fino in fondo.
Sta trafficando con i fornelli da parecchio, ormai sarà anche pronto, pensai, mettendomi seduto e stiracchiandomi come un gatto, sollevando le braccia verso il soffitto e tendendo i muscoli. Forse si, ero un po’ indolenzito, ma nulla di che, avrei sopportato benissimo una giornata di lavoro. Di certo, non me la sarei persa per niente al mondo. Era un nuovo inizio quello, ne ero sicuro, e l’avrei vissuto al meglio.
Ho una fame tremenda e alla fine ieri sera non ho nemmeno mangiato, se non si conta la torta avanzata di Thatch, due tazze di cioccolata, una pastina e Marco… No, aspetta, smettila Ace, per Dio! Pervertito!
Grattandomi distrattamente i capelli e dandomi mentalmente dello stupido, mi avviai verso quella che doveva essere la cucina con l’intenzione di riuscire a sgraffignare qualcosa da mettere sotto ai denti se le cose sarebbero andate ancora per le lunghe. Il pennuto era bravo a cucinare, nulla da ridire, ma faceva tutto con troppa calma secondo il mio parere. Avrebbe anche potuto darsi una mossa.
«Ti sei deciso ad alzarti, finalmente». Si accorse della mia presenza non appena misi piede nella stanza, senza darmi nemmeno il tempo di illudermi di potercela fare nel mio intento, così, colto in flagrante, abbozzai un sorriso malandrino e lo raggiunsi con pochi passi, sondando attentamente le pietanze esposte sul ripiano.
«Abbiamo ospiti?» domandai, corrugando la fronte davanti alla quantità industriale di cibo. Non mi resi nemmeno conto di aver parlato al plurale, come se in quell’appartamento avessimo sempre abitato in due.
«Non che io sappia» rispose il biondo, sorridendo e continuando il suo lavoro.
«V-vuoi dire che è tutto per noi?».
Fece un cenno affermativo, «Esatto».
Fu più forte di me. Mi dava le spalle, ma lo abbracciai ugualmente, allacciandogli le braccia attorno ai fianchi e nascondendo il viso sulla sua schiena. Una volta sola non mi sarebbe bastata e avrei dato qualsiasi cosa per svegliarmi in quel modo tutti i giorni, soprattutto se potevo godere di una colazione abbondante come quella che mi stava preparando.
«Ti prego, sposami!» scherzai, lusingato da tutta quella gentilezza da parte sua.
Marco scoppiò a ridere, imitato a ruota da me, guardandomi da sopra la spalla. «Ace, ma che diavolo blateri?».
Mi strinsi nelle spalle senza smettere di guardarlo e di sorridere apertamente, mostrandogli il mio buonumore, «Sembri una casalinga professionista ed io otterrei un sacco di vantaggi da tutto questo» spiegai, prendendomi il permesso di prenderlo un po’ in giro.
«Ah, è così che la metti allora?» sogghignò, trafficando con alcuni barattoli davanti a lui che però non riuscii ad identificare. Mi costò parecchio, dato che se solo ci fossi riuscito mi sarei evitato un’appiccicosa vendetta da parte sua.
«Dimmi un po’» fece, cogliendomi di sorpresa  e passandomi una mano sul viso. Avrei tanto voluto che non l’avesse mai fatto. «Anche questo lo ritieni un vantaggio?» sfotté senza pietà, ghignando senza pudore davanti alla mia espressione allibita. In quel momento la mia faccia era impasticciata di marmellata. Mi passai la lingua sulle labbra, gustandone il sapore.
Mirtilli. Fottutissimi mirtilli.
Marco si portò le mani ai fianchi e sollevò il mento con aria superiore, come se volesse sfidarmi a fare di peggio se avevo il coraggio.
Sospirai e pregai che non mi stesse provocando volutamente. Non aveva idea di quante ne avevo combinate con mio fratello Rufy ed ero certo che non desiderasse davvero ritrovarsi con le pareti della cucina rese irriconoscibili da varie sostanze difficili da identificare se amalgamate assieme.
«Marco» sussurrai, «Non l’hai fatto sul serio».
Ribadì il suo messaggio e mi passò due dita su una guancia, segnandomi con della cioccolata e commentando su quanto fosse dolce la mia faccia in quel momento.
Con calma e con movimenti calcolati lo aggirai, rimanendo impassibile alle sue battute e adocchiando nel frattempo un paio di uova inutilizzare accanto a un sacchetto di farina aperto. La mia mente iniziò subito ad elaborare un piano e, incurante degli avvertimenti e delle velate minacce della testa d’ananas, la quale aveva capito le mie malefiche intenzioni, gli dedicai un sorriso angelico per poi spiaccicargli in testa entrambe le uva, godendomi la sua espressione esterrefatta e poi schifata.
«Manca qualcosa» feci pensieroso, arricciando le labbra e, subito dopo, la farina finì a completare l’opera sulla testaccia bionda di Marco.
Ci guardammo per un lungo istante e con espressioni decisamente differenti, una inferocita e l’altra canzonatoria. Inutile specificare che mi stavo divertendo alla grande.
«Ace, inizia a correre» mi avvisò con un sospiro esasperato, «Perché se ti prendo, giuro che non riuscirai a camminare per un pezzo».
Il mio stomaco sussultò e mi ritrovai zittito per un secondo.
«Non è che prima potrei fare colazio…».
«Corri».
 
*Special*
Quell’ananas ambulante non risponde, è la terza volta che lo chiamo! Dannazione, mi sa che dovrò andarlo a tirare giù dal letto come al solito! Dunque, le chiavi? Ah si, eccole, perfetto! Bene, spero che nel frattempo si svegli, altrimenti ci penserò io a dargli un affettuoso buongiorno, da bravo fratello quale sono.
*
 
 
 
 
 
*Avviso di servizio: i capitoli, da ora in poi, saranno lunghi o corti a seconda del mio umore. Nella buna e nella cattiva sorte, ve li sorbirete tutti. Amen.*
Buongiorno gente. Stamattina voi come vi siete svegliati? Perché, a quanto pare, Ace e Marco se la sono spassata alla grande!
Lasciatemi fangirlare un po’, perché penso che Ace accoccolato nel divano tra le braccia di Marco sia la cosa più dolce e diabetica del mondo :3 rotolo per la casa!
E poi la colazione e, ommioddio, ‘Marco, sposami’, awww, troppo per il mio povero cuore, troppo! Ad ogni modo vorrei chiarire che quella di Ace non era una vera e seria proposta di matrimonio, infatti, come segue, era solo un modo per prendere in giro le tanto apprezzate doti di Marco, bravo a cucinare e a prendersi cura di un ragazzino come lui ;D per l’appunto, il tutto porta ad una battaglia con i fiocchi che è solo all’inizio, chiarisco, quindi aspettatevi di ritrovare una cucina disastrata ^^
Oh, quasi dimenticavo, QUALCUNO sta arrivando a mettere in naso in casa di Marco! Chi sarà mai, LOL!
Spero che il risveglio vi sia piaciuto, ragazzi, un abbraccione grandissimo e grazie a tutti, ai vecchi e nuovi lettori.
See ya,
Ace.

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Capitolo 42
*** Capitolo 42. Di felicità si può morire? ***


Capitolo 42. Di felicità si può morire?

 

In pochi minuti una parete della cucina era stata resa irriconoscibile da qualcosa di viscido, ma allo stesso tempo profumato. Era la glassa alla fragola destinata ai muffin e ai waffles che, in quel momento, erano stati abbandonati sulla piastra a metà cottura, mentre io mi affrettavo a passare sotto al tavolo per evitare che Marco mi afferrasse, permettendogli altrimenti di imbrattarmi i capelli e il resto del viso. Ad ogni modo ero certo che, dopo quello che gli avevo fatto, non si sarebbe accontentato di così poco.
Spostai una sedia e sbucai fuori dall’altra parte, afferrando di fretta quello che rimaneva di uno dei molteplici vasetti di marmellata e mettendoci dentro tutta la mano, pronto al contrattacco. Infatti, approfittando dei miei rifornimenti, Marco mi raggiunse e mi ritrovai stretto con forza al suo petto.
«Me la paghi, Ace, giuro che me la paghi» stava dicendo, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa che potesse tornargli utile per compiere la sua vendetta, non accorgendosi dello scherzetto che avevo in serbo per lui e ritrovandosi a dover mollare la presa su di me dopo che gli ebbi spalmato per bene una bella quantità di marmellata in faccia.
Scoppiai a ridere davanti ai suoi tentativi di ripulirsi, osservando attentamente il disastro che aveva in testa. Sembrava il nido di un qualche rapace e per un attimo sperai che Thatch potesse vederlo. L’avrebbe sfottuto fino alla morte, questo era sicuro.
«Ehi pennuto, sei pronto per essere messo in forno?» scherzai, sorridendo in modo sfrontato davanti all’occhiata omicida che mi rivolse, raddrizzando poi le spalle e lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Oh si, era ridotto veramente male e ciò non fece altro che rendere il tutto ancora più comico e esilarante.
«Ti vedo un po’ disidratato, ragazzino» fece nel frattempo, con un tono che non mi piacque per niente, attirando la mia attenzione, «Perché non bevi qualcosa?».
Così dicendo e muovendosi prima che potessi reagire, afferrò la scatola del latte sopra al bancone e, l’istante dopo, pensò bene di spremerla fino all’ultima goccia, puntando lo spruzzo verso mi me e lavandomi da capo a piedi.
Boccheggiai stupito, tastandomi i capelli bagnati e appiccicosi e sentendo l’odore di latte fresco fin dentro le narici.
«C-Che schifo!» urlai, passandomi le mani lungo le braccia nel disperato tentativo di asciugarmi come potevo. Ancora non sapevo, però, che quello per me era solo l’inizio di un’estenuante battaglia. Se con mio fratello era un gioco da ragazzi, visto che ogni cosa che si ritrovava addosso la faceva sparire nel suo stomaco, con Marco era diverso, dato che sembrava ben disposto ad accettare le sfide che gli venivano proposte, anche se era lui ad iniziarle, precisiamo.
«Sai, ho avanzato questo limone» disse intanto il biondastro, avvicinandosi e intrappolandomi tra lui e il frigorifero, togliendomi ogni via di fuga. «E ho pensato che sarebbe stato uno spreco non usarlo. Non sei d’accordo?». Quando voleva sapeva essere bastardo, decisamente, e la cosa che più mi lasciava allibito era il fatto che sembrava divertirsi oltre ogni limite.
Mi ritrovai le due metà del frutto schiacciate contro le guance e, nel tentativo di liberarmi dalla sua presa, mi appropriai momentaneamente della zuccheriera che si trovava a pochi centimetri dalla mia portata, togliendole il coperchio e gettandola addosso a Marco, augurandogli a voce alta di addolcirsi almeno un poco.
Questo mi aiutò a liberarmi di lui, dandomi la possibilità di armarmi di un vassoio e usarlo come scudo contro le arance che iniziò a lanciarmi, iniziando poi a rispedirle al loro proprietario raccogliendole da terra come potevo, oppure usando il vassoio come se fosse stato una sottospecie un po’ bislacca di mazza da baseball.
Uh? E quella cos’è? Wow, glassa al cioccolato! Aspetta solo che la prenda!
Accorgendosi del mio sguardo poco rassicurante e intercettando l’oggetto dei miei pensieri, Marco non ci pensò due volte a fiondarsi verso il tavolo per appropriarsi della cioccolata prima di me, peccato che, nello stesso attimo, decisi di tentare il tutto per tutto anche io, finendo nella sua traiettoria ed entrando in collisione con lui, ritrovandoci entrambi a rotolare sul pavimento scivoloso e ricoperto di briciole, biscotti, latte e quant’altro di commestibile. Alla fine, però, la cioccolata l’avevo presa io.

Veloce e deciso, prima che potesse rendersi conto della situazione, lo immobilizzai a terra, salendo a cavalcioni su di lui e alzando il braccio con in mano la glassa, brandendola come un’arma micidiale e potente, tenendola a mezz’aria e minacciando di schiacciare il tubetto. Quando si rese conto di ciò, feci un sorriso vittorioso e soddisfatto. A quanto pareva avevo la vittoria in pugno. Quello che non avevo calcolato, però, era l’effetto e l’attrazione che Marco era arrivato a suscitare in me.

«Ace» sussurrò, legando il suo sguardo al mio e sorridendo sommessamente, muovendo lentamente una mano verso di me per pulirmi una guancia sporca di marmellata e accarezzandola con la punta delle dita, facendomi sentire un completo idiota, nonché crudele per quello che avevo avuto intenzione di fargli. Insomma, la cucina disastrata poteva bastare, non c’era bisogno di infierire oltre.
«Avanti, hai vinto» mormorò, senza la minima traccia di fastidio e allargando il suo sorriso in un modo che mi mise letteralmente al tappeto. Lui si arrendeva e io avevo il coraggio e la sfrontatezza di colpirlo nonostante tutto? Che razza di uomo ero?
Appoggiai il barattolo di glassa sul pavimento e mi chinai su di lui per baciarlo, catturando le sue labbra e dimenticando per un momento di essere fradicio e imbottito di marmellata e schifezze varie dalla testa ai piedi. Anche lui, sinceramente, non era messo tanto meglio, con la faccia mezza infarinata e alcune briciole sulle spalle.
Mi staccai un attimo per guardarlo negli occhi e chiedergli scusa, ma qualcosa mi fece gelare e immobilizzare sul posto, mentre una sostanza viscida mi colava lentamente dai capelli, fino al collo e lungo le spalle. Un’occhiata a Marco e potei notare il ghigno divertito che mi stava rivolgendo mentre, sfruttando il mio buon cuore, mi riversava tutta la cioccolata addosso. Probabilmente il traditore se ne era impossessato quando mi ero distratto per baciarlo.
«Brutto infame!» decretai, allontanandomi e lasciandolo per terra a trattenersi lo stomaco per le risate, guardando come cercavo disperatamente di togliermi il più possibile quella roba dai capelli, combinando un disastro e sporcandomi i palmi delle mani in un modo indecente. Intanto Marco non la smetteva di ridere e si nascondeva il viso per non vedere oltre i miei comportamenti infantili.
Un’idea, contorta quasi quanto il mio ghigno, prese forma nella mia mente e, tornando sui miei passi, assalii nuovamente il pennuto e iniziai a lasciargli le impronte delle mie dita ovunque, come se stessi giocando con la pittura o la vernice.
«Ace, piantala!» mi pregó, tra una risata e l’altra, «Mi fai il solletico!».
Sogghignando divertito continuai imperterrito a passargli le mani addosso e, quando la sostanza si esaurì, ne presi altra, vendicandomi nel migliore dei modi e facendo ridere Marco fino alle lacrime, fino a che non decisi che, per quella mattina, ne aveva avuto abbastanza.
«Tu sei…» iniziò a dire col fiatone, respirando profondamente e cercando di calmarsi mentre mi sdraiavo accanto a lui, soddisfatto e gongolante, nonché impasticciato fino al midollo, «Sei un pazzo, Ace».
Sdraiati a terra così vicini e con i respiri che si fondevano, tutto ciò mi ricordò la notte passata, riportandomi alla mente quanto mi ero sentito bene e come fossi felice in quel momento. Tutto ciò, però, trascinò a galla anche un altro problema, ovvero il fatto di non avere alcuna certezza. E se quella volta fosse stata la prima e l’ultima? Non ero sicuro di desiderare la fine, anzi, avrei vissuto altri risvegli come quello se fosse servito a mantenere ciò che avevamo costruito.
«Così avrai un bel ricordo ogni volta che ci penserai» dissi, senza volerlo realmente. A quelle parole lo vidi corrugare la fronte e puntellarsi su un gomito per alzarsi un po’ e guardarmi dritto negli occhi.
«Che vuoi dire?» chiese, mentre io mi mordevo un labbro per l’indecisione di continuare o meno.
«Beh, ecco, insomma, se non dovesse più accadere io… Io lo capirei, lo sai». Non mi stavo spiegando bene, ma temevo che se fossi sceso nei particolari avrei iniziato a sentirmi male e a deprimermi. Nello stomaco provavo già la famigliare angoscia che annunciava la tristezza. O forse era solamente fame?
Mi sentii abbracciare all’improvviso, stretto tra le sue braccia e ritrovandomi con il volto tra le sue mani, i nasi vicinissimi e le labbra che si sfioravano.
«Razza di idiota, come potrebbe anche solo passarti per la testa una cosa del genere!» sussurrò, guardandomi intensamente.
«Oh, beh» mormorai, accennando ad un sorriso, «Fantastico».
Poi mi baciò, facendomi sentire come se avessi trovato il mio giusto posto nel mondo, come mi capitava quando ero con lui e solo lui ne era capace. Ero così fuori di me dalla gioia che ero certo di poter essere in grado di fare l’impossibile.
Di felicità si può morire? Trovai il tempo di pensare tra un bacio e l’altro.
Ad un tratto uno strano rumore, come qualcosa che si strappava o una specie di scatto, forse la porta o qualcosa che cadeva, attirò la mia attenzione, quella di Marco compresa, il quale mi guardò dubbioso, interrogandosi lui stesso sulla fonte di ciò. La domanda che passò per la sua mente era la stessa che mi stavo ponendo io: cos’era stato?
«Mio Dio, come avete ridotto questo posto?».
L’espressione del biondo si fece di ghiaccio, mentre io mi sentivo morire nel riconoscere il proprietario di quella voce, voltando la testa verso l’ingresso della cucina e percorrendo l’intera figura che stava appoggiata allo stipite della porta con una faccia allibita, rischiando di far cadere il cellulare che teneva stretto nella mano alzata a mezz’aria verso di noi.
No, non può essere…
«Thatch esci di qui immediatamente!». Marco balzò in piedi nello stesso istante in cui suo fratello scoppiò a ridere, accucciandosi a terra e battendo un pugno sul pavimento, tentando invano di formulare una frase di senso compiuto, ma con scarsi risultati.
«Alzati e vattene, razza di incivile!» inveiva nel frattempo l’altro, mentre io ero troppo imbarazzato per pensare anche solo di fare qualcosa. Per quanto ne sapevo, eravamo fottuti dato che quel ficcanaso ci aveva scoperti. Dovevo prepararmi una scusa plausibile per quando Rufy sarebbe venuto da me a chiedere spiegazioni. Perché, ne ero certo, l’avrebbe fatto.
«Incivile? Io? Ma vi siete visti?» continuava a dire Thatch, «Avete fatto la maratona del sesso a quanto vedo. Ehi, Ace, allora, come é andata? Non preoccuparti se era un po’ arrugginito, presto si rimett…».
«Fuori!».
Persi di vista Thatch quando Marco lo trascinò via dalla stanza, ma colsi perfettamente le sue parole prima che lo sbattesse fuori dall’appartamento, chiudendo a chiave e raggiungendomi poco dopo con l’aria di chi si è appena risvegliato da un incubo. Quel brutto sogno, però, ci avrebbe sicuramente perseguitati anche nella vita reale.
Restammo in silenzio per qualche minuto, io seduto per terra e lui con le braccia appoggiate al ripiano del tavolo, con lo sguardo perso nel vuoto. Quando trovammo il coraggio di guardarci e affrontare la cosa, decisi che non mi sarei fatto rovinare il risveglio per nulla al mondo. Dopotutto, Thatch l’avrebbe scoperto in ogni caso e le sue battute non me le avrebbe tolte nessuno, quindi tanto valeva lasciar perdere la questione subito.
«Doccia?» proposi, sorridendo allegramente e contagiando anche il pennuto infarinato.
«Andiamo, così ti mostro la casa» e, aspettando che lo raggiungessi, mi prese per mano e finì di farmi fare il giro turistico che avevamo iniziato, ma mai concluso, la sera prima.
 
*Special*
Ridacchiando tra me e me senza smettere nemmeno per un secondo, scesi ad aprire la caffetteria, prevedendo che i due piccioncini ci avrebbero messo parecchio prima di presentarsi in pubblico. Non mancai, però, di scorrere l’album fotografico sul mio telefono, trovando la foto che sarebbe finita in un quadro all’ingresso della grande e accogliente casa del babbo dove tutti avrebbero potuto vederla. Quei due erano stati talmente impegnati nei loro affari da non accorgersi che ero entrato in casa. Eppure mi ero addirittura annunciato, o forse me ne ero dimenticato dato che ero al telefono con Izou? In ogni caso avrebbero potuto prestare più attenzione e fare meno casino.
Meglio così, almeno non potranno incolparmi, pensai sorridendo, selezionando l’immagine scattata pochi minuti prima che ritraeva Marco e Ace stretti in un abbraccio fottutamente dolce e al cioccolato, con aggiunta di marmellata e, cos’era quella roba? Farina?
Gesù, quei due sono degli animali.
Composi di fretta un messaggio e aspettai la risposta che arrivò dopo qualche minuto, giusto dopo che ebbi servito i primi due clienti venuti a farmi visita per la colazione.
 
Da: Izou.
(8.45).
Non posso crederci. Porn Food?
 
Scoppiai a ridere, incurante di attirare l’attenzione e rispondendo immediatamente all’umorismo di quel ragazzo.
 
A: Izou.
(8.45).
Si! Avvisa gli altri Dolcezza, questa andrà nel prossimo cartellone per il compleanno del pennuto ;)
 
Da: Izou.
(8.47).
Posso inoltrarla al babbo?
 
Ci pensai qualche istante, riflettendo sul fatto che Ace ancora non conosceva il vecchio Newgate. Pazienza, presto sarebbe entrato a far parte della famiglia e tutti i suoi sporchi segreti sarebbero stati svelati al resto del mondo, quindi non c’era motivo di farsi troppi problemi.
 
A: Izou.
(8.53).
SOPRATTUTTO A LUI ;)
*
 
 
 
*Avviso di servizio: i capitoli, da ora in poi, saranno lunghi o corti a seconda del mio umore. Nella buona e nella cattiva sorte, ve li sorbirete tutti. Amen.*
Salve gente, parto subito col dire che probabilmente la mia immaginazione vola troppo alto, ma non posso farci niente e che spero di non aver reso quella sottospecie di battaglia troppo campata per aria. Insomma, a mia discolpa posso dire che i due si trovavano nella cucina di uno che, per mestiere, si trova spesso a cucinare, quindi deduco che sia normale avere una dispensa abbastanza capiente e ben fornita, per il resto ho cercato di inserire cibi facili da trovare e, diciamo, scontati. Il cartone del latte, almeno quello che prendo io, quando si taglia un angolino del contenitore, basta poco per schiacciarlo e farlo uscire, quindi ho pensato che con la giusta forza potesse fare l’effetto canna dell’acqua, LOL. Poi, sentite, vedete voi, i miracoli non li posso fare, magari!
E poi Marco che fa gli occhioni dolci solo per passare al contrattacco, ma quanto è malefico? ^^ e Ace, ovviamente, ci casca come un pero, ma capiamolo, è innamorato **
Ben arrivato Thatch, mi stavo chiedendo cosa stessi aspettando ;D il nostro caro e adorato ragazzo stava chiacchierando con Izou quando è entrato. Nel ritrovarsi davanti uno spettacolo del genere è rimasto a bocca aperta e, chiudendo al volo la chiamata, ha pensato bene di scattare una foto, ecco cos’era il rumore che i due hanno sentito. Malefico, malefico anche lui che poi si scambia i messaggini con Izou, awww, credo che potrei accoppiare quei due se vado avanti così **
Anyway, guys, spero di avervi fatti sorridere e presto, I promise, risponderò alle recensioni che gentilmente lasciate. Davvero, non so più come ringraziarvi.
Grazie, come sempre, anche ai nuovi e ai vecchi lettori.
See ya,
Ace.

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Capitolo 43
*** Capitolo 43. Quel quadro in entrata. ***


Capitolo 43. Quel quadro in entrata.

