It's all about you. di ___Ace (/viewuser.php?uid=280123)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Una bella giornata. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Quel ragazzo dell'altro giorno. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Fuori dal normale. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Osso duro. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Non sono un ragazzino. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Io amo il miele. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. Mosaico di nozioni. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. Tu cosa farai a natale? ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. Abitudini. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. Finirai per consumarlo. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. La Fenice. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. Serata di Poesie. 1. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. Serata di Poesie. 2. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. Ace. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. Serata di Poesie. 3. ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. Quelle Fiamme. ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. Non mi sarei di certo aspettato... ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. Non sono niente. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. Deluso. ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. Rufy. ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21. Innamorato perso. ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22. Io non piaccio a Marco. ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23. Lui non é... ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24. La Vigilia di Natale. ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25. Bene. ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26. Iniziai a sperare. ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27. Buon compleanno cuore impazzito. ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28. Io potevo farcela. ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29. La cioccolata migliore. ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30. Mi piaceva tanto. ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31. Conversare con una divinità. ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32. Così interessante per te. ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33. Quella novità. ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34. Non ha occhi che per te. ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35. Uccidermi per la gelosia. ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36. Indispensabile. ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37. Il resto del mondo può anche bruciare. ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38. Fa la tua mossa. ***
Capitolo 39: *** Capitolo 39. Perdersi e ritrovarsi mille volte. ***
Capitolo 40: *** Capitolo 40. Per nessuna ragione al mondo. ***
Capitolo 41: *** Capitolo 41. Fottutissimi mirtilli. ***
Capitolo 42: *** Capitolo 42. Di felicità si può morire? ***
Capitolo 43: *** Capitolo 43. Quel quadro in entrata. ***
Capitolo 44: *** Capitolo 44. Il mio posto nel mondo. ***
Capitolo 45: *** Capitolo 45. Una fottuta maglia. ***
Capitolo 46: *** Capitolo 46. Se capisci cosa intendo. ***
Capitolo 47: *** Capitolo 47. Il casino che stava succedendo. ***
Capitolo 48: *** Capitolo 48. Bomba ad orologeria. ***
Capitolo 49: *** Capitolo 49. Potresti venire da me. ***
Capitolo 50: *** Capitolo 50. Solo dormire. ***
Capitolo 51: *** Capitolo 51. Non chiedevo altro. ***
Capitolo 52: *** Capitolo 52. O. Mio. Dio. ***
Capitolo 53: *** Capitolo 53. Consuoceri. ***
Capitolo 54: *** Capitolo 54. Una ciurma di sbandati. ***
Capitolo 55: *** Capitolo 55. Ogni mia giornata. ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1. Una bella giornata. ***
Capitolo 1. Una
bella giornata.
Odio
la pioggia e sta piovendo. Odio il freddo e c’è un
ventaccio assurdo. Odio
l’inverno e, indovina, la stagione gelida è alle
porte. Fanculo. E che giornata
orribile: prima arrivo tardi a lezione e scopro che mi hanno anticipato
un
esame; poi esco dalla facoltà e mi investe uno tsunami
d’acqua, come se il
cielo avesse deciso di sommergere la città e fare annegare
tutti; inoltre non
ho l’ombrello, ovviamente, e cos’altro? Ah, giusto.
Stasera Rufy vuole che
ceniamo assieme e il frigo è vuoto. Dovrò
dimezzare la mia paghetta per
offrirgli la cena dato che non si accontenterà solo di una
pizza di dimensioni XXL.
Alzai lo
sguardo lungo
la strada e vidi l’insegna al neon di un’anonima
caffetteria.
Al
diavolo, ho bisogno di scaldarmi.
Entrai
nel locale e mi
sentii subito investire dal riscaldamento che, magicamente,
attraversò il
tessuto bagnato dei miei abiti e mi diede un senso di calore e torpore
che mi
fecero sentire rinato nel giro di poco tempo. Tutto ciò
però, non mi risollevò
l’umore e marciai ugualmente con una faccia funerea verso il
bancone del bar,
scrollandomi di dosso l’acqua dai capelli umidi e appiccicati
al collo.
Mi
sedetti e, perso nel
groviglio di pensieri riguardanti la mia vita incasinata e la tremenda
giornata
di merda che avevo appena passato, lasciai vagare lo sguardo nel vuoto,
come in
trance, troppo stanco per concentrarmi sul mondo che mi circondava.
Stamattina
l’auto aveva la batteria scarica, magnifico; una matricola mi
è venuta addosso
senza accorgersene e ha rovesciato il suo schifo di succo sui miei
appunti;
proprio oggi i professori dovevano decidere di farmi partecipare alle
lezioni e
pormi domande che non stanno ne in cielo ne in terra e, come se non
fosse
sufficiente, quel vecchiaccio di mio nonno che mantiene Rufy doveva
decidere di
chiamarmi e obbligarmi ad andare ad aggiustargli il tetto.
Perché
piove, ha usato come scusa, e lui è troppo anziano per farlo
da solo. Beh, col
cazzo che vado.
Sfinito,
stressato e
innervosito da quegli eventi, quasi mi spaventai quando
un’enorme tazza
arancione venne posizionata sotto al mio naso, mentre un intenso e
dolce
profumo di caffè caldo e bollente mi solleticava le narici.
Solo allora mi resi
conto che il barista mi stava parlando, così sollevai gli
occhi su di lui e lo
fissai imbambolato mentre mi assicurava che quello lo offriva la casa.
Senza
rendermene conto
iniziai a sorseggiare la bevanda, sentendomi meglio ad ogni sorsata e
dimenticando, a poco a poco, il mio malumore, rincuorato dalla
gentilezza
fattami da quel tipo con un bizzarro taglio di capelli.
Quando
finii di bere il
suo apprezzato caffè lo guardai ancora, questa volta senza
nascondere il viso
dentro la tazza per l’imbarazzo, e ringraziai mentalmente il
Cielo per il
barlume di fortuna che aveva deciso di concedermi dopo avermi fatto
patire come
un poveraccio.
«Grazie»
mormorai e,
quando il suo sorriso si aprì e divenne più
ampio, decisi che quella era senza
dubbio una bella giornata.
Perché
non riservare un
posticino anche per loro? Quindi ecco come Ace ha incontrato Marco ed
ecco dove
continuerà ad andare unicamente per vederlo e, come dire,
conoscerlo senza
esporsi troppo.
E’
una Raccolta che fa
riferimento a questa coppia descritta in questa mia long, Il sentimento è reciproco,
ma che si può benissimo leggere a
parte. Sono comunque ruffiani e coccolosi e avranno molto di cui
parlare ^^
Adoro
questi due e il
loro carattere, spero lo facciate anche voi e che apprezziate il tutto
come fa
Ace con il caffè **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2. Quel ragazzo dell'altro giorno. ***
Capitolo 2. Quel
ragazzo dell’altro
giorno.
Quel giorno avevo
finito le lezioni ad un orario abbastanza decente e, per mia fortuna,
il sole,
anche se stava già tramontando, sembrava promettere ancora
bel tempo per
l’indomani. Meglio così, almeno non avrei dovuto
camminare sotto la pioggia
come mi era toccato fare due giorni prima, anche se tutto
ciò lo ricordavo con
un sorriso visto quello che mi era capitato.
Affrettai
il passo
quando, dietro l’angolo, apparve l’insegna del bar
nel quale mi ero fermato per
sfuggire al temporale, alla ricerca di un po’ di calore e
qualcosa di caldo da
bere. Anche se quella era stata una giornata infernale, non era
comunque da
dimenticare e cancellare, non dopo che mi era stata offerta una
quantità extra
di caffè, amato e sacrosanto caffè, e
l’occasione di conoscere la gentilezza
degli sconosciuti. Sconosciuti che, ad essere sinceri, non erano
affatto male,
anche se avevano un ridicolo ciuffo biondo simile ad un ananas in testa.
Entrai,
facendo suonare
il campanellino collegato alla porta, e sentendomi subito accogliere
dall’atmosfera tranquilla e stranamente famigliare che
trasmetteva il locale,
guardandomi attorno e rendendomi conto in quel momento
dell’ampiezza del posto.
Parte di esso era illuminata a giorno da grandi vetrate, mentre
l’altra era
leggermente lontana dal reparto bar e piuttosto scura, ma potei
intravvedere un
palco, degli amplificatori e dei tavolini con delle sedie apostate
sotto di
esso. Pensai che, probabilmente, i gestori tenevano aperto anche la
sera e
avevano quindi organizzato il tutto per una clientela differente da
quella che
passava di lì durante il giorno.
Continuando
a lanciare
occhiate a destra e a sinistra, mi avvicinai al bancone e mi appollaiai
su uno
sgabello, scompigliandomi distrattamente i capelli e adocchiando un
contenitore
ripieno di biscotti che stuzzicarono il mio appetito.
«Cosa
gradisce?» fece
la voce calma e cortese del ragazzo che mi stava dando le spalle,
intento ad
asciugare un paio di tazzine e alcuni bicchieri posti vicino al lavello.
Come
avesse fatto ad
accorgersi di me era un mistero.
«Un
caffé». Dissi la
prima cosa che mi passò per la testa, osservando gli
avambracci tesi, messi in
mostra dalle maniche della camicia arrotolate fino al gomito del
barista il
quale, con un cenno di assenso, si mise subito all’opera,
voltandosi infine per
porgermi una tazza pulita e fumante.
Quando mi
rivolse la
tipica espressione cordiale che la buona educazione dettava, pensai
bene di
dedicargli un sorriso tanto grande che per un attimo lo
lasciò interdetto,
mentre con lo sguardo studiava il mio volto con attenzione, facendo poi
un
mezzo sorriso e indicandomi con un dito a mezz’aria.
«Sei
quel ragazzo
dell’altro giorno, o sbaglio?».
«Sono
proprio io!»
sghignazzai fiero, mentre dentro di me mi sentivo lusingato
dall’aver scoperto
che si ricordava del nostro incontro. Voleva dire che gli avevo fatto
una certa
buona impressione, tutto sommato.
Sulla sua
bocca prese
forma un ghigno canzonatorio mentre, con un sopracciglio inarcato, mi
squadrava
dall’alto in basso.
«Oggi
però non piove»
mi fece notare, «Come mai da queste parti?».
«Mi
andava un caffè»
spiegai. E volevo rifarmi gli occhi,
aggiunsi mentalmente.
«Questa
volta devi
pagarlo, lo sai, vero?» chiese, anche se il suo sembrava
più un avviso.
«Ma
dai, e io che
pensavo di essere un caso speciale» scherzai, prendendo un
biscotto e facendolo
finire direttamente nel mio stomaco.
«L’eccezione
è solo per
i disperati».
«Allora
penso che da
ora in avanti non mi offrirai più nulla».
Mi
guardò accigliato,
«E perché?».
«Beh»
feci teatrale,
«Perché io sono semplicemente la persona
più allegra che esista sulla faccia
della terra».
Ace che
si presenta per
quello che è: solare, allegro, sorridente e asdhbsvuoadfyv **
Bene,
passiamo alle
cose serie come, per esempio, quanto deve essere bello Marco di spalle,
cosa
che non sfugge al nostro ragazzino intraprendente che ruba i biscotti
u.u
Oh beh,
ne avrà di
tempo per studiarlo!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3. Fuori dal normale. ***
Capitolo 3. Fuori
dal normale.
Fin dal primo
momento
in cui avevo visto quel ragazzino mettere piede nel locale avevo subito
pensato
che doveva trattarsi di un tipo particolare. Un pensiero normale e del
tutto
meritato, dato che sembrava avere un diavolo per capello, nel vero
senso della
parola vista la chioma corvina e ribelle che pareva avere vita propria,
nonostante fosse gocciolante per la pioggia che scendeva a cascata quel
pomeriggio inoltrato. La persona in questione era sul punto di una
crisi di
nervi, data l’irruenza e il malumore con cui
poggiò pesantemente le braccia sul
bancone una volta preso posto su uno sgabello, rimanendo con lo sguardo
fisso
in un punto indefinito davanti a sé e con un cipiglio
leggermente irritato a
dipingergli il viso.
Sembrava
davvero sul
punto di ammazzarsi e ciò mi aveva fatto tornare con i piedi
per terra, dandomi
l’incentivo per interessarmi alla sua causa e fargli capire,
con una piccola
gentilezza, che non era tutto bianco o nero come poteva apparirgli in
quel
momento.
Così
gli avevo
preparato una bella quantità di caffè e versata
poi in una tazza fumante e
colorata, giusto per dare un po’ di vivacità a
quel grigiore che lo circondava
e mettendogliela sotto al naso, ottenendo subito la sua attenzione e
scontrandomi con un paio di occhi scuri e stanchi.
Subito mi
era sembrato
indeciso sul da farsi, ma non aveva resistito a lungo e si era fiondato
sulla
bevanda, facendola sparire in pochi minuti e subendo
l’effetto e il cambiamento
che avevo sperato.
Alla fine
aveva sorriso
e mi aveva ringraziato, facendomi sentire in pace con me stesso per
essere
stato utile a qualcuno che ne aveva un estremo bisogno.
Allora mi
aveva colpito
quella sua aria trascurata e seria, tanto da fare concorrenza alla mia,
ma non
immaginavo che si trattasse solo di un raro, anzi, rarissimo
momento di smarrimento. Il ragazzino, infatti, era
l’immagine della spensieratezza e della vivacità,
nonché della pazzia, come
ebbi modo di scoprire nelle occasioni in cui lo rividi presentarsi al
bar,
sempre di passaggio, ma con un enorme sorriso sulle labbra.
La
seconda volta che
l’avevo rivisto non l’avevo riconosciuto, tanta era
l’allegria che sembrava
sprigionare e, quando mi ero reso conto chi fosse realmente, ero
rimasto per un
attimo interdetto e stupito nel vederlo così cambiato, ma
non ci avevo dato
molta importanza. Lavorare come barista mi aveva aiutato a capire
abbastanza
bene le persone e se c’era una cosa che avevo imparato era
che bisognava
aspettarsi di tutto, sempre.
Solo che
quel ragazzo
aveva le carte in regola per essere catalogato come fuori
dal normale. Infatti, in quel momento, si stava bevendo la
terza cioccolata calda della giornata, con aggiunta immancabile di
panna. Da tenere
presente, anche, che si trovava lì solamente da un quarto
d’ora.
«Penso
sia la migliore
cioccolata che abbia mai assaggiato» si
complimentò, accennando ad un sorriso
nella mia direzione per poi tornare a concentrarsi sulla tazza e
sbrodolarsi di
panna la punta del naso.
«L’hai
detto anche
delle due precedenti» gli feci notare con una punta di
ironia, senza smuovermi
dalla mia posizione e restandomene appoggiato a braccia conserte al
bordo del
ripiano davanti a lui, osservandolo prosciugare la sua ordinazione con
animo.
Fece un
mugugno
indistinto e alzò le spalle, guardandomi poi con
un’espressione speranzosa e
stupendomi nuovamente con la richiesta che accompagnò quello
sguardo implorante.
«Posso
averne un’altra?
Questa volta fondente, grazie».
Sospirai
rassegnato,
imponendomi di non sorridere e mantenere la mia pacatezza davanti a
quella
stramberia, scuotendo il capo e recuperando la panna dal frigo.
Sicuramente ce
l’avrebbe voluta, doppia anche.
«Arriva
subito».
Marco inizia a
conoscere Ace per quello che è realmente e ne rimane, come
dire, sconvolto? No dai,
solamente incredulo, ecco. E’ un tipo che sta sulle sue,
sempre posato e
tranquillo, ma la sua facciata verrà messa sempre
più a dura prova dalla
vivacità del nostro ragazzino **
E poi,
come non
sorridere davanti ad un Ace alle prese con la cioccolata calda? La
terza, anzi,
la quarta! E con la paaaaaaanna!
Vado a
prepararmene
una, lol. Fatelo anche voi, mette sempre di buon umore ;D
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4. Osso duro. ***
Capitolo 4. Osso
duro.
Quel ragazzo era
un
osso duro. Sul serio, nonostante il lavoro a stretto contatto con le
persone,
pareva sempre stare sulle sue e mantenere un certo distacco. Forse ero
io che
mi sbagliavo, ma l’avevo studiato bene: oltre ai sorrisi
educati e ai soliti
convenevoli, non si sbilanciava mai a fare di più e svolgeva
semplicemente il
suo compito con una calma e una pacatezza invidiabili. Come se niente
potesse
scalfire quell’aria apatica e quello sguardo sempre attento e
silenzioso.
Dovrebbe
sorridere di più,
pensai tra me e me, mentre seguivo il suo profilo con sguardo discreto,
studiandolo da dietro il listino che tenevo alto davanti al mio viso
per
nascondere il mio interesse.
Oggi
sembra più serio del solito, anche se non posso dirlo con
certezza visto che
per la maggior parte del tempo si fa i benedetti affari suoi senza
nemmeno
calcolarmi, ma qualcosina di lui sto imparando a capirla.
Ciò che più di tutto
mi è chiaro è che non gli piace essere disturbato
per stupidaggini. Bene, cioè
male, io non sono il tipo da discorsi complicati e contorti. Ah,
maledizione.
Mentre mi
arrovellavo
il cervello, grattandomi nervosamente la nuca e facendo varie smorfie
piuttosto
imbarazzanti, il cartoncino mi venne tolto all’improvviso
dalle mani e un paio
di occhi sbucarono dal nulla con un’espressione mista tra lo
scettico e il
divertito.
«Ma
che…» provai a
dire, cercando nel frattempo di assumere un’aria meno idiota
di quella con cui
mi ero fatto beccare per salvare almeno un po’ la mia
reputazione.
«Ti
ho chiesto per tre
volte se avevi deciso cosa prendere» spiegò,
incrociando le braccia al
petto e ghignando beffardo, «E non hai mai
risposto».
«Uh?
Davvero? Io, ecco…
Scusa» improvvisai, accennando ad un sorriso e ricevendo in
cambio uno sbuffo
esasperato, ma non scocciato come avevo temuto.
Scampato
pericolo.
Ad ogni
modo, anche
dopo che ebbi ordinato, il muso lungo tornò ad impossessarsi
dei suoi
lineamenti, tanto da farmi ritornare alla mente le mie precedenti
ipotesi e
idee.
«Oggi
il caffè dovrei
offrirtelo io» me ne uscii senza volerlo, attirando
inevitabilmente la sua
attenzione, accompagnata poi da uno sguardo interrogativo e un
sopracciglio
esageratamente inarcato.
«Si,
insomma»
borbottai, giocherellando con il piatto dove stava comodamente adagiata
una
piadina, «Sembri piuttosto disperato».
Allora
capì cosa
intendevo, rilassando un po’ la postura rigida e
avvicinandosi di qualche passo
per appoggiarsi con i gomiti al ripiano del bancone e osservarmi mentre
davo il
primo morso, facendo scomparire metà panino e dandomi
l’occasione di notare,
come mi aspettavo, una certa sorpresa da parte sua nel vedere il mio
modo di
sfamarmi.
«Mi
sbaglio?» chiesi a
bocca piena, strozzandomi con un boccone e dovendo svuotare
l’intero bicchiere
d’acqua che gentilmente mi porse, ridendo sotto i baffi per
la mia goffaggine.
«No»
fece semplicemente,
ma già più sollevato. Lo capivo perché
i suoi occhi non mi stavano guardando
con quel suo classico sguardo superficiale e disinteressato. Sembravano
vivi e
partecipi, attenti a quello che gli capitava intorno.
«Posso
aiutare?». Mi
sembrava il minimo dopo l’illuminazione che era stata lui per
me, anche se a
sua insaputa.
A quel
puntò fece un
mezzo sorriso che mi fece andare di traverso nuovamente il mio
spuntino, visto
il modo furbo e vivace in cui mi guardò.
«Vedere
come ti ingozzi
è sufficiente a farmi tornare il buon umore».
Non mi
sto nascondendo
perché sono in ritardo, affatto ** dai ragazzi, a parte gli
scherzi, penso che
la raccolta, se le cose vanno avanti così, dovrei
aggiornarla spesso, SALVO
IMPREVISTI COME IERI. Scusate comunque se non ve l’ho detto
prima ^^
Anyway,
Marco, Marco,
Marco! Marco è un tipo posato e non si scomoda di certo
troppo se non il minimo
indispensabile. Ace, al quale si illuminano gli occhi al sol vederlo,
è intenzionato
a farlo uscire dal guscio e ci riesce, un po’ alla volta,
senza nemmeno
accorgersene. Come con la piadina, ma caro :3
Voglio
precisare che l’ultima
frase detta da Marco non è pronunciata con, come dire,
affetto o sentimento. E’
sollevata e gentile, meno distaccata del solito, ma non nasconde nulla
di più.
Per il
momento almeno,
abbiate pazienza.
Ringrazio
tutti per l’interesse
che dimostrate, siete così coccolosi *____________*
See ya,
Ace.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5. Non sono un ragazzino. ***
Capitolo 5. Non
sono un ragazzino.
Il campanello
della
porta suonò e, come di consuetudine, alzai lo sguardo per
vedere la faccia del
prossimo cliente che avrei servito, immaginando già di chi
si potesse trattare
vista l’ora tarda del pomeriggio. Infatti mi bastò
notare di sfuggita una testa
nera e l’insolita altezza di questa per riprendere il mio
lavoro e finire di
sistemare la lavastoviglie.
Guarda
chi arriva più contento che mai, riflettei
sarcastico, se penso che la prima volta
che l’ho visto sembrava un cane bastonato stento a crederci.
Come riesce a
mantenere sempre quell’aria spensierata e vivace? Non
è mai serio, non sta
fermo un secondo e mette a rischio le scorte di cibo e alimenti vari
del locale.
Pazzesco. Questo ragazzino è imprevedibile.
Sentii il
chiaro rumore
di uno sgabello strisciare sul pavimento e poi qualcuno vi prese posto.
Potei
quasi immaginarmi la faccia sorridente che attendeva solo che mi
alzassi per
attaccare bottone.
E
quanto parla poi! D’accordo che lavorando come barista mi
ritrovo spesso a
chiacchierare, ma qualche minuto di pace mi andrebbe bene e se
c’è lui nei
paraggi di certo posso scordarmeli.
Non che
la sua presenza
mi desse fastidio, anzi, inoltre non passava di lì tutti i
giorni, solo aveva
qualcosa di strano. Non strano in
senso cattivo, ma era come se non riuscissi a sentirmi del tutto a mio
agio,
ecco. Lui era un tipo socievole e cercava sempre di rivolgermi la
parola e
indurmi a parlare, parlare e parlare, quando io ero sempre stato quel
genere di
persona a cui piace rimanere ad osservare, piuttosto che buttarsi. E la
confidenza che aveva era disarmante, tanto da lasciarmi spiazzato a
volte.
Chissà
che novità mi porta oggi.
«Ciao!»
fece allegro
quando mi rialzai, preparandomi mentalmente ad una
mezz’oretta di
intrattenimento.
«Ciao
anche a te. Cosa
prendi oggi?». Ecco un’altra cosa che faceva:
cambiava sempre ordinazione. Dal
caffè al tè, dalla piadina ai biscotti, dalla
brioche a una birra.
Ci
pensò su per qualche
istante per poi chiedermi gentilmente un waffle. Tra tutto
ciò che era presente
nel menu scelse proprio quello in cui ero meno pratico.
Con un
sospiro
rassegnato mi misi a lavoro nell’esatto istante in cui lui
iniziava a
raccontarmi la sua giornata, concentrandosi soprattutto sui professori
e
chiedendomi se anche io li detestavo come la maggior parte degli
studenti.
«Non
li sopportavo
nemmeno io» affermai senza rendermene conto, lasciandomi
scappare qualche
parola di troppo e rendendomi partecipe di quei suoi discorsi che non
avevano
ne capo ne coda. Forse per quello, un po’, mi piaceva
ascoltarlo.
«Come
sarebbe ‘sopportavo’?
Non studi? Che fortuna. Io
sono all’ultimo anno e non ne posso…».
Dandogli
le spalle non
poté vedere il sorriso che mi increspò le labbra.
Certo che non andavo più a
scuola, che domande. Non si era accorto che, in confronto a me, lui era
ancora
un ragazzino arrogante mentre io no? Benedetta gioventù.
«Allora?»
finì di
chiedere, riscuotendomi dai miei pensieri.
«Che
cosa?» domandai,
voltandomi appena e guardandolo da sopra la spalla, immaginando un
enorme punto
interrogativo stampato sulla sua faccia e sentendomi stranamente nei
guai
quando sogghignò con una strana luce negli occhi.
«Non
mi stavi
ascoltando, ammettilo!» ordinò vittorioso.
Alzai gli
occhi al
cielo, maledicendomi per essere stato così sciocco da farmi
mettere nel sacco e
sentirmi per giunta rinfacciare di non essere stato a sentire i suoi
sproloqui.
Come se lui fosse il più concentrato sulla terra. Nemmeno le
contavo le volte
in cui si perdeva nel vuoto.
«Ti
ho chiesto quanti
anni hai per aver già finito
l’università, sempre se ci sei andato»
disse,
cercando di mantenere un contegno serio, anche se era chiaro che
l’avermi
beccato in fallo lo divertiva parecchio. Apprezzai comunque il suo
impegno.
Fu allora
che mi voltai
e gli presentai un waffle dall’aria attraente, annegato nella
cioccolata e con due
biscotti al lato del piatto. Davvero, avevo superato me stesso con quel
capolavoro.
«Avanti
ragazzino,
mangia e sta un po’ zitto».
«Ehi!»
protestò,
alternando lo sguardo da me alla favolosa golosità che
rilasciava un profumo
delizioso, «Non sono un ragazzino, io ho ventiquattro
anni!».
«Appunto»
ghignai.
«E
tu allora? Non sarai
messo tanto meglio».
«Ne
ho trentadue».
Rimase
con il boccone a
mezz’aria per un istante mentre io mi godevo soddisfatto la
sua espressione,
riprendendomi anche una piccola rivincita su di lui dato che si era
permesso di
ridere della mia disattenzione.
«Vecchietto»
se ne uscì
allora con nonchalance e mettendo in bocca il primo pezzetto di waffle,
sprizzando
poi entusiasmo da tutti i pori. «Cazzo, ma è
buonissimo!».
«Vaffanculo!»
sbottai
allora, lasciando perdere per la prima volta il mio contegno posato, ma
il suo
commento non poteva di certo restare impunito. «Dammi qua,
non te lo meriti
dopo questa!».
Owww,
rotolo ogni volta
che i miei occhi si chiudono e immaginano questi due assieme a
bisticciare **
Solo
poche parole,
dunque: so perfettamente che Ace ha vent’anni, ma questa
raccolta è un estratto
della long che ho in corso dove il ragazzo frequenta l’ultimo
anno di
università, per cui qualche anno in più devo per
forza darglielo. Poi, ho
cercato qualche informazione, ma oltre al fatto che Marco sia un figo
pazzesco non ho trovato la sua vera età. Io
immagino sia più grande di Ace
e non solo di un paio d’anni, quindi otto mi sembrava il minimo
da dargli. Se siete
più aggiornati di me vi prego di farmelo sapere
così mi posso correggere u.u
Niente
waffle per Ace
dopo la sua battutona :D
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 6. Io amo il miele. ***
Capitolo 6. Io
amo il miele.
«Lo sai
che mangiare
troppi dolci non è salutare?».
Sollevai
gli occhi dal
piatto dove si trovavano una quantità industriale di
dolcetti che stavo
golosamente facendo scomparire come per magia per puntarli in quelli
impenetrabili del mio barista preferito, il quale, con una faccia
impassibile e
sorprendentemente per niente schifata dai miei modi poco ortodossi di
nutrirmi,
mi fissava con il capo leggermente inclinato in quella sua tipica
posizione
riflessiva.
«Sono
buoni» biascicai
a bocca piena come scusa, con il segreto intento di riuscire in
un’impresa
quasi impossibile: strappargli una risata, «Sarebbe un
peccato avanzarli».
Come
risultato ottenni
solo uno sbuffo sarcastico e un ghigno più simile ad una
smorfia che ad un
sorriso, ma come inizio non era così male, mi accontentavo.
Dovevo
avere pazienza,
quel tizio non era di certo uno facile e sicuramente avrei dovuto
impegnarmi
seriamente se volevo ottenere una qualche possibilità di
essere notato o preso
in considerazione come possibile compagno di uscite.
Il mio
problema attuale,
al momento, era un altro: quando l’avevo conosciuto non on mi
aspettavo di
certo che potesse essere così, come dire, attraente.
Attraente
è dire poco. Questo è sexy oltre ogni limite!
Guarda che schiena e che culo, pensai,
adocchiando per qualche
secondo la visuale che mi venne offerta del fondoschiena del biondo
quando
questo si girò per preparare un caffè ad un
cliente di passaggio. Dio! Dio devo smetterla
di invocarti, anche
se ti sei dimostrato molto generoso con me in queste ultime settimane.
Grazie!
Quando
terminò il suo
dovere e tornò a concentrarsi su di me spostai subito lo
sguardo altrove e
finsi indifferenza, prendendo un altro dolce e portandomelo alle labbra
con l’intento
di compiere un’altra magia per farlo sparire, ma qualcuno
decise che quello era
il momento migliore per interrompermi.
«Aspetta»
fece ad un
tratto, spostandosi all’interno dello spazio al di
là del bancone e prendendo
un misterioso vasetto da un ripiano sopra al lavello. «Quello
lo devi mangiare
col miele» spiegò, indicando il biscotto che
tenevo ancora tra le dita con un
cenno del capo.
Mi
consegnò una piccola
ciotola contenente il miele che ci aveva appena versato e un cucchiaino
per
raccoglierlo e lasciarlo colare sui dolci senza sporcarmi.
Apprezzai
il suo
suggerimento e, non vedendo l’ora di assaggiare quella nuova
combinazione che
non avevo mai provato prima, inzuppai direttamente la pasta frolla
nella
tazzina per poi fare un sol boccone di tutto.
Non avevo
avuto dubbi
sul fatto che la sua fosse un’idea grandiosa e quella nuova
scoperta era
sensazionale, davvero. Ovviamente non poteva sapere che quando si
trattava di
miele io andavo fuori di testa per i troppi zuccheri e mi sbrodolassi
immancabilmente
bocca e mani comprese. Era più forte di me, ma per quanta
attenzione ci
mettessi, quella sostanza appiccicosa mi colava sempre addosso.
Probabilmente
era lei a voler assaggiare me e non il contrario.
«Wow»
mormorai,
leccandomi le dita soddisfatto e accigliandomi quando lo vidi mettersi
una mano
davanti alla bocca per soffocare al meglio delle sue
capacità un sorriso che
minacciava di trasformarsi in una fragorosa risata. Si notava subito
quando era
divertito, glielo si leggeva negli occhi che, a sua insaputa, svelavano
più di
quello che lui volesse mostrare. E sembrava un buffo girasole allegro.
«Che
c’è?» domandai
imbambolato, sbiancando quando, con il pollice, mi diede un buffetto
sul naso
per togliermi i residui di miele che erano arrivati accidentalmente
fino a lì.
Avvampai, ma ipotizzai che fosse a causa del riscaldamento e pregai
nuovamente
il Signore, visto che ultimamente sembrava essere in ascolto, sperando
di non
essere arrossito per l’imbarazzo.
«Ecco
fatto» sorrise,
«Fastidioso il miele, vero?».
«Si»
soffiai,
«Fastidioso».
Benedette
tutte le api nonostante l’allergia. Io amo il miele, non
c’è niente di meglio
al mondo!
Oh si, lo
amo anche io
il miele e sicuramente è quest’ultimo a volerti
assaggiare, mio caro Ace! **
Bene,
fatta anche
questa per oggi e domani sto in vacanza, forse, se non vengo colta
improvvisamente da un’illuminazione. Vedremo ;D
Cosa
dite? Vi piace Ace?
E, come una persona (Brava Flame)
ha
scoperto, Marco inizia a piacervi? Perché il mio intento e
farlo amare. Andiamo,
non è pazzesco adorabile anche lui? **
Anche io
ho il nasino
imbrattato di miele, so aspettando un buffetto u.u
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7. Mosaico di nozioni. ***
Capitolo 7.
Mosaico di nozioni.
Quel giorno
sembrava
essere iniziato per il verso sbagliato e stavo già
programmando di passare un
pomeriggio noioso e infinito quando, ad un insolito orario, vidi il
nuovo
cliente abituale entrare nel bar trascinandosi dietro un pesante zaino
nero e
un paio di libri in braccio con l’aria di chi preferirebbe
spararsi piuttosto
che avere a che fare con tutte quelle scartoffie.
Aspettai
che, come al
solito, si accomodasse nell’angolo più remoto del
bancone e che mi rivolgesse
il suo classico e inquietante saluto, con tanto di sorriso da un
orecchio
all’altro e sguardo divertito. Nonostante
l’immaginabile quantità di lavoro
universitario che sembrava dover affrontare, la sua vivacità
non mancò di
colpirmi anche quella volta e, curioso di capire cosa lo portasse in un
locale
pubblico con una pila di libri alle tre del pomeriggio, lo raggiunsi
con la
scusa di chiedergli se volesse ordinare qualcosa.
«Nah,
più tardi magari»
rispose, scuotendo il capo, «Devo studiare adesso».
«E
un bar ti sembra il
posto migliore per farlo?» chiesi allora.
Si
strinse nelle spalle
e dall’occhiata che mi rivolse capii che stava per lanciarsi
in una delle sue
contorte spiegazioni.
«La
biblioteca sembrava
una fiera; le aule, quelle con il riscaldamento funzionante, erano
tutte occupate;
il mio appartamento non è il top della
tranquillità il giovedì e questo
rimaneva il mio unico porto di salvezza» sospirò
affranto, prima di farmi
trasalire sbattendo sul bancone un pesante volume di psicologia per poi
aprirlo
circa a metà.
Lo
guardai per un lungo
istante, indeciso se farmi beffe di lui o spedirlo fuori a calci per la
sua
poca grazia, ma quando tirò fuori dallo zaino logoro un
quaderno per gli
appunti stracolmo di fogli riempiti con una calligrafia geroglifica,
decisi di
lasciarlo nel suo angolino a studiare, ricordando come anche io
cercassi sempre
un posto abbastanza riservato per non essere disturbato.
Nelle ore
seguenti
scoprii che quel ragazzino si impegnava con tutto se stesso nello
studio,
tanto che non mi
chiese mai nulla e non
accettò nemmeno di fare una pausa. L’unica cosa
che apprezzò fu una tazza di
caffè che gli piazzai silenziosamente accanto al libro. Per
il resto, rimase
con la testa sepolta nel tomo fino a quando l’orologio non
segnò le sei e un
quarto.
«Maledizione!»
imprecò
improvvisamente, sbuffando stancamente e lanciando la matita sul
bancone.
Inarcai
un sopracciglio
con un mezzo sorriso sulle labbra nel vederlo così
indaffarato con i compiti,
chiedendogli poi se ci fosse qualche problema e aspettando che mi
chiedesse
aiuto. Perché sapevo che lo avrebbe fatto, non era capace di
non coinvolgere
qualcuno nelle sue stramberie.
«Non
ci capisco niente»
sbottò frustrato, passandosi una mano sul viso.
«Avanti,
fa vedere».
Ignorando
il suo
sguardo stupito, mi avvicinai alla sua postazione e voltai il libro
verso di
me, scorrendo velocemente le frasi che vi erano scritte.
«Mi
piaceva psicologia»
svelai, «Dovevi saper leggere tra le righe per trovare la
risposta».
«A
me sembra di
impazzire» affermò sconfortato e stringendosi
nelle spalle.
«Per
ora sono libero.
Se vuoi ti do una mano» proposi, iniziando a slegarmi il
grembiule che
indossavo per metterlo da parte e appoggiandomi al bancone in modo da
ritrovarci faccia a faccia.
Sbatté
le palpebre
qualche volta di troppo e repressi a stento la voglia di sorridere
davanti alla
sua malcelata sorpresa, ma poi sembrò riprendersi e
concentrarsi sulla materia
in questione.
«Dunque»
iniziai
pratico, «Psicologia: mosaico di nozioni che si arricchisce
continuamente…».
Tornando
con la memoria
ai vecchi tempi in cui anche io ero uno studente fuso, non mi accorsi
del
timido sorriso e dello sguardo illuminato che il ragazzino nascose
prontamente
scompigliandosi i capelli corvini.
Rotolo,
rotolo, rotolo
**
Marco
quanto sei
adorabilmente fintamente disinteressato e indifferente alla bella
figura di
Ace? Non ti crede nessuno quindi smettila di fare finta di nulla u.u
Seriamente, Marco ancora si comporta come se nulla fosse, con
normalità, mentre
Ace sbava ovunque, ma si darà presto una svegliata. Spero.
Dipende. Si,
insomma, si vedrà :D
Wiiii, vi
lascio a
fantasticare :Q___________
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo 8. Tu cosa farai a natale? ***
Capitolo 8. Tu
cosa farai a natale?
Mi piaceva
l’inverno,
davvero. Tutto assumeva una sfumatura, in un certo senso, calda. Calda
perché, a
causa del freddo, si indossavano maglioni pesanti, sciarpe, guanti,
cappelli e
qualsiasi indumento di lana. Nelle case si accendeva il riscaldamento,
il
camino o la stufa e non c’era niente di meglio che
acciambellarsi nel divano
con una coperta felpata e una bella dose di cibo da asporto, che faceva
sempre
bene e non stonava mai, davanti ad un film o a qualche stupido
programma. Coinquilini
a parte, era l’ideale per rilassarsi.
E poi
c’era la
benedetta e sacrosanta cioccolata calda. E quale posto migliore di un
bar per
prenderne una in pace e tranquillità con una doppia dose di
panna e una
spolverata di scaglie di cioccolato fondente? Conoscevo il posto adatto
e fu
con un enorme sorriso che entrai nel suddetto locale dove lavorava una
testa
d’ananas per la quale avevo sviluppato un inquietante e
morboso interesse.
«Oh
ciao» salutò,
accennando stranamente ad un sorriso e non al tipico ghigno apatico che
mi
rivolgeva praticamente sempre.
«Ciao!»
feci a mia
volta e con il mio solito entusiasmo che non mancavo mai di sfoggiare.
Prima o
poi avrei contagiato anche lui, poco ma sicuro. «Siamo
allegri oggi».
«La
mia famiglia sta
già iniziando a programmare le feste natalizie. Hanno
intenzione di iniziare a
mangiare non appena scattano le vacanze» spiegò,
incapace di stare zitto e
trattenendo a stento l’eccitazione che quella notizia
sembrava trasmettergli.
Chissà, magari erano tanti fratelli e parenti e
l’allegria non sarebbe di certo
mancata in una grande famiglia.
Lo capivo
benissimo, a
me capitava lo stesso praticamente da una vita, per questo non faticai
a
prendere parte alla sua contentezza, ascoltandolo mentre mi spiegava
come i
suoi, come avevo immaginato, infiniti fratelli si dessero alla pazza
gioia con
le decorazioni, l’albero, il presepe e, soprattutto, i dolci
e tutte le altre
pietanze.
Sembrava
un’altra
persona in quel momento: così rilassato, così
socievole, amichevole e
maledettamente bello. Mentre parlava muoveva mani e braccia per
esprimersi
meglio e per aiutarmi ad immaginare la scena descritta, ogni frase che
pronunciava era accompagnata da un sogghigno esasperato per le
marachelle
combinate dai suoi famigliari, ma tutto di lui esprimeva affetto.
Eravamo
così intenti a
chiacchierare che ci sembrò normalissimo starcene appoggiati
al bancone, l’uno
sporto verso l’altro con il sorriso sulle labbra a ridere e
scherzare. Il
miglior momento della giornata, senza dubbio.
«E
tu cosa farai a
natale?» chiese ad un tratto.
Ci
riflettei per un
attimo, indeciso se svelargli o meno tutte le cazzate a cui mi capitava
di assistere
ogni benedetta volta dell’anno in cui le strade si tingevano
di bianco e la
gente aspettava ansiosa Babbo Natale. Forse potevo restare sul vago e
non
scendere nei particolari.
«Beh,
le solite cose»
dissi evasivo, grattandomi il capo imbarazzato.
Se ne
accorse perché
iniziò ad insistere per sapere cosa gli stavo nascondendo. A
detta sua ero un
libro aperto per lui.
Ignorando
le
palpitazioni che iniziarono a battere nel mio petto, feci un respiro
profondo e
pregai di non essere tanto sciocco da scandalizzarlo.
«Allora,
ogni anno i
miei amici decidono di autoinvitarsi nel mio appartamento e dare inizio
ad una
festa che si protrae fino a dopo capodanno. E non sto scherzando,
alcuni hanno
il coraggio di trasferirsi da noi e
dormire lì. A parte questo non facciamo un
granché, se non si conta la quantità
illimitata di alcool che circola; giochi illegali; gente in mutande che
esce a
fare pupazzi di neve; canzoncine di natale storpiate al momento e
cantate al
megafono in terrazzo e… no, aspetta, questo non te lo
racconto». Mi fermai
appena in tempo per non rendere nota la più grande
sciocchezza che avessi mai
combinato e che era finita nella lista delle cose da rifare
fino alla morte di quello scapestrato di mio fratello.
«Oh
no, non puoi non
dirmelo, ormai ci sei dentro!» fece categorico, scuotendo il
capo e puntandomi
un indice addosso, sfiorandomi il naso.
«E
come pensi di
convincermi?» lo sfidai sogghignando. Non avevo nessuna
intenzione di cedere,
nemmeno se era lui a chiedermelo.
Sembrò
non aspettare altro
e, superando le distanze di sicurezza che io
di certo non avrei mai imposto tra noi, arrivò a
trovarsi ad una spanna dal
mio volto con l’aria di chi sa esattamente ciò che
vuole. Meglio così, perché
io avevo il cervello in black-out da un pezzo.
«Se
non me lo dici»
sussurrò serafico e con uno sguardo così
abbagliante che per un attimo il tempo
sembrò fermarsi. Lui doveva essere la mia maledizione
personale, ne ero sempre
più convinto.
«Niente
cioccolata!».
Una pacca amichevole si abbatté sulla mia testa e mi
riportò alla realtà,
ricordandomi solo in quel momento che dovevo respirare.
Dio
mi vuole morto, devo averlo offeso in qualche modo.
«Allora?».
Con la
faccia di chi sa di averla vinta quel ragazzo con il brevetto per
causare
infarti aspettava la mia confessione.
Sospirai
rassegnato e
leggermente deluso, ma quel gioco stava iniziando a piacermi e, di
questo ne
ero certo, avrei fatto di tutto per vincere la partita e giocare sporco
come
faceva lui sarebbe stata la priorità.
«Ho
attaccato ad un
albero di natale una certa quantità di fuochi
d’artificio collegati a un
detonatore che poi ho attivato. E indovina? L’albero sembrava
un razzo.
Meraviglioso!».
Mi
guardò allibito per
qualche istante prima di commentare e farmi ridere come uno scemo.
«Tu,
ragazzino, sei un piromane».
«Non
sei il primo a
dirlo».
Non mi
matto a cantare
canzoncine di natale perché sono stonata, ma fate finta che
l’abbia fatto lo
stesso ** ad ogni modo con questo capitoletto voglio augurare a tutti
un Buon
Natale, tanti regali, tanti dolci e taaanto affetto ** si, con il
natale sclero
:3
Mangiate
tanto,
ingrassate e poi rotolate per casa, io farò così
e non vedo l’ora!
Beh, di
certo Marco SA
come ammaliare le persone :Q____ mentre Ace (botti di capodanno) SA
come
divertirsi. Ed essere bello. E caro. E adorabile. Bene, basta.
Da notare
che non si
chiamano ancora per nome ma lo faranno presto, mlmlml **
Che altro
dire, un
Grazie a tutti voi che seguite, leggete e recensite e mi fate arrossire
e
rotolare ogni volta per la troppa gentilezza che non merito. Un
abbraccione
grandissimo quindi e a prestissimo :D
See ya,
Ace.
P.S: un
piccolo
regalino allegro **
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Capitolo 9 *** Capitolo 9. Abitudini. ***
Capitolo 9.
Abitudini.
Ormai si poteva
dire
che la routine facesse parte della mia vita.
La
mattina mi alzavo e
andavo ad aprire il bar; poi pausa pranzo; il pomeriggio lo passavo al
bar, di
nuovo; la sera chiudevo e me ne tornavo a casa salvo occasioni
particolari in
cui tenevo aperto. Feste, compleanni, spettacoli, quello che mi veniva
proposto
accettavo. Era sempre un modo per uscire dalla monotonia.
Oltre a
questo
conoscevo ogni abitudine dei miei clienti con i quali mi divertivo a
indovinare
le loro vite.
C’era
il vecchietto
delle otto e mezza del mattino che ogni giorno veniva a fare colazione
da me,
sedendosi sempre nel tavolo centrale a leggere il giornale e ordinando
un caffè
e un cornetto. Sembrava il classico pensionato. Subito dopo veniva una
donna
che avevo soprannominato ‘la Nonna
delle
Nove’ la quale, con una sfacciataggine da far
paura, cercava puntualmente
di palparmi il sedere quando le portavo la sua ordinazione: cappuccino
e
brioche. ‘La Principessina’
era una
liceale dai buffi capelli azzurri, anche se io ero l’ultimo a
poter giudicare
le acconciature altrui, che passava da quelle parti verso le undici e
un quarto
per ordinare un paio di panini da portare via. Era simpatica e ben
educata,
sempre scortata da una macchina nera che la aspettava in strada. Forse
la
figlia di qualche pezzo grosso, così le avevo affibbiato
quel nomignolo
altisonante. Al pomeriggio, però, mi divertivo di
più. Innanzitutto, dopo
pranzo, venivano a salutarmi dei carpentieri molto simpatici, un gruppo
di
ragazzoni esaltati e rumorosi, ma brave persone e sempre pronti a fare
battute
di spirito. Una volta usciti loro, entravano spesso alcune studentesse
che si
sedevano negli ultimi tavoli a chiacchierare e a bere qualche bibita,
giusto
per staccare un attimo dallo studio. In contemporanea, come se lo
facessero a
posta, un gruppetto di ragazzi prendeva posto poco distante e mi
offriva la
possibilità di vedere come le nuove generazioni cercavano di
attaccare bottone,
fallendo miseramente. Mi divertivo a chiamarli ‘Cuori
Infranti’. Verso le cinque, più o meno,
arrivava un tizio
con gli occhiali da sole e un buffo berretto in testa con il frontino a nascondergli il viso. Si sedeva
accanto alle vetrate e, ora che era inverno, ordinava una cioccolata
per poi
sorseggiarla da solo e in pace, osservando i passanti e perdendosi nei
suoi
pensieri. Solitario mi era sembrato
il nome più adatto da dargli.
Conoscevo
le abitudini
di tutti i presenti e anche il nome di alcuni di essi, eppure restava
una
persona che continuava ad essere una vera incognita.
Era
arrivato un giorno
per caso e non se ne era più andato. Era difficile da
classificare dato che di
lui sapevo solo che frequentava l’università,
quindi potevo dedurre che fosse
uno studente, ma per il resto aleggiava il mistero. Non passava di
lì tutti i
giorni e nemmeno un giorno si e uno no, con regolarità.
Insomma, non aveva
orari, semplicemente me lo trovavo davanti agli occhi con quel sorriso
aperto e
allegro e quello sguardo entusiasta. Altra cosa che mi mandava in
confusione
era il fatto che non ordinasse mai la stessa cosa. Cambiava sempre,
assaggiando
di tutto e apprezzando qualsiasi cibo mangiasse. Capirlo non era
facile, tanto
era imprevedibile. Parlava di tante cose e saltava da un argomento
all’altro
troppo velocemente, tanto che molte volte non riuscivo a stargli dietro
e
dovevo concentrarmi e mordermi l’interno di una guancia per
non scoppiare a
ridere davanti alle sue stramberie o figuracce.
Esattamente
quello che
stavo facendo in quel momento mentre lui cercava in tutti i modi di
raffreddare
la lingua che si era scottato nel voler subito bere la cioccolata che
avevo
appena tolto dal fornello.
«Io
te l’avevo detto»
gli feci notare sogghignando. Quello potevo permettermelo almeno.
«Non
è vero, mi hai
detto che calda era più buona» protestò
mettendo il broncio e tenendo la lingua
tra le labbra e a contatto con l’aria.
Mi
strinsi nelle
spalle, «Non intendevo che dovevi berla
all’istante».
«Potevi
spiegarti
meglio!» insisté.
Alzai gli
occhi al
cielo e mi lasciai scappare un sospiro esasperato davanti alle sue
lamentele.
«Sei
proprio un
ragazzino» dissi, godendomi la sua espressione di disappunto
che si trasformò prontamente
in una serie di velati insulti su quanto gli anziani avessero le ossa
fragili.
Se
pensava di prendermi
a pugni e battermi, si sbagliava di grosso, ma che potevo farci? I
piccoletti
erano sempre così impulsivi e pieni di sé, ma
questo, dovevo ammetterlo, un po’
mi divertiva.
Quella
delle abitudini
mi aleggiava in testa da un po’ e ho trovato il tempo di
buttarla giù,
finalmente! Il vecchietto, la nonna, i carpentieri e gli studenti sono
comparse, ma se avete alcune proposte o idee su chi potrebbero
rappresentare
fatemi sapere così do loro un nome ^^ mentre indovinate chi
sono la Principessina e il Solitario, lol. Sono facili dai ^^
A
proposito, Marco
inizia a prestare attenzione a Ace, awawawa. Inizia col pensare
all’incognita
del suo modo di fare per poi ammettere che lo diverte. E col tempo non
avrà
occhi che per lui, si spera!
Aaaaanyway,
passato
bene il natale? Quanto avete mangiato? E Quanti regali avete ricevuto?
Io sono
contenta come un papavero perché sotto l’albero ho
trovato Kidd e Ace **
Buon
Natale a me :Q____
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See ya,
Ace.
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Capitolo 10 *** Capitolo 10. Finirai per consumarlo. ***
Capitolo 10.
Finirai per consumarlo.
Me ne stavo
seduto al
bancone, i gomiti sul tavolo e le mani a sorreggermi il capo mentre,
con aria
rilassata e sognante, ammiravo ogni movimento del barista biondo per il
quale
tutte le settimane passavo a bere una cioccolata mettendo a rischio il
fisico
allenato di cui andavo fiero. Pazienza, quel ragazzo ne valeva la pena
mi
ripetevo.
Quel
giorno stavano
facendo dei lavori di ristrutturazione al tetto e quando ero arrivato
avevo
fatto solo in tempo a salutarlo e a ordinare una tazza di
caffè prima che
venisse richiamato fuori per rispondere ad alcune domande e a parlare
con i
lavoratori, guardando verso l’alto e coprendosi gli occhi con
la mano per
ripararli dal sole. Anche se non era così caldo era comunque
uscito con le
maniche della maglia nera che usava per lavoro arrotolate mentre il
resto della
stoffa gli aderiva in modo perfetto al petto, finalmente libero da
quello
stupido e ingombrante grembiule.
Ogni
tanto faceva
qualche passo lungo il marciapiede, grattandosi distrattamente la testa
e
smuovendo quel ciuffo bizzarro che, a sua insaputa, attirava
l’attenzione di
parecchi passanti. Così alto, così disinvolto,
così dannatamente figo da non
riuscire a staccargli gli occhi di dosso nemmeno per bere quel fottuto
caffè che
mi stava accanto. Niente da fare, si sarebbe raffreddato, ma anche in
quel caso
ne sarebbe valsa la pensa visto che attraverso le vetrate potevo
godermi
indisturbato la sua visuale, riflettendo su quante
possibilità avessi di
proporgli di uscire e ottenere un si come risposta. Non ne avevo
calcolate
molte fino ad allora, ma ero deciso a continuare a provare.
E’
così bello, pensai,
lasciando andare un sospiro trattenuto troppo a lungo.
«Di
questo passo
finirai per consumarlo» fece una voce scherzosa e maliziosa
allo stesso tempo.
Sobbalzai
nel
constatare che, esattamente di fronte a me e dall’altra parte
del bancone, un
ragazzo che non conoscevo stava appoggiato al ripiano e guardava nella
mia
stessa direzione, come se volesse imitare quello che stavo facendo.
Mi
allontanai quel
tanto che bastava per non essere faccia a faccia con lui e cercai di
ricompormi
meglio che potevo, sperando di non arrossire e fingendomi colto alla
sprovvista
per tentare di salvare quel po’ di dignità che mi
rimaneva.
«M-ma
di c-chi parli?»
chiesi innocentemente e notando che il nuovo arrivato indossava un
abbigliamento simile a quello del biondo con l’unica
differenza che questo era
moro e con una barbetta ispida e scura. Quando mi accorsi
dell’acconciatura dei
capelli mi chiesi se in quel bar conoscessero il significato della
parola parrucchiere o, nel suo
caso, barbiere.
Il ghigno
che mi
rivolse mi preoccupò assai e fece crollare le mie speranze
di passarla liscia,
lo confermò la risposta che mi diede qualche attimo dopo,
accompagnata da un
sorrisetto che la sapeva lunga e che rispecchiava la frase ‘chi credi di prendere per il
culo?’.
«Non
fare il finto
tonto con me» disse infatti, indicando la strada con un cenno
del capo e
incrociando le braccia al petto, «Della testa
d’ananas la fuori, di chi sennò?».
Nega,
nega fino alla morte!
«Non
so di cosa stai
parlando» feci indifferente, afferrando la tazza e iniziando
a sorseggiare la
bevanda ormai tiepida e schifosamente amara. Non avevo nemmeno messo lo
zucchero.
«Lo
stavi mangiando con
gli occhi, ammettilo» insisté l’altro,
allargando il sorriso e sporgendosi
verso di me con un’espressione insolitamente divertita,
troppo forse e ciò mi
mise una certa ansia. Soprattutto, mi chiedevo chi diavolo fosse quello
e da
dove fosse sbucato.
Intuendo
il mio
disappunto, il moro si schiarì la voce senza spostarsi di un
millimetro e mi
porse la mano, aspettando che io facessi altrettanto.
«Sono
Thatch e quello
che stavi sciupando a furia di fissarlo è mio fratello: Marco» confessò in
maniera esaltata. Ancora un po’ e si sarebbe
messo a saltare sul posto, ne ero certo.
«Oh
porca puttana»
sussurrai, dimenticandomi persino di dirgli chi ero io e pensando
solamente che
ero nei guai fino al collo ora che non una persona qualunque, ma il fratello del ragazzo per cui sbavavo si
era accorto del mio malcelato interesse. Ragazzo di cui avevo appena
scoperto
il vero nome, cosa che non mi ero mai soffermato a chiedermi, tanto ero
preso
da lui.
Marco,
com’è strano chiamarlo per nome,
trovai il tempo di pensare, ma gli sta
bene, non avrei potuto aspettarmi di meglio. Marco.
«Puoi
dirlo forte ragazzino!»
affermò, sempre sorridente e, stranamente, per niente
disturbato dall’accaduto.
Sembrava, come dire, contento e non cercò minimamente di
farmi il terzo grado o
di mettermi in guardia sul fatto che, se avessi toccato uno della sua
famiglia,
mi avrebbe spezzato le gambe. Insomma, niente di losco.
Ad ogni
modo, prima che
la situazione degenerasse, il biondo in questione fece il suo ingresso
con la
sua solita calma e, una volta accortosi chi avevo davanti, si
fiondò verso di
noi chiedendoci se fosse tutto in ordine.
«Tutto
tranquillo!»
urlò Thatch iperattivo, ricevendo in cambio
un’occhiata ammonitrice dall’altro
che, con una certa aria preoccupata e nervosa, mi chiese se quello
psicopatico
mi avesse per caso infastidito, spiegandomi che a volte poteva essere
davvero
pesante e logorroico.
Lo
rassicurai,
leggermente in imbarazzo, dicendogli che non era successo niente di
strano e
che non doveva farsi problemi per me perché avevo il mio
adorato caffè a farmi
compagnia.
«Se
combina guai
avvisami» fece Marco, prima di lanciare un ultima occhiata al
ragazzone che
aveva osservato con attenzione la scena prima di tornare dai lavoratori
e
lasciarmi in balia di quegli occhi scuri e che sembravano volermi dire
che
avevano capito tutto.
Cercai di
evitarlo e
non prestargli attenzione, ma quello si intromise a forza nei miei
pensieri
agitati e, alzando il pollice all’insù mi fece
andare di traverso il caffè con
le sue parole incoraggianti.
«Non
temere, ragazzino,
il tuo segreto con me è al sicuro»
ammiccò, «E poi mi sei simpatico, quindi
potrei anche svelarti il modo migliore per portarti a letto il mio
fratellino».
Incapace
di contenermi,
spruzzai il caffè ovunque sul bancone facendo scoppiare
l’altro a ridere come
un pazzo.
E adesso
chi lo
risolveva quel casino.
Non so
voi, ma io mi
sono innamorata della scena. So che è un controsenso
perché l’ho partorita da
sola, ma davvero ho ghignato tutto il tempo mentre scrivevo!
E dopo
questa posso
nascondermi perché a voi può benissimo fare
schifo, yeah u.u
Anyway, QUALCUNO si è accorto del
segreto di Ace
e sempre QUALCUNO ha scoperto il
nome
della nostra ananas **
Gli
ingranaggi iniziano
a muoversi, evvai! Fuochi d’artificio!
Questo
non c’entra con
la storia, maaa… oggi ho visto Prisoners,
bellissimo film, e mi sono ulteriormente innamorata di Jake Gyllenhaal,
lol **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11. La Fenice. ***
Capitolo 11. La
Fenice.
«Ehi,
Fenice, portamene
un’altra!».
Uh?
Fenice? Ma che sta dicendo questo, è già ubriaco?
Mi stupii
parecchio
quando vidi Marco, che bello riferirsi a lui chiamandolo per nome,
annuire
nella direzione dell’uomo che chiedeva con un sorriso sulle
labbra un secondo
boccale di birra prima di tornarsene a casa dopo il lavoro.
Quando il
ragazzo tornò
al bancone riprese a sistemare le solite cose che lo tenevano occupato
tra un’ordinazione
e l’altra, mentre io continuavo a fissarlo con
un’espressione curiosa e il capo
inclinato da un lato, nonché una serie di domande che mi
frullavano per la
testa incessantemente.
Sembrò
accorgersene,
oppure si sentiva semplicemente osservato, perché mi
lanciò un’occhiata veloce
e, nel vedermi così assorto, un sorriso fece capolino sul
suo volto,
probabilmente intuendo l’esatta piega dei miei pensieri.
«Sei
davvero un tipo
attento» notò tranquillamente, asciugando una
serie di bicchieri e guardandomi
nuovamente. Stavolta il sorriso si vedeva benissimo e fui tentato di
rimanere
in silenzio ad ammirarlo, ma non sarebbe stata una buona idea, non in
quel
momento. Ci avrei ripensato più tardi a casa.
Mi
strinsi nelle
spalle, «Abbastanza direi».
Annuì
e finì di mettere
in ordine le stoviglie per poi appendere il canovaccio e appoggiarsi al
bancone
di fronte a me come aveva preso a fare da un po’ di tempo
quando si trovava a
chiacchierare con qualcuno. A dire il vero era una cosa che faceva solo
con me
e questo mi faceva sentire privilegiato e lusingato oltre ogni dire.
«Allora,
da dove
cominciare?» sospirò, incrociando le dita e
fissando il mio piatto, «La conosci
la leggenda della Fenice giusto?». Davanti al mio cenno di
assenso riprese il
suo racconto.
«Si
dice che, nell’ora
della morte, la Fenice si lasci bruciare e che una nuova vita rinasca
poi dalle
sue ceneri. E’ un po’ quello che è
successo a me. Non che mi sia dato fuoco, ma
l’orfanotrofio in cui sono stato abbandonato, qualche anno
dopo il mio arrivo, è
stato raso al suolo da un incendio». Fece una breve pausa e
si morse un labbro
leggermente a disagio sotto al mio sguardo sgranato e incapace di
formulare una
frase, «Io sono l’unico sopravvissuto».
Accompagnò il tutto con un sorriso per
tentare di alleggerire la tensione, ma capivo benissimo che non doveva
essere
stato facile per lui affrontare tutto ciò, specie se
così piccolo. E solo.
L’istinto
fu più forte
di me e, senza rendermene conto, gli avevo appoggiato una mano sulla
spalla,
attirando la sua attenzione e ottenendo l’effetto che volevo:
ossia i suoi
occhi nei miei e allora gli regalai uno dei miei migliori sorrisi, uno
dei più
allegri e sinceri, uno dei più aperti e amichevoli. Se lo
meritava e servì a
far sì che buona parte del peso che accompagnava il suo
passato svanisse. Glielo
si leggeva in faccia che stava molto meglio, ma non ero del tutto
soddisfatto. Mancava
ancora qualcosa.
«E
così ti chiamano La Fenice
per questo?» chiesi, assumendo
un’aria pensierosa mentre lui mi fissava in modo
interrogativo. Feci finta di
pensarci un po’ su mentre lo guardavo dall’alto in
basso, come se avessi voluto
studiarlo in modo approfondito. In realtà conoscevo a
memoria ogni sua
sfaccettatura, tanto l’avevo guardato nelle occasioni che mi
si presentavano,
ma questo non potevo certo dirglielo.
«Secondo
me Testa d’Ananas ti si
addice di più»
sfottei infine, iniziando a ridacchiare quando lo vidi spalancare gli
occhi
incredulo, ma divertito. Infatti non si trattenne dal darmi del
ragazzino
irriverente e sfacciato.
«Impiastro»
dichiarò
infine, ghignando contento, «Sei proprio un
impiastro».
«Anche
Pennuto ci sta bene, altro che
Fenice!».
«Esci
dal mio locale!».
Rotolo,
rotolo, rotolo.
Davvero, devo smettere di rotolare, sto prendendo un brutto vizio
ultimamente!
Oh, ma
ciao! Oggi si
parla di Marco, Marco la Fenice.
Ommioddio,
sbavo. Sul serio, questo personaggio mi piace troppo. Sia per il
carattere, per
i modi calmi e che, secondo me, nascondono Diosolosacosa.
Per non parlare del suo potere e di come possa essere così
hfvueqiovfhuqo **
Ad ogni
modo, l’idea
dell’orfanotrofio è ripresa dall’altra
mia long. Ovviamente dovevo citare
questo aspetto visto che le vicende che accadono qua sono collegate a
quella,
ma volevo descrivere come Ace viene a conoscenza di certi particolari.
Non
potevo mica dire che Marco si trasformava in un pennuto, pensate come
ci
sarebbe rimasto il nostro piromane! Quindi spero che
l’alternativa a questo
soprannome particolare possa esservi piaciuta, ho fatto del mio meglio
^^
Ho
già parlato troppo,
mi dileguo. Un abbraccione a tutti!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 12. Serata di Poesie. 1. ***
Capitolo 12.
Serata di Poesie. 1.
E
così tengono aperto anche di sera? Ma pensa. E io che la
maggior parte delle
volte non so mai cosa fare a casa, ora avrò un buon motivo
per uscire ed evitare
di sorbirmi le liti tra Penguin e Bepo. Povero Law, magari potrei
dirgli di
venire con me… Nah, finirei per mettermi nei guai e
sicuramente capirebbe il
mio unico interesse nel giro di qualche secondo. Il punto ora
è: cosa cazzo mi
invento per spiegare la mia presenza qui?
Mi
guardai attorno e
notai come la zona di solito buia fosse illuminata da luci colorate,
basse e
soffuse, mentre una più forte e chiara era puntata sul palco
dove un ragazzo
dall’aria timida stava leggendo un foglietto di carta.
Poesie
cazzo! Sul serio tengono aperto per questa roba? Dio,
all’università mi
addormento sempre durante l’ora di italiano. E poi mi
chiedono perché mi
succede. Mi sembra ovvio, guarda che mortorio!
Mi
sedetti al bancone
al mio solito posto e osservai torvo una ragazzina dai capelli rossi
dare il
cambio a quel povero sfigato con gli occhiali per poi schiarirsi la
voce e
attaccare con il suo pezzo. Inutile dire che la mia faccia era a dir
poco
disgustata.
«E
tu che ci fai qui?».
Da
schifata la mia
espressione si tramutò per magia in una più
sorridente e illuminata non appena
mi ritrovai davanti Marco che, facendo buon uso della sua gentilezza,
mascherava un’aria interrogativa e stupita. Forse mi
sbagliavo, ma sembrava sul
punto di scoppiare a ridere, anche se non ne vedevo il motivo.
Mi
ricordai in quel
momento che dovevo trovare una buona scusa per chiarire la mia visita
quella
sera e la prima cosa che mi venne in mente fu la più stupida
che potessi
inventare e forse anche ciò che divertiva così
tanto il ragazzo.
«E’
la serata di
poesie, no?».
Mi
guardò storto per un
secondo e con uno sguardo che sembrava chiedermi se fossi serio o se
stessi
scherzando. Lo confermavano le sopracciglia che a momenti arrivavano
all’attaccatura dei capelli e dal mezzo sorriso che sembrava
indeciso se
trasformarsi in un ghigno o in una piega disgustata.
Mi morsi
un labbro e
rincarai la dose di stronzate, cercando di sembrare convincente.
«Io amo la
poesia».
Io e il
mio maledetto spirito
di sacrificio. Tutto quello che stavo facendo doveva pur valere
qualcosa,
altrimenti non ci avrei pensato due volte a sotterrarmi.
«Ah.
Cioè, bene, allora
sei nel posto giusto».
Che
figura di merda. Che figura di merda. Che figura di merda.
Avrei
tanto voluto
coprirmi il viso con le mani, prendermi a pugni, offrire il mio bacato
cervello
a Law per i suoi contorti esperimenti, invece dovetti fare buon viso a
cattivo
gioco e fingermi interessato a quelle quattro frasi che, nonostante non
capissi, mi obbligavo a commentare di tanto in tanto, facendo scappare
qualche
sorrisetto sarcastico al biondo che, con fare annoiato, se ne stava
mezzo
stravaccato sul bancone, reggendosi il mento con le mani per non cadere
addormentato. Esattamente le sensazioni che provavo io
perciò, notando che
praticamente nessuno aveva intenzione di interrompere quelle esibizioni
ordinando qualcosa, iniziai a chiacchierare con lui del più
e del meno,
ricavando un piccolo spazio per noi e arrivando a ricamare battutine
divertenti
su tutti coloro che proponevano le loro ‘perle’.
«Questo
non conosce
l’esatto significato del gusto estetico» mi fece
notare Marco ad un certo
punto, indicando un tizio con degli abiti orribilmente abbinati che
stava
scendendo dal palco, mentre un alto faceva la sua apparizione
più truccato che
mai.
«E
quel naso da
pagliaccio è finto» constatai. Se ne sarebbe
accorto chiunque che un naso così
rosso e a palla altro non poteva essere che di plastica. Tralasciai per
pietà i
suoi assurdi capelli azzurri.
«Odio
queste serate.
Sono infinite e guai se qualcuno fa rumore. Dovresti vedere come vanno
fuori di
testa gli autori».
«Sul
serio?» chiesi,
mentre un’idea si faceva strada nella mia testa. Magari un
po’ di movimento non
sarebbe guastato e sarebbe servito ad animare un po’ gli
animi. Dopotutto, chi
avrebbe potuto dire di no ad un po’ di sana musica? Giusto
per fare una pausa.
«Hai
una console da
qualche parte?» domandai con tono cospiratore.
Si
accigliò un istante
prima di indicare un impianto stereo perfettamente funzionante accanto
al palco
improvvisato. Così, con il lettore musicale a portata di
mano e dopo aver
spiegato il mio piano a Marco, mi feci accompagnare fino
all’obbiettivo e, dopo
aver collegato qualche cavo, assaltai il piccolo palcoscenico in legno
e
strappai dalle mani il microfono a quel clown da quattro soldi, venendo
fulminato all’istante da un’occhiata omicida che
ignorai bellamente.
«Bene
Signori, pausa di
cinque minuti. Birra per tutti e un po’ di
movimento». Dopo di che diedi il
segnale e la musica iniziò a diffondersi per il locale con
note sempre più alte
mentre sorrisi di apprezzamento apparivano sulle labbra dei presenti.
«Come
ti permetti di
venire qui e interrompere il mio lavoro?».
Rivolsi
un sorriso
sornione all’uomo incazzato a pochi passi da me e, indicando
il barista che
sapevo essere alle mie spalle, feci con aria innocente: «Ho
il suo consenso».
Un’occhiata
veloce
dietro di me e vidi un Marco annuire in piedi vicino allo stereo,
soddisfatto
del nostro operato e ghignante per il risvolto della situazione ora non
più
noiosa e monotona.
Mi
concessi qualche
istante per guardarlo. Poteva essere educato e cordiale quanto voleva e
per la
maggior parte del tempo, ma aveva appena fatto il bastardo seguendo una
mia idea
poco corretta. E dovevo ammettere che questo lo rendeva maledettamente
sexy.
«Visto?»
feci
vittorioso.
Un
cipiglio offeso fu
tutto quello che ebbi come risposta, poi mi voltai e feci per scendere
dal
palco, ma la musica si abbassò all’improvviso per
diventare un lieve sottofondo
e una voce che conoscevo benissimo attirò
l’attenzione dei presenti con un
annuncio che mi fece impallidire.
«Signore
e Signori,
lasciate ora che questo studente ci delizi con una delle sue poesie,
data la
sua grande passione per questa materia così
affascinante».
Per la
prima volta
fissai Marco con l’intenzione di ucciderlo e a nulla valse il
mio tentativo di
svignarmela da lì alla svelta. Ero bloccato in quel buco,
con le luci puntate e
accecanti, gli sguardi di tutti puntati addosso, un blocco facciale in
un’espressione scandalizzata, la mente incapace di elaborare
qualcosa e gli occhi
divertiti di quel pennuto che sembravano sfottermi silenziosamente.
Deglutii
a fatica e
sudando freddo. Di certo ora odiavo la poesia con tutto me stesso.
*Premetto
subito che io non ho assolutamente
niente contro le
poesie e i bellissimi capolavori dei più noti e grandi poeti
e scrittori.*
Detto
questo, passiamo
a commentare quanto la materia possa andare a genio a uno come Ace.
Ovviamente
non potevo descriverlo come un appassionato e nemmeno Marco, per quanto
adulto
possa essere uno come lui. Eh beh, ovviamente doveva inventarsi
qualcosa per
spiegare la sua presenza li quella sera e cosa c’è
di meglio che ascoltare
poesie? Cosa? Sarcasmo pesante. Animiamo la serata
con le idee di Ace e
buttiamo giù dal palco il mio amato Buggy
il Clown. Si, si trattava di lui e ancora si, lo trovo un
simpaticissimo voltagabbana (doppia
faccia).
Qui
abbiamo un bad-boy-Marco e un Ace-improvviso-poeta. Magari la prossima
volta vi scrivo anche le
rime che si è inventato su due piedi :D
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo 13. Serata di Poesie. 2. ***
Capitolo 13.
Serata di Poesie. 2.
«E
piantala con quel
video, avevi detto che l’avresti eliminato!».
«Vuoi
scherzare spero!
E’ la cosa più assurda che abbia mai visto. Guarda
che faccia avevi!».
«Bah,
non voglio
sentirti!».
Marco
proprio non
voleva saperne di lasciarmi in pace con quella storia che andava avanti
da una
settimana ormai e avevo maledetto mille volte le poesie e tutto
ciò che mi
avevano causato. Probabilmente l’odio era reciproco, visto
che avevo fatto una
figuraccia davanti ad un sacco di persone e a degli autori da quattro
soldi che
avevano goduto come dei sadici davanti alla mia scarsa esibizione. Come
se
tutto ciò non fosse bastato, quel pennuto aveva pure fatto
un video che,
prontamente, tirava fuori ogni volta che passavo di lì.
Prima o poi gli avrei
preso il telefono e gliel’avrei lanciato in strada, poco ma
sicuro.
A dire il
vero, però,
più ci pensavo, più il mio momento poetico mi
sembrava abbastanza passabile e
non così orribile.
«Se
un ‘Pennuto’ come amico hai, l’esistenza
ti rovinerai. Mi ha cacciato lui in
questo impaccio e adesso sto facendo una figura da pagliaccio. La
serata era
regolare, una birra pronta da scolare. E poi per far stare zitto quel
pazzo, mi
sono trovato a comporre rime, ma che cazz…».
Ero stato
interrotto
sul più bello da degli applausi, forzati o sinceramente
divertiti non aveva
importanza, e mi ero volatilizzato nell’angolo più
remoto del bar mentre Marco
rideva a crepapelle con il telefono in mano, sollevandolo come un
trofeo e
riferendomi che aveva appena filmato una scena da oscar e che il
materiale in
suo possesso avrebbe fatto impallidire i più grandi poeti
del passato e del
futuro. Poco importava che avessi citato pure lui, a detta sua non gli
faceva
ne caldo ne freddo perché la pessima figura
l’avevo fatta io. E su questo aveva
dannatamente ragione.
«Stasera
non ti
esibisci?» mi domandò scherzoso, «Sono
tutti qui per te».
«Se
non l’hai notato
sto cercando di passare inosservato» ribadii seccamente,
indicando il cappuccio
che mi tenevo calcato in testa per evitare sguardi e occhiate curiose e
derisorie. Soprattutto volevo tenermi lontano da quel clown col naso
finto che
sembrava volermi sgozzare dopo la mia interruzione
dell’ultima volta.
«Oh,
andiamo, sei
piaciuto a tutti con quella sparata colossale».
Fulminai
Marco con lo
sguardo e questo sembrò farlo sorridere ulteriormente. Mi
seccava il fatto che
non prendesse sul serio i miei avvertimenti. Anche se ero
più piccolo di qualche
anno sapevo anche io farmi rispettare.
«Scordatelo,
non farò
mai più una cosa del genere in vita mia» affermai
categorico. Nemmeno per tutto
l’oro del mondo mi sarei reso nuovamente ridicolo.
Fortuna
volle che
quella sera nessuno si fece male o rischiò di fare
figuracce, ci fu solo una
piccola pausa, dato che con la mia scorsa idea avevamo dato inizio ad
una nuova
routine che tutti sembravano apprezzare, ma dopo qualche birra o
bevanda calda,
le poesie ripresero e io ritornai a sonnecchiare con la testa
appoggiata al
bancone e con la presenza di Marco a pochi centimetri da me, assonnato
e
scettico davanti ai sonetti proposti.
«Non
è che magari
potresti inventarti qualcuna delle tue trovate solo per noi?
Almeno per passare il tempo» mi chiese ad un tratto, mentre
la
mia mente riprendeva vita all’istante e il mio cuore pompava
sangue a velocità
inaudita.
‘Potresti
inventarti qualcosa solo per me’,
voleva dire. Ha tentennato per un istante
nel pronunciare la frase. Lo so, lo so, ne sono certo! Sono diventato
un genio
in psicologia e con uno come Law a casa si impara a capire le persone
anche se
non si vuole.
Lo
guardai accigliato,
cercando quel tentennamento che avevo udito, ma nel suo sguardo
svogliato non
riuscii a scorgerlo. Leggergli nella mente era ancora troppo difficile,
ma
qualcosa iniziavo a capirla e potevo ritenermi soddisfatto di quei
piccoli
passi.
«Non
mi sento molto
ispirato» ammisi, «Ma se vuoi posso raccontarti
cosa ho combinato lo scorso
capodanno».
Il suo
sguardo si fece
più vivo e attento e si sistemò meglio sul
bancone, facendomi segno di
continuare e curioso di conoscere il seguito.
«Ho
costruito uno spara
fuochi d’artificio automatico. E l’ho battezzato Automatic Fire!»
dissi in maniera esaltata, quasi saltellando sullo sgabello e facendo
comparire
sul suo volto un’espressione stupita.
«Automatic
cosa?».
«Hai
capito benissimo!
E dovevi vederlo, era perfetto! E funzionava anche! Certo, un mio amico
ha
rischiato di perdere una gamba e poi hanno spedito
quell’affare giù dal tetto
dell’appartamento perché i fuochi avevano iniziato
ad esplodere prima del
tempo, ma avresti dovuto vedere la cascata di luce che ha creato.
Praticamente
una facciata dell’edificio è stata ricoperta da
scintille!».
Mi
fissò allibito per
qualche istante mentre io continuavo a spiegargli tutti i progetti che
stavo
facendo per costruirne uno più grande e potente, quando mi
interruppe con una
domanda piuttosto strana.
«Posso
chiederti che
lavoro vorresti fare una volta terminati gli studi?».
«Uh?
Beh, di preciso
non saprei. Mio nonno vorrebbe che entrassi nella polizia, ma la mia
passione
sono sempre stati i fuochi d’artificio e gli spettacoli
pirotecnici. Prima,
però, vorrei girare un po’ il mondo»
conclusi orgoglioso e con un sorriso
entusiasta.
Sbatté
le palpebre finendo
per fare un sospiro sollevato. «Grazie al Cielo, credevo
avessi istinti
terroristici».
*Premetto
subito che io non ho assolutamente
niente contro le
poesie e i bellissimi capolavori dei più noti e grandi poeti
e scrittori.*
In questo
capitolo cito
in causa la bastardaggine momentanea e velata di Marco e
l’immaginazione e la
capacità di comporre rime come un Bardo del Medioevo di Ace.
La sua ‘splendida poesia’
non è tutta farina
del mio sacco, magari. Io l’ho solo storpiata per
l’occasione, ma l’originale è
tratta dal film Una Notte da Leoni/ Hangover II. Spero
apprezziate ugualmente.
«Non
è che magari potresti inventarti qualcuna delle tue trovate
solo per ME?».
Per me. PER ME. Ommioddio. Si Marco, solo per te Ace
getterà via la sua
dignità. Presto tornerà il punto di vista del
pennuto e potremo dire quanto
carino è nel cercare di auto convincersi che in
realtà… Nah, niente.
Ragazzi,
Buona fine e
buon inizio a tutti! Bevete come spugne in onore di Kidd, rendetelo
fiero;
feritevi un arto per la felicità di Law; ballate come
disperati per Penguin;
coccolatevi per Bepo :3 mangiate per cento come fa Rufy e, soprattutto,
date
fuoco a qualcosa o improvvisatevi piromani. Sappiamo tutti
perché **
Un
abbraccione :3
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 14. Ace. ***
Capitolo 14. Ace.
Ormai non mi
stupivo
più davanti all’insolito appetito del ragazzino
che, con animo, energia e
golosità, si abboffava di una quantità piuttosto
numerosa e abbondante di
biscotti appena sfornati dalla cucina. Che gli piacessero non
c’erano dubbi:
erano una prelibata ricetta di Thatch che, di tanto in tanto, passava
al bar
per aiutarmi con i clienti quando da solo mi trovavo in
difficoltà e credevo di
andare via di testa. Quello, per l’appunto, era uno di quei
giorni e,
sfortunatamente, il ragazzino aveva commesso l’errore di
passare di lì per una
cioccolata proprio quando quell’impiastro che avevo come
fratello era uscito
dal retro con gli ingredienti in mano.
Parlo di
sfortuna non
perché non gradissi avere la sua presenza tra i piedi, ormai
era quasi
un’abitudine passare una buona mezz’ora o
più a chiacchierare, ma ciò che mi
preoccupava era la lingua troppo lunga del cuoco che non
mancò di fare una
faccia che dire esaltata era dire poco mentre salutava il nuovo
arrivato, il
quale impallidì all’istante, rispondendo al saluto
con un cenno del capo.
Fortunatamente,
però,
Thatch aveva troppo lavoro da sbrigare date le varie ordinazioni e
passò tutto
il tempo in cucina senza creare scompiglio o situazioni imbarazzanti.
Sapevo
che da un po’ mi nascondeva qualcosa e quelle sue battutine e
riferimenti che
diceva essere puramente casuali mi
davano parecchio su cui riflettere. Ma lui era fatto così:
era un pettegolo,
chiacchierone e logorroico.
Un
telefono con un
brano dei Nickelback come suoneria
iniziò a squillare a pochi centimetri dalle mie orecchie,
facendomi notare con
la coda dell’occhio come l’ingordo di turno si
affrettasse a cercare il
cellulare nelle tasche del giubbotto per poi fare una smorfia
inorridita nel
leggere il numero sul display. Nonostante la poca voglia, rispose con
uno
strascicato e arrendevole ‘pronto?’.
«ACEEE!».
Un
urlò disumano e
profondo, nonché incazzato fuori misura, arrivò
chiaro e tondo persino a me,
facendomi immobilizzare sul posto per fissare allibito il moro che,
guardandomi
con aria implorante chiedeva silenziosamente aiuto e allontanava la
cornetta
dai suoi timpani. Chiaro, l’avrei fatto pure io con un acuto
del genere.
«Sciagurato,
dove ti
sei cacciato che non riesco a trovarti da nessuna parte? Porta
immediatamente
la tua brutta faccia a casa e ripara il tetto, nullafacente che non sei
altro!».
«Ma
riparatelo da
solo!» ribatté il ragazzo tenendo il cellulare tra
la testa e la spalla e
alzando entrambe le braccia al cielo in un moto di stizza.
«Non
osare rispondermi
così! Sono tuo nonno e pretendo
rispetto dai miei nipoti!».
«Oh,
ma falla finita e
arrangiati!».
Detto
questo, dopo aver
roteato gli occhi al cielo, non aspettò altre risposte e
chiuse la chiamata,
assicurandosi di attivare la modalità silenziosa e riponendo
l’aggeggio nei
meandri delle sue tasche fonde.
Scossi la
testa
reprimendo un brivido al ricordo di quella voce. In un certo senso mi
ricordava
il mio vecchio quando, con i miei fratelli, combinavo qualche guaio ed
ero poi
costretto a subirmi le sue isterie. Che incubi quei giorni, molto
meglio vivere
per conto proprio ed essere indipendenti.
L’altro
sbuffò
stancamente prima di riconcentrarsi nei suoi biscotti, mormorando a
bocca piena
frasi sconnesse su quanto fosse impiccione e rompiscatole colui che
aveva
appena chiamato.
Continuando
il mio
lavoro, un fulmine a ciel sereno mi passò per la mente e
ricordai un
particolare che non avrei dovuto lasciarmi scappare.
Ace.
Ace, dev’essere lui. Oh, beh, wow.
Non sapevo nemmeno cosa pensare tanto ero abituato a vederlo come un
ragazzino
che andava e veniva quando voleva. Quella scoperta mi aveva sconvolto
non poco.
Che
strano associarlo a un nome, non mi ero mai nemmeno fermato a pensare
che,
nonostante il riconoscersi e il tempo trascorso, non sapevamo nemmeno i
rispettivi nomi. A dire il vero non gli ho mai detto come mi chiamo
nemmeno io.
«Senti
un po’, pennuto, ne hai
altri? Sono deliziosi». Ecco,
appunto. Dovevo sorbirmi quei nomignoli insulsi.
Richiamato
all’attenzione smisi di fissare la macchinetta del
caffè che avevo appena messo
in funzione e osservai il suo piatto vuoto, facendo uno sbuffo che
assomigliava
un più a una risata trattenuta. Ultimamente mi capitava
spesso con lui davanti.
«Vado
a chiedere in
cucina» risposi, raddrizzandomi dalla mia posizione e
dirigendomi verso la
porta alle mie spalle.
«Marco aspetta, il
caf…».
Mi voltai
a guardarlo
con gli occhi sgranati e sinceramente stupito per l’essermi
sentito chiamare
per nome. Eppure ero certo di non averglielo mai detto.
«Ehm,
il caffè, cioè, la
macchinetta… E’ al limite, ecco». In
imbarazzo e con il viso che sembrava voler
seppellire nel piatto, indicò il caffè che stava
colando dalla tazzina, così mi
affrettai a spegnerla e ad evitare di sporcare il ripiano. Quando
tornai a fissarmi
su di lui notai che le sue guance erano leggermente imporporate e
ciò,
dannazione, mi fece sorridere come un babbeo in modo disarmante.
«Grazie…
Ace».
Sollevò
di scatto la
testa, ma gli avevo già dato le spalle, scomparendo nel
territorio di Thatch e
venendo fulminato all’istante da una sua occhiata che, in
pochi secondi, si
fece maliziosa. Non persi tempo a rimetterlo in riga e a scoprire cosa
gli
frullasse per la mente, non sarebbe servito a nulla. E poi avevo altro
a cui
pensare.
Ace.
Bel nome.
Garp. Mio caro,
carissimo Garp, che
tempismo e che gentile a fornire informazioni essenziali su tuo nipote
al
ragazzo che, probabilmente, diventerà tuo genero. Forse sto correndo troppo adesso.
COMUNQUE.
No gente, non
sono morta, ho solo fatto una pausa perché dovevo recuperare
le mie facoltà
mentali. Per farvi contenti vi ho fatto scoprire come Marco viene a
conoscenza
del nome di Ace, spero vi sia piaciuto ** e posso dirvi che da qui in
poi il
biondastro potrebbe iniziare a, se non sbavare, interessarsi
leggermente di più al ragazzino. Basta notare il
sorriso idiota che fa nel vedere come arrossisce spudoratamente Ace! Ho
finito
per oggi, quindi a domani!
Come
avete passato
capodanno? Spero bene e spero che vi siate ubriacati come si deve u.u
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 15 *** Capitolo 15. Serata di Poesie. 3. ***
Capitolo 15.
Serata di Poesie. 3.
Avevo sempre
trovato
l’arte della poesia, delle rime e del comporre sonetti
tremendamente noiosa e
la paragonavo volentieri ad una perdita di tempo anche se continuavo a
tenere
aperto il locale almeno una o due volte a settimana affinché
gente incompresa
potesse esibirsi con quella roba scritta di fretta su qualche foglio di
carta.
Stranamente tutto ciò attirava un numero consistente di
clienti. Nonostante quello, però, la noia era mortale e non
c’era modo di evitarla.
O meglio,
non c’era
stato modo fino a quando quel ragazzino sbandato non aveva avuto la
brillante
idea di trasformare il tutto in una festa improvvisata. Da quella sera
era
diventato d’obbligo fare una pausa nel bel mezzo
dell’esibizione di qualcuno e
distrarsi un po’ con qualche brano musicale, amici e una
birra fresca anche se
era inverno. Dovevo ammetterlo, aveva avuto un’idea
fantastica e il locale
aveva acquistato ulteriore successo e ciò andava a mio
favore anche se,
sinceramente, della notorietà mi importava ben poco se
potevo evitare di
sorbirmi infinite ore di monotonia. E avevo trovato il modo giusto.
Anzi, Ace
aveva trovato la soluzione migliore, il merito era tutto suo ed io gli
ero
grato per questo.
Quando
era nei paraggi
il divertimento era assicurato. Per le figuracce, per i racconti, per
l’imbarazzo che provava quando diceva qualcosa fuori luogo,
tutto ciò era fonte
di risate per me. Praticamente non riuscivo a trattenermi quando avevo
lui di
fronte a propormi qualche stramba trovata che agli occhi del mondo
intero
sarebbe risultata assurda. Forse si, parevano tutte idee leggermente
bacate, ma ai miei occhi, invece, erano solo spassose.
In quel
momento
qualcuno stava blaterando qualcosa riguardo a delle rose rosse e a
delle
spiagge soleggiate, ma non stavo prestando molta attenzione a
ciò che mi
succedeva intorno perché, per l’ennesima volta,
ero impegnato a cercare
inutilmente di tenere gli occhi aperti e non sbadigliare continuamente
e
sonoramente.
Ace non
sarebbe passato
quella sera, me l’aveva detto il giorno prima facendomi
impallidire per ciò che
mi aspettava. Gli dispiaceva, ma aveva una cena di famiglia alla quale
non
poteva mancare anche se, stando alle sue parole, preferiva farsi
un’altra
figuraccia sul palcoscenico piuttosto che parteciparvi. Stava di fatto
che non
era lì e che non mi stava intrattenendo con qualche
stupidaggine.
Un vero
peccato tenendo
conto che avevo appena iniziato ad apprezzare quel tipo di serata da
quando
aveva preso a prendervi parte anche lui, a modo suo,
s’intende. Mi faceva
piacere e mi divertiva tanto.
Ultimamente
ogni volta che si ferma per un caffè sembra farmi piacere, pensai ad un
tratto, scacciando
subito dopo dalla mente quel pensiero contorto. Ace
è semplicemente simpatico, tutto qui.
La porta
si aprì e non
degnai il nuovo arrivato fino a quando non mi fu praticamente davanti.
Solo
allora mi resi conto di un particolare che mi era sfuggito, mentre mi
riscoprivo stranamente sveglio e un sorriso prendeva forma sulle mie
labbra.
«Credevo
avessi detto
che stasera non saresti venuto» dissi con fare disinvolto,
osservando come Ace,
con un ghigno furbo e orgoglioso, si sedeva davanti a me, sospirando
rilassato.
«Sono
fuggito. Odio le
cene importanti e quella in cui mi trovavo non era più una
casa, ma una caserma
di polizia!» spiegò disgustato, allentandosi
distrattamente il nodo della
cravatta e sbottonandosi la camicia quel tanto che bastava per
riprendere
teatralmente a respirare.
Mi resi
conto
osservando quei gesti così insoliti che non era vestito come
un povero disgraziato.
Non che di solito mi desse questa impressione, ma vederlo con addosso
un
completo quasi elegante era strano.
Strano e interessante, a dire il vero.
D’accordo,
forse stavo
guardando con troppo interesse come gli donasse una camicia pulita e
come una
giacca scura gli risaltasse la forma delle spalle larghe e del fisico
slanciato
che, a volte, nascondeva sotto strati di maglie e felpe. Era solo
stupore per
quella sua novità il mio, nient’altro.
«Qui
come sta andando?»
domandò, ignaro della piega dei miei pensieri.
Alzai le
spalle, «Il
solito». Mi ero preparato ad un paio d’ore
all’insegna della noia più totale
ma, anche se sapevo che non sarebbe passato, avevo continuato
segretamente a
sperare che avesse cambiato idea o che questo suo impegno fosse venuto
meno.
Non volevo stare da solo, quello era l’unico motivo per cui
desideravo vederlo
comparire all’improvviso. Evidentemente, qualcuno mi aveva
esaudito.
«Animiamo
la serata?»
chiese ammiccando.
Solo Dio
seppe
l’effetto che quello sguardo mi causò, facendomi
balbettare per la prima volta
in vita mia e obbligandomi ad abbassare gli occhi per riordinare le
idee e
rispondergli.
«Ehm,
c-cosa proponi?».
Mi
guardò storto per
qualche attimo per poi sfoderare il solito sorriso e riprendere il tono
cospiratore che, alle mie orecchie, sembrò malizioso in modo
disarmante.
«Spegniamo
queste luci
e divertiamoci, ti va?».
Oh
Dio, no. Questo è troppo!
«Marco
che hai? Stai
male? Sei pallido».
«Va
tutto bene, ho solo
un po’ caldo» gli assicurai, maledicendomi per
quella reazione fuori luogo.
«Che
ne dici allora?
Attiviamo l’impianto stereo e le lampade stroboscopiche.
Sarà un successo!».
Qualche
minuto dopo il
bar si era trasformato in un pub completo di cibo, bevande e musica e
fiumi di
gente, attirato dal rumore e richiamati da altri, entravano a curiosare
quella
nuova abitudine del locale.
Ed Ace,
nonostante
avesse storpiato l’idea del classico smoking, sostituendo i
pantaloni con un
paio di jeans sbiaditi e scarpe eleganti con delle Converse alte e
consumate,
non mi era mai sembrato così attraente come quella notte.
Se
non fosse un ragazzino,
pensai, probabilmente questa non sarebbe
la prima volta che mi ritroverei a pensare a lui in questo modo. Forse non mi sembrerebbe nemmeno
così
strano, assurdo e allarmante.
*Premetto
subito che io non ho assolutamente
niente contro le poesie e i bellissimi
capolavori dei più noti e grandi poeti e scrittori.*
Marco
stai male?
Ma no,
Ace, sta
benissimo! Come potrebbe stare male con… Te?
**
E con
questo si
concludono le serate passate ad ascoltare poesie miei cari ragazzi, ma
non vi
preoccupate che loro continueranno a vedersi. Anzi, Ace
continuerà a spuntare
fuori come i funghi **
Ecco Ace
che ad una
cena indetta da nonno Garp non poteva di certo presentarsi con un
cappello e a
petto nudo, anche se nessuno avrebbe
osato lamentarsi! Ovviamente Rufy era con lui, ma questa
è un’altra storia.
Quello che volevo era farvi vedere quanto bene stava in camicia :D
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/1462861_546333405442478_1056348045_n.jpg
Bene,
posso dire che
sto passando delle giornate guidate dall’ispirazione e quindi
aspettatevi di
tutto!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 16. Quelle Fiamme. ***
Capitolo 16.
Quelle Fiamme.
La prima volta
che Ace
mi aveva parlato del fuoco non ci avevo fatto molto caso. Stava bevendo
una
birra e blaterava qualcosa riguardo ad un camino acceso nel suo salotto
durante
il periodo invernale. Allora non avevo capito quanto lui amasse
quell’elemento. Si, perché la passione che
mostrava per
tutto quel calore poteva essere intesa solo come amore. Ne era
completamente
innamorato e a dimostrarlo era l’espressione, come dire,
affascinata che
assumeva ogni volta che ne parlava.
L’avevo
scoperto quel
giorno, quando avevo acceso i fornelli per mettere a scaldare un
pentolino di
latte per le tre cioccolate che dovevo preparate.
Mi ero
voltato verso di
lui per chiedergli se ne volesse una, ma mi ero trattenuto dal
disturbarlo
vedendo come era intento a fissare le fiammelle che prendevano vita al
di là
del bancone davanti ai suoi occhi. Un altro avrebbe pensato che si
fosse
incantato o che fosse per natura distratto, ma per me ormai era facile
capire
la piega dei suoi pensieri e, ricordando di quei suoi discorsi fatti in
precedenza, capii subito per quale motivo se ne stava in un silenzio
contemplativo.
Andai ad
appoggiarmi
vicino a lui come facevo di solito tra una pausa e l’altra
per ritagliarmi un
po’ di tempo libero. Quando facevo ciò, Ace capiva
che non ero occupato e che
poteva mettersi a chiacchierare quanto voleva e di tutto ciò
che gli passava
per la testa.
«Guarda
quelle fiamme»
fece, indicando le piccole fiammelle che uscivano leggiadre dal
fornello, «Guarda
come si muovono. Hanno vita propria, non ti pare? E i colori! Hai mai
visto
colori più belli? Nemmeno il più grande artista
riuscirebbe a renderli tali.
Non importa quanto blu, quante sfumature di giallo o arancio usi, non
renderà
mai lo stesso effetto».
Come si
poteva restare
indifferenti davanti a tutto ciò? Sembrava estasiato alla
vista del fuoco e lo
guardava con gli occhi che brillavano, per non parlare di come lo
descriveva.
La voce pacata, gentile, calma… Quasi ammaliante. E la
bocca. Le sue labbra si
sfioravano appena e leggermente ad ogni parola pronunciata per poi
fermarsi e
rimanere dischiuse mentre
osservava
quell’elemento che tanto amava e a cui assomigliava.
I capelli
neri come il
carbone senza nemmeno una sfumatura tenue; il viso limpido e definito
simile a
quello di un bambino solo per la miriade di espressioni che esprimeva;
gli
occhi scuri, ma vivaci e mai stanchi e quelle lentiggini chiare attorno
al naso
e sulle guance che gli donavano quell’aria sbarazzina e
infantile. Il colore arancione
che lo seguiva ovunque. E poi Ace era caldo. Caldo, vivo e…
«Attraente» sussurrai,
accorgendomi solo in quel
momento di aver inconsciamente spostato lo sguardo dal fuoco al ragazzo
di
fronte a me e di essermi soffermato su di lui per tutto il tempo.
Troppo forse.
«Già»
confermò,
accennando un piccolo sorriso e voltandosi a guardarmi, credendo che il
mio
commento fosse solo pura approvazione.
Mi
schiarii la voce per
spezzare quell’attimo di stallo che era venuto a crearsi tra
di noi e per
evitare che capisse il senso di quella parola, facendo tornare entrambi
con i
piedi per terra spegnendo il gas ed estinguendo così anche
il fuocherello.
Tutto
finì con quel
gesto, ma ero ancora scosso per quello che era successo: avevo davvero
pensato,
anche solo per un istante, che Ace fosse attraente?
Dio,
è così giovane,
pensai, sospirando stancamente e ritornando in me.
Non
sarebbe dovuto
accadere di nuovo, dovevo mettermelo in testa e smetterla di ripensarci
di
continuo: Ace era un ragazzino e non avrebbe mai dovuto interessarmi
sotto quel punto di vista.
Nonostante il
fuoco, nonostante la vivacità, nonostante il calore del suo
sorriso.
Attraente. Sul serio, Marco? Solo attraente? Ti riempirei di parole
se la colpa non fosse in
parte anche mia. A quanto pare non ho la minima intenzione di farti
crollare ai
piedi di Ace come succede a me ogni volta che lo vedo.
Pazienza,
ho grandi
progetti in mente per voi **
Oggi non
ho molto da
dire sul capitolo, spero però che vi piaccia e che vi
riscaldi come ha fatto
con me.
Approfitto
quindi per
RINGRAZIARE TUTTI perché siete estremamente ruffiani e
dolci. E io non vi
merito, sul serio.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 17. Non mi sarei di certo aspettato... ***
Capitolo 17. Non
mi sarei di certo
aspettato…
Tutto
ciò aveva un che
di completamente assurdo, ma non solo. Prima di tutto andava contro
ogni mio
principio e sfondava tutti i paletti che mi ero duramente imposto.
Praticamente
avevo mandato a puttane settimane intere di autocontrollo e discorsi
morali che
mi ero ripetuto fino allo sfinimento. Poco importava ormai, dato che, a
quanto
pareva, avevo appena deciso di fregarmene di tutto e strafare.
Eppure
quel pomeriggio
ero convinto che la serata sarebbe stata sempre la solita, nonostante
Ace mi
avesse gentilmente e vivacemente augurato di divertirmi il
più possibile e di
non stare a pensare troppo al lavoro e alla poca voglia che avevo di
uscire a
divertirmi con i miei numerosi e assillanti fratelli.
All’inizio
era riuscito
a tirarmi un po’ su di morale, anche se avrei preferito
tenere il bar aperto e
chiedergli, anzi no, fargli casualmente sapere, che sarei rimasto a
lavorare
nella speranza di sentirgli dire che avrebbe fatto un salto a
salutarmi. Ad
ogni modo mi ero imposto di non tenere il broncio e avevo seguito
Thatch e gli
altri nel locale di famiglia dove papà era il sovrano
indiscusso. Il posto mi
piaceva, ma per qualche motivo, probabilmente la stanchezza, mi sentivo
un po’
fuori luogo. Certo era che avrei fatto di tutto pur di divertirmi e non
pensare
alle conseguenze.
E lo
stavo facendo,
eccome!
Poche ore
prima non mi
sarei di certo aspettato di ritrovarmi in un parcheggio a baciare Ace
come se
non ci fosse un domani; come se la mia vita dipendesse da quel
contatto; come
se solo lui potesse darmi l’ossigeno necessario per
continuare a respirare.
Era stata
questione di
un attimo: per un secondo di troppo il mio sguardo si era posato sulle
sue
labbra e non ero più stato capace di trattenermi. Avrei
voluto fermarmi o
staccarmi subito dopo, ma non ne ero stato capace, anche
perché Ace non mi
stava di certo aiutando con quelle sue mani impegnate ad artigliarmi le
spalle.
D’accordo, nemmeno io a dire il vero, nonostante una parte
della mia mente
stesse urlando a squarciagola di smetterla, ero intenzionato a porre
fine a
tutto ciò e naturalmente spingere il ragazzo contro il muro
sul retro per poter
approfondire il contatto non era una buon proposito per riprendere il
controllo.
A mia
discolpa potevo
dire che era colpa dell’alcool, ma mi rendevo conto benissimo
che non ero così
ubriaco come magari avrei dovuto essere. Che casino, non ero ubriaco e
nonostante tutto baciavo Ace. Che stupido e idiota.
Ero
diviso tra due
fuochi: uno, senza dubbio era Ace. Come quel ragazzo riuscisse a farmi
sentire
così, insomma, in quel
modo, non me
ne capacitavo. L’altro, più razionale e serio
invece, mi diceva di finire
tutto, di allontanarmi. Mi allertava che tutto ciò era
sbagliato, che non
sarebbe servito a niente, che avrebbe solo peggiorato e complicato le
cose.
Per
quanto volessi riprendere possesso di me, però, non ne ero
capace.
Grazie a
Dio, anche se
quando accadde fui tentato di maledire tutti, delle voci provenienti da
una
porta aperta sul retro del locale ci riportarono con i piedi per terra
e ci
diedero un valido motivo per interrompere quel bacio e renderci conto
del
freddo della notte, del muro al quale stava appoggiato malamente Ace,
il quale
mi fissava a bocca aperta e con due occhi sgranati per la sorpresa,
anche se
aveva l’aria leggermente sperduta; del mio battito accelerato
e del tempo che
stringeva inesorabilmente. Era ora di andarsene. Si, era davvero il
momento
adatto per non combinare altri disastri.
«Ehm»
balbettò Ace,
precedendomi e grattandosi la nuca nervoso, «Penso
che…».
«Sia
ora di andare»
conclusi per lui automaticamente, accennando ad un sorriso per non far
vedere
quanto fossi sconvolto.
Sembrò
rilassarsi e
credere alla mia apparente tranquillità così, con
un po’ di imbarazzo, mi
ricordò che lo stavo ancora trattenendo contro la parete. Lo
lasciai andare,
fissando inebetito il terreno e sentendomi sprofondare quando quel
ragazzino,
con un’innocenza dannatamente straziante, tornò
sui suoi passi per afferrarmi
delicatamente il viso tra le mani e posarmi un casto e ultimo bacio
sulle
labbra per poi andarsene con l’ombra di un sorriso celato
dalla poca luce.
Chiusi
gli occhi e mi
appoggiai alle mattonelle alle mie spalle, alzando il capo verso
l’alto e
stringendo convulsamente i pugni fino a far sbiancare le nocche.
Non
posso, mi ripetevo,
mordendomi un labbro e sentendomi svuotato di qualsiasi cosa, non posso proprio, Ace. Mi dispiace.
Buon
Salve (?). Toh,
non ho mai scritto questa cosa (?)
vedo solo che tutti la usano, volevo provarla anche io. LOL.
Comunque.
Oh si, Ace e
Marco, beh, si sono baciati. So che per molti può essere uno
shock. No, per
niente. I due si sono incontrati per caso in un locale e hanno passato
la
serata assieme, divertendosi e ubriacandosi. Si era venuta a creare
anche una
bella armonia e sintonia. Poi è successo. Eh già,
la vita. Ma non è tutto qui.
Se siete
interessati,
in questo capitolo sono trattati i punti di vista di entrambi nella
prima
parte. Potete leggerlo anche a metà e solo ciò
che riguarda i due, è più che
altro per fare ulteriore chiarezza sulla situazione, ovviamente qui non
potevo
spingermi troppo oltre.
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2348084
Da qui in
poi tenetevi
forte. La mia vena sadica si è messa in funzione e no, non
mi interessa se vi
fanno pena perché non cambierò idea u.u
No,
davvero, io non
sono mai così cattiva, non so che mi succede ;_____________;
Spero che
questo
pezzetto su Marco vi sia piaciuto, sto usando lui ultimamente
perché sto
cercando di far venire a galla i suoi complessi perché, alla
fine, è lui che
non vuole ammettere quanto sia preso da Ace. Ditemi una cosa: avete amato tanto quanto me Ace che, con la sua semplicitá, torna indietro per dare a Marco un ultimo bacio? Io personalmente sono morta.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 18 *** Capitolo 18. Non sono niente. ***
Capitolo 18. Non
sono niente.
Non sapevo se era
una
buona idea, ma in quel momento ero talmente arrabbiato che non mi ero
fermato a
riflettere troppo sul da farsi e avevo agito d’istinto. Ero
corso via
all’istante, scomparendo tra la folla e percorrendo strade a
caso, perdendo
persino l’orientamento e ritrovandomi nei pressi di un
giardino pubblico,
probabilmente vicino al centro città dove, ormai, non vi era
nemmeno un filo
d’erba a causa del rigido inverno. Triste, quel luogo
appariva triste e
desolato, nonostante qualche passante che attraversava il parco per
dirigersi
altrove. Io, unica anima in pena, mi sedetti invece su una panchina
fredda e
umida con l’unica intenzione di lasciare che il gelo della
sera mi raffreddasse
l’anima perché, ne ero sicuro, avrei potuto
incendiare i dintorni se solo
avessi iniziato a urlare.
«C’era
l’alcool, la musica, il casino e poi là fuori tu
eri così vicino ed è successo.
Cose che capitano alle feste, no?».
Queste le
sue parole.
Era questa la frase, o meglio la scusa,
che aveva usato per togliersi da ogni impiccio e mettere a tacere
qualsiasi
speranza che, dopo quello che era successo tra noi, avevo iniziato a
nutrire.
Ma che
altro avrei
dovuto fare? Ci eravamo baciati. Mi aveva baciato, era stato lui ad iniziare. D’accordo,
eravamo
ubriachi, non sapevamo bene quello che stavamo facendo ma, dannazione,
era
stato tutto così… giusto.
Eravamo
solo noi, nessun altro. Solo Marco ed io, uno accanto
all’altro. E, diamine se
era vero, non mi ero mai sentito così al mio posto con
nessuno dei miei amici,
per quanto bene volessi loro. Nessuno mi aveva mai fatto sentire
così a casa. E
proprio ora che credevo di aver trovato quella persona, quel qualcuno
che non
mi sarei mai aspettato di meritare, tutto mi scivolava dalle mani,
tutto andava
in fumo e cenere, tutto scompariva, bruciava tra le fiamme della mia
rabbia.
Ero
arrabbiato, anzi,
incazzato nero. Con me, con Marco, con il mondo. Ero stato
così stupido. Così
stupido! Una cosa del genere avrei
dovuto immaginarla prima, mi sarei risparmiato tutto il dolore che
stavo
provando in quel momento.
Avrei
dovuto sapere che
Marco non avrebbe mai voluto perdere tempo con un ragazzino. Di certo
aveva di
meglio da fare ed io non rientravo nella sua lista di interessi a
quanto
pareva. Non ero abbastanza e non lo sarei mai stato per uno come lui.
«Andiamo,
che ti dovrei dire? E’ stato solo un bacio,
dannazione!».
Solo un
bacio. Ero
stato congedato con queste parole: solo
un bacio. Non avevo significato altro.
Chiusi
gli occhi e
cercai di respirare profondamente per calmarmi, ma sembrava non
funzionare,
così smisi di cercare di trovare delle spiegazioni a quella
situazione del
cazzo e lasciai che tutta la rabbia e la delusione accumulate fluissero
a
briglia sciolta nel mio corpo, animandolo e dandomi l’impulso
di scagliare un
potente pugno alla seduta.
Nessun
dolore, nessuno
spasmo, nemmeno un graffio alla mano, non sentivo nulla. Probabilmente
il
giorno dopo avrei avuto un ematoma enorme e violaceo, ma cosa
importava? Cosa?
C’erano questioni peggiori di quella e una botta non aveva
mai ucciso nessuno.
Non si poteva dire lo stesso delle condizioni precarie della panchina
in quel
momento, ma pazienza.
Una
cosa che capita,
pensai, stringendo i denti e sentendomi malissimo, è
stato solo un bacio.
Dio, come
facevano male
quelle parole. Un’arma micidiale da utilizzare quando e come
si vuole, senza
lasciare tracce, solo una ferita profonda e difficile da risanare. Solo
un
vuoto dentro impossibile da colmare. Sarebbe guarita, prima o poi, con
il tempo
magari e, forse, quando mi sarei ritrovato per caso davanti a quel suo
bar non
ci avrei fatto caso e avrei proseguito per la mia strada.
In quel
momento, però,
tutto quello che volevo, anche se sembrava così assurdo,
così sciocco da parte
mia, era la consapevolezza di essermi sbagliato. Avrei voluto che le
cose
fossero andate diversamente; avrei voluto che Marco non badasse a certe
stronzate e che mi accettasse; avrei voluto avere quel qualcosa in
più che,
probabilmente, mi mancava. Magari non ero abbastanza bello, o serio,
o…
Cristo,
che cazzo ne so, magari semplicemente non vado bene, punto. Certo che,
porca
puttana, tutte a me devono capitare. Che ho fatto di sbagliato, si
può sapere?
Poi un
pensiero si fece
strada nella mia mente chiaro e nitido e sembrò
l’unica risposta plausibile a
tutta quella situazione di merda.
Marco era
un bravo
ragazzo e di certo non lo avrei odiato per quello che era successo,
dopotutto
non era tutta colpa sua, non ero nemmeno sicuro che si potesse parlare
di colpa vera e propria. Ci eravamo
solo
fraintesi. Io avevo frainteso e lui aveva chiarito e, sicuramente, non
era
stato facile. Ad ogni modo non avrei smesso di stare male solo per
quello e
nemmeno avrei continuato a frequentarlo perché, per quanto
mi riguardava,
quello che provavo per lui non era attrazione fisica, non lo era
più da un
pezzo. Marco mi piaceva, mi piaceva più del lecito e per
questo ero rimasto
scottato quando mi aveva spiegato come stavano le cose.
Ci sarei
anche passato
sopra se solo non mi fossi sentito così usato. E, a causa di
ciò, era come se
fossi un che di spezzato, rotto, insulso. Così ero stato
trattato.
Cosa
c’era di
sbagliato? Lo sapevo, lo sapevo benissimo.
«Non
sono niente.
Niente» sussurrai e l’unica cosa che mi rispose fu
un alito di vento freddo che
estinse anche quel po’ di calore che mi era rimasto.
Ero
spento.
Ieri non
sono proprio
riuscita a pubblicare il capitolo… che nemmeno era pronto.
Comunque, sono qui
oggi e vi chiedo di non fucilarmi per l’enorme sparata sui
due. No, Marco non
ne ha voluto sapere di lasciarsi andare e ha preferito ferire Ace per
farsi
dimenticare e permettergli di andare avanti. Sul serio, non odiatelo,
non è
cattivo. So che ci sono più fan di Ace che di Marco, ma la
Fenicie non è
stupida, è matura invece e, ovviamente, non si
può pretendere che tutto vada
sempre per il verso giusto. Qualche ostacolo bisogna tenerlo in conto e
questo
Ace non l’ha fatto, anche se le sue speranze potevano
sembrare abbastanza. Marco,
invece, semplicemente lo capirete più avanti, ma non
pensiate sia senza cuore. Lui,
in realtà, è quello che se la passa peggio. Beh,
forse sono entrambi alla pari,
un colpo del genere, parole del genere,
non sono facili da digerire e penso che stare accanto a Ace sia il
minimo
adesso.
Non
preoccuparti
ragazzo mio, il tempo guarisce ogni cosa.
See ya,
Ace.
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Capitolo 19 *** Capitolo 19. Deluso. ***
Capitolo 19.
Deluso.
Ho
fatto solo ciò che era giusto,
continuavo a ripetermi, mordendomi freneticamente un labbro e cercando
qualcosa
da fare per tenermi impegnato ed evitare di pensare troppo al casino
colossale che
avevo combinato.
Certo,
ero stato io a baciare Ace nel
parcheggio; ero
stato io a intrappolarlo in quella
situazione e sempre io mi ero
sentito
bruciare a contatto con quella bocca. Avrei dovuto immaginarlo che,
passando la
serata con un ragazzo che ritenevo attraente, per giunta ubriachi marci
entrambi, non sarebbe successo nulla di buono. Mi credevo
più resistente in
realtà.
Ma era
stata una
debolezza, un attimo di disattenzione e distrazione. Non potevo
fermarmi a
riflettere che, forse, non volevo
fare altro da giorni ormai. Non potevo ammettere che, sempre
ipoteticamente, quel ragazzo avesse il potere di accendere
le mie giornate, il mio umore e la mia allegria; non potevo dire che
fosse
esattamente come un fuoco quale era; non poteva pretendere di essere
riuscito
in un’impresa praticamente impossibile. Eppure, da quando
aveva preso ad
assillarmi con la sua presenza e quel suo maledetto modo di fare
inconsapevolmente tanto aperto e amichevole da sconvolgere, mi sentivo
meno
annoiato, meno apatico e persino meno serio. Tutto ciò,
però, era solo una mia
impressione. Perché Ace era un ragazzino e
perché, di certo, il nostro
interesse reciproco aveva obbiettivi differenti. Probabilmente era
curioso nei
miei confronti ma, nonostante non avessi nulla contro un rapporto da
una botta
e via, non ero sicuro di poter arrivare a concedergli tanto. Non a lui.
Ace certo
era bello e
non mi sarei fatto tanti problemi a mostrargli il mio interesse se ci
fossimo
conosciuti per caso in qualche locale notturno, ma non era stato
così e non mi
sarei lasciato andare quando il luogo dove ci eravamo incontrati era il
mio bar e non quando ormai ero
arrivato
a conoscerlo bene. Abbastanza da
sapere che, se anche avessi soddisfatto quella sua voglia, sarebbe
comunque
rimasto in qualche modo, come dire, rovinato. Non sembrava il tipo di
persona
alla ricerca di una cosa del genere, una botta e via, e di certo non
volevo
essere io a renderlo tale. Per cui avevo fatto la cosa migliore ad
allontanarlo.
L’avevo
ferito, chiaro
che l’avevo fatto, ma era stato unicamente per il suo bene.
Probabilmente anche
per il mio, per evitare coinvolgimenti sentimentali.
Allora,
visto che ero
convinto di essere nel giusto, perché continuavo a sperare
di vederlo entrare
ogni volta che il campanello della porta suonava quando questa si
apriva,
rimanendo deluso quando il cliente che si presentava non aveva dei
capelli
corvini scompigliati e delle lentiggini sulle guance?
La
verità era che
sapevo benissimo ormai di essermi sbagliato. Me l’aveva detto
chiaro e tondo,
sbattendomi in faccia con rabbia quello che provava e che io mi ero
rifiutato
di vedere, permettendomi di calpestarlo senza rispetto. Non gli fregava
niente
del locale, delle poesie, della cioccolata o di passare il tempo,
affatto.
«Non
hai ancora capito che per me non si è trattato solo di
questo? Sul serio non ti
è mai passato per la mente che delle poesie non me ne
fregasse un emerito cazzo
e che mettessi piede in quel tuo fottuto locale unicamente per vederti?
Sei
così cieco, Marco?».
Deglutii
amaramente
ripensando alle sue parole e a quello che significavano.
Ace
passava di qui solo per me.
Disarmante
nella sua
chiarezza. La consapevolezza di quella riflessione fu come uno schiaffo
in
faccia diretto e improvviso.
Solo.
Per. Me.
Ace non
era un
ragazzino ed io avrei dovuto capirlo tempo addietro. Nonostante quei
pochi anni
di differenza, che mai mi erano sembrati così insulsi come
in quel momento,
sembravo avere più cose in comune con lui che con tutti gli
altri amici che
conoscevo, solo avevo sempre evitato di pensarci e affrontare
l’aspetto che, a
quanto pareva, Ace era un uomo. Forse, se l’avessi capito e
accettato prima, non
mi sarei ritrovato con lo sguardo perso senza sapere cosa fare o come
agire.
Forse, se solo fossi stato meno egoista o cieco, a quell’ora
il ragazzo si
sarebbe trovato come al solito davanti a me a parlare di sciocchezze,
ma almeno
l’avrei avuto accanto.
Invece,
per quanto
desiderassi il contrario, da quella porta continuavano a entrare
unicamente
ombre ed io continuavo a sentirmi maledettamente in colpa e solo.
Il
riscaldamento, come
a volersi prendere gioco di me, sembrava essersi spento mentre il
freddo si
faceva sempre più pungente, come a sottolineare il fatto che
il calore al quale
ero abituato era sparito.
E forse,
anzi, molto
probabilmente, non sarebbe più tornato.
Ed ecco
Marco come l’ha
presa. All’inizio pensa, vuole convincersi, di essere nel
giusto, ma capisce, piano
piano, che ha completamente sbagliato, anche se le sue intenzioni erano
buone.
Ha agito
così perché
era convinto che Ace cercasse solo una relazione casuale, momentanea,
una
cosiddetta botta e via, invece si sbagliava. L’ha capito
tardi, però, e adesso
non può fare altro che sentirsi deluso e in colpa. Aveva
paura che, se avesse
concesso a Ace anche solo una notte, conoscendo il carattere buono e
innocente,
diciamo, dell’altro, poi avrebbe fatto peggio. Insomma, non
voleva che poi il
ragazzo ci rimanesse male e soffrisse e, forse, anche Marco temeva di
affezionarsi
troppo da non riuscire più a farne a meno.
Spero di
essermi
spiegata, non sono molto espansiva oggi ^^
Ace
passava di li solo
per lui. Che tenero e adesso si ritrovano entrambi tristi ;______;
ah si,
questo è Ace nel
capitolo precedente, al parco!
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-ash3/1518685_564705426938609_1645716785_n.jpg
Un
bacione e non siate
depressi **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 20. Rufy. ***
Capitolo 20. Rufy.
Quel pomeriggio
era
tetro e buio, nonostante le luci e l’impianto elettrico
funzionanti. Fuori
pioveva, il cielo era grigio e terso e l’atmosfera era peggio
di un funerale. O
meglio, quello era il riflesso del mio aspetto che aveva preso a
ritornare
schivo e riservato data l’assenza di, beh,
dato che il freddo inverno sembrava essere arrivato, investendo la
città con il
suo gelo.
Non uno
spiraglio di
luce, solo enormi gocce d’acqua, ombrelli dai colori spenti e
le strade
bagnate. Persino le pareti del locale sembravano umide.
Sospirai
pesantemente,
sistemando svogliato alcune tazze che avevo dimenticato di riordinare
in
precedenza. In realtà le avevo lasciate lì
apposta nella speranza che mi
ritornassero utili; una arancione in particolare che continuavo a
rigirarmi tra
le dita e che, inconsciamente, avrei voluto riempire con del
caffè da offrire a
un povero universitario con la giornata storta.
Mi passai
stancamente
una mano sul volto, dandomi mentalmente dello stupido per il continuo
stato di
delusione in cui mi trovavo da giorni.
Ace non
era può tornato
al bar, nemmeno per sbaglio.
Coglione.
Un
insulto al giorno,
forse anche più di uno, mi ricordava quanto mi meritassi
quella sensazione
d’animo sgradevole e funerea.
Successe
tutto mentre
ero intento a rovistare nelle mensole alla ricerca di qualcosa con cui
tenermi
impegnato, dato il ritorno della monotonia nella mia vita. Il
campanello alla
porta suonò e, con la speranza mascherata
dall’abitudine, diedi un’occhiata
veloce alle mie spalle, sentendo lo stomaco capovolgersi e il respiro
mozzarsi
nel vedere una zazzera nera farsi avanti sorridente e spensierata. Solo
dopo,
guardando meglio, mi resi conto con dispiacere che non si trattava di
Ace, ma
soltanto di qualcuno che ci assomigliava molto. Questo,
però, era più basso e
magrolino, con un giubbetto gocciolante per la pioggia rosso acceso e
lo
sguardo vispo.
Dio, gli
somigliava
terribilmente invece e ciò non fece altro che aumentare il
mio malumore.
Si
sedette al bancone
e, con disinvoltura, ordinò una cioccolata con doppia panna,
un piattino di
biscotti, un panino e una fetta di torta. Per i miei gusti somigliava
fin troppo a lui.
In
silenzio e con lo
sguardo basso iniziai a servirgli ciò che aveva chiesto,
ignorando i suoi
sorrisi allegri e rimuginando per i fatti miei. Avevo ripreso a farlo,
ignorare
la gentilezza degli altri intendo. Era come se non meritassero le mie
piene
attenzioni. Niente le meritava più.
«Tu
sei Marco, giusto?»
fece ad un certo punto il piccoletto, cogliendomi alla sprovvista e
facendomi
corrugare la fronte.
«Ci
conoscia…».
«Io
sono Rufy, il fratello
di Ace. Piacere di conoscerti! Ho immaginato subito che fossi tu, sai,
sei
l’unico che corrisponde alla descrizione fattami!
Però, hai dei capelli davvero
buffi! Ace mi ha raccontato che…».
Sbiancai
e smisi di
ascoltarlo e di capire le sue parole nell’esatto istante in
cui fece il nome di
Ace.
Suo
fratello. Mi aveva
parlato di lui quella sera e mi
aveva
sinceramente stupito il fatto di non esserne venuto a conoscenza prima,
ma
avevo pensato che poteva aver avuto i suoi buoni motivi. Non immaginavo
di certo
che stavo per scoprirli.
«…
Così ho deciso di
passare da te e conoscerti di persona. Inoltre mi ha detto che si
mangia
benissimo qui e non vedevo l’ora di assaggiare i tuoi waffle!
A proposito,
potresti farmene uno? Grazie!».
Spiazzato.
Questo era
il modo in cui mi sentivo. Quel piccoletto, come il fratello, aveva il
potere
di lasciarmi perplesso e senza parole davanti alla
semplicità con cui si
esprimeva e si relazionava con la gente che praticamente nemmeno
conosceva.
Sembrava pronto a fidarsi ciecamente di me nonostante non mi avesse mai
visto.
Come ci riuscisse era un mistero o forse una caratteristica di famiglia.
«Si.
Certo» risposi
automaticamente.
«E’
davvero buonissimo!
Ace aveva ragione anche su questo!» mormorò tra
sé quando assaggiò il waffle
che gli avevo preparato e messo sotto al naso ancora caldo.
Lo
guardai accigliato,
«E su così altro aveva ragione?».
«Su
di te» rispose con
tono ovvio, «Sei esattamente come ti ha descritto: una testa
d’ananas
ambulante» scherzò, facendomi immaginare Ace
mentre diceva quella frase. Era
tipico di lui non perdere l’opportunità di
beffeggiarmi solo per sentirsi
superiore e compensare la nostra differenza d’età.
Sorrisi
amaramente, «Se
avesse detto qualcosa di diverso non sarebbe stato da lui».
«Ha
anche detto
un’altra cosa in realtà» aggiunse,
alzando la testa e incrociando i suoi
occhietti neri con i miei e leggendo nel mio sguardo la tacita
richiesta di
continuare. Quello che vide sembrò farlo contento
perché sorrise.
«Emani
calore» disse
semplicemente, facendomi mancare la terra sotto ai piedi. Ace pensava
che io
fossi… Caldo? Caldo, come? Quanto? Abbastanza per entrambi?
Perché da giorni mi
sentivo freddo e avrei dato non so cosa per un po’ di quel
calore.
Del suo calore.
«Infatti
mi sei
simpatico e sei anche molto gentile. Non capisco proprio il
perché del vostro
litigio, insomma, dopotutto è chiaro che vi volete bene e
che…».
«Scusami,
ehm, Rufy…
Cosa hai detto?».
Mi
guardò come se fossi
stupido, spiegandomi poi che, secondo lui, eravamo due idioti. Stando
alle sue
parole, Ace pareva incazzato con il mondo e rispondeva male persino a
lui,
mentre io, da quel che aveva notato, sembravo perso e irrecuperabile.
«Esattamente
come gli
innamorati, hai presente?».
«Senti,
posso sapere
perché sei qui? La verità, su» lo
esortai gentilmente.
Mi
guardò stranito per
qualche secondo, poi mise da arte il piatto e le varie pietanze per
assumere un
atteggiamento serio che stonava un po’ con quel suo aspetto
infantile.
«Voglio
molto bene a
mio fratello, lui è il mio eroe e farei di tutto pur di
vederlo costantemente
con il sorriso stampato in faccia. Da un po’ non è
più così e so
che tu c’entri
qualcosa».
«Cosa
te lo fa pensare?
Perché dovrei essere così influente nel suo
umore?».
Perché
dovrei importare così tanto per lui dopo che l’ho
ignorato, respinto, ferito e…
Allontanato.
«Lo
so perché Ace, da
quando ti ha conosciuto, è diventato il ragazzo
più solare sulla faccia della
terra».
Una
pugnalata alle
spalle avrebbe fatto meno male di quella confessione che speravo con
tutto me
stesso di sentire, ma che temevo di affrontare.
Va bene,
devo stare
calma perché con la schiettezza di Rufy, Ace incazzato e
Marco che si sente
sprofondare di felicità nel sentirsi
dire certe cose, credo che potrei
rotolare fino alla morte.
Con
questo non voglio
dire che le cose si sono risolte eh, ho intenzione di farli, e farvi,
penare
prima di chiarire tra loro. Almeno un pochino, dai, quel che basta per
chiarire
i sentimenti di entrambi perché fino ad ora sappiamo che Ace
è, era, preso tantissimo
da Marco e
quest’ultimo sembra costantemente indeciso. Chiarisco che
lui, Marco, essendo
più grande, e di conseguenza maturo, non è alla
ricerca di una relazione
effimera, da un giorno all’altro. E’ chiaro che nel
profondo, magari
inconsciamente, desidera qualcosa di stabile, l’unico
problema è che lui non sa
cosa vuole Ace invece, il quale,
essendo giovane, spensierato e scapestrato, potrebbe benissimo volere
solo sano
sesso. Lol, che discorsi che sto facendo, ma ci tengo a chiarire tutto.
Infatti, andando avanti, scopriremo cosa prova Ace, anche se mi sembra
chiaro,
e come si sente Marco.
Passando
ad altro, che
dite? Vi è piaciuta l’entrata di Rufy? Chi credeva
che fosse Ace, all’inizio? Mi
sento idiota a chiedervi certe cose, ma lo faccio lo stesso ^^
Ora me ne
vado a
pensare ad un modo per continuare questa cosa
perché ho finito i capitoli pronti, disastro!
Nah, non è vero, lo farò stanotte
perché sto leggendo Lo Hobbit
e voglio andare avanti col libro. Che vergogna :D
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 21. Innamorato perso. ***
Capitolo 21.
Innamorato perso.
La giornata si
trascinava lenta come le altre, i clienti erano sempre gli stessi e il
tempo
era scandito dalle lancette dell’orologio appeso alla parete.
Le ore non
volevano saperne di scorrere più veloci e la mia pazienza si
stava, piano piano,
esaurendo dato che, da un paio di pomeriggi, ero costretto a sopportare
la
presenza della persona più irritante della famiglia. Il
sottoscritto in
questione, insinuando qualcosa riguardo la mia faccia scazzata
e il mio allarmante menefreghismo,
a detta sua, salito a sfiorare livelli epici, si era autonominato mio
sostenitore e non c’era stato verso di tenerlo fuori dal
locale. Così, anche
stando in cucina, non poteva evitare di deliziarmi con le sue
insinuazioni
fuori luogo e con le sue teorie, ipotesi e sproloqui campati per aria.
Thatch
sapeva essere
una vera spina nel fianco, e non solo, quando voleva. Era logorroico e
difficilmente rimaneva zitto per più di cinque minuti,
inoltre vantava la
capacità di saper leggere la realtà tra le righe,
volgendo tutto a suo
vantaggio e approfittando di ogni situazione per mettere in imbarazzo,
prendere
in giro o urtare i nervi con le sue frecciatine maliziose me o gli
altri nostri
fratelli. Persino con nostro padre non si risparmiava!
Per
questo non mi
stupii quando decise di scoprire cosa aveva causato il malumore che
aleggiava
attorno a me da giorni. E, purtroppo, non ci mise molto ad arrivare
alla giusta
conclusione.
«Non
vedo il ragazzino
impertinente» fece ad un certo punto dopo aver sondato la
stanza, «Che fine ha
fatto?».
Mi
strinsi nelle spalle
e feci finta di nulla, sperando che lasciasse perdere il discorso e
mantenendo
la calma per non irrigidire la postura e dargli modo di capire che
quell’argomento era tabù per me. Ovviamente tutto
fu vano perché non sembrò
intenzionato a mollare.
«Passava
spesso da
queste parti» disse, inarcando un sopracciglio e seguendo i
miei movimenti
attentamente, «E’ molto strano che non sia
già qui. Non trovi anche tu?».
Continuando
a rimanere
in silenzio con le labbra serrate lo ignorai e finsi di essere
indaffarato a
svuotare la lavastoviglie, sentendo la sua presenza gravitarmi attorno.