 

I cancelli dell’enorme villa, situata appena fuori dalla periferia di Sabaody, si aprirono cigolando con la solita lentezza e imponenza, dandomi il tempo di fare un respiro profondo prima di ripartire e percorrere il vialetto in ghiaia fino a raggiungere l’edificio a una decina di metri di distanza, circondato da ettari di prati e boschi. Lontani dal mondo, lontani dal caos, un luogo dove nessuno avrebbe mai puntato il dito e dove ero cresciuto pacato, posato e libero di essere me stesso.
Scesi dall’auto con calma, senza fretta, e preparandomi mentalmente a dover sperare una serata infernale in compagnia della mia numerosa e fastidiosa famiglia. Quell’invito fatto all’ultimo minuto non mi aveva convinto per niente ed ero certo che ci fosse qualcosa sotto dato che, conoscendo bene i miei fratelli, per organizzare feste da urlo si prendevano un anticipo di mesi e mesi affinché tutti partecipassero e non ci fossero problemi.
Salii la scalinata in marmo che portava all’ingresso e suonai il campanello, per nulla rincuorato da tutta quella tranquillità che mi circondava. Di solito, quando arrivavo, tutti correvano fuori casa per saltarmi addosso e buttarmi a terra, abbracciandomi e, beh, importunandomi come dei perfetti maniaci. Sul serio, a volte mi chiedevo se fosse giusto condividere certe cose con i famigliari.
Quella sera nessuno venne a darmi il benvenuto e l’enorme portone fu aperto da uno dei maggiordomi, il quale, sorridendomi in modo gentile e ignorando la mia espressione apatica, mi invitò ad entrare, avvisandomi che mi stavano tutti aspettando in salotto.
Questo non è un bene, pensai, sentendomi improvvisamente nervoso e teso. Conoscendoli potrebbero benissimo tendermi un agguato, ne sono certo. Qui c’è lo zampino di Thatch.
Percorrendo il corridoio d’entrata gettai lo sguardo sui quadri e sulle fotografie appese alle pareti e mi lasciai scappare una serie di sorrisi nel riconoscere e ricordare le varie situazioni rappresentate. In una c’era Haruta da piccola, quando aveva più o meno cinque anni, con un vestitino pieno di pizzi e stoffa che la faceva sembrare una specie di bambolina nonostante il broncio. Inutile dire che quel vestito era stato stracciato in mille pezzi. Poi c’era Vista con un fioretto d’epoca vinto ad un’asta. Lo teneva esposto in camera sua come una reliquia. Izou, invece, non perdeva l’occasione per mettersi in posa e deliziare tutti con il suo sorriso. Tra tutti era il più fotogenico. Poi c’ero io, ritratto in una piccola cornice appoggiata su un soprammobile. Ero da poco stato adottato da loro e me ne stavo seduto su una seggiola a fissare chi mi stava fotografando. Era stato il babbo a immortalarmi e i miei occhi erano pieni di stupore e speranze, grandi e curiosi per quel personaggio sconosciuto.
Avevo quasi raggiunto il grande salone dove da piccoli giocavamo a paint ball, quando qualcosa che non c’era, perciò era strano, attirò la mia attenzione. Accanto alla porta chiusa c’era sempre stato appeso un quadro raffigurante un paesaggio al tramonto e, in quel momento, il suddetto era stato per qualche ragione rimosso.
Forse l’hanno distrutto, riflettei, pensando che non era poi così fuori dal comune rovinare l’arredamento della casa. Dopotutto, ci vivevano elementi senza precedenti e per niente attenti a ciò che li circondava.
Feci un altro respiro profondo, l’ennesimo della giornata, e abbassai la maniglia, entrando nella stanza che sarebbe stata testimone della mia fine e della perdita della mia ragione e sanità mentale. Infatti, ad attendermi, c’era tutta, nessuno escluso, la mia famiglia, con tanto di babbo seduto sulla sua poltrona, più simile ad un trono che ad altro, circondato dai miei fratelli che, sghignazzanti e con sorrisi da un orecchio all’altro, si voltarono verso di me, salutandomi con delle voci cantilenanti che non mi piacquero affatto.
«Ciao Marco!».
«Ehi, testa d’ananas, finalmente!».
«Pennuto! Ti trovo bene».
«Non hai nulla da raccontarci, fratellino?». Thatch, con il minimo tatto di cui era capace, mi venne incontro tutto allegro e spensierato, passandomi un braccio attorno alle spalle e tirandomi a sé per scompigliarmi i capelli come faceva spesso quando eravamo piccoli. Alzando gli occhi al cielo mi liberai dalla sua presa ferrea con facilità, ghignando soddisfatto quando lessi il disappunto sul suo sguardo. In passato difficilmente mi liberavo di lui quando decideva di mettermi le sue manacce addosso, ma avevo imparato come fare e, ogni volta che lo allontanavo, rimaneva di stucco. Poco importava che la volta dopo mi aggredisse peggio di un animale feroce.
Mi sistemai il colletto della camicia, preparandomi ad una lunga e asfissiante serata dove, se avevo capito bene la situazione, avrei dovuto rispondere ad una montagna di domande. Di certo Thatch non aveva tenuto chiusa quella sua boccaccia e aveva spifferato se non a tutti, almeno a metà dei famigliari cosa aveva visto con i suoi occhi quella mattina. Per la precisione, non aveva assistito a niente di male, insomma, stavo solo baciando Ace. Sul pavimento. Imbrattati di schifezze dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Forse tutto ciò era un po’ ambiguo, ma a mia discolpa potevo dire che eravamo entrambi vestiti. Anche se non tanto, ma le parti più critiche erano coperte, dannazione.
«Non essere così scontroso, ti abbiamo fatto un regalo» sorrise entusiasta, battendo le mani e scambiandosi occhiate complici con gli altri, «Non è vero, ragazzi?».
«Non è il mio compleanno» mi premurai di fargli notare.
«Quante storie!».
«Serve un pretesto per adorare il nostro pollo preferito?».
«Lasciate che saluti il mio caro figliolo, prima» fece una voce profonda e tonante che sovrastò le altre. Ringraziai il Cielo per il fatto che almeno non tutti erano dei pazzi sadici e approfittatori. Il babbo, ad esempio, cercava sempre di non esagerare, anche se non perdeva occasione per farsi una grassa risata a spese altrui. Così, senza farmelo ripetere due volte, lo raggiunsi e mi lasciai stritolare dal suo braccio possente che mi fece schioccare la schiena e stringere i denti. Altro che debole di cuore, quel vecchio era un colosso indistruttibile.
«Allora Marco, come va il lavoro?» mi domandò sorridente, lisciandosi i baffi candidi e ben curati.
«Tutto bene papà, come sempre».
«Questo mi fa molto, molto piacere. Bravo».
Non lo davo a vedere e mantenevo sempre un certo comportamento di rispetto e contegno quando ero al suo cospetto, ma ogni volta che apprezzava il mio operato mi sentivo riempire dalla gioia. Ero così contento di essere suo figlio, così fiero della mia famiglia che mi ero sempre impegnato per dare il meglio di me e renderli fieri, tutti. E avrei continuato a farlo per ripagarli di tutto l’affetto che mi dimostravano. Erano una parte importante della mia vita, una costante e, ora che ne faceva parte anche Ace, potevo ritenermi la persona più felice sulla terra.
«E ora dimmi» aggiunse poi, assumendo un’aria maliziosa troppo simile a quella di Thatch. Dio, sperai che quell’impiastro non avesse contagiato persino lui, o peggio, che l’avesse messo al corrente di quella cosa, «Ci sono novità?».
Sudai freddo e faticai a mantenere una facciata calma e indifferente davanti a quelle insinuazioni. Se mi fossi trovato davanti uno qualsiasi dei miei fratelli avrei smentito tutto, ma con il vecchio Barbabianca le cose si complicavano parecchio.
«Niente di importante» mormorai, abbassando per un istante lo sguardo e dandogli modo di leggere al volo la menzogna nelle mie parole, infatti scoppiò in una fragorosa risata poco dopo, contagiando il resto dei presenti che si unirono a lui, muovendosi irrequieti attorno al grande tavolo in legno di noce situato alle spalle della seduta del babbo. Sembravano stare nascondendo qualcosa.
«Avanti Marco, adesso puoi anche dircelo» si fece sentire Haruta, saltellandomi accanto e punzecchiandomi con delle gomitate sul fianco, ammiccando complice.
«Si, appunto. Thatch non ci ha spiegato proprio tutto» chiarì qualcun altro.
A sentire quelle parole lanciai un’occhiata truce in direzione del castano che, sorridendomi come se niente fosse, si grattava la testa imbarazzato, iniziando a campare scuse per aria sulla sua disattenzione e lingua lunga.
«Sai com’è, parlando del più e del meno mi è scappato e, beh, ecco…».
Mi passai una mano sugli occhi, sospirando esasperato e pregando che stesse zitto prima di continuare oltre perché, ne ero certo, avrei potuto perdere la pazienza.
«Sto aspettando, figliolo».
«Dai, come si chiama?».
«Ehi, allora, chi è questo?». Vista fu il più furbo ed esecutivo di tutti perché, senza troppi giri di parole, mi piazzò davanti alla faccia un quadro raffigurante una scena troppo famigliare dove era ritratta una persona che loro non avrebbero dovuto conoscere affatto.
Boccheggiai per interminabili istanti, osservando l’immagine e chiedendomi come diavolo l’avessero ottenuta. Avevano piazzato telecamere in casa mia, per caso? Perché, per quale assurdo motivo, erano in possesso di una foto mia e di Ace che ci ritraeva stretti in un caldo abbraccio mentre mi premuravo di fargli capire quanto lui fosse importante per me con un bacio?
Un fulmine mi colpì a ciel sereno e ricordai di come Thatch si era presentato a casa mia armato di cellulare e occhi fuori dalle orbite. Collegai il tutto e mi sentii scorrere nelle vene una voglia di vendetta, nonché il forte desiderio di spaccargli la faccia.
«Sembrate molto, ehm, intimi?» azzardò Jaws, mordendosi imbarazzato un labbro.
Strinsi i pugni lungo i fianchi e, con lentezza esasperante, mi voltai verso Thatch, zittendo la sua risata isterica e freddandolo con lo sguardo. Sembrò capire che quella volta aveva superato il limite ed iniziò a indietreggiare, spiegandomi che non era stata colpa sua e tirando in ballo Izou e Vista.
«Ehi, chiudi il becco!» si infervorò Izou, incrociando le braccia al petto indispettito. Non c’era bisogno che chiarisse nulla, sapevo che la mente malvagia era quella di Thatch e non avrei perso tempo a sgridare i suoi complici. Avrebbe avuto una lezione esemplare, poco ma sicuro.
«Sembra un giovincello che sa il fatto suo. Come si chiama, figliolo?».
Se non fosse stato per il babbo non mi sarei di certo fermato, ma lui era più importante della mia rabbia, perciò sospirai e, dopo un ultimo sguardo carico di minacce che prometteva future e orribili torture al povero ragazzo impiccione, mi rivolsi a lui leggermente imbarazzato.
«Si chiama Ace, papà» borbottai, infastidito dai ragazzi che si ammassarono attorno a me per non perdersi nemmeno una sillaba del mio discorso in cui ammettevo che si, c’erano novità in quella che avrebbe dovuto essere la mia vita privata.
«E quanti anni ha?».
«Da quanto vi frequentate?».
«Dì un po’, a letto com’è?». Izou, senza troppi scrupoli, pensò bene di uscirsene con una delle sue sparate, beccandosi un’occhiataccia dal babbo e assumendo di conseguenza un’espressione innocente, chiedendo cosa avesse detto di così sbagliato.
«Deve essere una bomba, avreste dovuto vedere le condizioni della casa!» si intromise Thatch, afferrando il quadro e portandoselo appresso fuori dal salone. Poco dopo il rumore di un chiodo battuto al muro si fece sentire chiaro e tondo, facendomi capire come mai all’entrata mancasse un dipinto. L’avevano tolto per sostituirlo con quella foto. Pazzi.
«Voglio conoscerlo al più presto!» decretò il babbo, cogliendomi di sorpresa e pronunciando la frase che avevo temuto fin dall’inizio.
Voleva conoscere Ace, voleva che lo portassi lì, in quella gabbia di matti dove non avrebbe resistito un attimo. Tutto ciò avrebbe significato la fine della nostra relazione e se la sarebbe data a gambe levate, poco ma sicuro.
Provai a fargli cambiare idea, tirando in ballo impegni vari, università, studio, lavoro e quant’altro, ma fu irremovibile. Voleva conoscere il ragazzino insolente di cui aveva tanto sentito parlare. Thatch non avrebbe visto l’alba del giorno dopo.
«Mi sembra una giusta richiesta» stava dicendo intanto con fare bonario, «Dovrò pur metterlo alla prova se avete intenzione di sposarvi».
Spalancai gli occhi e smisi di respirare.
Che cosa?
«Oh, certo, e io farò da testimone!».
«Non pensarci nemmeno, Vista, quel compito è mio!».
«Thatch, fatti da parte per una volta».
«A me basta fare la damigella» chiarì Izou, stringendosi nelle spalle e giocherellando con una ciocca di capelli con la risata del babbo in sottofondo.
Scossi il capo rassegnato. Ero nei guai. Grossi e inevitabili guai.
«Quel quadro in entrata è proprio un tocco di classe».
 
*Special*
«Allora, l’ha vista la foto?» domandai ansioso, tenendo il telefono tra la spalla e l’orecchio mentre pulivo una serie infinita di piatti sporchi. La mia punizione per essermi fatto gli affari altrui.
«Non ancora, dice che il cellulare si illumina per il messaggio ricevuto, ma non riesce a leggerlo. Lascia perdere, non imparerà mai ad usarlo!».
«Stupido vecchio».
«Thatch, spiegami una cosa: ma tu che ci facevi con loro?».
«Una cosa a tre. Perché, sei geloso?».
«Idiota, sai quanto m’importa» borbottò Izou dall’altro capo e potei immaginarlo stringersi nelle spalle e guardare altrove per mascherare i suoi veri pensieri.
«Andiamo, Dolcezza, lo sai no?».
«So cosa?».
«Che ho occhi solo per te». Ci fu un momento di silenzio, poi una fragorosa risata leggermente isterica.
«Piantala di provarci con chiunque» scherzò.
«Con te? No, mai».
«Hai perso in partenza» fece malizioso.
«Lo vedremo» ghignai.
*
 
 
 
 
Ebbene si, eccomi! No, non sono morta, anzi!
Nooo, non sono in ritardo, affatto, in questi giorni mi sono portata avanti. Non è vero, lo ammetto, mi sono presa indietro D: ma in compenso questo capitolo è il più lungo, LOL. Credo.
Insomma, vi ho messo in mezzo Barbabianca&Co, dai, potete anche perdonarmi, so che li aspettavate da un pezzo ^^
Oh, ma che bella sorpresa hanno fatto al povero Marco, lui e il suo Ace ritratti in una foto ingrandita e appesa al muro mentre si baciano, mlmlml **
Posso farvi notare una cosa? Posso? Sbaglio, o Marco fa riferimento nientemeno che alla sua…
RELAZIONE CON ACE?
Sbaglio? SBAGLIO?
No, sono calma, va bene.
Niente da fare, adoro la famiglia al completo e questi ragazzi sono uno più simpatico dell’altro e sinceramente non vedo l’ora che Oda li inquadri nuovamente perché mi mancano e sono curiosa di sapere come stanno tutti. Soprattutto Marco e, e… Basta, mi sto sentendo male. Brutti ricordi.
Anyway, piaciuto il capitolo? Si, i giovanotti giocano a paint ball dentro casa. Si, so cos'é paint ball e no, non mi sembra di stare esagerando, visto e considerato chi sono i soggetti! Vi metto anche l’immagine di Marco da piccolo. Non ho trovato di meglio, quindi immaginatelo con la stessa espressione rivolta verso l’obbiettivo, tutto sorpreso per il suo nuovo papà **
https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/t1/1507626_1456370957915075_945153165_n.jpg
E si, shippo in modo vergognoso Thatch e Izou, ma come posso non farlo? Dannazione, sono così chbeuwvwh ** la loro conversazione al telefono avviene al mattino, poco dopo l’accaduto e, a quanto pare, il loro babbo non riesce a leggere l’mms, LOL. Ci penseranno loro quando torneranno a casetta u.u e Thatch che fa il filo a Izou? Ma, ma… basta.
Beeene, qui ho terminato, prometto che non mi farò attendere oltre prossimamente e vi chiedo ancora umilmente perdono ^^
Momento Pubblicità: ho iniziato una nuova fic. Un’altra? Ma baaasta! Lo so, lo so, ma questa non dovrebbe durare molto e, beh, insomma, ecco, non ditemi parole perché l’ho fatta con tanto affetto  e con Ace e Marco, che arriveranno dal secondo capitolo, e Law, e Kidd, e Penguin e Kira-chan, muoio **
Si chiama Chi non muore si rivede, se vi va e se avete tempo fateci un salto e fatemi sapere ^^
Je vais, un abbraccione grandissimo e grazie a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori.
Restate sintonizzati,
See ya,
Ace.

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Capitolo 44
*** Capitolo 44. Il mio posto nel mondo. ***


Capitolo 44. Il mio posto nel mondo.

 

«Non ci credo».
«Ti dico che è vero!» insistette il moro, accomodandosi meglio sul divano e poggiando in mento su una mano, sostenendosi con il gomito e guardandomi con sicurezza.
Quella sera non dovevo tenere aperto il locale per nessun motivo particolare e avevo approfittato di ciò per invitare Ace a passare da me per stare assieme. Era dalla mattina precedente che non avevamo avuto un attimo di pace dopo il nostro movimentato risveglio. Prima c’era stata quella battaglia improvvisata con il cibo e avevamo passato poi l’intera mattinata per pulire, lasciando a Thatch una montagna di lavoro e tutti i clienti da seguire. Se l’era meritato dopo il suo fastidioso e non richiesto ingresso, ma non ero ancora abbastanza convinto di perdonarlo, dopotutto, aveva pur sempre spiattellato tutto alla mia famiglia e appeso quel quadro in bella vista nella casa dove viveva nostro padre. Insomma, quell’uomo si sarebbe fermato a sospirare con aria sognante davanti a quella foto tutti i giorni conoscendolo e, non appena avrebbe visto Ace, perché lo desiderava tanto, avrebbe dato di matto, mettendomi in imbarazzo e spaventando il ragazzino. Questo, se volevamo essere pignoli, era tutta colpa di Thatch, con lo zampino di Izou e qualcun altro che dovevo ancora identificare, ma ero certo che, prima o poi, li avrei smascherati tutti e me l’avrebbero pagata cara per quello scherzetto.
«E tuo nonno come l’ha presa?» domandai incuriosito, sorseggiando una tazza di cioccolata e poggiandola poi con delicatezza sul vassoio adagiato sul tappeto, accanto a quella arancione di Ace. Sorrisi nel ricordare che, quando era arrivato, circa una mezz’ora prima, aveva insistito per scendere al bar e recuperarla. Quando poi gli avevo chiesto perché ci tenesse tanto, aveva eluso la domanda, borbottando qualcosa di incompressibile a mezza voce e dandomi le spalle per ritornare di sopra con l’oggetto recuperato tra le mani e stretto al petto come se fosse stato un piccolo tesoro. Poi ci eravamo rintanati in salotto, la televisione accesa in un canale scelto a caso, qualcosa di caldo da bere e gli occhi dell’uno fissi in quelli dell’altro, intenti a seguire i discorsi più strani che ci venivano in mente.
«Ha dato di matto!» sbottò a quel punto, ridacchiando tra sé e sé, «Ha preso la prima cosa che gli è capitato a tiro e l’ha lanciata addosso a mio fratello. Ecco come si è fatto quella cicatrice sotto l’occhio sinistro».
Rabbrividii per un istante, certo che il loro nonno, da come me lo stava descrivendo, sembrava un vero e proprio mostro. Non ero certo che fosse del tutto vero, ma non volevo dargli motivo di offendersi e forse tutto quell’astio veniva dalle severe punizioni che il vecchio era solito infliggergli, da quel che avevo capito.
«E tu che hai fatto dopo?».
Ace ghignò, concedendosi un attimo di pausa per ricordare l’episodio, «Non ci ho più visto» ammise, «Ho smesso di restarmene in disparte e sono saltato addosso a mio nonno urlandogli come un pazzo di lasciare stare il mio fratellino. Fortunatamente smise di essere arrabbiato non appena si accorse di averlo ferito, ma non gli parlai per più di un mese. Non doveva azzardarsi a toccarlo, nessuno deve permettersi di farlo».
«Ci tieni molto a lui, vero?» gli chiesi, divertito dal modo in cui arrossì, tentando poi di sminuire la cosa con frasi del tipo ‘era piccolo, dovevo pur aiutarlo’, oppure ‘resta comunque uno stupido, non dovrebbe cacciarsi nei guai’.
«Certo, certo, come preferisci» affermai assecondandolo, ignorando l’occhiataccia che mi rivolse e stiracchiandomi un poco, allungando le braccia verso l’alto e ignorando i lembi della mia camicia che si sollevarono sui fianchi. A Ace, tutto ciò, ovviamente, non sfuggì e dovetti trattenermi dal gongolare quando lo colsi in flagrante a scannerizzarmi dalla testa ai piedi. Per rendermi soddisfatto mi bastava anche vedere le sue guance imporporarsi oltre ogni immaginazione, come se stessero andando a fuoco, tanto erano rosse per l’imbarazzo. Adoravo vederlo in quello stato, sembrava come indeciso su cosa fare, come comportarsi e cosa dire e spesso, molto spesso, ciò lo mandava completamente in tilt, rendendomi tutto più facile e dandomi modo di leggere quello che gli passava per la testa. Sul serio, Ace era come un libro aperto e, pensandoci bene, c’erano alcune cose che mi premeva sapere, così, per curiosità. Forse anche per divertirmi un po’ e metterlo alle strette, non sarebbe stato male e di certo poi mi sarei fatto perdonare in modo adeguato.
«Ace, dimmi una cosa» iniziai con un’espressione fintamente innocente e curiosa, «A capodanno mi hai espressamente detto che io ti piacevo. Mi chiedevo, quindi, quando te ne fossi reso conto. Insomma, non me l’avevi dato a intendere e al bar ti comportavi come un semplice ragazzo piuttosto socievole, non so se mi spiego».
Il suo viso cambiò diverse tonalità e si nascose le mani in grembo, evitando di darmi a vedere il leggero velo di nervosismo che gli era piombato addosso nel sentirsi in dovere di dare una risposta tanto personale. Infatti iniziò a grattarsi la testa con fare distratto, mordicchiandosi un labbro e guardandosi attorno alla ricerca di un qualche appiglio di salvezza.
«Uhm, ecco, non è che sia andata proprio in questo modo, insomma, i-io…». Continuava a torturarsi il labbro ed ebbi la forte tentazione di alzarmi e raggiungerlo per intrattenerlo in un modo diverso e più proficuo se proprio ce n’era bisogno, ma mi costrinsi a rimanere fermo, seduto a terra a gambe incrociate, ripetendomi che l’attesa sarebbe sicuramente valsa a qualcosa di molto più gratificante. Come una confessione in prima regola, per esempio.
«Avanti, spiegati» lo incoraggiai, avvicinandomi al divano e poggiando le braccia sui cuscini in modo da poterlo guardare negli occhi.
«B-beh, non ne sono sicuro, cioè, si, mi piacevi, uh, ovvio. Voglio dire, h-ho capito che a parlare con te mi trovavo bene, eri gentile e mi ascoltavi, anche se sembrava non interessarti minimamente di quello che ti accadeva intorno. All’inizio, sinceramente, mi sembrava di non farti ne caldo ne freddo».
Corrugai la fronte, guardandolo interrogativo. Si strinse nelle spalle e abbozzò un mezzo sorriso, spiegandomi che le prime volte gli ero parso un po’ distaccato. Certo, lo ricordavo benissimo, era perché non lo ritenevo così interessante, ma mi ero dovuto ricredere abbastanza in fretta visto il suo comportamento e il carattere così solare e allegro. Era difficile non restarne contagiati.
«Mi sono imposto di riuscire a farti sorridere almeno una volta e, beh, quando poi è successo non mi è più bastato e ho continuato. Sai che mi organizzavo con gli orari tutti i giorni per riuscire a passare a salutarti? Sciocco, vero?». E sorrise. Sorrise in quel modo in cui sorrideva lui, così dannatamente sincero e disarmante, così semplice, vero, vivo, unico. E lo disse come se il suo comportamento fosse stato insensato, esagerato o poco originale. Come se non contasse nulla. Quello che non sapeva, invece, era quanto importasse per me, quanto significasse lui.
«Ace…» iniziai a dire.
«Oh, e io odio le poesie. Sul serio, non le sopporto, ma se fingevo di interessarmi almeno potevo passare due ore standoti accanto e, e-ecco, tu sembravi contento ed io, n-non lo so, non volevo altro che passare il tempo con te, i-io… Ah, sto facendo un casino» mormorò, nascondendosi il viso tra le mani e infossandosi sul divano tra i cuscini. «Quello che voglio dire è che… Che mi piaci davvero, davvero tanto, Marco».
Rimasi senza parole e con la mente svuotata di qualsiasi pensiero. Aveva detto che gli piacevo, tanto anche. Come ci si comportava esattamente in quei casi? Quali erano le parole migliori da usare? Era normale sentirsi tutti scombussolati, con il cuore a mille e la gola secca? E la sensazione di benessere, mista a felicità che sentivo scorrermi nelle vene era un bene? Si provavano sul serio tutte queste sensazioni in un solo istante e dopo un discorso del genere? E quel peso all’altezza del petto cosa significava? Non mi faceva male, anzi, era piacevole, mi riscaldava e avevo la vaga certezza che da quel giorno in poi non sarei più stato solo. Forse avevo trovato il mio posto nel mondo e, accanto a me, ci sarebbe stato Ace.
Ace, solo lui e quel fuoco e quella luce che emanava costantemente.
«Ti prego, dì qualcosa, mi sto sentendo un idiota» bofonchiò con la testa nascosta tra le ginocchia. Si era tirato a sedere e si muoveva leggermente avanti e indietro con la schiena per la tensione che stava provando in quell’attesa. Mi resi conto che, in effetti, non avevo ancora trovato una risposta da dargli tanto ero rimasto sorpreso.
Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. Non sapevo come iniziare o cosa dire per farmi capire, per fargli capire cosa stessi provando in quel momento. Era tutto così nuovo e così bello che ero rimasto per la prima volta in vita mia spiazzato e senza qualcosa da ribattere. Quando mi fu chiaro che se avessi continuato in quel modo non avrei ricavato nulla, feci l’unica cosa sensata e giusta che andava fatta: mi alzai da terra e gli feci sollevare il viso, prendendolo tra le mani e carezzandogli leggermente le guance in un gesto che avevo sempre desiderato fare e che da poco avevo avuto la fortuna di poter provare.
«Appunto, sei proprio un idiota» sussurrai prima di posargli un casto bacio a fior di labbra, sentendolo sorridere.
«Poco romantico da parte tua» mi fece notare con una punta di ironia nella voce.
«Abbiamo tutta la notte per il romanticismo, ti va?» proposi, accomodandomi meglio su di lui in modo da non pesargli troppo e iniziando a lasciargli una scia di baci lungo il collo, spostando il colletto della maglia. Non ero mai stato bravo con le parole, ma potevo rimediare dimostrandogli ciò che provavo nei suoi confronti. Pensandoci bene era anche più divertente e significativo.
«S-se proprio insisti» rispose, ma sapevamo benissimo entrambi che quello era esattamente ciò che volevamo.
 