«Magari
è successo qualcosa che noi non sappiamo»
insisté, scandendo bene le parole in modo tale da
farle arrivare chiare e tonde alle mie orecchie. Sapevo dove voleva
andare a
parare. «Non sei preoccupato?»
«No
Thatch, non sono
preoccupato per Ace, d’accordo? Ora piantala»
risposi, trattenendo a stento il
tono di voce normale e piatto.
A lui,
invece,
brillarono gli occhi. «Oh, quindi è
così che si chiama!» trillò esaltato,
«E
dimmi, lo conoscevi bene?».
Alzai gli
occhi al
cielo e non riuscii a trattenere uno sbuffo seccato. «Un
po’».
«Un
po’ quanto?».
Abbastanza
da sapere che ho fatto una cazzata colossale e che non
passerà da queste parti
per molto, molto tempo,
pensai amaramente. Il posto vuoto al limite del bancone era sempre
libero,
eppure, ogni volta che lo guardavo, speravo di vederlo occupato. Poi mi
ricordavo
di come l’avevo trattato e mi rendevo conto che non potevo
pretendere di
rivederlo lì come se niente fosse. Ad ogni modo mi mancava.
Mi mancava davvero
ed io ero stato un completo idiota.
«Non
ha importanza»
mormorai stancamente, dando poi le spalle al moro che si era fatto
più curioso
che mai. Non riuscì, però, a cavarmi altro di
bocca. Non ero in vena di
parlare.
«Sai
fratellino, Ace, a
pensarci bene, non era affatto male» disse casualmente dopo
un paio di minuti.
«Thatch».
Perché doveva
essere così insistente?
«Sul
serio, aveva
qualcosa di, come dire, attraente.
Quegli occhi scuri, i tratti definiti, il fisico
scolpito…».
«Thatch». Ero al limite,
me lo sentivo.
«Che
c’è? Non posso
fare un apprezzamento? Anzi, sai che ti dico? Visto che a te non
interessa
potrei farci un pensierino io».
«THATCH!».
Ecco, un
disastro dietro l’altro.
Mi
guardò stupito e
rimase finalmente zitto per qualche istante, come tutto il resto del
locale,
ammutolito dal mio urlo. L’effetto non durò a
lungo perché, troppo presto, riprese
il suo solito cipiglio malizioso e bastardo. Senza rendermene conto
avevo detto
troppo e gli avevo appena dato tutte le risposte che voleva.
«Oh
cazzo, sei proprio
innamorato perso».
«E’
così grave?» gli
chiesi preoccupato, appoggiando le braccia al bancone e abbassando la
testa. A
che serviva fingere ormai?
«Temo
proprio di si»
annuì, prendendomi in giro, «Gravissimo.
Finalmente un ragazzo attira la tua
attenzione e tu che fai?» chiese poi, guardandomi storto.
«Mi
comporto da
coglione» risposi. Un po’ perché era
vero e un po’ per evitare di dargli la
soddisfazione di insultarmi.
«Dieci
punti a
Grifondoro!» approvò con animo, battendo una mano
sul bancone e facendo
sussultare le persone li vicino che lo guardarono malamente.
Scossi il
capo con
esasperazione. Di certo non sarebbe passato molto tempo prima che la
notizia si
diffondesse in famiglia.
«Non
ti preoccupare,
testa d’ananas» mi riprese l’altro, con
la faccia di chi la sa lunga e che sta
per dire qualcosa di terribilmente imbarazzante, «Nonostante
la vecchiaia
potresti essere ancora in grado di regalargli qualche nottata di sesso
non
appena farete pace».
Thatch,
Ammmmmmore!
Ehm,
okay, va bene, io
penso che non servano tante parole dopo la sparata colossale di questo
capitolo, quindi vi lascio rotolare in santa pace perché io
non sto facendo
altro! Oh si, Marco è innamorato, innamorato
perso e chi meglio di Thatch poteva accorgersene?
Quell’uomo è un miracolo,
ve lo dico io! Non so cos’abbia in mente di fare, ma state
sicuri che non sarà
niente di normale.
Il ‘dieci punti a Grifondoro’
spero vi piaccia, uso la stessa
battutona per approvare qualsiasi cosa, come appunto fa Thatch quando
Marco
ammette di essere un emerito coglione, perdonate i termini u.u credo
anche che
cambierò rating più avanti, lol.
Ecco i
due ragazzoni,
awww **
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/1515008_564264930315992_1022823575_n.jpg
A presto
e grazie infinite
a tutti, siete dolcissimi e troppo ruffiani **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 22. Io non piaccio a Marco. ***
Capitolo 22. Io
non piaccio a Marco.
Almeno una volta
alla
settimana ero solito andare a prendere mio fratello Rufy a scuola e a
scarrozzarlo
in giro per i centri commerciali, o al cinema, o dovunque il suo
spirito libero
decidesse di andare per passare una giornata in sua compagnia. Da
quando non vivevamo
più sotto lo stesso tetto avevamo perso molte
opportunità per stare assieme a
organizzare pazzie per mandare fuori di testa il vecchio nonno Garp e
Rufy
aspettava con ansia malcelata il giorno in cui avrebbe compiuto la
maggiore età
per trasferirsi a vivere con me, nonostante l’appartamento
fosse al completo.
Per lui
non vi erano
problemi o ostacoli insuperabili, quello che voleva riusciva sempre ad
ottenerlo lottando con tutte le sue forze fino alla fine e riuscendo
nelle sue
imprese. E ciò che più desiderava era passare
tutti i giorni possibili con me.
Inutile
dire che gli
volevo molto bene e che lui significava probabilmente l’unico
punto fermo,
l’unica luce che brillava nella mia vita. Era la certezza
assoluta che qualcuno
mi apprezzava; la sua presenza mi ricordava che non ero solo; il suo
sorriso mi
metteva di buon umore, sempre, e l’affetto che mi dimostrava
mi assicurava che
qualcosa dovevo pur valere.
Per
questi motivi avrei
sempre fatto di tutto per il suo bene e non ci avrei pensato due volte
a dare
la vita se mai si fosse trovato in pericolo. Lui
lo meritava, anche se ciò non sarebbe di certo bastato per
ringraziarlo dell’illimitato amore fraterno che mi dava.
«Ace,
cosa facciamo
oggi?» mi sentii chiedere mentre con la coda
dell’occhio lo vedevo agitarsi sul
sedile davanti.
«Non
saprei, tu cosa
proponi?».
«Mi
porti a bere una
cioccolata? Da Marco magari».
Quasi
feci un incidente
nel sentirgli nominare quel nome.
«Scusa,
che hai detto?»
chiesi allibito, mantenendomi comunque concentrato sulla strada e
tenendo
d’occhio i semafori per non rischiare di distrarmi e passare
con il rosso come
quando ero stato bocciato la prima volta all’esame per la
patente.
Rufy si
fece subito
piccolo piccolo, sprofondando nel giubbotto e guardando ostinatamente
fuori dal
finestrino come se niente fosse, alla ricerca di qualche appiglio che
potesse
toglierlo dai guai.
«Beh,
insomma, mi avevi
detto che gestiva un bar» si giustificò con voce
sommessa, «Ho pensato che
sarebbe stato carino andarci».
«Rufy»
iniziai, non
sapendo bene cosa dire, «Non mi va molto».
«Perché?»
domandò,
voltandosi verso di me con due occhi grandi e imploranti,
«Giuro che mi
comporto bene».
«Non
si tratta di te, è
più complicato».
Cosa
potevo dirgli?
Giusto poco tempo prima gli avevo raccontato quasi tutti a riguardo e
adesso mi
ritrovavo con un pugno di mosche in mano senza la minima idea di come
riuscire
ad abituarmi alla cosa. Anche io avrei tanto voluto andare da Marco e,
se non
mi fossi sentito tanto arrabbiato e preso in giro probabilmente
l’avrei fatto,
ma la situazione era diversa e molto più complessa di quanto
persino io potessi
immaginare.
Credevo
di essere
capace di superare la cosa ed ero convinto di potermi lasciare tutto
alle
spalle dopo aver sbollito il malumore che l’ultima
discussione avuta con, con,
con quello mi aveva causato, invece
mi sbagliavo di grosso. Continuavo a ripensarci e a chiedermi dove
avevo
sbagliato e cosa in me non andasse per essere stato rifiutato in quel
modo.
Persino il fratello, come si chiamava, Thatch aveva capito senza
nemmeno
conoscermi quello che Marco mi faceva provare, possibile che proprio il
diretto
interessato se ne fottesse altamente? Non ci credevo affatto, tantomeno
dopo il
bacio che lui, precisiamo, mi aveva
dato. Quello non era stato niente
come insinuava, ne ero convinto. A quanto pareva, però, non
ero abbastanza ai
suoi livelli.
Strinsi
le mani sul
volante in un moto di stizza.
Era tutta
la vita che
faticavo a ritenermi abbastanza importante da meritare di respirare e,
quando
avevo iniziato a credere che la mia presenza nel mondo contasse
qualcosa, ecco
che mi ritrovavo a terra calpestato. Un modo poco gentile, ma chiaro,
per farmi
capire che di me non aveva bisogno nessuno.
«Fratellone?».
Eccetto
forse Rufy,
anche se dimostrava già di potersela cavare da solo nella
dura lotta della
vita.
Cercai di
spianare il
cipiglio corrucciato che avevo assunto e gli rivolsi un piccolo
sorriso,
«Dimmi».
«Tu
piaci a Marco,
perché allora non vuoi andare da lui?».
Perché
non vado? Ci ho provato a dir la verità, ma non è
stato abbastanza e a che
serve continuare se non sono ben accetto? A niente.
«Io
non piaccio a
Marco» scandii lentamente, quasi come se dovessi imprimermi a
forza quelle
parole nel cervello. Parole che, una dopo l’altra, erano un
duro colpo da
digerire.
Riportando
l’attenzione
sulla strada e cercando di non badare allo stomaco aggrovigliato e
chiuso per
via di quell’orribile stato d’animo in cui mi
trovavo, non udii il flebile
sussurro di Rufy che, infossando il viso nella sciarpa di lana, si
premurò di
contraddirmi.
«Se
solo sapessi quanto gli piaci».
Oh, si
tesoro, se solo
sapessi QUANTO è innamorato!
Ace,
piccolo e dolce
Ace, non sentirti così abbattuto, sei un qualcosa di
così adorabile e
assolutamente essenziale per il mio di respiro! fai come Rufy, esempio
di buona
volontà, non mollare e vedrai che tutto si
sistemerà perché ti voglio troppo
bene per vederti infelice ;_____;
Beh, mi
sento così triste,
anche se Rufy sta lasciando sprazzi di speranza ovunque dato che ha
fatto una
bella chiacchierata con Marco, aww :3 piccolo furbastro!
Non
preoccupatevi, gli
ingranaggi sono in moto e la ‘Mano
del
Destino’, (Woah, ciao Tia Dalma, LOL), si sta
preparando per metterci lo
zampino!
Non
volevo fare la rima,
scusate ^^
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 23. Lui non é... ***
Capitolo 23. Lui
non é…
«A
presto allora».
«Arrivederci».
Distaccato,
serio,
quasi lapidario e per niente cordiale.
Diedi le
spalle al
cliente clandestino nell’esatto momento in cui non vidi altro
motivo per non
fare altrimenti e tornai ad occuparmi di cose più
importanti, gettando distrattamente
nel cestino a pochi passi da me un foglietto di carta bianco sul quale
era
stato scritto di fretta un numero di telefono.
«Non
credo ai miei
occhi» fece la voce fastidiosa e sinceramente stupita di
Thatch, insinuandosi
nei miei pensieri con forza, «Tu che butti nel cesso un
chiaro invito che ha
per finalità una notte di svago? Che Dio mi
aiuti!».
Sospirai,
roteando gli
occhi al cielo e ignorando quel suo commento poco gentile nei miei
confronti
con il quale mi aveva appena descritto come uno di facili costumi. Io
non ero
affatto così, perché doveva continuare ad
insistere nel rivangare storie del
passato?
«E’
successo solo una
volta» gli feci notare, anche se, molto probabilmente, avrei
dovuto
ripeterglielo fino all’infinito prima di fargli entrare in
testa quel fatto.
Ad ogni
modo, aveva
tutto poca importanza, nonostante avessi capito fin da subito che colui
che se
ne era appena andato non aveva fatto altro che fissarmi e lanciarmi
occhiate eloquenti
da quando era entrato. Non ne ero minimamente interessato e tutto
ciò quasi mi
faceva schifo. Come poteva anche solo pensare di poter attirare la mia
attenzione? Non aveva niente di particolare, tranne una faccia da
schiaffi e
quegli occhi avrei voluto cavarglieli perché sentirmeli
addosso costantemente
mi aveva disgustato oltre ogni dire. Praticamente quando era sparito mi
aveva
fatto un favore e, sicuramente, non
l’avrei richiamato.
Con Ace
era diverso,
invece. Era successo per caso e senza che entrambi ce ne rendessimo
conto e,
come era entrato nella mia vita, era anche riuscito prima a strapparmi
qualche
sorriso, poi una risata completa e, infine, aveva catturato il mio
totale
interesse. Non era banale o stupido; le cose che diceva le pensava
davvero ed
era determinato a portare a termine qualsiasi obbiettivo si
prefissasse.
Rimanere indifferenti davanti a tutta la sua allegria era impossibile,
infatti
non ero riuscito a stargli alla larga e mi ero lasciato contagiare da
quella
sua aria infantile e maledettamente amichevole. E poi ascoltarlo mi
faceva
piacere: non mi annoiava e chiacchierava di qualsiasi cosa senza
pensieri o
senza farsi problemi nel dire quello che pensava. Mi prendeva pure in
giro e
metteva il broncio quando non riusciva a sfottermi come avrebbe voluto.
Lo
trovavo buffo quando me lo ritrovavo davanti agli occhi intento a
mangiare
qualsiasi cosa e il rossore che gli imporporava le guance quando mi
avvicinavo
più del lecito per spiegargli un passo complicato di
psicologia mi riscaldava
nel profondo. E non ricordavo nemmeno tutte le volte in cui ero stato
tentato
di scompigliargli i capelli per le sue pessime battute. Per non parlare
della
bocca, ciò che mi aveva tratto in inganno e a cui, alla
fine, non avevo saputo
fare a meno, avventandomi su di essa come se non ci fosse nulla di
più
importante o essenziale. Con Ace ogni gesto, ogni parola era normale,
spontanea. Ogni sorriso, ogni sguardo, anche solo rimanere in silenzio
l’uno
accanto all’altro ad osservare i clienti o ad ascoltare
poesie, tutto risultava
diverso, piacevole. Le chiacchierate infinite su argomenti di dubbia
moralità,
gli scherzi, il fatto di chiamarci per nome, le occhiate furtive che
ogni tanto
mi lanciava e che anche io gli dedicavo, i piccoli contatti, qualsiasi
cosa che
avesse a che fare con lui assumeva tutta un’altra sfumatura.
La mia vita si era
a poco a poco modellata e, mi stupivo ad ammetterlo, era diventata
più colorata
e meno grigia. Era più arancione, più calda e
più solare.
Me ne ero
reso conto
troppo tardi, però e ormai Ace non faceva più
parte delle mie giornate. Non che
prima fosse sempre presente, ma passare dall’avere la
certezza che l’avrei
rivisto all’essere certo di non rivederlo più mi
faceva sentire piuttosto male.
Non mi piaceva e non riuscivo a capacitarmene e a farmene una ragione.
Era come
se lui fosse stato un sogno, a volte temevo persino che fosse
così perché non c’era
più. Mi ero risvegliato ritrovandomi di nuovo avvolto dal
torpore di una vita
monotona e senza un vero obbiettivo, senza quel qualcosa che mi faceva
sorridere, senza una luce.
Non lo
sopportavo, mi
sentivo continuamente contorcere lo stomaco e il pensiero di lui
lontano non mi
dava pace. Ricordare che tutto ciò era successo per colpa
mia, inoltre, mi
faceva pensare che mi meritassi tutto quello schifo.
Sospirai
per l’ennesima
volta quel giorno. Ormai quel ragazzino era sempre per la mia testa,
esattamente l’effetto che aveva sperato di farmi venendo a
trovarmi al bar. Come
mi ero ripetuto, ormai era parecchio tardi.
«Tutto
sommato non era
male» stava dicendo intanto Thatch alle mie spalle,
«Una scopata poteva starci.
Da quando sei diventato così schizzinoso?».
Gli
rivolsi l’occhiata
più scettica di cui fui capace e sperai che questo gli
bastasse come risposta
alla sua domanda idiota e priva di senso e moralità.
«Sei così disperato da
voler accettare lo squallido invito di uno sconosciuto?»
chiesi poi. Il tono
volutamente velenoso e diretto a punzecchiarlo.
Fece un
leggero sbuffo
e sventolò la mano come a volermi zittire, «Non
cambiare discorso, voglio solo
sapere cos’aveva quello che non ti andava bene».
«Che
vuoi che ti dica? Non
mi interessava, punto e basta» sbottai scocciato.
«Oh,
andiamo» insisté,
dandomi una leggera gomitata e facendomi l’occhiolino,
«So che anche tu l’avevi
notato».
«Ti
sbagli» dissi glaciale.
Quello
non è lontanamente paragonabile.
«Non
fare il timido,
con me puoi confidarti. L’hai evitato perché non
credi di essere all’altezza? Beh,
d’accordo, sei stato a riposo a lungo, ma questo non
significa che tu non sia
un buon partito, caro fratello».
Non
ha niente di speciale, non potrei mai.
«Non
sono interessato,
ora piantala».
«Dimmi
perché almeno! Cosa
aveva? Il naso storto? Troppo basso? Troppo gay?».
«Dannazione,
Thatch! Lui
non é…». Mi bloccai
all’improvviso ritrovandomi con le mani legate e capendo solo
in quel momento dove quel bastardo voleva andare a parare fin
dall’inizio.
«Non
è cosa?»
chiese allora con gli occhi che
traboccavano di vittoria e malizia, «O forse dovrei dire: non
è chi?».
Strinsi i
pugni e
tornai alle mie faccende per ignorarlo. Me l’avrebbe pagata,
prima o poi.
«Va’
al diavolo»
mormorai.
Lui
non è Ace.
Saaalve!
Lo so,
ieri non ho
aggiornato, ma non ce l’ho proprio fatta, chiedo scusa! Spero
con questo di
essermi fatta perdonare, dato che ho messo a nudo cosa vuole Marco e a
cosa
pensa da giorni e giorni e giorni. Ace. Nessuno è come Ace e
nessuno prenderà
il suo posto praticamente. Awww, solo io trovo tutto questo
così dolce? Cioè,
non è lontanamente paragonabile. Dio, vuol dire che Marco
non ha intenzione di
dimenticarselo e spera ancora di poter rimediare.
Domandina
del giorno:
quanti di voi stravedono per Trafalgar? Io si. E guardate un
po’ cosa mi è arrivato
oggi da Hong Kong con furore:
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/1545091_750468064964673_402701387_n.jpg
Posso
morire felice e
vi dico solo che ho anche Kidd tra la mia collezione. Cosa molto
pericolosa per
una fan girl D:
Nah,
è la meraviglia **
See ya e
un abbraccio a
tutti :3
Ace.
|
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Capitolo 24 *** Capitolo 24. La Vigilia di Natale. ***
Capitolo 24. La
Vigilia di Natale.
Se fosse stata
una sera
normale e comune
come le altre probabilmente non ci avrei pensato molto prima
di alzarmi dalla sedia, ignorare gli sguardi stupiti dei presenti
più attenti e
meno sbronzi, afferrare la giacca al volo e catapultarmi fuori casa in
direzione di uno dei quartieri non del tutto malfamati, o meglio non ancora del tutto, con
l’intenzione
di mettere fine a quel senso opprimente che mi sentivo nel petto, un
misto di
agonia, ansia, malinconia e una bella fetta di senso
di colpa. Sicuramente sarei saltato in macchina
nell’esatto
istante in cui l’idea mi era affiorata nella mente e avrei
raggiunto Ace nel
giro di pochi minuti.
Il
problema, però, era
che quel momento non era affatto come gli altri, ma si trattava niente
di meno
che della Vigilia di Natale.
Ero
seduto a tavola
alla destra di quel vecchio che, a settant’anni suonati, se
ne stava comodo a
bere e a mangiare qualsiasi pietanza prendesse posto davanti ai suoi
occhi
senza la minima preoccupazione per la sua dieta sana ed equilibrata
consigliata
dal dottore. Accanto a me c’era Thatch che, più
morto che vivo, batteva con
frequenza una mano sul tavolo in preda alle risa isteriche mentre
davanti a lui
Izou insegnava a Vista come farsi la ceretta senza restarne
completamente
sconvolto per via dell’iniziale e atroce dolore descritto dal
primo come un leggero pizzicorino.
Inutile dire che la
cosa si stava rivelando più complicata del previsto e che
Izou stesse perdendo
la pazienza. A breve avrebbe abbandonato quella missione impossibile e
si
sarebbe dato all’alcool per non abbattersi. A detta sua,
eravamo tutti troppo
presi da noi stessi per capire l’arte della cura estetica che
lui, invece,
adorava e venerava in modo maniacale.
«Non
mi stupirei se
dentro ai nostri regali trovassimo strisce depilatorie e creme
idratanti!»
stava commentando Jaws, accompagnando il suo commento con un sorso di
birra.
L’ennesimo per la precisione. Thatch, intanto, non la
smetteva di ridere e a
poco sarebbe rotolato sul pavimento senza accorgersene. Io, di certo,
non avrei
mosso un dito per impedire che ciò accadesse.
Fu
durante l’allegria
generale che aleggiava in casa che, mentre me ne stavo appoggiato
svogliatamente allo schienale della sedia, inclinandola fino
all’inverosimile,
mi ritrovai a pensare a cosa stesse combinando nel frattempo quel
piccolo
piromane mancato. Ero convinto che, come terrorista, avrebbe fatto
carriera.
Chissà
se quest’anno vedremo un albero di natale volare sopra le
nostre teste. Se così
fosse saprei a chi dare la colpa,
pensai divertito, sogghignando nel ricordare gli assurdi racconti a cui
ero
stato sottoposto alcune settimane addietro e immaginando come stesse
passando
la serata, se era in compagnia, o con la sua famiglia. Da solo era da
escludere, Ace era una persona troppo solare per non avere amici con
cui
festeggiare il natale.
La risata
tonante di
mio padre attirò la mia attenzione e notai con imbarazzo che
Izou non aveva
esitato a spogliarsi per mostrare a tutti come fosse liscia e vellutata
la sua
pelle, al che mi misi una mano davanti agli occhi e pregai il Cielo di
non
rivedere più una cosa del genere. Anche i miei parenti non
scherzavano con le
sciocchezze ed erano ormai anni che avevo imparato a convivere con le
stupidaggini, ma questa stava superando ogni limite.
«E
questo è solo il
petto, aspettate di vedere l’inguine come viene
bene!» stava insistendo il
ragazzo, fermamente convinto di quello che diceva. Fortunatamente
qualcuno la
pensò come me e decise di mettere fine a quello spogliarello
improvvisato.
Nonostante tutto, Thatch non sembrava dar segno di ripresa e si
aggrappava
energicamente alla tovaglia per non perdere l’equilibrio.
Tutti gli altri
ridevano, si abbracciavano, scherzavano tra loro e l’aria
famigliare e
affettuosa che aleggiava in quell’enorme casa mi fece
improvvisamente rendere
conto di una cosa.
Vorrei
che Ace fosse qui. Si, vorrei proprio che vedesse tutto questo. Dovrebbe vederlo, sono certo che gli piacerebbe e potrebbe
persino ricavare
delle idee folli per i suoi progetti illegali. Magari qualcuno dei miei
fratelli gli darebbe persino una mano e farebbero amicizia e il babbo
lo
troverebbe simpatico, forse potrebbe persino piacergli. Dovrebbe
proprio
esserci…
Ma Ace
aveva la sua di
famiglia a cui pensare e da cui farsi volere bene, cosa che, a quanto
pareva,
io mi ero rifiutato di fare. Solo allora mi rendevo conto quanto ero
stato
stupido anche solo a pensare che il suo interesse fosse solo attrazione
fisica
nei miei confronti. Cosa mi era passato per la testa? Ormai potevo dire
di
conoscerlo, ma non avevo tenuto conto del suo carattere quando era
stato il
momento, deciso a non creare nessun tipo di legame e togliendomi
dall’impiccio.
Avevo sbagliato e, se solo mi fossi fermato un attimo, avrei tenuto
conto di
tutte quelle piccole cose che non avevo calcolato. Un ragazzo
così solare,
buffo, un po’ goffo e timido, divertente e che si metteva si
imbarazzo con le
sue stesse parole non poteva di certo essere il tipo da una notte
soltanto. Soprattutto,
avrei dovuto essere più attento quando mi aveva baciato
prima di andarsene,
quella dannata sera che aveva incasinato tutto. Era stato
così maledettamente
sincero e semplice e, diamine, dolce da farmi sentire un verme.
Mi morsi
un labbro e
strinsi i pugni, nascondendo le mani sotto al tavolo e cercando con lo
sguardo
qualcosa che mi trattenesse fermo a tavola, perché sentivo
che stavo per fare
una cazzata colossale.
«Ehi,
possiamo
accendere qualche fuoco d’artificio anche stasera?»
chiese qualcuno nella sala.
Ace
ama i fuochi artificiali, sicuramente ne starà combinando
una delle sue. Magari
la prossima volta potrebbe raccontarmi…
Mi
rabbuiai all’istante.
Non
mi racconterà nulla dato che non mette piede al bar da, beh,
da una vita più o
meno. Dio, se solo potessi parlargli e spiegargli come stanno le cose!
Mi basterebbero
dieci minuti, forse meno, e potrei chiarire e sperare di recuperare
almeno in
parte la sua amicizia, sempre se vorrà ascoltarmi. No, sto
cazzo, lui deve
starmi a sentire. Mi ascolterà e lo farà stasera
stessa!
Senza
rendermene conto
ero già in piedi e, nella foga del momento, urtai il castano
vicino a me e lo
feci ruzzolare a terra tra le risate generali e sempre più
chiassose. Grazie agli
alcolici nessuno si rese conto delle mie intenzioni e, declinando
l’invito di
alcuni a giocare a poker, assicurando loro che li avrei fatti finire al
verde
un’altra volta, scesi in garage a prendere la macchina e
partii velocemente
seguendo le indicazioni che mi erano state date dal piccolo Rufy.
Ace,
mi spiace. Mi spiace davvero tanto. Posso immaginare che non serva a
niente
dirtelo, non dopo il modo in cui ti ho fatto sentire. Ti ho baciato e
poi ho
liquidato la cosa come se non fosse successo niente. Come se tu
non fossi niente. Scusami, davvero,
ma non avevo scelta, non sapevo come affrontare la cosa. Non immaginavo
di
piacerti tanto e non credevo che tu fossi riuscito ad arrivare a
riscaldare le
mie giornate. A dir la verità non me ne sono reso conto fino
a quando non te ne
sei andato. Non smetto mai di fissare quella porta sperando di vederti
entrare
e, ogni volta che questo non succede, mi sento un vero schifo. Sul
serio, Ace,
scusa. Scusa, mi dispiace. E il nostro non è stato solo un
bacio. E tu non vali
così poco. Ed io credo stare impazzendo.
Un sacco
di frasi si
sovrapponevano tra loro nella mia mente mentre pensavo a cosa dirgli
una volta
che me lo sarei ritrovato di fronte, ma non avevo tenuto conto di molte
cose e
delle circostanze in cui l’avrei trovato e, soprattutto, di
come mi sarei
sentito io.
Infatti,
quando arrivai
e i suoi occhi incontrarono i miei davanti l’uscio di casa
sua, mi chiesi se
quella, in realtà, non fosse stata una pessima idea.
Nel
frattempo, a casa
mia, Thatch non aveva mai smesso di ridere.
Dehehe,
si lo so, ho
saltato anche ieri, ma succede no? No? No, non succede. Beh consolatevi
nel
sapere che è stata una giornataccia come poche e mettermi a
scrivere rischiando
di fare peggio non mi andava proprio. Comunque spero di essermi fatta
perdonare
con questo capitolo, che è anche piuttosto lunghetto e non
dovrei divulgare
così tanto, ma Barba Bianca e compagnia bella mi piacciono
tanto e scrivere di
loro mi mette sempre di buon umore, soprattutto per le scenate che mi
combinano
:D
Awww, ma
caro Marco,
corri da Ace, afferralo per la collottola, sbattilo al muro e bacialo!
Che cazzo,
non ne posso più di questo tira e molla D: ma devo andare
con calma. DEVO.
Che altro
dire? Scusatemi
all’infinito? ** sappiate che io vi voglio taaanto bene, si
si :3
Ora
smetto di cercare
di comprare il vostro affetto e la vostra simpatia e passo ad altre
cose. Dunque,
tenendo presente che io AMO questi due ragazzi e che, secondo me, Ace
se lo fa
SOLO Marco, sto pensando da qualche giorno di scrivere
qualcos’altro su di loro
perché in giro non c’è molto e la cosa
mi fa deprimere ;_________; solo che non
ho ancora bene chiaro in mente nulla, quindi se avete dei mini consigli
fatemi
sapere ^^ oppure ditemi solo se sarebbe meglio una ff AU oppure
incentrata su
One Piece. Se avete voglia, non siete obbligati, sia chiaro ^^
Bene, me
ne vado e
passerò la serata a continuare la raccolta per non trovarmi
più impreparata, lo
giuro!
Un
abbraccione a tutti
:3
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 25 *** Capitolo 25. Bene. ***
Capitolo 25. Bene.
«Ti
consiglio di
metterti una maglia, Ace».
«Ma
chi c’è?».
Law aveva
ghignato sadicamente
e una luce per niente tranquillizzante aveva brillato nei suoi occhi
chiari
mentre si dirigeva in cucina, non prima però di avermi
lanciato addosso una
maglietta raccattata da terra.
«Il
tuo regalo di
Natale» aveva sghignazzato, scomparendo alla mia vista.
Così,
con un’alzata di
spalle, mi ero infilato l’indumento e avevo saltellato lungo
il corridoio
d’entrata fino alla porta d’ingresso, pensando che,
molto probabilmente, i
ragazzi mi avevano comprato qualcosa su internet e se l’erano
fatto spedire da
chissà dove con un pacco postale. Di certo non mi aspettavo
di trovarmi davanti
un uomo in carne ed ossa. Anzi, sinceramente andava oltre ogni mia
aspettativa,
per questo, quando avevo realizzato che di fronte a me c’era
Marco, mi ero
sentito l’aria mancare e le gambe cedere sotto il mio peso.
Dio volle che
riuscissi ad appoggiarmi in tempo allo stipite della porta, facendo si
che il
muro mi sorreggesse.
«M-Marco!»
avevo
balbettato con una voce acuta che quasi toccava il limite
dell’isteria, senza
smettere di fissarlo come se avessi visto un fantasma. Più o
meno la situazione
era quella, cioè, che diavolo ci faceva lì a
quell’ora? Se non erravo mi aveva
detto che la sua famiglia avrebbe festeggiato alla grande. Quindi,
perché
allontanarsi per… per cosa? In più, a dir la
verità, una parte di me si sentiva
tremendamente in imbarazzo per il modo assurdo in cui ero abbigliato.
Non
credevo che presentarmi con dei jeans strappati in più
punti, usurati
addirittura, e un cappello da cowboy assurdamente arancione fosse la
cosa
giusta da fare, ma ormai Law mi aveva fregato e non potevo farci nulla.
Almeno
si era degnato di farmi mettere una maglia.
Per tutta
risposta il
biondo non aveva fatto altro che continuare a guardarmi, accennando ad
un
sorriso e riferendosi al fatto che quella non era la prima volta che ci
incontravamo per caso. Oh, me lo ricordavo bene, forse anche troppo e
avrei
dato non so cosa per dimenticarlo. Non perché mi fossi
pentito, ma perché tutto
ciò mi faceva dannatamente male.
Il
silenzio che era
seguito e la tensione che si era creata si potevano benissimo tagliare
con un
coltello tanto erano pesanti ma, quando meno me l’aspettavo e
quando lui stava
dando cenno di volersene andare, spuntò Rufy alle mie spalle
e pensò bene di
spiazzarmi chiamando Marco per nome e dandomi a intendere che i due si
conoscevano. Non ebbi l’opportunità di chiedere
ulteriori spiegazioni perché
quell’impiastro che mi ritrovavo come fratello aveva
trascinato l’altro dentro
l’appartamento e l’aveva presentato a tutti come il
mio futuro fidanzato, invitandolo
poi ad unirsi
alla combriccola e festeggiare in loro compagnia, dimenticandosi
totalmente di
chiedere il mio parere.
Quando
rimasi solo all’entrata
mi appoggiai alla parete, incapace di muovermi e ritrovandomi a
detestare
quella situazione. Forse, detestavo persino Marco.
Perché
venire qui? mi
chiedevo, per quale motivo ha deciso di
presentarsi davanti casa mia la notte di Natale? Non aveva altri con
cui stare?
Non ha pensato che, forse, anche io ho una famiglia e che sto cercando
di
smetterla di continuare a pensare a quella sua maledetta faccia? Non
credevo
potesse essere così egoista: prima mi tratta come un ripiego
dovuto all’alcool
e poi si presenta qui come se niente fosse. Aspetta, ha pure fatto
comunella
con Rufy! Di questo passo finirò per odiarlo. E’
stato chiarissimo nel dirmi
che non conto niente, quindi perché scomodarsi?
Perché, cazzo!
Ad ogni
modo non potevo
certo restarmene lì a diventare matto per trovare una
risposta a tutte le
domande che da un pezzo mi assillavano e, di
certo, non mi sarei rovinato anche il Natale. Ci ero
già rimasto male
abbastanza, perciò avevo deciso che avrei fatto finta di
nulla e che sarebbe
bastato rimanere dall’altra parte della stanza per evitare di
stargli troppo
vicino. Non mi andava e non ero costretto a farlo se non volevo.
All’inizio
fu
abbastanza difficile, soprattutto quando, a mezzanotte, dovemmo
scambiarci gli
auguri. Dire che era come se la mia pelle stesse andando a fuoco era
dire poco
e desiderai tanto potermi prendere a schiaffi per non aver interrotto
quel
contatto il più in fretta possibile, lasciando invece che le
nostre mani si
stringessero e che le dita si sfiorassero lentamente prima di separarci
definitivamente. Non ero stato forte abbastanza.
Non
volevo cedere, non
volevo, non ne valeva la pena e lui era stato molto chiaro nel dire
quello che
pensava di me, ma non riuscivo a zittire quella piccola sensazione di
felicità
e benessere che mi dava saperlo lì la Vigilia. Cercavo di
mettere a tacere
quella vocina, ma tutto fu vano quando qualcuno decise di accostarsi a
me per
aprirmi gli occhi con la sua sconfinata intelligenza, nonché
mista a furbizia,
malizia e capacità di calcolo.
«Hai intenzione di restartene qui tutto
imbronciato o pensi di lasciarti andare?» mi chiese Law,
dandomi una leggera
gomitata sul fianco e indicandomi con un cenno del capo il ragazzo
biondo
davanti a noi.
Gli
rivolsi un’occhiata sarcastica, «Non sono in vena
di festeggiamenti»
risposi acido, ma ciò servì solo a far
sì che il suo ghigno si allargasse.
«Sai,
Ace, se non l’hai ancora capito, quel ragazzo è
qui solo per te». Davanti
al mio sguardo
perso e al fremito delle mie labbra sospirò e riprese il suo
discorso, contento
di avere la mia attenzione. «Non so se mi spiego, ma ha
deciso di lasciare la
sua famiglia nel bel mezzo dei festeggiamenti per raggiungerti. Non
credi che
un po’ di gentilezza da parte tua se la meriti?».
Ace,
stupido e idiota! Perché non ci hai
pensato prima? Era ovvio ed era sotto ai miei occhi fin
dall’inizio! Dio solo
sa che razza di festa avranno organizzato a casa sua e lui ha deciso lo
stesso
di assentarsi per, per… porca puttana! Per venire qui.
Deglutii
a fatica.
Per
me.
A
giudicare dall’espressione soddisfatta che fece il mio
coinquilino,
doveva essere riuscito nel suo intento, ossia quello di farmi ragionare
e
vedere le cose sotto un altro punto di vista, magari più
piacevole e meno
ostile. Tutto sommato non aveva tutti i torti ed io non ero obbligato a
portare
avanti una guerra che non aveva senso e forse, se non ci pensavo
troppo, avrei
potuto anche godermi la serata e cercare di rimediare almeno in parte a
tutto
il casino che era successo. Pensandoci bene, anche se faticavo ad
ammetterlo a
me stesso a causa di quel pizzico di orgoglio che non voleva lasciarmi,
non mi
sarebbe dispiaciuto riallacciare un po’ i rapporti. Niente di
simile a prima,
ma mi mancava non passare al bar per una cioccolata e mettermi a
chiacchierare
con Marco di sciocchezze. Nonostante tutto lui mi aveva sempre
ascoltato e
accettato volentieri la mia compagnia, quindi perché non
rifarlo qualche volta?
Ed
ecco come mi ritrovai ad avvicinarmi e a comportarmi come se tutto
fosse alla normalità, ridendo e scherzando e stupendomi
sempre di più nel
vedere come Marco non sembrasse minimamente toccato dalle stramberie
che
avvenivano in quel salotto e dai comportamenti incivili dei miei
coinquilini,
di mio fratello e dei miei amici. Non sbuffò e non si
spaventò mai, sfoggiò
sempre e solo un sorriso sinceramente divertito e rispose sempre in
modo
gentile ed educato, guadagnandosi la simpatia di tutti e cercando, di
tanto in
tanto, il mio sguardo che, puntualmente, mi premuravo di non spostare
altrove
per fargli capire che andava bene, che io stavo bene e che tutto andava
bene.
Alzi
la mano chi mi credeva dispersa! Ma no, sono qua e, come avevo
detto, ho qual cosina di pronto sul punto di vista
dell’adorato Ace che, dopo
aver passato buona parte della serata a bestemmiare tra sé,
si rende conto,
grazie a qualcuno, che Marco, alla
fine, ha mollato baracca e burattini per andare DA LUI. Awwwww, rotolo
**
Qualche
piccola spiegazione: Ace condivide l’appartamento con Law,
Penguin e Bepo e, da Natale a Capodanno, Rufy e i suoi amici si trasferiscono, nel vero senso della
parola, in casa loro a festeggiare, LOL.
Spargo
cioccolata e caramelle ovunque, non vedo l’ora di arrivare ad
un
certo punto e far squagliare anche voi **
Un
abbraccione e grazie a tutti :3
See
ya,
Ace.
|
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Capitolo 26 *** Capitolo 26. Iniziai a sperare. ***
Capitolo 26.
Iniziai a sperare.
Le cose stavano
andando
meglio di quanto mi ero aspettato.
All’inizio
era stato
strano e imbarazzante ritrovarmi in quell’appartamento in
mezzo a gente che non
conoscevo e con la consapevolezza di non poter sperare
nell’aiuto di Ace che,
come avevo immaginato non appena l’avevo visto, se ne stava
in disparte e si comportava
come se non esistessi. Come dargli torto, dopotutto ero stato un
emerito
egoista presentandomi a casa sua la notte di Natale non pensando
minimamente a
quello che poteva provare lui, tanto ero desideroso di rimediare ai
miei errori.
Fortunatamente,
dopo la
mezzanotte, la situazione sembrò smuoversi e
l’aria si fece più respirabile e
meno tesa. Gli amici di Ace erano ragazzini vivaci e allegri, un
po’
scapestrati e incuranti del pericolo, ma angioletti se paragonati ai
miei
fratelli che, a conti fatti, avrebbero dovuto essere degli adulti fatti e finiti, quando invece si
comportavano ancora come
mocciosi immaturi. Non fu difficile quindi adattarmi e entrare in
confidenza
con loro, in più erano simpatici e non sembravano avermi
preso in antipatia. Non
potevo dire lo stesso di coloro con l’aspetto più
burbero e minaccioso, ma a
metà serata ero riuscito a capire che quello era
semplicemente il loro modo di
fare e si comportavano con tutti nello stesso modo, quindi dedussi di
non
essere al centro del loro mirino e mi tranquillizzai.
Rufy era
la persona più
attiva che avessi mai conosciuto e saltava da una stanza
all’altra senza mai
stancarsi e chiedendomi di partecipare a tutti i giochi che lui e un
altro
ragazzo con un lungo naso si inventavano al momento. Tra questi mi
fecero
partecipare ad una gara di tiro al bersaglio che vinsi senza tanti
sforzi. Ero il
meno brillo e le mie facoltà mentali erano abbastanza
intatte da riuscire a
prendere la mira e colpire una decina di bottiglie vuote con una
pistola a
pallini.
Tutto
migliorò quando
incrociai per caso lo sguardo di Ace che, con mio stupore, non
cercò di
spostarlo altrove per evitarmi, ma accennò invece ad un
piccolo sorriso di
incoraggiamento. Solo allora iniziai a sperare
che le cose si potessero ancora sistemare.
L’imbarazzo,
però, non
mancò di accompagnare la serata perché, ad un
certo punto, Rufy e un suo
compagno con i capelli rossi e l’aria che prometteva solo
guai, iniziarono a
schizzare acqua ovunque con l’intenzione di fare una doccia
improvvisata ai
presenti, colpendo in pieno un mio piede, il ragazzo con il violino e i
capelli
afro, una delle due ragazze, Rufy stesso, quello che si chiamava Usopp
e la
maglia di Ace. Fu quando, su consiglio di un certo Trafalgar Law,
decise di
togliersela che mi accorsi di quanto caldo faceva in quella stanza. O
ero io, o
il riscaldamento era esageratamente alto, troppo forse.
L’avevo
immaginato e
l’avevo anche capito che Ace non era più un
ragazzino ma, dannazione!, restare
al mio posto e non attraversare il salone per
intrappolarlo tra me e la parete fu parecchio difficile. Quando poi si
voltò
dalla mia parte mi premurai bene di guardare altrove e far finta di
nulla.
Sperai solo di non essere arrossito, sarebbe stato umiliante.
Per il
resto tutto era
andato per il meglio e, senza altri intoppi, era arrivata per me
l’ora di
ritornare a casa con un cappello da Babbo Natale ben calcato in testa e
un
piatto pieno di dolci e pietanze varie che Sanji, quello addetto alla
cucina,
aveva tanto insistito affinché le accettassi. Un modo per
ringraziarmi per
avergli svelato un piccolo ingrediente segreto che aggiungevo ai miei
waffle.
Fu Ace ad
accompagnarmi
all’uscita e mi sembrò per un attimo che tutto
fosse tornato come prima: stavamo
chiacchierando normalmente come avevamo sempre fatto.
«Scusami
il disturbo, non era mia intenzione venire qui a creare
scompiglio» gli dissi prima di andarmene.
«Non
preoccuparti, scusaci tu se ti abbiamo traumatizzato» rispose
sorridendomi.
«Niente
che non abbia già visto» scherzai, «Ora
sarà meglio che vada.
Grazie per, beh, per…».
Per
non avermi mandato via. Per avermi
lasciato provare a sistemare le cose. Per la serata. Per il calore che
mi
mancava troppo. Per tutto. Grazie, grazie davvero.
Avrei
dovuto dire
qualcosa, ma tutto quello che mi passava per la testa mi sembrava
sciocco,
scontato e banale, perciò lasciai la frase a metà
e rimasi in silenzio,
guardando nel frattempo il ragazzo davanti a me e sentendomi bene dopo
tanti
giorni nel rivedere quei capelli scompigliati che spuntavano da sotto
il
cappello; gli occhi allegri; il mezzo sorriso che era riuscito a
contagiarmi;
quelle stupide lentiggini che gli davano quell’aria
costantemente infantile,
anche se tutto era poi messo in discussione dalla sua stazza. E quelle
labbra.
Solo per un secondo mi soffermai su di esse e il tempo
sembrò fermarsi e il
cuore aveva preso a battere un po’ più forte e
tutto in me mi gridava di
azzerare le distanze e baciarlo.
Ma non lo
feci e,
riprendendo fiato, mi fermai prima di commettere altri disastri.
«Buonanotte
Ace»
sussurrai solo, incamminandomi per assicurarmi di mettere
più distanza
possibile tra noi e, dandogli le spalle con un ultimo accenno di
sorriso, me ne
andai, sperando inconsciamente di poterlo rivedere presto al bar per
una cioccolata.
Anche io
sto iniziando
a sperare e anche a sclerare male u.u oh, ma non preoccupatevi
ragazzoni miei
cari, ho intenzione di stravolgere per bene la vostra vita, anche
perché siete
una coppia così vhfuivwhfdvuiow **
Io se
fossi stata in
Ace non avrei desiderato altro che un bacio e se fossi stata Marco non
mi sarei
limitata solo a quello. Dio, Dio,
salvami u.u
Aaaaaanyway,
siete
contenti? Che ne pensate? Awww, nah, niente pace fatta, muahaha :D chi
lo
sperava? Chi se lo aspettava?
Sappiate
solo che so che direzione dare alla
raccolta, oh
si, grandi cose all’orizzonte e il rating boh, dovrei alzarlo
solo per le
imprecazioni che butto in mezzo di tanto in tanto. So che vorreste
altro, lo
so, piccoli perversi che non siete altro, ma pazientate, prometto che forse vi esaudirò :3
Poooi.
Beh, devo
ringraziarvi immensamente per la botta di recensioni che non
mi aspettavo e che non
merito. Cioè, siete meravigliosi, io non ho parole e siete
anche così ruffiani,
coccolosi, fuori di testa e fottutamente adorabili. Sto rotolando
giorno e
notte e per colpa vostra mi verrà il diabete.
GRAZIE
PER TUTTO.
No, non
siamo alla fine,
per quella dovrete aspettare ancora ^^
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 27 *** Capitolo 27. Buon compleanno cuore impazzito. ***
Capitolo 27. Buon
compleanno cuore
impazzito.
«Buon
compleanno!».
«Tanti
auguri Ace!».
«Vieni
qui ragazzone!».
Stupito,
incredulo,
sorpreso. Non sapevo bene come mi stavo sentendo in quel momento,
quando io ero
più che pronto a fare gli auguri di un felice anno nuovo a
tutti e non ad augurare
un buon compleanno al ragazzo moro, fradicio di spumante dalla testa ai
piedi
che ringraziava tutti con imbarazzo e modestia.
«Ehi,
ma tu lo sapevi?»
mi chiese Thatch, dandomi una gomitata alle costole che
riuscì a riscuotermi
dalle mie riflessioni e a farmi rispondere con un flebile sussurro
negativo.
No, non
lo sapevo che
il primo giorno di gennaio era il compleanno di Ace, non me lo aveva
mai detto
ed io non me l’ero di certo andato a immaginare. Per la testa
avevo ben altre cose.
Quando
Rufy mi aveva
invitato a passare con loro anche la festa di Capodanno ero piuttosto
indeciso
su cosa fare, soprattutto perché non sapevo come
l’avrebbe presa suo fratello
maggiore, nonché padrone dell’appartamento, ma i
suoi amici avevano insistito
tanto che ero quasi convinto di accettare. Quasi
però, fino a che non avevo visto Ace sorridermi,
trasmettendomi in quel
momento mille parole e facendomi capire che andava bene, che potevo
passare a
salutarli se mi andava. E così avevo fatto, aiutato con una
leggera spinta da
quell’impiastro di Thatch che poi non ne aveva voluto sapere
di andarsene e si
era imbucato alla festa legando fin troppo con Rufy e compagnia.
Ed ora ci
trovavamo sul
tetto dell’edificio con i fuochi d’artificio
sparati uno dopo l’altro in cielo dall’Automatic
Fire Due a guardare come
tutti si apprestassero a fare gli auguri al festeggiato, incapace di
avere
anche solo cinque minuti per respirare perché era
costantemente afferrato e
sballottato da una parte all’altra, soffocato dagli abbracci
della sua
famiglia.
Non
l’avevo mai visto
così felice, mai, ne ero certo. Sorrideva ininterrottamente
e gli occhi
brillavano di affetto e amicizia ogni volta che qualcuno gli si
avvicinava. E
quando scartò il regalo dei suoi coinquilini, estraendo una
collana di perle
rosso fuoco da una piccola scatoletta, avrei tanto voluto correre ad
abbracciarlo quando lo vidi tremare per l’emozione, incapace
persino di
spiccicare qualche parola. Quello doveva essere stato per lui un
momento
davvero speciale e fui contento perché se c’era
qualcuno che si meritava di
essere felice quello era lui.
Una volta
che la calca
di gente iniziò a calmarsi e a concentrarsi sui fiocchi di
neve che avevano
iniziato a scendere lenti ma costanti sulle nostre teste e sui fuochi
che
offrivano uno spettacolo magnifico, presi un respiro profondo e mi
avvicinai al
ragazzo entusiasta che continuava a sorridere come un bambino.
Thatch fu il primo a
raggiungerlo e, con una confidenza imbarazzante, tipica di lui,
abbracciò Ace
con animo tanto forte da sollevarlo da terra, urlandogli nelle orecchie
i suoi
auguri e scherzando sul fatto che fosse appena invecchiato.
Prima che
combinasse
altri disastri decisi di toglierlo di mezzo con una spinta e mi parai
davanti
al festeggiato, rivolgendogli un’occhiata scherzosa e curiosa
allo stesso
tempo.
«Non
hai nulla da
dirmi?» gli chiesi, inarcando un sopracciglio e notando come
le guance si
tingevano leggermente di rosso. Non era per il freddo e, se solo avessi
potuto,
gli avrei carezzato gli zigomi con il pollice, giusto per rendermi
conto di
quanto morbida fosse la pelle punteggiata di lentiggini.
«Ecco,
beh, a proposito
di questo…» fece con malcelato nervosismo,
passandosi una mano fra i capelli
corvini, «Sorpresa?» finì con
l’improvvisare.
Alzai gli
occhi al
cielo e stirai la bocca in un mezzo sorriso che non riuscii a
trattenere. Ace
era tutto fuorché prevedibile.
«Avresti
potuto
dirmelo» dissi, stringendomi nelle spalle e notando il mio
respiro condensarsi
e fondersi con la nuvoletta di fumo che aveva appena creato lui. Sul
serio, se
mi avesse avvisato per tempo avrei potuto fargli un regalo o almeno non
ritrovarmi così preso alla sprovvista.
«N-non
era importante»
mormorò, spostando lo sguardo altrove. Le pupille scure si
muovevano
velocemente nello spazio attorno, irrequiete.
«Siete
i migliori e non
conosco nessuno più innamorato di voi!» sentii
urlare Rufy in lontananza e,
guardando verso di lui, lo vidi intento ad abbracciare il tizio dai
capelli
rossi e quello con il cappello bianco a macchie, quello inquietante,
mentre il
primo sbraitava a voce altra insulti verso le insinuazioni del
piccoletto e si
allontanava a grandi falcate. Rufy, per tutta risposta, prese a
seguirlo e a
imitarlo, facendo scoppiare tutti a ridere, Thatch compreso che lo
raggiunse
per dargli man forte.
Nel
frattempo Ace si
era schiaffato una mano sul viso per non assistere alla scena, ma notai
che
stava sghignazzando ugualmente tra sé.
«Ace»
mi ritrovai a
dire, mordendomi il labbro inferiore per l’indecisione. Non
so dove, ma riuscii
a trovare un minimo di coraggio per avvicinarmi di un passo,
ritrovandomi a
pochi centimetri di distanza. Ancora non avevo bene in chiaro cosa
avrei dovuto
dire o fare in quell’occasione.
Mi
guardò interrogativo,
il sorrisetto sempre presente che rispecchiava il suo umore allegro e,
finalmente, di nuovo solare.
Dio,
quanto mi é mancato,
mi ritrovai a pensare, lasciando vagare lo sguardo sulla sua figura.
Chiusi le
distanze tra
di noi passandogli un braccio attorno alle spalle e tirandolo
leggermente verso
di me, quel tanto che bastava perché i nostri petti si
sfiorassero.
«Buon
compleanno»
sussurrai, non azzardandomi a stringere la presa e lasciandogli la
possibilità
di allontanarsi o sciogliere quel mezzo abbraccio dettato
più dal bisogno di
sentirlo vicino che dall’istinto. Volevo tanto che le cose si
sistemassero e,
se dovevamo essere amici, tanto valeva iniziare con piccoli passi.
Quello che
stavo facendo non era poi tanto esagerato, giusto?
Rimase
interdetto e si
irrigidì per un attimo, ma si rilassò quasi
subito e, poggiando la fronte sulla
mia spalla mi ringraziò con voce tranquilla e per niente
infastidita.
Non
importavano i
fuochi d’artificio nel cielo, non importavano Thatch e Rufy
che rotolavano a
terra per le risate, non importava quel rosso iracondo che si sgolava
con gli
insulti e poco mi interessava vedere come tutti iniziassero a lanciarsi
piccoli
grumi di neve fresca.
Mi
importava solo Ace e
quel piccolo fremito che percepivo al di sotto della sua giacca
all’altezza del
petto.
Non ne
avevo la
certezza, ma assomigliata moltissimo al battito di un cuore impazzito.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA.
*prende
fiato*
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA.
Va bene,
basta. Sarò seria
perché voglio lasciare i commenti a voi, chi ovviamente
avrà voglia di farlo.
Ci tengo
a chiarire che
i due ragazzi non sono stretti in un affettuoso abbraccio, ma solo in
un
qualcosa che ci assomiglia e che è comunque molto sul
distaccato quasi
attaccato. Marco, come ha detto, lascia a Ace la possibilità
di allontanarsi,
non lo vuole obbligare, ma il nostro piccolo festeggiato non si tira
indietro a
accetta gli auguri lasciandosi cullare da quel piccolo, ma dolce,
contatto.
Mettetevela
via, NON si baciano.
Ah si, il
titolo, ormai
l’avrete capito, riprende sempre una frase o una parola del
testo. Stavolta ero
partita con il Buon Compleanno, ma cuore impazzito mi piaceva tanto, quindi
li ho messo entrambi.
Detto
questo spero di
aver reso bene il tutto e di avervi fatti contenti, davvero.
Per chi
fosse
interessato, io lo metto per qualsiasi evenienza, in questo capitolo
della long
la serata è spiegata nel dettaglio e potrete trovare qualche
riflessione dal
punto di vista di Ace, esattamente all’inizio, e anche di
Marco, il terzo, dove
racconta come il caro Thatch l’abbia seguito e sfottuto
spudoratamente, LOL.
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2407786
Bene
gente, vi auguro
buona serata e vi avviso che forse, se non mi prendo avanti stasera,
domani non
aggiornerò la raccolta, quindi ci si vedrà
lunedì. Non è certo, ma comunque vi
avviso ^^
Un
abbraccione e grazie
mille a tutti **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 28 *** Capitolo 28. Io potevo farcela. ***
Capitolo 28. Io
potevo farcela.
I fuochi
d’artificio
avevano sempre suscitato un certo fascino su di me sin da quando ero
piccolo e
li guardavo da dentro casa, con il naso appiccicato alla finestra, i
palmi
premuti contro il vetro e gli occhi irrequieti che passavano da
un’esplosione
all’altra, pieni di meraviglia per tutti quei colori, quelle
scintille e le
forme che alcune di esse assumevano.
Erano un
qualcosa di
spettacolare: filavano in alto nel cielo scuro, scomparendo alla
visuale per
poi scoppiare e illuminare la notte con miriadi di stelle luccicanti e
brillanti, cadendo lentamente sopra le teste di coloro che li
guardavano con il
naso all’insù. Me ne ero completamente innamorato
e l’attività di piromane,
come i miei amici si
divertivano a definirla, era diventata il mio passatempo preferito.
Natale,
Capodanno, compleanni, serata a caso, ogni occasione era buona per
lanciare in
orbita i miei fuochi d’artificio. Miei
perché la maggior parte li fabbricavo io in gran segreto nel
garage sotto
l’appartamento, aiutato qualche volta da Rufy o da Penguin, a
seconda dei casi
e di quanta voglia avessi di stare in compagnia.
Amavo
dedicarmi a loro:
era come se sentissi la passione, l’energia, la meraviglia
scorrermi nelle
vene, passarmi attraverso le mani che lavoravano veloci nel fabbricare
quei
botti e creandoli dal nulla quasi ad occhi chiusi. Era come se fossero
parte di
me, ognuno di loro nascondeva una mia emozione, un mio pensiero, una
frase,
tutti avevano qualcosa di speciale, tutti erano stati fatti in
determinati
momenti e situazioni particolari. Tutti erano speciali.
E, quando
esplodevano
nel cielo rendendomi fiero e catturando l’ammirazione dei
presenti, mi facevano
sentire esattamente così: speciale nella mia
anonimità.
Proprio
in quel
momento, la mia ultima invenzione, uno spara-fuochi automatico, aveva
appena
fatto partire con un sibilo uno dei fuochi di medie dimensioni che
riconobbi
all’istante, spedendolo più in alto del previsto e
facendomi trattenere il
respiro. Dopo qualche secondo ci fu il botto e il fuoco esplose con una
fiammata di colore arancione per poi passare al rosso e terminare con
un’ondata
di azzurro, creando una cascata nel cielo che mi fece sussultare nel
profondo.
Quello
l’avevo fatto
pensando a Marco.
Ero
ancora stretto in
quella specie di abbraccio improvvisato che tanto mi aveva stupito,
quanto
fatto piacere. Non avevo pensato che dirgli del mio compleanno fosse
importante, dopotutto, nemmeno ero certo che sarebbe venuto o meno, in
più non
vedevo come l’argomento potesse interessarlo. Ma poi mi aveva
spiazzato quando
mi ero ritrovato il suo braccio a circondarmi le spalle e ad attirarmi
verso di
lui, vicino, al caldo, augurandomi un buon compleanno nel miglior modo
possibile.
All’inizio
volevo
fermarlo, ma all’ultimo non ero riuscito a farlo. Era stato
più forte di me,
soprattutto perché mi accorsi di un particolare piuttosto
importante che avrei
voluto ignorare, ovvero il mio cuore che aveva preso a battere
così forte da
fare quasi male, come se volesse uscirmi dal petto. Lo sentivo battere
chiaramente, tanto che temetti che il suono fosse udibile anche agli
altri, ma sapevo
che ciò era impossibile. Nonostante tutto, decisi di
ascoltarlo, faceva troppo
casino per fare finta di nulla, così gli avevo appoggiato la
fronte nell’incavo
del collo, vicino alla spalla, e li ero rimasto, nascondendo un piccolo
sorriso. Felice, soddisfatto, divertito che fosse non aveva importanza,
sapevo
solo che in quell’istante stavo maledettamente bene.
Era
sbagliato, non era
giusto nei miei confronti, mi ripetevo che dovevo avere più
considerazione di
me stesso e non lasciarmi trattare come se non valessi nulla. Avrei
dovuto
essere freddo, schivo, disinteressato ma, dannazione, era
così difficile. Ero
stato male, tanto, nonostante l’accaduto non fosse stato poi
così importante e
il nostro legame semplice conoscenza, ma continuare ad essere
arrabbiato a cosa
mi sarebbe servito? Avrei cambiato qualcosa? No, niente. E, dato che
potevamo
avere la possibilità di essere almeno semplici amici, tanto
valeva coglierla al
volo invece che buttare tutto all’aria per un
fraintendimento. Io potevo farcela,
potevo essere forte e affrontare la cosa con maturità, come
era giusto che
fosse. E così avrei fatto.
Per
questo lasciai che
Marco mi abbracciasse, se così si voleva dire, e mi godetti
ogni minimo istante
di quel momento, anche quell’augurio sussurrato
sommessamente, quasi con paura,
ma con una dolcezza infinita.
Era
questo che mi
metteva al tappeto di lui: Marco, ogni volta che io ero nei paraggi,
cambiava
totalmente. Quando si rivolgeva a me, quando mi guardava, quando mi
ascoltava,
quando mi parlava o anche solo quando si trovava vicino i pilastri
della sua
solita espressione pacata e spesso annoiata cadevano e lasciavano
spazio a una
miriade di emozioni e sentimenti. Allora sorrideva, era partecipe, mi
rimproverava, mi dava dell’idiota, mi sfotteva per la mia
età, mi prendeva in
giro e sbuffava davanti ai miei racconti e alla mia mania di parlare
troppo. Mi
considerava degno della sua attenzione. E poi, in quegli ultimi tempi,
l’avevo
scoperto capace di una dolcezza così semplice e celata tra
le righe che mi ero
sentito folgorare. Lui non si esponeva mai troppo, ma bisognava saper
leggere
tra le righe quello che pensava, diceva o faceva.
Proprio
come la psicologia.
Mi
sarebbe bastato solo
un po’ della sua attenzione, me lo sarei fatto andare bene,
come in quel
momento, vicino a lui, lasciando da parte le incomprensioni e i
sentimenti
contrastanti. Ci tenevo troppo per mettere un punto a tutto
ciò, sentivo che ne
valeva la pena e, anche se le cose non sarebbero state più
semplici come prima,
io ci avrei provato ugualmente.
Quando
sciolse l’abbraccio
mi sorrise con fare altezzoso, come quando eravamo al bar e stava per
dire
qualcosa che mi avrebbe fatto arrabbiare, nonostante fosse lui dalla
parte
della ragione. Faceva sempre quella faccia quando stava per prendermi
allegramente per il culo.
«Avrai
anche un anno in
più, ma resti sempre un ragazzino»
ammiccò.
Probabilmente
fu un
gesto un po’ infantile, ma gli feci una linguaccia e mi
imbronciai, ritrovando
la mia vena sarcastica e sfottendolo a mia volta. Non sia mai che mi
faccia
mettere i piedi in testa.
«Geloso
della mia
giovinezza, vecchietto?»
ghignai.
Uno
scappellotto sulla
nuca fu la sua risposta, seguita dopo poco dalla risata di entrambi.
Forse mi
sbagliavo. Forse
le cose potevano davvero tornare come prima.
Buonaseeera
^^
Ecco,
sapevo che ieri
sarebbe stato impossibile aggiornare, ma eccomi qui oggi, come
promesso,
addirittura con il punto di vista del tanto amato Ace!
Allora,
una panoramica
dei suoi pensieri ci stava diciamo, dato che non si sa ma come possa
reagire
davanti a certe cose, ma mi sembra carino spiegare bene gli stati
d’animo di
entrambi quando hanno qualche contatto tra loro.
Comunque,
qui ho voluto
far capire che, anche se Ace ha sofferto, anche se ci è
rimasto male, anche se
ha provato a dimenticare Marco, non ce l’ha fatta, non ci
riesce. Non ha
nemmeno molto senso, a dire la verità perché, ci
tengo a rivangare e precisare
che i due non erano fidanzati, non
avevano fatto nessuno voto di appartenenza l’uno
all’altro e, praticamente, tra
loro non c’era nulla di concreto. Un bacio a volte
può scappare tra amici, che
poi rovini le cose o meno dipende dalle persone. Qui Ace era mezzo
cotto di
Marco, quindi è stato inevitabile per lui restarci male
davanti alla negazione
del biondo, ma la reazione è stata un po’
esagerata se si guarda bene il tutto.
Che Marco abbia sbagliato poi è un’altra
questione, ma penso che nel momento di
rabbia, il moro abbia anche avuto tutto il diritto di sclerare male.
Ripensandoci
capisce che serbare rancore non ha senso, quindi meglio essere amici o
quel che
si riesce a ricostruire.
Spero di
essere stata
chiara ^^
Con
questo non sto dicendo che i due
ora saranno
una coppietta felice, ma state certi che dal prossimo capitolo si
rivedranno al
bar. Siete contenti? Lo spero, perché ci stiamo avviando
verso una nuova
situazione, aww **
Ora me la
mocco e
prometto che risponderò presto anche alle recensioni che ho
lasciato in
sospeso! Scusate, non pensate che non vi apprezzo, solo che ultimamente
sono
parecchio incasinata ;_____________;
un
abbraccione
grandissimo a tutti!
See ya,
Ace.
P.S: A
voi Ace che
sogghigna **
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-frc3/t1/1468619_564041170338368_1690366191_n.jpg
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Capitolo 29 *** Capitolo 29. La cioccolata migliore. ***
Capitolo 29. La
cioccolata migliore.
Le feste
erano finite,
le lucette di natale scomparse, le insegne colorate rimesse a prendere
polvere
nei magazzini e i cappelli da Babbo Natale erano ritornati negli
armadi. Per
strada la gente era ritornata alle proprie abitudini, nonostante la
neve imbrattasse
ancora le strade e i marciapiedi. L’inverno non voleva
saperne di andarsene, ma
io di certo non mi lamentavo perché in giornate grigie,
nuvolose e fredde come
quella mi veniva sempre voglia di una capiente tazza di cioccolata con
sopra
una montagna di panna montata.
Ormai era
fine gennaio
e in quel mese non avevo fatto altro che combattere con me stesso e
andare alla
ricerca di un posticino tranquillo dove fermarmi dieci minuti per fare
una
pausa dallo studio, dato che ero sotto esami fino a metà
febbraio. Avevo
setacciato ogni angolo vicino alla sede universitaria, ma senza grandi
risultati. La cioccolata migliore la trovavo in un solo e unico bar:
quello di
Marco.
Forza,
cosa potrebbe succedere di male? Entro a testa bassa, cerco di non
farmi notare,
ordino qualcosa di caldo, pago, ringrazio e filo via come se niente
fosse. Non
è detto che debba per forza mettersi a chiacchierare con me,
insomma, forse
nemmeno si accorgerà della mia presenza. E poi, che
m’importa? Abbiamo deciso
che saremo stati amici, quindi penso di avere anche il diritto di
passare dalle
sue parti qualche volta, mica è un reato. Gli
dirò semplicemente che mi mancava
la sua cioccolata. No, no assolutamente, pessimo inizio.
Però, più o meno,
l’idea è quella…
Sbuffai
sonoramente,
deglutendo a fatica e cercando di calmare quell’ansia che
aveva preso a
ballarmi nello stomaco dato che mancavano circa un centinaio di metri
al locale
dove lavorava Marco. Peggio di quando mi trovavo davanti alla
commissione
d’esame.
Avanti,
Ace! Sei forte, ce la puoi fare! Tu sei Pugno di Fuoco, che cazzo!
Quello che
durante le risse spedisce a gambe all’aria chiunque con un
destro micidiale;
quello che fabbrica fuochi d’artificio in garage e accende le
griglie con
l’alcool! Hai venticinque anni, per la miseria, devi solo
entrare in una
fottuta caffetteria a testa alta e mettere tutti a novanta.
No,
aspetta, questo meglio di no, lasciamo perdere, non ho bisogno di
pensieri poco
casti proprio adesso, per l’amor di Dio!
Gonfiando
il petto e
stringendo i pugni, sconnettendo il cervello per alcuni secondi e
smettendo di
pensare alle conseguenze negative, mi decisi a compiere gli ultimi
passi per
coprire le distanze che mi separavano dal locale e per andarmi a
prendere la
mia meritata cioccolata.
Entrai
aprendo piano la
porta, quasi come se temessi di fare rumore e, nell’esatto
istante in cui il
campanellino sopra la mia testa suonò, lo maledissi per il
casino che fece.
Sicuramente avrebbe attirato gli occhi di tutti su di me. Invece, con
mio
grande sollievo, la sala era praticamente vuota e nessuno dei pochi che
stavano
seduti tranquillamente ai tavoli si voltò a guardarmi. Non
vidi, però, nemmeno
due occhi famigliari intenti a fissarmi come al solito quando gettai
occhiate
furtive in direzione del bancone.
La testa
d’ananas non
c’era, nessun ridicolo ciuffo biondo sventolava di qua e di
là, nemmeno la sua
faccia annoiata, nulla. Non c’era nessuno.
Corrugai
la fronte
mentre mi dirigevo verso quello che un tempo era stato il mio angolino
personale, cercando anche di capire se mi sentivo sollevato o deluso
nel
constatare che tutto il mio coraggio alla fine era stato vano. Quanto
poi mi
dispiacesse che il biondo non fosse presente era un altro discorso che
preferii
non toccare.
Iniziai a
tamburellare
distrattamente le dita sul ripiano in legno, indeciso se andarmene e
tornare
un’altra volta o prendere comunque qualcosa dato che ormai
avevo fatto la
strada quando, all’improvviso, dall’altra parte del
banco sbucò Marco in tutta
la sua stazza.
Successe tutto di
fretta e con tale sorpresa che quasi ebbi un infarto vedendolo spuntare
così
dal nulla come se niente fosse e, se lui sbiancò facendo un
passo indietro e
urtando il ripiano degli alcolici, io finii direttamente per
sbilanciarmi e
cadere a terra, sgabello e porta salviette compreso, afferrato nel
tentativo di
aggrapparmi a qualcosa.
«Che
male, che male,
che male!» mormorai, cercando di massaggiarmi la tempia con
la mano libera e
provando allo stesso tempo a liberarmi della sedia che mi teneva mezzo
imprigionato al suolo. Certo che come inizio andava proprio male.
«Ace!
Tutto a posto?
Stai bene?».
Lo
sgabello infernale
magicamente sparì dal mio petto e mi riscoprii capace di
essere di nuovo libero
di muovermi mentre un paio di braccia mi aiutavano con gentilezza a
mettermi
seduto e un paio di occhi chiari mi sondavano attenti e preoccupati in
cerca di
qualche segno o contusione grave.
Dita che
non erano le
mie mi sfiorarono i capelli, scendendo poi a tastare la base della
nuca,
controllando che tutto fosse a posto e che non mi fossi tagliato, per
poi
passare alle spalle, al petto e per finire al viso dove si posarono
leggermente
sopra le mie guance, tentennando per qualche istante. Solo allora gli
occhi di
Marco incontrarono i miei che, fin da quando mi ero reso conto della
situazione, non si erano spostati da lui neanche di un centimetro.
Sorridere
fu più forte
di me. Dopotutto, avevo appena visto quanto
si fosse preoccupato per le mie condizioni, come potevo non esserne,
almeno,
compiaciuto?
Forse
eravamo vicini, troppo vicini, di
questo sembrò
accorgersene e, scostando le mani, si allontanò quel tanto
che bastava per non
rendere il tutto più imbarazzante di quanto già
non fosse, grattandosi nervosamente
i capelli per l’imbarazzo.
«Niente
di rotto spero»
improvvisò, guardandomi dubbioso.
Ci pensai
su per un
attimo, provando ad alzarmi. La smorfia che feci bastò a
confermargli che
qualcosa non andava, infatti il mio deretano aveva visto giorni
migliori.
«E’
solo una botta,
passerà presto» lo assicurai.
Sembrava
indeciso se
credermi o no, ma poi il suo sguardo cadde sul porta salviette
distrutto, i
tovaglioli sparsi per terra e lo sgabello lì accanto e
scoppiò a ridere, prima
sommessamente, poi sempre più divertito fino a che non
guardò la mia faccia per
poi scuotere il capo e rialzarsi.
«Certo
che sei proprio
un imbranato» disse, porgendomi la mano per aiutarmi a
rimettermi in piedi.
«Parla
quello che
spunta fuori come i funghi» ribattei piccato, ma accettando
comunque il suo
aiuto, «E’ colpa tua se sono caduto, praticamente
mi hai fatto fare un mezzo
infarto!».
«Non
sapevo fossi tu»
rispose tranquillo, tirandomi su senza sforzo e rivolgendomi un mezzo
sorriso
incerto. Sapevo cosa voleva dire: non mi stava aspettando e la sorpresa
era
stata spiazzante anche per lui.
«Se
mi offri una
cioccolata ti perdono» borbottai, fingendomi ancora un
po’ offeso. In realtà in
quel momento non poteva esserci nessuno più contento di me.
«Ti
ricordo che mi hai
distrutto un porta salviette. Siamo pari».
Guardai
l’oggetto del
nostro dibattito giacere a terra ormai di nessuna utilità ed
ebbi una visione
inquietante di me stesso sfracellato sul pavimento. Decisamente poco
invitante.
Perciò
lo guardai
scettico, scontrandomi con il suo sguardo ancora meno accondiscendente.
«Avrebbe potuto esserci il mio cadavere al suo
posto» gli feci notare.
Sbuffò
esasperato,
alzando gli occhi al cielo e tornandosene dietro al bancone.
«Ragazzino,
se vuoi una
cioccolata vedi di non tirarla per le lunghe». Cercava di
sembrare
indifferente, ma capivo benissimo che era contento di rivedermi quanto
lo ero
io. Alla fine quegli incontri erano mancati a entrambi.
Mi
strinsi nelle
spalle, nascondendo un sorrisetto e recuperando tutto quello che avevo
trascinato per terra con me.
Non
è andata così male tutto sommato,
pensai allegro.
Qui tipo
ci stava alla
grande una panoramica dei pensieri poco casti di Marco mentre tastava
preoccupato il corpo viuvbwsui di Ace ** un
pezzo speciale va alle guance e alle
lentiggini, oh Dio, posso morire felice! Sparatemi!
Lo
farò, devo farlo,
assolutamente! Arriverò anche a quello, con calma, ma ci
arriverò!
Sono
contenta,
finalmente si ritorna al bar, yeee! E, ovviamente, un commento
sarcastico ai
capelli di Marco ci stava per inaugurare la cosa :D comunque non
è questa la
novità, ma vi prometto che la vedrete tra uno o due capitoli
massimo, dipende
come mi gira ** A proposito, domanda importante: qualcuno sa dirmi di che colore sono effettivamente gli occhi di Marco? Perché io ho provato ad attivarela mia vista da falco e su alcune immagini tratte dalla battaglia a Marineford mi sembrano azzurri, ma su altre non lo sono. Quindi, che cazzo faccio? Intanto li ho messi chiari, se gentilmente mi date la vostra opinione o mi assicurate il colore esatto cambio e sistemo oppure lo lascio se ho azzeccato! Grazie in anticipo! ^^
Ora
scappo perché tipo
devo finire di vedermi la terza stagione di Sherlock che ho atteso con
ansia,
inoltre sono innamorata della serie, shippo qualsiasi cosa respiri la
dentro
e,bhe, meglio che vada **
Un
abbraccione a tutti!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 30 *** Capitolo 30. Mi piaceva tanto. ***
Capitolo 30. Mi
piaceva tanto.
Maledetto
affare, ma guarda se doveva rompersi proprio oggi. Fortuna che il bar
è
praticamente vuoto, altrimenti sarebbe stato un bel disastro. E questa
che roba
è? Da dove si è staccato quest’altro
pezzo? Dio, dovrò chiamare Thatch e dirgli
di venire a dare un’occhiata. Se si può aggiustare
bene, altrimenti dovrò
comprare una nuova lavastoviglie. Certo che è una bella
scocciatura, ma almeno
non passo tutto il pomeriggio ad annoiarmi. Ormai non succede
più nulla di
interessante.
Il
campanello
all’entrata annunciò l’arrivo di un
nuovo cliente, ma non mi scomodai nemmeno
ad alzarmi per controllare chi fosse. Avevo smesso di farlo dato che
nel giro
di un mese circa Ace non era ancora passato da quelle parti.
Non
l’avevo più rivisto
dopo la notte di capodanno, quando avevamo festeggiato pure il suo
compleanno e
mi dispiaceva che le cose fossero giunte alla fine. Aveva detto che
potevamo
essere amici, me l’aveva proposto lui e, sinceramente, io
avevo sperato che
tutto ciò significasse vederlo ritornare di nuovo nel mio
locale per quattro
chiacchiere e una cioccolata calda, o qualsiasi altra cosa a seconda
della
stagione.
Invece
nulla, nemmeno
una volta.
Che
potevo aspettarmi? Avrà avuto da fare con
l’università, oppure ha trovato
lavoro, o peggio un posto migliore dove fermarsi a fare una pausa e a
bere
qualcosa. Magari un luogo dove i baristi sono gentili e sempre col
sorriso e se
decidono di baciarti poi non ti voltano le spalle come se niente fosse.
Però,
cazzo, siamo amici, no? Me l’ha chiesto lui, quindi
perché ora non si fa
vedere? D’accordo, io sono stato un gran bastardo, ma se
aveva intenzione di
cancellarmi dalla sua vita avrebbe anche potuto dirmelo in faccia senza
recitare la parte della persona altruista.
Qualcuno
tamburellò sul
bancone nell’attesa di essere servito e mi ricordai che non
mi ero ancora
alzato, rimanendo invece accucciato davanti alla lavastoviglie che mi
aveva
appena abbandonato. Allora feci tutto alla svelta, rimettendo in ordine
i
canovacci sparsi a terra nell’intento di asciugare il
pavimento, dato che
quell’affare rompendosi aveva perso acqua ovunque, richiusi
lo sportello e mi
alzai di scatto, forse troppo velocemente.
Fu il
caos.
Mi
ritrovai davanti gli
occhi scuri e caldi di Ace, il quale se ne stava seduto al solito posto
come se
non se ne fosse mai andato, guardandomi come se avesse appena visto un
fantasma. Mi sorpresi così tanto che finii col fare un salto
indietro e sbattere
contro una delle mensole dove un paio di bottiglie tintinnarono tra
loro,
minacciando di rovesciarsi e rompersi in mille pezzi, mentre per il
moro fu
tutto più complicato. Evidentemente non si aspettava di
vedermi comparire di
fronte a lui nel giro di un secondo e dovevo averlo spaventato
parecchio perché
si ritrasse con uno slancio e finì per sbilanciarsi,
ritrovandosi a terra in un
groviglio di gambe, salviette e sgabello compreso. A giudicare dal
rumore che
aveva fatto non doveva essere stata una bella caduta.
Reagii
senza nemmeno
rendermene conto, giusto il tempo di aggirare il bancone e gli ero
accanto,
togliendogli di dosso la sedia in metallo e inginocchiandomi a terra
per
aiutarlo a tirarsi su.
«Che
male!» si stava
lamentando con una smorfia sul viso, mentre con una mano si massaggiava
la
nuca.
Non capii
nemmeno cosa
mi stesse passando per la testa in quel momento, probabilmente ero solo
preoccupato, tanto, e in pensiero.
Poteva benissimo essersi rotto qualcosa nell’impatto col
pavimento e questo mi
rendeva nervoso e in ansia.
Fu
così che, senza
rifletterci su, non aspettai una sua risposta e presi a passargli le
mani
ovunque.
Prima fra
i capelli,
alla ricerca di qualche taglio o di una ferita, poi la base del collo,
quello
che mi preoccupava di più, ma fortunatamente sembrava essere
a posto. Da lì
passai alle spalle, rendendomi vagamente conto di quanto fossero larghe
e
forti, di sicuro niente le avrebbe scalfite. Scesi sul petto e, Dio, le
dita
iniziarono a tremarmi mentre il respiro si faceva più corto.
Sono
preoccupato, sono solo preoccupato,
mi ripetevo, tentando di rimanere lucido.
Ace aveva
un corpo
bellissimo e potevo dirlo con certezza perché mi ero
soffermato più volte a
osservarlo. Non era mingherlino o smilzo e, se non per pochi
centimetri, era
alto quasi quanto me e robusto quel tanto che bastava per attirare
l’attenzione
e far si che mi incantassi quando lo guardavo. A Natale era successo
questo,
era bastato che si togliesse la maglia per sentirmi andare a fuoco e
ritrovarmi
automaticamente con il cavallo dei pantaloni piuttosto stretto.
Scacciai
quei ricordi e
tornai a concentrarmi sul ragazzo ancora dolorante e accorgendomi che,
senza
volerlo, le mie mani erano finite sul suo viso e gli stavo accarezzando
lentamente le guance arrossate dove spiccavano quelle deliziose
lentiggini che adoravo
e che tante volte avevo desiderato toccare. Mi piaceva il viso di Ace e
anche
la sua pelle. Mi piaceva tanto.
Incrociai
i suoi occhi
ipnotici e mi sentii in trappola, senza via d’uscita, ma non
mi dispiaceva
affatto e, se avessi potuto, sarei rimasto ad accarezzarlo per tutto il
tempo.
Dio
mio, Ace, che mi hai fatto.
Con tutta
la volontà
d’animo di cui disponevo evitai di guardare le sue labbra,
sicuro che, se solo
l’avessi fatto, avrei finito per
assalirlo
lì, sul pavimento e incurante dei presenti. Mi scostai da
lui come se avessi
appena messo le mani nel fuoco, grattandomi la testa imbarazzato e
chiedendogli
se fosse tutto a posto per sviare l’attenzione altrove e
spezzare quel momento
di stallo che era venuto a crearsi.
La faccia
che fece, non
del tutto convinta, in risposta alla mia domanda mi fece mordere un
labbro per
trattenere una risata. Così conciato era proprio buffo, ma
non volevo infierire
oltre dopo la figuraccia che aveva appena fatto.
Non ci
riuscii e bastò
un’occhiata intorno a noi per farmi scoppiare a ridere senza
ritegno, seguito
poi da lui che approfittò per togliersi di dosso alcune
salviette che gli erano
finite sopra ai vestiti.
«Certo
che sei proprio
un imbranato» dissi infine, porgendogli una mano per aiutarlo
a rimettersi in
piedi.
«Parla
quello che
spunta fuori come i funghi» ribatté offeso e
blaterando qualcosa riguardo a un
infarto.
«Non
sapevo fossi tu».
Ed era vero, se solo lo avessi saputo la sorpresa sarebbe stata tale,
ma non
avrei mai rischiato di attentare alla sua vita.
«Se
mi offri una
cioccolata ti perdono» borbottò, mettendo il
broncio e sporgendo deliziosamente
un labbro in fuori.
Spostai
immediatamente
lo sguardo altrove per non trovarmi ad affrontare situazioni scomode,
dato che
i pantaloni minacciavano di restringersi da un momento
all’altro, e mi cadde
l’occhio sulla fine disastrosa che aveva appena fatto il mio
porta salviette.
«Ti
ricordo che mi hai
distrutto un porta salviette. Siamo pari» gli feci notare.
«Avrebbe
potuto esserci
il mio cadavere al suo posto» rispose scettico, anche se non
trovò la mia
approvazione perché ero intenzionato a non dargli
soddisfazioni. Non l’avevo
mai fatto e i nostri battibecchi per un nonnulla mi erano sinceramente
mancati.
«Ragazzino,
se vuoi una
cioccolata vedi di non tirarla per le lunghe» lo avvisai,
tornandomene a lavoro
dietro al bancone con l’ombra di un sorriso in volto.
Finalmente
le mie
giornate avrebbero ripreso un po’ di colore.
*si
schiarisce la voce*
ALLORA!
A grande,
grandissima,
ENORME richiesta, ecco un capitolo dove possiamo notare, anche se non
in modo
approfondito, i pensieri leggermente poco casti di Marco. Lasciate
adesso che
ve lo dica, siete dei perversi però *O* non preoccupatevi,
lo sono anche io,
quindi spero che le cose vadano anche oltre, LOL ^^
Comunque!
Io spero
sinceramente che vi abbia soddisfatti almeno un pochino, a mia discolpa
posso
dire che non sono molto ferrata nel rating rosso e che il mio limite
massimo
può essere l’arancione tenue o leggero. Scusate,
ma non so che farci, è un
problema mio ;___;
Marco
stava giocando con la lavastoviglie infernale, per questo era nascosto
:D
e stava anche pensando a Ace con l’umore un po’
scazzato perché non l’aveva più
visto e si sentiva un po’ preso in giro dato che erano
rimasti d’accordo di
essere amici. Povero, in realtà era solo frustrato
perché sentiva la sua
mancanza e voleva quindi avere per una volta la ragione dalla sua parte
dato
che non è un ragazzino, ma un adulto fatto, finito e figo.
Poi Ace
arriva e,
sorpresa, si ritrova con le mani in pasta ** in tutti i sensi. Le
guance di Ace
non potevo non citarle, le amo e amo l’idea che Marco le
accarezzi. State
buoni, per assaggiarle ci
sarà tempo,
If
you know what I mean.
Ci tengo
a sottolineare
e a far notare che Marco non voleva solo assalire Ace, ma violentarlo all’istante, solo
che mi sembrava brutto dirlo, ho
preferito qualcosa di più tranquillo e meno disperato. Cosa
che si, arriverà
u.u
Uhm, che
altro dire…?
(Immagino abbiate capito perché i pantaloni si stringono) Un
applauso al
cambiamento di rating che fila al secondo livello: giallo, yeee.
Si, insomma, non è granché, ma i pensieri di
Marco, anche se non tanto spinti,
si riferivano chiaramente a qualcosa.
Le
battute finali sono
più meno
le stesse e marco si domanda
cosa gli ha fatto Ace perché capisce che ormai non
può farci più niente e lo
ammette anche: Ace gli piace.
Vado,
spero che il
capitolo vi sia piaciuto e se avete consigli sul rendere tutto in modo
più
chiaro fatemi sapere, è tutto ben accetto :D
Oh, e per
la novità
dovrete darmi qualche giorno in più forse, perché
vorrei dedicare qualche altro
momento imbarazzante o divertente tra i due, ma più tardi
deciderò ^^ a proposito, domanda: SOLO IO STO MORENDO PER L'ULTIMA PAGINA DEL CAPITOLO 735? Cioé, il pensiero di LUI! Dio, sto per piangere ;_________;
Un
abbraccione grande
**
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 31 *** Capitolo 31. Conversare con una divinità. ***
Capitolo 31.
Conversare con una
divinità.
Allora,
dai, questo non è difficile,
pensai tra me e me, sfogliando le pagine sottolineate ed evidenziate
del libro
che tenevo davanti agli occhi leggendo gli ultimi paragrafi.
In
poche parole si può dire che l’essere umano ha
sempre una reazione quando viene
a contatto con elementi estranei e, in questo caso, dannosi per il suo
sistema,
ripetei
mentalmente, queste reazioni sono differenti
e non sempre
possono essere sufficienti per eliminare determinati agenti patogeni
delle
varie malattie. Per questo motivo si ricorre alle vaccinazioni. Poi,
ah, ecco!
Qui mi spiega che con q-questa tecnica si a-allena il corpo a
riconos…
Era
impossibile, non
potevo andare avanti in quel modo, tutto aveva un limite, accidenti.
Era la
terza volta che ricominciavo da capo, nel tentativo di memorizzare al
meglio le
informazioni principali e ripassare un volume intero di scienze umane
per un
esame che avrei sostenuto a breve e, per la miseria, avevo pensato che
venire a
studiare al bar sarebbe stato semplice e non avrei rischiato di
distrarmi
troppo, invece mi stavo rendendo conto che avevo sbagliato totalmente i
miei
calcoli.
Praticamente
rimanere
concentrato, nonostante mi fossi ritirato nell’angolo
più remoto del bancone e
cercassi in tutti i modi di posare lo sguardo solo sui fogli pieni di
appunti e
definizioni, puntualmente, ogni volta che guardavo altrove con
l’intento di
ripetere le nozioni, mi ritrovavo a perdere completamente il filo del
discorso
e a cadere in una specie di trance in cui l’unica cosa che
importava era quel
fottuto pennuto.
Stava
succedendo di
nuovo in quel preciso istante: era bastato distrarmi un attimo ed ecco
che mi
ritrovavo a osservare Marco che, inconsapevole di tutto, stava
spolverando
tranquillo alcune mensole abbastanza in alto, per questo, di tanto in
tanto,
doveva alzarsi in punta di piedi e allungare le braccia, regalandomi la
visuale
perfetta dei fianchi, che magicamente rimanevano scoperti sotto le
pieghe della
maglia, e del suo fondoschiena.
R-reazioni
differenti e… e il corpo riconosce… oh ma che
cazzo! Devo concentrarmi, devo
concentrarmi e smetterla di guardarlo. Dunque, dov’ero? Ci
sono determinati
metodi per evitare… chissà
com’è abbracciarlo stretto, deve essere
sicuramente
il paradiso. Dio, ultimamente ti invoco spesso e parlo parecchio con
te, siamo
amici ormai, no? Perché, sai, non mi dispiacerebbe se mi
aiutassi a calmare i
miei bollenti spiriti. Insomma, sono cose del tutto normali, ma non
è possibile
che una certa parte del mio corpo sia sempre così sveglia.
Cioè, è imbarazzante
dopo un po’, non credi? Per
un secondo smisi di pensare, tendendo le orecchie.
Probabilmente
è come dici tu, la colpa è di Marco. E’
talmente figo che gli salterei addosso
anche se fosse vestito da Principessa delle Fiabe.
Mi resi
conto di essere
arrivato al limite quando mi accorsi che conversare con una
divinità cristiana
non era cosa da tutti i giorni, soprattutto se credevo di ottenere
addirittura
delle risposte, nonché la convinzione che qualcuno mi
ascoltasse sul serio. Di certo
stavo impazzendo, non c’era altra spiegazione.
Ad ogni
modo smisi di
cercare di studiare, tanto non sarebbe servito a nulla e alla fine
sarei
comunque stato costretto a chiedere aiuto a Law, il quale mi avrebbe
obbligato a
stare sveglio fino a notte fonda per assicurarsi che imparassi alla
perfezione
ogni singola pagina di quel fottuto libro. Pazienza, almeno avrei avuto
il
tempo di guardare ancora un po’ la mia fissazione,
come la chiamavano gli altri.
Appoggiai
la guancia su
una mano, sorreggendomi con il gomito e, sospirando con aria sognante,
ripresi
da dove avevo lasciato a rimirare come quel maledetto ragazzo
risultasse essere
così attraente senza nemmeno rendersene conto. Mi ero sempre
chiesto come
faceva ad essere così tranquillo e scatenare nello stesso
tempo un uragano di
emozioni dentro di me, tra le quali spiccava la voglia matta di fare
qualsiasi
cosa pur di stargli il più vicino possibile, anche solo per
respirare la stessa
aria, toccare le stesse cose, o meglio ancora, toccarsi a vicenda.
Chiusi
gli occhi per un
istante, cercando di calmarmi. I pantaloni non
dovevano stringersi per nessun motivo al mondo. No, non dovevo
permetterlo,
pena: una figuraccia colossale.
«Ehi».
Un sussurro
vicinissimo mi ridestò e, aprendo di scatto gli occhi, mi si
mozzò il respiro
nel ritrovarmi il viso ghignante di Marco a pochi centimetri, troppo
pochi per
permettere al mio cervello fuso in precedenza di ragionare lucidamente.
Troppo
vicino, troppo
bello.
«Posso
farti compagnia?».
«Tutto
quello che vuoi»
soffiai senza togliergli gli occhi di dosso.
Il
sorriso si allargò e
un sopracciglio curioso si inarcò in modo delizioso,
facendomi rendere conto
della mia risposta assolutamente fuori luogo e di certo male
interpretata.
«No,
cioè, io volevo
dire che, insomma, si, ecco, p-puoi farmi compagnia s-se non hai niente
da fare
e se non ti scoccia!» iniziai a dire con una voce quasi
isterica, nascondendo
la faccia tra i libri e raccogliendo freneticamente le mie scartoffie,
in modo
da non fargli notare quanto fossi diventato rosso. Per la vergogna.
«Ho
finito di studiare,
ma pensa! Il pomeriggio mi è volato e t-tu, tutto bene? Te
l’ho chiesto anche
qualche ora fa, ma adesso potrebbe essere diverso. Si, insomma, io, io
sono
stanchissimo! Come, c-cosa mi racconti?».
Sono
un disastro! Ammazzatemi, qualcuno mi uccida, per favore!
Marco
sembrava la
persona più divertita sulla faccia della terra e non smise
un attimo di
guardarmi, mentre io non chiedevo altro che l’arrivo
miracoloso di un qualche
cliente assetato per non essere più al centro della sua
attenzione.
«Sai,
Ace» fece
sorridente, inclinandosi sul bancone per essere più vicino.
Ancora pochi
centimetri e sarei morto all’istante.
Mi zittii
e aspettai
che continuasse, pregando qualunque entità in ascolto per
non fare cose
azzardate.
«Sto
bene, non sono
stanco e mi fa piacere farti compagnia».
Sai
una cosa, Dio? Credo di aver capito che forse non ti sto
così antipatico.
Ma vi
prego baciatevi
che io sto diventando matta! Ho capito che Marco è un pezzo
di figo e che tu,
Ace, hai seri problemi di concentrazione, altro che narcolessia, sei un
pervertito, ammettilo e Marco questo sembra averlo capito
perché non solo fa di
tutto per fare lo spaccone, stronzo e super fiol, ma addirittura
rincara la
dose non perdendo l’occasione per metterti in imbarazzo! Dio,
Dio salvami!
Allora
gente, intanto
ciao e scusatemi, ma anche io seguo questi due in modo maniacale e non
faccio
altro che cercare di renderli il più umani e veri possibile,
anche se a volte
dovermi fermare sul più bello mi scoccia u.u
Anyway,
ci tengo a
precisare che io credo in Dio e sono fermamente convinta che lui ci
ascolti e
si, anche a me piace l’idea di conversarci assieme qualche
volta. Detto questo
preciso anche che ognuno è libero
di
credere, pensare, dire quello che vuole, non giudico nessuno
e il mio era
solo un punto di vista personale. Pace e Amore, quindi.
Poi, mi
pareva giusto
dare una sbirciatina anche ai pensieri poco
casti, che ultimamente sembrano avere un successone, di Ace.
Di certo lui
mi sembra quello meno santo tra i due, LOL.
Beh, i
due hanno
ripreso a vedersi, infatti il bellissimo piromane va a studiare al bar,
ma la
sua attenzione sembra essere attirata da
altro :D
La Principessa delle Fiabe era un costume di Carnevale. Si, da piccola
mi sono vestita in quel modo per andare in maschera, ma erano altri
tempi ed era prima che conoscessi l'esistenza del cosplay di Trafalgar
Law, LOL.
Che ne
pensate? Spero vi
sia piaciuto anche questo ^^
Vi lascio
con questa
immagine che secondo me è tipo l’icona
dell’imbarazzo tra i due. Ma neanche
imbarazzo, che dico, è tutto! Cioè, è il
respiro profondo prima del balzo; è
l’attimo fuggente; potrebbe essere
addirittura il sesso stesso descritto con un solo sguardo!
Personalmente me ne
sono innamorata all’istante.
*ho
appena avuto l’illuminazione
per una bomba, aspettate e godrete vedrete*
https://scontent-a-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-ash3/1384312_536293243113161_279656155_n.jpg
Un
abbraccione e un
grazie speciale a tutti :3
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 32 *** Capitolo 32. Così interessante per te. ***
Capitolo 32.
Così interessante per te.
Quel pomeriggio
avevo i
nervi a fior di pelle ed ero costantemente vigile e in allerta, pronto
ad
evitare qualsiasi incontro tra i due e risparmiarmi il disagio di
situazioni e
discorsi imbarazzanti e fuori luogo. Volevo bene a mio fratello, ma non
ero
certo di volergliene abbastanza da
permettergli di mandare all’aria il rapporto che, per
volontà e bontà divina,
ero riuscito a recuperare con Ace. Per quel motivo l’avevo
rinchiuso in cucina a
sfornare una quantità infinita di dolci e schifezze varie
con l’ordine preciso
di non azzardarsi a mettere fuori il muso. Avevo già
un’idea su come disfarmene
poi: metà l’avrei data al ragazzino e
l’altra gliel’avrei consegnata per darla
a Rufy, dato che, da quel che avevo capito, quel piccoletto mangiava
per un
reggimento.
Non ero
sicuro di
potermi fidare del tutto della parola di Thatch, così me ne
stavo in guardia,
pronto a rispedirlo nel retro a calci se solo avesse dato segno di
volersi fermare
a chiacchierare con noi e interrompere quei nostri momenti di intesa.
Ace aveva
ripreso a
venirmi a trovare durante i pomeriggi. Non lo faceva spesso e con
costanza, ma
almeno due o tre volte la settimana lo vedevo e si tratteneva sempre un
po’ di
tempo in più rispetto alle altre volte. Quando studiava,
poi, passava
addirittura l’intero pomeriggio al bar, sorridendomi di tanto
in tanto o
lanciandomi occhiate stanche quando vedeva che lo osservavo mentre, con
impegno
e buona volontà, faceva di tutto per portarsi avanti ed
essere preparato negli
studi. In quei momento sapevo che dovevo lasciargli il suo spazio,
così mi
tenevo impegnato con gli altri clienti o pulendo e sistemando la sala,
godendomi le sue espressioni di gratitudine quando gli lasciavo una
tazza di
caffè fumante passandogli accanto con altre ordinazioni. Un
pensiero per lui lo
facevo sempre e sapere che era a pochi passi da me, nonostante non ci
parlassimo in quelle ore, mi faceva sentire bene.
Mi ero
accorto che
qualcosa era cambiato, ma non in modo negativo. L’imbarazzo
iniziale era andato
via, via, scemando e mi rendevo conto ogni giorno che passava che tra
di noi
l’intesa si faceva sempre più salda e profonda. A
volte con poche parole
arrivavamo al nocciolo della questione, ci capivamo alla svelta,
addirittura
bastava uno sguardo per sapere esattamente come ci sentivamo o a cosa
stavamo
pensando.
Mi
sentivo sempre più
sicuro e a volte faticavo addirittura a trattenermi davanti a lui,
dovendo
restarmene fermo e con le mani saldamente aggrappate al bancone o
impegnate
altrove per non lasciarle libere di sfiorargli i capelli, le guance, le
labbra
e il viso. Dovevo stare attento perché era sempre
più difficile.
Ace
invece sorrideva,
scherzava, mi sfotteva come al solito, arrabbiandosi quando lo mettevo
alle
strette nei nostri battibecchi fatti di botta e risposta e arrossiva.
E, quando
questo accadeva, io mi ritrovavo a pensare inevitabilmente a come
avrebbe
potuto essere vederlo in quello stato di totale imbarazzo in una
situazione
diversa, magari più intima, solo lui ed io.
Poi mi
costringevo a
fare un respiro profondo e ad allontanarmi, lasciando ad entrambi il
tempo di
sbollire la pressione e riprendere lucidità
perché, ne ero certo,
quell’alchimia che provavo io doveva per forza sentirla anche
lui.
«Ehi,
pennuto, ti serve
una mano?» mi sentii domandare, pensando che si, forse avevo
proprio bisogno di
un aiuto in quell’impresa suicida.
«Per
favore» risposi
allora, vedendo arrivare Ace nel giro di pochi secondi e porgendogli un
vassoio
dove erano posizionati alcuni bicchieri in equilibrio precario, mentre
io ne
afferravo un altro con alcuni piatti e bottigliette stappate di vetro,
dirigendomi poi verso il bancone e seguito a ruota da lui.
«E
volevi portare tutta
questa roba da solo?» fece dubbioso. In effetti
l’idea iniziale era stata
quella, ma a quanto pareva non ero stato l’unico a capire
che, molto
probabilmente, non sarei riuscito a fare nemmeno quattro passi senza
rovesciare
tutto. Il gruppo di studenti che se ne era appena andato aveva fatto
parecchie
ordinazioni e fare due giri non mi andava molto. Fortunatamente ci
aveva
pensato Ace a improvvisarsi cameriere.
Mi
strinsi nelle
spalle, riponendo tutto nel lavandino e il ragazzo fu così
gentile da restarmi
vicino e passarmi il resto delle stoviglie, affinché fossero
tutte al sicuro da
cadute drastiche. Poi, senza che glielo chiedessi, recuperò
i vassoi e li ripose
sulla mensola alla sua destra dove li lasciavo di solito, stupendomi
non poco.
«Come
lo sapevi?» mi
venne spontaneo chiedergli.
Si
accigliò un istante,
rendendosi conto del suo azzardo, «Beh, di solito li metti
sempre su questa
mensola perché così li hai a portata di
mano» si giustificò, «Pensavo che fosse
il loro posto».
«Infatti»
mormorai,
mentre nella mia testa mi stavo rendendo vagamente conto che Ace aveva
praticamente appena confessato di prestare attenzione a
me e a quello che facevo. Inutile dire che tutto
ciò mi diede un
pizzico di sicurezza in più, tanto da decidermi a provare a
metterlo alle
strette. Volevo dannatamente vederlo arrossire.
«E
cos’altro sai?» gli
domandai, incrociando le braccia al petto e sfidandolo a rispondere.
Non si
fece intimorire
e sembrò capire le mie intenzioni perché mi
imitò e rispose pacatamente con
l’ombra di un sorrisetto divertito.
«La
macchinetta del
caffè ha bisogno di due leggeri colpetti prima di
funzionare; prima di mettere
tutto in lavastoviglie preferisci dare una sciacquata per maggior
sicurezza;
hai una specie di ricetta segreta per fare i waffle e i canovacci li
tieni
sempre alla tua sinistra, anche quelli a portata di mano. Devo
continuare?».
«No»
dissi
semplicemente, facendo un passo avanti e accostandomi a lui in modo da
essere
faccia a faccia, «Sei stato chiarissimo».
Sorrise
vittorioso,
«Non te l’aspettavi, ammettilo!».
Lo
guardai eloquente e
con tutta l’intenzione di metterlo in imbarazzo, infatti la
mia espressione lo
fece bloccare e riflettere su quello che aveva appena detto.
Quando
sembrò volersi
sopprimere con le sue stesse mani, fu troppo tardi.
«Hai
ragione, non mi
aspettavo di essere così interessante per
te» feci ammiccando e godendomi la sua espressione
finalmente imbarazzata e
così maledettamente attraente. Nemmeno mi preoccupai del
fatto che fossimo
ancora vicini e estraniati dal resto del mondo. In quel momento
c’erano solo in
nostri occhi intrecciati gli uni agli altri. I nostri respiri quasi
fusi.
«Il
magazzino è libero
se volete concludere il discorso
altrove».
La
fastidiosa voce
sarcastica, maliziosa e divertita di Thatch fece sussultare entrambi,
riportandoci alle realtà e facendomi ricordare che avrei
dovuto chiuderlo a
chiave in cucina la prossima volta per evitare interruzioni da parte
sua nei
momenti sbagliati.
Ace
abbassò il capo e,
arrossendo violentemente tutto d’un colpo,
borbottò qualcosa di incomprensibile
e tornò a sedersi dall’altra parte del bancone,
mentre io fulminavo
quell’impiastro dai capelli cotonati che aveva preso a
blaterare sciocchezze
mettendoci in mezzo qualche frecciatina diretta esclusivamente a noi
due.
«Oppure,
Marco,
potresti mostrare a Ace il tuo appartamento. Scommetto che non
l’ha mai visto e
potrebbe essere una buona idea dato che abiti esattamente qua sopra al
secondo
piano».
Poco
importavano le
battute di Thatch perché ne io ne Ace lo stavamo ascoltando,
impegnati
com’eravamo a spogliarci con lo sguardo.
Dio,
salvami adesso!
Appena
avrò la statuina
di Marco ci penserò io a metterla accanto a quella di Ace e
a far si che tutti
i giorni si scambino un bacio di plastica o quello che é.
Brutte cose per una
fan girl, brutte, brutte^^
Anyway,
salve gente,
soddisfatti? Stavano per baciarsi? E INVECE NO!
Ciao
Thatch, quanto
caro e furbo sei :3 giuro che le tue battutine le adoro, sai sempre
cosa dire,
anche se nessuno ti ascolta perché impegnato a fare altro, neh?
Sarò
breve perché devo
tipo scrivere il prossimo capitolo della raccolta, rivedere
l’ultimo della long
e finire di scrivere quello successivo per regalare gli Spoiler Free a
chi la
segue. E. non. Ho. Tempo.
Risponderò
appena posso
a tuuutte le recensioni, I promise! Spero solo che anche questo
capitolo vi sia
piaciuto perché, tipo, questi due per tre quarti del tempo
sono impegnati a
mangiarsi vivi con gli occhi, ma particolari **
Per
qualsiasi cosa
sapete dove trovarmi, ora vi saluto e vi mando un abbraccione
grandissimo e un
Grazie infinito per la vostra gentilezza di lettori e recensori!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 33 *** Capitolo 33. Quella novità. ***
Capitolo 33.
Quella novità.
«Un
cappuccino».
«Per
me una cioccolata
con panna».
«Mi
scusi? Potrebbe
portarmi una bustina di zucchero?».
«Due
waffles alla marmellata,
grazie».
Avevo la
netta
sensazione che di li a poco sarei impazzito. Come mai, tutto
d’un tratto, il
locale aveva iniziato ad attirare così tante persone in un
giorno? Non mi
sembrava fossero in programma avvenimenti importanti o altre feste,
insomma, la
più vicina era San Valentino, ma mancavano ancora delle
settimane e Natale era
ormai passato. Non capivo, quindi, cosa ci facessero tutti nella mia
caffetteria. Si erano messi d’accordo? Non era mai stato un
luogo così caotico,
anzi, considerando che il locale era mio e che lo gestivo da solo,
salvo
qualche volta l’aiuto di Thatch, tra quelle pareti aveva
sempre regnato la
calma e la tranquillità. Un luogo dove chi voleva prendersi
cinque minuti di
pausa e starsene in pace a rilassarsi poteva farlo comodamente. Con
quel
casino, invece, tutto si complicava.
Soprattutto
per me
perché mi ritrovavo a dover correre da un tavolo
all’altro e a dividermi in
dieci per fare tutto il lavoro e assicurarmi che i clienti fossero
serviti,
riveriti e soddisfatti al meglio. Il che era una vera e propria impresa.
Se la
situazione fosse
andata avanti in quel modo anche nei giorni a venire, potevo dire addio
ai
momenti di calma che sfruttavo per chiacchierare con una persona in
particolare.
A
proposito, dov’era?
Dopo aver
consegnato le
ultime ordinazioni ai rispettivi proprietari mi incamminai verso il
banco bar,
alzando lo sguardo verso un punto in particolare e trovandovi come di
consuetudine la figura slanciata e rilassata di Ace che, intento a
sorseggiare
la sua cioccolata, mi rivolse un’occhiata di incoraggiamento
quando gli passai
accanto, intuendo probabilmente il mio bisogno di aiuto. Avrei dato
chissà cosa
pur di potermi ritagliare dieci minuti di tempo libero per stravaccarmi
sul
ripiano di fronte a lui e stare a sentire che sciocchezze aveva da
raccontarmi,
ma uno strano odore arrivò alle mie narici e mi fece rizzare
i capelli sulla
nuca.
Senza
prestare altra
attenzione al ragazzino che sembrava in procinto di dire qualcosa,
schizzai in
cucina a controllare cosa diavolo stesse combinato quello squinternato
di mio
fratello. Non appena varcai la soglia venni investito da una nuvola di
calore e
notai del fumo alzarsi fluttuando dai fornelli, mentre Thatch tentava
di far
diradare tutta quella condensa sventolando un canovaccio.
«Ma
cosa combini,
idiota?» sbottai, incapace di trattenermi e andando ad aprire
le finestre per
far uscire il fumo.
«Non
sono stato io!» si
giustificò intanto l’altro, «Stavo
friggendo le patate quando l’olio nella
pentola ha preso fuoco! Così gli ho lanciato sopra una
caraffa d’acqua per
spegnerlo!».
«Non
dire altro, ti
prego». Sbuffando esasperato iniziai ad aiutare
quell’impiastro nel pulire il
macello che lui, perché
ero certo che
avesse omesso alcuni particolari nella sua storia, aveva combinato,
perdendo
tempo prezioso e ritrovandomi costretto a fare tutto di fretta per poi
ritornare in sala tutto affannato, pronto a ricevere lamentele per il
mio
ritardo.
Rimasi, invece,
piuttosto stupito nel vedere come l’atmosfera fosse
tranquilla come l’avevo
lasciata prima di assentarmi e che qualcuno aveva preso il mio posto
alla
cassa, battendo scontrini e elargendo sorrisi allegri a destra e a
manca,
trasmettendo il buon umore a tutte le persone che si ritrovavano a
pagare il
conto. Questi poi, uscivano dal bar tutti felici e spensierati,
promettendo che
sarebbero tornati presto.
Certo che
Ace non
finiva mai di stupirmi e quel grembiule arancione gli donava parecchio,
tanto
che rimasi alle sue spalle a guardare come se la cavava bene anche
senza le mie
direttive.
Quando
l’agitazione
sembrò placarsi finalmente si accorse di me e, voltandosi
nella mia direzione
con una certa timidezza, si scusò per la sua iniziativa,
raccontandomi che due
signore di età avanzata si stavano lamentando in attesa di
poter pagare e lui,
per evitare lamentele varie, si era dato da fare per, a detta sua, salvare il locale e pararmi il culo.
«Spero
non ti
dispiaccia» disse infine, passandosi una mano tra i capelli,
cosa che avrei
voluto fare io ma ch mi ero sempre imposto di non azzardarmi
minimamente a
provarci.
Scossi il
capo,
sinceramente divertito da ciò e dando voce ai miei pensieri
su quanto tutto
quello mi facesse piacere.
«Ti
sta bene, sai?»
feci con disinvoltura, riferendomi al grembiule che aveva indossato. A
quanto
pareva mi osservava davvero con attenzione per conoscere le postazioni
di tutti
gli oggetti attorno a noi.
Se
lavorasse qui sono certo che non gli servirebbero nemmeno i miei
consigli, pensai,
riflettendo tra me e me e
venendo colpito da un’idea illuminante che mi fece parlare
senza attendere
oltre.
«Potresti
lavorare qui»
proposi di getto, incapace di trattenermi, «So che con
l’università devi stare
dietro allo studio, ma potresti farlo durante i tuoi giorni liberi e le
sere in
cui il bar è aperto». Incredibile, avevo persino
elaborato una soluzione per i
suoi orari pur di rendergli tutto più semplice e convincerlo
ad accettare la
mia offerta.
Vedendo
che non
rispondeva continuai con la mia spiegazione, cercando di risultare il
più
determinato possibile. «Prendilo come un lavoretto par
time.
Ovviamente non sei obbligato, ma mi
servirebbe una mano e, beh, di te mi fido e poi sei cliente fisso da un
pezzo
ormai».
Probabilmente
non assumerei nessun altro se dovesse
rifiutare. Nessuno conosce il locale meglio di lui e nessuno si
è mai
interessato tanto. Lui, invece, ha persino rivoluzionato quei noiosi
incontri
di poesie.
Contrariamente
a quello
che speravo, però, Ace continuava a rimanere in silenzio,
non accennando a volermi
rispondere e facendomi temere di aver esagerato e di essermi spinto
troppo
oltre.
«Ma
se non puoi non
preoccuparti, ti capirei».
Come
ho potuto essere così egoista! Non ho nemmeno pensato al
fatto che…
«Accetto».
Avevo
sentito bene? Dio,
avrebbe davvero lavorato con me da quel giorno in poi? Sul serio avevo
appena
ottenuto la possibilità di passare praticamente ore e ore,
persino giornate
intere in sua compagnia?
«Perfetto»
dissi
entusiasta e porgendogli la mano che strinse con forza e malcelata
soddisfazione che gli lessi negli occhi. Non vedevo l’ora di
iniziare quella
novità che aveva appena stravolto da cima a fondo la mia
normalità. Niente sarebbe
più stato come prima, anzi, avevo la vaga idea che sarebbe
andata persino
meglio.
Ace,
incapace di
trattenere il buonumore e l’emozione, si era offerto di
iniziare subito, dato
che ormai l’aveva praticamente già fatto in mia
assenza e, mentre ci stavamo
accordando sui compiti che avrebbe dovuto svolgere, entrambi senza
smettere di
guardarci negli occhi e sorridere come degli idioti, arrivò
Thatch con in mano
un vassoio di dolci che appoggiò sul bancone, rivolgendoci
poi un’occhiata
attenta. Ovviamente l’attenzione gli ricadde quasi
immediatamente sul grembiule
del ragazzino.
«Lasciami
indovinare»
fece, trattenendo a stendo un ghigno, «Ti ha offerto un
lavoro». E, non appena
ottenne la risposta affermativa da entrambi, impazzì
letteralmente, aggredendo
Ace e abbracciandolo stretto come se fossero amici di vecchia data,
congratulandosi con lui a modo suo.
«Grazie
a Dio una buona
notizia! Ci pensi? Lavoreremo assieme e ci vedremo praticamente sempre!
Pensa a
quanto ci divertiremo! E magari quando hai il turno al mattino la sera
prima
potresti fermarti a dormire da Marco, tanto a
lui non dispiace, vero fratellino?”.
Fatta
anche questa ed
ecco arrivata la novità che metà gente forse
sapeva già dato che l’ho svelato
ieri sulla long ma, come ho già detto, questa raccolta,
ormai ff a tutti gli
effetti dato che mi sono lasciata prendere la mano, segue gli
avvenimenti di
quell’altra fic più complessa e strapiena di
personaggi che spuntano fuori come
funghi, ma va bene. Qui si parla esclusivamente del rapporto Marco/Ace
che,
personalmente, amo.
Uhm, che
dire, scusate
se non ho aggiornato ieri ma non ce l’ho proprio fatta! Spero
comunque di
essermi fatta perdonare con questo ^^ finalmente i due avranno tuuutto il tempo per stare assieme,
farsi compagnia, prendersi in giro, rotolare nell’imbarazzo, eccetera, eccetera.
Caro
Thatch che trovi
soluzioni per tutto **
Un
applauso alla lingua
lunga di Marco che propone le sue idee senza pensarci e un mazzo di
fiori a Ace
che, oltre a ottenere un lavoro, ha anche la possibilità di
rifarsi gli occhi
quando vuole. Bravi, proprio bravi!
E ora
ditemi: da uno a
dieci, quante pensate ne combineranno questi due (tre) ora che si
troveranno a
stretto contatto praticamente sempre?
E
smettetela di fare
pensieri poco casti, ho capito che fanno scalpore, ma stiamo calmi vi
prego! Di
certo li metterò in mezzo all’insalata di cazzate,
statene certi! ^^
Un
abbraccio e grazie a
tutti! E le recensioni, per chi vorrà lasciarle, sappiate
che le leggo, le amo
e le apprezzo tantissimo, dalla prima all’ultima e, anche se
non subito come
detta la buona educazione, risponderò sempre a tutte, non
preoccupatevi **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 34 *** Capitolo 34. Non ha occhi che per te. ***
Capitolo 34. Non
ha occhi che per te.
«E
finalmente, a sedici
anni, ha fatto coming
out
ubriacandosi come un marinaio e baciandomi!».
«Che
c-cosa?» biascicò
il moro, reggendosi a stento in piedi e dovendosi appoggiare al bancone
per non
inciampare e finire a terra assieme al castano che, annuendo convinto,
gli
aveva passato un braccio attorno alle spalle.
«Oh
si, amico, e non ti
dico che casino! Nostro padre ha rischiato un infarto e io sono quasi
soffocato
dalle risate! Per non parlare di lui, poveretto, non ha avuto il
coraggio di
parlarmi per un mese!».
Capendo
che zittire
Thatch, dopo che aveva preso il via di sbandierare le imbarazzanti
figure delle
mia infanzia a Ace, sarebbe stato impossibile e inutile, misi da parte
il
bicchiere di rhum e mi attaccai direttamente alla bottiglia. Tanto,
ormai, la
mia reputazione era andata a farsi fottere.
«Q-quindi
tu e-e
Marco…» iniziò a dire Ace, facendomi
andare di traverso il sorso. Stava traendo
le conclusioni sbagliate. Certo, avevo baciato Thatch, ma solo
perché era
sempre stato il mio eroe fin da piccolo e mi era sembrata
un’idea carina
dimostrargli il mio affetto. Non ero innamorato di lui, ma sapevo che
mi potevo
fidare e che mi avrebbe aiutato a uscire da quella fase sempre un
po’
complicata per chiunque e così era stato. A parte figure di
merda e battute
poco divertenti, si intende. Adesso, a distanza di anni, la mia stima
per lui
era rimasta immutata dato che era pur sempre mio fratello, ma era ben
lontano
dall’essere il mio mito. Era corretto dire che da idolo era
diventato la mia
disperazione.
«Che?
Ma no, figurati!
So che sono un bel partito, e anche tu sinceramente, ma io preferisco
le
donne».
Probabilmente
il
ragazzino fece una faccia sollevata o qualcosa del genere che non vidi
perché
l’idiota accanto a lui pensò bene di dargli
un’amichevole pacca sulla spalla
che quasi lo fece cadere per poi tranquillizzarlo a
modo suo.
«Non
preoccuparti, è
acqua passata e all’epoca era ancora inesperto, ma adesso
è cresciuto e ho
sentito dire che non è niente affatto male. Detto tra
noi» aggiunse con fare
cospiratore e lanciandomi occhiate maliziose, «Non ha occhi
che per te».
«Chi
vuole fare un
altro giro?» gridai, sbattendo malamente la bottiglia sul
ripiano, «Thatch, su,
vai a prendere da bere in magazzino». Dovevo assolutamente
evitare discorsi del
genere, ne avevo già sopportati abbastanza.
«Ma
io veramente…».
«Vai».
Borbottando
frasi
sconnesse, il ragazzo troppo cresciuto traballò in
equilibrio precario verso la
cucina, scomparendo dietro la porta e dandomi modo di sospirare
rilassato. Non
avrei mai dovuto accettare di festeggiare in quel modo il nuovo impiego
di Ace,
soprattutto se la festa consisteva nel rinchiudersi dentro al bar e far
fuori
tutti i liquori di cui disponevo. Insomma, eravamo solo in tre,
accidenti, come
poteva pretendere che riuscissimo a reggere tutto
quell’alcool?
Degli strani versi
attirarono la mia attenzione e mi ritrovai a guardare Ace che,
appoggiando il
suo bicchiere su uno sgabello per non farlo cadere, si tappava la bocca
per non
scoppiare a ridere, cosa che gli risultava sempre più
difficile ogni volta che
incrociava il mio sguardo incredulo. Volevo chiedergli cosa ci fosse di
così
tanto divertente, ma mi precedette sul tempo.
«Non
posso credere che
tu abbia baciato Thatch!» dichiarò, lasciandosi
andare e ridendo senza ritegno,
adagiandosi con i gomiti sul bancone vicino a me e nascondendo il viso
tra le
braccia.
Alzai gli
occhi al
cielo e sospirai esasperato. Dovevo aspettarmelo che non avrebbe
dimenticato la
faccenda tanto facilmente. «Andiamo, ero un
ragazzino» cercai di giustificarmi,
anche se sapevo che sarebbe servito a poco con una testaccia dura come
la sua.
«Questo
non cambia le
cose» mormorò tra un ghigno e l’altro,
«Dio, avrei voluto vederti».
«Io
non credo» dissi,
rivolgendogli un’occhiata sarcastica e pensando bene di
rispondergli per le
rime, «Saresti stato geloso».
L’effetto
fu immediato
e Ace sollevò il capo di scatto, punto sul vivo e,
aggrottando le sopracciglia,
drizzò le spalle, per quanto le sue facoltà non
del tutto annebbiate potessero
permettergli, e mi puntò un dico contro, badando bene di non
toccarmi. O
meglio, non ancora.
«S-se
pensi di essere
sempre al centro del mondo con quell’aria da uomo
i-irraggiungibile, beh, ti
sbagli di grosso perché no… che
diamine!».
Mi alzai
per afferrare
Ace giusto in tempo prima che il suo bel visetto inebetito si
sfracellasse sul
pavimento, artigliandogli la stoffa del grembiule che ancora indossava
e della
maglia, riuscendo per un pelo a rimetterlo in piedi con uno strattone.
Non gli
evitai però una botta sulla schiena che prese quando lo
intrappolai tra me e il
bancone.
Inaspettatamente
a
quello che avevo pensato, scoppiò a ridere, di nuovo,
rovesciando la testa
all’indietro e regalandomi la visuale del suo sorriso e della
linea perfetta
del collo, inconsapevole che in quel modo e in quella situazione, in
cui nelle
mie vene circolavano sangue e altre sostanze, mi stava mettendo in
difficoltà.
«P-penso
di essere un
po’ ubriaco» constatò, guardandomi con
le palpebre pesanti e sorridendo come un
cretino. Un altro aspetto che notai con piacere era che Ace, quando
beveva
troppo, iniziava a balbettare in un modo adorabile che lo rendeva
ancora più
infantile se si aggiungevano le lentiggini.
Davanti a
quella sua
buffa espressione era impossibile non sogghignare. «Solo un
po’? Ragazzino, non
sai che questa roba è per i grandi?» sfottei.
«Fanculo,
io posso
sopportarlo benis-simo» ribatté, poggiandomi le
mani sulle spalle per sporgersi
verso di me e, cogliendomi totalmente impreparato, mi posò
le labbra sulla
gola.
Chiusi
gli occhi e mi
morsi con forza un labbro, stringendo la presa sui suoi fianchi quando
mi resi
conto che le mie dita non si erano ancora staccate da lui.
«Visto?
Sta andando
bene» mormorò intanto, mordendomi la pelle. Era
così vicino che mi sarebbe
bastato abbassare il viso per catturare le sue labbra e intrattenerle
in altri
modi e, ne ero certo, l’avrei fatto se non fosse stato per un
unico e
fastidioso particolare.
«Ehi,
ragazzi! Non
indovinerete mai, ma ho trovato que… Oh, ciao! Vi ho
interrotti sul più bello
immagino» scherzò Thatch con un’alzata
di spalle mentre Ace sembrava riprendere
possesso delle sue facoltà mentali e fisiche, spingendomi
lontano da lui e
boccheggiando come un pesce.
«Sarà meglio che vada! Buonanotte!»
dichiarò isterico con il
sottofondo delle risate di quell’idiota a cui avrei fatto
passare un brutto
quarto d’ora.
«Non
fatevi riguardi
per me! Posso stare a guardare, non mi impressiono mica».
«Oh,
maledizione, Thatch!».
Non
sarebbe mai
cambiato.
Well,
well, well!
Lo so, ho
saltato anche
ieri, ma se solo sapeste quello che sto facendo mi capireste.
Ad ogni
modo spero di
essermi fatta perdonare con questo, LOL. I tre ragazzi festeggiano il
nuovo
collega di lavoro e, su proposta di Thatch, un brindisi tra
l’altro ed ecco che
tutti perdono un po’ di lucidità. E non solo. E
magari fossero stati solo loro
due, magari!
Ci tengo
a precisare di
nuovo che Marco non è in
nessun modo
innamorato di Thatch. Va bene? Mi è solo sembrato carino
pensare che il suo
primo interesse fosse stato il suo fratellone acquisito che tanto
ammirava e
venerava durante la tenera età dell’infanzia fino
all’adolescenza. L’ha baciato
per affetto, per capire se stesso, per rendersi conto di molte cose ed
era
certo di trovare in Thatch comprensione e amicizia. Infatti non si
è sbagliato.
Non aveva messo in conto, però, i guai che ne sarebbero
derivati, tipo le
frecciatine o le battutine, ma sono cose che capitano, LOL. Quindi
Marco è totalmente
di Ace.
Thatch,
solo per
precisare, è attratto dalle donne perché, per
essere coerente con la long, la
prima volta che viene nominato accade mentre fa il filo ad alcune
ragazze ma,
come ha detto lui stesso in passato in questa raccolta, per Ace un
pensierino l’avrebbe
fatto. I ragazzi non gli dispiacciono, però, se deve
scegliere, semplicemente
preferisce le femmine.
Un Ace
disinibito ci
stava e Marco, stavolta, ci è andato molto vicino **
Risponderò
alle
recensioni, giuro che lo farò! ;_______________________;
salvo imprevisti
dovrei aggiornare senza problemi, ma se dovessi saltare qualche giorno
non
odiatemi perché sto per farvi una sorpresa, quindi sono
scusata ^^
Un
abbraccione
grandissimo e grazie a tutti :3
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 35 *** Capitolo 35. Uccidermi per la gelosia. ***
Capitolo 35.
Uccidermi per la gelosia.
E
quello da dove sbuca? Ah, ma che m’importa! Quello che voglio
sapere è come si
permette di comportarsi in quel modo, sotto il mio naso per giunta! E
Marco,
bah! Quel, quel, maledizione! Tutto sorrisi e moine con il nuovo
arrivato
quando l’altra sera stava per… Fanculo, questo
è veramente troppo!
Lanciando
occhiate
furenti ai due ragazzi che stavano confabulando come se si conoscessero
da una
vita seduti in disparte a uno dei tavoli, sorridendosi come vecchi
amici e
chiacchierando animatamente, portai le ordinazioni all’unico
cliente presente
in quel momento oltre all’impiastro che ci stava provando
spudoratamente con
Marco, poggiando il tutto davanti al naso del povero vecchio e senza
scusarmi
per averlo spaventato. Ero incazzato ed ero certo che la giornata
sarebbe
andata peggiorando se quella sottospecie di sanguisuga non se ne fosse
andata
alla svelta. A pensarci bene, non si sarebbe risolto niente nemmeno in
quel
caso, avrei comunque continuato ad essere arrabbiato con la testa
d’ananas che
sembrava avere le pigne davanti agli occhi per non accorgersi del mio
stato
d’animo.
Ah
no, aspetta, pensai
sarcastico, trafficando con la macchinetta del caffè, ha il suo nuovo amichetto a cui prestare
attenzione.
Le loro
risate mi
arrivarono chiare e nitide e quasi rovesciai per terra il barattolo con
il caffè
in polvere, digrignando i denti e sbattendo qualsiasi cosa mi capitasse
tra le
mani fino a che non raggiunsi il limite e, con la scusa di riempire un
vassoio,
mi ritirai in cucina con la speranza di sbollire il fastidio che quella
situazione mi stava suscitando.
Certo,
non potevo
vantare alcun diritto su Marco e lui poteva essere libero di fare
quello che
voleva, per carità, ma almeno un po’ di rispetto
nei miei confronti poteva
anche dimostrarlo, invece sembrava che non appena gli capitasse
l’occasione
preferisse calpestarmi e mettermi da parte invece di lasciarmi
intendere quanto
fossi inutile.
Con
questi pensieri per
la testa afferrai una sedia pieghevole e mi accomodai su di essa con le
braccia
incrociate e il broncio, iniziando a mangiare un biscotto al cioccolato
dietro
l’altro, quelli che Thatch aveva appena sfornato. Non
gliel’avevo mai detto, ma
erano i miei preferiti.
«Cosa
ti porta nel mio
regno, sentiamo?» domandò quello, ritornando dal
magazzino con due pacchi di
zucchero e uno di farina in mano.
Mi
strinsi nelle spalle
e risposi con la prima scusa che mi venne in mente e che, guarda caso,
si
avvicinava anche alla verità.
«E’
una giornata
pesante. Volevo fare una pausa».
Thatch,
studiandomi con
un sopracciglio alzato e l’aria pensierosa, si
avvicinò alla porta e guardò
attraverso il vetro, sorridendo dopo poco e sghignazzando tra
sé.
«Oh,
vedo che Marco ha
compagnia» fece disinvolto, tornando verso di me e iniziando
a preparare la
pasta per un dolce sotto ai miei occhi.
«Lo
conosci?» domandai
dopo qualche minuto di silenzio, interrompendo la melodia che il cuoco
si era
messo a canticchiare nell’attesa di essere interrogato. Ero
certo che non
vedesse l’ora di rispondermi.
«Certo
che lo conosco e
si, anche il pennuto la fuori lo conosce piuttosto bene».
La pasta
frolla dei
biscotti mi andò di traverso, così mi vidi
costretto a tossire per riprendere
fiato sotto lo sguardo divertito del castano che, con una finta
espressione di
terrore, mi chiese se per caso non avessi intenzione di uccidermi per
la
gelosia.
Una volta
calmatomi gli
rivolsi una faccia sarcastica e, alzando gli occhi al cielo, scossi il
capo in
segno di diniego, spiegandogli che no, non avevo nessuna intenzione di
morire
giovane e che, soprattutto, non ero affatto geloso.
«Anzi»
aggiunsi poi,
per rendere chiaro il concetto, «Non mi interessa proprio.
Perché dovrebbe? Insomma,
Marco è libero di fare quello che vuole e se conosce quel
tizio è normale che
ci parli assieme. Per esempio, anche lui ed io siamo amici e guardaci:
chiacchieriamo, scherziamo, ci prendiamo in giro…».
«Vi
abbracciate, vi
baciate, vi consumate con lo sguardo ogni volta che potete, si, ho
presente. Vuoi
che continui? Perché la lista è lunga,
intendiamoci…».
«Thatch,
stai zitto»
dissi solamente, capendo che con lui non avrei potuto confidarmi e
raggiungere
il nocciolo della questione. La verità era che tra me e
Marco era un continuo
tira e molla e ogni volta che pensavo di poter arrivare a sistemare le
cose
ecco che tutto veniva stravolto ed io rimanevo con l’amaro in
bocca, per l’ennesima
volta.