*Special*
«Potremo provarci almeno, magari funziona».
«No».
«Avanti, perché no? Cosa c’è di sbagliato, hai paura? Non ti fidi?».
«Thatch, ti ho detto di no, non voglio e non accadrà mai».
«Izou, ti prego, io ci tengo tanto a…».
«Thatch» un’occhiata gelida, «Non ti aiuterò ad intrufolarti in camera del babbo per combinarne una delle tue, punto».
Mi imbronciai, «Guasta feste».
«Cresci un po’».
«E nella tua stanza posso imbucarmi, Dolcezza?».
Uno sbuffo esasperato fu la risposta, seguita come di consuetudine da una gomitata dritta alle costole.
«Un giorno mi stancherò di venire maltrattato e allora…».
«Allora mi sarò finalmente liberato di te!».
«… Allora non avrai più scampo» precisai ghignando.
*
 
 
 
 
 
Buongiorno ^^
Waaaaa, non so cosa dire, ma faccio comunque tanti auguri di Buon San Valentino a tutti ^^ per l’occasione mi sono lasciata andare a qualcosa di diabetico, tipo una piccola confessione di Ace che sparge cuoricini ovunque, mentre Marco non sa cosa dire e passa all’azione. Bravo, più Amore nel mondo, grazie **
Allora, cosa farete di bello oggi con i vostri ragazzi, morosi, uomini, quello che volete? Mi raccomando, tante coccole che ci stanno sempre bene e PRETENDETE regali, cioccolatini e fiori! Io mi sono fatta furba e otterrò, perché si, io VOGLIO, un’altra action figure di OP. Il punto è che non so cosa arriverà stavolta. Io spero Marco, così Ace non sarà più da solo, ma potrebbe essere chiunque! Fate come me, approfittate delle feste per farvi regalare ‘ste cose!
Ora passiamo a chi è FELICEMENTE Single. No gente, il mio non è sarcasmo, davvero, e potessi fare come voi e uscire ad ubriacarmi! Serate felici e senza pensieri!
Momento Pubblicità: domani arriva un altro capitolo de ‘Il sentimento è reciproco’, restate sintonizzati u.u
Beh, ad ogni modo un abbraccione a tutti e tanto AmmmorrreH **
See ya,
Ace.
 
P.S: San Valentino è alle porte. Chiudiamole!

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Capitolo 45
*** Capitolo 45. Una fottuta maglia. ***


Capitolo 45. Una fottuta maglia.

 
«Non mi piace».
Era l’ennesima volta che glielo dicevo, ma sembrava non voler capire, ignorandomi, sorridendo appena e continuando a pulire quel bancone che, porca vacca!, era ormai lucido come uno specchio.
Perché non si decidesse a fare un salto nel suo appartamento, ovvero esattamente al piano di sopra e non dall’altra parte della città, per cambiarsi e sostituire quell’obbrobrio di maglia che indossava con una più decente e accettabile proprio non lo capivo. E la cosa, per quanto assurda, mi stava mandando in bestia.
«Sul serio, ti sta malissimo» ripetei imbronciato, sbuffando appena e poggiando il mento su una mano, cambiando posizione e accomodandomi meglio sullo sgabello di fronte a lui. Quella mattina il bar era tranquillo, Thatch a parte rintanato in cucina, e ogni volta che capitava un momento di quiete approfittavo per ritornare alle origini, prendendo posto nel mio solito angolino e osservando Marco improvvisare qualcosa al di là del banco. Nonostante ci fossimo avvicinati, a entrambi piaceva continuare quella routine di barista e ragazzo della pioggia, come ero stato nominato.
«Lo so, me l’hai già detto» mi fece notare sarcastico, lanciandomi di sfuggita un’occhiata canzonatoria, ma continuando comunque con il suo lavoro.
«E non pensi che sia il caso di andarti a cambiare?» gli proposi, incapace di trattenermi oltre. Certo che era proprio cocciuto quando voleva.
Si strinse nelle spalle, sporgendo il labbro inferiore in un’espressione menefreghista. «No, per niente».
Mi infervorai, battendo con malcelata violenza i palmi delle mani sul ripiano e interrompendo quel suo continuo lucidare, facendolo sussultare e corrugare la fronte con aria interrogativa e stupita. Ero incazzato e se la sarebbe vista con me.
«Marco, stai indossando una fottuta maglia, gialla per giunta, con la stampa di una cazzo di ananas con degli insulsi occhiali da sole rosa! Ti rendi almeno conto di ciò?».
Il pennuto, sbattendo le palpebre per un paio di volte, spostò lo sguardo sulla sua maglietta, poi su di me, poi di nuovo sull’indumento, finendo per sbuffare nel tentativo di trattenere una risata divertita. Che faceva, mi prendeva pure per il culo?
«Ace, non cambierò questa maglia, mettitelo in testa» dichiarò, sorridendo tranquillamente e muovendosi per riprendere in mano quel maledetto canovaccio.
Rosso di rabbia lo afferrai prima di lui, lanciandolo dall’altra parte del locale in un moto di stizza e incrociando le braccia al petto come un moccioso. Tutto ciò era assurdo, lui era assurdo. Lui e quella stupida t-shirt che aveva addosso e che lo faceva sembrare ridicolo oltre ogni dire. Che diavolo, va bene che a me piaceva tutto di lui, pettinatura discutibile e improponibile compresa, ma non poteva pretendere che accettassi di vederlo portare un indumento così chiaramente diretto a sfotterlo. Tutto aveva un limite di sopportazione e in quel momento la cosa lo stava superando un po’ troppo.
«Si può sapere perché ti da così fastidio?» chiese allora, mantenendo un tono gentile e paziente.
Ecco, lo odiavo quando faceva così. Io lo aggredivo e lo sgridavo e lui che faceva? Niente, mi assecondava e non perdeva mai le staffe, facendomi automaticamente passare dalla parte del torto. Maledetto il suo carattere d’oro!
Avevo mille motivi per non farmi piacere quella maglia, il primo tra tutti era la taglia: non gli aderiva bene al corpo e mi privava della mia bella visuale sul suo fisico da statua greca. Da una parte era un bene perché mi evitava di andare spesso fuori di testa o in iperventilazione, ma dall’altra mi innervosiva parecchio.
Il secondo era perché lo faceva passare per un poveraccio e il terzo, non meno importante, era per via di Thatch, il quale, ogni volta che posava lo sguardo su un qualche frutto, anche se solo disegnato, non perdeva tempo nel far riferimenti allo spettacolo culinario a cui aveva assistito. Inutile dire che era meglio non parlare di Natura Morta con lui.
«Se devo essere sincero» iniziai a dire, «Mi fa semplicemente schifo» ammisi schietto.
«Non è un buon motivo» sentenziò con sorriso.
Digrignai i enti, passandomi una mano tra i capelli con nervosismo, «Insomma, capiscilo! E’ orribile e non sei per niente attraente!».
Ecco, l’avevo detto, ero stato offensivo e maleducato, neanche con Rufy mi comportavo così male e il mio fratellino non era certo l’icona della decenza.
Mi guardò in silenzio, sondandomi attentamente e senza dare cenno di voler rispondere. Che idiota, che stupido idiota ero stato!
«Scusami, non volevo offenderti, dicevo solo che con questa roba addosso, ecco, non sei attraente, non ti dona» borbottai a testa bassa, cercando di rimediare al mio errore.
«Perché, gli altri giorni lo sono?» mi sentii domandare invece, ritrovandomi ad alzare il capo e scoprendo il viso di Marco a pochi centimetri dal mio. Che infarto!
«S-sei cosa?» balbettai come un cretino, sapendo benissimo dove voleva andare a parare, ma deciso a cambiare discorso per non ammettere troppe verità.
«Attraente».
No, no, non poteva sussurrare le parole in quel modo, con le labbra così vicine alle mie e pretendere che me ne rimanessi con le mani in mano a guardarlo senza fare nulla. Era impossibile.
Bastardo, l’aveva fatto apposta. Lo odiavo, lo odiavo quando faceva così.
Le mie dita erano già corse ad artigliargli il colletto dell’odiosa maglia per attirarlo ancora più vicino, mentre io lo baciavo subito dopo con passione e tanto, tanto desiderio.
«Ace» mugugnò contro la mia bocca, «I clienti».
«Chi se ne frega!».
Se qualcuno fosse entrato non si sarebbe di certo scandalizzato per così poco. Erano tempi moderni, accidenti!
Infatti avevo visto giusto, nessuno si scandalizzò, soprattutto un ragazzo che uscì in quel momento dalla cucina, interrompendo il suo blaterare e rimanendo di stucco quando, senza curarmi dei vani tentativi di Marco di sciogliere il contatto, gli avvolsi le braccia attorno al collo, avvicinandomi ulteriormente a lui, per quanto il bancone tra noi potesse permettermelo.
Sentivo Marco sorridere, nonostante tutto, per la piega della situazione e per il mio coraggio. Al diavolo anche Thatch, ormai con un chiacchierone come lui eravamo già fottuti, pettegolezzo più, pettegolezzo meno, non c’era differenza.
«Ehm, va bene, cioè, io sarei qui» fece in imbarazzo. Ma come, non era lui quello che voleva restare sempre a guardare?
«Ragazzi, ho capito che siete conigli in calore, ma se non volete che mi unisca a voi fareste meglio a smettere. Ora».
Nell’udire la sua velata minaccia liberai Marco dalla mia presa e mi godetti la sua espressione per niente turbata, ma soddisfatta, scoccando poi a Thatch un sorrisetto malizioso che spesso gli avevo visto fare.
«Ammettilo Thatch, sei un po’ geloso, neh?».
Il ragazzo rimase a fissarmi per interminabili secondi, decidendo se fosse il caso di complimentarsi con se stesso per avermi insegnato bene ad essere come lui o se fosse meglio mettersi a piangere, mentre il suo caro fratello riprese a fare quello che aveva interrotto. Spolverare il bancone.
«Lo sai, ragazzino, a dir la verità un po’ si» ammise, ma frenando subito dopo il mio ghigno vittorioso, facendomi sbiancare, «Ultimamente sono passato in secondo piano, visto che a casa non si parla d’altro che di Marco e del suo ragazzo» calcò bene le ultime parole per poi scoccare il colpo di grazia, «Ma sono tutti interessati alla cosa, soprattutto il nostro babbo. Lui si che adora sentir parlare delle vostre performance».
Detto questo, mi diede le spalle con un ghigno vittorioso e sadico e se ne tornò da dove era venuto, mentre Marco sembrava non aver sentito nulla e continuava indaffarato e tranquillo il suo lavoro.
«Dimmi che stava scherzando» sussurrai, sentendomi male.
«E non hai ancora visto nulla» dichiarò, più a se stesso che a me.
«C-che vuoi d-dire?» mi allarmai.
«Niente, stai tranquillo» mi assicurò, regalandomi un dolce sorriso e scompigliandomi i capelli. «Al babbo piacerai molto».
 
*Special*
A: Izou.
(10.50).
http://data2.whicdn.com/images/40270585/large.jpg Guarda che carini :)
 
Da: Izou.
(10.54).
Ho appena avuto un attacco di diabete. Haruta sta saltando per la stanza, tra poco vomiterà arcobaleni, ne sono certo.
 
A: Izou.
(10.55).
Mi chiedo se al loro posto ci fossimo noi due. Immagina le facce degli altri!
 
Da: Izou.
(10.56).
Probabilmente sarebbe un disastro. Rassegnati Thatch, stai perdendo tempo ;)
 
A:Izou.
(11.00).
Te l’ho detto, la smetterò solo quando capitolerai ai miei piedi!
 
Da: Izou.
(11.10).
Dacci un taglio, sei insopportabile quando ti ci metti! Non hai altre foto da scattare ai piccioncini? Forza, torna a lavorare e smettila di assillarmi!
 
A: Izou.
(11.12).
Dolcezza, sei dannatamente sexy quando fai così.
*
 
 
 
 
*appare dal nulla con carretti ricolmi di biscotti e dolci*
Ehm, salve ^^ se volete lanciarmi addosso qualcosa sappiate che sono brava quasi quanto Rufy a schivare i colpi, quindi pensateci ^^
No, non sono morta e nemmeno scomparsa o sperduta, semplicemente sto andando a rilento, come certamente avrete notato, ma ho un buon motivo, sapete? Si, perché la raccolta segue gli avvenimenti de Il sentimento è reciproco e mica posso andare troppo avanti, o rischio di lasciare spoiler in giro e no, per quanto qualcuno lo desideri, non lo farò ^^ Ad ogni modo dovrei ritornare in carreggiata, quindi rilassatevi e godetevi questo capitolo che spero vivamente vi abbia fatti sorridere **
Oggi a Ace non piace la maglia di Marco, il quale sembra non farci molto caso senza perdere comunque il suo charme. Dio, quell’uomo mi farà perdere la testa, lo so. Awww, ma sapete quanto bello è averli sulla mensola davanti al pc e guardarli sempre con occhi sognanti? ** li ho messi vicini, vicini, così si fanno compagnia e non si separeranno MAI. Basta, sono drogata e la mia vita sociale sta andando a rotoli.
Anyway.
Ma Thatch che scatta foto ogni volta che può senza destare sospetti? Adorabile. Poi le invia a Izou che, puntualmente, le invierà agli altri, LOL. Il ragazzo sta facendo una corte spietata al suo caro fratellino, ma sembra non ottenere molto successo. Strano, eppure mi sembra così sicuro di se stesso. Pazienza, magari col tempo riuscirà a conquistare Izou con qualcuna delle sue trovate. Dopotutto, sono sicura che Izou voglia solo fare il prezioso, quei due si mangiano con gli occhi, ve lo dico io u.u
Beeene, per oggi è andata, prometto che non vi abbandonerò più in modo così crudele e vi chiedo ancora umilmente perdono ^^
Un abbraccione grande e un grazie infinite a tutti!
See ya,
Ace.

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Capitolo 46
*** Capitolo 46. Se capisci cosa intendo. ***


Capitolo 46. Se capisci cosa intendo (If you Know what I mean).

 
«Ehi, ragazzino, perché quella faccia?».
Ero stravaccato sul ripiano in legno del bancone con un vaso di biscotti a portata di mano e la mia tazza di caffè fumante davanti agli occhi, intento a fissare il vuoto con un’espressione pensierosa e preoccupata. Quella giornata era stata estenuante e faticosa data la quantità improponibile di clienti che avevano deciso di rintanarsi al bar in una giornata di sole, la prima dopo settimane di neve e brutto tempo, perciò mi stavo godendo un po’ di riposo, anche se non era facile con tutti i pensieri che mi frullavano per la testa.
Il mio coinquilino, nonché amico di vecchia data, si era rinchiuso nella sua stanza da tre giorni e non aveva dato segno di voler uscire, nemmeno per seguire i corsi universitari. La cosa non avrebbe destato nessun sospetto, ma il diretto interessato altri non era che Trafalgar Law, perciò la situazione rasentava il surreale. Da che mondo e mondo Trafalgar saltava di sua spontanea volontà le lezioni? E da quando si chiudeva nella sua stanza a chiave senza mai uscire se non per bisogni di strettissima necessità? Per giunta lo faceva di notte, dopo essersi assicurato che tutti fossero a letto per non incappare nelle nostre domande. Stando a quello che aveva scoperto Penguin doveva aver avuto un’accesa discussione con quello che ancora faticavo a definire il suo ragazzo, ovvero Kidd, Eustass Kidd. Insomma, Law non era di certo il tipo che si deprimeva per scaramucce e nemmeno stava male per gli altri, figurarsi per uno come Kidd. Inoltre le loro liti erano all’ordine del giorno, perciò non ero tanto convinto che la loro discussione potesse essere così influente sul suo umore da tenerlo segregato dentro quattro mura. Doveva esserci dell’altro e non potergli parlare mi infastidiva. Avrei voluto aiutarlo se solo me l’avesse permesso, come aveva sempre fatto lui quando ero stato io ad avere bisogno di una spintarella in più per prendere coraggio ed affrontare gli ostacoli. Eppure sapevo che, fino a che non avesse deciso lui stesso di espormi il problema, non avrei ottenuto altro se non una porta sbattuta in faccia. Non riuscivo, però, ad evitare di sentirmi leggermente in ansia, come se qualcosa di brutto stesse per accadere.
Sospirai, scrollandomi di dosso quella sensazione e prestando attenzione a Thatch, il quale si stava sbracciando davanti a me nell’intento di farsi ascoltare.
«Uh, scusa, ero distratto. Cosa c’è?» chiesi gentilmente, sbattendo le palpebre per apparire sveglio e interessato alle sue chiacchiere, anche se potevo immaginare benissimo dove sarebbe andato a parare. Ormai non faceva altro da quella fatidica mattina in cui si era materializzato nell’appartamento di Marco, cogliendoci piuttosto di sorpresa e impegnati a fare colazione in modo alternativo.
Presi un sorso di caffè, sperando di calmare i bollenti spiriti con la bevanda calda che mi ustionò la lingua. Almeno in parte riuscii nel mio intento, smettendo di pensare alle mani di Marco addosso a me.
Mi guardò come se fossi stupido, studiando il mio viso e assottigliando lo sguardo, soffermandosi sulle mie guance. Sperai vivamente di non essere arrossito in quel lasso di tempo, non avrei fatto altro che fornirgli altro materiale con cui potermi sfottere o minacciare. Per mia fortuna, però, sembrò volermi graziare per quella volta, passando oltre e riprendendo il suo discorso rotto in precedenza.
«C’è qualcosa che ti turba?» fece con espressione angelica, sedendosi sul bancone e continuando nel frattempo ad asciugare un piatto con il canovaccio. Sembrava sinceramente incuriosito dal mio comportamento di poco prima, tanto che mi ritrovai a prendere seriamente in considerazione l’idea di confidarmi con lui e chiedergli un consiglio. Dopotutto, aveva già visto che tipi erano Trafalgar e Eustass quando erano assieme e forse avrebbe potuto raggiungere una conclusione plausibile alla quale io non avrei mai pensato. Potevo tentare, almeno, visto che per la prima volta aveva abbandonato la sua solita aria maliziosa e canzonatoria. Era bello scoprire che sotto, sotto, molto in profondità, nascondeva una personalità matura e posata.
Aprii bocca per iniziare con il mio racconto, ma mi precedette, facendo crollare le mie speranze e i miei castelli fatti di buoni propositi.
«Non mi dire che Marco ha fatto cilecca! Dio mio, ragazzino, non sai quanto mi dispiace! Strano, non gli era mai capitato e con uno come te non dovrebbe avere problemi a scopare come si deve, insomma, infanga il buon nome della famiglia, per non parlare della reputaz…».
«Ma che diavolo…? Thatch! Possibile che tu non riesca a pensare ad altro?» sbottai, rischiando seriamente di strozzarmi con il caffè e arrossendo come un pomodoro. Per l’imbarazzo. Tutto aveva un limite e quell’impiastro lo stava superando. Non potevo credere che mi avesse fregato in quel modo, ed io che ero stato sul punto di rivedere i miei giudizi sul suo conto.
«Ma cosa ho detto ora?» si impuntò, allargando le braccia in modo esasperato, tanto che mi vidi costretto ad abbassare la testa per non venire colpito in pieno dal piatto che ancora reggeva e che aveva rischiato di lanciare dall’altra parte della sala, «Hai fatto una faccia disperata, ovvio che abbia temuto il peggio per la tua vita sessuale. Dopotutto, il pennuto è stato a riposo per un po’, non so se mi spiego, ed è mio dovere assicurarmi che tutto si svolga per il meglio. Non vergognarti, a me puoi dirlo se ci son…».
Lo guardai furente, imbronciandomi e incrociando le braccia al petto. Non avrebbe mai smesso di comportarsi da idiota, ma era più forte di me: a volte non riuscivo proprio a capirlo e a sopportarlo.
«Thatch, scusa la domanda: posso sapere, invece, da quanto tu non metti a segno un punto? Se capisci cosa intendo» gli domandai senza peli sulla lingua, inchiodandolo con lo sguardo in modo da fargli capire che non poteva sottrarsi a quel nostro discorsetto perché non gliel’avrei permesso. Come avevo previsto tentennò per qualche istante, ricomponendosi e gonfiando il petto. Tentare di cambiare discorso sarebbe stato inutile: avevo appena scovato un tasto dolente per lui.
«Perché? Sei per caso interessato a provare il brivido della completa soddisfazione?» mi fronteggiò pavoneggiandosi.
Oh, non ne ho bisogno, lo provo tutte le sere.
Ghignai, «Piantala e rispondimi, altrimenti lo chiederò a quel tale, come si chiama? Ozou? Izou?».
L’effetto fu immediato, tanto che potei giurare di averlo visto impallidire e boccheggiare allibito. «E come diavolo pensi di farlo? Non vi sarete mica parlati, spero! Tu lo odi, quando l’hai visto con Marco volevi persino ucciderlo. Aspetta, vuoi vedere che ti ha cercato lui, quella piccola sgualdrina…».
Trattenni a stento una risata davanti alla sorpresa di Thatch. Eh si, quando il pennuto parlava della sua famiglia drizzavo sempre le orecchie nell’intento di conoscere più cose possibili sui suoi famigliari, in modo da evitare figuracce quando li avrei incontrati. In un futuro molto lontano. Dopotutto, dovevo evitare di inimicarmi parecchie persone. Tra queste sue informazioni una in particolare aveva attirato la mia attenzione, ovvero il velato e difficilmente intuibile interesse tra i due fratelli di Marco. A quanto pareva, al suo occhio ciò non era sfuggito e Thatch non era esattamente il tipo di persona che si premurava di nascondere agli altri ciò che pensava. Erano bastati alcuni commenti di troppo per svelare alla testa d’ananas l’attrazione, se così la si voleva chiamare, che da un po’ di tempo dimostrava per Izou, il loro adorato fratello. Quello che mi ero imposto di non dover odiare o invidiare.
«… Sapevo che ti considerava un bel ragazzo, ma non credevo che avrebbe avuto il coraggio di contattarti! Insomma, tu ormai sei di proprietà del pennuto e lui non dovrebbe permettersi di…».
«Thatch» lo chiamai gentilmente nel tentativo di calmarlo e fermare quel suo fiume di sproloqui.
«E tu pure gli dai corda? E a marco non pensi? Ti avverto, fallo soffrire e io ti faccio passare l’inferno, sia chiaro. E non ti azzardare ad avvicinarti nemmeno a Izou, non te lo perdonerei mai!».
«Ace? Thatch? Potreste fare a meno di urlare? Vi si sente fino al piano di sopra». L’arrivo del biondo fu un’apparizione Divina e il castano sembrò calmare un poco la sua isteria, anche se si precipitò addosso a lui, afferrandolo per la collottola e indicandomi con un dito inquisitore come se avesse avuto a che fare con un criminale colpevole.
«Fratello, so che sono affari tuoi e quello che fate di notte non mi riguarda, ma tieni gli occhi aperti con questo qui, non è la dolcezza che sembra, credimi! E’ subdolo, te lo dico io». Sembrava impazzito e di questo anche Marco sembrò rendersene conto così, con delicatezza, sciolse la presa su di sé e prese un respiro profondo prima di guardare Thatch negli occhi e parlargli in modo pacato.
«Thatch, piantala. Izou non ha chiamato Ace e lui non è quel tipo di ragazzo, va bene?». Quindi aveva sentito tutto. Beh, ovvio, il cuoco aveva dato in escandescenza, ma poco importava ormai.
Tutto era passato in secondo piano quando Marco gli aveva praticamente assicurato che di me si fidava, che sapeva che non l’avrei fatto stare male. La mia testa aveva preso a ragionare da sola e il mio cuore era appena collassato. Non esistevo più, troppe emozioni positive tutte in un istante.
«Fa una pausa, stai lavorando da stamattina» gli consigliò e l’altro sembrò prendere di buon grado l’idea, togliendosi il grembiule e dirigendosi in cucina con un sospiro profondo, fatto con l’intenzione di svuotarsi dallo stress accumulato.
«E tutto perché sei in astinenza» trovai la concentrazione per sfotterlo, perché lo avevo capito che la sua sfuriata era data solo dal tentativo di eludere le mie insinuazioni sul suo conto, giusto prima che scomparisse dietro la porta, ricevendo un’occhiata inteneritrice. Almeno gli avevo dato modo di capire come ci si sentiva quanto qualcuno metteva il naso nella vita privata di una persona. Chissà, magari avrebbe smesso di fare battutine e doppi sensi per un po’.
Marco sorrise, alzando gli occhi al cielo per poi guardarmi con un’espressione indecifrabile e meditabonda.
Mi strinsi nelle spalle, sorseggiando il resto della bevanda ormai fredda. «Che c’è?».
«Tu non sei interessato a provare il brivido di andare a letto con Thatch, vero?».
La sua maglia venne irrimediabilmente macchiata dal caffè.
 