«Forza,
torna a lavoro
e porta questo al ragazzo con cui sta parlando quella testaccia bionda,
è il
suo preferito». Così dicendo, Thatch mi
piazzò in mano un piatto con sopra una
fetta di crostata di more che aveva appena tirato fuori dal frigo,
facendomi
segno di alzarmi e di sbrigarmi. Per quanto mi riguardava avrei
preferito
spaccarglielo in testa il piatto, ma sapevo che non avrei di certo
fatto una
bella figura, in più sarei stato licenziato per cui, facendo
ricorso a tutto il
mio autocontrollo, uscii dalla cucina accompagnato dalla risata leggera
del
moro e mi avviai verso uno dei tavoli situati verso la zona del palco
dove
Marco e il suo stupido interesse stavano parlando fitto, fitto.
Non
appena mi vide, il
pennuto sorrise allegramente, come faceva sempre quando arrivavo al bar
per
iniziare il mio turno. Quando accadeva mi sentivo riscaldare come se
fossi
stato sotto al sole in piena estate, mentre in quel momento non riuscii
a fare
altro che a sbuffare e improvvisare un’espressione cordiale,
più simile ad una
smorfia che ad altro.
«Ace,
dove ti eri
cacciato? Vieni, voglio presentarti una persona».
Io
voglio commettere un omicidio.
«Izou, lui è Ace, il mio nuovo
aiuto cameriere».
Il
tuo passatempo, semmai.
Il
ragazzo che
rispondeva al nome di Izou si voltò a guardarmi, lasciando
scorrere gli occhi
su di me come se fosse uno scanner, sondandomi da capo a piedi e
facendo un
sorrisetto piuttosto inquietante. Non sapevo bene perché, ma
vedermi osservato
in quel modo mi faceva sentire tremendamente a disagio, un motivo in
più per
andarmene quindi.
«Molto
piacere» fece
con una voce fastidiosamente gentile, «Io sono il
suo…».
«Piacere
di averti
conosciuto, ma ora devo andare, in cucina hanno bisogno di me. Questo
lo offre
la casa, stammi bene!» esalai tutto d’un fiato e
trattenendo a stento le
cattive maniere, così poggiai in mezzo al tavolo il dolce e
volai letteralmente
fuori dalla sala, raggiungendo Thatch e investendolo in pieno non
appena varcai
la soglia, rischiando di finire a terra e trascinarmelo dietro. Il
bastardo
aveva osservato tutto dalla piccola finestrella sulla porta e stava
morendo
dalle risate dato che gli ero finito addosso, rendendo il tutto ancora
più
comico per lui.
«E’
stato così
esilarante! La tua faccia, Ace, dovevi vederla! Sembravi sul punto di
scannare
vivo quel poveretto!».
«Che
si strozzi con la
crostata!» sbottai, ormai stanco di nascondere
l’evidente nervosismo che ciò mi
procurava. Tanto ormai Thatch aveva un radar incorporato per questo
genere di
cose e fingere che non mi importasse nulla lo divertiva solamente di
più.
«Si
può sapere qui che
succede?». Marco fece il suo ingresso in quel momento con una
faccia
preoccupata e, notando suo fratello nel bel mezzo di un attacco di risa
isteriche e me nell’intento di piegare a metà un
mestolo di metallo leggero,
cosa in cui stavo riuscendo abilmente, scosse il capo, lasciando andare
un
sospiro esasperato.
«Oh,
beh, allora io vi
lascio e vado a salutare Izou. E’ un po’ che non lo
vedo». Sghignazzando come
di consuetudine il castano se ne tornò nell’altra
stanza, lasciandomi da solo
in compagnia della mia prossima vittima. Avrei spezzato quel pennuto
proprio
come avevo appena fatto col mestolo, poco ma sicuro.
«Ace,
va tutto bene?»
mi chiese con un mezzo sorriso.
«Benissimo» gli assicurai,
guardandolo come un pazzo omicida. Doveva
aver capito che il mio era tutto sarcasmo perché, mordendosi
un labbro senza
smettere di ghignare tra sé, afferrò uno dei
biscotti, dei miei biscotti, al
cioccolato che erano rimasti sulla ciotola e,
portandoselo alla labbra, pensò bene di farmi pentire del
mio comportamento
avventato.
«Meglio
così, perché
Izou è mio fratello e mi
fa piacere
sapere che vai d’accordo con la mia famiglia».
Non
sapevo se stavo
arrossendo più per la scoperta appena fatta o per la
reazione della mia mente
alla vista del biscotto, ma non ebbi tempo di rielaborare il tutto
perché Marco
uscì dalla cucina, dandomi le spalle senza smettere di
sorridere.
Certo
che sei proprio uno stupido, Ace.
Il
capitolo è troppo
lungo, il capitolo è troppo lungo, il capitolo è
troppo lungo!
Scusate,
ho provato a
tagliarlo ma non aveva senso e volevo lasciare spazio a Ace geloso e
anche così
il suo stato d’animo mi sembra troppo
poco ;____________;
Ad ogni
modo oggi ci
sono, trollol, e da notare che ho risposto a tutti, yeee, sparge
caramelle in
giro **
Chiarisco
subito che a
me Izou sta simpatico, non so se l’ho già detto,
ma mi dispiace vederlo sempre
messo in mezzo e descritto come una battona, cioè,
poveretto! Così gli ho dato
la parte divertente nel capitolo della Vigilia e in questo, dove stava
per dire
lui era il suo parente preferito, ma non ha potuto renderlo noto :D
Penso che
arriverà
anche il punto di vista di Marco, dopotutto voglio sapere cosa si sono
detti
nel frattempo i due **
Un
abbraccione e un
grazie a tutti :3
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 36 *** Capitolo 36. Indispensabile. ***
Capitolo 36.
Indispensabile.
«Sono
molto arrabbiato
con te, Marco».
Una voce
alle mie
spalle aveva attirato la mia attenzione e, non appena mi ero voltato in
direzione del nuovo arrivato, avevo fatto un largo sorriso in saluto ad
un’espressione scherzosa e fintamente offesa che mi aveva
fulminato in quel
momento.
«Non
sei più venuto a
trovarmi. A casa si domandano tutti se tu sia ancora vivo o
no».
«Mi
dispiace Izou, ho
avuto da fare».
«Oh,
lo immagino»,
ammiccò malizioso, «Infatti ora mi offri un
caffè e mi racconti tutto».
Ed ecco
come mi ero
ritrovato seduto ad un tavolo a chiacchierare animatamente con il meno
impiccione dei miei numerosi e asfissianti fratelli che, a quanto
pareva, erano
tutti al corrente dei fatti personali e privati della mia vita. Stando
alle
parole di Izou, in famiglia non si faceva altro che vociferare riguardo
a dei
cambiamenti del mio carattere e del mio comportamento. A detta loro, qualcosa bolliva in pentola. Strano,
sapevano più cose loro che io stesso.
«Farvi
i cazzi vostri
mai, vero?» gli chiesi sarcastico, sapendo che non esistevano
persone di più pettegole
quei balordi, anche se il primo premio per la bocca più
larga andava senza
dubbio a Thatch. Ero certo che ci fosse il suo zampino sotto.
Izou
alzò gli occhi al
cielo e mi fece cenno di stare zitto con un movimento elegante della
mano,
guardandomi poi di sottecchi e iniziando a interrogarmi sulle
novità che la
corrente aveva portato fino alle sue attentissime orecchie.
«Allora,
lui chi è?» mi
domandò per l’appunto, puntellando il gomito sul
tavolo e sorreggendosi il viso
con la mano, aspettando che iniziassi a confidarmi. Tra tutti, lui era
il meno
idiota ed era sempre stato una specie di confidente per tutta la
famiglia.
Sapeva cosa dire e cosa fare per tirare su il morale di chi era triste
e
aiutava chi aveva un problema a risolverlo, spargendo consigli a destra
e a
manca o ascoltando semplicemente qualcuno che voleva sfogarsi. Era un
bravo
ragazzo, un po’ bizzarro e fissato con certe cose da donna,
ma buono tutto
sommato. Con Thatch, invece, nonostante tra me e lui ci fosse sempre
stata
un’intesa speciale, era diverso. Lui era più il
tipo che agiva e non stava a
farsi mille domande, semplicemente prendeva l’iniziativa e
andava fino in fondo
a testa alta.
«E’
capitato per caso»
iniziai, giocherellando con il porta salviette e sorridendo dolcemente
nel
ricordare la prima volta che avevo incontrato quel ragazzino,
«Gli ho offerto
un caffè e non se ne è più
andato».
Izou
inclinò il capo e
mi incitò a continuare, attento e interessato.
«Non
so come mai, ma in
qualche modo mi ci sono affezionato» spiegai, cercando le
parole giuste per
esprimere quello che non avevo mai detto ad alta voce,
«E’ una persona così
solare e allegra, non smette mai di sorridere, anche se è un
piantagrane».
Il mio
fratellino rise
sommessamente per poi ricomporsi e riprendere da dove avevamo lasciato.
«Vai
avanti, sei adorabile quando parli di lui» mi
incitò, ricevendo in cambio una
smorfia imbarazzata. Se c’era una cosa che mi metteva a
disagio era sentirmi
definire in quel modo. Dannazione, avevo trentadue anni, non sedici!
«Beh,
non so cos’altro
dire» ammisi, passandomi distrattamente una mano fra i
capelli, «Sai, per me
averlo intorno è diventato normale, insomma, come se facesse
parte delle mie
giornate, come se non dovesse essere altrimenti. E’, come
dire?».
«Indispensabile?»
propose, sorridendomi in modo comprensivo.
«Si»
sussurrai,
annuendo col capo, «Esatto».
«Oh,
Marco» sospirò con
aria sognante, «Sei fottutamente tenero. Credo che mi
verrà il diabete dopo
questa confessione».
Scoppiammo
a ridere, ma
la nostra ilarità fu interrotta da un lieve trambusto
proveniente da dietro il
bancone del bar, esattamente dove avevo lasciato
quell’impiastro di cui stavo
parlando.
Corrugai
la fronte e
lanciai un’occhiata veloce verso di lui, vedendolo sparire in
cucina con un
vassoio e l’aria irritata, dato che sembrava voler buttare
giù la porta. Cosa
diavolo gli era preso?
«Ehi,
non mi hai ancora
detto come si chiama» si ricordò improvvisamente
il ragazzo di fronte a me, «E
nemmeno se è carino!».
«Si
chiama Ace»
risposi, sogghignando poi per la risposta seguente, «E
credimi, dire carino è
troppo poco».
«Non
ne dubito dato che
per piacere a te bisogna essere di un altro mondo»
scherzò, illuminandosi
l’istante successivo, «Quando lo presenterai al
babbo e agli altri?».
Lo
guardai come se
avesse appena detto un’eresia. Presentarlo alla mia famiglia,
a quei pazzi
scatenati e privi di educazione, era fuori discussione, nemmeno se mi
avessero
pregato in ginocchio. Per non parlare del babbo. Quello metteva paura a
chiunque non appena si veniva a sapere che era il sindaco della
città. E poi, se
volevamo essere pignoli, Ace ed io eravamo semplicemente amici.
Per
il momento, pensai
senza volerlo.
«Non
esiste, non sa
nemmeno chi è nostro padre, pensa se lo scoprisse come ci
resterebbe. Sarebbe
terrorizzato, per non parlare dei nostri fratelli. Thatch è
già abbastanza
difficile da sopportare da solo, figurati se fosse assieme a Vista,
Jaws e
compagnia».
«In
effetti sarebbe un
bello spettacolo» mormorò il ragazzo tra
sé e sé, «Ad ogni modo vorrei
conoscerlo. Posso?».
L’avrebbe
conosciuto
molto presto dato che il diretto interessato si stava dirigendo proprio
verso
di noi, così colsi l’occasione al volo per
prendere due piccioni con una fava e
gli feci cenno di avvicinarsi. Sorridergli fu normale e scontato per
me, dato
che mi ritrovavo a farlo ogni volta che era nei paraggi, anche solo
dopo
esserci scambiati qualche occhiata. Mi metteva di buon umore, ecco. In
quell’occasione, però, non ricambiò
l’allegria e sembrò sforzarsi di apparire
gentile.
«Ace,
dove ti eri
cacciato? Vieni, voglio presentarti una persona» lo chiamai.
La sua faccia,
però, mi preoccupava parecchio.
«Izou,
lui è Ace, il mio nuovo
aiuto cameriere» dissi
subito dopo, presentandoli e trattenendo una risata quando il primo
sondò il
nuovo arrivato da capo a piedi, come di consuetudine quando faceva
nuove
conoscenze, catturando i dettagli e facendosi un’idea del
soggetto. Quel
comportamento aveva messo a disagio persino me la prima volta che avevo
conosciuto la mia nuova famiglia.
«Molto
piacere» fece
Izou con voce cordiale, «Io sono il
suo…».
«Piacere
di averti
conosciuto, ma ora devo andare, in cucina hanno bisogno di me. Questo
lo offre
la casa, stammi bene!». Ace, come una macchinetta,
lasciò sul tavolo un piatto
con alcune fette di crostata e si dileguò letteralmente da
sotto i nostri occhi,
scomparendo nel retro da dove provenivano le grasse risate di Thatch.
Qualcosa
non andava, era ovvio.
«…
Il suo adorato
fratello. Uhm, ho fatto qualcosa di sbagliato?» mi sentii
chiedere, incontrando
lo sguardo spaesato di Izou, il quale era rimasto piuttosto sorpreso da
quella
reazione quanto me.
«Scusami,
vado a vedere
cosa diavolo stanno combinando».
«Sai
una cosa? Penso
che il tuo ragazzo sia geloso. Comunque ottima scelta, è
proprio un bel vedere»
sogghignò alle mie spalle, ma decisi di non dargli retta.
Ace non poteva di
certo essere geloso, non di mio fratello. Andiamo, era una cosa
assurda, perché
mai avrebbe dovuto?
Entrando
in cucina,
però, mi convinsi ad ammettere che un problema
c’era sicuramente e, ignorando
le risate del cuoco che, grazie al Cielo, ci lasciò presto
da soli, mi presi
qualche attimo di tempo per osservare meglio il ragazzo
dall’aria incazzata che
stava in piedi di fronte a me, intento a distruggere un mestolo
innocente.
Mi
ritrovai a pensare
che tutta la sua reazione non aveva senso, o meglio, ai miei occhi non
lo aveva
perché, ragionandoci bene e mettendomi nei suoi panni, capii
che dal suo punto
di vista quello che aveva visto tra me e Izou poteva benissimo essere
inteso
come un affiatamento particolare. Quasi ebbi la tentazione di
ridacchiare, ma
cercai di trattenermi meglio che potevo.
Ace
geloso di me, chi l’avrebbe mai detto!
«Ace,
va tutto bene?»
chiesi sorridendogli.
«Benissimo» mi
assicurò con fare omicida.
Attraente,
semplicemente questo era e, per non rischiare di commettere errori,
decisi di
intrattenermi con i biscotti sopra al tavolo, mordicchiandone uno e
guardandolo
con tranquillità e disinvoltura.
«Meglio
così, perché
Izou è mio fratello e mi
fa piacere
sapere che vai d’accordo con la mia famiglia».
Detto questo mi voltai dalla
parte opposta e, lanciandogli un ultimo sguardo divertito da sopra la
spalla,
ritornai in sala.
Scoprire
che Ace era in
qualche modo geloso mi aveva fatto sentire stranamente bene, anche se
continuavo a preferirlo quando era in imbarazzo e, in quel momento,
avrei dato
qualsiasi cosa per baciarlo e vederlo arrossire ulteriormente ma,
ancora una
volta, mi trattenni.
Prima
o poi perderò il controllo, lo sento.
*Special*
«Ciao
dolcezza, anche tu qui?».
«Ma
guarda un po’» fece
il moro, sollevando un curato sopracciglio sarcastico mentre afferravo
una
sedia per sedermi davanti a lui e soffiargli un pezzetto di torta,
«Thatch, ci
si rivede finalmente».
«Allora,
che ne
pensi?».
«Penso
che Ace straveda
per Marco e che il nostro caro pennuto si stia innamorando»
affermò,
riappropriandosi della forchetta che gli avevo rubato e riprendendo a
mangiare
con calma.
«Lo
sapevo, lo sapevo!»
esultai, schioccandogli poi le dita davanti agli occhi per attirare la
sua
attenzione, «Avvisa gli altri per me, d’accordo?
Digli che sta andando tutto a
gonfie vele!».
Izou
sondò il mio
sguardo per qualche istante, decidendo il da farsi e mordendosi
distrattamente
un labbro. Si fingeva indeciso ogni volta che doveva fare il lavoro
sporco, ma
sapevo che avrebbe comunque fatto la spia. Quel ragazzo era una vera
volpe,
nonché il peggior pettegolo della famiglia. Solo che questo,
i più stolti, non
l’avevano capito.
«Per
favore» aggiunsi,
dandogli un buffetto sulla guancia.
«D’accordo»
mormorò
infine, «Lo farò». Così
dicendo, senza che glielo ricordassi, alzò il pugno e
lo fece cozzare contro il mio, tornando a fare finta di nulla non
appena Marco
uscì dalla cucina con l’aria soddisfatta.
«Che
cazzone che è
diventato» borbottai fiero, felice di constatare come il
biondastro tenesse le
redini del gioco. Gli avevo insegnato bene, a quanto pareva.
«Ha
imparato dal
peggiore».
«Chiudi
il becco, so di
essere affascinante» dissi, rivolgendomi a Izou e guardandolo
in modo
eloquente. «E so che anche tu lo pensi».
«Mi
dispiace, tesoro»
ghignò malizioso, o lo sarebbe
stato se non mi avesse scoccato un’occhiata sadicamente
divertita, «Ma in
quanto a fascino penso che Ace batta tutti».
*
Sei
fottutamente tenero,
Marco, davvero. Io non ho occhi che per te, lo ammetto e se Oda mi
regala i
diritti sul tuo personaggio giuro che ti faccio sposare Ace, lo giuro.
Oh, beh,
buongiorno! Da
me piove, da voi? Comunque applausi per il punto di vista del Pennuto,
yeee **
Prometto che i prossimi capitoli cercherò di restringerli,
non so perché questi
ultimi siano diventati un papiro, davvero o.O
Ad ogni
modo Izou,
tesoro, sei il consigliere di famiglia, ma sei anche un bel bastardo
dato che
tu e Thatch fate comunella. Piccoli impiastri. Riguardo a questo non ho
resistito e li ho aggiunti così, tanto per far capire che
tutti si stanno
interessando alla vita privata dei nostri adorati ragazzi, compresi
quelli che,
all’apparenza, sembrano
buoni e
gentili. Thatch, sempre con il suo solito savoir faire, si passa
informazioni
con Izou che, senza peli sulla lingua, smonta le arie che si da con una
battuta. E come dargli torto? Ace è fuievfuiws **
Il
comportamento
velatamente carico di chiamatelocomevolete
tra i due fratelli è voluto. Sono entrambi dei maniaci e me
li immagino
prendersi in giro a colpi di frecciatine maliziose e battutine poco
caste,
basta vedere come si salutano. Non dovrei aggiungerli più se
l’occasione non lo
richiede. O meglio, se voi non lo richiedete, quindi li salutiamo
tenendo
presente che tra i due ci sia un certo legame ^^
Dovevo
parlare di Ace e
Marco. Dunque, beh, il pennuto é proprio un badass,
cioè, si diverte a vedere
il suo ragazzino imbarazzarsi e arrossire. Che visione! Non oso
immaginare che
altro combineranno!
Bene, me
ne vado,
questo capitolo è stato infinito, vedrò di darmi
una calmata :D
Un
abbraccione e un
GRAZIE A TUTTI!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 37 *** Capitolo 37. Il resto del mondo può anche bruciare. ***
Capitolo 37. Il
resto del mondo può
anche bruciare.
Va
bene, va bene Ace, mantieni la calma, non c’è
motivo di essere tesi. Dopotutto,
sono solo i tuoi soliti amici, quelli che non perdono occasione per
fare figure
di merda; quelli che, appena possono, ti mettono in imbarazzo; quelli
che se ne
vanno senza pagare. No, aspetta, stavolta non possono farlo,
non quando il locale dove decidono di venire è quello di
Marco!
A
pensarci bene,
informare Penguin del mio nuovo lavoro non era stata una buona idea.
Avrei
dovuto rifletterci meglio e avrei dovuto dirlo a Law se volevo sperare
di
mantenere un po’ di privacy, invece l’avevo
spifferato al peggior chiacchierone
della compagnia e, nel giro di una notte, praticamente il mondo intero
era
venuto a saperlo. Per non parlare di Rufy. Non appena ne era venuto a
conoscenza mi aveva telefonato a casa, alle tre del mattino, e aveva
preteso
che gli raccontassi tutto. Poi aveva esultato e urlato nella cornetta
per una
decina di minuti fino a che Law non aveva perso la pazienza, decidendo
di
strapparmi il telefono di mano, spegnerlo e staccare persino la spina
in modo
da non essere più disturbato durante le sue uniche
ore di pace.
Era stato
inevitabile, poi,
far cambiare idea a quel piccoletto e così, in quel momento,
se ne stavano
tutti seduti ad un tavolo nell’attesa che il mio turno
finisse, mettendo
intanto qualcosa sotto ai denti, rendendo Thatch ben felice di cucinare
le sue
specialità per poi unirsi a loro come se si conoscessero da
una vita.
Grazie al
Cielo avrei
finito a breve, almeno sarei riuscito ad evitare il più
possibile i commenti di
quel ragazzo che sembrava essere a conoscenza di troppe cose a mio
parere e
meno le rendeva note ai miei amici, mio fratello compreso, meglio era
per la
mia reputazione e sanità mentale. Da non dimenticare anche
la tranquillità in
appartamento.
«Ragazzi,
ho finito!
Quando volete possiamo andare» esultai, ma dovetti aspettare
ancora una
mezz’ora prima che tutti fossero in comodo di alzarsi e
uscire dato che
volevano finire di mangiare e restare il più possibile
dentro al caldo a farsi
gli affari miei. Si, perché i loro sguardi, anche se di
soppiatto, non
abbandonavano quasi mai la figura mia e di Marco, il quale, ogni volta
che si
avvicinava per parlarmi, sembrava essere piuttosto a disagio da tutta
quell’attenzione nei nostri confronti. Avrei voluto
rassicurarlo, ma non mi
azzardavo ad espormi troppo, altrimenti avrei dato inizio ad una serie
infinita
e stressante di battutine e insinuazioni, cosa che volevo evitare in
ogni modo.
Una volta
che tutti
furono d’accordo uscimmo in strada, dando modo al pennuto di
chiudere il locale
ma, contro il suo volere, venne costretto da Thatch e da Rufy a non
andarsene
direttamente a dormire. In poche parole non valsero a nulla le sue
proteste
perché qualcuno aveva
già deciso che
la sua serata non sarebbe finita in quel modo, ma altrove. Assieme a
quei pazzi
che Dio solo sapeva cosa avevano in mente di fare.
«Potremo
andare da
papà, che ne dite?» disse Thatch ad un tratto,
proponendo la sua idea e
attirando su di sé l’attenzione particolare dei
presenti. Cosa intendeva con
quelle parole?
Guardai
Marco con aria
interrogativa, ma non ottenni risposta perché lo vidi
schiaffarsi una mano sul
viso mentre cercava, senza successo, di pestare un piede
all’uomo accanto a lui
per farlo tacere.
Corrugai
la fronte,
chiedendomi il perché di quel comportamento così
strano. I suoi genitori
addottivi forse gestivano un locale, ma che problema c’era a
renderlo noto?
Sarebbe stato carino andarci.
Magari
non vuole farsi vedere con me,
pensai, sentendomi per un momento vacillare. Poteva benissimo essere
quella la
ragione di tanto nervosismo. Probabilmente non me l’aveva mai
detto perché
sperava di tenermi fuori dalla sua vita mentre io non facevo altro che
pregare
ogni notte che le cose prendessero una piega diversa e migliore.
«Il
Moby Dick, non lo
conoscete? Si? Bene, in poche parole il gestore è il nostro
babbo».
Uh?
Il Moby Dick? Certo, ci siamo stati qualche volta, non è
male. E’ dove Marco mi
ha bacia… Aspetta, sta parlando proprio di quel
locale? Dio,
no, no ma perché?, pensai affranto. Dopo
l’ultima volta e dopo il casino
che si era creato proprio lì, l’idea di ritornarci
non mi allettava molto. Il
problema, però, era un altro e ben peggiore. Infatti una
brutta sensazione mi
colpì come un fulmine a ciel sereno e la consapevolezza
delle parole di Thatch
lampeggiarono nella mia mente come un’insegna al neon.
Fermi
tutti! Ha appena detto che il loro genitore gestisce un locale, dunque,
se quel
locale è niente meno che il Moby Dick e tenendo conto che
è di proprietà del
sindaco, allora vuol dire che…
«A-aspetta»
balbettai,
deglutendo a fatica e incrociando lo sguardo con quello di Marco, il
quale
sospirò arrendevole, «Il sindaco
di
Sabaody è tuo
padre?».
«Ehm,
si?» mormorò,
grattandosi distrattamente i capelli e accennando ad un sorriso
insicuro
davanti la mia espressione allibita e incredula.
Quello
era un problema
bello e buono, insomma, ero innamorato, perché ormai era
palese, del figlio
della massima autorità della città, per di
più uno degli uomini più potenti
sulla faccia della terra ed io, beh, ero nella merda fino al collo.
E
adesso che faccio? Se prima la possibilità di, ehm, conoscere la sua famiglia mi era sembrata remota, adesso non
esiste proprio!
Scherziamo? Cioè, io fabbrico illegalmente fuochi
d’artificio in garage, che
cazzo! Rischio ogni volta di far saltare in aria l’intero
edificio, non so se
rendo l’idea! Con che faccia mi presento davanti al vecchio?
Sono un criminale,
tirare pugni è il mio pane quotidiano e mio fratello conosce
la caserma della
polizia come le sue tasche, tanto che quando ha fatto la cresima ha
chiesto a
Smoker, capo indiscusso, di fargli da padrino! E Marco…
Ignorando
Penguin e
Bepo che si erano avvicinati per sorreggermi in caso di qualche attacco
noto
solo a loro che studiavano medicina, mi accorsi per caso quanto il
biondo fosse
nervoso. Si mordeva un labbro, indeciso su cosa dire, ma ciò
che mi colpì di
più fu la sua espressione implorante, come se avesse intuito
tutti i miei
pensieri, come se temesse che potessi cambiare idea sul suo conto per
timore di
suo padre. Davvero avrei potuto metterlo da parte per i suoi
famigliari? Non
l’avevo fatto ne quando avevo conosciuto Thatch, ne con Izou,
nonostante avessi
desiderato in un primo momento di sopprimerlo. Che differenza poteva
fare suo
padre?
Non
fa differenza,
pensai, sorridendo leggermente, nessuna
differenza, davvero. Non mollerò tutto per un vecchiaccio,
assolutamente! Quello che
m’importa è conquistare quel
pennuto di suo figlio, il resto del mondo può anche bruciare
per quanto mi
riguarda.
Feci un
respiro
profondo e mi ricomposi, drizzando le spalle e avvicinandomi a lui,
deciso a
fargli capire che per me non c’era problema. Quella scoperta
non avrebbe
cambiato niente, figuriamoci. Mi ero impegnato troppo per avere quel
rapporto,
quell’amicizia con Marco e per niente e nessuno
l’avrei gettata via.
«Non
volevo che venissi
a saperlo così» spiegò dopo qualche
minuto di silenzio tra noi, «Sai, di solito
le persone tendono sempre ad allontanarsi quando scoprono di chi sono
figlio».
Eh
certo, mi pare ovvio, pensa se al posto di creare fuochi trafficavo
droga!
Avrei dovuto mollare la mia attività!
«Che
sciocchezze!»
sbottai, cogliendolo alla sprovvista e sorridendogli allegro per
tranquillizzarlo, «Non vedo proprio quale sia il
problema!».
Mi
guardò per qualche
istante mentre il suo viso si rilassava in un’espressione
sollevata e grata. «Grazie,
davvero».
«Forza
allora, tutti al
Moby Dick!» decretò Rufy, avviandosi verso il
parcheggio seguito da tutti
quanti.
Camminando
spalla a
spalla con Marco mi sentii in dovere di rassicurarlo ulteriormente
così,
prendendolo in giro con fare scherzoso, gli diedi una spallata per
infastidirlo
come facevo di solito al bar. Così, giusto per giocare. E
per attirare
l’attenzione su di me e sentirmi ardere ogni volta che il suo
sguardo si posava
sul mio.
«Non
pensare di
liberarti di me tanto facilmente» lo minacciai, vedendolo
sorridere per poi
dedicarmi uno sguardo canzonatorio.
«Anche
perché non ti
lascerei andare così facilmente»
mi
informò.
Mi sentii
morire e
rinascere nello stesso istante, tanto che il mio stomaco
sembrò attorcigliarsi
e credetti per un momento che delle farfalle ci stessero volando
all’interno,
ma nonostante tutto cercai di trovare una risposta che non mi facesse
sembrare
tanto stupido da dare, senza però riuscirci e dando modo a
qualcun altro di
dire la sua sotto l’aria divertita del pennuto.
«Non
temere Ace» fece
Thatch qualche passo più avanti di noi, ghignando
sommessamente, «Il babbo non
ti impedirà di scoparti Marco quando più ti
aggrada, anzi, conoscendolo bene
vorrà vedervi sposati il prima possibile».
Il
capitolo, anche
oggi, è fottutamente troppo lungo! Oh, beh, pazienza,
preferisco aggiungere che
togliere e rischiare di sbagliare, spero solo di non annoiarvi!
Allora,
ecco come Ace
viene a conoscenza dell’identità del caro e
simpaticissimo babbo di Marco e
Thatch :D
Una di
voi mi aveva
detto che le sarebbe piaciuto vedere la reazione di Ace nel ricevere
questa
notizia, beh, eccola qua :D
‘Quello
che m’importa è conquistare quel pennuto di suo
figlio, il resto del mondo può
anche bruciare per quanto mi riguarda.’
Con
questo non voglio
dire che Ace vuole vedere il mondo andare in rovina, anzi, ma
è solo un modo
per esprimere quanto ci tenga a Marco e quanto sia determinato. Non so,
io lo
trovo adorabile e molto dolce :3 e Marco che non voleva perdere Ace
;__________________; e che gli dice che NON LO LASCERA’
ANDARE!
Anyway,
ci vediamo
domani, spero, (con la long sicuramente, mi faccio
pubblicità, restate
sintonizzati mi raccomando, LOL).
Un
abbraccione e un
grazie infinite a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 38 *** Capitolo 38. Fa la tua mossa. ***
Capitolo 38. Fa
la tua mossa.
«Dacci
un taglio,
idiota!».
«Ma
guardalo»
sghignazzò Thatch con fare maligno, «Sembra un
angioletto. Non posso non
svegliarlo!».
A quanto
pareva a metà
serata Ace era crollato dal sonno in un angolino, il suo
angolino, remoto del bancone e stava dormendo beatamente con
l’espressione più rilassata che gli avessi mai
visto sfoggiare. Seduto sullo
sgabello, le braccia sul ripiano e la testa affondata in esse, se ne
stava
raggomitolato lì, sorridendo e sognando chissà
cosa, magari fuochi d’artificio
ed esplosioni varie. Non aveva importanza, tutto sommato,
perché mi ritrovai a
pensare che aveva un’aria tremendamente adorabile e che
svegliarlo sarebbe
stato un vero peccato.
Per
quello dovevo fare
di tutto per impedire a quello squinternato di mio fratello di rovinare
il suo
più che meritato riposo con delle sciocche trovate
infantili.
«Avanti,
solo un po’ di
panna sulla faccia, non se ne accorgerà nemmeno!»
stava insistendo Thatch con
la testa completamente dentro al frigo, «Più tardi
potrai sempre pensarci tu
a…».
«Ti
prego stai zitto!»
lo ammonii, alzando la voce più di quanto volessi e
attirando l’attenzione di
qualche testa rivolta nella mia direzione. Fortunatamente quella sera i
presenti allo spettacolo di poesie erano pochi, almeno non avrei avuto
molto da
fare. Forse era per quello che Ace aveva pensato di prendersi una pausa
più che
meritata. Dopotutto, quel ragazzo lavorava quasi tutti i pomeriggi
senza mai
lamentarsi e con un entusiasmo da invidiare. Si faceva carico di
qualsiasi
cosa, prendeva dieci ordinazioni alla volta, le ricordava tutte, e
serviva i
clienti nel giro di pochi minuti. Praticamente correva da una parte
all’altra
del locale senza fermarsi mai e, quando lo faceva, mi ritrovavo a
godere della
sua compagnia e questo mi rendeva di buon umore in una maniera
decisamente preoccupante.
Era stato così i primi giorni, ma poi qualcosa era cambiato.
Mi era bastato
vedere come avesse preso la notizia riguardante
l’identità di mio padre e tutto
il mio mondo sembrava essersi messo a in ordine, come se in quel
momento avessi
trovato il mio giusto posto. Credevo che mi avrebbe allontanato o che
avesse
smesso di essere tanto aperto e amichevole nei miei confronti, invece
no, se ne
era altamente fregato e si era comportato come se niente fosse
successo,
assicurandomi che non mi sarei liberato di lui tanto facilmente.
Quello, per
quanto mi riguardava, era certo e rispondergli che non
l’avrei lasciato andare
come se niente fosse era stata la cosa più normale e sincera
che avessi mai
detto e non me ne ero affatto pentito. Era giusto che lo sapesse,
fargli capire
quanto contasse per me tutto quello era stata la cosa migliore da fare.
«Bene,
allora userò i
coperchi delle pentole. Vado in cucina a prenderli, tu
aspettami» decretò
Thatch, non ancora arresosi all’idea di permettere al
ragazzino di riposare.
«Non
puoi semplicemente
lasciarlo in pace?» gli chiesi sospirando, guardando il
moccioso che dormiva
beato e lasciando che un sorriso intenerito mi si dipingesse in volto.
Sembrava
così sereno in quel momento, senza pensieri per la testa,
libero di rilassarsi
senza preoccupazioni. Senza rendermene conto mi ritrovai a scostargli
una
ciocca di capelli dal viso con l’intenzione di mettere in
risalto le lentiggini
nascoste, sfiorandogli il naso e le guance.
Sul
serio Ace, che mi hai fatto.
«E’
una cosa seria
allora».
Sussultai
e ritrassi di
scatto la mano nel sentire la voce di Thatch così vicina,
infatti me lo
ritrovai a pochi centimetri da me, appoggiato al bancone come avevo
fatto io e
intento ad osservarci con aria critica e pensierosa.
Aprii la
bocca per
ribattere e smentire le sue parole, ma la richiusi subito dopo. Ero
sempre
stato un tipo abbastanza coerente con quello che dicevo, pensavo e
facevo, quindi
non avrei di certo negato, non dopo che avevo faticato per capirlo, di
provare
qualcosa per Ace. Perché sarebbe stato come mentire e
contrariare i miei
sentimenti. Perciò rimasi in silenzio, sospirando e
scuotendo lievemente il
capo.
«Ti
sei reso conto,
vero, che lui stravede per te?» mormorò
sovrappensiero, intervallando lo
sguardo da me alla testa mora che sonnecchiava.
I nostri
occhi si
incontrarono e gli permisi di leggere come
quella
consapevolezza mi facesse sentire bene. Dire che ero ad un passo
dall’esultare
era dire poco, mi trattenevo solo perché non ero
più un ragazzino. Insomma,
certe scenate potevo evitare di farle.
«Accetta
il mio
consiglio allora: smettila di farti mille domande e fa la tua
mossa».
Quando il
locale si fu
svuotato e dopo che ebbi passato il resto del tempo a tenere lontano
Thatch da
quello che avevamo scherzosamente soprannominato Bello
Addormentato nel Bar, sbattei fuori anche lui e, ignorando le
sue frecciatine e insinuazioni del tutto fuori luogo, gli chiusi la
porta in
faccia e lo salutai con la mano attraverso il vetro, sfoggiando
un’espressione
strafottente. Inutile dire che lui non si fece scoraggiare, alzando i
pollici
in aria e ordinandomi di ‘far
vedere al
ragazzino chi comandava’.
Alzai gli
occhi al
cielo, dandogli le spalle e spegnendo le luci, lasciando accese solo
quelle
posizionate sopra al bancone dove Ace continuava bellamente a dormire.
L’avrei
volentieri lasciato riposare, ma era tardi e avrebbe dovuto tornare a
casa.
Mi morsi
un labbro,
pensando che non era costretto a farlo per forza, ma non avevo idea di
come l’avrebbe
presa se gli avessi proposto di restare.
Lo
affiancai e,
stampandomi in faccia un sorriso cordiale, iniziai a picchiettargli la
schiena,
chiamandolo sommessamente e vedendo come, lentamente, sbatteva le
palpebre con
l’aria intontita e si guardava in giro, soffermandosi su di
me e guardandomi
stranito. Trattenni a stento il divertimento. Ace era assurdamente
devastato
quando si risvegliava.
Dopo aver
riflettuto
sulla situazione per qualche istante, si volse verso
l’orologio e sembrò voler
sparire altrove quando lesse l’ora. Inutile dire che
iniziò a farsi mille
problemi che non erano affatto necessari dato che a me non importava
affatto se
per quella sera aveva staccato due ore prima e nemmeno il fatto che
avesse
dormito non mi scalfiva per niente. Provai a spiegarglielo, ma mi
pregò di non
giustificarlo perché per lui sarebbe stato peggio.
«Va
bene. Che vuoi che
faccia?».
Il suo
sguardo si posò
per un unico istante sulla mia bocca, svelandomi la direzione dei suoi
pensieri, ma fu solo un attimo perché poi riprese ad
incolparsi inutilmente. Secondo
lui dovevo arrabbiarmi, era sicuro di meritarlo, e non voleva dare
l’impressione
di stare approfittando della nostra amicizia per essere giustificato
ogni volta
che sbagliava. Il punto era che non riusciva a capire che cinque minuti
di
ritardo non cambiavano nulla e poi sapevo che si impegnava nei suoi
doveri, l’avevo
visto studiare duramente per gli esami, quindi non ero di certo
propenso a
pensare che fosse un lavativo, assolutamente.
Gli
scompigliai i cappelli
e cercai di calmarlo, assicurandogli che non c’era nessun
problema e che se mai
avessi deciso di sgridare qualcuno, il primo della lista sarebbe stato
senza
dubbio Thatch.
Fortunatamente
sembrai
convincerlo e si rilassò visibilmente, ringraziandomi e,
dopo un lungo
silenzio, augurandomi la buonanotte, alzandosi e dirigendosi incerto
verso l’uscita.
Non
volevo che se ne
andasse e mi ritrovai a guardarmi attorno per cercare qualcosa,
qualsiasi
scusa, per trattenerlo oltre. L’attenzione ricadde sul suo
cappotto abbandonato
sullo sgabello accanto così, sorridendo vittorioso, lo
richiamai indietro,
notando come le sue guance si coloravano di un tenue rossore.
«Allora
b-buonanotte»
mormorò non appena mi fu di nuovo accanto, spostandosi per
recuperare la
giacca. Fu in quel momento che decisi il da farsi, ricordando come da
piccolo,
quando giocavo a scacchi con i miei fratelli, fossi solito a vincere
sempre con
le mosse giuste. Tutto stava nel decidersi ad agire senza ripensamenti.
Ed
io non ho intenzione di lasciarti andare.
Smisi di
riflettere e,
leggendo lo stupore sul suo viso, lo afferrai per la manica della
maglia per
attirarlo verso di me, più vicino. In un attimo le mie mani
furono sul suo viso
che tanto avevo osservato nei dettagli e, l’istante
successivo, stavo premendo
le mie labbra sulle sue.
Con
calma, senza
fretta, senza pretese, dandogli modo di respingermi se avesse voluto,
anche se
dentro di me speravo vivamente di non essermi sbagliato nel dare
ascolto alle
parole di Thatch. Desideravo davvero che Ace mi ricambiasse,
perché ero arrivato
al limite e non sarei più riuscito a tenermi tutto dentro e
a nascondere quello
che ormai era chiaro come il sole. Non volevo nemmeno continuare a
fingere, era
giunto il momento di decidere, di fare la mia mossa.
Quella
notte al bar c’eravamo
solo lui, io e quel bacio.
Buongiorno
^^
Ehm,
beh… Evviva?
Forza, io
porto l’alcool
e voi da mangiare e facciamo festa perché, gente, Marco ha
smesso di lottare e
Ace, beh, mi sembra inutile dire che lui non stava aspettando altro da
praticamente il primo capitolo, LOL. Bene, quindi spargiamo caramelle,
biscotti
al cioccolato, torte e quant’altro :D
Allora,
vorrei comunque
avvisarvi che il capitolo si, è finito qui, ma continua e
sarà descritto dal
punto di vista di Marco. So che può essere strano, ma come
ho già detto in
passato questa raccolta (ormai long, LOL) segue gli avvenimenti
dell’altra long,
quindi il pensiero completo di Ace, per chi fosse interessato a spoiler
arsi il
tutto, lo trova nell’ultimo capitolo che ho pubblicato. Ad
ogni modo questo
continua perché non posso non raccontare il resto, aww **
Non ho
un’immagine,
perché ci sarebbe stata da Dio qui, dei due che si adatti al
momento. e mi
dispiace, ma proverò a cercarne una, in caso se qualcuno
trova un possibile
qualcosa me lo faccia sapere perché questi due lo meritano!
Sono adorabili,
sono tuuutto, io sto scleraaando, bene.
Uhm, che
altro? Nulla,
restate sintonizzati per la continuazione che arriverà
presto. Speriamo ;D
Un
abbraccio e Grazie a
tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 39 *** Capitolo 39. Perdersi e ritrovarsi mille volte. ***
Capitolo 39.
Perdersi e ritrovarsi
mille volte.
Ace era
così, come
dire, Dio!, non trovavo nemmeno le
parole per descriverlo. Era come se fossi appena venuto a conoscenza di
un
qualcosa di nuovo, unico, che mai avevo provato prima e di cui era
consapevole
che non ne avrei più potuto fare a meno. Era tutto, tutto
ciò di cui avevo
bisogno, tutto ciò che desideravo.
Ace era
così caldo, e
dolce, e, dannazione, io stavo perdendo la testa.
Mi ero
imposto di non
interessarmi a lui quando mi ero reso conto che ai miei occhi ormai non
era più
un semplice moccioso con la testa fra le nuvole; avevo deciso di
mantenermi
distaccato quando avevo pensato per la prima volta che fosse attraente; avevo perso il controllo
baciandolo e sentendomi bruciare fin dentro nell’anima,
rovinando tutto per
timore che quell’interesse crescesse e diventasse troppo
grande per poterlo
sostenere; in un qualche modo le cose si erano sistemate, io avevo
fatto di
tutto perché ciò accadesse e così era
stato; Ace si era dimostrato fin troppo
maturo e intelligente, troppo per continuare a ritenerlo un ragazzino,
troppo
per continuare a fare finta che quello che provavo nei suoi confronti
fosse semplice
curiosità o amicizia. No, non si trattava solo di quello, ma
di altro. C’era
attrazione, c’era desiderio, c’era un disperato
bisogno da parte mia di poter continuare a godere di tutta
l’allegria che sempre
lo accompagnava; volevo avere la possibilità di vedere quel
sorriso sulle sue
labbra, quello sguardo prima imbarazzato e poi arrogante; volevo essere
certo
di non passare più nemmeno un singolo giorno senza di lui.
Voglio
di più.
E
baciarlo era come
perdersi e ritrovarsi mille volte; mi sentivo così bene,
così a mio agio, così
al mio posto che, ne ero certo, se mi avesse allontanato non avrei
retto. Mi sarei
spezzato, senza dubbio, quindi, in quel momento, sperai e pregai
intensamente
affinché tutto andasse per il meglio. Lo desiderai
così tanto. Così tanto!
E poi
sciolsi il
contatto di mia spontanea volontà quando capii che non
avrebbe corrisposto,
sentendomi gelare quando lo vidi con un’espressione allibita,
mista a
incredulità e incapace persino di formulare una frase. Non
aveva mosso un
muscolo; certo, non mi aveva respinto, ma nemmeno accettato o incitato
a
continuare. Era come impietrito e scosso.
In quel
momento mi
sentii un vero e completo idiota e quasi mi parve di sprofondare nella
delusione,
tanto che non mi venne in mente nulla di sensato da dire per rompere
quel
silenzio straziante e alleggerire l’atmosfera che si era
creata e.
Alla fine
lasciai
scivolare le braccia lungo i fianchi, stringendo involontariamente i
pugni e
maledicendomi mentalmente per aver agito senza pensare. Quante volte mi
ero
ripetuto che non era mai una buona idea seguire l’istinto?
Chiusi gli occhi e
volsi il capo verso il soffitto, respirando profondamente e cercando di
calmare
l’uragano che sentivo dentro di me, lasciandomi scappare un
sorriso amaro e
triste.
«Scusami»
sussurrai
solamente. Fu il meglio che riuscii a fare.
«Mi
stai chiedendo di
mostrarmi indifferente dopo questo?»
mi sentii chiedere, sussultando impercettibilmente. Cosa avrei potuto
rispondere? Che volevo fingere che nulla fosse accaduto come in
passato, quando
avevo sminuito il nostro primo bacio? Assolutamente no, non
l’avrei fatto una
seconda volta, non quando mi ero reso conto di quanto lui fosse
importante.
Non
posso essere indifferente, Ace, non più, avrei voluto
dirgli. Guardati,
sei così bello, così solare, così
maledettamente… Maledettamente disarmante! Sei,
sei il fuoco ed io mi sento ardere ogni volta che ti vedo, ci credi?
Dio,
faccio ancora fatica a capacitarmene, ma so che
è così. Lo è, lo è davvero
e credimi, le cose sono cambiate dall’ultima
volta. Tu mi sei entrato nelle vene, per l’amor del Cielo!
Ace, sul serio, sei…
Sei…
«Non
ci riesco» mormorò
serio ed io mi sentii crollare. Era ovvio che non potesse
più far finta di
niente, non dopo che l’avevo messo così tanto in
difficoltà. Insomma, l’avevo
ferito una volta, perché avrebbe dovuto fidarsi di me
quindi? Non poteva
dimenticare e di certo, da quel momento, le cose sarebbero cambiate.
Non ci
saremo più comportati come al solito, come… Come
ci comportavamo, a proposito? Cos’eravamo
noi? Amici? No, troppo attratti l’uno dall’altro e
troppo impegnati a cercarci
con lo sguardo, a punzecchiarci di continuo, a chiacchierare fino a
tardi e a non
essere mai troppo lontani.
Quel
rapporto, quell’intesa,
quella complicità, tutto quello che avevamo costruito, dopo
quel mio ennesimo
errore sarebbe scomparso. Avevo osato troppo ed era giusto che pagassi.
Lui aveva
tutte le ragioni del mondo per non ignorarmi e guardarmi con disprezzo.
«Non
ci riesco proprio».
La mani
di Ace sul mio
viso furono una sorpresa inaspettata, ma ancora di più lo
furono le sue labbra
che trovarono le mie subito dopo, trasmettendomi una scarica elettrica
e un
calore magnifico che mi fece riprendere a respirare. Non ero mai stato
così
felice di essermi sbagliato e di aver capito male le parole di
qualcuno. Ace
non riusciva ad essere indifferente a me,
proprio come io non riuscivo a fare lo stesso con lui. Lo avevano
capito tutti,
ormai, tranne noi, i diretti interessati, troppo impegnati a creare
problemi dove non serviva per raccogliere il coraggio e fare la prima
mossa. Forse,
pensandoci bene, avevamo giocato una partita a scacchi fin
dall’inizio,
mangiandoci le pedine a vicenda e, alla fine, avevamo fatto scacco
matto. Difficile
decretare un vincitore quando entrambi avevamo ottenuto il nostro
premio tanto
ambito. E tutto era sempre stato sotto i miei occhi, chiaro come il
sole, ma
solo allora me ne resi conto. Assurdo, decisamente assurdo.
Quel
momento era
fottutamente perfetto.
Ero
euforico, contento,
soddisfatto, felice e determinato ad avere di più. Di certo
si sbagliava se
credeva che mi sarei limitato a divorarlo di baci quella sera. Una cosa
era
certa: non gli avrei permesso di uscire dal locale.
Gli
artigliai i fianchi
e lo avvicinai a me, sorridendo quando mi circondò il collo
con le braccia. Oh si,
era adorabile quel ragazzino, lo era sempre stato, ed era anche così attraente.
Lasciai
vagare le mani
senza controllarle, pensando solamente che tutta quella stoffa tra noi
era
superflua e che dovevo decidermi a fare qualcosa per sbarazzarmene il
più in
fretta possibile. Innanzitutto, la maglia e i pantaloni non gli
servivano, nemmeno
a me a dire il vero, ma ci avrei pensato dopo.
Stavo
quasi per
iniziare a mettere in pratica quelle riflessioni decisamente poco caste
quando
Ace si staccò di qualche millimetro, perché mi
aggrappai alla sua camicia
rischiando quasi di strapparla per non permettergli di allontanarsi
oltre, prendendo
fiato e guardandomi in un modo che mi scaldò fino in fondo.
C’erano un sacco di
pensieri, di emozioni, di parole non dette, tutto racchiuso in quegli
occhi che
tante volte mi mettevo a cercare durante le giornate. E, puntualmente,
ogni
volta che li incontravo, mi sentivo a casa.
«Resta
da me» proposi, anche
se la mia era più una decisione già presa che una
domanda, e il cenno
affermativo che fece in seguito mi
rallegrò ulteriormente. Almeno non avrei dovuto adoperarmi a
caricarmelo in
spalla e a trasportarlo di peso al piano di sopra. Perché
si, l’avrei fatto se
fosse stato necessario.
Ace, in
quel momento,
perse il suo di autocontrollo e arrossì vistosamente,
sbattendo più volte le
palpebre e passandosi distrattamente la lingua sulle labbra, indeciso
su cosa
dire o fare.
Feci un
respiro
profondo per calmarmi e decidermi a togliergli le mani di dosso. Una
cosa era
certa, se continuavamo in quel modo l’appartamento al piano
di sopra non l’avremo
mai raggiunto.
Buonaseeera
gente!
No, no,
no, ma non
dovevate pensare che oggi sarebbe saltato tutto! E’ un
po’ tardi, lo so, ma
lasciarvi senza la continuazione?
A dir la
verità ero
curiosa di vedere cosa veniva fuori dal punto di vista di marco,
quindi, beh,
ecco. Cosa dire? Applausi? **
A parte
gli scherzi, io
non so bene cosa ho scritto, davvero, cioè, Marco voleva
davvero strappare i
vestiti a Ace, non so se rendo, e il ragazzino è sempre
stato un po’ in
imbarazzo davanti a certe situazioni. In questo
capitolo c’è il pennuto che è
determinato dome un carro armato, chissà se nel
prossimo anche Ace la smetterà di tremare **
Uhm,
volevo solo dire,
insomma, visto che alcuni di voi hanno apprezzato il ricordo di marco
riferito
alle partite a scacchi con i fratelli io ho pensato di reinserire il
concetto e
vorrei spiegare a tutti il perche anche. Dunque, a parte che giusto
ieri sono
entrata in possesso di TUTTE
le puntate di One Peice, dalla 1 alla 631, SUL SERIO, riguardando
quelle di
Marineford, perché sono masochista, ma anche
perché volevo vedermi Ace e Marco
che, anche se da lontano, si mangiano con gli occhi ogni due per tre,
la nostra
Fenice, quando devia un colpo dell’Ammiraglio Kizaru
indirizzato a Barbabianca,
dice una cosa che personalmente adoro: «Non
puoi mangiare il re alla prima mossa».
Ma io ti
faccio un
monumento.
Ad ogni
modo spero che
vi sia piaciuto ^^ è, finalmente o accidentalmente,
più corto degli ultimi, ma
mi rifarò col prossimo perché temo che
avrò mooolte
cose da descrivere, if you know what I
mean.
Con
questo vi do la
buonanotte, ringrazio tutti, i vecchi e i nuovi lettore e un
abbraccione
grandissimo!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 40 *** Capitolo 40. Per nessuna ragione al mondo. ***
Capitolo 40. Per
nessuna ragione al
mondo.
«Beh,
puoi permetterti
il lusso di dormire fino all’ultimo minuto».
Avevo
chiuso a chiave
il bar mentre Ace si era occupato di spegnere le luci rimanenti e di
inserire
l’allarme, poi gli avevo fatto strada lungo il corridoio nel
retro fino alle
scale che portavano ai piani superiori dove si trovavano due
appartamenti: il
mio e uno ancora vuoto dove, di tanto in tanto, si fermava Thatch.
«E’
piuttosto comodo,
in effetti» ammisi, infilando la chiave nella toppa e aprendo
la porta per poi
invitarlo a entrare. Certo, era comodo avere la caffetteria sotto casa,
si
evitavano un sacco di problemi e fastidi vari, in più, come
aveva
scherzosamente notato, ero libero di dormire fino a tardi. Avevo la
vaga
sensazione, però, che non fosse veramente interessato a
parlare dei benefici
della mia abitazione, ma lasciai perdere e, sorridendo mestamente,
chiusi la
porta alle nostre spalle e provvidi ad accendere la luce.
«Vai
pure avanti, io
sistemo queste cose e arrivo» lo avvisai, facendogli cenno di
precedermi e fare
come se fosse a casa sua, mentre riponevo mazzi di chiavi e cappotti al
solito
posto, cercando di ignorare come potevo l’ansia crescente che
sentivo montarmi
nel petto.
Pensare
al fatto che
nell’altra stanza ci fosse Ace e non uno sconosciuto non mi
aiutava per niente,
anzi, peggiorava la situazione dato che, personalmente, mi ero
immaginato
quella circostanza un sacco di volte, ma non sapevo cosa aspettarmi,
cosa lui
si aspettasse. Per quanto ne sapevo avrei potuto non essere abbastanza.
Mi
appoggiai al muro e
iniziai a fissare il soffitto azzurro. Dovevo calmarmi e smetterla di
preoccuparmi per delle sciocchezze. Da quando mi facevo prendere dal
panico in
un momento simile? Mica era la prima volta, dannazione!
Con
Ace si, mi ritrovai a
pensare, sentendomi spaesato non appena realizzai la
veridicità di quella
riflessione. Era tutto nuovo, tutto da scoprire e Dio solo sapeva come
si stava
sentendo lui in quel momento dall’altra parte della parete.
Se lo conoscevo
bene di certo si stava dando mentalmente dell’idiota senza
smettere un attimo
di arrossire e balbettare frasi senza senso.
Sorrisi
sommessamente,
almeno eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.
Scossi il
capo e feci
un respiro profondo, tranquillizzandomi e imponendomi di non lasciarmi
influenzare in quel modo dall’insicurezza così,
drizzando le spalle, percorsi
il corridoio d’entrata e arrivai in salotto, mordendomi un
labbro per impedirmi
di ridere davanti alla scena che mi si presentò di fronte.
Ace mi
dava le spalle e
gironzolava per la stanza, curiosando di qua e di la e fermandosi di
tanto in tanto
per passarsi una mano sul volto nel tentativo di placare il suo animo
irrequieto. Appariva così disarmato e vulnerabile in quel
momento che rimasi a
fissarlo con un fastidioso dubbio a girarmi per la testa.
E
se prima fossi stato troppo precipitoso? Se lui non volesse andare
oltre?
Perché è di questo che si parla, non siamo qui da
me per bere un caffè, questo
è chiaro. Ah, che posso fare?
Sarebbe
bastata una sua
parola e l’avrei lasciato andare, ovvio. Non
l’avrei mai costretto a restare
con la forza, assolutamente. A che scopo? Farmi odiare ulteriormente?
Ace era
libero di scegliere come vivere la sua vita, era libero di fare tutto
ciò che
voleva e andare ovunque desiderasse. Non c’erano limiti, non
c’erano catene,
decideva lui il suo destino. Ed io ci tenevo troppo per costringerlo
contro la
sua volontà, non ero egoista fino a quel punto. Avrei
preferito mille volte
vederlo felice delle sue scelte che triste per aver seguito gli ordini
degli
altri.
Così
lo chiamai,
rivelando la mia presenza e godendomi per un istante la sua espressione
smarrita e stupita quando si voltò a guardarmi, colto di
sorpresa. Tentò
goffamente di nascondere l’imbarazzo e di risultare sicuro,
ma i suoi occhi
irrequieti e il rossore sulle guance svelavano tutt’altro.
«Ehi»
iniziai, sondando
il suo sguardo alla ricerca di qualche tentennamento e ponderando bene
le
parole. Cosa avrei potuto dire in quel caso? Come ci si comportava
quando si
desiderava qualcuno tanto da star male ma, allo stesso tempo, non si
aveva la
certezza di essere ricambiati? Avrei tanto voluto avere una risposta
per
schiarirmi le idee.
Non
devi sentirti in obbligo, davvero, io ti capirei, ti capirei sempre
come
capisco quando hai fame e vuoi altri biscotti; come capisco quando stai
per
addormentarti; come capisco quando vorresti ammazzare Thatch e come mi
rendo
conto quando mi cerchi. Ti capirei e vorrei solo vederti allegro come
sempre.
Avrei
potuto dire tante
cose e sbagliare completamente, ma almeno ci avrei provato e
l’avrei fatto, ne
ero certo, ma, ancora una volta, venni preceduto da Ace che,
prendendomi in
contropiede e roteando gli occhi in un moto di stizza come se avesse
appena
mandato a fanculo tutto il mondo, mi raggiunse con pochi passi,
abbracciandomi
di slancio e incastrandosi perfettamente tra le mie braccia che lo
accolsero
con tutto l’entusiasmo di cui erano capaci mentre, senza
fatica e con
semplicità, le sue labbra trovavano le mie. In quel momento
decisi che no, per
nessuna ragione al mondo, l’avrei lasciato andare.
Affondai le dita fra i
suoi capelli, un gesto che avevo desiderato di poter fare fin dalla
prima volta
che l’avevo visto, mentre le mie mani gli avevano sollevato
la maglia ed erano
corse ad accarezzare tutti i centimetri di pelle rovente possibili, dai
fianchi
alle spalle. Non
avevo idea di come ci
fossero arrivate. La sua schiena si inarcò a contatto con le
mie dita e di
conseguenza Ace mi morse un labbro, rischiando seriamente di farmi
perdere la
testa definitivamente.
Quando
poi infilò le
dita nei passanti dei jeans, attirandomi più
vicino a sé e sfiorandomi il bacino con i
pollici, mi si mozzò il
respiro e mi ritrovai a boccheggiare, sentendo la pelle d’oca
e i brividi
correre lungo la spina dorsale. Dio, tutto ciò era pura
estasi. Ace era la
follia stessa, era tutto, tutto, tutto.
«Ace»
mormorai,
cercando di riprendermi, «Ne sei proprio sicuro?».
«Che
domande!» sbottò
prima ancora che finissi la frase, deglutendo a fatica e togliendosi la
maglia
con gesti frenetici, finendo quello che avevo iniziato a fare io e
lasciandola
ricadere a terra. Avevo già avuto modo di farmi
un’dea del suo fisico, ma in
quel momento, finalmente, avrei potuto scoprirlo nei dettagli e
imprimerlo
nella mente. Mi sembrava giusto, però, pareggiare i conti
dato che io avevo
sempre badato a rimanere vestito in sua presenza, così la
mia maglietta finì a
fare compagnia alla sua.
«Hai
così tanta fretta?»
scherzai, fingendomi indifferente davanti allo sguardo che mi rivolse.
Mi sentii
sollevato, in un certo senso, perché non fu difficile per me
leggere nei suoi
occhi tutto il desiderio che stavo provando anche io allo stesso modo e
nello
stesso istante.
Sembrò
riscuotersi dai
suoi pensieri, rivolgendomi poi un’occhiata di fuoco,
«Chiudi il becco, ti
prego».
A quanto
pareva non ero
l’unico ad essere impaziente, così lo attirai
verso di me afferrandolo per un
braccio e avvicinando il viso al suo, pensando a quante volte mi ero
perso a
fantasticare su di noi, desiderando di poter essere così
vicini, così liberi. Ace
sorrideva e non c’era niente di più bello.
Sorrideva e mi guardava in un modo
così diretto e privo di imbarazzo che, per un attimo,
temetti di ritrovarmi ad
arrossire come faceva sempre lui in certi casi. Dimenticavo spesso che
non era più
un ragazzino come avevo continuato a vederlo fino a qualche mese prima.
A quel
pensiero il mio cuore prese a battere più forte, sarebbe di
certo stata una
lunga notte.
«Sai
una cosa?»
sussurrai, ipnotizzato dalla quella bocca così invitante,
«Non vedevo l’ora»
gli confessai infine, riprendendo da dove avevamo interrotto.
Sicuramente non
avremo avuto il tempo ne l’interesse per raggiungere la mia
camera da letto, ma
almeno eravamo arrivati in appartamento, quello era già un
traguardo.
Sospiri
spezzati; le
mani ovunque; i pantaloni che sparirono nel giro di qualche secondo,
senza che
io me ne accorgessi o che me ne rendessi conto; baci; carezze e Ace che
rotolava
a terra.
Un
momento, che cosa?
Sbattei
le palpebre e
osservai come il ragazzo moro si stesse massaggiando la testa con una
smorfia
per niente gratificata sul viso, imprecando sommessamente e lanciandomi
un’occhiataccia
quando si decise ad aprire gli occhi. Davanti al mio disappunto si
imbronciò,
incrociando le braccia al petto e spostando l’attenzione
altrove.
Trattenendo
a stendo
una risata e mascherando il mio divertimento, senza riuscirci del
tutto, mi
schiarii la voce per fare chiarezza sull’accaduto.
«Ehm,
posso sapere
come ci sei finito lì?».
«Come
sono finito…? Questa
è bella, sei stato tu a non farmi spazio. Si, bravo, ridi
pure adesso, avanti!».
Mi
accomodai a pancia
in su sul divano, passandomi una mano tra i capelli scompigliati e
lanciando di
tanto in tanto qualche occhiata al moccioso ancora offeso sdraiato sul
tappeto
pochi centimetri sotto di me. Certo che non avrebbe mai smesso di
stupirmi. Solo
lui poteva scivolare sul pavimento in un momento del genere.
«Ma
sentilo! Testa d’ananas,
guarda che io sono sempre qui, brutto… Ehi, c-che
f-fai?». Vedere la sua
espressione cambiare in modo repentino fu adorabile, accentuata dalle
parole
sconnesse che iniziò a balbettare quando scesi dal divano e
mi distesi su di
lui, iniziando a baciargli il collo e a scendere lentamente
più in basso,
deciso a fargli venire la pelle d’oca. Era tutto
così giusto, normale e
perfetto, come se l’avessimo fatto migliaia di volte.
«M-Marco»
mormorò a
mezza voce, rovesciando la testa all’indietro e sospirando.
«Ace»
risposi
ghignando, puntellandomi sui gomiti per sollevarmi un poco e guardarlo
in
faccia, notando come arrossiva per l’ennesima volta,
mordendosi un labbro per
l’imbarazzo. «Comunque sono ancora
offeso»
sbottò infine, facendomi inarcare un sopracciglio. Non
credevo minimamente a
quello che aveva detto e sembrò capirlo perché un
mezzo sorriso spuntò sul suo
volto.
«Sei
proprio un
ragazzino» decretai, soffocando le sue proteste con un bacio
e lasciando che il
fuoco che alimentava entrambi ci avvolgesse e ci accompagnasse per
tutta la
notte.
Ace,
sei tutto.
Buonasera
^^
Allora
io, ehm, ecco
si, insomma, diciamo che, beh, non so cosa dire, sinceramente.
Cioè, so che non
è esattamente pieno di particolari e altre cose del genere
che le vostre menti
possono benissimo immaginare liberamente ma, come ho già
spiegato e ribadito,
ho un blocco e mi dispiace, mi dispiace tanto perché loro
meritano tantissimo,
ma non riesco ad andare troppo oltre quando si tratta di queste cose.