*Special*
A:Izou.
(18.48).
Dobbiamo parlare al più presto.
 
Da:Izou.
(18.50).
C’è qualche problema?
 
A: Izou.
(18.51).
Non ho più intenzione di aspettare e rischiare che qualcun altro ti faccia cadere ai suoi piedi. L’unico che può farlo sono io.
 
Da: Izou.
(18.56).
Non dire sciocchezze, lo sai che nessuno riuscirebbe a farmi esasperare tanto quanto fai tu ;)
 
A: Izou.
(18.57).
Preparati, Dolcezza, stasera ti prendo e ti porto via.
*
 
 
 
 
Sono tornataaa!
Un attimo di silenzio per la verginità (?) di Izou che presto andrà a farsi benedire. Solo io ho questo presentimento?
Gente, finalmente ho deciso di andare avanti e chiedo perdono se ho trascurato la raccolta/long su Marco e Ace, ma dovevo capire bene e organizzarmi su come continuare senza fare spoiler sull’altra storia e seguire allo stesso tempo il filo che le lega. Vedrò di non tardare più così tanto, scusatemi ^^
Allora, spero che il capitoletto vi sa piaciuto! Oggi Ace mette alle strette Thatch che parla tanto, ma che alla fine ha dei grossi e imbarazzanti problemi :D povero.
«Thatch, scusa la domanda: posso sapere da quanto non metti a segno un punto, se capisci cosa intendo». Immaginatevi che Ace porga il quesito con l’espressione maliziosa che di solito accompagna la frase ‘if you know what I mean’. Ero tentata di metterla in inglese, mi piaceva troppo, LOL. Bravo fiammiferino.
E parliamo dei brividi che prova tutte le notti? Chi sarà mai la fonte di ciò? Mlmlml **
Oggi la mia mente perversa e piena di doppi sensi ha fatto festa, risultato questo capitolo con cui spero di non imbarazzare e far impallidire nessuno. Ammettetelo, so che anche voi siete dei maniaci, non negatelo!
E Marco che getta confessioni amorose a caso parlando come se niente fosse? Adorabile. Inoltre, qualche preoccupazione gli viene ugualmente, quindi mi è parsa giusta la sua ultima domanda che fa andare di traverso il caffè a Ace. Ma chi se ne frega della maglia sporca, un giro sotto la doccia, ehm, in lavatrice e tutto si sistema!
Momento Pubblicità: Terzo capitolo di ‘Chi non muore si rivede’ pubblicato se vi va di fare un giro ^^
Momento Svago: Questo è un disegno che la carissima Acchan074 ha fatto del pennuto e della sua meravigliosa/orrenda maglia gialla con l’ananas citata e descritta nel capitolo precedente :D la ringrazio molto per l’iniziativa e vi invito a sbizzarrirvi con la creatività e a fare altrettanto, magari ne escono dei capolavori simaticissimi da condividere ^^
https://twitter.com/Acchan074/status/437268605588504576
Signori, buona serata e a presto, promesso! Un grazie speciale a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori ^^
See ya,
Ace.
 
With love.

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Capitolo 47
*** Capitolo 47. Il casino che stava succedendo. ***


Capitolo 47. Il casino che stava succedendo.

 

«Per quale ragione dovremmo andarcene? E si può sapere tu cosa hai in mente?» mi lamentai, infastidito dal fatto che in quell’appartamento tutti sapessero che diavolo stava succedendo tranne me.
«Vi spiegherà tutto Penguin. Ora devo andare». Con quella sua solita, tipica e odiosa calma, Law ci diede le spalle e si avviò verso l’uscita, diretto solo il Demonio sapeva dove. Si, perché ero fermamente convinto che Trafalgar fosse in qualche modo in contatto con gli Inferi, altrimenti non sarei mai riuscito a spiegarmi come riuscisse sempre a fottere tutti, letteralmente.
Gli bloccai la strada, piazzandomi davanti alla porta a braccia incrociate e deciso a non spostarmi di lì nemmeno di un millimetro. «Law, dicci cosa succede» ordinai, ignorando quella sua smorfia che apparve sul suo viso, come se stesse trattenendo a stento una risata, «Qualunque cosa sia noi possiamo aiutarti, lo sai! Perché non vuoi fidarti?».
Per un istante sembrò pensarci e prendere in considerazione l’idea di vuotare il sacco e abbassarsi a chiederci aiuto o consiglio, ma fu solamente l’illusione di pochi attimi dato che ci deliziò del suo solito ghigno sprezzante, aggirandomi e mettendo una mano sulla maniglia.
«Siete dei completi idioti, ma è anche vero che come amici siete i migliori». Detto questo uscì di casa, lasciando il silenzio e lo sconcerto dietro di sé, mentre le lacrime iniziavano a scendere sul viso paffuto di Bepo e i miei muscoli si tendevano per l’impotenza che tutto ciò mi causava. Non voleva metterci in mezzo ed esporci il problema e, se non avevamo uno straccio di idea riguardante la situazione, non potevamo fare nulla.
Mi toccava per forza restarmene con le mani in mano.
«Penguin, raccontaci tutto».
«Mettetevi comodi, sarà una lunga storia».
«Non abbiamo tempo. Spicciati».
Il diretto interessato, a modo suo s’intende, diede inizio ad un racconto a cui difficilmente avrei creduto se non fosse accaduto a me ma a qualcun altro. Reazione abbastanza normale e comprensibile, dato che mi aveva appena messo a conoscenza del fatto che il padre del nostro coinquilino fosse un boss della mafia conosciuto in tutto il mondo e che molto probabilmente aveva messo sotto torchio l’appartamento per, a detta dei due ragazzi presenti davanti a me, assicurarsi di eliminare tutto ciò che Law aveva di più caro. Chiedermi da cosa fosse dovuto tutto questo odio nei confronti del figlio fu spontaneo e impallidii di fronte alla cruda verità: quel Doflamingo aveva ucciso la madre di Trafalgar davanti ai suoi occhi dopo che il figlio l’aveva denunciato alla polizia. A quanto pareva, però, non gli era bastato rovinargli l’infanzia, ma aveva addirittura pensato che la prima cosa da fare appena uscito di galera fosse prendersi la sua vendetta e tenere in pugno il nostro amico con uno sporco ricatto: o lui si consegnava di sua spontanea volontà, o noi avremo fatto una brutta fine.
«Booom!» fece Penguin, mimando l’esplosione che secondo lui sarebbe potuta accadere da un momento all’altro. Ciò che ottenne furono un paio di occhiate furenti da parte mia e di Bepo. Non c’era proprio niente da scherzare.
«Che cosa facciamo adesso?» chiese Bepo. La sua faccia era il ritratto dell’ansia e della disperazione.
«Mi pare ovvio: dobbiamo seguirlo!» sbraitai. La soluzione era semplice e chiara ai miei occhi: non potevamo abbandonare il nostro inquilino. Anche se non era mai stato l’icona della compagnia, del divertimento e della simpatia, quella proprio zero, frecciatine sarcastiche a parte, era pur sempre uno di noi, un amico, il ragazzo che mi aveva presentato la possibilità di iniziare a vivere la mia vita per conto mio, offrendomi di dividere l’appartamento con lui e gli altri. Era stato grazie a lui se ero arrivato ad avere una cerchia di amici speciali che mi volevano un bene incondizionato; era grazie a lui se non abitavo ancora sotto lo stesso tetto del mio vecchio e scorbutico nonno; era sempre e solo grazie a lui se, alla fine, avevo preso il toro per le corna, o meglio, il pennuto per le ali, e avevo affrontato Marco senza paura, non troppa almeno.
E poi, dicesse pure quel che voleva, anche lui era affezionato, per quanto Trafalgar Law potesse provare affetto, a noi, quindi andarlo a salvare era l’unica cosa fare. Era un nostro dovere!
«Non mi ha detto dove è diretto» borbottò Penguin con rabbia e fastidio malcelati, assumendo un’espressione tremendamente simile a quella di Law quando qualcosa non gli andava a genio. Cioè tutto. Era a dir poco incredibile quanto quel ragazzo influisse sull’umore altrui, il mio compreso.
«Fermi, fermi tutti!» proruppe ad un tratto, mettendosi le mani sulla testa e dirigendosi verso la porta mentre veniva tempestato di domande, afferrando al volo le chiavi e intimandoci rimuoverci a raggiungere il garage ai piani inferiori.
«Cos’hai in mente di fare?» gli chiesi scendendo le scale, desideroso di avere le idee chiare e di capire bene cosa andava fatto. Penguin era famoso per le sue trovate che non stavano ne in cielo ne in terra.
«Bepo» disse, ormai col fiatone, piazzandogli in mano un mazzo di chiavi che non riconobbi, «Questa è una copia delle chiavi dell’auto della padrona del palazzo. Cosa? Non chiedermi come le ho avute, è irrilevante! Si tratta di quella vecchia carretta verde con i freni mal funzionanti, prendila e fila alle scuole superiori per avvisare tutti i piccoletti di non passare da noi fino a nuovo ordine e di tenersi in allerta. No, non voglio sentire storie, nessuno ti denuncerà per furto! E poi abbiamo problemi più gravi!». Dopo che ebbe messo a tacere il ragazzone albino, il quale se ne andò poco dopo, si rivolse poi a me, ordinandomi categorico di accompagnarlo fino all’officina dove lavoravano Killer e il rosso isterico, che mi stava pure simpatico, spiegandomi che li avrebbe convinti, o obbligati, ad andare alla polizia per combinare qualcosa. La priorità era riuscire a rintracciare Trafalgar.
«E io che faccio nel frattempo?» gli domandai durante il viaggio, ignorando il semaforo rosso e rischiando di investire un vecchietto dall’aria non proprio arzilla.
«Tu andrai da Marco e lì resterai. E guai a te se ti cacci in qualche pasticcio mentre io sono via! Di eroe ce ne basta uno» mi avvisò serio e con un tono che non ammetteva nessuna replica. Ovviamente la sua idea non mi piaceva per niente; insomma, non ero affatto il tipo a cui piaceva restarsene con le mani in mano, ma la situazione era delicata, si capiva benissimo, perciò mi limitai ad annuire a denti stretti e ad assecondarlo. Magari avrebbe avuto lui bisogno di me e mi avrebbe cercato ugualmente, oppure qualcun altro mi avrebbe chiesto di intervenire altrove. Le possibilità erano parecchie.
«Cerca di ottenere la sua attenzione» gli consigliai prima che scendesse dall’auto, sapendo che avrebbe capito subito a cosa mi stavo riferendo. La sua missione era riuscire ad ottenere un dialogo non troppo violento con Eustass in modo da fargli capire bene perché Law lo avesse lasciato, anzi, abbandonato con la sciocca scusa di essere andato a letto con un altro. Qualsiasi cieco si sarebbe accorto della menzogna, visto quanto quei due fossero incredibilmente e assurdamente legati, ma per uno tosto come lui, l’orgoglio bruciava più di qualsiasi altra cosa. «Conoscendo Kidd, se quello che gli ha fatto Law per metterlo al sicuro è vero, non sarà facile convincerlo».
«Lo so, ma dovrà ascoltarmi per forza».
«Non la prenderà bene».
«Non mi interessa, qui c’è in ballo la vita del nostro amico ed io non ho intenzione di lasciarlo morire, nemmeno se devo beccarmi qualche pugno in faccia. Ora vai e sta attento» mi salutò con uno sguardo d’intesa e lasciandomi ripartire poco dopo in direzione della caffetteria di Marco dove avrei dovuto passare il resto della giornata in ansia e con la preoccupazione alle stelle. Avrei combinato sicuramente un disastro dopo l’altro, quindi tanto valeva avvisare per tempo il mio fidanza… Il proprietario del locale e metterlo al corrente di tutto il casino che stava succedendo. Ecco svelato il mistero per cui Law si era rintanato nella sua stanza. Se mi fermavo a pensare che doveva aver passato dei momenti infernali per decidere il modo migliore per proteggerci mi sentivo male. Avrei dovuto capirlo e stargli accanto invece che confidare nel suo carattere forte e determinato. A volte anche i migliori avevano le loro debolezze a cui far fronte.
Digitai il numero sul cellulare e feci partire la chiamata, sorridendo quando dall’altro capo la voce del pennuto mi rispose pacata e apparentemente disinteressata. A volte era proprio uno spaccone.
«Ciao bellezza, ti sono mancato?» sussurrai mellifluo, trattenendo una risata davanti al silenzio interdetto dell’altro. Gli insegnamenti di Thatch stavano avendo effetto.
«Ace? Ti senti bene?». Certo, quando mai mi comportavo in modo così esplicito? A casa mia sempre, con lui un po’ meno. Avevo una reputazione da difendere e non volevo passare di certo per un pervertito.
«Oh, sei tu Marco. Scusami, devo aver confuso il tuo numero con quello di un altro».
Come sono bastardo, pensai sogghignando. Volevo provare quello scherzo da un sacco di tempo.
«Ace».
Scoppiai a ridere e poco dopo anche lui si unì a me, non riuscendo a trattenersi e rilassandosi, ma non risparmiandosi però di darmi dello stupido e idiota per quella mia pessima idea.
Sospirai, calmandomi e decidendomi a mettere da parte le sciocchezze per esporgli il problema che riguardava un po’ tutti in modo diretto. Sarebbe stata una lunga chiacchierata e sperai che non mi facesse troppe domande, dato che persino io avevo capito solo le cose essenziali. E peggiori.
Rivolsi un pensiero a Penguin, chiedendomi come se la stesse cavando lui e se Kidd non gli avesse già spezzato le gambe.
Spero vivamente che tutto si risolva per il meglio.
 
 
 
 
Domani piove, oggi non ho saltato l’appuntamento.
Allora, facciamo subito chiarezza: Già nel capitolo precedente si faceva rifermento all’alone di mistero che aleggiava attorno a Law e alla sua decisione di rinchiudersi in camera senza contatti con il mondo. Qualcosa non andava e finalmente si scopre perché: il padre del carissimo Traffy, ovvero Doffy (LOL), ha intenzione di, boh, vendicarsi per essere stato catturato dalla polizia e finito in prigione dopo una soffiata fatta dal suo stesso figlio. Ora, spiegare tutta la storia per filo e per segno è impossibile, farò del mio meglio e se siete curiosi o volete altre informazioni, troverete tutto su ‘Il sentimento è reciproco’. Scusate, di meglio non posso fare. Ad ogni modo tutti gli amici di Trafalgar sono in pericolo e l’appartamento non è più zona sicura, perciò via tutti fino a nuovo ordine. Penguin andrà a fare gli occhi dolci a Eustass SuperFiol Kidd, mentre Ace dovrà starsene buono, buono da Marco. Credete che lo farà? Se, come no.
Passiamo ora al capitolo. Si, Bepo, Penguin, Law e Ace condividono un appartamento. Si, Bepo è umano e sembra un orso albino super dolce e coccoloso. Si, avete capito bene: EUSTASS KIDD E TRAFALGAR LAW.
Parlando di Ace: ma sbaglio, o stava per riferirsi al pennuto come suo fidanz.. ah no, datore di lavoro, giusto ^^ e quando gli fa lo scherzetto al telefono? Provate per messaggio con i fidanzati, amici speciali, scopamici, (fidanzate/amiche speciali/scopamiche) quello che volete, è stupendo. Vi beccate qualche bestemmia, ma è normale :D sono i brutti effetti che ha Thatch sul nostro fiammiferino ^^
Marco ogni tanto deve fare finta di non essere interessato, fa parte del suo caratterino a volte arrogante e a volte no, ma sempre fbhuwwvfhjuiws **
Beeene, auguro a tutti buona serata e da qui in poi i nostri ragazzi si troveranno a vestire i anni degli eroi improvvisati, ma noi non abbiamo dubbi sulla loro riuscita, vero? Vero?
Grazie a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori.
See ya,
Ace.

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Capitolo 48
*** Capitolo 48. Bomba ad orologeria. ***


Capitolo 48. Bomba ad orologeria.

 

«Mi dispiace» sussurrai al telefono, chiudendo la chiamata e ignorando il senso di colpa che mi attanagliava lo stomaco. Avevo spiegato a Marco tutta la faccenda meglio che avevo potuto, anche se entrambi non avevamo capito bene il problema. Gli avevo detto che l’appartamento non era più un luogo sicuro per noi, per me e lui, prendendomi alla sprovvista, mi aveva proposto di sistemarmi da lui, almeno fino a che le acque non si fossero calmate. Inutile descrivere come mi ero sentito, talmente felice che il cuore mi era balzato in gola.
Avevo già programmato di saltargli in braccio non appena fossi arrivato al bar, ma mi ero ricordato che Rufy, quella mattina, avrebbe saltato la scuola per venire a trovarmi. In poche parole stava andando dritto verso i guai senza saperlo ed io stupido che me l’ero scordato!
Avevo fatto subito marcia indietro, ignorando gli avvertimenti del pennuto e avevo raggiunto l’appartamento nel giro di una decina di minuti, schiacciando il pedale dell’acceleratore e spingendo l’auto a più non posso per le strade della periferia, miracolosamente senza investire o fare male a nessuno. Parcheggiai poi davanti all’ingresso e mi precipitai dentro, salendo le scale e facendo i gradini due a due per la fretta, sentendomi mancare il fiato per l’agitazione e l’ansia. Dovevo raggiungere quello stupido di mio fratello che, come al solito, aveva dimenticato di portare con sé il cellulare. Una volta che le cose si fossero sistemate gliel’avrei fatto ingoiare, o meglio, gliel’avrei addirittura incollato alla fronte.
Spalancai la porta con un diavolo per capello e il fiatone, venendo subito investito da una ventata di odore forte, come di bruciato, misto a qualcosa di più nauseante, gas forse. Un’occhiata veloce all’ingresso e notai di sfuggita che il camino era stato acceso, mentre dalle braci attizzate partiva una scia di cartacce e panni posizionati in modo da condurre le fiamme ai mobili più vicini. Chi mai poteva aver fatto una cosa del genere? Era da pazzi e poteva trasformarsi benissimo in un inferno!
Solo allora collegai la preoccupazione sugli occhi di Law quella mattina, ricordandomi delle sue parole e rendendomi conto del pericolo a cui si era riferito quando ci aveva consigliato, per non dire pregato, di allontanarci dalla casa. Suo padre, quel lurido verme, a quanto pareva aveva fatto le cose il grande e per bene, ma il problema che mi si presentava di fronte era un altro.
Dov’è Rufy?
«Ehi, Rufy!» iniziai a chiamarlo, addentrandomi in mezzo a quella cortina di fumo sempre più nera e soffocante, chinandomi con la schiena per evitare di inalare troppa di quella aria e per tenere gli occhi protetti. Decisi anche di togliermi la felpa e tenermela premuta sulla bocca e sul naso, in modo da poter avanzare senza rischiare di perdere i sensi. Sembrò funzionare, così continuai la mia ricerca dirigendomi in cucina, ovvero il primo luogo che mio fratello visitava non appena metteva piede nell’appartamento. La sua attrazione per il cibo era ciò che più lo caratterizzava e, infatti, fu proprio lì che lo trovai.
Stava riverso a terra, probabilmente svenuto perché non si mosse nemmeno quando lo chiamai allarmato, affiancandolo e scuotendolo per una spalla. Guardandomi attorno vidi che i fornelli erano accesi, compresa la bombola del gas, rendendo l’intera stanza una bomba ad orologeria. Se non ci fossimo dati una mossa, entro pochi minuti l’edificio sarebbe sicuramente diventato la nostra tomba.
Mi concessi un istante per assicurarmi che respirasse ancora, accarezzandogli affettuosamente i capelli e promettendomi che, non appena fuori, l’avrei svegliato a suon di pugni per poi urlargli dietro quanto fosse stato incosciente. La verità era che non vedevo l’ora di abbracciarlo, ma per farlo avrei dovuto aspettare ancora un po’.
Passandogli le braccia attorno al busto iniziai a trascinarlo piano fuori dalla cucina, intenzionato a tagliare per il corridoio d’entrata, ma la situazione si era fatta incandescente, nel vero senso della parola. Le fiamme prodotte dal camino avevano raggiunto il tavolino posto al centro del salotto e il divano, arrivando persino alla libreria che ora si frapponeva tra me e l’uscita. Chi era entrato in precedenza per architettare tutto doveva per forza aver cosparso i mobili con delle sostanze infiammabili perché tutto ardeva in modo troppo vivo e intenso, come altrimenti non sarebbe stato.
Con il passaggio bloccato mi vidi costretto ad aggirarlo, passando per il salone e stando attento a non far urtare il corpo svenuto di Rufy contro gli oggetti. Tossendo per la mancanza d’aria mi resi conto che il ragazzino sembrava respirare a fatica, così non ci pensai due volte ad accovacciarmi accanto a lui per avvolgergli la mia maglia attorno alla testa, legandola in modo che non dovesse respirare ulteriore gas. In quanto a me mi sarebbe bastato trattenere il respiro e ossigenarmi il meno possibile. Non mi ero arrischiato ad usare i suoi vestiti per timore che gli si scottasse la pelle, dato che la mia stava andando a fuoco e tirava in più punti, sulle spalle e sulle braccia soprattutto, ma dovevo resistere e cercavo di non pensarci troppo.
Lo trascinai per un’altra decina di centimetri, quando un rumore sinistro, come uno scricchiolio, ma molto più forte e inquietante, si fece udibile sopra le nostre teste, obbligandomi a guardare in alto per accertarmi di cosa si trattasse.
Impallidii quando vidi le travi del soffitto sfondare l’intonaco del muro e penzolare minacciosamente sopra di noi. Fu ciò che mi diede la spinta per sbrigarmi e fare più in fretta, dato il pericolo che esse rappresentavano. Potevano crollarci addosso da un momento all’altro e, se ci avessero beccati, non sarebbe finita affatto bene.
 
*Special*
«Pronto?».
«Pronto un cazzo! Quanto ti ci vuole per rispondere ad una chiamata?».
«Thatch, datti una calmata» fece Izou con voce irritata, infastidendomi ulteriormente. La situazione era delicata e non avevamo tempo da perdere. Soprattutto, se non mi fossi sbrigato, Marco sarebbe partito per andare da Ace senza di me. A quanto pareva il ragazzino aveva combinato qualche guaio.
«Stammi a sentire: io e il pennuto dobbiamo assentarci. Puoi passare alla caffetteria con Haruta fino al nostro ritorno, vero? Grazie!» lo liquidai, non dandogli nemmeno l’opportunità di scegliere.
«Ma cosa sta succedendo? Perché dovete andare via, scusa? E cosa ti fa pensare che io non abbia di meglio da fare oltre che ad ascoltare le tue sciocchezze?».
«Andiamo, Dolcezza, lo so benissimo che non aspetti altro che un mio messaggio o una mia chiamata. Non fare il difficile proprio oggi perché il ragazzino è nei pasticci».
«Ace? Cosa gli è successo?» chiese allarmato.
«Da quando lo chiami per nome? E perché per lui ti preoccupi sempre, quando invece io sto andando a compiere una missione suicida?» ribattei piccato, uscendo in strada e adocchiando l’auto di Marco che stava uscendo dal garage proprio in quel momento.
«Sei troppo presuntuoso, Tesoro» rispose l’altro con quel suo solito tono che ad orecchie sconosciute sarebbe risultato sarcastico, quando invece io sapevo benissimo che la malizia che celava non era affatto una mia immaginazione.
«Tra cinque minuti al bar con Haruta, poi stasera ci penserò io a te. Mi devi un appuntamento e non credere di poterti rinchiudere in camera come hai fatto ieri, perché stavolta sfonderò la porta!».
Chiusi la chiamata ed entrai in macchina sotto lo sguardo interrogativo di Marco, il quale mi chiesi che razza di intenzioni avevo. Com’era lento di comprendonio a volte, mica potevo lasciarlo andare in contro ai guai da solo. Ero pur sempre il fratello maggiore e migliore che aveva, io.
«Datti una mossa, testa d’ananas, i Supereroi non si devono far attendere».
*
 
 
 
Buon pomeriggiooo ^^
Non sto nemmeno qui a dirvi che domani pubblicherò con regolarità un altro capitolo, (anche se stavolta sarà vero perché ce l’ho già pronto o.O) perché mi devo vergognare per il ritardo e non posso fare altro che chiedervi umilmente perdono ^^
Allora, qui abbiamo Ace che finalmente è tornato a casa per salvare Rufy. La situazione non è delle migliori e loro stanno per fare la fine delle costolette allo spiedo, intendiamoci. Fortuna che Prima di lanciarsi in quell’impresa ha avvisato Marco, almeno ha qualcuno pronto per andarlo a salvare **
E Thatch. Tesoro, alla fine non sei ancora riuscito a sedurre Izou? Non disperarti, su, sono certa che ce la farai ^^ ho buone speranze!
Ora scappo, ma domani ci sarò ancora, stavolta è vero, verissimo :D
Un abbraccione a tutti e un grazie infinito :3
See ya,
Ace.

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Capitolo 49
*** Capitolo 49. Potresti venire da me. ***


Capitolo 49. Potresti venire da me.

 

«Doflamingo è un boss della malavita ricercato in tutto il mondo e anni fa ha ucciso la madre di Law sotto ai suoi occhi innocenti. All’epoca era ancora piccolo, ma abbastanza sveglio da andare a denunciare suo padre alla polizia. Inutile dire che quest’ultimo l’ha scoperto e ha deciso di vendicarsi. Ma aspetta, non gli è bastato perché adesso è uscito di prigione e vuole togliere di mezzo Trafalgar, capisci? E noi dobbiamo allontanarci dall’appartamento perché secondo lui non è sicuro. Io non ci credo tanto, ma stanno tutti dando di matto e sinceramente non ho ben capito la storia, insomma, è tutto un po’ nuov…».
«Ace, ti prego, calmati e ricomincia da capo».
«Cosa della frase ‘Law è in serio pericolo’ non ti è chiaro?».
«Ehm, tutto? Sul serio, Ace, devi calmarti. Del tuo discorso ho capito si e non tre parole!».
«Testa d’ananas» sbottò.
«Ragazzino, non farmelo ripetere» mormorai a denti stretti. A volte Ace doveva semplicemente fermarsi un secondo, prendere fiato e riordinare le idee. Glielo ripetevo spesso anche quando dava segno di volersi mettere a bisticciare con i clienti più duri di comprendonio, ma non mi ascoltava mai.
Lo sentii fare un respiro profondo, forse quella volta avrebbe fatto come gli avevo sempre consigliato, e mi ripeté brevemente, ma in modo più chiaro, la storia di quel genitore del suo coinquilino; del suo soggiorno in prigione e della sua vendetta pianificata in quegli anni, con l’unica differenza che nella lista di persone da uccidere appariva la parola tutti. Questo, in particolare, mi fece preoccupare, così gli chiesi se non fosse il caso di avvisare anche le forze dell’ordine. Mi stupii quando mi assicurò che l’avevano già fatto, o che l’avrebbero fatto di lì a breve, si corresse poi.
Stavo ascoltando attentamente il loro piano, quando Thatch entrò in cucina armato di vassoi e piatti da lavare, ficcandomeli in braccio e strappandomi letteralmente dalle mani il telefono con uno sguardo assatanato e per niente tranquillizzante. Non contento, poi, ignorando le mie proteste e gli insulti che avevo iniziato a rivolgergli, mi spinse fuori dalla stanza, chiudendo le porte a chiave e fissandomi dall’altro lato del vetro con un sorrisetto perturbante in volto.
Iniziò a parlare animatamente con Ace, gironzolando attorno al tavolo e passando accanto ai fornelli, agitando le braccia in tutte le direzioni e, dopo qualche minuto durante il quale non avevo smesso di bussare insistentemente alla porta, urlò entusiasta, trotterellando da me e lasciandomi finalmente entrare.
Mi riappropriai del telefono guardandolo in modo truce e chiedendomi per quale diavolo di motivo si fosse messo a tirare fuori dagli armadietti l’occorrente per impastare dei biscotti con stampini a forma di cuore. Quando chiesi a Ace per quale motivo quell’idiota stava cantando stonate canzoni d’amore, disegnando cuoricini persino sul ricettario, mi rispose dicendomi che, probabilmente, era diventato scemo. Oh no, lui scemo lo era sempre stato.
«Quindi adesso dove andrai a dormire?» gli chiesi, dopo essermi fatto illustrare la relazione ormai chiara come il sole tra il suo coinquilino e quel simpatico ragazzo inquietante con i capelli rossi. A quanto pareva il suo appartamento non era sicuro, quindi di certo lui e i suoi compagni avrebbero dovuto trovare una soluzione al più presto se le cose fossero andate per le lunghe.
«Uhm, penso da mio nonno» sbuffò scocciato. L’idea di ritornarsene a casa non lo allettava molto, soprattutto perché tra lui e suo nonno non correva buon sangue. Non che non si volessero bene, ma da quello che mi aveva raccontato i bisticci tra loro erano all’ordine del giorno. Secondo Ace il problema era sorto quando aveva deciso di non voler intraprendere la carriera poliziesca del vecchio, ma sperai che non avessero deciso di farsi la guerra per un motivo tanto sciocco e futile. Insomma, Ace era uno splendido ragazzo e le sue scelte poteva benissimo prenderle da solo, per quanto mi riguardava. Certo, non ero nessuno per dire la mia opinione, ma ero stato cresciuto da un uomo interessato solo al benessere e alla felicità dei propri figli, quindi il comportamento del moro mi sembrava logico e ragionevole.
Sapevo anche, però, che non aveva altre scelte e, volendogli evitare il malumore, gli feci una proposta azzardata ancora prima di rendermene conto.
«Potresti venire da me per qualche giorno».
Mi morsi un labbro mentre dall’altra parte ci fu il silenzio. «Davvero?» lo sentii sussurrare, «Cioè, me lo sta chiedendo sul serio?».
Iniziai ad agitarmi. D’accordo, forse avevo corso troppo, ma alla fine non mi sembrava una soluzione tanto brutta. «Beh, ecco, perché no? Insomma, non saresti così lontano dall’università e dal lavoro. E poi so cosa vuol dire abitare con i genitori e sottostare alle loro regole, ci sono passato anche io, quindi… Si, sul serio».
Ancora silenzio, stavolta più lungo, tanto che mi ritrovai a chiedermi se non fosse davvero una follia la mia idea di… Di cosa? Non gli stavo chiedendo di venire a vivere da me, solo di passare qualche notte… Qualche giorno a casa mia, almeno fino a che non avessero catturato quel delinquente a piede ibero. Ad ogni modo, però, Ace non sembrava essere del mio stesso parere, così sospirai, grattandomi distrattamente i capelli e ignorando l’occhiata perplessa che mi rivolse Thatch, il quale aveva appena realizzato quello che avevo effettivamente chiesto al ragazzo.
«Ace? Senti, se non ti va non devi…».
«S-se non disturbo» mi interruppe all’improvviso, facendomi boccheggiare e sorridere l’istante dopo come un idiota. Thatch, invece, si mise a disegnare uno schizzo di una torta di nozze.
Cambiai immediatamente discorso per evitare ripensamenti e per far smettere a quell’idiota di disegnare arcobaleni ovunque, quando Ace iniziò ad allarmarsi, blaterando assurdità.
«Marco devo tornare indietro!» fece tutto d’un fiato.
«Cosa?». Sperai che stesse scherzando. «Ace, non fare cazzate, mi hai appena detto che potrebbe essere pericoloso!».
«Non capisci, Rufy mi aveva avvisato che sarebbe passato da me questa mattina, marinando la scuola ed io me ne sono completamente dimenticato! Non posso rischiare, devo andarlo a prendere!» urlò in preda all’agitazione.
Sapevo che non sarei mai riuscito a convincerlo a non andare all’appartamento, ma provai comunque a chiedergli di raggiungermi per poterlo aiutare.
«Ace, almeno fammi venire con te!».
«Mi dispiace». E riattaccò.
Strinsi il cellulare tra le mani.
Stupido ragazzino.
 
*Special*
«Ace, porta immediatamente il tuo culo sfasciato qui, hai capito? Tu ed io abbiamo molte cose di cui parlare». I riferimenti allo stato in cui si trovava in quel momento il tanto elogiato culo di Ace non erano affatto e per niente puramente e del tutto casuali. Insomma, era un’offesa al mio sesto senso, infallibile quando mi trovavo ad avere a che fare con certe e determinate cose, ed ero sicuro che lui e il pennuto avessero compiuto grandi, enormi passi sotto le lenzuola. Il punto era che ancora non ne avevano fatto parola. Mi credevano forse uno stupido cieco? E poi, se volevamo essere pignoli, al loro primo risveglio avevo assistito pure io e la cucina non si era ridotta ad una discarica da sola. Li avevo praticamente colti con le mani nel pacco. No, volevo dire, nel sacco! Alle mie domande curiose e per niente maliziose potevano anche rispondere senza fare tanto i preziosi come Izou!
«Ehi? Mi hai sentito? Ti ho chiesto, per l’ennesima volta, com’è a letto quell’idiota! E non provare a cambiare discorso!». Ignorai le lamentele di Marco dall’altra parte della porta e riformulai la domanda, sperando in un risvolto positivo.
«Se te lo dico mi passi Marco?» mi chiese il ragazzino con un sospiro esasperato. Oh, finalmente si era deciso a parlare, alla buon ora.
«Affare fatto!».
Certo, certo, ti passo Marco, ma aspetta solo che abbia qualche notizia bollente tra le mani e lo saprà tutta la famiglia!
«Bene» asserì, facendo un respiro profondo e lasciandomi col cuore in ansia per qualche secondo. «Il miglior sesso della mia vita» esalò infine. Dopodiché il mio cervello si scollegò dalla realtà.
«Ace, si può sapere perché Thatch sta cantano canzoni d’amore, disegnando cuoricini sulla carta?» domandò il pennuto non appena gli riconsegnai il telefono, dandogli di nuovo accesso alla cucina.
All you need is love, na na na naaa! Devo dirlo a Izou, che lo dirà ad Haruta, che lo dirà a Vista che lo urlerà a tutti e che, alla fine, lo ripeteranno al babbo. Devo organizzare la prossima cena di famiglia!
*
 
 
 
Si, eccomi come avevo promesso ^^
Questa è la conversazione avvenuta tra Ace e Marco, quando il secondo viene a sapere cosa sta succedendo e scopre in anteprima che il suo adorato fiammiferino ha fatto marcia indietro per andare dritto in pasto alle fiamme. Bene, applausi, bravo, ma non se ne rimarrà certo con le mani n mano, figuriamoci.
E poi c’è Thatch che, tesoro, non può fare a meno di impicciasi negli affari degli altri, eh? Certo che no. Insomma, dopo tutte le risposte negative e i tentativi di sviare il discorso, doveva pur sapere come era andata la meravigliosa notte di… conoscenza tra i due, mi pare giusto.
Mi sto innamorando di lui sempre di più, voi no?
Anyway I have to go, again.
Ma non preoccupatevi, il prossimo capitolo è già pronto, ma arriverà sabato per evitare tutti i tipi di spoiler ^^
Un abbraccione e un grazie infinito a tutti come sempre, siete adorabili **
See ya,
Ace.

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Capitolo 50
*** Capitolo 50. Solo dormire. ***


Capitolo 50. Solo dormire.

 

Con Rufy sveglio sarebbe stato più facile, o magari avrei dovuto semplicemente aspettare che Marco mi raggiungesse, perché qualcosa in fondo all’anima mi diceva che era già per strada, sempre più vicino. Certo, avrei dovuto essere più razionale e meno impulsivo, ma il tempo stringeva e quando avevo deciso di fare marcia indietro la mia unica preoccupazione era stata rivolta a mio fratello, un comportamento normale, dopotutto.
Rufy era sempre stato una costante nella mia vita, anche durante l’adolescenza, quando litigavo animatamente con il mondo e mi cacciavo nei guai. Nonostante fossi scorbutico anche nei suoi confronti, lui mi sorrideva e aspettava che mi calmassi per poi saltellarmi intorno e irritarmi fino allo sfinimento con le sue idee, battute e giochi, ma facendomi tornare comunque il buonumore.
Mi ripeteva sempre che ero il suo idolo, il suo eroe, che da grande avrebbe voluto diventare esattamente come me e che, non appena gli si sarebbe presentata la possibilità, si sarebbe trasferito tra quelle quattro mura a farmi compagnia perché, a detta sua, i fratelli si sostenevano a vicenda e non si abbandonavano mai. Come avrei potuto, quindi, tardare il mio arrivo e non correre da lui per aiutarlo? Rufy non veniva secondo a nessuno e avrei fatto di tutto per salvarlo, anche rischiare la vita.
Fu quella ragione per la quale, quando una delle travi si spezzò a metà, cedendoci addosso, coprii il corpo di Rufy con il mio, sperando di riuscire ad attutire il colpo in qualsiasi modo e non preoccupandomi di lasciarmi scappare un urlo di dolore quando il legno pesante mi piombò sulla schiena, rendendomi persino insensibile per alcuni secondi. Il bruciore straziante che era seguito dopo a causa della ferita non era stato per niente piacevole ma, probabilmente grazie all’aiuto di qualche entità santa, ero riuscito ad alzarmi da terra, vertigini a parte, e a prendere in braccio un inerme Rufy, coprendo le distanze che mi separavano dalla porta con le ultime forze della disperazione che mi erano rimaste.
Uscendo nel corridoio che portava alle scale mi accorsi che non era solo il nostro piano a bruciare, ma anche quelli sotto, e sperai vivamente che tutti gli inquilini fossero giù usciti in strada perché, per quanto avessi voluto, non credevo di riuscire ad avere la determinazione di passare in rassegna tutti gli appartamenti per assicurarmi che non vi fosse rimasto nessuno.
Scesi gli scalini barcollando, sentendo il corrimano vibrare bruscamente e inciampando nei miei stessi passi finendo dritto contro il muro quando ormai avevo quasi raggiunto il piano terra. In quel momento un enorme boato irruppe nell’aria, facendo tremare i muri, le pareti e il pavimento, mentre un fumo denso scendeva dai piani superiori.
Respirando profondamente, evitando di lasciarmi impressionare dai rivoletti di sangue che mi colavano lungo il petto e le gambe, recuperai Rufy e, con un ultimo sforzo, me lo caricai sulle spalle, scendendo gli ultimi gradini e cercando di non cedere proprio quando eravamo giunti alla fine.
Il portone d’ingresso era aperto e la coltre di fumo usciva da esso, schiarendosi e mischiandosi alla polvere della strada. Potevo intravvedere persino il mondo all’esterno e il cielo terso con le nuvole gonfie di neve che non volevano saperne di lasciare spazio al bel tempo.
Uscii all’aperto muovendomi come un automa, non sentendo nemmeno più le braccia e le gambe, per quanto riguardava la schiena, invece, non osavo nemmeno immaginarmi le condizioni in cui era. A giudicare dalle fitte continue che mi facevano stringere i denti, doveva trattarsi di una bella ustione.
Avanzai di qualche altro passo, arrancando in mezzo alle macerie e alle fiamme, sentendo delle voci sempre più nitide e dei fischi piuttosto fastidiosi che catalogai più tardi come sirene delle volanti della polizia o delle ambulanze che scorsi a una decina di metri di lontananza. In poche parole tutto il quartiere era accorso a vedere cosa era successo e una folla di curiosi e vicini vociferava dietro a delle transenne improvvisate, mentre un camion del pompieri parcheggiato poco lontano dall’entrata pompava acqua a tutto spiano nel tentativo di domare l’incendio alle mie spalle.
Ero stanco morto e sfinito, ma non riuscivo a smettere di camminare. Dovevo essere certo di allontanarmi dal pericolo il più possibile per mettere in salvo la vita del mio fratellino e, finché non ci fossi riuscito, non avrei smesso di muovermi, neanche se mi fossi ritrovato a dover strisciare a terra.
Mi guardai attorno spaesato, cercando una faccia famigliare su cui poter fare affidamento e il mio cuore perse un battito quando mi parve di incrociare gli occhi chiari di Marco, sentendo una scossa lungo tutte le membra. Fu solo un mero istante, però, perché un paio di uomini con un camice bianco, probabilmente dottori, mi si pararono di fronte accompagnati da due volontari che riconobbi come due signori che vivevano in una delle casette al limitare della strada, i quali, con delicatezza e fermezza, mi tolsero il peso di Rufy di dosso, poggiandolo su una barella comparsa magicamente sotto ai miei occhi e iniziando a spingerlo verso le ambulanze dove, ne ero certo, lo avrebbero portato all’ospedale.
Sospirai sollevato, sentendomi incredibilmente leggero e in pace con me stesso. Rufy era fuori pericolo e nessun altro si era fatto male. Marco stava bene e non correva nessun tipo di rischio. Per fortuna, sarebbe stato un po’ complicato correre a salvare pure lui, anche perché era il doppio di mio fratello e trasportarlo in giro sarebbe stato un problema. Inoltre non ero sicuro di voler diventare un eroe. Insomma, non potevo avere occhi per tutti e l’unico su cui volevo posarli era proprio quella sottospecie di pennuto del quale non sapevo nulla. Stupidamente pensai che avrei dovuto chiamarlo e fargli sapere che era andato tutto bene, giusto qualche piccolo incidente di percorso. Insomma, non gli avrei spiegato tutta la faccenda, mica volevo farlo preoccupare troppo.
Mossi un passo in avanti, poi un altro, pensando a come sarebbe stato bello potermi buttare a letto e dormire, o mangiare anche. Mi venne persino voglia di una cioccolata calda e dei biscotti al cioccolato di Thatch, ma solo per un istante perché le palpebre si fecero improvvisamente pesanti e la testa iniziò a girare.
Quando capii che continuare a combattere contro quella spossatezza sarebbe stato inutile, smisi di opporre resistenza e lasciai che la forza alle gambe mi venisse meno, cadendo a terra e perendo conoscenza.
Volevo solo dormire. Solo dormire.
 
*Special*
Quel giorno sarebbe passato alla storia come il più ansioso, inquietante e epico di tutti.
Ancora non riuscivo a capacitarmi di quello che era successo quando eravamo arrivati sul posto nel tentativo di raggiungere il ragazzino.
Ritrovarci a fare a botte con i due delinquenti che avevano appiccato il fuoco all’appartamento non era di certo nei nostri piani e non li avremo conciati per le feste se solo ci avessero lasciati passare e raggiungere Ace. Invece avevano dovuto complicare tutto, sbarrandoci la strada e minacciandoci.
A dire la verità mi ero divertito un sacco a prenderli a calci nel culo assieme al pennuto. Era da tempo che io e lui non ci ritrovavamo in situazioni del genere. Che bei tempi erano stati quelli della nostra adolescenza, dei giovani scapestrati eravamo.
Il divertimento era durato solo fino a quando non mi ero permesso di abbassare la guardia, credendo di averne messo al tappeto uno. Il bastardo si era poi rialzato e mi aveva colpito alle spalle, rompendomi un braccio con una lamina in ferro che, probabilmente, aveva tenuto da parte per il suo gran finale. Non avrei voluto urlare per il dolore, ma mi era stato impossibile. Peccato che in quel modo avessi distratto Marco che, per venire in mio soccorso, si era beccato una pallottola su un fianco.
Mi sentivo così in colpa per quello che gli era successo e continuavo a pensare che se non fossi stato così sicuro di me stesso e così poco attento, probabilmente ora quei due non sarebbero riusciti a scappare, lasciandoci agonizzanti nelle mani dei soccorritori.
Marco aveva perso conoscenza dopo l’esplosione che c’era stata, ma solo per qualche tempo e, grazie al Cielo, aveva appena riaperto gli occhi.
Mi guardò spaesato, così lo rassicurai, ma voleva sapere di Ace e mi si straziò il cuore a quella domanda dato che non sapevo cosa rispondergli. L’appartamento era in fiamme e i pompieri non erano ancora riusciti ad entrare per recuperare i due ragazzi. Vedere mio fratello in quello stato pietoso, inoltre, mi faceva sentire malissimo.
Ad un tratto, però, ecco che tutto si ribaltò. Dalla porta d’ingresso intravidi in mezzo alla coltre di fumo la figura di quel pazzo, infantile, pestifero e dannatamente fortunato ragazzino. Uscì all’aperto con il piccolo Rufy sulle spalle svenuto e presto ricevette il soccorso di cui aveva bisogno. Non c’erano parole per descrivere quella scena: ace era stato un eroe in tutto e per tutto e Marco poteva anche perdere i sensi per quanto mi riguardava dato che tutto era andato per il meglio. Poco importava che entrambi fossero diretti all’ospedale a sirene spianate.
Dovrò stare attento, pensai durante il tragitto in ambulanza, d’ora in avanti quel mocciosetto sarà adulato da tutti. Meglio che con Izou concluda al più presto, altrimenti col cavolo che avrò una possibilità!
*
 
 
 
Oh si, oggi è sabato ed ecco come sono andate le cose ^^
Marco e Thatch si sono ritrovati impossibilitati a raggiungere Ace al terzo piano per colpa di due scagnozzi incaricati di mandare in fiamme l’appartamento in cui Law viveva con i suoi amici. Proprio quando Rufy aveva deciso di andare a trovare il fratello. Signore Santo, quante sfighe gli toccano.
Al povero Thatch hanno rotto un braccio e a marco, beh, hanno sparato alle spalle. Un po’ come accade a Marineford, quando Kizaru lo colpisce dopo che qualcuno gli ha messo le manette di agalmatolite. Il mio cuore è collassato in quel momento. Povera me ;___________;
ad ogni modo Ace si è salvato, Rufy compreso, quindi… festa ^^
non so dirvi quando maaaa…
presto, molto presto arriverà il tanto atteso incontro con la bellissima ed enorme famiglia di Barbabianca! **
Coming soon.
Un abbraccione e un grazie infinito a tutti!
See ya,
Ace.

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Capitolo 51
*** Capitolo 51. Non chiedevo altro. ***


Capitolo 51. Non chiedevo altro.