Quindi perdonatemi
e tenete presente che questo è il capitolo più
lungo, dai. Consoliamoci come
possiamo ;______________; come dico sempre, spero che le riflessioni,
le
emozioni che provano entrambi e i loro pensieri siamo abbastanza per
rendere
bene il tutto e farvelo apprezzare, ci ho provato davvero e tipo ho
pensato e
ripensato e cancellato e riscritto frasi su frasi. Spero di aver reso
bene il
tutto e qualsiasi consiglio o critica costruttiva sono ben accetti,
dopotutto
ho un sacco da imparare ^^
Passando
a Marco. MARCO.
Io credo, come una di voi ha notato una volta, facendo una bellissima
battuta
su una recensione, Marco lo chiamano La Fenice solo per le sue
capacità
rigenerative? Cioè, perché, come ha espresso lei,
potrebbero esserci anche
altri motivi collegati, Poker Face .____________. Pensieripococasti-on.
Ace,
tesoro, che si
spoglia dalla fretta e che rotola non si sa come giù dal
divano. Mi dispiace,
non ho resistito, dovevo inserire qualcosa di stupido in tutta la
scena, quindi
non mi pento e potete uccidermi, ma dovevo farlo per forza :D Il tutto
si
conclude con un pensiero di Marco che ripete ancora una volta quanto
sia
speciale Ace per lui. È tutto, semplicemente.
E ora
dormite sonni
sereni dopo questa consapevolezza che si, dopo una lunga attesa, il
momento
tanto atteso è arrivato. Stappiamo bottiglie di vodka,
liquori, grappe e
facciamo festa in loro onore. Sicuramente, appena Thatch
verrà a saperlo, perché lo
scoprirà, e di conseguenza lo dirà ai
quattro venti, ci sarà un festone
assurdo. Yeee **
Bene, ora
vado e,
niente, a domani. Chissà come sarà il loro
risveglio :D
Un
abbraccione a tutti
e un grazie speciale a tutti coloro che mi dedicano tempo prezioso
della loro
vita per recensire ogni capitolo. Siete tutti fantastici, vi adoro e
non ci
sono parole per dirvi quanto vi sono grata.
Grazie,
come sempre, anche
ai vecchi e ai nuovi lettori ^^
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 41 *** Capitolo 41. Fottutissimi mirtilli. ***
Capitolo 41.
Fottutissimi mirtilli.
Stavo dormendo
placidamente,
rilassato come non mai, quando, come ogni mattina, iniziai a rendermi
vagamente
conto che, piano, piano, il giorno mi stava strappando dalle braccia
del sonno,
trascinandomi nel dormiveglia e dandomi modo di elaborare il tutto per
poi
aprire le palpebre e svegliarmi. Quella mattina non era diverso e ogni
cosa era
al suo posto, me compreso. Mi sentivo al caldo, probabilmente sommerso
da
coperte, nessuna luce filtrava dalle finestre, infastidendomi e il
silenzio che
regnava era molto piacevole. Tutto nella norma, anche se stavo un
po’ stretto,
intrappolato tra mucchi di cuscini. Da quando ne avevo così
tanti? E il mio
letto non era posizionato a ridosso del muro, quindi come potevo stare
scomodo?
Con la
mente ancora
annebbiata dal sonno, però, non raggiunsi subito le
conclusioni esatte e
continuai a bearmi ancora per qualche minuto di quel calore e quella
morbidezza
che sentivo, accoccolandomi in quel cantuccio e affondando il viso tra
la
stoffa delle coltri e qualcos’altro di soffice e profumato.
Varie cose erano
strane, ma continuai a non farci caso e, nell’intento di
seppellire un braccio
sotto al cuscino, mi ritrovai ad abbracciare qualcosa di più
consistente che
non avrebbe dovuto esserci. Nel sonno corrugai la fronte, biascicando
qualche
parola sconnessa e chiedendomi cosa diavolo ci facesse un bracciolo del
divano
sul mio materasso e perché ci fosse odore di cioccolata
ovunque. Quando mi resi
conto che quella cosa si muoveva
impercettibilmente, alzandosi e abbassandosi, mi ritrovai a sbarrare
gli occhi
di scatto, sbattendo le palpebre più volte per abituarmi
all’oscurità nella
stanza e cercando di orientarmi.
I ricordi
mi
investirono nell’esatto istante in cui mi accorsi di trovarmi
in un divano,
premuto contro lo schienale dal corpo addormentato di Marco che,
inconsapevole
di tutto, dormiva beato su un fianco, rivolto verso di me e con il
mento
appoggiato sulla mia testa. Il calore che sentivo veniva da lui e da un
paio di
coperte che aveva usato per coprirmi e per non farmi sentire freddo.
Avevo tanto
desiderato di potermi risvegliare un giorno con lui accanto che, in
quel
momento esatto, mi sentii esplodere il petto per la velocità
con cui il mio
cuore prese a battere.
Non
riuscivo a muovermi
molto, perciò non potei controllare la situazione che ci
circondava, ma riuscii
a notare i capelli disastrati di entrambi, i cuscini sparsi a terra,
mentre noi
eravamo avvinghiati in un intreccio di braccia e gambe. Come avrei
fatto a
liberarmi ancora non lo sapevo, ma non me ne preoccupai minimamente,
per quanto
mi riguardava avremo potuto anche rimanere così per tutto il
giorno.
Con la
mano che avevo
mosso involontariamente per circondargli un fianco, corsi a sistemargli
alcune
ciocche di capelli che gli ricadevano davanti agli occhi,
accarezzandogli le
guance e il mento, avvicinandomi poi ancora un poco per sfiorargli in
naso con
il mio. Mi soffermai un istante sulle labbra dischiuse, sorridendo al
pensiero
di quanto fossero dolci, e morbide e invitanti. Era stato fantastico,
non
c’erano altre parole. Avevo creduto di non essere abbastanza,
di essere
inadeguato, un ragazzino, invece no, al contrario, era stato tutto
così giusto
e perfetto. Marco era perfetto. Era stato così, Dio,
c’erano parole per poterlo
descrivere? Sapevo solo che avrei dato qualsiasi cosa pur di potergli
restare
accanto, senza mai cambiare nulla. Certo, avevo una paura fottuta che
dopo
quella notte le cose tornassero alla normalità, ma ero
pronto a giocarmi il
tutto per tutto e non mi sarei dato per vinto.
Quando
alzai gli occhi
sul suo viso sussultai nel ritrovarlo sveglio, intento a fissarmi con
quelle
pupille chiare e attente a registrare ogni mio movimento.
Rimasi
incantato per
qualche istante, decidendo se fosse il caso di sotterrarmi o provare a
trovare
una scusa plausibile alle mie mani sul suo viso.
«Ciao»
me ne uscii
infine, mordendomi la lingua per non averci riflettuto oltre. Sul
serio, mi
risvegliavo dopo una notte indimenticabile con accanto il ragazzo che
non avevo
fatto altro che desiderare dal primo istante e tutto quello che mi
veniva in
mente di dire era uno stupidissimo ciao?
A
discapito di tutto,
però, Marco non si lasciò scoraggiare dal mio
crescente imbarazzo, e pensò bene
di farmi salire la pressione come solo lui sapeva fare, chiudendo le
distanze e
baciandomi lentamente, in un modo quasi struggente. Quando provai ad
aggrapparmi a lui come se fosse la mia ancora di salvezza con
l’intento di
chiedere di più, però, si staccò.
«Buongiorno»
sorrise, mentre
io restavo per la seconda, o era
l’ennesima?, volta senza parole, «Dormito
bene, ragazzino?».
Aprii la
bocca con
tutta l’intenzione di rispondergli per le rime e farlo cadere
giù dal divano se
fosse stato necessario, ma la sua risata mi precedette e dovetti
starmene zitto
perché mi ritrovai stretto in un abbraccio che mi tolse
quasi il respiro.
«Idiota,
spostati, n-non
riesco a muovermi» lo rimproverai, tentando inutilmente di
distanziarlo di
qualche centimetro. Niente da fare, non sembrava averne
l’intenzione e in breve
tempo mi ritrovai sopraffatto dalla sua stazza. Ero in trappola, di
nuovo. Perché,
perché non riuscivo mai a metterlo alle strette come faceva
lui con me?
Dannazione, se solo avessi avuto le braccia libere!
«Uh?
Cos’è quella
faccia Ace?» fece scherzoso, inclinando il capo e sorridendo
davanti al mio
broncio.
«Chiudi
il becco,
Marco!».
«Sai,
è ancora presto e
non andremo a lavoro che tra qualche ora.
Quindi…». Un bacio lento, poi un
altro ancora.
«Q-quindi
c-che cosa?».
Come ci erano finite le mie mani sul suo sedere?
«Abbiamo
tempo».
Non avevo
voglia di alzarmi,
mi sentivo stanco e spossato, o forse no? Non mi era molto chiaro come
mi
sentissi in quel momento, sinceramente un po’ di stanchezza
iniziavo a provarla,
ma svanì tutto non appena fiutai un delizioso profumino
proveniente dalla
cucina dove Marco si era rinchiuso dopo avermi dimostrato cosa
intendeva lui
per buon risveglio.
Sospirai,
lasciando
ricadere il capo sul cuscino e rannicchiandomi sotto la coperta,
sorridendo tra
me e me. Mi sembrava quasi impossibile che le cose stessero andando
così bene, senza
problemi o intoppi, ma era meglio così, un po’ di
pace e tregua mi serviva
proprio ed ero intenzionato a godermi la giornata fino in fondo.
Sta
trafficando con i fornelli da parecchio, ormai sarà anche
pronto, pensai,
mettendomi seduto e
stiracchiandomi come un gatto, sollevando le braccia verso il soffitto
e
tendendo i muscoli. Forse si, ero un po’ indolenzito, ma
nulla di che, avrei
sopportato benissimo una giornata di lavoro. Di certo, non me la sarei
persa
per niente al mondo. Era un nuovo inizio quello, ne ero sicuro, e
l’avrei
vissuto al meglio.
Ho
una fame tremenda e alla fine ieri sera non ho nemmeno mangiato, se non
si
conta la torta avanzata di Thatch, due tazze di cioccolata, una pastina
e
Marco… No, aspetta, smettila Ace, per Dio! Pervertito!
Grattandomi
distrattamente
i capelli e dandomi mentalmente dello stupido, mi avviai verso quella
che
doveva essere la cucina con l’intenzione di riuscire a
sgraffignare qualcosa da
mettere sotto ai denti se le cose sarebbero andate ancora per le
lunghe. Il
pennuto era bravo a cucinare, nulla da ridire, ma faceva tutto con
troppa calma
secondo il mio parere. Avrebbe anche potuto darsi una mossa.
«Ti
sei deciso ad
alzarti, finalmente». Si accorse della mia presenza non
appena misi piede nella
stanza, senza darmi nemmeno il tempo di illudermi di potercela fare nel
mio
intento, così, colto in flagrante, abbozzai un sorriso
malandrino e lo
raggiunsi con pochi passi, sondando attentamente le pietanze esposte
sul
ripiano.
«Abbiamo
ospiti?»
domandai, corrugando la fronte davanti alla quantità
industriale di cibo. Non
mi resi nemmeno conto di aver parlato al plurale, come se in
quell’appartamento
avessimo sempre abitato in due.
«Non
che io sappia»
rispose il biondo, sorridendo e continuando il suo lavoro.
«V-vuoi
dire che è
tutto per noi?».
Fece un
cenno
affermativo, «Esatto».
Fu
più forte di me. Mi
dava le spalle, ma lo abbracciai ugualmente, allacciandogli le braccia
attorno
ai fianchi e nascondendo il viso sulla sua schiena. Una volta sola non
mi
sarebbe bastata e avrei dato qualsiasi cosa per svegliarmi in quel modo
tutti i
giorni, soprattutto se potevo godere di una colazione abbondante come
quella
che mi stava preparando.
«Ti
prego, sposami!»
scherzai, lusingato da tutta quella gentilezza da parte sua.
Marco
scoppiò a ridere,
imitato a ruota da me, guardandomi da sopra la spalla. «Ace,
ma che diavolo
blateri?».
Mi
strinsi nelle spalle
senza smettere di guardarlo e di sorridere apertamente, mostrandogli il
mio
buonumore, «Sembri una casalinga professionista ed io
otterrei un sacco di
vantaggi da tutto questo» spiegai, prendendomi il permesso di
prenderlo un po’ in
giro.
«Ah,
è così che la
metti allora?» sogghignò, trafficando con alcuni
barattoli davanti a lui che però
non riuscii ad identificare. Mi costò parecchio, dato che se
solo ci fossi
riuscito mi sarei evitato un’appiccicosa
vendetta da parte sua.
«Dimmi
un po’» fece,
cogliendomi di sorpresa e
passandomi una
mano sul viso. Avrei tanto voluto che non l’avesse mai fatto.
«Anche questo lo
ritieni un vantaggio?» sfotté senza
pietà, ghignando senza pudore davanti alla
mia espressione allibita. In quel momento la mia faccia era
impasticciata di
marmellata. Mi passai la lingua sulle labbra, gustandone il sapore.
Mirtilli.
Fottutissimi mirtilli.
Marco si
portò le mani
ai fianchi e sollevò il mento con aria superiore, come se
volesse sfidarmi a
fare di peggio se avevo il coraggio.
Sospirai
e pregai che
non mi stesse provocando volutamente. Non aveva idea di quante ne avevo
combinate con mio fratello Rufy ed ero certo che non desiderasse
davvero
ritrovarsi con le pareti della cucina rese irriconoscibili da varie
sostanze
difficili da identificare se amalgamate assieme.
«Marco»
sussurrai, «Non
l’hai fatto sul serio».
Ribadì
il suo messaggio
e mi passò due dita su una guancia, segnandomi con della
cioccolata e
commentando su quanto fosse dolce
la
mia faccia in quel momento.
Con calma
e con
movimenti calcolati lo aggirai, rimanendo impassibile alle sue battute
e adocchiando
nel frattempo un paio di uova inutilizzare accanto a un sacchetto di
farina
aperto. La mia mente iniziò subito ad elaborare un piano e,
incurante degli
avvertimenti e delle velate minacce della testa d’ananas, la
quale aveva capito
le mie malefiche intenzioni, gli dedicai un sorriso angelico per poi
spiaccicargli in testa entrambe le uva, godendomi la sua espressione
esterrefatta e poi schifata.
«Manca
qualcosa» feci
pensieroso, arricciando le labbra e, subito dopo, la farina
finì a completare l’opera
sulla testaccia bionda di Marco.
Ci
guardammo per un
lungo istante e con espressioni decisamente differenti, una inferocita
e l’altra
canzonatoria. Inutile specificare che mi stavo divertendo alla grande.
«Ace,
inizia a correre»
mi avvisò con un sospiro esasperato,
«Perché se ti prendo, giuro che non
riuscirai a camminare per un pezzo».
Il mio
stomaco sussultò
e mi ritrovai zittito per un secondo.
«Non
è che prima potrei
fare colazio…».
«Corri».
*Special*
Quell’ananas
ambulante non risponde, è la terza volta che lo chiamo!
Dannazione, mi sa che
dovrò andarlo a tirare giù dal letto come al
solito! Dunque, le chiavi? Ah si,
eccole, perfetto! Bene, spero che nel frattempo si svegli, altrimenti
ci
penserò io a dargli un affettuoso buongiorno, da bravo
fratello quale sono.
*
*Avviso
di servizio: i capitoli, da ora in poi, saranno lunghi o corti a
seconda del
mio umore. Nella buna e nella cattiva sorte, ve li sorbirete tutti.
Amen.*
Buongiorno
gente. Stamattina
voi come vi siete svegliati? Perché, a quanto pare, Ace e
Marco se la sono
spassata alla grande!
Lasciatemi
fangirlare
un po’, perché penso che Ace accoccolato nel
divano tra le braccia di Marco sia
la cosa più dolce e diabetica del mondo :3 rotolo per la
casa!
E poi la
colazione e,
ommioddio, ‘Marco, sposami’, awww, troppo per il
mio povero cuore, troppo! Ad ogni
modo vorrei chiarire che quella di Ace non
era una vera e seria proposta di matrimonio, infatti, come segue, era
solo un
modo per prendere in giro le tanto apprezzate doti di Marco, bravo a
cucinare e
a prendersi cura di un ragazzino come lui ;D per l’appunto,
il tutto porta ad
una battaglia con i fiocchi che è solo all’inizio,
chiarisco, quindi
aspettatevi di ritrovare una cucina disastrata ^^
Oh, quasi
dimenticavo, QUALCUNO sta arrivando
a mettere in naso
in casa di Marco! Chi sarà mai, LOL!
Spero che
il risveglio
vi sia piaciuto, ragazzi, un abbraccione grandissimo e grazie a tutti,
ai vecchi
e nuovi lettori.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 42 *** Capitolo 42. Di felicità si può morire? ***
Capitolo 42. Di
felicità si può
morire?
In pochi minuti
una
parete della cucina era stata resa irriconoscibile da qualcosa di
viscido, ma
allo stesso tempo profumato. Era la glassa alla fragola destinata ai
muffin e
ai waffles che, in quel momento, erano stati abbandonati sulla piastra
a metà
cottura, mentre io mi affrettavo a passare sotto al tavolo per evitare
che
Marco mi afferrasse, permettendogli altrimenti di imbrattarmi i capelli
e il
resto del viso. Ad ogni modo ero certo che, dopo quello che gli avevo
fatto,
non si sarebbe accontentato di così poco.
Spostai
una sedia e
sbucai fuori dall’altra parte, afferrando di fretta quello
che rimaneva di uno
dei molteplici vasetti di marmellata e mettendoci dentro tutta la mano,
pronto
al contrattacco. Infatti, approfittando dei miei rifornimenti, Marco mi
raggiunse e mi ritrovai stretto con forza al suo petto.
«Me
la paghi, Ace,
giuro che me la paghi» stava dicendo, guardandosi attorno
alla ricerca di qualcosa
che potesse tornargli utile per compiere la sua vendetta, non
accorgendosi
dello scherzetto che avevo in serbo per lui e ritrovandosi a dover
mollare la
presa su di me dopo che gli ebbi spalmato per bene una bella
quantità di
marmellata in faccia.
Scoppiai
a ridere
davanti ai suoi tentativi di ripulirsi, osservando attentamente il
disastro che
aveva in testa. Sembrava il nido di un qualche rapace e per un attimo
sperai
che Thatch potesse vederlo. L’avrebbe sfottuto fino alla
morte, questo era
sicuro.
«Ehi
pennuto, sei
pronto per essere messo in forno?» scherzai, sorridendo in
modo sfrontato
davanti all’occhiata omicida che mi rivolse, raddrizzando poi
le spalle e
lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Oh si, era ridotto
veramente male
e ciò non fece altro che rendere il tutto ancora
più comico e esilarante.
«Ti
vedo un po’ disidratato,
ragazzino» fece nel frattempo, con un tono che non mi piacque
per niente,
attirando la mia attenzione, «Perché non bevi
qualcosa?».
Così
dicendo e
muovendosi prima che potessi reagire, afferrò la scatola del
latte sopra al
bancone e, l’istante dopo, pensò bene di spremerla
fino all’ultima goccia,
puntando lo spruzzo verso mi me e lavandomi da capo a piedi.
Boccheggiai
stupito,
tastandomi i capelli bagnati e appiccicosi e sentendo l’odore
di latte fresco
fin dentro le narici.
«C-Che
schifo!» urlai,
passandomi le mani lungo le braccia nel disperato tentativo di
asciugarmi come
potevo. Ancora non sapevo, però, che quello per me era solo
l’inizio di un’estenuante
battaglia. Se con mio fratello era un gioco da ragazzi, visto che ogni
cosa che
si ritrovava addosso la faceva sparire nel suo stomaco, con Marco era
diverso,
dato che sembrava ben disposto ad accettare le sfide che gli venivano
proposte,
anche se era lui ad iniziarle, precisiamo.
«Sai,
ho avanzato
questo limone» disse intanto il biondastro, avvicinandosi e
intrappolandomi tra
lui e il frigorifero, togliendomi ogni via di fuga. «E ho
pensato che sarebbe
stato uno spreco non usarlo. Non sei d’accordo?».
Quando voleva sapeva essere
bastardo, decisamente, e la cosa che più mi lasciava
allibito era il fatto che sembrava
divertirsi oltre ogni limite.
Mi
ritrovai le due metà
del frutto schiacciate contro le guance e, nel tentativo di liberarmi
dalla sua
presa, mi appropriai momentaneamente della zuccheriera che si trovava a
pochi
centimetri dalla mia portata, togliendole il coperchio e gettandola
addosso a
Marco, augurandogli a voce alta di addolcirsi almeno un poco.
Questo mi
aiutò a
liberarmi di lui, dandomi la possibilità di armarmi di un
vassoio e usarlo come
scudo contro le arance che iniziò a lanciarmi, iniziando poi
a rispedirle al
loro proprietario raccogliendole da terra come potevo, oppure usando il
vassoio
come se fosse stato una sottospecie un po’ bislacca di mazza
da baseball.
Uh?
E quella cos’è? Wow, glassa al cioccolato! Aspetta
solo che la prenda!
Accorgendosi
del mio sguardo
poco rassicurante e intercettando l’oggetto dei miei
pensieri, Marco non ci
pensò due volte a fiondarsi verso il tavolo per appropriarsi
della cioccolata
prima di me, peccato che, nello stesso attimo, decisi di tentare il
tutto per
tutto anche io, finendo nella sua traiettoria ed entrando in collisione
con lui,
ritrovandoci entrambi a rotolare sul pavimento scivoloso e ricoperto di
briciole, biscotti, latte e quant’altro di commestibile. Alla
fine, però, la
cioccolata l’avevo presa io.
Veloce e deciso, prima
che potesse rendersi conto della situazione, lo immobilizzai a terra,
salendo a
cavalcioni su di lui e alzando il braccio con in mano la glassa,
brandendola
come un’arma micidiale e potente, tenendola a
mezz’aria e minacciando di
schiacciare il tubetto. Quando si rese conto di ciò, feci un
sorriso vittorioso
e soddisfatto. A quanto pareva avevo la vittoria in pugno. Quello che
non avevo
calcolato, però, era l’effetto e
l’attrazione che Marco era arrivato a
suscitare in me.
«Ace»
sussurrò, legando
il suo sguardo al mio e sorridendo sommessamente, muovendo lentamente
una mano
verso di me per pulirmi una guancia sporca di marmellata e
accarezzandola con
la punta delle dita, facendomi sentire un completo idiota,
nonché crudele per
quello che avevo avuto intenzione di fargli. Insomma, la cucina
disastrata
poteva bastare, non c’era bisogno di infierire oltre.
«Avanti,
hai vinto»
mormorò, senza la minima traccia di fastidio e allargando il
suo sorriso in un
modo che mi mise letteralmente al tappeto. Lui si arrendeva e io avevo
il
coraggio e la sfrontatezza di colpirlo nonostante tutto? Che razza di
uomo ero?
Appoggiai
il barattolo
di glassa sul pavimento e mi chinai su di lui per baciarlo, catturando
le sue
labbra e dimenticando per un momento di essere fradicio e imbottito di
marmellata e schifezze varie dalla testa ai piedi. Anche lui,
sinceramente, non
era messo tanto meglio, con la faccia mezza infarinata e alcune
briciole sulle
spalle.
Mi
staccai un attimo
per guardarlo negli occhi e chiedergli scusa, ma qualcosa mi fece
gelare e
immobilizzare sul posto, mentre una sostanza viscida mi colava
lentamente dai
capelli, fino al collo e lungo le spalle. Un’occhiata a Marco
e potei notare il
ghigno divertito che mi stava rivolgendo mentre, sfruttando il mio buon
cuore,
mi riversava tutta la cioccolata addosso. Probabilmente il traditore se
ne era
impossessato quando mi ero distratto per baciarlo.
«Brutto
infame!» decretai,
allontanandomi e lasciandolo per terra a trattenersi lo stomaco per le
risate,
guardando come cercavo disperatamente di togliermi il più
possibile quella roba
dai capelli, combinando un disastro e sporcandomi i palmi delle mani in
un modo
indecente. Intanto Marco non la smetteva di ridere e si nascondeva il
viso per
non vedere oltre i miei comportamenti infantili.
Un’idea,
contorta quasi
quanto il mio ghigno, prese forma nella mia mente e, tornando sui miei
passi,
assalii nuovamente il pennuto e iniziai a lasciargli le impronte delle
mie dita
ovunque, come se stessi giocando con la pittura o la vernice.
«Ace,
piantala!» mi pregó,
tra una risata e l’altra, «Mi fai il
solletico!».
Sogghignando
divertito
continuai imperterrito a passargli le mani addosso e, quando la
sostanza si esaurì,
ne presi altra, vendicandomi nel migliore dei modi e facendo ridere
Marco fino
alle lacrime, fino a che non decisi che, per
quella mattina, ne aveva avuto abbastanza.
«Tu
sei…» iniziò a dire
col fiatone, respirando profondamente e cercando di calmarsi mentre mi
sdraiavo
accanto a lui, soddisfatto e gongolante, nonché
impasticciato fino al midollo, «Sei
un pazzo, Ace».
Sdraiati
a terra così
vicini e con i respiri che si fondevano, tutto ciò mi
ricordò la notte passata,
riportandomi alla mente quanto mi ero sentito bene e come fossi felice
in quel
momento. Tutto ciò, però, trascinò a
galla anche un altro problema, ovvero il
fatto di non avere alcuna certezza. E se quella volta fosse stata la
prima e l’ultima?
Non ero sicuro di desiderare la fine, anzi, avrei vissuto altri
risvegli come
quello se fosse servito a mantenere ciò che avevamo
costruito.
«Così
avrai un bel
ricordo ogni volta che ci penserai» dissi, senza volerlo
realmente. A quelle
parole lo vidi corrugare la fronte e puntellarsi su un gomito per
alzarsi un po’
e guardarmi dritto negli occhi.
«Che
vuoi dire?»
chiese, mentre io mi mordevo un labbro per l’indecisione di
continuare o meno.
«Beh,
ecco, insomma, se
non dovesse più accadere io… Io lo capirei, lo
sai». Non mi stavo spiegando bene,
ma temevo che se fossi sceso nei particolari avrei iniziato a sentirmi
male e a
deprimermi. Nello stomaco provavo già la famigliare angoscia
che annunciava la
tristezza. O forse era solamente fame?
Mi sentii
abbracciare
all’improvviso, stretto tra le sue braccia e ritrovandomi con
il volto tra le
sue mani, i nasi vicinissimi e le labbra che si sfioravano.
«Razza
di idiota, come
potrebbe anche solo passarti per la testa una cosa del
genere!» sussurrò,
guardandomi intensamente.
«Oh,
beh» mormorai,
accennando ad un sorriso, «Fantastico».
Poi mi
baciò, facendomi
sentire come se avessi trovato il mio giusto posto nel mondo, come mi
capitava
quando ero con lui e solo lui ne era capace. Ero così fuori
di me dalla gioia
che ero certo di poter essere in grado di fare l’impossibile.
Di
felicità si può morire?
Trovai il tempo di pensare tra un bacio e l’altro.
Ad un
tratto uno strano
rumore, come qualcosa che si strappava o una specie di scatto, forse la
porta o
qualcosa che cadeva, attirò la mia attenzione, quella di
Marco compresa, il
quale mi guardò dubbioso, interrogandosi lui stesso sulla
fonte di ciò. La domanda
che passò per la sua mente era la stessa che mi stavo
ponendo io: cos’era
stato?
«Mio
Dio, come avete
ridotto questo posto?».
L’espressione
del
biondo si fece di ghiaccio, mentre io mi sentivo morire nel riconoscere
il
proprietario di quella voce, voltando la testa verso
l’ingresso della cucina e
percorrendo l’intera figura che stava appoggiata allo stipite
della porta con
una faccia allibita, rischiando di far cadere il cellulare che teneva
stretto
nella mano alzata a mezz’aria verso di noi.
No,
non può essere…
«Thatch
esci di qui
immediatamente!». Marco balzò in piedi nello
stesso istante in cui suo fratello
scoppiò a ridere, accucciandosi a terra e battendo un pugno
sul pavimento,
tentando invano di formulare una frase di senso compiuto, ma con scarsi
risultati.
«Alzati
e vattene,
razza di incivile!» inveiva nel frattempo l’altro,
mentre io ero troppo
imbarazzato per pensare anche solo di fare qualcosa. Per quanto ne
sapevo,
eravamo fottuti dato che quel ficcanaso ci aveva scoperti. Dovevo
prepararmi
una scusa plausibile per quando Rufy sarebbe venuto da me a chiedere
spiegazioni. Perché, ne ero certo, l’avrebbe fatto.
«Incivile?
Io? Ma vi
siete visti?» continuava a dire Thatch, «Avete
fatto la maratona del sesso a
quanto vedo. Ehi, Ace, allora, come é andata? Non
preoccuparti se era un po’ arrugginito,
presto si rimett…».
«Fuori!».
Persi di
vista Thatch
quando Marco lo trascinò via dalla stanza, ma colsi
perfettamente le sue parole
prima che lo sbattesse fuori dall’appartamento, chiudendo a
chiave e
raggiungendomi poco dopo con l’aria di chi si è
appena risvegliato da un
incubo. Quel brutto sogno, però, ci avrebbe sicuramente
perseguitati anche
nella vita reale.
Restammo
in silenzio per
qualche minuto, io seduto per terra e lui con le braccia appoggiate al
ripiano
del tavolo, con lo sguardo perso nel vuoto. Quando trovammo il coraggio
di
guardarci e affrontare la cosa, decisi che non mi sarei fatto rovinare
il
risveglio per nulla al mondo. Dopotutto, Thatch l’avrebbe
scoperto in ogni caso
e le sue battute non me le avrebbe tolte nessuno, quindi tanto valeva
lasciar
perdere la questione subito.
«Doccia?»
proposi,
sorridendo allegramente e contagiando anche il pennuto infarinato.
«Andiamo,
così ti
mostro la casa» e, aspettando che lo raggiungessi, mi prese
per mano e finì di
farmi fare il giro turistico che avevamo iniziato, ma mai concluso, la
sera
prima.
*Special*
Ridacchiando
tra me e
me senza smettere nemmeno per un secondo, scesi ad aprire la
caffetteria,
prevedendo che i due piccioncini ci avrebbero messo parecchio prima di
presentarsi in pubblico. Non mancai, però, di scorrere
l’album fotografico sul
mio telefono, trovando la foto che sarebbe finita in un quadro
all’ingresso
della grande e accogliente casa del babbo dove tutti avrebbero potuto
vederla. Quei
due erano stati talmente impegnati nei loro affari da non accorgersi
che ero
entrato in casa. Eppure mi ero addirittura annunciato, o forse me ne
ero
dimenticato dato che ero al telefono con Izou? In ogni caso avrebbero
potuto
prestare più attenzione e fare meno casino.
Meglio
così, almeno non potranno incolparmi,
pensai sorridendo, selezionando l’immagine scattata pochi
minuti prima che
ritraeva Marco e Ace stretti in un abbraccio fottutamente dolce e al
cioccolato, con aggiunta di marmellata e, cos’era quella
roba? Farina?
Gesù,
quei due sono degli animali.
Composi
di fretta un
messaggio e aspettai la risposta che arrivò dopo qualche
minuto, giusto dopo
che ebbi servito i primi due clienti venuti a farmi visita per la
colazione.
Da:
Izou.
(8.45).
Non
posso crederci. Porn
Food?
Scoppiai
a ridere,
incurante di attirare l’attenzione e rispondendo
immediatamente all’umorismo di
quel ragazzo.
A:
Izou.
(8.45).
Si!
Avvisa gli altri Dolcezza, questa andrà nel prossimo
cartellone per il
compleanno del pennuto ;)
Da:
Izou.
(8.47).
Posso
inoltrarla al babbo?
Ci pensai
qualche
istante, riflettendo sul fatto che Ace ancora non conosceva il vecchio
Newgate.
Pazienza, presto sarebbe entrato a far parte della famiglia e tutti i
suoi
sporchi segreti sarebbero stati svelati al resto del mondo, quindi non
c’era
motivo di farsi troppi problemi.
A:
Izou.
(8.53).
SOPRATTUTTO
A LUI ;)
*
*Avviso
di servizio: i
capitoli, da ora in poi, saranno lunghi o corti a seconda del mio
umore. Nella buona
e nella cattiva sorte, ve li sorbirete tutti. Amen.*
Salve
gente, parto
subito col dire che probabilmente la mia immaginazione vola troppo
alto, ma non
posso farci niente e che spero di non aver reso quella sottospecie di
battaglia
troppo campata per aria. Insomma, a mia discolpa posso dire che i due
si
trovavano nella cucina di uno che, per mestiere, si trova spesso a
cucinare,
quindi deduco che sia normale avere una dispensa abbastanza capiente e
ben
fornita, per il resto ho cercato di inserire cibi facili da trovare e,
diciamo,
scontati. Il cartone del latte, almeno quello che prendo io, quando si
taglia
un angolino del contenitore, basta poco per schiacciarlo e farlo
uscire, quindi
ho pensato che con la giusta forza potesse fare l’effetto canna dell’acqua, LOL. Poi,
sentite, vedete voi, i miracoli non li
posso fare, magari!
E poi
Marco che fa gli
occhioni dolci solo per passare al contrattacco, ma quanto è
malefico? ^^ e
Ace, ovviamente, ci casca come un pero, ma capiamolo, è
innamorato **
Ben
arrivato Thatch, mi
stavo chiedendo cosa stessi aspettando ;D il nostro caro e adorato
ragazzo
stava chiacchierando con Izou quando è entrato. Nel
ritrovarsi davanti uno
spettacolo del genere è rimasto a bocca aperta e, chiudendo
al volo la
chiamata, ha pensato bene di scattare una foto, ecco cos’era
il rumore che i
due hanno sentito. Malefico, malefico anche lui che poi si scambia i
messaggini
con Izou, awww, credo che potrei accoppiare quei due se vado avanti
così **
Anyway,
guys, spero di
avervi fatti sorridere e presto, I promise, risponderò alle
recensioni che
gentilmente lasciate. Davvero, non so più come ringraziarvi.
Grazie,
come sempre,
anche ai nuovi e ai vecchi lettori.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 43 *** Capitolo 43. Quel quadro in entrata. ***
Capitolo 43. Quel
quadro in entrata.
I cancelli
dell’enorme
villa, situata appena fuori dalla periferia di Sabaody, si aprirono
cigolando
con la solita lentezza e imponenza, dandomi il tempo di fare un respiro
profondo prima di ripartire e percorrere il vialetto in ghiaia fino a
raggiungere l’edificio a una decina di metri di distanza,
circondato da ettari
di prati e boschi. Lontani dal mondo, lontani dal caos, un luogo dove
nessuno
avrebbe mai puntato il dito e dove ero cresciuto pacato, posato e
libero di
essere me stesso.
Scesi
dall’auto con
calma, senza fretta, e preparandomi mentalmente a dover sperare una
serata
infernale in compagnia della mia numerosa e fastidiosa famiglia.
Quell’invito
fatto all’ultimo minuto non mi aveva convinto per niente ed
ero certo che ci
fosse qualcosa sotto dato che, conoscendo bene i miei fratelli, per
organizzare
feste da urlo si prendevano un anticipo di mesi e mesi
affinché tutti
partecipassero e non ci fossero problemi.
Salii la
scalinata in
marmo che portava all’ingresso e suonai il campanello, per
nulla rincuorato da
tutta quella tranquillità che mi circondava. Di solito,
quando arrivavo, tutti
correvano fuori casa per saltarmi addosso e buttarmi a terra,
abbracciandomi e,
beh, importunandomi come dei perfetti maniaci. Sul serio, a volte mi
chiedevo
se fosse giusto condividere certe cose con i famigliari.
Quella
sera nessuno
venne a darmi il benvenuto e l’enorme portone fu aperto da
uno dei maggiordomi,
il quale, sorridendomi in modo gentile e ignorando la mia espressione
apatica,
mi invitò ad entrare, avvisandomi che mi stavano tutti
aspettando in salotto.
Questo
non è un bene,
pensai, sentendomi improvvisamente nervoso e teso. Conoscendoli
potrebbero benissimo tendermi un agguato, ne sono certo.
Qui c’è lo zampino di Thatch.
Percorrendo
il
corridoio d’entrata gettai lo sguardo sui quadri e sulle
fotografie appese alle
pareti e mi lasciai scappare una serie di sorrisi nel riconoscere e
ricordare
le varie situazioni rappresentate. In una c’era Haruta da
piccola, quando aveva
più o meno cinque anni, con un vestitino pieno di pizzi e
stoffa che la faceva
sembrare una specie di bambolina nonostante il broncio. Inutile dire
che quel
vestito era stato stracciato in mille pezzi. Poi c’era Vista
con un fioretto
d’epoca vinto ad un’asta. Lo teneva esposto in
camera sua come una reliquia.
Izou, invece, non perdeva l’occasione per mettersi in posa e
deliziare tutti
con il suo sorriso. Tra tutti era il più fotogenico. Poi
c’ero io, ritratto in
una piccola cornice appoggiata su un soprammobile. Ero da poco stato
adottato
da loro e me ne stavo seduto su una seggiola a fissare chi mi stava
fotografando. Era stato il babbo a immortalarmi e i miei occhi erano
pieni di
stupore e speranze, grandi e curiosi per quel personaggio sconosciuto.
Avevo
quasi raggiunto
il grande salone dove da piccoli giocavamo a paint
ball,
quando qualcosa che non
c’era, perciò era strano,
attirò la mia attenzione. Accanto alla porta chiusa
c’era sempre stato appeso
un quadro raffigurante un paesaggio al tramonto e, in quel momento, il
suddetto
era stato per qualche ragione rimosso.
Forse
l’hanno distrutto, riflettei,
pensando che non era poi così fuori dal comune rovinare
l’arredamento della
casa. Dopotutto, ci vivevano elementi senza precedenti e per niente
attenti a
ciò che li circondava.
Feci un
altro respiro
profondo, l’ennesimo della giornata, e abbassai la maniglia,
entrando nella
stanza che sarebbe stata testimone della mia fine e della perdita della
mia
ragione e sanità mentale. Infatti, ad attendermi,
c’era tutta, nessuno escluso,
la mia famiglia, con tanto di babbo seduto sulla sua poltrona,
più simile ad un
trono che ad altro, circondato dai miei fratelli che, sghignazzanti e
con
sorrisi da un orecchio all’altro, si voltarono verso di me,
salutandomi con
delle voci cantilenanti che non mi piacquero affatto.
«Ciao
Marco!».
«Ehi,
testa d’ananas,
finalmente!».
«Pennuto!
Ti trovo
bene».
«Non hai nulla da raccontarci, fratellino?».
Thatch, con il minimo tatto
di cui era capace, mi venne incontro tutto allegro e spensierato,
passandomi un
braccio attorno alle spalle e tirandomi a sé per
scompigliarmi i capelli come
faceva spesso quando eravamo piccoli. Alzando gli occhi al cielo mi
liberai
dalla sua presa ferrea con facilità, ghignando soddisfatto
quando lessi il
disappunto sul suo sguardo. In passato difficilmente mi liberavo di lui
quando
decideva di mettermi le sue manacce addosso, ma avevo imparato come
fare e,
ogni volta che lo allontanavo, rimaneva di stucco. Poco importava che
la volta
dopo mi aggredisse peggio di un animale feroce.
Mi
sistemai il colletto
della camicia, preparandomi ad una lunga e asfissiante serata dove, se
avevo
capito bene la situazione, avrei dovuto rispondere ad una montagna di
domande.
Di certo Thatch non aveva tenuto chiusa quella sua boccaccia e aveva
spifferato
se non a tutti, almeno a metà dei famigliari cosa
aveva visto con i suoi occhi quella mattina. Per la
precisione, non aveva assistito a niente di male, insomma, stavo solo
baciando
Ace. Sul pavimento. Imbrattati di schifezze dalla punta dei capelli
alla punta dei
piedi. Forse tutto ciò era un po’ ambiguo, ma a
mia discolpa potevo dire che
eravamo entrambi vestiti. Anche se non tanto, ma le parti
più critiche erano
coperte, dannazione.
«Non
essere così
scontroso, ti abbiamo fatto un regalo» sorrise entusiasta,
battendo le mani e
scambiandosi occhiate complici con gli altri, «Non
è vero, ragazzi?».
«Non
è il mio
compleanno» mi premurai di fargli notare.
«Quante
storie!».
«Serve
un pretesto per
adorare il nostro pollo preferito?».
«Lasciate
che saluti il
mio caro figliolo, prima» fece una voce profonda e tonante
che sovrastò le
altre. Ringraziai il Cielo per il fatto che almeno non tutti erano dei
pazzi
sadici e approfittatori. Il babbo, ad esempio, cercava sempre di non
esagerare,
anche se non perdeva occasione per farsi una grassa risata a spese
altrui.
Così, senza farmelo ripetere due volte, lo raggiunsi e mi
lasciai stritolare
dal suo braccio possente che mi fece schioccare la schiena e stringere
i denti.
Altro che debole di cuore, quel vecchio era un colosso indistruttibile.
«Allora
Marco, come va
il lavoro?» mi domandò sorridente, lisciandosi i
baffi candidi e ben curati.
«Tutto
bene papà, come
sempre».
«Questo
mi fa molto,
molto piacere. Bravo».
Non lo
davo a vedere e
mantenevo sempre un certo comportamento di rispetto e contegno quando
ero al
suo cospetto, ma ogni volta che apprezzava il mio operato mi sentivo
riempire
dalla gioia. Ero così contento di essere suo figlio,
così fiero della mia
famiglia che mi ero sempre impegnato per dare il meglio di me e
renderli fieri,
tutti. E avrei continuato a farlo per ripagarli di tutto
l’affetto che mi
dimostravano. Erano una parte importante della mia vita, una costante
e, ora
che ne faceva parte anche Ace, potevo ritenermi la persona
più felice sulla
terra.
«E
ora dimmi» aggiunse
poi, assumendo un’aria maliziosa troppo simile a quella di
Thatch. Dio, sperai
che quell’impiastro non avesse contagiato persino lui, o
peggio, che l’avesse
messo al corrente di quella cosa,
«Ci
sono novità?».
Sudai
freddo e faticai
a mantenere una facciata calma e indifferente davanti a quelle
insinuazioni. Se
mi fossi trovato davanti uno qualsiasi dei miei fratelli avrei smentito
tutto,
ma con il vecchio Barbabianca le cose si complicavano parecchio.
«Niente
di importante»
mormorai, abbassando per un istante lo sguardo e dandogli modo di
leggere al
volo la menzogna nelle mie parole, infatti scoppiò in una
fragorosa risata poco
dopo, contagiando il resto dei presenti che si unirono a lui,
muovendosi
irrequieti attorno al grande tavolo in legno di noce situato alle
spalle della
seduta del babbo. Sembravano stare nascondendo qualcosa.
«Avanti
Marco, adesso
puoi anche dircelo» si fece sentire Haruta, saltellandomi
accanto e
punzecchiandomi con delle gomitate sul fianco, ammiccando complice.
«Si,
appunto. Thatch
non ci ha spiegato proprio tutto»
chiarì qualcun altro.
A sentire
quelle parole
lanciai un’occhiata truce in direzione del castano che,
sorridendomi come se
niente fosse, si grattava la testa imbarazzato, iniziando a campare
scuse per
aria sulla sua disattenzione e lingua lunga.
«Sai
com’è, parlando del
più e del meno mi è scappato e, beh,
ecco…».
Mi passai
una mano
sugli occhi, sospirando esasperato e pregando che stesse zitto prima di
continuare oltre perché, ne ero certo, avrei potuto perdere
la pazienza.
«Sto
aspettando,
figliolo».
«Dai,
come si chiama?».
«Ehi,
allora, chi è
questo?». Vista fu il più furbo ed esecutivo di
tutti perché, senza troppi giri
di parole, mi piazzò davanti alla faccia un quadro
raffigurante una scena
troppo famigliare dove era ritratta una persona che loro non avrebbero
dovuto
conoscere affatto.
Boccheggiai
per
interminabili istanti, osservando l’immagine e chiedendomi
come diavolo l’avessero
ottenuta. Avevano piazzato telecamere in casa mia, per caso?
Perché, per quale
assurdo motivo, erano in possesso di una foto mia e di Ace che ci
ritraeva
stretti in un caldo abbraccio mentre mi premuravo di fargli capire
quanto lui fosse
importante per me con un bacio?
Un
fulmine mi colpì a
ciel sereno e ricordai di come Thatch si era presentato a casa mia
armato di
cellulare e occhi fuori dalle orbite. Collegai il tutto e mi sentii
scorrere
nelle vene una voglia di vendetta, nonché il forte desiderio
di spaccargli la
faccia.
«Sembrate
molto, ehm,
intimi?» azzardò Jaws, mordendosi imbarazzato un
labbro.
Strinsi i
pugni lungo i
fianchi e, con lentezza esasperante, mi voltai verso Thatch, zittendo
la sua
risata isterica e freddandolo con lo sguardo. Sembrò capire
che quella volta
aveva superato il limite ed iniziò a indietreggiare,
spiegandomi che non era
stata colpa sua e tirando in ballo Izou e Vista.
«Ehi,
chiudi il becco!»
si infervorò Izou, incrociando le braccia al petto
indispettito. Non c’era
bisogno che chiarisse nulla, sapevo che la mente malvagia era quella di
Thatch
e non avrei perso tempo a sgridare i suoi complici. Avrebbe avuto una
lezione
esemplare, poco ma sicuro.
«Sembra
un giovincello
che sa il fatto suo. Come si chiama, figliolo?».
Se non
fosse stato per
il babbo non mi sarei di certo fermato, ma lui era più
importante della mia
rabbia, perciò sospirai e, dopo un ultimo sguardo carico di
minacce che
prometteva future e orribili torture al povero ragazzo impiccione, mi
rivolsi a
lui leggermente imbarazzato.
«Si
chiama Ace, papà»
borbottai, infastidito dai ragazzi che si ammassarono attorno a me per
non
perdersi nemmeno una sillaba del mio discorso in cui ammettevo che si,
c’erano
novità in quella che avrebbe dovuto essere la mia vita privata.
«E
quanti anni ha?».
«Da
quanto vi
frequentate?».
«Dì
un po’, a letto
com’è?». Izou, senza troppi scrupoli,
pensò bene di uscirsene con una delle sue
sparate, beccandosi un’occhiataccia dal babbo e assumendo di
conseguenza
un’espressione innocente, chiedendo cosa avesse detto di
così sbagliato.
«Deve
essere una bomba,
avreste dovuto vedere le condizioni della casa!» si intromise
Thatch,
afferrando il quadro e portandoselo appresso fuori dal salone. Poco
dopo il
rumore di un chiodo battuto al muro si fece sentire chiaro e tondo,
facendomi
capire come mai all’entrata mancasse un dipinto.
L’avevano tolto per
sostituirlo con quella foto. Pazzi.
«Voglio
conoscerlo al
più presto!» decretò il babbo,
cogliendomi di sorpresa e pronunciando la frase
che avevo temuto fin dall’inizio.
Voleva
conoscere Ace,
voleva che lo portassi lì, in quella gabbia di matti dove
non avrebbe resistito
un attimo. Tutto ciò avrebbe significato la fine della
nostra relazione e se la
sarebbe data a gambe levate, poco ma sicuro.
Provai a
fargli
cambiare idea, tirando in ballo impegni vari, università,
studio, lavoro e
quant’altro, ma fu irremovibile. Voleva conoscere il
ragazzino insolente di cui
aveva tanto sentito parlare. Thatch
non avrebbe visto l’alba del giorno dopo.
«Mi
sembra una giusta
richiesta» stava dicendo intanto con fare bonario,
«Dovrò pur metterlo alla
prova se avete intenzione di sposarvi».
Spalancai
gli occhi e
smisi di respirare.
Che
cosa?
«Oh,
certo, e io farò
da testimone!».
«Non
pensarci nemmeno,
Vista, quel compito è mio!».
«Thatch,
fatti da parte
per una volta».
«A
me basta fare la
damigella» chiarì Izou, stringendosi nelle spalle
e giocherellando con una
ciocca di capelli con la risata del babbo in sottofondo.
Scossi il
capo
rassegnato. Ero nei guai. Grossi e inevitabili guai.
«Quel
quadro in entrata
è proprio un tocco di classe».
*Special*
«Allora,
l’ha vista la
foto?» domandai ansioso, tenendo il telefono tra la spalla e
l’orecchio mentre
pulivo una serie infinita di piatti sporchi. La mia punizione per
essermi fatto
gli affari altrui.
«Non
ancora, dice che
il cellulare si illumina per il messaggio ricevuto, ma non riesce a
leggerlo. Lascia
perdere, non imparerà mai ad usarlo!».
«Stupido
vecchio».
«Thatch,
spiegami una
cosa: ma tu che ci facevi con loro?».
«Una
cosa a tre. Perché,
sei geloso?».
«Idiota,
sai quanto m’importa»
borbottò Izou dall’altro capo e potei immaginarlo
stringersi nelle spalle e
guardare altrove per mascherare i suoi veri pensieri.
«Andiamo,
Dolcezza, lo
sai no?».
«So
cosa?».
«Che
ho occhi solo per
te». Ci fu un momento di silenzio, poi una fragorosa risata
leggermente
isterica.
«Piantala
di provarci
con chiunque» scherzò.
«Con
te? No, mai».
«Hai
perso in partenza»
fece malizioso.
«Lo
vedremo» ghignai.
*
Ebbene
si, eccomi! No,
non sono morta, anzi!
Nooo, non
sono in
ritardo, affatto, in questi giorni mi sono portata avanti. Non
è vero, lo
ammetto, mi sono presa indietro D: ma in compenso questo capitolo
è il più lungo,
LOL. Credo.
Insomma,
vi ho messo in
mezzo Barbabianca&Co, dai,
potete
anche perdonarmi, so che li aspettavate da un pezzo ^^
Oh, ma
che bella
sorpresa hanno fatto al povero Marco, lui e il suo Ace ritratti in una
foto
ingrandita e appesa al muro mentre si baciano, mlmlml **
Posso
farvi notare una
cosa? Posso? Sbaglio, o Marco fa riferimento nientemeno che alla
sua…
RELAZIONE
CON ACE?
Sbaglio?
SBAGLIO?
No, sono
calma, va
bene.
Niente da
fare, adoro
la famiglia al completo e questi ragazzi sono uno più
simpatico dell’altro e
sinceramente non vedo l’ora che Oda li inquadri nuovamente
perché mi mancano e
sono curiosa di sapere come stanno tutti. Soprattutto Marco e,
e… Basta, mi sto
sentendo male. Brutti ricordi.
Anyway,
piaciuto il
capitolo? Si, i giovanotti giocano a paint ball dentro casa. Si, so cos'é paint ball e no, non mi sembra di stare esagerando, visto e considerato chi sono i soggetti! Vi metto anche l’immagine di Marco da piccolo. Non
ho trovato di
meglio, quindi immaginatelo con la stessa espressione rivolta verso
l’obbiettivo,
tutto sorpreso per il suo nuovo papà **
https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/t1/1507626_1456370957915075_945153165_n.jpg
E si,
shippo in modo
vergognoso Thatch e Izou, ma come posso non farlo? Dannazione, sono
così
chbeuwvwh ** la loro conversazione al telefono avviene al mattino, poco
dopo l’accaduto
e, a quanto pare, il loro babbo non riesce a leggere l’mms,
LOL. Ci penseranno
loro quando torneranno a casetta u.u e Thatch che fa il filo a Izou?
Ma, ma…
basta.
Beeene,
qui ho
terminato, prometto che non mi farò attendere oltre
prossimamente e vi chiedo
ancora umilmente perdono ^^
Momento
Pubblicità: ho
iniziato una nuova fic. Un’altra? Ma baaasta!
Lo so, lo so, ma questa
non dovrebbe durare molto e, beh, insomma, ecco, non ditemi parole
perché l’ho
fatta con tanto affetto e
con Ace e
Marco, che arriveranno dal secondo capitolo, e Law, e Kidd, e Penguin e
Kira-chan, muoio **
Si chiama
Chi non muore si rivede,
se vi va
e se avete tempo fateci un salto e fatemi sapere ^^
Je vais,
un abbraccione
grandissimo e grazie a tutti, ai vecchi e ai nuovi lettori.
Restate
sintonizzati,
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 44 *** Capitolo 44. Il mio posto nel mondo. ***
Capitolo 44. Il
mio posto nel mondo.
«Non ci
credo».
«Ti
dico che è vero!»
insistette il moro, accomodandosi meglio sul divano e poggiando in
mento su una
mano, sostenendosi con il gomito e guardandomi con sicurezza.
Quella
sera non dovevo
tenere aperto il locale per nessun motivo particolare e avevo
approfittato di
ciò per invitare Ace a passare da me per stare assieme. Era
dalla mattina precedente
che non avevamo avuto un attimo di pace dopo il nostro movimentato
risveglio. Prima c’era stata quella battaglia
improvvisata con il cibo e avevamo passato poi l’intera
mattinata per pulire,
lasciando a Thatch una montagna di lavoro e tutti i clienti da seguire.
Se
l’era meritato dopo il suo fastidioso e non richiesto
ingresso, ma non ero
ancora abbastanza convinto di perdonarlo, dopotutto, aveva pur sempre
spiattellato tutto alla mia famiglia e appeso quel quadro in bella
vista nella casa
dove viveva nostro padre. Insomma, quell’uomo si sarebbe
fermato a sospirare
con aria sognante davanti a quella foto tutti i giorni conoscendolo e,
non
appena avrebbe visto Ace, perché lo desiderava tanto,
avrebbe dato di matto,
mettendomi in imbarazzo e spaventando il ragazzino. Questo, se volevamo
essere
pignoli, era tutta colpa di Thatch, con lo zampino di Izou e qualcun
altro che
dovevo ancora identificare, ma ero certo che, prima o poi, li avrei
smascherati
tutti e me l’avrebbero pagata cara per quello scherzetto.
«E
tuo nonno come l’ha
presa?» domandai incuriosito, sorseggiando una tazza di
cioccolata e
poggiandola poi con delicatezza sul vassoio adagiato sul tappeto,
accanto a
quella arancione di Ace. Sorrisi nel ricordare che, quando era
arrivato, circa una
mezz’ora prima, aveva insistito per scendere al bar e
recuperarla. Quando poi
gli avevo chiesto perché ci tenesse tanto, aveva eluso la
domanda, borbottando
qualcosa di incompressibile a mezza voce e dandomi le spalle per
ritornare di
sopra con l’oggetto recuperato tra le mani e stretto al petto
come se fosse
stato un piccolo tesoro. Poi ci eravamo rintanati in salotto, la
televisione
accesa in un canale scelto a caso, qualcosa di caldo da bere e gli
occhi
dell’uno fissi in quelli dell’altro, intenti a
seguire i discorsi più strani
che ci venivano in mente.
«Ha
dato di matto!»
sbottò a quel punto, ridacchiando tra sé e
sé, «Ha preso la prima cosa che gli
è capitato a tiro e l’ha lanciata addosso a mio
fratello. Ecco come si è fatto
quella cicatrice sotto l’occhio sinistro».
Rabbrividii
per un
istante, certo che il loro nonno, da come me lo stava descrivendo,
sembrava un
vero e proprio mostro. Non ero certo che fosse del tutto vero, ma non
volevo
dargli motivo di offendersi e forse tutto quell’astio veniva
dalle severe
punizioni che il vecchio era solito infliggergli, da quel che avevo
capito.
«E
tu che hai fatto
dopo?».
Ace
ghignò,
concedendosi un attimo di pausa per ricordare l’episodio,
«Non ci ho più visto»
ammise, «Ho smesso di restarmene in disparte e sono saltato
addosso a mio nonno
urlandogli come un pazzo di lasciare stare il mio fratellino.
Fortunatamente smise
di essere arrabbiato non appena si accorse di averlo ferito, ma non gli
parlai
per più di un mese. Non doveva azzardarsi a toccarlo, nessuno deve permettersi di
farlo».
«Ci
tieni molto a lui,
vero?» gli chiesi, divertito dal modo in cui
arrossì, tentando poi di sminuire
la cosa con frasi del tipo ‘era
piccolo,
dovevo pur aiutarlo’, oppure ‘resta
comunque uno stupido, non dovrebbe cacciarsi nei guai’.
«Certo,
certo, come
preferisci» affermai assecondandolo, ignorando
l’occhiataccia che mi rivolse e
stiracchiandomi un poco, allungando le braccia verso l’alto e
ignorando i lembi
della mia camicia che si sollevarono sui fianchi. A Ace, tutto
ciò, ovviamente,
non sfuggì e dovetti trattenermi dal gongolare quando lo
colsi in flagrante a
scannerizzarmi dalla testa ai piedi. Per rendermi soddisfatto mi
bastava anche
vedere le sue guance imporporarsi oltre ogni immaginazione, come se
stessero
andando a fuoco, tanto erano rosse per l’imbarazzo. Adoravo
vederlo in quello
stato, sembrava come indeciso su cosa fare, come comportarsi e cosa
dire e
spesso, molto spesso, ciò lo mandava completamente in tilt,
rendendomi tutto
più facile e dandomi modo di leggere quello che gli passava
per la testa. Sul
serio, Ace era come un libro aperto e, pensandoci bene,
c’erano alcune cose che
mi premeva sapere, così, per curiosità. Forse
anche per divertirmi un po’ e
metterlo alle strette, non sarebbe stato male e di certo poi mi sarei
fatto
perdonare in modo adeguato.
«Ace,
dimmi una cosa»
iniziai con un’espressione fintamente innocente e curiosa,
«A capodanno mi hai
espressamente detto che io ti piacevo. Mi chiedevo, quindi, quando te
ne fossi
reso conto. Insomma, non me l’avevi dato a intendere e al bar
ti comportavi
come un semplice ragazzo piuttosto socievole, non so se mi
spiego».
Il suo
viso cambiò
diverse tonalità e si nascose le mani in grembo, evitando di
darmi a vedere il
leggero velo di nervosismo che gli era piombato addosso nel sentirsi in
dovere
di dare una risposta tanto personale. Infatti iniziò a
grattarsi la testa con
fare distratto, mordicchiandosi un labbro e guardandosi attorno alla
ricerca di
un qualche appiglio di salvezza.
«Uhm,
ecco, non è che
sia andata proprio in questo modo, insomma,
i-io…». Continuava a torturarsi il
labbro ed ebbi la forte tentazione di alzarmi e raggiungerlo per
intrattenerlo
in un modo diverso e più proficuo se proprio ce
n’era bisogno, ma mi costrinsi
a rimanere fermo, seduto a terra a gambe incrociate, ripetendomi che
l’attesa
sarebbe sicuramente valsa a qualcosa di molto più
gratificante. Come una
confessione in prima regola, per esempio.
«Avanti,
spiegati» lo
incoraggiai, avvicinandomi al divano e poggiando le braccia sui cuscini
in modo
da poterlo guardare negli occhi.
«B-beh,
non ne sono
sicuro, cioè, si, mi piacevi, uh, ovvio. Voglio dire, h-ho
capito che a parlare
con te mi trovavo bene, eri gentile e mi ascoltavi, anche se sembrava
non
interessarti minimamente di quello che ti accadeva intorno.
All’inizio,
sinceramente, mi sembrava di non farti ne caldo ne freddo».
Corrugai
la fronte,
guardandolo interrogativo. Si strinse nelle spalle e abbozzò
un mezzo sorriso, spiegandomi
che le prime volte gli ero parso un po’ distaccato. Certo, lo
ricordavo
benissimo, era perché non lo ritenevo
così interessante, ma mi ero dovuto ricredere
abbastanza in fretta visto il
suo comportamento e il carattere così solare e allegro. Era
difficile non
restarne contagiati.
«Mi
sono imposto di
riuscire a farti sorridere almeno una volta e, beh, quando poi
è successo non
mi è più bastato e ho continuato. Sai che mi
organizzavo con gli orari tutti i
giorni per riuscire a passare a salutarti? Sciocco, vero?». E
sorrise. Sorrise
in quel modo in cui sorrideva lui, così dannatamente sincero
e disarmante, così
semplice, vero, vivo, unico. E lo disse come se il suo comportamento
fosse
stato insensato, esagerato o poco originale. Come se non contasse
nulla. Quello
che non sapeva, invece, era quanto importasse per me, quanto
significasse lui.
«Ace…»
iniziai a dire.
«Oh,
e io odio le
poesie. Sul serio, non le sopporto, ma se fingevo di interessarmi
almeno potevo
passare due ore standoti accanto e, e-ecco, tu sembravi contento ed io,
n-non
lo so, non volevo altro che passare il tempo con te, i-io…
Ah, sto facendo un
casino» mormorò, nascondendosi il viso tra le mani
e infossandosi sul divano
tra i cuscini. «Quello che voglio dire è
che… Che mi piaci davvero, davvero
tanto, Marco».
Rimasi
senza parole e
con la mente svuotata di qualsiasi pensiero. Aveva detto che gli
piacevo, tanto
anche. Come ci si comportava esattamente in quei casi? Quali erano le
parole
migliori da usare? Era normale sentirsi tutti scombussolati, con il
cuore a
mille e la gola secca? E la sensazione di benessere, mista a
felicità che
sentivo scorrermi nelle vene era un bene? Si provavano sul serio tutte
queste
sensazioni in un solo istante e dopo un discorso del genere? E quel
peso all’altezza
del petto cosa significava? Non mi faceva male, anzi, era piacevole, mi
riscaldava e avevo la vaga certezza che da quel giorno in poi non sarei
più
stato solo. Forse avevo trovato il mio posto nel mondo e, accanto a me,
ci
sarebbe stato Ace.
Ace, solo
lui e quel
fuoco e quella luce che emanava costantemente.
«Ti
prego, dì qualcosa,
mi sto sentendo un idiota» bofonchiò con la testa
nascosta tra le ginocchia. Si
era tirato a sedere e si muoveva leggermente avanti e indietro con la
schiena
per la tensione che stava provando in quell’attesa. Mi resi
conto che, in
effetti, non avevo ancora trovato una risposta da dargli tanto ero
rimasto
sorpreso.
Aprii la
bocca per dire
qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. Non sapevo come
iniziare o cosa dire per
farmi capire, per fargli capire
cosa
stessi provando in quel momento. Era tutto così nuovo e
così bello che ero
rimasto per la prima volta in vita mia spiazzato e senza qualcosa da
ribattere.
Quando mi fu chiaro che se avessi continuato in quel modo non avrei
ricavato
nulla, feci l’unica cosa sensata e giusta che andava fatta:
mi alzai da terra e
gli feci sollevare il viso, prendendolo tra le mani e carezzandogli
leggermente
le guance in un gesto che avevo sempre desiderato fare e che da poco
avevo
avuto la fortuna di poter provare.
«Appunto,
sei proprio
un idiota» sussurrai prima di posargli un casto bacio a fior
di labbra,
sentendolo sorridere.
«Poco
romantico da
parte tua» mi fece notare con una punta di ironia nella voce.
«Abbiamo
tutta la notte
per il romanticismo, ti va?» proposi, accomodandomi meglio su
di lui in modo da
non pesargli troppo e iniziando a lasciargli una scia di baci lungo il
collo,
spostando il colletto della maglia. Non ero mai stato bravo con le
parole, ma
potevo rimediare dimostrandogli ciò che provavo nei suoi
confronti. Pensandoci
bene era anche più divertente e significativo.
«S-se
proprio insisti»
rispose, ma sapevamo benissimo entrambi che quello era esattamente
ciò che
volevamo.
*Special*
«Potremo
provarci
almeno, magari funziona».
«No».
«Avanti,
perché no?
Cosa c’è di sbagliato, hai paura? Non ti
fidi?».
«Thatch,
ti ho detto di
no, non voglio e non accadrà mai».
«Izou,
ti prego, io ci
tengo tanto a…».
«Thatch» un’occhiata
gelida, «Non ti aiuterò ad intrufolarti in
camera del babbo per combinarne una delle tue, punto».
Mi
imbronciai, «Guasta
feste».
«Cresci
un po’».
«E
nella tua stanza
posso imbucarmi, Dolcezza?».
Uno
sbuffo esasperato
fu la risposta, seguita come di consuetudine da una gomitata dritta
alle
costole.
«Un
giorno mi stancherò
di venire maltrattato e allora…».
«Allora
mi sarò
finalmente liberato di te!».
«…
Allora non avrai più
scampo» precisai ghignando.
*
Buongiorno
^^
Waaaaa,
non so cosa
dire, ma faccio comunque tanti auguri di Buon San Valentino a tutti ^^
per l’occasione
mi sono lasciata andare a qualcosa di diabetico, tipo una piccola
confessione
di Ace che sparge cuoricini ovunque, mentre Marco non sa cosa dire e
passa
all’azione. Bravo, più Amore nel mondo, grazie **
Allora,
cosa farete di
bello oggi con i vostri ragazzi, morosi, uomini, quello che volete? Mi
raccomando, tante coccole che ci stanno sempre bene e PRETENDETE
regali,
cioccolatini e fiori! Io mi sono fatta furba e otterrò,
perché si, io VOGLIO,
un’altra action figure di OP. Il punto è che non
so cosa arriverà stavolta. Io
spero Marco, così Ace non sarà più da
solo, ma potrebbe essere chiunque! Fate
come me, approfittate delle feste per farvi regalare ‘ste
cose!
Ora
passiamo a chi è
FELICEMENTE Single. No gente, il mio non è sarcasmo,
davvero, e potessi fare
come voi e uscire ad ubriacarmi! Serate felici e senza pensieri!
Momento
Pubblicità: domani
arriva un altro capitolo de ‘Il
sentimento è reciproco’, restate
sintonizzati u.u
Beh, ad
ogni modo un
abbraccione a tutti e tanto AmmmorrreH
**
See ya,
Ace.
P.S:
San Valentino è alle porte. Chiudiamole!
|
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Capitolo 45 *** Capitolo 45. Una fottuta maglia. ***
Capitolo 45. Una
fottuta maglia.
«Non
mi piace».
Era
l’ennesima volta
che glielo dicevo, ma sembrava non voler capire, ignorandomi,
sorridendo appena
e continuando a pulire quel bancone che, porca
vacca!, era ormai lucido come uno specchio.
Perché
non si decidesse
a fare un salto nel suo appartamento, ovvero esattamente al piano di
sopra e
non dall’altra parte della città, per cambiarsi e
sostituire quell’obbrobrio di
maglia che indossava con una più decente e accettabile
proprio non lo capivo. E
la cosa, per quanto assurda, mi stava mandando in bestia.
«Sul
serio, ti sta
malissimo» ripetei imbronciato, sbuffando appena e poggiando
il mento su una
mano, cambiando posizione e accomodandomi meglio sullo sgabello di
fronte a
lui. Quella mattina il bar era tranquillo, Thatch a parte rintanato in
cucina,
e ogni volta che capitava un momento di quiete approfittavo per
ritornare alle
origini, prendendo posto nel mio solito angolino e osservando Marco
improvvisare
qualcosa al di là del banco. Nonostante ci fossimo
avvicinati, a entrambi
piaceva continuare quella routine di barista e ragazzo della pioggia,
come ero
stato nominato.
«Lo
so, me l’hai già
detto» mi fece notare sarcastico, lanciandomi di sfuggita
un’occhiata
canzonatoria, ma continuando comunque con il suo lavoro.
«E
non pensi che sia il
caso di andarti a cambiare?» gli proposi, incapace di
trattenermi oltre. Certo
che era proprio cocciuto quando voleva.
Si
strinse nelle
spalle, sporgendo il labbro inferiore in un’espressione
menefreghista. «No, per
niente».
Mi
infervorai, battendo
con malcelata violenza i palmi delle mani sul ripiano e interrompendo
quel suo
continuo lucidare, facendolo sussultare e corrugare la fronte con aria
interrogativa e stupita. Ero incazzato e se la sarebbe vista con me.
«Marco,
stai indossando
una fottuta maglia, gialla per giunta, con la stampa di una cazzo di
ananas con
degli insulsi occhiali da sole rosa! Ti rendi almeno conto di
ciò?».
Il
pennuto, sbattendo
le palpebre per un paio di volte, spostò lo sguardo sulla
sua maglietta, poi su
di me, poi di nuovo sull’indumento, finendo per sbuffare nel
tentativo di
trattenere una risata divertita. Che faceva, mi prendeva pure per il
culo?
«Ace,
non cambierò
questa maglia, mettitelo in testa» dichiarò,
sorridendo tranquillamente e
muovendosi per riprendere in mano quel maledetto
canovaccio.
Rosso di
rabbia lo
afferrai prima di lui, lanciandolo dall’altra parte del
locale in un moto di
stizza e incrociando le braccia al petto come un moccioso. Tutto
ciò era
assurdo, lui era assurdo. Lui e
quella stupida t-shirt che aveva addosso e che lo faceva sembrare
ridicolo
oltre ogni dire. Che diavolo, va bene che a me piaceva tutto di lui,
pettinatura discutibile e improponibile compresa, ma non poteva
pretendere che
accettassi di vederlo portare un indumento così chiaramente
diretto a
sfotterlo. Tutto aveva un limite di sopportazione e in quel momento la
cosa lo
stava superando un po’ troppo.
«Si
può sapere perché
ti da così fastidio?» chiese allora, mantenendo un
tono gentile e paziente.
Ecco, lo
odiavo quando
faceva così. Io lo aggredivo e lo sgridavo e lui che faceva?
Niente, mi
assecondava e non perdeva mai le staffe, facendomi automaticamente
passare
dalla parte del torto. Maledetto il suo carattere d’oro!
Avevo
mille motivi per
non farmi piacere quella maglia, il primo tra tutti era la taglia: non
gli
aderiva bene al corpo e mi privava della mia bella visuale sul suo
fisico da
statua greca. Da una parte era un bene perché mi evitava di
andare spesso fuori
di testa o in iperventilazione, ma dall’altra mi innervosiva
parecchio.
Il
secondo era perché
lo faceva passare per un poveraccio e il terzo, non meno importante,
era per
via di Thatch, il quale, ogni volta che posava lo sguardo su un qualche
frutto,
anche se solo disegnato, non perdeva tempo nel far riferimenti allo
spettacolo
culinario a cui aveva assistito. Inutile dire che era meglio non
parlare di Natura Morta con lui.
«Se
devo essere sincero»
iniziai a dire, «Mi fa semplicemente schifo» ammisi
schietto.
«Non
è un buon motivo»
sentenziò con sorriso.
Digrignai
i enti,
passandomi una mano tra i capelli con nervosismo, «Insomma,
capiscilo! E’
orribile e non sei per niente attraente!».
Ecco,
l’avevo detto,
ero stato offensivo e maleducato, neanche con Rufy mi comportavo
così male e il
mio fratellino non era certo l’icona della decenza.
Mi
guardò in silenzio,
sondandomi attentamente e senza dare cenno di voler rispondere. Che
idiota, che
stupido idiota ero stato!
«Scusami,
non volevo
offenderti, dicevo solo che con questa roba
addosso, ecco, non sei attraente, non ti dona» borbottai a
testa bassa,
cercando di rimediare al mio errore.
«Perché,
gli altri
giorni lo sono?» mi sentii domandare invece, ritrovandomi ad
alzare il capo e
scoprendo il viso di Marco a pochi centimetri dal mio. Che infarto!
«S-sei
cosa?» balbettai
come un cretino, sapendo benissimo dove voleva andare a parare, ma
deciso a
cambiare discorso per non ammettere troppe verità.
«Attraente».
No, no,
non poteva
sussurrare le parole in quel modo,
con le labbra così
vicine alle mie e
pretendere che me ne rimanessi con le mani in mano a guardarlo senza
fare
nulla. Era impossibile.
Bastardo,
l’aveva fatto
apposta. Lo odiavo, lo odiavo quando faceva così.
Le mie
dita erano già
corse ad artigliargli il colletto dell’odiosa maglia per
attirarlo ancora più
vicino, mentre io lo baciavo subito dopo con passione e tanto, tanto
desiderio.
«Ace»
mugugnò contro la
mia bocca, «I clienti».
«Chi
se ne frega!».
Se
qualcuno fosse
entrato non si sarebbe di certo scandalizzato per così poco.
Erano tempi moderni,
accidenti!
Infatti
avevo visto
giusto, nessuno si scandalizzò, soprattutto un ragazzo che
uscì in quel momento
dalla cucina, interrompendo il suo blaterare e rimanendo di stucco
quando,
senza curarmi dei vani tentativi di Marco di sciogliere il contatto, gli
avvolsi
le braccia attorno al collo, avvicinandomi ulteriormente a lui, per
quanto il
bancone tra noi potesse permettermelo.
Sentivo
Marco
sorridere, nonostante tutto, per la piega della situazione e per il mio
coraggio. Al diavolo anche Thatch, ormai con un chiacchierone come lui
eravamo
già fottuti, pettegolezzo più, pettegolezzo meno,
non c’era differenza.
«Ehm,
va bene, cioè, io
sarei qui» fece in imbarazzo. Ma come, non era lui quello che
voleva restare
sempre a guardare?
«Ragazzi,
ho capito che
siete conigli in calore, ma se non volete che mi unisca a voi fareste
meglio a
smettere. Ora».
Nell’udire
la sua
velata minaccia liberai Marco dalla mia presa e mi godetti la sua
espressione
per niente turbata, ma soddisfatta, scoccando poi a Thatch un
sorrisetto
malizioso che spesso gli avevo visto fare.
«Ammettilo
Thatch, sei
un po’ geloso, neh?».
Il
ragazzo rimase a
fissarmi per interminabili secondi, decidendo se fosse il caso di
complimentarsi
con se stesso per avermi insegnato bene ad essere come lui o se fosse
meglio mettersi
a piangere, mentre il suo caro fratello riprese a fare quello che aveva
interrotto. Spolverare il bancone.
«Lo
sai, ragazzino, a
dir la verità un po’ si» ammise, ma
frenando subito dopo il mio ghigno
vittorioso, facendomi sbiancare, «Ultimamente sono passato in
secondo piano,
visto che a casa non si parla d’altro che di Marco e del suo ragazzo» calcò
bene le ultime parole per poi scoccare il colpo
di grazia, «Ma sono tutti interessati alla cosa, soprattutto
il nostro babbo. Lui
si che adora sentir parlare delle
vostre performance».
Detto
questo, mi diede
le spalle con un ghigno vittorioso e sadico e se ne tornò da
dove era venuto,
mentre Marco sembrava non aver sentito nulla e continuava indaffarato e
tranquillo il suo lavoro.
«Dimmi
che stava
scherzando» sussurrai, sentendomi male.
«E
non hai ancora visto
nulla» dichiarò, più a se stesso che a
me.
«C-che
vuoi d-dire?» mi
allarmai.
«Niente,
stai
tranquillo» mi assicurò, regalandomi un dolce
sorriso e scompigliandomi i
capelli. «Al babbo piacerai molto».
*Special*
A:
Izou.
(10.50).
http://data2.whicdn.com/images/40270585/large.jpg
Guarda che carini :)
Da:
Izou.
(10.54).
Ho
appena avuto un attacco di diabete. Haruta sta saltando per la stanza,
tra poco
vomiterà arcobaleni, ne sono certo.
A:
Izou.
(10.55).
Mi
chiedo se al loro posto ci fossimo noi due. Immagina le facce degli
altri!
Da:
Izou.
(10.56).
Probabilmente
sarebbe un disastro. Rassegnati Thatch, stai perdendo tempo ;)
A:Izou.
(11.00).
Te
l’ho detto, la smetterò solo quando capitolerai ai
miei piedi!
Da:
Izou.
(11.10).
Dacci
un taglio, sei insopportabile quando ti ci metti! Non hai altre foto da
scattare ai piccioncini? Forza, torna a lavorare e smettila di
assillarmi!
A:
Izou.
(11.12).
Dolcezza,
sei dannatamente sexy quando fai così.
*
*appare
dal nulla con
carretti ricolmi di biscotti e dolci*
Ehm,
salve ^^ se volete
lanciarmi addosso qualcosa sappiate che sono brava quasi quanto Rufy a
schivare
i colpi, quindi pensateci ^^
No, non
sono morta e
nemmeno scomparsa o sperduta, semplicemente sto andando a rilento, come
certamente avrete notato, ma ho un buon motivo, sapete? Si,
perché la raccolta
segue gli avvenimenti de Il sentimento
è reciproco
e mica posso andare troppo avanti, o rischio di lasciare spoiler in
giro e no,
per quanto qualcuno lo desideri, non lo farò ^^ Ad ogni modo
dovrei ritornare
in carreggiata, quindi rilassatevi e godetevi questo capitolo che spero
vivamente vi abbia fatti sorridere **
Oggi a
Ace non piace la
maglia di Marco, il quale sembra non farci molto caso senza perdere
comunque il
suo charme. Dio, quell’uomo mi farà perdere la
testa, lo so. Awww, ma sapete
quanto bello è averli sulla mensola davanti al pc e
guardarli sempre con occhi
sognanti? ** li ho messi vicini, vicini, così si fanno
compagnia e non si
separeranno MAI. Basta, sono drogata e la mia vita sociale sta andando
a
rotoli.
Anyway.
Ma Thatch
che scatta
foto ogni volta che può senza destare sospetti? Adorabile.
Poi le invia a Izou
che, puntualmente, le invierà agli altri, LOL. Il ragazzo
sta facendo una corte
spietata al suo caro fratellino, ma sembra non ottenere molto successo.
Strano,
eppure mi sembra così sicuro di se stesso. Pazienza, magari
col tempo riuscirà
a conquistare Izou con qualcuna delle sue trovate. Dopotutto, sono
sicura che
Izou voglia solo fare il prezioso, quei due si mangiano con gli occhi,
ve lo
dico io u.u
Beeene,
per oggi è andata,
prometto che non vi abbandonerò più in modo
così crudele e vi chiedo ancora
umilmente perdono ^^
Un
abbraccione grande e
un grazie infinite a tutti!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 46 *** Capitolo 46. Se capisci cosa intendo. ***
Capitolo 46. Se
capisci cosa intendo
(If you Know what I mean).
«Ehi,
ragazzino, perché
quella faccia?».
Ero
stravaccato sul
ripiano in legno del bancone con un vaso di biscotti a portata di mano
e la mia tazza di caffè
fumante davanti agli
occhi, intento a fissare il vuoto con un’espressione
pensierosa e preoccupata. Quella
giornata era stata estenuante e faticosa data la quantità
improponibile di
clienti che avevano deciso di rintanarsi al bar in una giornata di
sole, la
prima dopo settimane di neve e brutto tempo, perciò mi stavo
godendo un po’ di
riposo, anche se non era facile con tutti i pensieri che mi frullavano
per la
testa.
Il mio
coinquilino,
nonché amico di vecchia data, si era rinchiuso nella sua
stanza da tre giorni e
non aveva dato segno di voler uscire, nemmeno per seguire i corsi
universitari.
La cosa non avrebbe destato nessun sospetto, ma il diretto interessato
altri
non era che Trafalgar Law,
perciò la
situazione rasentava il surreale. Da che mondo e mondo Trafalgar
saltava di sua
spontanea volontà le lezioni? E da quando si chiudeva nella
sua stanza a chiave
senza mai uscire se non per bisogni di strettissima
necessità? Per giunta lo
faceva di notte, dopo essersi assicurato che tutti fossero a letto per
non
incappare nelle nostre domande. Stando a quello che aveva scoperto
Penguin
doveva aver avuto un’accesa discussione con quello che ancora
faticavo a
definire il suo ragazzo, ovvero
Kidd,
Eustass Kidd. Insomma, Law non era di certo il tipo che si deprimeva
per
scaramucce e nemmeno stava male per gli altri, figurarsi per uno come
Kidd. Inoltre
le loro liti erano all’ordine del giorno, perciò
non ero tanto convinto che la
loro discussione potesse essere così
influente sul suo umore da tenerlo segregato dentro quattro mura.
Doveva esserci
dell’altro e non potergli parlare mi infastidiva. Avrei
voluto aiutarlo se solo
me l’avesse permesso, come aveva sempre fatto lui quando ero
stato io ad avere
bisogno di una spintarella in più per prendere coraggio ed
affrontare gli
ostacoli. Eppure sapevo che, fino a che non avesse deciso lui stesso di
espormi
il problema, non avrei ottenuto altro se non una porta sbattuta in
faccia. Non riuscivo,
però, ad evitare di sentirmi leggermente in ansia, come se
qualcosa di brutto
stesse per accadere.
Sospirai,
scrollandomi
di dosso quella sensazione e prestando attenzione a Thatch, il quale si
stava
sbracciando davanti a me nell’intento di farsi ascoltare.
«Uh,
scusa, ero
distratto. Cosa c’è?» chiesi
gentilmente, sbattendo le palpebre per apparire
sveglio e interessato alle sue chiacchiere, anche se potevo immaginare
benissimo dove sarebbe andato a parare. Ormai non faceva altro da
quella
fatidica mattina in cui si era materializzato
nell’appartamento di Marco,
cogliendoci piuttosto di sorpresa e impegnati a fare
colazione in modo alternativo.
Presi un
sorso di caffè,
sperando di calmare i bollenti spiriti con la bevanda calda che mi
ustionò la
lingua. Almeno in parte riuscii nel mio intento, smettendo di pensare
alle mani
di Marco addosso a me.
Mi
guardò come se fossi
stupido, studiando il mio viso e assottigliando lo sguardo,
soffermandosi sulle
mie guance. Sperai vivamente di non essere arrossito in quel lasso di
tempo,
non avrei fatto altro che fornirgli altro materiale con cui potermi
sfottere o
minacciare. Per mia fortuna, però, sembrò volermi
graziare per quella volta,
passando oltre e riprendendo il suo discorso rotto in precedenza.
«C’è
qualcosa che ti
turba?» fece con espressione angelica, sedendosi sul bancone
e continuando nel
frattempo ad asciugare un piatto con il canovaccio. Sembrava
sinceramente
incuriosito dal mio comportamento di poco prima, tanto che mi ritrovai
a
prendere seriamente in considerazione l’idea di confidarmi
con lui e chiedergli
un consiglio. Dopotutto, aveva già visto che tipi erano
Trafalgar e Eustass
quando erano assieme e forse avrebbe potuto raggiungere una conclusione
plausibile alla quale io non avrei mai pensato. Potevo tentare, almeno,
visto
che per la prima volta aveva abbandonato la sua solita aria maliziosa e
canzonatoria. Era bello scoprire che sotto, sotto, molto in
profondità, nascondeva una personalità
matura e posata.
Aprii
bocca per
iniziare con il mio racconto, ma mi precedette, facendo crollare le mie
speranze e i miei castelli fatti di buoni propositi.
«Non
mi dire che Marco
ha fatto cilecca! Dio mio, ragazzino, non sai quanto mi dispiace!
Strano, non
gli era mai capitato e con uno come te non dovrebbe avere problemi a scopare come si deve, insomma, infanga
il buon nome della famiglia, per non parlare della
reputaz…».
«Ma
che diavolo…?
Thatch! Possibile che tu non riesca a pensare ad altro?»
sbottai, rischiando
seriamente di strozzarmi con il caffè e arrossendo come un
pomodoro. Per l’imbarazzo.
Tutto aveva un limite e quell’impiastro lo stava superando.
Non potevo credere
che mi avesse fregato in quel modo, ed io che ero stato sul punto di
rivedere i
miei giudizi sul suo conto.
«Ma
cosa ho detto ora?»
si impuntò, allargando le braccia in modo esasperato, tanto
che mi vidi
costretto ad abbassare la testa per non venire colpito in pieno dal
piatto che
ancora reggeva e che aveva rischiato di lanciare dall’altra
parte della sala, «Hai
fatto una faccia disperata, ovvio che abbia temuto il peggio per la tua
vita
sessuale. Dopotutto, il pennuto è stato a riposo per un
po’, non so se mi
spiego, ed è mio dovere assicurarmi che tutto si svolga per
il meglio. Non vergognarti,
a me puoi dirlo se ci son…».
Lo
guardai furente,
imbronciandomi e incrociando le braccia al petto. Non avrebbe mai
smesso di
comportarsi da idiota, ma era più forte di me: a volte non
riuscivo proprio a
capirlo e a sopportarlo.
«Thatch,
scusa la
domanda: posso sapere, invece, da quanto tu
non metti a segno un punto? Se capisci
cosa intendo» gli domandai senza peli sulla lingua,
inchiodandolo con lo
sguardo in modo da fargli capire che non poteva sottrarsi a quel nostro
discorsetto perché non gliel’avrei permesso. Come
avevo previsto tentennò per
qualche istante, ricomponendosi e gonfiando il petto. Tentare di
cambiare
discorso sarebbe stato inutile: avevo appena scovato un tasto dolente
per lui.
«Perché?
Sei per caso
interessato a provare il brivido della completa
soddisfazione?» mi fronteggiò
pavoneggiandosi.
Oh,
non ne ho bisogno, lo provo tutte le sere.
Ghignai,
«Piantala e
rispondimi, altrimenti lo chiederò a quel tale, come si
chiama? Ozou? Izou?».
L’effetto
fu immediato,
tanto che potei giurare di averlo visto impallidire e boccheggiare
allibito. «E
come diavolo pensi di farlo? Non vi sarete mica parlati, spero! Tu lo
odi,
quando l’hai visto con Marco volevi persino ucciderlo.
Aspetta, vuoi vedere che
ti ha cercato lui, quella piccola sgualdrina…».
Trattenni
a stento una
risata davanti alla sorpresa di Thatch. Eh si, quando il pennuto
parlava della
sua famiglia drizzavo sempre le orecchie nell’intento di
conoscere più cose
possibili sui suoi famigliari, in modo da evitare figuracce quando li
avrei
incontrati. In un futuro molto lontano.
Dopotutto, dovevo evitare di inimicarmi parecchie persone. Tra queste
sue informazioni
una in particolare aveva attirato la mia attenzione, ovvero il velato e
difficilmente intuibile interesse tra i due fratelli di Marco. A quanto
pareva,
al suo occhio ciò non era sfuggito e Thatch non era
esattamente il tipo di
persona che si premurava di nascondere agli altri ciò che
pensava. Erano bastati
alcuni commenti di troppo per svelare alla testa d’ananas
l’attrazione, se così
la si voleva chiamare, che da un po’ di tempo dimostrava per
Izou, il loro
adorato fratello. Quello che mi ero imposto di non
dover odiare o invidiare.
«…
Sapevo che ti
considerava un bel ragazzo, ma non credevo che avrebbe avuto il
coraggio di
contattarti! Insomma, tu ormai sei di
proprietà del pennuto e lui non dovrebbe
permettersi di…».
«Thatch»
lo chiamai
gentilmente nel tentativo di calmarlo e fermare quel suo fiume di
sproloqui.
«E
tu pure gli dai
corda? E a marco non pensi? Ti avverto, fallo soffrire e io ti faccio
passare l’inferno,
sia chiaro. E non ti azzardare ad avvicinarti nemmeno a Izou, non te lo
perdonerei mai!».
«Ace?
Thatch? Potreste
fare a meno di urlare? Vi si sente fino al piano di sopra».
L’arrivo del biondo
fu un’apparizione Divina e il castano sembrò
calmare un poco la sua isteria, anche
se si precipitò addosso a lui, afferrandolo per la
collottola e indicandomi con
un dito inquisitore come se avesse avuto a che fare con un criminale
colpevole.
«Fratello,
so che sono
affari tuoi e quello che fate di notte non mi riguarda, ma tieni gli
occhi
aperti con questo qui, non è la dolcezza che sembra,
credimi! E’ subdolo, te lo
dico io». Sembrava impazzito e di questo anche Marco
sembrò rendersene conto
così, con delicatezza, sciolse la presa su di sé
e prese un respiro profondo
prima di guardare Thatch negli occhi e parlargli in modo pacato.
«Thatch,
piantala. Izou
non ha chiamato Ace e lui non è
quel
tipo di ragazzo, va bene?». Quindi aveva sentito tutto. Beh,
ovvio, il cuoco
aveva dato in escandescenza, ma poco importava ormai.
Tutto era
passato in
secondo piano quando Marco gli aveva praticamente assicurato che di me
si
fidava, che sapeva che non l’avrei fatto stare male. La mia
testa aveva preso a
ragionare da sola e il mio cuore era appena collassato. Non esistevo
più,
troppe emozioni positive tutte in un istante.
«Fa
una pausa, stai
lavorando da stamattina» gli consigliò e
l’altro sembrò prendere di buon grado
l’idea, togliendosi il grembiule e dirigendosi in cucina con
un sospiro
profondo, fatto con l’intenzione di svuotarsi dallo stress
accumulato.
«E
tutto perché sei in
astinenza» trovai la concentrazione per sfotterlo,
perché lo avevo capito che
la sua sfuriata era data solo dal tentativo di eludere le mie
insinuazioni sul
suo conto, giusto prima che scomparisse dietro la porta, ricevendo
un’occhiata inteneritrice.
Almeno gli avevo dato modo di capire come ci si sentiva quanto qualcuno
metteva
il naso nella vita privata di una persona. Chissà, magari
avrebbe smesso di
fare battutine e doppi sensi per un po’.
Marco
sorrise, alzando
gli occhi al cielo per poi guardarmi con un’espressione
indecifrabile e
meditabonda.
Mi
strinsi nelle spalle,
sorseggiando il resto della bevanda ormai fredda. «Che
c’è?».
«Tu
non sei interessato
a provare il brivido di andare a letto con Thatch, vero?».
La sua
maglia venne
irrimediabilmente macchiata dal caffè.
*Special*
A:Izou.
(18.48).
Dobbiamo
parlare al più presto.
Da:Izou.
(18.50).
C’è
qualche problema?
A:
Izou.
(18.51).
Non
ho più intenzione di aspettare e rischiare che qualcun altro
ti faccia cadere
ai suoi piedi. L’unico che può farlo sono io.
Da:
Izou.
(18.56).
Non
dire sciocchezze, lo sai che nessuno riuscirebbe a farmi esasperare
tanto
quanto fai tu ;)
A:
Izou.
(18.57).
Preparati,
Dolcezza, stasera ti prendo e ti porto via.
*
Sono
tornataaa!
Un attimo
di silenzio
per la verginità (?) di Izou che presto andrà a
farsi benedire. Solo io ho
questo presentimento?
Gente,
finalmente ho
deciso di andare avanti e chiedo perdono se ho trascurato la
raccolta/long su
Marco e Ace, ma dovevo capire bene e organizzarmi su come continuare
senza fare
spoiler sull’altra storia e seguire allo stesso tempo il filo
che le lega. Vedrò
di non tardare più così tanto, scusatemi ^^
Allora,
spero che il
capitoletto vi sa piaciuto! Oggi Ace mette alle strette Thatch che
parla tanto,
ma che alla fine ha dei grossi e imbarazzanti problemi :D povero.
«Thatch,
scusa la
domanda: posso sapere da quanto non metti a segno un punto, se capisci cosa intendo».
Immaginatevi che
Ace porga il quesito con l’espressione maliziosa che di
solito accompagna la
frase ‘if you know what I
mean’. Ero
tentata di metterla in inglese, mi piaceva troppo, LOL. Bravo
fiammiferino.
E
parliamo dei brividi
che prova tutte le notti? Chi sarà mai la fonte di
ciò? Mlmlml **
Oggi la
mia mente
perversa e piena di doppi sensi ha fatto festa, risultato questo
capitolo con
cui spero di non imbarazzare e far impallidire nessuno. Ammettetelo, so
che
anche voi siete dei maniaci, non negatelo!
E Marco
che getta
confessioni amorose a caso parlando come se niente fosse? Adorabile.
Inoltre,
qualche preoccupazione gli viene ugualmente, quindi mi è
parsa giusta la sua
ultima domanda che fa andare di traverso il caffè a Ace. Ma
chi se ne frega
della maglia sporca, un giro sotto la doccia, ehm,
in lavatrice e tutto
si sistema!
Momento
Pubblicità: Terzo
capitolo di ‘Chi non muore si
rivede’
pubblicato se vi va di fare un giro ^^
Momento
Svago: Questo
è un
disegno che la carissima Acchan074
ha
fatto del pennuto e della sua meravigliosa/orrenda
maglia gialla con l’ananas citata e descritta nel capitolo
precedente :D la
ringrazio molto per l’iniziativa e vi invito a sbizzarrirvi
con la creatività e
a fare altrettanto, magari ne escono dei capolavori simaticissimi da
condividere ^^
https://twitter.com/Acchan074/status/437268605588504576
Signori,
buona serata e a presto, promesso! Un grazie speciale
a tutti, ai vecchi e ai nuovi
lettori ^^
See
ya,
Ace.
With
love.
|
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Capitolo 47 *** Capitolo 47. Il casino che stava succedendo. ***
Capitolo 47. Il
casino che stava
succedendo.
«Per
quale ragione
dovremmo andarcene? E si può sapere tu cosa hai in
mente?» mi lamentai,
infastidito dal fatto che in quell’appartamento tutti
sapessero che diavolo
stava succedendo tranne me.
«Vi
spiegherà tutto
Penguin. Ora devo andare». Con quella sua solita, tipica e
odiosa calma, Law ci
diede le spalle e si avviò verso l’uscita, diretto
solo il Demonio sapeva dove.
Si, perché ero fermamente convinto che Trafalgar fosse in
qualche modo in
contatto con gli Inferi, altrimenti non sarei mai riuscito a spiegarmi
come
riuscisse sempre a fottere tutti, letteralmente.
Gli
bloccai la strada,
piazzandomi davanti alla porta a braccia incrociate e deciso a non
spostarmi di
lì nemmeno di un millimetro. «Law, dicci cosa
succede» ordinai, ignorando
quella sua smorfia che apparve sul suo viso, come se stesse trattenendo
a
stento una risata, «Qualunque cosa sia noi possiamo aiutarti,
lo sai! Perché
non vuoi fidarti?».
Per un
istante sembrò
pensarci e prendere in considerazione l’idea di vuotare il
sacco e abbassarsi a
chiederci aiuto o consiglio, ma fu solamente l’illusione di
pochi attimi dato
che ci deliziò del suo solito ghigno sprezzante, aggirandomi
e mettendo una
mano sulla maniglia.
«Siete
dei completi
idioti, ma è anche vero che come amici siete i
migliori». Detto questo uscì di
casa, lasciando il silenzio e lo sconcerto dietro di sé,
mentre le lacrime
iniziavano a scendere sul viso paffuto di Bepo e i miei muscoli si
tendevano
per l’impotenza che tutto ciò mi causava. Non
voleva metterci in mezzo ed
esporci il problema e, se non avevamo uno straccio di idea riguardante
la
situazione, non potevamo fare nulla.
Mi
toccava per forza
restarmene con le mani in mano.
«Penguin,
raccontaci
tutto».
«Mettetevi
comodi, sarà
una lunga storia».
«Non
abbiamo tempo.
Spicciati».
Il
diretto interessato,
a modo suo s’intende, diede inizio ad un racconto a cui
difficilmente avrei
creduto se non fosse accaduto a me ma a qualcun altro. Reazione
abbastanza
normale e comprensibile, dato che mi aveva appena messo a conoscenza
del fatto che
il padre del nostro coinquilino fosse un boss della mafia conosciuto in
tutto
il mondo e che molto probabilmente aveva messo sotto torchio
l’appartamento
per, a detta dei due ragazzi presenti davanti a me, assicurarsi di
eliminare
tutto ciò che Law aveva di più caro. Chiedermi da
cosa fosse dovuto tutto
questo odio nei confronti del figlio fu spontaneo e impallidii di
fronte alla
cruda verità: quel Doflamingo
aveva
ucciso la madre di Trafalgar davanti ai suoi occhi dopo che il figlio
l’aveva
denunciato alla polizia. A quanto pareva, però, non gli era
bastato rovinargli
l’infanzia, ma aveva addirittura pensato che la prima cosa da
fare appena
uscito di galera fosse prendersi la sua vendetta e tenere in pugno il
nostro
amico con uno sporco ricatto: o lui si consegnava di sua spontanea
volontà, o
noi avremo fatto una brutta fine.
«Booom!» fece Penguin, mimando
l’esplosione che secondo lui sarebbe
potuta accadere da un momento all’altro. Ciò che
ottenne furono un paio di
occhiate furenti da parte mia e di Bepo. Non c’era proprio
niente da scherzare.
«Che
cosa facciamo
adesso?» chiese Bepo. La sua faccia era il ritratto
dell’ansia e della
disperazione.
«Mi
pare ovvio:
dobbiamo seguirlo!» sbraitai. La soluzione era semplice e
chiara ai miei occhi:
non potevamo abbandonare il nostro inquilino. Anche se non era mai
stato l’icona
della compagnia, del divertimento e della simpatia, quella
proprio zero, frecciatine sarcastiche a parte, era pur
sempre uno di noi, un amico, il ragazzo che mi aveva presentato la
possibilità
di iniziare a vivere la mia vita per conto mio, offrendomi di dividere
l’appartamento
con lui e gli altri. Era stato grazie a lui se ero arrivato ad avere
una
cerchia di amici speciali che mi volevano un bene incondizionato; era
grazie a
lui se non abitavo ancora sotto lo stesso tetto del mio vecchio e
scorbutico
nonno; era sempre e solo grazie a lui se, alla fine, avevo preso il
toro per le
corna, o meglio, il pennuto per le ali,
e avevo affrontato Marco senza paura, non troppa almeno.
E poi,
dicesse pure
quel che voleva, anche lui era affezionato, per
quanto Trafalgar Law potesse provare affetto, a noi, quindi
andarlo a
salvare era l’unica cosa fare. Era un nostro dovere!
«Non
mi ha detto dove è
diretto» borbottò Penguin con rabbia e fastidio
malcelati, assumendo un’espressione
tremendamente simile a quella di Law quando qualcosa non gli andava a
genio. Cioè tutto. Era a
dir poco incredibile
quanto quel ragazzo influisse sull’umore altrui, il mio
compreso.
«Fermi,
fermi tutti!»
proruppe ad un tratto, mettendosi le mani sulla testa e dirigendosi
verso la
porta mentre veniva tempestato di domande, afferrando al volo le chiavi
e
intimandoci rimuoverci a raggiungere il garage ai piani inferiori.
«Cos’hai
in mente di
fare?» gli chiesi scendendo le scale, desideroso di avere le
idee chiare e di
capire bene cosa andava fatto. Penguin era famoso per le sue trovate
che non
stavano ne in cielo ne in terra.
«Bepo»
disse, ormai col
fiatone, piazzandogli in mano un mazzo di chiavi che non riconobbi,
«Questa è
una copia delle chiavi dell’auto della padrona del palazzo.
Cosa? Non chiedermi
come le ho avute, è irrilevante! Si tratta di quella vecchia
carretta verde con
i freni mal funzionanti, prendila e fila alle scuole superiori per
avvisare
tutti i piccoletti di non passare da noi fino a nuovo ordine e di
tenersi in
allerta. No, non voglio sentire storie, nessuno ti denuncerà
per furto! E poi
abbiamo problemi più gravi!». Dopo che ebbe messo
a tacere il ragazzone albino,
il quale se ne andò poco dopo, si rivolse poi a me,
ordinandomi categorico di
accompagnarlo fino all’officina dove lavoravano Killer e il
rosso isterico, che
mi stava pure simpatico, spiegandomi che li avrebbe convinti, o obbligati, ad andare alla polizia per
combinare
qualcosa. La priorità era riuscire a rintracciare Trafalgar.
«E
io che faccio nel
frattempo?» gli domandai durante il viaggio, ignorando il
semaforo rosso e rischiando
di investire un vecchietto dall’aria non proprio arzilla.
«Tu
andrai da Marco e
lì resterai. E guai a te se ti cacci in qualche pasticcio
mentre io sono via!
Di eroe ce ne basta uno» mi avvisò serio e con un
tono che non ammetteva nessuna
replica. Ovviamente la sua idea non mi piaceva per niente; insomma, non
ero
affatto il tipo a cui piaceva restarsene con le mani in mano, ma la
situazione
era delicata, si capiva benissimo, perciò mi limitai ad
annuire a denti stretti
e ad assecondarlo. Magari avrebbe avuto lui bisogno di me e mi avrebbe
cercato
ugualmente, oppure qualcun altro mi avrebbe chiesto di intervenire
altrove. Le possibilità
erano parecchie.
«Cerca
di ottenere la
sua attenzione» gli consigliai prima che scendesse
dall’auto, sapendo che
avrebbe capito subito a cosa mi stavo riferendo. La sua missione era
riuscire
ad ottenere un dialogo non troppo violento con Eustass in modo da
fargli capire
bene perché Law lo avesse lasciato, anzi, abbandonato
con la sciocca scusa di essere andato a letto con un altro.
Qualsiasi cieco
si sarebbe accorto della menzogna, visto quanto quei due fossero
incredibilmente e assurdamente
legati, ma per uno tosto come lui, l’orgoglio bruciava
più di qualsiasi altra
cosa. «Conoscendo Kidd, se quello che gli ha fatto Law per
metterlo al sicuro è
vero, non sarà facile convincerlo».
«Lo
so, ma dovrà
ascoltarmi per forza».
«Non
la prenderà bene».
«Non
mi interessa, qui
c’è in ballo la vita del nostro amico ed io non ho
intenzione di lasciarlo
morire, nemmeno se devo beccarmi qualche pugno in faccia. Ora vai e sta
attento»
mi salutò con uno sguardo d’intesa e lasciandomi
ripartire poco dopo in
direzione della caffetteria di Marco dove avrei dovuto passare il resto
della
giornata in ansia e con la preoccupazione alle stelle. Avrei combinato
sicuramente un disastro dopo l’altro, quindi tanto valeva
avvisare per tempo il mio fidanza…
Il proprietario del
locale e metterlo al corrente di tutto il casino che stava succedendo.
Ecco svelato
il mistero per cui Law si era rintanato nella sua stanza. Se mi fermavo
a
pensare che doveva aver passato dei momenti infernali per decidere il
modo
migliore per proteggerci mi sentivo male. Avrei dovuto capirlo e
stargli
accanto invece che confidare nel suo carattere forte e determinato. A
volte
anche i migliori avevano le loro debolezze a cui far fronte.
Digitai
il numero sul
cellulare e feci partire la chiamata, sorridendo quando
dall’altro capo la voce
del pennuto mi rispose pacata e apparentemente disinteressata. A volte
era
proprio uno spaccone.
«Ciao bellezza, ti sono mancato?»
sussurrai mellifluo, trattenendo
una risata davanti al silenzio interdetto dell’altro. Gli
insegnamenti di
Thatch stavano avendo effetto.
«Ace?
Ti senti bene?». Certo,
quando mai mi comportavo in modo così esplicito? A casa mia
sempre, con lui un po’
meno. Avevo una reputazione da difendere e non volevo passare di certo
per un
pervertito.
«Oh,
sei tu Marco. Scusami,
devo aver confuso il tuo numero con quello di un altro».
Come
sono bastardo, pensai
sogghignando. Volevo provare quello scherzo da un sacco di tempo.
«Ace».
Scoppiai
a ridere e
poco dopo anche lui si unì a me, non riuscendo a trattenersi
e rilassandosi, ma
non risparmiandosi però di darmi dello stupido e idiota per
quella mia pessima
idea.
Sospirai,
calmandomi e
decidendomi a mettere da parte le sciocchezze per esporgli il problema
che
riguardava un po’ tutti in modo diretto. Sarebbe stata una
lunga chiacchierata
e sperai che non mi facesse troppe domande, dato che persino io avevo
capito
solo le cose essenziali. E peggiori.
Rivolsi
un pensiero a
Penguin, chiedendomi come se la stesse cavando lui e se Kidd non gli
avesse già
spezzato le gambe.
Spero
vivamente che tutto si risolva per il meglio.
Domani
piove, oggi non
ho saltato l’appuntamento.
Allora,
facciamo subito
chiarezza: Già nel capitolo precedente si faceva rifermento
all’alone di
mistero che aleggiava attorno a Law e alla sua decisione di
rinchiudersi in
camera senza contatti con il mondo. Qualcosa non andava e finalmente si
scopre
perché: il padre del carissimo Traffy, ovvero Doffy (LOL),
ha intenzione di,
boh, vendicarsi per essere stato catturato dalla polizia e finito in
prigione
dopo una soffiata fatta dal suo stesso figlio. Ora, spiegare tutta la
storia
per filo e per segno è impossibile, farò del mio
meglio e se siete curiosi o
volete altre informazioni, troverete tutto su ‘Il
sentimento è reciproco’. Scusate, di
meglio non posso fare. Ad ogni
modo tutti gli amici di Trafalgar sono in pericolo e
l’appartamento non è più
zona sicura, perciò via tutti fino a nuovo ordine. Penguin
andrà a fare gli
occhi dolci a Eustass SuperFiol Kidd,
mentre Ace dovrà starsene buono, buono da Marco. Credete
che lo farà? Se,
come no.
Passiamo
ora al
capitolo. Si, Bepo, Penguin, Law e Ace condividono un appartamento. Si,
Bepo è umano
e sembra un orso albino super dolce e coccoloso. Si, avete capito bene:
EUSTASS KIDD E TRAFALGAR LAW.
Parlando
di Ace: ma
sbaglio, o stava per riferirsi al pennuto come suo fidanz.. ah no,
datore di
lavoro, giusto ^^ e quando gli fa lo scherzetto al telefono? Provate
per
messaggio con i fidanzati, amici speciali, scopamici, (fidanzate/amiche
speciali/scopamiche) quello che volete, è stupendo. Vi
beccate qualche
bestemmia, ma è normale :D sono i brutti effetti che ha
Thatch sul nostro
fiammiferino ^^
Marco
ogni tanto deve
fare finta di non essere interessato, fa parte del suo caratterino a
volte
arrogante e a volte no, ma sempre fbhuwwvfhjuiws **
Beeene,
auguro a tutti
buona serata e da qui in poi i nostri ragazzi si troveranno a vestire i
anni degli
eroi improvvisati, ma noi non abbiamo dubbi sulla loro riuscita, vero?
Vero?
Grazie a
tutti, ai
vecchi e ai nuovi lettori.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 48 *** Capitolo 48. Bomba ad orologeria. ***
Capitolo 48.
Bomba ad orologeria.
«Mi
dispiace» sussurrai
al telefono, chiudendo la chiamata e ignorando il senso di colpa che mi
attanagliava lo stomaco. Avevo spiegato a Marco tutta la faccenda
meglio che
avevo potuto, anche se entrambi non avevamo capito bene il problema.
Gli avevo
detto che l’appartamento non era più un luogo
sicuro per noi, per me e lui,
prendendomi alla sprovvista, mi aveva proposto di sistemarmi da lui,
almeno
fino a che le acque non si fossero calmate. Inutile descrivere come mi
ero
sentito, talmente felice che il cuore mi era balzato in gola.
Avevo
già programmato
di saltargli in braccio non appena fossi arrivato al bar, ma mi ero
ricordato
che Rufy, quella mattina, avrebbe saltato la scuola per venire a
trovarmi. In poche
parole stava andando dritto verso i guai senza saperlo ed io stupido
che me l’ero
scordato!
Avevo
fatto subito
marcia indietro, ignorando gli avvertimenti del pennuto e avevo
raggiunto
l’appartamento nel giro di una decina di minuti, schiacciando
il pedale
dell’acceleratore e spingendo l’auto a
più non posso per le strade della
periferia, miracolosamente senza investire o fare male a nessuno.
Parcheggiai
poi davanti all’ingresso e mi precipitai dentro, salendo le
scale e facendo i
gradini due a due per la fretta, sentendomi mancare il fiato per
l’agitazione e
l’ansia. Dovevo raggiungere quello stupido di mio fratello
che, come al solito,
aveva dimenticato di portare con sé il cellulare. Una volta
che le cose si
fossero sistemate gliel’avrei fatto ingoiare, o meglio,
gliel’avrei addirittura
incollato alla fronte.
Spalancai
la porta con
un diavolo per capello e il fiatone, venendo subito investito da una
ventata di
odore forte, come di bruciato, misto a qualcosa di più
nauseante, gas forse. Un’occhiata
veloce all’ingresso e notai di sfuggita che il camino era
stato acceso, mentre
dalle braci attizzate partiva una scia di cartacce e panni posizionati
in modo
da condurre le fiamme ai mobili più vicini. Chi mai poteva
aver fatto una cosa
del genere? Era da pazzi e poteva trasformarsi benissimo in un inferno!
Solo
allora collegai la
preoccupazione sugli occhi di Law quella mattina, ricordandomi delle
sue parole
e rendendomi conto del pericolo a cui si era riferito quando ci aveva
consigliato, per non dire pregato, di allontanarci dalla casa. Suo
padre, quel
lurido verme, a quanto pareva aveva fatto le cose il grande e per bene,
ma il
problema che mi si presentava di fronte era un altro.
Dov’è
Rufy?
«Ehi,
Rufy!» iniziai a
chiamarlo, addentrandomi in mezzo a quella cortina di fumo sempre
più nera e
soffocante, chinandomi con la schiena per evitare di inalare troppa di
quella
aria e per tenere gli occhi protetti. Decisi anche di togliermi la
felpa e
tenermela premuta sulla bocca e sul naso, in modo da poter avanzare
senza
rischiare di perdere i sensi. Sembrò funzionare,
così continuai la mia ricerca
dirigendomi in cucina, ovvero il primo luogo che mio fratello visitava
non
appena metteva piede nell’appartamento. La sua attrazione per
il cibo era ciò
che più lo caratterizzava e, infatti, fu proprio
lì che lo trovai.
Stava
riverso a terra,
probabilmente svenuto perché non si mosse nemmeno quando lo
chiamai allarmato,
affiancandolo e scuotendolo per una spalla. Guardandomi attorno vidi
che i
fornelli erano accesi, compresa la bombola del gas, rendendo
l’intera stanza
una bomba ad orologeria. Se non ci fossimo dati una mossa, entro pochi
minuti
l’edificio sarebbe sicuramente diventato la nostra tomba.
Mi
concessi un istante
per assicurarmi che respirasse ancora, accarezzandogli affettuosamente
i
capelli e promettendomi che, non appena fuori, l’avrei
svegliato a suon di
pugni per poi urlargli dietro quanto fosse stato incosciente. La
verità era che
non vedevo l’ora di abbracciarlo, ma per farlo avrei dovuto
aspettare ancora un
po’.
Passandogli
le braccia
attorno al busto iniziai a trascinarlo piano fuori dalla cucina,
intenzionato a
tagliare per il corridoio d’entrata, ma la situazione si era
fatta
incandescente, nel vero senso della parola. Le fiamme prodotte dal
camino
avevano raggiunto il tavolino posto al centro del salotto e il divano,
arrivando persino alla libreria che ora si frapponeva tra me e
l’uscita. Chi
era entrato in precedenza per architettare tutto doveva per forza aver
cosparso
i mobili con delle sostanze infiammabili perché tutto ardeva
in modo troppo
vivo e intenso, come altrimenti non sarebbe stato.
Con il
passaggio
bloccato mi vidi costretto ad aggirarlo, passando per il salone e
stando
attento a non far urtare il corpo svenuto di Rufy contro gli oggetti.
Tossendo
per la mancanza d’aria mi resi conto che il ragazzino
sembrava respirare a
fatica, così non ci pensai due volte ad accovacciarmi
accanto a lui per
avvolgergli la mia maglia attorno alla testa, legandola in modo che non
dovesse
respirare ulteriore gas. In quanto a me mi sarebbe bastato trattenere
il
respiro e ossigenarmi il meno possibile. Non mi ero arrischiato ad
usare i suoi
vestiti per timore che gli si scottasse la pelle, dato che la mia stava
andando
a fuoco e tirava in più punti, sulle spalle e sulle braccia
soprattutto, ma
dovevo resistere e cercavo di non pensarci troppo.
Lo
trascinai per
un’altra decina di centimetri, quando un rumore sinistro,
come uno
scricchiolio, ma molto più forte e inquietante, si fece
udibile sopra le nostre
teste, obbligandomi a guardare in alto per accertarmi di cosa si
trattasse.
Impallidii
quando vidi
le travi del soffitto sfondare l’intonaco del muro e
penzolare minacciosamente
sopra di noi. Fu ciò che mi diede la spinta per sbrigarmi e
fare più in fretta,
dato il pericolo che esse rappresentavano. Potevano crollarci addosso
da un
momento all’altro e, se ci avessero beccati, non sarebbe
finita affatto bene.
*Special*
«Pronto?».
«Pronto
un cazzo!
Quanto ti ci vuole per rispondere ad una chiamata?».
«Thatch,
datti una
calmata» fece Izou con voce irritata, infastidendomi
ulteriormente. La situazione
era delicata e non avevamo tempo da perdere. Soprattutto, se non mi
fossi
sbrigato, Marco sarebbe partito per andare da Ace senza di me. A quanto
pareva
il ragazzino aveva combinato qualche guaio.
«Stammi
a sentire: io e
il pennuto dobbiamo assentarci. Puoi passare alla caffetteria con
Haruta fino
al nostro ritorno, vero? Grazie!» lo liquidai, non dandogli
nemmeno l’opportunità
di scegliere.
«Ma
cosa sta
succedendo? Perché dovete andare via, scusa? E cosa ti fa
pensare che io non
abbia di meglio da fare oltre che ad ascoltare le tue
sciocchezze?».
«Andiamo,
Dolcezza, lo so benissimo che non
aspetti altro che un mio messaggio o una mia chiamata. Non fare il
difficile
proprio oggi perché il ragazzino è nei
pasticci».
«Ace?
Cosa gli è successo?»
chiese allarmato.
«Da
quando lo chiami
per nome? E perché per lui ti preoccupi sempre, quando
invece io sto andando a
compiere una missione suicida?» ribattei piccato, uscendo in
strada e adocchiando
l’auto di Marco che stava uscendo dal garage proprio in quel
momento.
«Sei
troppo
presuntuoso, Tesoro»
rispose l’altro
con quel suo solito tono che ad orecchie sconosciute sarebbe risultato
sarcastico,
quando invece io sapevo benissimo che la malizia che celava non era
affatto una
mia immaginazione.
«Tra
cinque minuti al
bar con Haruta, poi stasera ci penserò io a te. Mi devi un
appuntamento e non
credere di poterti rinchiudere in camera come hai fatto ieri,
perché stavolta
sfonderò la porta!».
Chiusi la
chiamata ed
entrai in macchina sotto lo sguardo interrogativo di Marco, il quale mi
chiesi
che razza di intenzioni avevo. Com’era lento di comprendonio
a volte, mica
potevo lasciarlo andare in contro ai guai da solo. Ero pur sempre il
fratello
maggiore e migliore che aveva, io.
«Datti
una mossa, testa
d’ananas, i Supereroi non si devono far attendere».
*
Buon
pomeriggiooo ^^
Non sto
nemmeno qui a
dirvi che domani pubblicherò con regolarità un
altro capitolo, (anche se stavolta
sarà vero perché ce l’ho già
pronto o.O) perché mi devo vergognare per il
ritardo e non posso fare altro che chiedervi umilmente perdono ^^
Allora,
qui abbiamo Ace
che finalmente è tornato a casa per salvare Rufy. La
situazione non è delle
migliori e loro stanno per fare la fine delle costolette allo spiedo,
intendiamoci. Fortuna che Prima di lanciarsi in quell’impresa
ha avvisato
Marco, almeno ha qualcuno pronto per andarlo a salvare **
E Thatch.
Tesoro, alla
fine non sei ancora riuscito a sedurre Izou? Non disperarti, su, sono
certa che
ce la farai ^^ ho buone speranze!
Ora
scappo, ma domani
ci sarò ancora, stavolta è vero, verissimo :D
Un
abbraccione a tutti
e un grazie infinito :3
See ya,
Ace.
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Capitolo 49 *** Capitolo 49. Potresti venire da me. ***
Capitolo 49.
Potresti venire da me.
«Doflamingo
è un boss
della malavita ricercato in tutto il mondo e anni fa ha ucciso la madre
di Law
sotto ai suoi occhi innocenti. All’epoca era ancora piccolo,
ma abbastanza
sveglio da andare a denunciare suo padre alla polizia. Inutile dire che
quest’ultimo l’ha scoperto e ha deciso di
vendicarsi. Ma aspetta, non gli è
bastato perché adesso è uscito di prigione e
vuole togliere di mezzo Trafalgar,
capisci? E noi dobbiamo allontanarci dall’appartamento
perché secondo lui non è
sicuro. Io non ci credo tanto, ma stanno tutti dando di matto e
sinceramente
non ho ben capito la storia, insomma, è tutto un
po’ nuov…».
«Ace,
ti prego, calmati
e ricomincia da capo».
«Cosa
della frase ‘Law è in
serio pericolo’ non ti è
chiaro?».
«Ehm,
tutto? Sul serio,
Ace, devi calmarti. Del tuo discorso ho capito si e non tre
parole!».
«Testa
d’ananas» sbottò.
«Ragazzino,
non farmelo
ripetere» mormorai a denti stretti. A volte Ace doveva
semplicemente fermarsi
un secondo, prendere fiato e riordinare le idee. Glielo ripetevo spesso
anche
quando dava segno di volersi mettere a bisticciare con i clienti
più duri di
comprendonio, ma non mi ascoltava mai.
Lo sentii
fare un
respiro profondo, forse quella volta avrebbe fatto come gli avevo
sempre
consigliato, e mi ripeté brevemente, ma in modo
più chiaro, la storia di quel
genitore del suo coinquilino; del suo soggiorno in prigione e della sua
vendetta pianificata in quegli anni, con l’unica differenza
che nella lista di
persone da uccidere appariva la parola tutti.
Questo, in particolare, mi fece preoccupare, così gli chiesi
se non fosse il
caso di avvisare anche le forze dell’ordine. Mi stupii quando
mi assicurò che
l’avevano già fatto, o che l’avrebbero
fatto di lì a breve, si corresse poi.
Stavo
ascoltando
attentamente il loro piano, quando Thatch entrò in cucina
armato di vassoi e
piatti da lavare, ficcandomeli in braccio e strappandomi letteralmente
dalle
mani il telefono con uno sguardo assatanato e per niente
tranquillizzante. Non
contento, poi, ignorando le mie proteste e gli insulti che avevo
iniziato a
rivolgergli, mi spinse fuori dalla stanza, chiudendo le porte a chiave
e
fissandomi dall’altro lato del vetro con un sorrisetto
perturbante in volto.
Iniziò
a parlare
animatamente con Ace, gironzolando attorno al tavolo e passando accanto
ai
fornelli, agitando le braccia in tutte le direzioni e, dopo qualche
minuto
durante il quale non avevo smesso di bussare insistentemente alla
porta, urlò
entusiasta, trotterellando da me e lasciandomi finalmente entrare.
Mi
riappropriai del
telefono guardandolo in modo truce e chiedendomi per quale diavolo di
motivo si
fosse messo a tirare fuori dagli armadietti l’occorrente per
impastare dei
biscotti con stampini a forma di cuore. Quando chiesi a Ace per quale
motivo
quell’idiota stava cantando stonate canzoni
d’amore, disegnando cuoricini
persino sul ricettario, mi rispose dicendomi che, probabilmente, era
diventato
scemo. Oh no, lui scemo lo era sempre stato.
«Quindi
adesso dove
andrai a dormire?» gli chiesi, dopo essermi fatto illustrare
la relazione ormai
chiara come il sole tra il suo coinquilino e quel simpatico ragazzo
inquietante
con i capelli rossi. A quanto pareva il suo appartamento non era
sicuro, quindi
di certo lui e i suoi compagni avrebbero dovuto trovare una soluzione
al più
presto se le cose fossero andate per le lunghe.
«Uhm,
penso da mio
nonno» sbuffò scocciato. L’idea di
ritornarsene a casa non lo allettava molto,
soprattutto perché tra lui e suo nonno non correva buon
sangue. Non che non si
volessero bene, ma da quello che mi aveva raccontato i bisticci tra
loro erano
all’ordine del giorno. Secondo Ace il problema era sorto
quando aveva deciso di
non voler intraprendere la carriera poliziesca del vecchio, ma sperai
che non
avessero deciso di farsi la guerra per un motivo tanto sciocco e
futile.
Insomma, Ace era uno splendido ragazzo e le sue scelte poteva benissimo
prenderle
da solo, per quanto mi riguardava. Certo, non ero nessuno per dire la
mia
opinione, ma ero stato cresciuto da un uomo interessato solo al
benessere e
alla felicità dei propri figli, quindi il comportamento del
moro mi sembrava
logico e ragionevole.
Sapevo
anche, però, che
non aveva altre scelte e, volendogli evitare il malumore, gli feci una
proposta
azzardata ancora prima di rendermene conto.
«Potresti
venire da me
per qualche giorno».
Mi morsi
un labbro
mentre dall’altra parte ci fu il silenzio.
«Davvero?» lo sentii sussurrare,
«Cioè, me lo sta chiedendo sul
serio?».
Iniziai
ad agitarmi.
D’accordo, forse avevo corso troppo, ma alla fine non mi
sembrava una soluzione
tanto brutta. «Beh, ecco,
perché no?
Insomma, non saresti così lontano
dall’università e dal lavoro. E poi so cosa
vuol dire abitare con i genitori e sottostare alle loro regole, ci sono
passato
anche io, quindi… Si, sul serio».
Ancora
silenzio,
stavolta più lungo, tanto che mi ritrovai a chiedermi se non
fosse davvero una
follia la mia idea di… Di cosa? Non gli stavo chiedendo di
venire a vivere da
me, solo di passare qualche notte… Qualche giorno
a casa mia, almeno fino a che non avessero catturato quel delinquente a
piede
ibero. Ad ogni modo, però, Ace non sembrava essere del mio
stesso parere, così
sospirai, grattandomi distrattamente i capelli e ignorando
l’occhiata perplessa
che mi rivolse Thatch, il quale aveva appena realizzato quello che
avevo
effettivamente chiesto al ragazzo.
«Ace?
Senti, se non ti
va non devi…».
«S-se
non disturbo» mi
interruppe all’improvviso, facendomi boccheggiare e sorridere
l’istante dopo
come un idiota. Thatch, invece, si mise a disegnare uno schizzo di una
torta di
nozze.
Cambiai
immediatamente
discorso per evitare ripensamenti e per far smettere a
quell’idiota di
disegnare arcobaleni ovunque, quando Ace iniziò ad
allarmarsi, blaterando
assurdità.
«Marco
devo tornare
indietro!» fece tutto d’un fiato.
«Cosa?».
Sperai che
stesse scherzando. «Ace, non fare cazzate, mi hai appena
detto che potrebbe
essere pericoloso!».
«Non
capisci, Rufy mi
aveva avvisato che sarebbe passato da me questa mattina, marinando la
scuola ed
io me ne sono completamente dimenticato! Non posso rischiare, devo
andarlo a
prendere!» urlò in preda all’agitazione.
Sapevo
che non sarei
mai riuscito a convincerlo a non andare all’appartamento, ma
provai comunque a
chiedergli di raggiungermi per poterlo aiutare.
«Ace,
almeno fammi
venire con te!».
«Mi
dispiace». E
riattaccò.
Strinsi
il cellulare
tra le mani.
Stupido
ragazzino.
*Special*
«Ace,
porta
immediatamente il tuo culo sfasciato
qui, hai capito? Tu ed io abbiamo molte
cose di cui parlare».
I
riferimenti allo stato in cui si trovava in quel momento il tanto
elogiato culo
di Ace non erano affatto
e per niente
puramente e del tutto casuali. Insomma, era un’offesa al mio
sesto senso,
infallibile quando mi trovavo ad avere a che fare con certe e
determinate cose, ed ero sicuro che
lui e il pennuto
avessero compiuto grandi, enormi passi sotto le lenzuola. Il punto era
che
ancora non ne avevano fatto parola. Mi credevano forse uno stupido
cieco? E
poi, se volevamo essere pignoli, al loro primo risveglio avevo
assistito pure
io e la cucina non si era ridotta ad una discarica da sola. Li avevo
praticamente colti con le mani nel pacco. No, volevo dire, nel sacco! Alle mie domande curiose e per
niente maliziose potevano
anche rispondere senza fare tanto i preziosi come Izou!
«Ehi?
Mi hai sentito?
Ti ho chiesto, per l’ennesima volta,
com’è a letto quell’idiota! E non
provare
a cambiare discorso!». Ignorai le lamentele di Marco
dall’altra parte della
porta e riformulai la domanda, sperando in un risvolto positivo.
«Se
te lo dico mi passi
Marco?» mi chiese il ragazzino con un sospiro esasperato. Oh,
finalmente si era
deciso a parlare, alla buon ora.
«Affare
fatto!».
Certo,
certo, ti passo Marco, ma aspetta solo che abbia qualche notizia
bollente tra
le mani e lo saprà tutta la famiglia!
«Bene»
asserì, facendo
un respiro profondo e lasciandomi col cuore in ansia per qualche
secondo. «Il
miglior sesso della mia vita» esalò infine.
Dopodiché il mio cervello si
scollegò dalla realtà.
«Ace,
si può sapere
perché Thatch sta cantano canzoni d’amore,
disegnando cuoricini sulla carta?»
domandò il pennuto non appena gli riconsegnai il telefono,
dandogli di nuovo
accesso alla cucina.
All
you need is love, na na na naaa! Devo dirlo a Izou, che lo
dirà ad Haruta, che
lo dirà a Vista che lo urlerà a tutti e che, alla
fine, lo ripeteranno al
babbo. Devo organizzare la prossima cena di famiglia!
*
Si,
eccomi come avevo
promesso ^^
Questa
è la
conversazione avvenuta tra Ace e Marco, quando il secondo viene a
sapere cosa
sta succedendo e scopre in anteprima che il suo adorato fiammiferino ha
fatto
marcia indietro per andare dritto in pasto alle fiamme. Bene, applausi,
bravo,
ma non se ne rimarrà certo con le mani n mano, figuriamoci.
E poi
c’è Thatch che,
tesoro, non può fare a meno di impicciasi negli affari degli
altri, eh? Certo che
no. Insomma, dopo tutte le risposte negative e i tentativi di sviare il
discorso, doveva pur sapere come era andata la meravigliosa notte
di… conoscenza tra i
due, mi pare giusto.
Mi sto
innamorando di
lui sempre di più, voi no?
Anyway
I have to go, again.
Ma non
preoccupatevi,
il prossimo capitolo è già pronto, ma
arriverà sabato per evitare tutti i tipi
di spoiler ^^
Un
abbraccione e un
grazie infinito a tutti come sempre, siete adorabili **
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 50 *** Capitolo 50. Solo dormire. ***
Capitolo 50. Solo
dormire.
Con Rufy sveglio
sarebbe stato più facile, o magari avrei dovuto
semplicemente aspettare che
Marco mi raggiungesse, perché qualcosa in fondo
all’anima mi diceva che era già
per strada, sempre più vicino. Certo, avrei dovuto essere
più razionale e meno
impulsivo, ma il tempo stringeva e quando avevo deciso di fare marcia
indietro
la mia unica preoccupazione era stata rivolta a mio fratello, un
comportamento
normale, dopotutto.
Rufy era
sempre stato
una costante nella mia vita, anche durante l’adolescenza,
quando litigavo animatamente
con il mondo e mi cacciavo nei guai. Nonostante fossi scorbutico anche
nei suoi
confronti, lui mi sorrideva e aspettava che mi calmassi per poi
saltellarmi
intorno e irritarmi fino allo sfinimento con le sue idee, battute e
giochi, ma
facendomi tornare comunque il buonumore.
Mi
ripeteva sempre che
ero il suo idolo, il suo eroe, che da grande avrebbe voluto diventare
esattamente come me e che, non appena gli si sarebbe presentata la
possibilità,
si sarebbe trasferito tra quelle quattro mura a farmi compagnia
perché, a detta
sua, i fratelli si sostenevano a vicenda e non si abbandonavano mai.
Come avrei
potuto, quindi, tardare il mio arrivo e non correre da lui per
aiutarlo? Rufy
non veniva secondo a nessuno e avrei fatto di tutto per salvarlo, anche
rischiare la vita.
Fu quella
ragione per
la quale, quando una delle travi si spezzò a
metà, cedendoci addosso, coprii il
corpo di Rufy con il mio, sperando di riuscire ad attutire il colpo in
qualsiasi modo e non preoccupandomi di lasciarmi scappare un urlo di
dolore quando
il legno pesante mi piombò sulla schiena, rendendomi persino
insensibile per
alcuni secondi. Il bruciore straziante che era seguito dopo a causa
della
ferita non era stato per niente piacevole ma, probabilmente grazie
all’aiuto di
qualche entità santa, ero riuscito ad alzarmi da terra,
vertigini a parte, e a
prendere in braccio un inerme Rufy, coprendo le distanze che mi
separavano
dalla porta con le ultime forze della disperazione che mi erano rimaste.