 

Le espressioni facciali di Thatch e Rufy in quel momento erano un qualcosa di indescrivibile. Erano passate appena ventiquattro ore da quando Ace era uscito dalla sala operatoria fasciato dalla testa ai piedi e loro non avevano lasciato la stanza se non per strettissima necessità. Io, sicuramente, non avevo intenzione di farlo, e, grazie all’influenza del babbo ero riuscito ad ottenere il permesso di avere una stanza accanto alla sua in modo da non dovermi allontanare troppo e perdermi nei meandri dell’ospedale in cui eravamo tutti ricoverati. Essere il figlio del sindaco aveva i suoi vantaggi, dopotutto.
«Che fai, ti arrendi?».
Thatch, c’era poco da fare, a giocare a carte era il migliore. Lo conoscevo da una vita e ancora non ero riuscito a scoprire il suo trucchetto. Lui vinceva sempre e comunque. Se la situazione si metteva male faceva un’alzata di spalle e sorrideva furbesco, ribaltando il risultato proprio alla fine e fottendo tutti. Inutile dire che non era mai una buona idea giocare a strip poker quando c’era lui nei paraggi, ma quello Rufy non lo sapeva ed ero stato messo a tacere ancora prima di poterlo avvisare.
«Mai!» ribatté a quel punto il più piccolo, riducendo gli occhi a una fessura e stringendo le labbra per concentrarsi, osservando le carte che aveva in mano e decidendo se fidarsi o meno. Una mossa sbagliata e la sua camicia del pigiama sarebbe finita a fare compagnia ai calzini e ai pantaloni.
Non ero sicuro che fosse una buona idea quella di permettere a un adulto di corrompere l’animo ancora innocente e ingenuo di Rufy, ma avevo le mani legate e la bocca cucita dato che quel presunto adulto mi aveva minacciato di far vedere la famosa foto di me e Ace in cucina avvinghiati e impegnati a copulare. Ovviamente avevo cercato di fargli capire più volte che non stavamo facendo nulla, ma non ne voleva sapere e la foto bastava e avanzava per incriminarmi e far sorgere dubbi e domande nella mente di Rufy, così lo avevo lasciato fare, sperando di non dovermene pentire.
Sul volto di Thatch apparve un sorrisetto per niente rassicurante e una scintilla illuminò i suoi occhi malandrini mentre, con finta educazione, faceva cenno al ragazzino seduto davanti a lui e dall’altra parte del letto di fare la sua mossa, aspettando il momento giusto per metterlo nel sacco.
«Mhm» fece Rufy pensieroso, «Io ho queste, cosa significa?».
Allungando il collo per dare un’occhiata e assicurarmi che mio fratello non imbrogliasse dicendogli di avere una mano sfortunata, notai con sorpresa che aveva delle buone carte in mano.
«Ma che diavolo!» sbottò il castano, gettando malamente le sue carte sul letto sopra al lenzuolo che copriva il corpo addormentato e sedato di Ace, mettendosi a camminare furiosamente per la stanza e sbuffando come una locomotiva. Certo non doveva essere facile per lui accettare la sconfitta dato che, per la prima volta in vita sua, aveva trovato un degno rivale che, senza conoscere bene le regole del gioco, l’aveva appena lasciato in mutande.
Trattenni a stento una risata e, quando Rufy si voltò a guardarmi in cerca di risposte a quelle sceneggiata, alzai il pollice nella sua direzione facendogli capire che si, aveva vinto lui e non quel montato dai capelli cotonati.
«Ho vinto io! Thatch, ti ho battuto, hai perso!» trillò entusiasta, alzandosi in piedi sulla sedia e rivolgendo le braccia verso il soffitto in segno di vittoria, cosa che non piacque per niente all’altro ragazzo che, fulminandolo con lo sguardo e digrignando i denti, scavalcava il lettino dell’ospedale, rischiando di rovesciare persino il paziente, per raggiungere Rufy con l’intento di afferrarlo e dargliene di santa ragione per quell’affronto.
Ovviamente il ragazzino non rimase fermo ad accettare la brutta sorte che si prospettava per lui e saltò giù per poi corrermi incontro e nascondersi dietro di me, tra la sedia e il muro alle sue spalle.
«Marco levati dalle palle, lui ed io abbiamo un conto in sospeso!» affermò Thatch, avanzando verso di noi e arrotolandosi le maniche del pigiama lungo i gomiti per enfatizzare le sue intenzioni poco delicate e cordiali.
Quante storie per una partita a carte, e allora cosa doveva dire Vista che era rimasto al verde un sacco di volte giocando contro di lui?
Sospirando e richiudendo il libro che mi ero messo a leggere mi massaggiai le tempie, sperando in un intervento divino per mettere fine a quel momento assurdo.
Era passato solo un giorno e già non ne potevo più della loro costante compagnia. A dire la verità Rufy non era un problema, anzi, era un ragazzino vivace, ma quando voleva sapeva essere responsabile e serio, esattamente come il fratello e non mi sarebbe dispiaciuto passare le giornate ad aspettare il risveglio di Ace con lui, assolutamente, non fosse stato per la presenza di Thatch che, essendo una mina vagante, non perdeva occasione per coinvolgere il minore in una serie di giochi, sfide e scemenze varie, facendo baccano e urtando il mio sistema nervoso.
Volevo solo restare in pace e attendere che Ace aprisse gli occhi. Non chiedevo altro.
«Thatch, piantala» dissi calmo, sentendo dietro di me le risate trattenute di Rufy.
«Cosa? Questo moccioso mi ha battuto! Se gli altri lo vengono sapere la mia reputazione va a putt…».
«Thatch, contieniti» mormorai, guardandolo storto e bloccandolo prima che facesse uso di termini troppo volgari. Non sapevo quanto fosse abituato Rufy a quel genere di vocabolario, ma nel dubbio era meglio tenerlo all’oscuro di certi comportamenti, per quello non ero tranquillo sapendolo assieme a quello scapestrato di trent’anni suonati.
«Oh, non preoccupatevi, sono abituato a sentire di peggio. Non avete idea di come siano le litigate tra Eustachio e Traffy».
Oh, certo, come dimenticarli, pensai con un ghigno sulle labbra, ricordando il coinquilino di Ace e il suo strambo amico dai capelli rossi. Una volta mi aveva raccontato delle loro continue baruffe e si, dovevo ammettere che gli insulti che non esistevano se li inventavano loro.
«Ecco, quindi non si impressionerà di certo se gli racconto di quella volta in cui…».
«Thatch».
«Oh, andiamo! Prima o poi qualcuno dovrà pur iniziarlo a…».
«Si, ma preferisco poi! Ora piantatela tutti e due e andate a prendervi qualcosa da mangiare. Ecco qualche spicciolo».
Bastò nominare la parola mangiare e Rufy era già fuori dalla porta, saltellando sul posto in attesa di Thatch che, una volta uscito, gli passò una mano attorno alle spalle per stringerlo a sé e iniziare a parlargli fitto fitto di cose di dubbia moralità.
Scuotendo il capo esasperato mi avvicinai al letto per poi sedermi sul bordo e spostare una ciocca di capelli dal viso rilassato e pieno di cerotti di Ace.
Mi abbassai fino a sfiorargli il naso con il mio. «Tranquillo, io sono qui e non me ne vado».
 
 
 
 
Lo so, lo so, sono in un TREMENDO ritardo, ma ho intenzione di rimettermi in carreggiata e di non abbandonarvi più. Allora, tutti all’ospedale in attesa del risveglio di Ace che arriverà a brevissimo, davvero, con al seguito il fatidico incontro con la DOLCE famiglia di Marco :3
Sto già morendo al solo pensiero.
Beh, io ho cercato anche la faccia inquietante di Thatch per farmi perdonare, LOL:
http://cdn.myanimelist.net/images/characters/11/100260.jpg
Anyway, scusatemi ancora e grazie per aver pazientato e non aver deciso di scannarmi viva, siete adorabili tutti :3
Un abbraccio grande e grazie sempre a tutti!
See ya,
Ace.

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Capitolo 52
*** Capitolo 52. O. Mio. Dio. ***


Capitolo 52. O. Mio. Dio.

 

Quel pomeriggio Rufy e io avevamo approfittato della momentanea e miracolosa assenza di Thatch per stare tranquilli in attesa del risveglio del suo scapestrato fratello. In poco tempo il piccoletto era crollato addormentato, mentre io cercavo di tenere gli occhi aperti e la mente concentrata sul libro che stavo leggendo. Il mio intento, però, andò ben presto a farsi benedire dato che, senza rendermene conto, mi appisolai col busto appoggiato al tavolo.
Avrei sicuramente continuato a dormire se non fosse stato per il libro che, scivolatomi dalle mani, cadde a terra con un tonfo leggero, ma che mi ridestò ugualmente dal mio sonno, facendomi sbattere le palpebre più volte per liberarmi da quel torpore che mi aveva aggredito.
Fu quando mi chinai per raccogliere il volume che il mio sguardo cadde, per abitudine, sul letto dove riposava Ace, incontrando così un paio di occhi neri, svegli e, soprattutto, aperti.
«Uh, Ace?».
O stavo sognando, o Ace si era appena svegliato dal coma indotto dai farmaci.
«M-marco» balbettò lui in imbarazzo, accendendo in me una fiamma di felicità, gioia e qualcos’altro che non rimasi a identificare tanto ero contento della sorpresa e incredulo.
«Ace…». Ero così sollevato dalla novità che non sapevo nemmeno cosa dire e per un istante dimenticai il casino che era successo, persino il suo comportamento avventato, testardo e sciocco.
«Marco» ripeté lui, accennando ad un debole sorriso che, per poco, non cancellò i ricordi dei giorni precedenti e della paura che avevo avuto di perderlo. Se solo quell’idiota mi avesse aspettato non avremo rischiato così tanto tutti quanti. Dannazione, se ci ripensavo mi sentivo ancora arrabbiato e inutile, inutile perché aveva preferito fare tutto di testa sua quando Thatch e io non lo avremo mai abbandonato. Insomma, faceva parte della famiglia ormai, faceva parte della mia vita.
L’espressione preoccupata che assunse probabilmente fu solo l’effetto dovuto all’urlo arrabbiato che cacciai l’istante successivo.
«ACE!» ruggii, scattando in piedi e dirigendomi a grandi falcate verso il letto con l’intento di rispedirlo in coma.
«Eh? Che cosa? Ace? Ace! Fratellone!».
Peccato però che in quel modo svegliai anche Rufy.
Piombammo entrambi e nello stesso istante addosso a Ace, soffocandolo col nostro peso e abbracciandolo, accarezzandolo e aggrappandoci a lui nel tentativo di assicurarci che tutto ciò fosse vero, anche se ero molto tentato di tirargli un ceffone e riempirlo di pugni per lo spavento che ci aveva fatto prendere. Le molle del materasso protestarono un poco, ma non ci badammo.
«Ace, brutto idiota!» dissi tra i denti, fulminandolo con lo sguardo, inginocchiato sul letto a pochi centimetri da lui e intento ad arruffargli i capelli. Ero davvero incazzato, offeso, carico di preoccupazione, ma maledettamente felice che tutto fosse andato per il meglio, solo che non volevo dargliela vinta così facilmente, doveva pur capire la cazzata che aveva combinato col suo comportamento da eroe.
Rufy intanto rideva ed era al settimo cielo e, nel giro di pochi minuti, dopo che il fratello gli ebbe assicurato di stare bene e di non sentirsi male, schizzò fuori dalla stanza, diretto in sala d’attesa per avvisare tutti e chiamare il resto dei ragazzi che stavano aspettando di avere notizie dei feriti.
Solo allora Ace si decise ad affrontarmi, voltandosi a guardarmi timidamente e scrutando il mio cipiglio serio alla ricerca di un barlume di bontà che, però, non gli avrei concesso.
Si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso spensierato. «Ehilà» improvvisò, con finta allegria, facendomi impallidire davanti a quell’affermazione. L’avrei disintegrato, se solo avessi potuto. Come poteva saltarsene fuori con così tanta semplicità quando fino a poco prima aveva rischiato di non svegliarsi più? Perché, nonostante il coma indotto, i medici erano stati chiari sulla sua condizione: Ace avrebbe potuto benissimo non svegliarsi più.
Senza rendermene conto, animato da un attacco di rabbia, il mio braccio saettò verso di lui con l’intenzione di colpirlo forte, ma mi fermai nel bel mezzo dell’azione per qualche fortuito miracolo, stringendo il pugno e portandolo alle labbra per mordermi le nocche nel tentativo di calmarmi.
«Hai almeno la vaga idea di quello che abbiamo passato, Ace?» gli domandai glaciale e scandendo lentamente le parole una ad una, fissandolo torvo e tanto intensamente da fargli abbassare il capo dispiaciuto. Nonostante ciò continuai: «Riesci ad immaginare come ci siamo sentiti?». La mia voce si alzò di qualche tono. «Ti abbiamo creduto morto, razza di incosciente! E non ti descrivo nemmeno la faccia di tuo fratello in questi giorni, era distrutto. Non faceva altro che colpevolizzarsi e pregare che aprissi gli occhi. Abbiamo passato tre giorni orribili per la tua testardaggine. Io…».
Ero disperato, avrei voluto dire, invece mi fermai,  mordendomi un labbro e stringendo i pugni lungo i fianchi, «Tutti noi non sapevamo più cosa fare».
«I-io non volevo che vi preoccupaste» sussurrò sommessamente, «Ma cos’altro avrei potuto fare? Rufy era in pericolo e non potevo lasciarlo da solo!».
Tirai un pugno al materasso non riuscendo a trattenermi. «Lo so, dannazione! Lo so e avrei fatto lo stesso per la mia famiglia, ma avresti potuto permettermi di aiutarti. Thatch e io non ti avremo di certo abbandonato. Cosa ti passava per la testa?». Avrei continuato a riempirlo di parole dure e insulti se non si fosse fatto serio tutto d’un tratto, indurendo l’espressione. Seguii la traiettoria del suo sguardo e mi accorsi che si stava concentrando sulle garze e sulla fasciatura che mi avevano applicato i medici per coprire i punti che avevano messo quando mi avevano ricucito la ferita d’arma da fuoco.
«Cosa ti è successo? Sei pieno di bende e indossi un camice dell’ospedale» mormorò, rasentando l’isterismo, «Perché?».
Vedendolo così preoccupato capii che arrabbiarmi con lui non avrebbe portato a niente. Alla fine era tutto passato e finalmente si era svegliato. Potevamo quindi rilassarci e passare il resto della nostra vita… insomma, andava tutto bene, finalmente.
«Solidarietà» scherzai con un’alzata di spalle, sminuendo l’importanza della mia condizione, «Ho lottato per ciò a cui tengo» aggiunsi subito dopo, avvicinandomi per affondare dolcemente una mano fra i suoi capelli disastrati e ribelli, scompigliandoli e poggiando la fronte contro la sua, «Come hai fatto tu». E così, alla fine, sorrisi allegramente.
Fu adorabile il sorriso che seguì il mio sulle labbra di Ace, labbra che mie erano mancate così tanto! Pensai distrattamente che dovevamo rimediare a tutto quel tempo perso e nel farlo mi abbassai per sfiorargli il naso con il mio, avvicinandomi sempre di più fino a che non arrivai a premere la mia bocca sulla sua in un bacio lento e dolce. Bacio al quale ne seguirono altri. Le mani iniziarono a vagare sulla stoffa dei nostri pigiami e quasi scoppiai a ridere quando Ace mi afferrò il camice con l’intento di strattonarmelo via. Non c’era che dire, era proprio un ragazzino.
«Toh guarda» fece alle nostre spalle una voce troppo famigliare che immobilizzò entrambi, obbligandoci a voltare la testa di scatto verso l’entrata della stanza. Quando riconobbi la figura che accompagnava Thatch, però, mi sentii gelare.
O. Mio. Dio.
Il castano, sogghignando sadico, continuò. «Questo si che vale un braccio rotto. Tu che ne pensi, babbo?».
Ace sbiancò e divenne pallido come il lenzuolo che gli copriva le gambe, lenzuolo che afferrò come se fosse stato la sua unica ancora di salvezza e, stupidamente, si nascose sotto ad esso, mentre io facevo un respiro profondo per calmare l’istinto omicida che mi stava salendo nei confronti di quel mio presunto fratello.
«E così» tuonò il babbo lisciandosi i baffi e sorridendo in un modo che gli sconosciuti avrebbero definito inquietante, ma che per noi figli suoi era semplicemente divertito e carico di affetto, «Tu saresti il ragazzetto di cui ho tanto sentito parlare ultimamente?».
Da sotto le coperte non provenne risposta, tanto che temetti che Thatch avesse appena contribuito a togliere di mezzo il mio ragazzo facendogli venire un infarto.
«Ace? Ehi, Ace, meglio se vieni fuori» sussurrai, non allontanandomi comunque di un centimetro da lui e rimanendogli seduto accanto per infondergli coraggio.
Lentamente la testa corvina del ragazzo sbucò da sotto le coltri in un groviglio di flebo e tubicini di plastica, il respiro accelerato e gli occhi spalancati, attenti e un po’ nervosi. Mi lanciò un’occhiata breve e veloce prima di fissarsi su quello che per lui non era altro che il sindaco della città, studiandolo e lasciandosi a sua volta studiare e, deglutendo a fatica, si passò la lingua sulle labbra per poi rivolgersi all’uomo come solo lui sapeva fare.
«Beh, che hai da fissare, vecchio?».
Se Thatch si piegò in due in preda a risa isteriche io mi pietrificai ancora di più. Un’uscita del genere avrei dovuto aspettarmela, ma non fu così tragico come mi ero aspettato, anzi, infatti Edward Newgate non fece altro che deliziarci di una risata cavernosa, lasciando Ace di sasso e a bocca aperta.
«Ma che ha?» mi chiese allibito, rivolgendosi direttamente a me e ricevendo in cambio un’alzata di spalle con cui volevo fargli capire che non doveva stupirsi più di tanto. La mia famiglia era doppiamente più assurda e bizzarra della sua, ne ero certo.
Quanto fosse clemente e disposto a scendere a patti con la nostra relazione il nonno di Ace, però, non lo sapevo, e, quando fece irruzione nella stanza pure lui con il piccolo Rufy attaccato alle sue gambe, la voglia di sotterrarmi sotto alle lenzuola venne anche a me.
 
*Special*
Oh, che meraviglia, il futuro suocero di Ace e il futuro suocero della testa d’ananas nella stessa stanza e allo stesso momento, non potevo chiedere di meglio! Credo che al matrimonio, durante il mio indimenticabile discorso, racconterò anche questo! E aspetta che lo sappiano gli altri! Ah, si perdono sempre le scene più esilaranti, poveri sfigati.
Uscii dalla camera del ragazzino con l’intento di lasciare lui e mio fratello nella merda fino al collo, sistemando distrattamente il braccio ingessato sul fazzolettone che mi ero legato al collo in modo da tenerlo fermo contro il torace ed evitare di muoverlo o apportare danni. Anche io avevo una ferita di guerra da esibire e la cosa mi riempiva di orgoglio. Chissà, magari avrei potuto fare colpo sfruttando quell’aspetto.
Riflettendo su tutto ciò mi fu impossibile non pensare a Izou. Quel bastardo in tre giorni non si era mai fatto vivo, mentre il babbo e gli altri avevano praticamente fatto un sacco di viaggi da casa all’ospedale per vederci e sapere di noi. Pazienza che mi avesse evitato, ma almeno informarsi sulla salute di Marco che, per quanto idiota e simile a un pennuto, aveva rischiato grosso.
Sbuffai e calciai un bicchiere di plastica caduto fuori da un cestino nei pressi delle macchinette. Odiavo essere di malumore, ma quella situazione mi aveva davvero ferito. Dopotutto, cosa avevo fatto di male? Mi ero preso una cotta per uno dei miei fratelli, e allora? Andiamo, come si poteva restargli indifferenti? Era così intelligente, educato e, d’accordo, un po’ fissato con l’estetica, ma chi non aveva qualche problema esistenziale nella nostra famiglia? E poi era sempre così attento a tutto, calcolava ogni cosa, studiava le persone fissandole da capo a piedi e, Dio!, come mi guardava lui non mi guardava nessuno. Mi ribolliva il sangue ogni volta.
Probabilmente avevo sbagliato io a comportarmi da latin lover tutti quegli anni ma, ehi, non potevo farci nulla se ero il più sexy tra i miei fratelli.
Eppure avevo davvero sperato di vederlo preoccupato, almeno un pochino, per la mia condizione.
Alle macchinette avevo finito per prendere una bottiglietta d’acqua, tanto per distrarmi, e quando capii che non avevo più niente da fare ritornai sui miei passi, cercando di non abbattermi e ideando un modo per far morire ulteriormente di vergogna Marco e il suo moccioso dal bel fondoschiena.
«THATCH!». Un urlo isterico mi bloccò quando ormai avevo raggiunto la loro stanza. Mi voltai lentamente con i brividi lungo la schiena. Quando quella voce mi chiamava con quel tono voleva dire che stava per scatenarsi l’Apocalisse.
In fondo al corridoio avanzava una figura snella e determinata con una chioma corvina raccolta in un’acconciatura veloce e fatta in fretta dalla quale ricadevano alcune ciocche ribelli, ma poco sembrava importarle, dato che la suddetta persona sembrava tutt’altro che interessata al suo aspetto. Piuttosto mi preoccupava lo sguardo di fuoco che mi stava rivolgendo come se avesse voluto incenerirmi sul posto e all’istante.
«Izou» lo salutai, alzando il braccio buono e fingendomi tranquillo, «Come te la pass…».
Mi afferrò con le sue piccole manine bianche il bavero della camicia del pigiama, strattonandolo e facendomi notare con stupore che, anche se era smilzo, di forza ne aveva tanta, abbastanza da prendermi pure a pugni. «Brutto idiota!» mi urlò in faccia, «Dove cazzo lo tenevi il cellulare quando ti chiamavo, eh? Cos’era, non volevi parlarmi? Vedevi il mio numero e mi ignoravi? Ti prego dimmelo prima che ti disintegri la faccia da stronzo che hai!».
Allibito, sorpreso e confuso, cercai con calma di fargli allentare la presa, cosa che mi risultò impossibile dato che avevo solo un braccio sano, ma almeno ebbi modo di rispondergli, anche se a molto non servì.
«Ma che diavolo stai dicendo? Il telefono? Non lo so, devo averlo perso» mormorai, rendendomi conto solo allora che, in effetti, ero sprovvisto di un cellulare dal giorno dell’incidente, peccato che questo mi fece venire in mente che avrebbe anche potuto scomodare il suo bel culetto e venire a salutarmi di persona, il signorino sclerato.
«Comunque avresti anche potuto passare per un saluto, sai? Non chiedevo molto, ma un po’ di finto interesse, dato che di attenzioni vere e proprie non vuoi saperne di darmene» chiarii piccato, rispondendo alla sua occhiataccia con altrettanto astio rinnovato.
I suoi occhi si ingrandirono e le sopracciglia sottili saettarono verso l’alto mentre la bocca si apriva per lo stupore. «Cioè, mi stai dicendo che tu non lo sapevi?».
«Sapevo cosa?».
«Non sono potuto andare al bar con Haruta tre giorni fa, ti ho anche lasciato dei messaggi» spiegò, mantenendo ugualmente salda la presa. Ero un po’ scomodo perché dovevo piegarmi con il busto verso di lui vista la differenza d’altezza, ma andava bene lo stesso. «A lavoro mi avevano anticipato un meeting all’ultimo minuto e sono dovuto partire. Sono tornato solo stamattina».
Quello spiegava la sua ingiustificata e fraintesa assenza.
Ci guardammo in silenzio per qualche attimo, quando alla fine sul mio viso apparve il solito sorrisetto malandrino che tanto detestava. Non si lasciò contagiare, però, e riprese, a sbraitarmi contro, strattonandomi avanti e indietro.
«Avresti potuto chiedere, cretino! O farmi avere tue notizie, chiamare, mandare uno stramaledetto messaggio in qualche modo, anche tramite gli altri! Stupido, bastardo, -uno strattone a destra- infantile, -poi a sinistra- fuori di testa. Ti odio e vaffanculo!» concluse senza fiato.
«Hai finito?» gli chiesi con sarcasmo, impassibile a quella scenata da drogato tipica di lui. Ne faceva una almeno tre volte al giorno quando andava bene ed era di buon umore.
«No!» ringhiò.
«Oh, andiamo, chiudi il becco» dissi esasperato, alzando gli occhi al cielo e approfittando della vicinanza per abbracciarlo e stringermelo contro forte con il braccio buono. «Non volevo farti preoccupare».
«Figurati, sai quanto mi interessa» borbottò contro il mio petto, colpendomi con dei leggeri pugnetti per evidenziare la sua scarsa e finta rabbia.
«Certo Izou, non hai appena fatto una scenata da ragazzina innamorata, tranquillo» sfottei con un ghigno e godendomi l’indignazione sul suo volto.
«Non crederai mica che…».
«Ormai ti ho in pugno, Dolcezza».
*
 
 
 
 
 
Saaalve gente :3 avete visto che sono qua anche oggi? O tutto o niente insomma, LOL.
Come promesso ecco qua l’arrivo tanto atteso di Barbabianca! Non ho potuto fare a meno di buttarci in mezzo anche Garp, insomma, è un qualcosa di troppo epico *O*
Poveri i due ragazzi, io non vorrei essere al loro posto, anche se ho intenzione di metterli ancora più in imbarazzo prossimamente, oh si :D
E Thatch? Tesoro, dovrei fare una fan fiction solo per lui perché è un qualcosa di fantastico!
Beh, lo Special oggi lo dedico a qualcuno in particolare a cui piace tanto la coppia ThatchIzou, quindi spero che la scena ti sia piaciuta, Jeta :3
Bene, spero che il capitolo vi sia piaciuto, da qui in poi ci sarà solo il buonumore, quindi state allegri :D
Un abbraccione grande e un grazie infinito a tutti!
See ya,
Ace.

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Capitolo 53
*** Capitolo 53. Consuoceri. ***


Capitolo 53. Consuoceri.

 

Quello che stava accadendo non era reale, non poteva esserlo. Andiamo, chi mai avrebbe potuto essere tanto sfigato da ritrovarsi nella stessa stanza e nello stesso istante con il nonno isterico e pazzo, nonché unico tutore, e il padre adottivo del fidanzato, nientemeno che il sindaco del paese? Era praticamente impossibile, una storia da barzelletta. E invece no, figuriamoci se a me, lo sfigato per eccellenza, non doveva capitare una situazione simile. Tutta colpa di Thatch, ne ero certo, il quale, dopo averla combinata, se ne era andato in fretta e furia come se nulla fosse accaduto e lasciando suo fratello e me nei guai. Quel bastardo sapeva che Marco sarebbe stato ad aspettare il mio risveglio e aveva quindi deciso di tentare la sorte e portare il suo adorato ed enorme babbo a farmi visita. Che pensiero gentile! Oltre a quello, Rufy, ovviamente, aveva scelto il momento migliore per trascinare nella mia stanza il vecchiaccio, facendo si che i due uomini si incontrassero nel momento esatto in cui la loro prole si stava scambiando effusioni amorose.
Marco, accanto a me, era schizzato in piedi per mettere almeno un metro di distanza tra me e lui dopo l’occhiata torva ricevuta da nonno Garp e, schiarendosi la voce e sistemandosi la maglia per rendersi almeno un po’ presentabile, aveva coraggiosamente fatto qualche passo nella sua direzione porgendogli la mano. Una tacita speranza di pace, ecco.
«Marco Newgate» fece, raddrizzando le spalle e mostrandosi educato e rispettoso, «Molto piacere di conoscerla, Signore».
Nonno Garp, che era rimasto a bocca aperta come un fesso, no, come un pesce fino ad allora davanti a suo nipote, avvinghiato su un letto d’ospedale con uno sconosciuto, e alla presenza del famoso Edward Newgate, uomo che sapevo stimava moltissimo, sembrò tentennare davanti a quelle buone maniere con cui Marco gli si avvicinò, quasi con riverenza. Certo, ero certissimo che lui ci sapeva fare con le persone, ma non riuscivo a tranquillizzarmi perché conoscevo anche troppo bene il carattere burbero e mite del vecchio e temevo che avrebbe dato di matto di li a qualche secondo.
Solo quando, con riluttanza e un cipiglio poco convinto, strinse controvoglia la mano al biondo mi permisi di rilassare un pochino le spalle, smettendo di sbranarmi il labbro inferiore per il nervoso. Alle sue spalle, la testa di Rufy fece capolino e mi regalò un sorriso enorme prima di alzare il pollice come a volermi dire che il peggio era passato. Non ne ero così convinto come lui, ma sperai con tutte le mie forze che avesse ragione.
Quando però il nonno posò i suoi occhi scuri su di me, potei chiaramente capire che la mia vita non sarebbe durata molto a lungo e le bugie e le scuse campate per aria non mi sarebbero servite proprio a niente.
«Sciagurato nipote!» tuonò infatti, alzando i pugni verso il soffitto e coprendo con pochi passi la distanza che lo separava dal mio letto per poi chinarsi su di me con tutta la sua stazza.
Sono morto, sono morto, sono morto.
«Mi hai fatto preoccupare, disgraziato!». Contrariamente a quello che mi ero aspettato, non mi arrivò nessun manrovescio da capogiro, anzi, mi ritrovai stretto e quasi soffocato dalla morsa potente e ferrea dell’ex marine che, blaterando improperi e insulti rivolti alla mia persona e alla mia indole incorreggibile, mi stringeva a sé quasi con affetto e sollievo. Fu così incredibile che, senza rendermene conto, mi ritrovai a picchiettargli gentilmente la schiena con una mano, pregandolo di calmarsi perché c’era gente che ci osservava.
Non appena la sua crisi di mezza età gli fu passata si ricordò di graziarmi di un violento scappellotto sulla nuca che mi fece sbattere il naso contro le mie ginocchia piegate, ma Dio volle che si fermò a quello senza andare oltre perché Rufy ne stava combinando una delle sue importunando il Signor Barbabianca.
«Così tu sei il papà di Marco?» gli chiese, mentre l’omone lo guardava dall’alto, sorridendogli apertamente con divertimento.
«Esatto, moccioso, e tu chi saresti?».
Rufy gonfiò il petto con smisurato orgoglio. «Sono il fratellino di Ace» affermò, alzando il mento con fare altezzoso, come se il suo grado di parentela con me fosse stato un qualcosa di cui andare fieri. Tutto ciò, anche se non lo diedi a vedere, mi provocò un piacere immenso e un senso di fratellanza verso di lui che per poco non mi costrinse a correre ad abbracciarlo.
«Devi essergli molto affezionato» notò Newgate con interesse.
«Oh si, Ace è il mio eroe! Lui è forte e coraggioso e non ha paura di niente!».
Rufy, pensai sorridendo e massaggiandomi il collo indolenzito per l’abbraccio del vecchio, anche io ti voglio bene.
«Mi fa piacere, non sono molti i ragazzi così al giorno d’oggi».
«Infatti, ma non ti devi preoccupare, Marco ha trovato il migliore con cui stare».
Ma che diavolo! «Rufy!» sbottai. Possibile che non riuscisse mai a tenere a freno la lingua?
Il piccoletto si voltò a guardarmi con aria interrogativa e, stringendosi nelle spalle, mi chiese che cosa avesse mai detto di sbagliato. «Tanto lo so come stanno le cose, me l’ha spiegato prima Thatch. Ha detto:’Piccoletto, i nostri due fratelli se la filano alla grande -non ho ben capito cosa intendesse- e presto si sposeranno e andranno a vivere assieme nell’appartamento di Marco dove ogni notte…’».
«Rufy perché non vai a prenderti qualcosa da mangiare?» intervenne Marco, tappandogli la bocca al momento più propizio e spedendo il ragazzo che avrei ucciso con le mie stesse mani fuori dalla stanza. Prima di lui, però, avrei sicuramente evirato Thatch, poco ma sicuro.
Una volta tolto di mezzo quell’impiastro calò il silenzio tra quelle quattro mura ed io dovetti di nuovo affrontare un’occhiataccia incendiaria da parte di Garp, il quale, probabilmente, non ci aveva messo poco a fare due più due con gli elementi a sua disposizione e a trarre le giuste conclusioni sul tipo di rapporto che legava me e il figlio di Newgate.
«Allora, hai intenzione di spiegarti o preferisci che ti cavi le parole di bocca?» grugnì all’improvviso, incrociando le braccia al petto con aria minacciosa e facendomi sudare freddo.
«Ehm, ecco io…». Lanciai uno sguardo preoccupato a Marco che, incurante dell’irascibilità del vecchio, era ritornato al suo posto iniziale, ovvero accanto a me. «Insomma, c’è stato un incendio e…».
«Non parlo di quella storia, Rufy me l’ha ripetuta mille volte in questi giorni. Voglio sapere, piuttosto, quando avresti deciso di sposarti!».
Il mio cuore perse qualche battito in quell’esatto istante ed ebbi la sensazione che i miei occhi schizzassero fuori dalle orbite.
«Signor Garp» intervenne Marco, grattandosi la testa imbarazzato, «Noi non abbiamo intenzione di sposarci».
«Stai dicendo che hai usato mio nipote come un passatempo?» sussurrò mio nonno digrignando i denti.
«No, ovviamente no!» si corresse, «Voglio dire, ecco, n-non… Non ancora?» provò a dire, sperando di poter calmare gli animi senza offendere nessuno e senza farsi fraintendere.
Io non mi voglio sposare, avrei voluto dire, ma immaginai che non sarebbe stata una grande idea incasinare ulteriormente il pennuto e irritare ancora di più mio nonno, così me ne stetti zitto a pregare che avvenisse un miracolo e che qualcosa, o qualcuno, mi venisse a salvare da quella situazione imbarazzante. Dopotutto, l’importante era tranquillizzare il vecchio e assecondarlo, poi, una volta usciti da quell’impiccio, avremo fatto a modo nostro, s’intende.
«Bene!» tuonò Barbabianca, dando una sonora e pesante pacca sulla spalla a Garp che quasi inciampò sotto quel peso, «Penso che potremo darci del tu visto che diventeremo consuoceri» sorrise bonario mentre l’altro sbiancava.
«Non credo proprio! Mio nipote è giovane, deve finire gli studi e arruolarsi nell’esercito! Non ha tempo per pensare al matrimonio!».
«Uh? Matrimonio? Ace e Marco si sposano? Devo dirlo agli altri!». Rufy, il quale aveva fatto capolino dalla porta con la faccia sporca di cioccolata, lasciò cadere una quantità assurda di merendine a terra e sparì nel corridoio urlando come un ossesso. Ma cosa avevano tutti quel giorno da gridare?
«Suvvia, non si agiti. Venga, le offro un caffè» disse Newgate, prendendo il nonno a braccetto e trascinandolo di peso fuori dalla stanza, corrompendolo con la promessa di un doppio caffè corretto al quale l’altro non seppe resistere, seppur ostentando antipatia.
Prima di uscire, però, non mi persi l’occhiata complice che si scambiò con il figlio e lo sguardo rassicurante che rivolse poi a me, come a volermi tranquillizzare che a Garp ci avrebbe pensato lui. Meglio così, la giornata era stata anche troppo pesante e avrei affrontato mille incendi pur di evitare un secondo incontro come quello.
«Allora» sospirò Marco, massaggiandosi le palpebre e gettandosi di peso sul letto accanto a me, incrociando le caviglie e passandomi un braccio attorno alle spalle per attirarmi a sé, «Tutto a posto?».
«Credo di aver appena rischiato un infarto» mormorai allibito, sbattendo le palpebre e prendendo fiato.
«Oh beh, aspetta di conoscere il resto della famiglia» ghignò Marco prima di zittire le mie proteste con un bacio.
 
*Special*
«Guarda il babbo e l’amato suocerino di Marco. Sembra che vadano d’accordo» dissi con divertimento, fermandomi un attimo davanti al bar dell’ospedale e osservando come papà Barbabianca facesse scoppiare a ridere quello che era presumibilmente l’irascibile nonno di Ace.
Izou lanciò un’occhiata annoiata ai due per poi proseguire a testa alta, facendo come se non avessi detto nulla e mantenendo l’aria corrucciata che aveva assunto da quando gli avevo fatto notare la sua scenata isterica e preoccupata dovuta alla mia condizione di eroe di guerra ferito.
«Hai intenzione di tenermi il muso per molto ancora?» gli chiesi, affiancandolo e chinandomi in avanti per spiare la sua faccia.
Mi guardò storto per un secondo prima di rispondermi amorevolmente. «Vaffanculo Thatch».
«Come sei sexy quando dici…».
«Oh, ma falla finita, maledizione!» sbottò.
«Shhh!» gli fece un medico che passava di lì proprio in quell’istante, attirato dal quasi urlo che il ragazzo aveva lanciato.
Trattenni a stento una risata quando Izou si scusò col dottore, fulminandomi poi con lo sguardo e affrettando il passo nella speranza di distanziarmi, o seminarmi, cosa in cui non riuscì affatto e, standogli alle calcagna senza sforzo, lo seguii per tutto il tragitto fino a quando non arrivammo in prossimità della stanza in cui era stato sistemato il ragazzino di cui tanto si parlava in famiglia.
«Attento a non coccolare troppo il pennuto» mi premurai di avvisarlo, «Ace è geloso».
«Come te, Thatch?» ribatté lui con fare altezzoso.
«Affatto, ma prova solo a fare il ruffiano col ragazzo di Marco e ti sopprimo».
Izou fermò la sua andatura spedita, fermandosi in mezzo al corridoio e aprendo le braccia in modo teatrale. «Woah, e sentiamo, da quando devo rendere conto a te del mio comportamento?».
«Dolcezza, ti prego, non sei più credibile ormai. So che non vedi l’ora di saltarmi addosso e baciarmi. E come darti torto, sono un tale schianto!» gli feci notare con un sorriso che avrebbe fatto svenire ai miei piedi chiunque. Chiunque tranne lui, ovviamente, anche se risultò parecchio indignato.
«Stai scherzando?» chiese nervoso, chiudendo le mani a pugno e avanzando minaccioso fino a che non arrivò a puntarmi un dito contro il petto. «Mi dispiace dirtelo, mio caro, ma sei in errore. Non mi piaci, non sono interessato a saltarti addosso e ti assicuro che se mai dovessi baciarti, cosa che non accadrà, non mi farebbe il minimo effetto».
«Ah, cazzate!» affermai, alzando gli occhi al cielo e afferrarlo per la collottola prima che se ne rendesse conto e potesse allontanarsi. L’attimo dopo mi ritrovai impegnato a premere le mie labbra sulle sue in modo lento e dolce, deciso a fargli cambiare idea e a convincerlo del contrario, ovvero che baciarmi gli avrebbe lasciato la voglia di rifarlo altre mille volte ancora.
Quando lo lasciai andare osservai attentamente il cipiglio corrucciato e il nervosismo che stava provando.
«Allora» lo provocai, «Non vuoi proprio saltarmi addosso?».
Si morse un labbro e, per un istante, i suoi occhi mi rivelarono la piega che i suoi pensieri avevano preso posandosi sul mio sorriso, ma riprese piuttosto bene il controllo su se stesso e mi sorpassò velocemente, entrando nella stanza di Ace senza neanche bussare e uscendo il secondo dopo con una faccia sconcertata. Non appena provai a chiedergli cosa gli fosse capitato mi fece fare dietrofront e mi spinse verso gli ascensori con forza.
«Torniamo più tardi» dichiarò categorico.
Mi illuminai. «Non dirmi che li hai colti in flagrante!» dissi, rubandogli il telefono dalla tasca con il braccio buono e ritornando sui miei passi correndo.
«Dannazione Thatch, lasciali stare!».
«Questa foto la appendiamo in sala da pranzo!».
*
 
 
 
 
Inizio col fare gli auguri di Buona Pasqua (già passata) a tutti e di Buona Pasquetta (quasi finita).
Per farmi perdonare vi offro questo capitolo dove troviamo due personaggi epici e adorabili come Garp e Barbabianca e spargo cioccolato e uova ovunque per arruffianarmi.
A parte i discorsi sul matrimonio voluti e non e gli scleri del nonno, le coccole di Ace e Marco sempre più diabetici e delle trovate di Rufy sui discorsi istruttivi che gli vengono impartiti, Thatch e Izou si sono baciati. Evvai, fiesta!
Oh, beh, non ho immagini di loro due, mi dispiace, dovrete usare l’immaginazione ^^
Ad ogni modo spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo la prossima volta dove Ace incontrerà l’allegra e numerosa famigliola del pennuto **
Un abbraccione grande e un grazie a tutti, presto risponderò alle meravigliose recensioni del precedente capitolo ^^
See ya,
Ace.

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Capitolo 54
*** Capitolo 54. Una ciurma di sbandati. ***


Capitolo 54. Una ciurma di sbandati.

 

Era stata una lunga ed estenuante battaglia, quella mia e di Marco, una lotta continua sia di giorno che di notte. Beh, forse la notte era più un intricato e contorto groviglio di lenzuola e frecciatine lanciate a mezza voce di tanto intanto, ma comunque sempre di una discussione si trattava, qualunque fosse il modo in cui si svolgeva. Alla fine la guerra l’aveva vinta lui, purtroppo, che di diplomazia, oratoria e corruzione ne sapeva più di me, così era riuscito a mettermi nel sacco e a convincermi a concedergli almeno una possibilità.
Ecco perché, in quel momento, mi trovavo seduto in macchina con lui nell’attesa che un enorme cancello si aprisse per lasciarci libero ingresso ad un vialetto in ghiaia che portava dritto dritto di fronte all’entrata della una casa, se così poteva chiamarsi una costruzione a dir poco enorme, dove risiedeva la maggior parte della famiglia di Marco. In poche parole stavo per affrontare quell’incontro che tutti i fidanzati temevano, ovvero la conoscenza dei parenti più stretti della propria anima gemella, una tradizione, a detta mia, barbara e crudele. Insomma, pazienza io che di fratello ne avevo uno, ma Marco vantava la bellezza di una numerosa cucciolata di orfani alle spalle, nonché un genitore leggendario in città, e praticamente io, povera anima pia, dovevo fare attenzione a non suscitare le antipatie di una ventina di persone o poco più.
Mentre Marco avanzava lungo la via con un sorriso incoraggiante stampato in faccia, più per convenienza che per altro, perché sapevo che anche lui era nervoso per qualche arcano motivo che non voleva rivelarmi, io pensavo a quante possibilità avevo di svignarmela da quella prigione. Forse, se avessi inscenato un malore o un improvviso infarto di mio nonno avrei potuto darmela a gambe, ma avevo come la sensazione che nessuno, oltre a non credermi, mi avrebbe permesso di evitare quella cena.
La testa d’ananas parcheggiò poco lontano dall’entrata, accanto ad un altro paio di auto e, con un sospiro, spense il motore per poi voltarsi verso di me. «Siamo arrivati» comunicò pacato, scrutando attentamente la mia reazione.
Torturandomi un labbro non mi preoccupai nemmeno di smettere di fissare un punto indefinito davanti a me e, passandomi freneticamente una mano tra i capelli che nemmeno avevo tentato di pettinare per farli apparire presentabili, annuii leggermente con il capo. La verità era che stavo pianificando di scappare attraverso i campi che circondavano la tenuta.
Purtroppo per me il biondo intuì le mie patetiche intenzioni di fuga e, aprendo la portiera per scendere, mi dedicò un’occhiata ammonitrice. «Non provarci nemmeno».
Sbuffai, maledicendo lui e tutta la sfilza di fratelli e sorelle che aveva, soprattutto Thatch che mi aveva stressato per un mese intero, tessendo le lodi della famiglia e presentando tutti loro come se fossero stati dei principi e delle icone delle buone maniere. Non aveva capito che era bastato lui stesso a far crollare tutte le sue chiacchiere montate per aria.
Sbuffando affranto lasciai che Marco mi facesse strada e lo seguii con l’aria di un prigioniero diretto al carcere per scontare la sua pena fino alla porta principale dove si fermò a suonare il campanello e ad attendere che qualche ignoto venisse ad aprirci.
«Ehi» mi chiamò, alzandomi il mento con due dita visto che io non avevo dato cenno di averlo sentito, «Andrà tutto bene» disse, sorridendomi gioviale.
Se non fossi stato tanto ansioso e sul punto di svenire mi sarei soffermato a pensare a quanto bello fosse in quel momento e a quanto fortunato ero stato quel giorno di tanti mesi prima, quando avevo deciso di fermarmi in un bar qualsiasi a bere un caffè per dimenticare un’orribile giornataccia. Giornataccia che era cambiata in meglio.
Feci un respiro profondo, più che deciso a tirare fuori il coraggio e a dirgli che si, lo sapevo che non mi avrebbe ucciso nessuno, ma venni interrotto sul più bello perché la porta venne aperta di colpo e un baccano assordante mi arrivò alle orecchie facendomi impietrire. C’era così tanta gente?
«Finalmente!» urlò Thatch, sdegnando il fratello e imprigionandomi l’istante dopo in una morsa d’acciaio. Il suo braccio era guarito alla perfezione, buon per lui ma non per le mie ossa. «Forza ragazzino, ti stanno aspettando tutti!» affermò convinto, trascinandomi dentro senza badare ai miei tentativi di staccarmelo di dosso e lasciando Marco sulla soglia a sospirare con aria quasi disperata. Ero certo che quando mi aveva descritto i suoi famigliari avesse omesso di raccontarmi i particolari più inquietanti solo per tenermi tranquillo.
Continuò a parlare e a strattonarmi lungo un corridoio illuminato e arredato con mobili dall’aspetto eccentrico e particolare, come se fossero stati fatti per attirare l’attenzione. Mi lanciai qualche occhiata sorpresa e un po’ scettica: se fosse dipeso da me, avrei fatto un bel falò e avrei provveduto a rifare tutto l’arredamento, ma pazienza, la casa non era mia e grazie al Cielo non avevo quel tipo di problemi o pensieri, come decidere quale cassapanca comprare e quale no, quella era roba per coppiette vomitevoli. Insomma, stavo anche troppo bene nel mio appartamentino con i ragazzi, anche se con Law come coinquilino si rischiava spesso di ritrovarsi sedati o con un ago in vena e una siringa piena di chissà quale farmaco o antibiotico. Una volta aveva ucciso il nostro gatto con dell’arsenico, quindi c’era sempre un alto rischio di restarci secchi, ma pazienza, non era tanto male e ci avevo fatto l’abitudine.
A parte il gusto per il bizzarro, la collezione di foto appese alle pareti era fantastica e mi aiutò a farmi un’idea dei personaggi con cui avrei fatto conoscenza di li a breve. Ce n’erano tantissime e tutte rappresentanti ragazzi di varie età, ma anche alcune di recenti, come quella dove si vedeva l’inconfondibile capigliatura di Thatch scomparire dentro la tazza del water nel tentativo di…
«Uhm, Thatch?» lo chiamai, «Stavi per caso rimettendo anche il fegato?» chiesi, fermandomi e indicando la foto con un mezzo sorriso canzonatorio che fece ghignare sadicamente Marco, probabilmente memore della nottata in cui il fratello aveva fatto la cazzata rappresentata.
Il castano sembrò pensarci su, rispondendo infine che quella era stata la volta in cui aveva rischiato il coma etilico dopo essersi ubriacato fino a svenire in mezzo a una strada mentre cercava di convincere alcuni agenti della polizia a non fargli l’alcool test.
«E guarda qui! Quello è Vista che cerca di battere Jaws a braccio di ferro. Che facce da fessi che avevano!». Thatch mi indicò due tizi dall’aria seriamente concentrata in uno scontro all’ultimo muscolo e, a giudicare dalle condizioni precarie del tavolino, la cosa non doveva essere finita bene. Poi fu la volta di una ragazzina minuta che brandiva una spada di legno, seguita a ruota da un ragazzo con degli strani capelli bluastri che brindava allegramente con un altro più o meno della stessa stazza e con dei capelli rasta.
«Oh, e qui siamo io e il pennuto da piccoli!» annunciò Thatch ad un certo punto, saltellando vivace davanti ad un quadro piuttosto grande dove riconobbi la buffa capigliatura di Marco e i capelli già ribelli e castani di quell’irrefrenabile pazzo.
«Dimmi, non era un frugoletto anche allora?».
«Thatch» lo freddò il biondo, superandoci e avviandosi verso una porta socchiusa dalla quale proveniva il baccano che avevo sentito in precedenza e che faceva da sottofondo alla nostra conversazione. Se non fosse stato il solito, apatico e riflessivo Marco, avrei detto che si sentisse in imbarazzo.
«Che c’è? Tanto abbiamo recuperato l’album dalla soffitta. Ti vedrà comunque e il babbo si divertirà un mondo a raccontare simpatici aneddoti sulla tua infanzia» lo sfotté bellamente, poggiando le mani sui fianchi e guardandolo con aria fiera di sé anche se l’altro non poteva vederlo. Poco prima che ci intimasse di muoverci, si abbassò verso di me per sussurrarmi all’orecchio, facendomi sudare freddo per lo sconcerto.
«Tranquillo ragazzino, le foto più spinte le teniamo per quando il vecchio va a dormire» ammiccò.
Non potei ribattere solo perché un gran vociare attirò la nostra attenzione e Thatch si volatilizzò nella stanza illuminata dove intravidi qualche faccia a me sconosciuta. Sul ciglio della porta, Marco mi fissava mordicchiandosi un labbro e con l’aria di chi voleva scusarsi per il disagio. Fu solo per togliergli un peso che mi costrinsi a sorridere mestamente e a raggiungerlo fino a compiere i fatidici passi che mi introdussero in un enorme salone dove era stata imbandita una tavolata di cibo e pietanze varie, attraverso cui volava qualche pezzo di pane e, di tanto in tanto, una bottiglia di birra che veniva afferrata al volo da qualche mano alzata.
Si trattò di qualche secondo di smarrimento e poi tutti si voltarono verso di noi, anzi, verso di me, puntandomi i loro occhi addosso e sondandomi da capo a piedi per un tempo interminabile in cui non feci altro che trattenere il respiro, pregando Dio che quella tortura finisse presto.
Qualcuno si schiarì la voce ed ebbi l’impressione che le fondamenta tremassero.
«Ben arrivato, figliolo» tuonò il padre di Marco, la ragione per cui, quando mi ero svegliato in ospedale, avevo desiderato di ritornare in coma, «Vi stavamo aspettando».
«Ciao papà» fece il ragazzo con la sua solita calma, come se non stesse presentando il suo fidanzato, maschio per giunta, al proprio genitore con un piede nella fossa, secondo il mio modesto parere, nonostante bevesse birra come un quarantenne. Mi passò accanto, sfiorandomi la mano senza farsi notare, un modo per dirmi di farmi avanti senza timore. Me l’aveva ripetuto mille volte i giorni precedenti che nessuno mi avrebbe mangiato, ma non ne ero così sicuro e continuavo a deglutire a vuoto, avanzando fissandomi i piedi e gettando occhiate fugaci attorno a me mentre cercavo di nascondermi dietro alla stazza di Marco e Thatch.
Ad un certo punto la testa d’ananas ebbe la grande idea di spostarsi di lato e lasciarmi senza barriere di fronte al sindaco in persona che, con un sorrisetto beffardo, e leggermente inquietante, mi squadrò in modo sfacciato, porgendomi la mano e fissandomi negli occhi. Sembrava quasi che volesse sfidarmi a scappare a gambe levate, cosa che mi diede parecchio sui nervi dato che non ero affatto un codardo. Così, serrando le labbra e drizzando le spalle in un gesto di superiorità, gli strinsi quell’arto grande tre volte il mio con sicurezza, scatenando una risata cavernosa da parte sua e quelle divertite del resto della famiglia.
«Mi chiedevo se avessi avuto il coraggio di farti rivedere, moccioso» fece il vecchio, accomodandosi meglio sulla sedia di dimensioni piuttosto larghe e improbabili.
Ignorando la risatina di Thatch e deciso a non farmi impressionare dall’autorità dell’uomo e dal fatto che non fossi nel mio ambiente e del tutto a mio agio, pensai bene di rispondergli per le rime. Magari si era fatto una cattiva impressione di me e non gli andavo molto a genio, ma se pensava che mostrandosi restio nei miei confronti mi avrebbe allontanato da suo figlio si sbagliava di grosso.
Alzai il mento e gli sorrisi sprezzante. «Sorpreso, vecchio?».
Potei quasi sentire il gelo calare nella stanza e ghiacciare ogni anima vivente, Thatch e Marco compresi, mentre io stringevo i pugni attendendo il verdetto finale senza azzardarmi ad abbassare lo sguardo, combattendo una guerra privata con gli occhi scuri e duri del famoso Edward Newgate.
«Ma senti questo» sbottò un ironico Thatch, sghignazzando a quella scena.
La tensione si allentò subito dopo, quando l’uomo scoppiò a ridere fragorosamente, affermando che il ragazzetto presuntuoso, testuali parole, gli piaceva.
Avevo superato la prova più ardua, ovvero ingraziarmi il vecchio. Almeno era quello che credevo, ma dovetti riconsiderare la questione dato che, dopo Barbabianca, venne il momento di conoscere tutti i fratelli del pennuto.
«Haruta, piacere». Una ragazza dai capelli corti e l’aria furba mi sorrise cordiale, un balsamo per i miei nervi tesi davanti a facce poco amichevoli e strette di mano fatte per testare la mia forza, tanto che le mie dita stavano perdendo sensibilità.
«Felice di rivederti, fiammiferino».
Mi ritrovai poi davanti al tizio che avevo scambiato per l’amante di Marco e mi sentii incendiare le guance. Non dovevo aver fatto una bella impressione quella volta.
«Ehm, p-piacere» mormorai, pregando di non essere arrossito.
Izou sorrise e, lanciata un’occhiata alle mie spalle, mi parlò con malcelata malizia. «Marco ha davvero scelto bene il suo ragazzo, non c’è che dire».
Rimasi spiazzato e senza sapere bene cosa dire davanti a quell’affermazione tanto schietta e chiara, ma poi sentii Marco ridere per poi afferrarmi una manica della maglia e trascinarmi verso il resto dei suoi fratelli.
«Ti giuro che io non ho fatto niente» chiarii prima che potessero nascere equivoci.
«Lo so, non ti preoccupare. Izou è fatto così» mi rassicurò, rivolgendomi un piccolo sorriso prima di ricominciare le presentazioni. Scoprii che quelli che avevo visto brindare nella fotografia erano Namiur e Rakuyo, poi fu la volta di Blamenco e Fossa, il quale rischiò di farmi soffocare quando soffiò il suo nome in risposta, accompagnandolo con una boccata di fumo proveniente dal suo sigaro. Vista fu uno dei più cordiali, mentre Jaws rischiò seriamente di staccarmi una mano con la sua forza. Curiel indossava un paio di occhiali da sole e aveva l’aria di un ufficiale dell’esercito, mentre Atmos faceva impressione per via della sua corporatura.
Alla fine ebbi modo di conoscerli tutti e, grazie un po’ alla mia fortuna sfacciata e alle buone e inopportune parole messe da Thatch, nessuno si dimostrò ostile o antipatico.
Mi fecero sedere accanto al padrone di casa, in modo tale che potesse divertirsi a pormi le domande che più gli aggradavano. Thatch prese posto affianco a me e Marco finì per piazzarsi davanti a noi con un’espressione rassegnata al peggio.
Fui felice di vedere che nessuno in quella casa seguiva le regole del galateo per mangiare, così non dovetti preoccuparmi di controllarmi per fare bella figura e fingermi educato, soprattutto quando li vidi rubarsi il cibo dal piatto e lanciarsi le pietanze. I gomiti bellamente appoggiati al tavolo, niente posate non necessarie, ma solo una forchetta e un coltello e suvvia Izou, mangia il pollo con le mani che ha un sapore migliore!
Purtroppo, però, arrivarono anche le note dolenti che mi fecero andare di traverso il boccone.
«Allora, Ace, come hai conosciuto il pennuto?» proruppe Thatch, a voce abbastanza alta affinché tutti potessero sentire la domanda. Un bel modo per mettermi al centro dell’attenzione. E in imbarazzo.
Provai a sviare l’argomento, ma lo sguardo insistente di Barbabianca mi obbligò a dire almeno qualche parola. «Un giorno. Al bar» mormorai sfuggente. E se volevano i dettagli avrei detto che non me li ricordavo.
«E non ti sei impressionato davanti ai suoi capelli?». Frecciatina rivolta al diretto interessato che rispose con un dito medio alzato nella direzione di Vista.
«Chi ha fatto il primo passo?» si incuriosì Haruta, poggiando il mento su una mano e sorridendomi gentile. Avevo come la netta sensazione dietro a quella facciata adorabile nascondesse una doppia identità, più scaltra e vivace.
Fissai Marco, indeciso su cosa rispondere. Ad essere sinceri l’idiota che si era esposto ero stato io quando l’avevo baciato sul retro di un locale, per giunta di proprietà del padre, ma non mi sembrava una grande idea sbandierarlo ai quattro venti, meglio mantenere un profilo basso.
«Beh, non saprei. E’ successo così, per caso».
«Io scommetto che sia stato il ragazzino, Marco è troppo pigro per certe cose» commentò Blamenco in fondo alla tavolata.
Prima che qualcuno potesse ribattere, l’idiota vicino a me che aveva dato il via a quell’interrogatorio pensò bene di riscaldare ulteriormente gli animi. «E quando vi siete scambiati il primo bacio?» chiese malizioso, dandomi delle leggere gomitate sul fianco in un gesto d’intesa, ma che stonavano incredibilmente.
Marco, che stava bevendo, rischiò di strozzarsi, mentre Barbabianca scoppiò di nuovo a ridere. Io sbiancai e Thatch ricevette un meritato scappellotto sulla nuca dal suo vicino, Jaws, che per poco non lo spedì con la faccia nel piatto. Il castano rispose insultandolo e la situazione degenerò in un litigio fatto di battutine acide, insulti, l’aggiunta di altri due elementi, una minaccia riguardante la marmitta di un’auto, sguardi assassini, risate in sottofondo, qualche bestemmia e altri insulti, un coltello piantato sul tavolo, un pollo allo spiedo lanciato in aria, Marco che si nascondeva il viso con una mano e, in conclusione, Thatch che rotolava a terra con tanto di sedia, piatto e posate.
Quella non era una famiglia, ma una ciurma di sbandati.
Dopo molti discorsi insensati, domande personali raggirate, battute irritanti e litigi tra fratelli, il Signor Newgate decise che era arrivata per lui l’ora, l’una e mezza del mattino, di andare a coricarsi. Non mi aspettavo, però, che mi chiedesse cortesemente di accompagnarlo lungo il corridoio fino alle scale che portavano al piano superiore, chiaro segno che gradiva rimanere solo con me. Ovviamente non avevo potuto rifiutare e avevo mascherato l’agitazione nel miglior modo possibile. Inutile dire che a calmarmi, in parte, era stato anche lo sguardo rassicurante di Marco.
«Sono stato molto contento che tu abbia accettato l’invito, Ace» disse Barbabianca una volta fuori dal salone, «Hai conquistato in poco tempo l’approvazione mia e di tutti i miei figli».
Rimasi di stucco a quelle parole e mi domandai se per caso non avessi capito male.
«Non ho mai visto Marco così partecipe» ammise, «Non che di solito sia distante, ma resta sempre un po’ sulle sue, invece è da un pezzo che non è più così e ne sono lieto. Sembrate davvero inna…».
«Ehm, l-la ringrazio S-signore» mi affrettai a dire, sicuro di non voler scendere nei dettagli e ritrovandomi a far ridere il vecchio. Di nuovo.
«Chiamami babbo e dammi del tu. Ormai sei di famiglia, non credi?». E, così dicendo, mi augurò una buona notte e salì le scale, scomparendo alla mia vista e lasciandomi in corridoio con l’animo in tumulto.
L’idea di fare parte di un qualcosa di grande, di una famiglia tanto numerosa in cui tutti erano pronti a dare la vita per gli altri mi faceva sentire dannatamente bene e assurdamente felice. Ripensandoci, quel vecchiaccio non era poi tanto male.
Quando ritornai in salone non tenni più lo sguardo basso, ma sorrisi a chiunque mi rivolgesse la parola, risposi alle battute con altrettanto divertimento, iniziando a scherzare e a prendere confidenza con tutti, ignorai Thatch come sempre e mi godetti ogni istante di quel nuovo calore che sentivo irradiarsi nel petto e scaldarmi dentro.
«Ehi, Ace, unisciti a noi!».
«Si, dai! Tieni, bevi questo e siediti qui!».
«Siete sicuri?» chiesi per precauzione, sedendomi su un enorme tappeto dove tutti si erano stravaccati, iniziando a rotolare o a darsi spintoni, mentre Thatch rovistava alla ricerca di qualcosa dentro una cassapanca li vicino. Ai suoi piedi si trovava un album di fotografie.
«Certo. Fai parte della famiglia ora» decretò Vista, lisciandosi i baffi di cui era orgoglioso.
Ero così felice in quel momento che la successiva vista di tutte le loro foto da adolescenti con gli ormoni imbizzarriti mi scandalizzò e, quando Marco mi baciò davanti a tutti dopo aver bevuto entrambi abbastanza da poterci permettere di farlo, neanche allora il mio umore venne scalfito. Probabilmente il giorno dopo tutti sarebbero stati troppo ubriachi per ricordarlo, perciò non ci sarebbero stati grossi problemi di imbarazzo.
Se solo Thatch non avesse fatto foto a insaputa dei presenti.
Quale modo migliore per concludere una cena in famiglia?
 
 
 
 
 
 
 
Oh, salve ragazzi, come vi va la serata? ^^
Sono giorni che guardo il pc, apro Word e rileggo le prime due pagine del capitolo, ritrovandomi poi davanti a un blocco, ma stasera mi sono imposta di finirlo perché, che diavolo, non posso lasciare che il tempo passi così, alla cavolo.
So che è tardi, ma dovevo raggiungere questo traguardo. Fate finta di essere felici e amatemi, vi prego.
Eh, lo so, sono parecchio in ritardo con molte cose, ma abbiate fede, verrà il giorno in cui mi rimetterò in pari e vi ringrazierò come si deve. Sappiate intanto che leggo qualsiasi commento mi lasciate e rotolo ogni volta per la felicità. Quindi grazie infinite a tutti, davvero.
Lo Special ve lo metto nel prossimo capitolo perché questo è già assurdamente lungo.
E poi ecco Thatch e Marco da piccoli, tesori belli: https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/t1.0-9/s403x403/10257695_609553585788855_3416049391323461335_n.png
Avviso di Servizio per chi segue le altre fiction: Portuguese D. Ace aggiornata, yeee; Chi non muore si rivede in fase di produzione (è un parto e mi vorrei sparare, ma continuate a sperare, Amen).
Detto questo buonanotte e andate in pace.
See ya,
Ace.

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Capitolo 55
*** Capitolo 55. Ogni mia giornata. ***


Capitolo 55. Ogni mia giornata.

 

«Dici sul serio?».
«Si».
«Ma, voglio dire, sul serio, sul serio?».
Roteai gli occhi al cielo, sbuffando divertito mentre finivo di asciugare l’infinita pila di bicchieri che avevo messo in equilibrio precario sul lavello.
«Si, Thatch, sul serio. Ora, mi lasci finire di lavora…».
Qualcosa di simile ad un ululato isterico partì dalla gola dell’uomo accanto a me, spaccandomi i timpani e rischiando di farmi perdere la presa sulle stoviglie.
«Per favore, vorresti calmarti?» sbottai, mollando il lavoro a metà e lasciando lo strofinaccio sul ripiano, voltandomi verso il castano con le braccia sui fianchi. Avevo tentennato fino all’ultimo, ma alla fine avevo deciso di dare la notizia a Thatch, fidandomi di lui e della sua praticamente inesistente capacità di tenere la boccaccia chiusa. Evidentemente avevo fatto la più grande cazzata di sempre.
«Oh no, ragazzino, scordatelo!» mi disse, piazzandomi un indice ammonitore sotto al naso e avvicinandosi troppo con la sua faccia alla mia, «Non puoi pretendere di dirmi che vai a vivere da Marco e sperare che non mi venga un infarto!».
Gli spostai il braccio, superandolo e uscendo da dietro il bancone, diretto in cucina. Se voleva sbraitare era meglio che lo facesse in un posto meno pubblico della sala principale del bar dove chiunque poteva origliare. Anche se non ero del tutto certo che avrebbe conversato a bassa voce, ma tanto valeva provarci.
«Quando ti trasferisci? E te lo ha chiesto lui? Come? oh, aspetta, aspetta! Ti ha regalato un anello?» iniziò a domandare a raffica, afferrandomi per la collottola e guardandomi con occhi spiritati non appena varcammo la soglia della porta sul retro. Mi ritrovai a guardarlo preoccupato, leggermente in imbarazzo per quello sguardo che sembrava non aspettare altro che una mia parola per saltarmi addosso e riempirmi di abbracci, cosa che speravo vivamente di evitare.
«Ehm, senti, non è che mi molleresti prima?» gli chiesi, anche se risultò più come una supplica.
«Scordatelo! Sputa il rospo, forza!».
Non ero sicuro che sbattermi a destra e a sinistra come un sacco di patate fosse un buon modo per invogliarmi a confidarmi con lui, ma, fortunatamente, in quel momento fece il suo ingresso Marco, il quale, intuendo la situazione, venne in mio soccorso, prendendo Thatch per i capelli e stringendo la presa, facendolo bloccare sul posto.
«So che ci tieni ai tuoi capelli» mormorò il biondo, sorridendo maligno e beccandosi un’occhiataccia dal fratello.
«Esatto, quindi non toccarli».
Marco negò, facendo un cenno con il capo verso di me. «Prima lascia andare Ace».
Thatch sembrò sul punto di dire qualcosa, ma all’ultimo si trattenne, liberandomi dalla sua presa e venendo a sua volta graziato. Fu allora che, dopo essersi sistemato con nonchalance la camicia, si schiarì la voce, deliziandoci con le sue cazzate.
«Il principe azzurro ha salvato la principessa».
Fui più veloce degli improperi di marco e delle gambe di Thatch, perché riuscii a centrargli il sedere con un calcio giusto prima che si defilasse dalla cucina, ridendo sguaiatamente e informandoci a gran voce che avrebbe provveduto ad avvisare tutti con un messaggio sul gruppo di famiglia che condividevamo nei cellulari.
Marco fissò la porta perplesso, chiedendomi cosa diavolo avesse combinato quella volta da dover informare i fratelli restanti, insospettendosi ulteriormente quando mi vide farmi piccolo, piccolo contro la credenza.
«Ace, che hai fatto?» fece, assottigliando lo sguardo e incrociando le braccia al petto.
«Uh, perché pensi che sia colpa mia?» dissi con finta innocenza.
«Perché Thatch una la minaccia del messaggio ogni volta che scopre qualcosa» spiegò con ovvietà, facendo un passo avanti, verso di me.
Sospirai, preparandomi a vuotare il sacco. Prima o poi lo avrebbe comunque scoperto, soprattutto grazie a quel deficiente di fratello che si ritrovava. Pazienza il mio, ma anche con Thatch, in quanto a stupidità, non si scherzava.
«Gli ho detto di quella cosa. Insomma, della novità» farfugliai a testa bassa.
«Non ci posso credere. Gli hai detto del trasferimento?».
«Mi ha stressato per tutto il pomeriggio!» scoppiai a dire alla fine, esausto e mentalmente distrutto. Thatch aveva passato l’intera giornata a farmi domande su cosa ci facessero degli scatoloni davanti la porta dell’appartamento di Marco e come mai lui non ci fosse a lavoro. Aveva usato un sacco di trucchetti per cavarmi le parole di bocca e alla fine avevo ceduto, rotto le scatole fino allo sfinimento. Avrei voluto vedere lui al mio posto. «Non mi ha mollato nemmeno per un secondo. Ce l’avevo attaccato al culo persino quando prendevo le ordinazioni!».
Marco, al contrario di quello che avevo pensato, scoppiò a ridere, coprendo le distante e arrivando a scompigliarmi i capelli come faceva di solito, passandomi poi un braccio attorno alle spalle e attirandomi a sé.
«Va bene così, idiota. Tanto glielo avrei detto io a breve».
Sbuffai, ricambiando l’abbraccio e inspirando il profumo di biscotti di Marco. «L’unico idiota qui è Thatch» borbottai, fingendomi offeso, aprendo gli occhi e adocchiando una mano che sbucava dalla porta della cucina reggendo un telefonino. Un click mi giunse alle orecchie, rendendo fin troppo chiaro che l’idiota in questione era tornato alla carica con la sua idea di fare un album fotografico per, parole testuali, il matrimonio del secolo.
E per matrimonio intendevano il mio, peccato che non avessero ancora capito che a sposarmi non ci pensavo proprio, e Marco nemmeno.
Stavamo troppo bene nel suo appartamento, senza problemi o pensieri, liberi di fare quello che volevamo senza renderne conto a nessuno.
Così, giusto per rendere chiaro il concetto, iniziai ad accarezzare lentamente le spalle del mio ragazzo, quello mi avevano costretto ad ufficializzarlo, staccandomi da lui quel poco che bastava per trovare le sue labbra e catturarle con le mie in un bacio lento, ma sempre più intenso.
«Uh, Ace, in cucina?» mormorò non proprio a bassa voce, ammiccando. Aveva sentito anche lui lo scatto fotografico del cellulare di Thatch e, a quanto pareva, sembrava d’accordo con me nel metterlo in imbarazzo.
«Certo, dopotutto, è l’unico posto dove non l’abbiamo ancora fatto» ribattei a mia volta, scandendo bene le parole, ma rendendole abbastanza maliziose da farle sembrare casuali, il che, con Marco tra le mie mani, mi veniva facile.
«Se proprio insisti» acconsentì, sollevandomi e poggiandomi al ripiano, sistemandosi fra le mie gambe e riprendendo a baciarmi con più passione del previsto, tanto che presi in considerazione l’idea di andare fino in fondo.
Passarono solo pochi secondi prima che sentissimo la voce schifata di Thatch provenire dall’altra parte della sala.
«Mio Dio, datevi un contegno, accidenti!».
Sarei scoppiato volentieri a ridere se non fossi stato tanto impegnato.
Dire che fossi euforico era dire poco. Giusto qualche settimana prima, Marco mi aveva proposto di condividere l’appartamento, di stare da lui, di vivere con lui.
Certo, significava lasciare libero la casa che condividevo con i ragazzi, ma non mi preoccupavo poi molto, sapendo che la mia stanza sarebbe finita al mio fratellino Rufy, dato che per lui finiva il liceo e iniziava una nuova vita. inoltre, ero certo che a Bepo non sarebbe dispiaciuto avere compagnia, visto e considerato che anche Trafalgar e Penguin avrebbero presto levato le tende.
Inoltre, avrei continuato a lavorare e avrei continuato gli studi, contando anche che ero praticamente stato adottato da un’enorme e numerosa famiglia e la cosa, se proprio dovevo essere sincero, non mi dispiaceva affatto.
Per quello, quando Marco me lo aveva chiesto, lo avevo baciato come stavo facendo in quel momento e avevo detto semplicemente di si.
Perché avevo capito che era ciò che volevo, che quel posto era ormai diventato casa mia e che le persone che mi circondavano ogni giorno erano le migliori che avessi mai potuto sperare di incontrare.
Erano tutto ciò di cui avevo bisogno e Marco, beh, lui mi faceva sorridere sempre, costantemente.
«Se ne è andato?» chiese dopo che entrambi fummo rimasti senza respiro.
«Per nostra fortuna, si» dissi soddisfatto.
Marco sorrise, guardando i fornelli. «Ehi, ti va un caffè?» chiese, allungandosi per prendere una tazza arancione. La mia, per la precisione.
«Bollente e zuccherato?» mi accertai, seguendolo con gli occhi.
Lui annuì, guardando il tempaccio e la grandine che cadeva fuori dalla finestra. «Quello giusto per le giornate di pioggia».
«Allora si» dichiarai, saltando a terra e avvicinandomi per aiutarlo, andando alla ricerca dei biscotti che Thatch aveva nascosto da qualche parte.
Quando riuscii a trovarli, Marco aveva ormai finito e, porgendomi la tazza mentre io aprivo il barattolo con dentro i miei dolci al cioccolato preferito, lo ringraziai.
«Questo lo offre la casa» precisò, lasciandomi per un istante senza parole.
Sorseggiai il caffè, pensando a quando ero stato fortunato e a quanto marco fosse sexy con quella oscena maglia con un ananas stampato sopra, riflettendo sul fatto che lui riuscisse a rendere bella ogni mia giornata.
 
 
*Special*
«Certo che ce ne hai messo di tempo».
«A fare che?».
«A capire che sono il meglio in circolazione. Il più attraente, il più affascinante, il più simpatico…».
«Il più cretino».
«Smettila di fare il ritroso».
«Thatch, ma non ti riesce di stare zitto?».
«No, Dolcezza, forse dovresti trovare un modo adeguato per obbligarmi».
«Non mi tentare».
«Peccato, almeno ci ho prova…».
Non finii la frase perché mi ritrovai impegnato ad intrattenere la lingua di Izou con la mia. Finalmente quella piaga aveva ceduto. Era stato un calvario, ma alla fine ce l’avevo fatta.
Dovevo congratularmi con me stesso.
Click.
Mi gelai sul posto, tanto che anche Izou smise di baciarmi, osservandomi confuso e chiedendomi cosa mi fosse successo.
A rispondergli, però, non fui io, ma bensì Ace.
«Come siete carini» fece smielato, sventolando il cellulare con il quale mi aveva appena fregato, «Sono sicuro che ai ragazzi piacerà un sacco quando gliela invierò» disse sorridente, scomparendo dal salotto nel quale mi ero rintanato per stare tranquillo.
Mi alzai di scatto, incurante di aver fatto cadere Izou a terra, e rincorrendo il moccioso, più che deciso a fermarlo e ad ucciderlo, se fosse stato necessario.
«Occhio per occhio, Thatch» sentii dire alle mie spalle, ma la risata del ragazzino mi incitò a continuare.
Quel piccolo bastardo.
*
 
The FUCKING End.
 
 
 
 
 
Angolo Autrice.
Eh, insomma, buonasera.
*schiva una vagonata di oggetti improponibili*
Dopo, aspettate, quanto è passato? Un anno ormai, credo. Insomma, dopo un macello di tempo, ecco che finalmente concludo anche questa raccolta che mi è costata sangue, dolore, unicorni e arcobaleni. Non è sfociata nel rosso (so sorry), ma ha avuto i suoi bei momenti direi. Oww, sono così contenta del lieto fine per la mia OTP ** li amo, non posso farci niente, sono l’AMMORREH!
Mi dispiace che sia durata così tanto, che alla fine mancasse solo un capitolo e di aver tergiversato A LUNGO. Me ne rendo conto e chiedo scusa a chi l’ha aspettato con ansia e curiosità. Ormai era agli sgoccioli, ma penso sia sempre bello vedere qualcosa concludersi a tutti gli effetti.
Anyway, alla fine eccolo qui, meglio tardi che mai!
Colgo l’occasione per ringraziare TUTTI, dal primo all’ultimo, a partire da quel famoso giorno in cui la long è iniziata. Grazie di cuore a chi l’ha seguita, a chi ha riso con me di tutte le avventure passate tra questi due, a chi ha adorato Thatch e Izou, a chi ha apprezzato ogni piccolo particolare e a chi ha aspettato tra insulti e bestemmie.
GRAZIE.
E non preoccupatevi, anche se adesso ci sarà un po’ di pausa, prima o poi qualcosa di rosso tra Ace e Marco verrà fuori, mlmlml.
If You Know What I Mean.
 
E’ ora di andare, ma mi sento male ;_______;
Un abbraccio enorme, un bacio e Buone Vacanze a tutti ^^
 
See ya, as always.
Ace.
 

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