Uscendo
nel corridoio
che portava alle scale mi accorsi che non era solo il nostro piano a
bruciare,
ma anche quelli sotto, e sperai vivamente che tutti gli inquilini
fossero giù
usciti in strada perché, per quanto avessi voluto, non
credevo di riuscire ad
avere la determinazione di passare in rassegna tutti gli appartamenti
per
assicurarmi che non vi fosse rimasto nessuno.
Scesi gli
scalini barcollando,
sentendo il corrimano vibrare bruscamente e inciampando nei miei stessi
passi
finendo dritto contro il muro quando ormai avevo quasi raggiunto il
piano
terra. In quel momento un enorme boato irruppe nell’aria,
facendo tremare i
muri, le pareti e il pavimento, mentre un fumo denso scendeva dai piani
superiori.
Respirando
profondamente,
evitando di lasciarmi impressionare dai rivoletti di sangue che mi
colavano
lungo il petto e le gambe, recuperai Rufy e, con un ultimo sforzo, me
lo
caricai sulle spalle, scendendo gli ultimi gradini e cercando di non
cedere
proprio quando eravamo giunti alla fine.
Il
portone d’ingresso
era aperto e la coltre di fumo usciva da esso, schiarendosi e
mischiandosi alla
polvere della strada. Potevo intravvedere persino il mondo
all’esterno e il
cielo terso con le nuvole gonfie di neve che non volevano saperne di
lasciare
spazio al bel tempo.
Uscii
all’aperto
muovendomi come un automa, non sentendo nemmeno più le
braccia e le gambe, per
quanto riguardava la schiena, invece, non osavo nemmeno immaginarmi le
condizioni in cui era. A giudicare dalle fitte continue che mi facevano
stringere i denti, doveva trattarsi di una bella ustione.
Avanzai
di qualche
altro passo, arrancando in mezzo alle macerie e alle fiamme, sentendo
delle
voci sempre più nitide e dei fischi piuttosto fastidiosi che
catalogai più
tardi come sirene delle volanti della polizia o delle ambulanze che
scorsi a
una decina di metri di lontananza. In poche parole tutto il quartiere
era
accorso a vedere cosa era successo e una folla di curiosi e vicini
vociferava
dietro a delle transenne improvvisate, mentre un camion del pompieri
parcheggiato poco lontano dall’entrata pompava acqua a tutto
spiano nel tentativo
di domare l’incendio alle mie spalle.
Ero
stanco morto e
sfinito, ma non riuscivo a smettere di camminare. Dovevo essere certo
di
allontanarmi dal pericolo il più possibile per mettere in
salvo la vita del mio
fratellino e, finché non ci fossi riuscito, non avrei smesso
di muovermi,
neanche se mi fossi ritrovato a dover strisciare a terra.
Mi
guardai attorno
spaesato, cercando una faccia famigliare su cui poter fare affidamento
e il mio
cuore perse un battito quando mi parve di incrociare gli occhi chiari
di Marco,
sentendo una scossa lungo tutte le membra. Fu solo un mero istante,
però,
perché un paio di uomini con un camice bianco, probabilmente
dottori, mi si
pararono di fronte accompagnati da due volontari che riconobbi come due
signori
che vivevano in una delle casette al limitare della strada, i quali,
con
delicatezza e fermezza, mi tolsero il peso di Rufy di dosso,
poggiandolo su una
barella comparsa magicamente sotto ai miei occhi e iniziando a
spingerlo verso
le ambulanze dove, ne ero certo, lo avrebbero portato
all’ospedale.
Sospirai
sollevato,
sentendomi incredibilmente leggero e in pace con me stesso. Rufy era
fuori
pericolo e nessun altro si era fatto male. Marco stava bene e non
correva nessun
tipo di rischio. Per fortuna, sarebbe stato un po’ complicato
correre a salvare
pure lui, anche perché era il doppio di mio fratello e
trasportarlo in giro
sarebbe stato un problema. Inoltre non ero sicuro di voler diventare un
eroe.
Insomma, non potevo avere occhi per tutti e l’unico su cui
volevo posarli era
proprio quella sottospecie di pennuto del quale non sapevo nulla.
Stupidamente
pensai che avrei dovuto chiamarlo e fargli sapere che era andato tutto
bene,
giusto qualche piccolo incidente di percorso. Insomma, non gli avrei
spiegato
tutta la faccenda, mica volevo farlo preoccupare troppo.
Mossi un
passo in
avanti, poi un altro, pensando a come sarebbe stato bello potermi
buttare a
letto e dormire, o mangiare anche. Mi venne persino voglia di una
cioccolata
calda e dei biscotti al cioccolato di Thatch, ma solo per un istante
perché le
palpebre si fecero improvvisamente pesanti e la testa iniziò
a girare.
Quando
capii che
continuare a combattere contro quella spossatezza sarebbe stato
inutile, smisi
di opporre resistenza e lasciai che la forza alle gambe mi venisse
meno,
cadendo a terra e perendo conoscenza.
Volevo
solo dormire.
Solo dormire.
*Special*
Quel
giorno sarebbe
passato alla storia come il più ansioso, inquietante e epico
di tutti.
Ancora
non riuscivo a
capacitarmi di quello che era successo quando eravamo arrivati sul
posto nel
tentativo di raggiungere il ragazzino.
Ritrovarci
a fare a
botte con i due delinquenti che avevano appiccato il fuoco
all’appartamento non
era di certo nei nostri piani e non li avremo conciati per le feste se
solo ci
avessero lasciati passare e raggiungere Ace. Invece avevano dovuto
complicare
tutto, sbarrandoci la strada e minacciandoci.
A dire la
verità mi ero
divertito un sacco a prenderli a calci nel culo assieme al pennuto. Era
da
tempo che io e lui non ci ritrovavamo in situazioni del genere. Che bei
tempi
erano stati quelli della nostra adolescenza, dei giovani scapestrati
eravamo.
Il
divertimento era
durato solo fino a quando non mi ero permesso di abbassare la guardia,
credendo
di averne messo al tappeto uno. Il bastardo si era poi rialzato e mi
aveva
colpito alle spalle, rompendomi un braccio con una lamina in ferro che,
probabilmente, aveva tenuto da parte per il suo gran finale. Non avrei
voluto
urlare per il dolore, ma mi era stato impossibile. Peccato che in quel
modo
avessi distratto Marco che, per venire in mio soccorso, si era beccato
una
pallottola su un fianco.
Mi
sentivo così in
colpa per quello che gli era successo e continuavo a pensare che se non
fossi
stato così sicuro di me stesso e così poco
attento, probabilmente ora quei due
non sarebbero riusciti a scappare, lasciandoci agonizzanti nelle mani
dei
soccorritori.
Marco
aveva perso
conoscenza dopo l’esplosione che c’era stata, ma
solo per qualche tempo e,
grazie al Cielo, aveva appena riaperto gli occhi.
Mi
guardò spaesato,
così lo rassicurai, ma voleva sapere di Ace e mi si
straziò il cuore a quella
domanda dato che non sapevo cosa rispondergli. L’appartamento
era in fiamme e i
pompieri non erano ancora riusciti ad entrare per recuperare i due
ragazzi. Vedere
mio fratello in quello stato pietoso, inoltre, mi faceva sentire
malissimo.
Ad un
tratto, però,
ecco che tutto si ribaltò. Dalla porta d’ingresso
intravidi in mezzo alla
coltre di fumo la figura di quel pazzo, infantile, pestifero e
dannatamente
fortunato ragazzino. Uscì all’aperto con il
piccolo Rufy sulle spalle svenuto e
presto ricevette il soccorso di cui aveva bisogno. Non
c’erano parole per descrivere
quella scena: ace era stato un eroe in tutto e per tutto e Marco poteva
anche
perdere i sensi per quanto mi riguardava dato che tutto era andato per
il
meglio. Poco importava che entrambi fossero diretti
all’ospedale a sirene
spianate.
Dovrò
stare attento, pensai
durante il tragitto in ambulanza, d’ora
in avanti quel mocciosetto sarà adulato da tutti. Meglio che
con Izou concluda
al più presto, altrimenti col cavolo che avrò una
possibilità!
*
Oh si,
oggi è sabato ed
ecco come sono andate le cose ^^
Marco e
Thatch si sono
ritrovati impossibilitati a raggiungere Ace al terzo piano per colpa di
due
scagnozzi incaricati di mandare in fiamme l’appartamento in
cui Law viveva con
i suoi amici. Proprio quando Rufy aveva deciso di andare a trovare il
fratello.
Signore Santo, quante sfighe gli toccano.
Al povero
Thatch hanno
rotto un braccio e a marco, beh, hanno sparato alle spalle. Un
po’ come accade
a Marineford, quando Kizaru lo colpisce dopo che qualcuno gli ha messo
le
manette di agalmatolite. Il mio cuore è collassato in quel
momento. Povera me
;___________;
ad ogni
modo Ace si è salvato, Rufy compreso, quindi… festa ^^
non so
dirvi quando
maaaa…
presto,
molto presto
arriverà il tanto atteso incontro con la bellissima ed
enorme famiglia di
Barbabianca! **
Coming
soon.
Un
abbraccione e un
grazie infinito a tutti!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 51 *** Capitolo 51. Non chiedevo altro. ***
Capitolo 51. Non
chiedevo altro.
Le espressioni
facciali
di Thatch e Rufy in quel momento erano un qualcosa di indescrivibile.
Erano
passate appena ventiquattro ore da quando Ace era uscito dalla sala
operatoria
fasciato dalla testa ai piedi e loro non avevano lasciato la stanza se
non per
strettissima necessità. Io, sicuramente, non avevo
intenzione di farlo, e,
grazie all’influenza del babbo ero riuscito ad ottenere il
permesso di avere
una stanza accanto alla sua in modo da non dovermi allontanare troppo e
perdermi nei meandri dell’ospedale in cui eravamo tutti
ricoverati. Essere il
figlio del sindaco aveva i suoi vantaggi, dopotutto.
«Che
fai, ti arrendi?».
Thatch,
c’era poco da
fare, a giocare a carte era il migliore. Lo conoscevo da una vita e
ancora non
ero riuscito a scoprire il suo trucchetto. Lui vinceva sempre e
comunque. Se la
situazione si metteva male faceva un’alzata di spalle e
sorrideva furbesco,
ribaltando il risultato proprio alla fine e fottendo tutti. Inutile
dire che
non era mai una buona idea giocare a strip
poker quando
c’era
lui nei paraggi, ma quello Rufy non lo sapeva ed ero stato messo a
tacere
ancora prima di poterlo avvisare.
«Mai!»
ribatté a quel
punto il più piccolo, riducendo gli occhi a una fessura e
stringendo le labbra
per concentrarsi, osservando le carte che aveva in mano e decidendo se
fidarsi
o meno. Una mossa sbagliata e la sua camicia del pigiama sarebbe finita
a fare
compagnia ai calzini e ai pantaloni.
Non ero
sicuro che
fosse una buona idea quella di permettere a un adulto di corrompere
l’animo
ancora innocente e ingenuo di Rufy, ma avevo le mani legate e la bocca
cucita
dato che quel presunto adulto mi
aveva minacciato di far vedere la famosa
foto di me e Ace in cucina avvinghiati e
impegnati a copulare. Ovviamente avevo cercato di fargli
capire più volte
che non stavamo facendo nulla, ma
non
ne voleva sapere e la foto bastava e avanzava per incriminarmi e far
sorgere
dubbi e domande nella mente di Rufy, così lo avevo lasciato
fare, sperando di
non dovermene pentire.
Sul volto
di Thatch
apparve un sorrisetto per niente rassicurante e una scintilla
illuminò i suoi
occhi malandrini mentre, con finta educazione, faceva cenno al
ragazzino seduto
davanti a lui e dall’altra parte del letto di fare la sua
mossa, aspettando il
momento giusto per metterlo nel sacco.
«Mhm»
fece Rufy
pensieroso, «Io ho queste, cosa significa?».
Allungando
il collo per
dare un’occhiata e assicurarmi che mio fratello non
imbrogliasse dicendogli di
avere una mano sfortunata, notai con sorpresa che aveva delle buone
carte in
mano.
«Ma
che diavolo!»
sbottò il castano, gettando malamente le sue carte sul letto
sopra al lenzuolo
che copriva il corpo addormentato e sedato di Ace, mettendosi a
camminare
furiosamente per la stanza e sbuffando come una locomotiva. Certo non
doveva
essere facile per lui accettare la sconfitta dato che, per la prima
volta in
vita sua, aveva trovato un degno rivale che, senza conoscere bene le
regole del
gioco, l’aveva appena lasciato in mutande.
Trattenni
a stento una
risata e, quando Rufy si voltò a guardarmi in cerca di
risposte a quelle
sceneggiata, alzai il pollice nella sua direzione facendogli capire che
si,
aveva vinto lui e non quel montato dai capelli cotonati.
«Ho
vinto io! Thatch,
ti ho battuto, hai perso!» trillò entusiasta,
alzandosi in piedi sulla sedia e
rivolgendo le braccia verso il soffitto in segno di vittoria, cosa che
non
piacque per niente all’altro ragazzo che, fulminandolo con lo
sguardo e
digrignando i denti, scavalcava il lettino dell’ospedale,
rischiando di
rovesciare persino il paziente, per raggiungere Rufy con
l’intento di
afferrarlo e dargliene di santa ragione per quell’affronto.
Ovviamente
il ragazzino
non rimase fermo ad accettare la brutta sorte che si prospettava per
lui e
saltò giù per poi corrermi incontro e nascondersi
dietro di me, tra la sedia e
il muro alle sue spalle.
«Marco
levati dalle
palle, lui ed io abbiamo un conto in sospeso!»
affermò Thatch, avanzando verso
di noi e arrotolandosi le maniche del pigiama lungo i gomiti per
enfatizzare le
sue intenzioni poco delicate e cordiali.
Quante
storie per una
partita a carte, e allora cosa doveva dire Vista che era rimasto al
verde un
sacco di volte giocando contro di lui?
Sospirando
e
richiudendo il libro che mi ero messo a leggere mi massaggiai le
tempie,
sperando in un intervento divino per mettere fine a quel momento
assurdo.
Era
passato solo un
giorno e già non ne potevo più della loro
costante compagnia. A dire la verità
Rufy non era un problema, anzi, era un ragazzino vivace, ma quando
voleva
sapeva essere responsabile e serio, esattamente come il fratello e non
mi
sarebbe dispiaciuto passare le giornate ad aspettare il risveglio di
Ace con
lui, assolutamente, non fosse stato per la presenza di Thatch che,
essendo una
mina vagante, non perdeva occasione per coinvolgere il minore in una
serie di
giochi, sfide e scemenze varie, facendo baccano e urtando il mio
sistema
nervoso.
Volevo
solo restare in
pace e attendere che Ace aprisse gli occhi. Non chiedevo altro.
«Thatch,
piantala»
dissi calmo, sentendo dietro di me le risate trattenute di Rufy.
«Cosa?
Questo moccioso
mi ha battuto! Se gli altri lo vengono sapere la mia reputazione va a
putt…».
«Thatch,
contieniti»
mormorai, guardandolo storto e bloccandolo prima che facesse uso di
termini
troppo volgari. Non sapevo quanto fosse abituato Rufy a quel genere di
vocabolario, ma nel dubbio era meglio tenerlo all’oscuro di
certi
comportamenti, per quello non ero tranquillo sapendolo assieme a quello
scapestrato di trent’anni suonati.
«Oh,
non preoccupatevi,
sono abituato a sentire di peggio. Non avete idea di come siano le
litigate tra
Eustachio e Traffy».
Oh,
certo, come dimenticarli,
pensai con un ghigno sulle labbra, ricordando il coinquilino di Ace e
il suo strambo
amico dai capelli rossi. Una volta mi aveva raccontato delle loro
continue
baruffe e si, dovevo ammettere che gli insulti che non esistevano se li
inventavano loro.
«Ecco,
quindi non si
impressionerà di certo se gli racconto di quella volta in
cui…».
«Thatch».
«Oh,
andiamo! Prima o
poi qualcuno dovrà pur iniziarlo a…».
«Si,
ma preferisco poi! Ora piantatela
tutti e due e andate
a prendervi qualcosa da mangiare. Ecco qualche spicciolo».
Bastò
nominare la
parola mangiare e Rufy era
già fuori
dalla porta, saltellando sul posto in attesa di Thatch che, una volta
uscito,
gli passò una mano attorno alle spalle per stringerlo a
sé e iniziare a
parlargli fitto fitto di cose di dubbia moralità.
Scuotendo
il capo
esasperato mi avvicinai al letto per poi sedermi sul bordo e spostare
una
ciocca di capelli dal viso rilassato e pieno di cerotti di Ace.
Mi
abbassai fino a
sfiorargli il naso con il mio. «Tranquillo, io sono qui e non
me ne vado».
Lo so, lo
so, sono in
un TREMENDO ritardo, ma ho intenzione di rimettermi in carreggiata e di
non
abbandonarvi più. Allora, tutti all’ospedale in
attesa del risveglio di Ace che
arriverà a brevissimo, davvero, con al seguito il fatidico
incontro con la
DOLCE famiglia di Marco :3
Sto
già morendo al solo
pensiero.
Beh, io
ho cercato anche
la faccia inquietante di Thatch per farmi perdonare, LOL:
http://cdn.myanimelist.net/images/characters/11/100260.jpg
Anyway,
scusatemi
ancora e grazie per aver pazientato e non aver deciso di scannarmi
viva, siete
adorabili tutti :3
Un
abbraccio grande e
grazie sempre a tutti!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 52 *** Capitolo 52. O. Mio. Dio. ***
Capitolo 52. O.
Mio. Dio.
Quel pomeriggio
Rufy e
io avevamo approfittato della momentanea e miracolosa assenza di Thatch
per
stare tranquilli in attesa del risveglio del suo scapestrato fratello.
In poco
tempo il piccoletto era crollato addormentato, mentre io cercavo di
tenere gli
occhi aperti e la mente concentrata sul libro che stavo leggendo. Il
mio
intento, però, andò ben presto a farsi benedire
dato che, senza rendermene
conto, mi appisolai col busto appoggiato al tavolo.
Avrei
sicuramente
continuato a dormire se non fosse stato per il libro che, scivolatomi
dalle
mani, cadde a terra con un tonfo leggero, ma che mi ridestò
ugualmente dal mio
sonno, facendomi sbattere le palpebre più volte per
liberarmi da quel torpore
che mi aveva aggredito.
Fu quando
mi chinai per
raccogliere il volume che il mio sguardo cadde, per abitudine, sul
letto dove
riposava Ace, incontrando così un paio di occhi neri, svegli
e, soprattutto,
aperti.
«Uh,
Ace?».
O stavo
sognando, o Ace
si era appena svegliato dal coma indotto dai farmaci.
«M-marco»
balbettò lui
in imbarazzo, accendendo in me una fiamma di felicità, gioia
e qualcos’altro
che non rimasi a identificare tanto ero contento della sorpresa e
incredulo.
«Ace…».
Ero così
sollevato dalla novità che non sapevo nemmeno cosa dire e
per un istante
dimenticai il casino che era successo, persino il suo comportamento
avventato,
testardo e sciocco.
«Marco»
ripeté lui,
accennando ad un debole sorriso che, per poco, non cancellò
i ricordi dei
giorni precedenti e della paura che avevo avuto di perderlo. Se solo
quell’idiota mi avesse aspettato non avremo rischiato
così tanto tutti quanti.
Dannazione, se ci ripensavo mi sentivo ancora arrabbiato e inutile,
inutile
perché aveva preferito fare tutto di testa sua quando Thatch
e io non lo avremo
mai abbandonato. Insomma, faceva parte della famiglia ormai, faceva
parte della
mia vita.
L’espressione
preoccupata che assunse probabilmente fu solo l’effetto
dovuto all’urlo
arrabbiato che cacciai l’istante successivo.
«ACE!» ruggii, scattando in
piedi e dirigendomi a grandi falcate
verso il letto con l’intento di rispedirlo in coma.
«Eh?
Che cosa? Ace?
Ace! Fratellone!».
Peccato
però che in
quel modo svegliai anche Rufy.
Piombammo
entrambi e nello
stesso istante addosso a Ace, soffocandolo col nostro peso e
abbracciandolo,
accarezzandolo e aggrappandoci a lui nel tentativo di assicurarci che
tutto ciò
fosse vero, anche se ero molto tentato di tirargli un ceffone e
riempirlo di
pugni per lo spavento che ci aveva fatto prendere. Le molle del
materasso
protestarono un poco, ma non ci badammo.
«Ace,
brutto idiota!»
dissi tra i denti, fulminandolo con lo sguardo, inginocchiato sul letto
a pochi
centimetri da lui e intento ad arruffargli i capelli. Ero davvero
incazzato,
offeso, carico di preoccupazione, ma maledettamente felice che tutto
fosse
andato per il meglio, solo che non volevo dargliela vinta
così facilmente,
doveva pur capire la cazzata che aveva combinato col suo comportamento
da eroe.
Rufy
intanto rideva ed
era al settimo cielo e, nel giro di pochi minuti, dopo che il fratello
gli ebbe
assicurato di stare bene e di non sentirsi male, schizzò
fuori dalla stanza,
diretto in sala d’attesa per avvisare tutti e chiamare il
resto dei ragazzi che
stavano aspettando di avere notizie dei feriti.
Solo
allora Ace si
decise ad affrontarmi, voltandosi a guardarmi timidamente e scrutando
il mio
cipiglio serio alla ricerca di un barlume di bontà che,
però, non gli avrei
concesso.
Si
strinse nelle spalle
e abbozzò un sorriso spensierato. «Ehilà»
improvvisò, con finta allegria, facendomi impallidire
davanti a quell’affermazione.
L’avrei disintegrato, se solo avessi potuto. Come poteva
saltarsene fuori con
così tanta semplicità quando fino a poco prima
aveva rischiato di non
svegliarsi più? Perché, nonostante il coma
indotto, i medici erano stati chiari
sulla sua condizione: Ace avrebbe potuto benissimo non svegliarsi
più.
Senza
rendermene conto,
animato da un attacco di rabbia, il mio braccio saettò verso
di lui con
l’intenzione di colpirlo forte, ma mi fermai nel bel mezzo
dell’azione per
qualche fortuito miracolo, stringendo il pugno e portandolo alle labbra
per
mordermi le nocche nel tentativo di calmarmi.
«Hai
almeno la vaga
idea di quello che abbiamo passato, Ace?» gli domandai
glaciale e scandendo
lentamente le parole una ad una, fissandolo torvo e tanto intensamente
da
fargli abbassare il capo dispiaciuto. Nonostante ciò
continuai: «Riesci ad immaginare
come ci siamo sentiti?». La mia voce si alzò di
qualche tono. «Ti abbiamo
creduto morto, razza di incosciente! E non ti descrivo nemmeno la
faccia di tuo
fratello in questi giorni, era distrutto. Non faceva altro che
colpevolizzarsi e
pregare che aprissi gli occhi. Abbiamo passato tre giorni orribili per
la tua
testardaggine. Io…».
Ero
disperato, avrei
voluto dire, invece mi fermai, mordendomi
un labbro e stringendo i pugni lungo i fianchi, «Tutti noi non sapevamo più
cosa fare».
«I-io
non volevo che vi
preoccupaste» sussurrò sommessamente,
«Ma cos’altro avrei potuto fare? Rufy era
in pericolo e non potevo lasciarlo da solo!».
Tirai un
pugno al
materasso non riuscendo a trattenermi. «Lo so, dannazione! Lo
so e avrei fatto
lo stesso per la mia famiglia, ma avresti potuto permettermi di
aiutarti.
Thatch e io non ti avremo di certo abbandonato. Cosa ti passava per la
testa?».
Avrei continuato a riempirlo di parole dure e insulti se non si fosse
fatto
serio tutto d’un tratto, indurendo l’espressione.
Seguii la traiettoria del suo
sguardo e mi accorsi che si stava concentrando sulle garze e sulla
fasciatura
che mi avevano applicato i medici per coprire i punti che avevano messo
quando mi
avevano ricucito la ferita d’arma da fuoco.
«Cosa
ti è successo? Sei
pieno di bende e indossi un camice dell’ospedale»
mormorò, rasentando
l’isterismo, «Perché?».
Vedendolo
così
preoccupato capii che arrabbiarmi con lui non avrebbe portato a niente.
Alla
fine era tutto passato e finalmente si era svegliato. Potevamo quindi
rilassarci e passare il resto della nostra vita… insomma,
andava tutto bene,
finalmente.
«Solidarietà»
scherzai
con un’alzata di spalle, sminuendo l’importanza
della mia condizione, «Ho
lottato per ciò a cui tengo» aggiunsi subito dopo,
avvicinandomi per affondare
dolcemente una mano fra i suoi capelli disastrati e ribelli,
scompigliandoli e
poggiando la fronte contro la sua, «Come hai fatto
tu». E così, alla fine, sorrisi
allegramente.
Fu
adorabile il sorriso
che seguì il mio sulle labbra di Ace, labbra che mie erano
mancate così tanto!
Pensai distrattamente che dovevamo rimediare a tutto quel tempo perso e
nel
farlo mi abbassai per sfiorargli il naso con il mio, avvicinandomi
sempre di
più fino a che non arrivai a premere la mia bocca sulla sua
in un bacio lento e
dolce. Bacio al quale ne seguirono altri. Le mani iniziarono a vagare
sulla
stoffa dei nostri pigiami e quasi scoppiai a ridere quando Ace mi
afferrò il
camice con l’intento di strattonarmelo via. Non
c’era che dire, era proprio un
ragazzino.
«Toh
guarda» fece alle
nostre spalle una voce troppo famigliare che immobilizzò
entrambi, obbligandoci
a voltare la testa di scatto verso l’entrata della stanza.
Quando riconobbi la
figura che accompagnava Thatch, però, mi sentii gelare.
O.
Mio. Dio.
Il
castano,
sogghignando sadico, continuò. «Questo si che vale
un braccio rotto. Tu che ne
pensi, babbo?».
Ace
sbiancò e divenne
pallido come il lenzuolo che gli copriva le gambe, lenzuolo che
afferrò come se
fosse stato la sua unica ancora di salvezza e, stupidamente, si nascose
sotto
ad esso, mentre io facevo un respiro profondo per calmare
l’istinto omicida che
mi stava salendo nei confronti di quel mio presunto fratello.
«E
così» tuonò il babbo
lisciandosi i baffi e sorridendo in un modo che gli sconosciuti
avrebbero
definito inquietante, ma che per noi figli suoi era semplicemente
divertito e
carico di affetto, «Tu saresti il ragazzetto di cui ho tanto
sentito parlare
ultimamente?».
Da sotto
le coperte non
provenne risposta, tanto che temetti che Thatch avesse appena
contribuito a
togliere di mezzo il mio ragazzo facendogli venire un infarto.
«Ace?
Ehi, Ace, meglio
se vieni fuori» sussurrai, non allontanandomi comunque di un
centimetro da lui
e rimanendogli seduto accanto per infondergli coraggio.
Lentamente
la testa
corvina del ragazzo sbucò da sotto le coltri in un groviglio
di flebo e
tubicini di plastica, il respiro accelerato e gli occhi spalancati,
attenti e
un po’ nervosi. Mi lanciò un’occhiata
breve e veloce prima di fissarsi su
quello che per lui non era altro che il sindaco della città,
studiandolo e
lasciandosi a sua volta studiare e, deglutendo a fatica, si
passò la lingua sulle
labbra per poi rivolgersi all’uomo come solo lui sapeva fare.
«Beh,
che hai da
fissare, vecchio?».
Se Thatch
si piegò in
due in preda a risa isteriche io mi pietrificai ancora di
più. Un’uscita del
genere avrei dovuto aspettarmela, ma non fu così tragico
come mi ero aspettato,
anzi, infatti Edward Newgate non fece altro che deliziarci di una
risata
cavernosa, lasciando Ace di sasso e a bocca aperta.
«Ma
che ha?» mi chiese
allibito, rivolgendosi direttamente a me e ricevendo in cambio
un’alzata di
spalle con cui volevo fargli capire che non doveva stupirsi
più di tanto. La
mia famiglia era doppiamente più assurda e bizzarra della
sua, ne ero certo.
Quanto
fosse clemente e
disposto a scendere a patti con la nostra relazione il nonno di Ace,
però, non
lo sapevo, e, quando fece irruzione nella stanza pure lui con il
piccolo Rufy
attaccato alle sue gambe, la voglia di sotterrarmi sotto alle lenzuola
venne
anche a me.
*Special*
Oh,
che meraviglia, il futuro suocero di Ace e il futuro suocero della
testa d’ananas
nella stessa stanza e allo stesso momento, non potevo chiedere di
meglio! Credo
che al matrimonio, durante il mio indimenticabile discorso,
racconterò anche
questo! E aspetta che lo sappiano gli altri! Ah, si perdono sempre le
scene più
esilaranti, poveri sfigati.
Uscii
dalla camera del
ragazzino con l’intento di lasciare lui e mio fratello nella
merda fino al
collo, sistemando distrattamente il braccio ingessato sul fazzolettone
che mi
ero legato al collo in modo da tenerlo fermo contro il torace ed
evitare di
muoverlo o apportare danni. Anche io avevo una ferita di guerra da
esibire e la
cosa mi riempiva di orgoglio. Chissà, magari avrei potuto
fare colpo sfruttando
quell’aspetto.
Riflettendo
su tutto
ciò mi fu impossibile non pensare a Izou. Quel bastardo in
tre giorni non si
era mai fatto vivo, mentre il babbo e gli altri avevano praticamente
fatto un
sacco di viaggi da casa all’ospedale per vederci e sapere di
noi. Pazienza che
mi avesse evitato, ma almeno informarsi sulla salute di Marco che, per
quanto
idiota e simile a un pennuto, aveva rischiato grosso.
Sbuffai e
calciai un
bicchiere di plastica caduto fuori da un cestino nei pressi delle
macchinette.
Odiavo essere di malumore, ma quella situazione mi aveva davvero
ferito.
Dopotutto, cosa avevo fatto di male? Mi ero preso una cotta per uno dei
miei
fratelli, e allora? Andiamo, come si poteva restargli indifferenti? Era
così
intelligente, educato e, d’accordo, un po’ fissato
con l’estetica, ma chi non
aveva qualche problema esistenziale nella nostra famiglia? E poi era
sempre
così attento a tutto, calcolava ogni cosa, studiava le
persone fissandole da
capo a piedi e, Dio!, come mi
guardava lui non mi guardava nessuno. Mi ribolliva il sangue ogni
volta.
Probabilmente
avevo
sbagliato io a comportarmi da latin lover tutti quegli anni ma, ehi,
non potevo
farci nulla se ero il più sexy tra i miei fratelli.
Eppure
avevo davvero
sperato di vederlo preoccupato, almeno un pochino, per la mia
condizione.
Alle
macchinette avevo
finito per prendere una bottiglietta d’acqua, tanto per
distrarmi, e quando
capii che non avevo più niente da fare ritornai sui miei
passi, cercando di non
abbattermi e ideando un modo per far morire ulteriormente di vergogna
Marco e
il suo moccioso dal bel fondoschiena.
«THATCH!». Un urlo isterico mi
bloccò quando ormai avevo raggiunto
la loro stanza. Mi voltai lentamente con i brividi lungo la schiena.
Quando quella voce mi chiamava con quel tono voleva dire che stava per
scatenarsi l’Apocalisse.
In fondo
al corridoio
avanzava una figura snella e determinata con una chioma corvina
raccolta in
un’acconciatura veloce e fatta in fretta dalla quale
ricadevano alcune ciocche
ribelli, ma poco sembrava importarle, dato che la suddetta persona
sembrava
tutt’altro che interessata al suo aspetto. Piuttosto mi
preoccupava lo sguardo
di fuoco che mi stava rivolgendo come se avesse voluto incenerirmi sul
posto e
all’istante.
«Izou»
lo salutai,
alzando il braccio buono e fingendomi tranquillo, «Come te la
pass…».
Mi
afferrò con le sue
piccole manine bianche il bavero della camicia del pigiama,
strattonandolo e
facendomi notare con stupore che, anche se era smilzo, di forza ne
aveva tanta,
abbastanza da prendermi pure a pugni. «Brutto
idiota!» mi urlò in faccia, «Dove
cazzo lo tenevi il cellulare quando ti chiamavo, eh? Cos’era,
non volevi
parlarmi? Vedevi il mio numero e mi ignoravi? Ti prego dimmelo prima
che ti
disintegri la faccia da stronzo che hai!».
Allibito,
sorpreso e
confuso, cercai con calma di fargli allentare la presa, cosa che mi
risultò
impossibile dato che avevo solo un braccio sano, ma almeno ebbi modo di
rispondergli, anche se a molto non servì.
«Ma
che diavolo stai
dicendo? Il telefono? Non lo so, devo averlo perso» mormorai,
rendendomi conto
solo allora che, in effetti, ero sprovvisto di un cellulare dal giorno
dell’incidente, peccato che questo mi fece venire in mente
che avrebbe anche
potuto scomodare il suo bel culetto e venire a salutarmi di persona, il
signorino sclerato.
«Comunque
avresti anche
potuto passare per un saluto, sai? Non chiedevo molto, ma un
po’ di finto interesse,
dato che di attenzioni vere
e proprie non vuoi saperne di darmene» chiarii piccato,
rispondendo alla sua
occhiataccia con altrettanto astio rinnovato.
I suoi
occhi si
ingrandirono e le sopracciglia sottili saettarono verso
l’alto mentre la bocca
si apriva per lo stupore. «Cioè, mi stai dicendo
che tu non lo sapevi?».
«Sapevo
cosa?».
«Non
sono potuto andare
al bar con Haruta tre giorni fa, ti ho anche lasciato dei
messaggi» spiegò,
mantenendo ugualmente salda la presa. Ero un po’ scomodo
perché dovevo piegarmi
con il busto verso di lui vista la differenza d’altezza, ma
andava bene lo
stesso. «A lavoro mi avevano anticipato un meeting
all’ultimo minuto e sono
dovuto partire. Sono tornato solo stamattina».
Quello
spiegava la sua
ingiustificata e fraintesa assenza.
Ci
guardammo in
silenzio per qualche attimo, quando alla fine sul mio viso apparve il
solito
sorrisetto malandrino che tanto detestava. Non si lasciò
contagiare, però, e
riprese, a sbraitarmi contro, strattonandomi avanti e indietro.
«Avresti
potuto
chiedere, cretino! O farmi avere tue notizie, chiamare, mandare uno
stramaledetto messaggio in qualche modo, anche tramite gli altri!
Stupido,
bastardo, -uno strattone a destra- infantile, -poi a sinistra- fuori di
testa.
Ti odio e vaffanculo!» concluse senza fiato.
«Hai
finito?» gli
chiesi con sarcasmo, impassibile a quella scenata da drogato tipica di
lui. Ne
faceva una almeno tre volte al giorno quando andava bene ed era di buon
umore.
«No!»
ringhiò.
«Oh,
andiamo, chiudi il
becco» dissi esasperato, alzando gli occhi al cielo e
approfittando della
vicinanza per abbracciarlo e stringermelo contro forte con il braccio
buono.
«Non volevo farti preoccupare».
«Figurati,
sai quanto
mi interessa» borbottò contro il mio petto,
colpendomi con dei leggeri pugnetti
per evidenziare la sua scarsa e finta rabbia.
«Certo
Izou, non hai
appena fatto una scenata da ragazzina innamorata, tranquillo»
sfottei con un
ghigno e godendomi l’indignazione sul suo volto.
«Non
crederai mica
che…».
«Ormai
ti ho in pugno, Dolcezza».
*
Saaalve
gente :3 avete
visto che sono qua anche oggi? O tutto o niente insomma, LOL.
Come
promesso ecco qua
l’arrivo tanto atteso di Barbabianca! Non ho potuto fare a
meno di buttarci in
mezzo anche Garp, insomma, è un qualcosa di troppo epico *O*
Poveri i
due ragazzi,
io non vorrei essere al loro posto, anche se ho intenzione di metterli
ancora
più in imbarazzo prossimamente, oh si :D
E Thatch?
Tesoro,
dovrei fare una fan fiction solo per lui perché è
un qualcosa di fantastico!
Beh, lo Special oggi lo dedico a qualcuno in
particolare a cui piace tanto la coppia ThatchIzou,
quindi spero che la scena ti sia piaciuta, Jeta
:3
Bene,
spero che il capitolo
vi sia piaciuto, da qui in poi ci sarà solo il buonumore,
quindi state allegri
:D
Un
abbraccione grande e
un grazie infinito a tutti!
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 53 *** Capitolo 53. Consuoceri. ***
Capitolo 53.
Consuoceri.
Quello che stava
accadendo non era reale, non poteva
esserlo. Andiamo, chi mai avrebbe potuto essere tanto sfigato
da ritrovarsi
nella stessa stanza e nello stesso istante con il nonno isterico e
pazzo,
nonché unico tutore, e il padre adottivo del fidanzato,
nientemeno che il
sindaco del paese? Era praticamente impossibile, una storia da
barzelletta. E
invece no, figuriamoci se a me, lo sfigato per eccellenza, non doveva
capitare
una situazione simile. Tutta colpa di Thatch, ne ero certo, il quale,
dopo
averla combinata, se ne era andato in fretta e furia come se nulla
fosse
accaduto e lasciando suo fratello e me nei guai. Quel bastardo sapeva
che Marco
sarebbe stato ad aspettare il mio risveglio e aveva quindi deciso di
tentare la
sorte e portare il suo adorato ed enorme babbo a farmi visita. Che
pensiero
gentile! Oltre a quello, Rufy, ovviamente, aveva scelto il momento
migliore per
trascinare nella mia stanza il vecchiaccio, facendo si che i due uomini
si
incontrassero nel momento esatto in cui la loro prole si stava
scambiando
effusioni amorose.
Marco,
accanto a me,
era schizzato in piedi per mettere almeno un metro di distanza tra me e
lui
dopo l’occhiata torva ricevuta da nonno Garp e, schiarendosi
la voce e
sistemandosi la maglia per rendersi almeno un po’
presentabile, aveva
coraggiosamente fatto qualche passo nella sua direzione porgendogli la
mano.
Una tacita speranza di pace, ecco.
«Marco
Newgate» fece,
raddrizzando le spalle e mostrandosi educato e rispettoso,
«Molto piacere di
conoscerla, Signore».
Nonno
Garp, che era
rimasto a bocca aperta come un fesso,
no, come un pesce fino ad allora davanti a suo nipote, avvinghiato su
un letto
d’ospedale con uno sconosciuto, e alla presenza del famoso
Edward Newgate, uomo
che sapevo stimava moltissimo, sembrò tentennare davanti a
quelle buone maniere
con cui Marco gli si avvicinò, quasi con riverenza. Certo,
ero certissimo che
lui ci sapeva fare con le persone, ma non riuscivo a tranquillizzarmi
perché
conoscevo anche troppo bene il carattere burbero e mite del vecchio e
temevo
che avrebbe dato di matto di li a qualche secondo.
Solo
quando, con
riluttanza e un cipiglio poco convinto, strinse controvoglia la mano al
biondo
mi permisi di rilassare un pochino
le
spalle, smettendo di sbranarmi il labbro inferiore per il nervoso. Alle
sue
spalle, la testa di Rufy fece capolino e mi regalò un
sorriso enorme prima di
alzare il pollice come a volermi dire che il peggio era passato. Non ne
ero
così convinto come lui, ma sperai con tutte le mie forze che
avesse ragione.
Quando
però il nonno
posò i suoi occhi scuri su di me, potei chiaramente capire
che la mia vita non
sarebbe durata molto a lungo e le bugie e le scuse campate per aria non
mi
sarebbero servite proprio a niente.
«Sciagurato
nipote!»
tuonò infatti, alzando i pugni verso il soffitto e coprendo
con pochi passi la
distanza che lo separava dal mio letto per poi chinarsi su di me con
tutta la
sua stazza.
Sono
morto, sono morto, sono morto.
«Mi
hai fatto
preoccupare, disgraziato!». Contrariamente a quello che mi
ero aspettato, non
mi arrivò nessun manrovescio da capogiro, anzi, mi ritrovai
stretto e quasi
soffocato dalla morsa potente e ferrea dell’ex marine che,
blaterando improperi
e insulti rivolti alla mia persona e alla mia indole incorreggibile, mi
stringeva a sé quasi con affetto
e
sollievo. Fu così incredibile che, senza rendermene conto,
mi ritrovai a
picchiettargli gentilmente la schiena con una mano, pregandolo di
calmarsi
perché c’era gente che ci osservava.
Non
appena la sua crisi
di mezza età gli fu passata si ricordò di
graziarmi di un violento scappellotto
sulla nuca che mi fece sbattere il naso contro le mie ginocchia
piegate, ma Dio
volle che si fermò a quello senza andare oltre
perché Rufy ne stava combinando
una delle sue importunando il Signor Barbabianca.
«Così
tu sei il papà di
Marco?» gli chiese, mentre l’omone lo guardava
dall’alto, sorridendogli
apertamente con divertimento.
«Esatto,
moccioso, e tu
chi saresti?».
Rufy
gonfiò il petto
con smisurato orgoglio. «Sono il fratellino di Ace»
affermò, alzando il mento
con fare altezzoso, come se il suo grado di parentela con me fosse
stato un
qualcosa di cui andare fieri. Tutto ciò, anche se non lo
diedi a vedere, mi
provocò un piacere immenso e un senso di fratellanza verso
di lui che per poco
non mi costrinse a correre ad abbracciarlo.
«Devi
essergli molto
affezionato» notò Newgate con interesse.
«Oh
si, Ace è il mio
eroe! Lui è forte e coraggioso e non ha paura di
niente!».
Rufy, pensai
sorridendo e massaggiandomi il
collo indolenzito per l’abbraccio del vecchio, anche
io ti voglio bene.
«Mi
fa piacere, non
sono molti i ragazzi così al giorno
d’oggi».
«Infatti,
ma non ti
devi preoccupare, Marco ha trovato il migliore con cui stare».
Ma
che diavolo!
«Rufy!»
sbottai. Possibile che non riuscisse mai a tenere a freno la lingua?
Il
piccoletto si voltò
a guardarmi con aria interrogativa e, stringendosi nelle spalle, mi
chiese che
cosa avesse mai detto di sbagliato. «Tanto lo so come stanno
le cose, me l’ha
spiegato prima Thatch. Ha detto:’Piccoletto,
i nostri due fratelli se la filano alla grande -non ho ben
capito cosa
intendesse- e presto si sposeranno e
andranno a vivere assieme nell’appartamento di Marco dove
ogni notte…’».
«Rufy
perché non vai a
prenderti qualcosa da mangiare?» intervenne Marco,
tappandogli la bocca al
momento più propizio e spedendo il ragazzo che avrei ucciso
con le mie stesse
mani fuori dalla stanza. Prima di lui, però, avrei
sicuramente evirato Thatch,
poco ma sicuro.
Una volta
tolto di
mezzo quell’impiastro calò il silenzio tra quelle
quattro mura ed io dovetti di
nuovo affrontare un’occhiataccia incendiaria da parte di
Garp, il quale,
probabilmente, non ci aveva messo poco a fare due più due
con gli elementi a
sua disposizione e a trarre le giuste conclusioni sul tipo di rapporto
che
legava me e il figlio di Newgate.
«Allora,
hai intenzione
di spiegarti o preferisci che ti cavi le parole di bocca?»
grugnì
all’improvviso, incrociando le braccia al petto con aria
minacciosa e facendomi
sudare freddo.
«Ehm,
ecco io…». Lanciai
uno sguardo preoccupato a Marco che, incurante
dell’irascibilità del vecchio,
era ritornato al suo posto iniziale, ovvero accanto a me.
«Insomma, c’è stato
un incendio e…».
«Non
parlo di quella
storia, Rufy me l’ha ripetuta mille volte in questi giorni.
Voglio sapere,
piuttosto, quando avresti deciso di sposarti!».
Il mio
cuore perse
qualche battito in quell’esatto istante ed ebbi la sensazione
che i miei occhi
schizzassero fuori dalle orbite.
«Signor
Garp»
intervenne Marco, grattandosi la testa imbarazzato, «Noi non
abbiamo intenzione
di sposarci».
«Stai
dicendo che hai
usato mio nipote come un passatempo?» sussurrò mio
nonno digrignando i denti.
«No,
ovviamente no!» si
corresse, «Voglio dire, ecco, n-non… Non
ancora?» provò a dire, sperando di
poter calmare gli animi senza offendere nessuno e senza farsi
fraintendere.
Io
non mi voglio sposare,
avrei voluto dire, ma immaginai che non sarebbe stata una grande idea
incasinare ulteriormente il pennuto e irritare ancora di più
mio nonno, così me
ne stetti zitto a pregare che avvenisse un miracolo e che qualcosa, o
qualcuno,
mi venisse a salvare da quella situazione imbarazzante. Dopotutto,
l’importante
era tranquillizzare il vecchio e assecondarlo, poi, una volta usciti da
quell’impiccio, avremo fatto a modo nostro,
s’intende.
«Bene!»
tuonò
Barbabianca, dando una sonora e pesante pacca sulla spalla a Garp che
quasi
inciampò sotto quel peso, «Penso che potremo darci
del tu visto che diventeremo consuoceri»
sorrise bonario mentre l’altro sbiancava.
«Non
credo proprio! Mio
nipote è giovane, deve finire gli studi e arruolarsi
nell’esercito! Non ha
tempo per pensare al matrimonio!».
«Uh?
Matrimonio? Ace e
Marco si sposano? Devo dirlo agli altri!». Rufy, il quale
aveva fatto capolino
dalla porta con la faccia sporca di cioccolata, lasciò
cadere una quantità
assurda di merendine a terra e sparì nel corridoio urlando
come un ossesso. Ma
cosa avevano tutti quel giorno da gridare?
«Suvvia,
non si agiti.
Venga, le offro un caffè» disse Newgate, prendendo
il nonno a braccetto e
trascinandolo di peso fuori dalla stanza, corrompendolo con la promessa
di un
doppio caffè corretto al
quale
l’altro non seppe resistere, seppur ostentando antipatia.
Prima di
uscire, però,
non mi persi l’occhiata complice che si scambiò
con il figlio e lo sguardo
rassicurante che rivolse poi a me, come a volermi tranquillizzare che a
Garp ci
avrebbe pensato lui. Meglio così, la giornata era stata
anche troppo pesante e
avrei affrontato mille incendi pur di evitare un secondo incontro come
quello.
«Allora»
sospirò Marco,
massaggiandosi le palpebre e gettandosi di peso sul letto accanto a me,
incrociando le caviglie e passandomi un braccio attorno alle spalle per
attirarmi a sé, «Tutto a posto?».
«Credo
di aver appena
rischiato un infarto» mormorai allibito, sbattendo le
palpebre e prendendo
fiato.
«Oh
beh, aspetta di
conoscere il resto della famiglia» ghignò Marco
prima di zittire le mie
proteste con un bacio.
*Special*
«Guarda
il babbo e
l’amato suocerino di Marco. Sembra che vadano
d’accordo» dissi con
divertimento, fermandomi un attimo davanti al bar
dell’ospedale e osservando
come papà Barbabianca facesse scoppiare a ridere quello che
era presumibilmente
l’irascibile nonno di Ace.
Izou
lanciò un’occhiata
annoiata ai due per poi proseguire a testa alta, facendo come se non
avessi
detto nulla e mantenendo l’aria corrucciata che aveva assunto
da quando gli
avevo fatto notare la sua scenata isterica e preoccupata dovuta alla
mia
condizione di eroe di guerra ferito.
«Hai
intenzione di
tenermi il muso per molto ancora?» gli chiesi, affiancandolo
e chinandomi in
avanti per spiare la sua faccia.
Mi
guardò storto per un
secondo prima di rispondermi amorevolmente.
«Vaffanculo
Thatch».
«Come
sei sexy quando
dici…».
«Oh,
ma falla finita,
maledizione!» sbottò.
«Shhh!» gli fece un medico che
passava di lì proprio in
quell’istante, attirato dal quasi urlo che il ragazzo aveva
lanciato.
Trattenni
a stento una
risata quando Izou si scusò col dottore, fulminandomi poi
con lo sguardo e
affrettando il passo nella speranza di distanziarmi, o seminarmi, cosa
in cui
non riuscì affatto e, standogli alle calcagna senza sforzo,
lo seguii per tutto
il tragitto fino a quando non arrivammo in prossimità della
stanza in cui era
stato sistemato il ragazzino di cui tanto si parlava in famiglia.
«Attento
a non
coccolare troppo il pennuto» mi premurai di avvisarlo,
«Ace è geloso».
«Come
te, Thatch?»
ribatté lui con fare altezzoso.
«Affatto,
ma prova solo
a fare il ruffiano col ragazzo di Marco e ti sopprimo».
Izou
fermò la sua
andatura spedita, fermandosi in mezzo al corridoio e aprendo le braccia
in modo
teatrale. «Woah, e
sentiamo, da
quando devo rendere conto a te del
mio comportamento?».
«Dolcezza, ti prego, non sei
più credibile ormai. So che non vedi
l’ora di saltarmi addosso e baciarmi. E come darti torto,
sono un tale schianto!»
gli feci notare con un sorriso che avrebbe fatto svenire ai miei piedi
chiunque. Chiunque tranne lui,
ovviamente, anche se risultò parecchio indignato.
«Stai
scherzando?»
chiese nervoso, chiudendo le mani a pugno e avanzando minaccioso fino a
che non
arrivò a puntarmi un dito contro il petto. «Mi
dispiace dirtelo, mio caro, ma
sei in errore. Non mi piaci, non sono interessato a saltarti addosso e
ti
assicuro che se mai dovessi baciarti, cosa che non
accadrà, non mi farebbe il minimo effetto».
«Ah,
cazzate!»
affermai, alzando gli occhi al cielo e afferrarlo per la collottola
prima che
se ne rendesse conto e potesse allontanarsi. L’attimo dopo mi
ritrovai
impegnato a premere le mie labbra sulle sue in modo lento e dolce,
deciso a
fargli cambiare idea e a convincerlo del contrario, ovvero che baciarmi
gli
avrebbe lasciato la voglia di rifarlo altre mille volte ancora.
Quando lo
lasciai
andare osservai attentamente il cipiglio corrucciato e il nervosismo
che stava
provando.
«Allora»
lo provocai,
«Non vuoi proprio saltarmi addosso?».
Si morse
un labbro e,
per un istante, i suoi occhi mi rivelarono la piega che i suoi pensieri
avevano
preso posandosi sul mio sorriso, ma riprese piuttosto bene il controllo
su se
stesso e mi sorpassò velocemente, entrando nella stanza di
Ace senza neanche
bussare e uscendo il secondo dopo con una faccia sconcertata. Non
appena provai
a chiedergli cosa gli fosse capitato mi fece fare dietrofront e mi
spinse verso
gli ascensori con forza.
«Torniamo
più tardi»
dichiarò categorico.
Mi
illuminai. «Non
dirmi che li hai colti in flagrante!» dissi, rubandogli il
telefono dalla tasca
con il braccio buono e ritornando sui miei passi correndo.
«Dannazione
Thatch,
lasciali stare!».
«Questa
foto la
appendiamo in sala da pranzo!».
*
Inizio
col fare gli
auguri di Buona Pasqua
(già passata)
a tutti e di Buona Pasquetta (quasi
finita).
Per farmi
perdonare vi
offro questo capitolo dove troviamo due personaggi epici e adorabili
come Garp e Barbabianca
e spargo cioccolato e uova ovunque per arruffianarmi.
A parte i
discorsi sul
matrimonio voluti e non e gli scleri del nonno, le coccole di Ace e
Marco
sempre più diabetici e delle trovate di Rufy sui discorsi istruttivi che gli vengono impartiti,
Thatch e Izou si sono
baciati. Evvai, fiesta!
Oh, beh,
non ho
immagini di loro due, mi dispiace, dovrete usare
l’immaginazione ^^
Ad ogni
modo spero
vivamente che il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo la prossima
volta dove
Ace incontrerà l’allegra e numerosa famigliola del
pennuto **
Un
abbraccione grande e
un grazie a tutti, presto risponderò alle meravigliose
recensioni del
precedente capitolo ^^
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 54 *** Capitolo 54. Una ciurma di sbandati. ***
Capitolo 54. Una
ciurma di sbandati.
Era stata una
lunga ed
estenuante battaglia, quella mia e di Marco, una lotta continua sia di
giorno
che di notte. Beh, forse la notte era più un intricato
e contorto
groviglio di lenzuola e frecciatine lanciate a mezza voce di
tanto intanto,
ma comunque sempre di una discussione si trattava, qualunque fosse il modo in cui si
svolgeva. Alla fine la guerra l’aveva vinta lui,
purtroppo, che
di diplomazia, oratoria e corruzione ne sapeva più di me,
così era riuscito a
mettermi nel sacco e a convincermi a concedergli almeno una
possibilità.
Ecco
perché, in quel
momento, mi trovavo seduto in macchina con lui nell’attesa
che un enorme
cancello si aprisse per lasciarci libero ingresso ad un vialetto in
ghiaia che
portava dritto dritto di fronte all’entrata della una casa,
se così poteva
chiamarsi una costruzione a dir poco enorme, dove risiedeva la maggior
parte
della famiglia di Marco. In poche parole stavo per affrontare
quell’incontro
che tutti i fidanzati temevano, ovvero la conoscenza dei parenti
più stretti della
propria anima gemella, una tradizione, a detta mia, barbara e crudele.
Insomma,
pazienza io che di fratello ne avevo uno, ma Marco vantava la bellezza
di una numerosa cucciolata di
orfani alle
spalle, nonché un genitore leggendario in città,
e praticamente io, povera
anima pia, dovevo fare attenzione a non suscitare le antipatie di una
ventina
di persone o poco più.
Mentre
Marco avanzava
lungo la via con un sorriso incoraggiante stampato in faccia,
più per
convenienza che per altro, perché sapevo che anche lui era
nervoso per qualche
arcano motivo che non voleva rivelarmi, io pensavo a quante
possibilità avevo
di svignarmela da quella prigione. Forse, se avessi inscenato un malore
o un
improvviso infarto di mio nonno avrei potuto darmela a gambe, ma avevo
come la
sensazione che nessuno, oltre a non credermi, mi avrebbe permesso di
evitare
quella cena.
La testa
d’ananas
parcheggiò poco lontano dall’entrata, accanto ad
un altro paio di auto e, con
un sospiro, spense il motore per poi voltarsi verso di me.
«Siamo arrivati»
comunicò pacato, scrutando attentamente la mia reazione.
Torturandomi
un labbro
non mi preoccupai nemmeno di smettere di fissare un punto indefinito
davanti a
me e, passandomi freneticamente una mano tra i capelli che nemmeno
avevo tentato
di pettinare per farli apparire presentabili, annuii leggermente con il
capo.
La verità era che stavo pianificando di scappare attraverso
i campi che
circondavano la tenuta.
Purtroppo
per me il
biondo intuì le mie patetiche intenzioni di fuga e, aprendo
la portiera per
scendere, mi dedicò un’occhiata ammonitrice.
«Non provarci nemmeno».
Sbuffai,
maledicendo
lui e tutta la sfilza di fratelli e sorelle che aveva, soprattutto
Thatch che
mi aveva stressato per un mese intero, tessendo le lodi della famiglia
e
presentando tutti loro come se fossero stati dei principi e delle icone
delle
buone maniere. Non aveva capito che era bastato lui stesso a far
crollare tutte
le sue chiacchiere montate per aria.
Sbuffando
affranto
lasciai che Marco mi facesse strada e lo seguii con l’aria di
un prigioniero
diretto al carcere per scontare la sua pena fino alla porta principale
dove si
fermò a suonare il campanello e ad attendere che qualche
ignoto venisse ad
aprirci.
«Ehi»
mi chiamò,
alzandomi il mento con due dita visto che io non avevo dato cenno di
averlo
sentito, «Andrà tutto bene» disse,
sorridendomi gioviale.
Se non
fossi stato
tanto ansioso e sul punto di svenire mi sarei soffermato a pensare a
quanto
bello fosse in quel momento e a quanto fortunato ero stato quel giorno
di tanti
mesi prima, quando avevo deciso di fermarmi in un bar qualsiasi a bere
un caffè
per dimenticare un’orribile giornataccia. Giornataccia che
era cambiata in
meglio.
Feci un
respiro
profondo, più che deciso a tirare fuori il coraggio e a
dirgli che si, lo
sapevo che non mi avrebbe ucciso nessuno, ma venni interrotto sul
più bello
perché la porta venne aperta di colpo e un baccano
assordante mi arrivò alle
orecchie facendomi impietrire. C’era così tanta
gente?
«Finalmente!»
urlò
Thatch, sdegnando il fratello e imprigionandomi l’istante
dopo in una morsa
d’acciaio. Il suo braccio era guarito alla perfezione, buon
per lui ma non per
le mie ossa. «Forza ragazzino, ti stanno aspettando tutti!» affermò
convinto, trascinandomi dentro senza badare ai miei
tentativi di staccarmelo di dosso e lasciando Marco sulla soglia a
sospirare
con aria quasi disperata. Ero certo che quando mi aveva descritto i
suoi
famigliari avesse omesso di raccontarmi i particolari più
inquietanti solo per
tenermi tranquillo.
Continuò
a parlare e a
strattonarmi lungo un corridoio illuminato e arredato con mobili
dall’aspetto
eccentrico e particolare, come se fossero stati fatti per attirare
l’attenzione. Mi lanciai qualche occhiata sorpresa e un
po’ scettica: se fosse
dipeso da me, avrei fatto un bel falò e avrei provveduto a
rifare tutto
l’arredamento, ma pazienza, la casa non era mia e grazie al
Cielo non avevo
quel tipo di problemi o pensieri, come decidere quale cassapanca
comprare e
quale no, quella era roba per coppiette vomitevoli. Insomma, stavo
anche troppo
bene nel mio appartamentino con i ragazzi, anche se con Law come
coinquilino si
rischiava spesso di ritrovarsi sedati o con un ago in vena e una
siringa piena
di chissà quale farmaco o antibiotico. Una volta aveva
ucciso il nostro gatto
con dell’arsenico, quindi c’era sempre un alto
rischio di restarci secchi, ma
pazienza, non era tanto male e ci avevo fatto l’abitudine.
A parte
il gusto per il
bizzarro, la collezione di foto appese alle pareti era fantastica e mi
aiutò a
farmi un’idea dei personaggi con cui avrei fatto conoscenza
di li a breve. Ce
n’erano tantissime e tutte rappresentanti ragazzi di varie
età, ma anche alcune
di recenti, come quella dove si vedeva l’inconfondibile
capigliatura di Thatch
scomparire dentro la tazza del water nel tentativo di…
«Uhm,
Thatch?» lo
chiamai, «Stavi per caso rimettendo anche il
fegato?» chiesi, fermandomi e
indicando la foto con un mezzo sorriso canzonatorio che fece ghignare
sadicamente Marco, probabilmente memore della nottata in cui il
fratello aveva
fatto la cazzata rappresentata.
Il
castano sembrò
pensarci su, rispondendo infine che quella era stata la volta in cui
aveva
rischiato il coma etilico dopo essersi ubriacato fino a svenire in
mezzo a una
strada mentre cercava di convincere alcuni agenti della polizia a non
fargli
l’alcool test.
«E
guarda qui! Quello è
Vista che cerca di battere Jaws a braccio di ferro. Che facce da fessi
che
avevano!». Thatch mi indicò due tizi
dall’aria seriamente concentrata in uno
scontro all’ultimo muscolo e, a giudicare dalle condizioni
precarie del
tavolino, la cosa non doveva essere finita bene. Poi fu la volta di una
ragazzina minuta che brandiva una spada di legno, seguita a ruota da un
ragazzo
con degli strani capelli bluastri che brindava allegramente con un
altro più o
meno della stessa stazza e con dei capelli rasta.
«Oh,
e qui siamo io e
il pennuto da piccoli!» annunciò Thatch ad un
certo punto, saltellando vivace
davanti ad un quadro piuttosto grande dove riconobbi la buffa
capigliatura di
Marco e i capelli già ribelli e castani di
quell’irrefrenabile pazzo.
«Dimmi,
non era un
frugoletto anche allora?».
«Thatch» lo freddò il
biondo, superandoci e avviandosi verso una
porta socchiusa dalla quale proveniva il baccano che avevo sentito in
precedenza e che faceva da sottofondo alla nostra conversazione. Se non
fosse
stato il solito, apatico e riflessivo Marco, avrei detto che si
sentisse in
imbarazzo.
«Che
c’è? Tanto abbiamo
recuperato l’album dalla
soffitta. Ti
vedrà comunque e il babbo si divertirà un mondo a
raccontare simpatici aneddoti sulla
tua infanzia» lo
sfotté bellamente,
poggiando le mani sui fianchi e guardandolo con aria fiera di
sé anche se l’altro
non poteva vederlo. Poco prima che ci intimasse di muoverci, si
abbassò verso
di me per sussurrarmi all’orecchio, facendomi sudare freddo
per lo sconcerto.
«Tranquillo
ragazzino,
le foto più spinte le
teniamo per
quando il vecchio va a dormire» ammiccò.
Non potei
ribattere
solo perché un gran vociare attirò la nostra
attenzione e Thatch si volatilizzò
nella stanza illuminata dove intravidi qualche faccia a me sconosciuta.
Sul ciglio
della porta, Marco mi fissava mordicchiandosi un labbro e con
l’aria di chi
voleva scusarsi per il disagio. Fu solo per togliergli un peso che mi
costrinsi
a sorridere mestamente e a raggiungerlo fino a compiere i fatidici
passi che mi
introdussero in un enorme salone dove era stata imbandita una tavolata
di cibo
e pietanze varie, attraverso cui volava qualche pezzo di pane e, di
tanto in
tanto, una bottiglia di birra che veniva afferrata al volo da qualche
mano alzata.
Si
trattò di qualche
secondo di smarrimento e poi tutti si voltarono verso di noi, anzi,
verso di me, puntandomi i loro
occhi addosso e
sondandomi da capo a piedi per un tempo interminabile in cui non feci
altro che
trattenere il respiro, pregando Dio che quella tortura
finisse presto.
Qualcuno
si schiarì la
voce ed ebbi l’impressione che le fondamenta tremassero.
«Ben
arrivato, figliolo»
tuonò il padre di Marco, la ragione per cui, quando mi ero
svegliato in
ospedale, avevo desiderato di ritornare in coma, «Vi stavamo
aspettando».
«Ciao
papà» fece il
ragazzo con la sua solita calma, come se non stesse presentando il suo
fidanzato, maschio per giunta, al
proprio genitore con un piede nella fossa, secondo il mio modesto
parere,
nonostante bevesse birra come un quarantenne. Mi passò
accanto, sfiorandomi la
mano senza farsi notare, un modo per dirmi di farmi avanti senza
timore. Me l’aveva
ripetuto mille volte i giorni precedenti che nessuno mi avrebbe
mangiato, ma
non ne ero così sicuro e continuavo a deglutire a vuoto,
avanzando fissandomi i
piedi e gettando occhiate fugaci attorno a me mentre cercavo di
nascondermi
dietro alla stazza di Marco e Thatch.
Ad un
certo punto la
testa d’ananas ebbe la grande idea di spostarsi di lato e
lasciarmi senza
barriere di fronte al sindaco in persona che, con un sorrisetto
beffardo, e
leggermente inquietante, mi squadrò in modo sfacciato,
porgendomi la mano e
fissandomi negli occhi. Sembrava quasi che volesse sfidarmi a scappare
a gambe
levate, cosa che mi diede parecchio sui nervi dato che non ero affatto
un
codardo. Così, serrando le labbra e drizzando le spalle in
un gesto di
superiorità, gli strinsi quell’arto grande tre
volte il mio con sicurezza,
scatenando una risata cavernosa da parte sua e quelle divertite del
resto della
famiglia.
«Mi
chiedevo se avessi
avuto il coraggio di farti rivedere, moccioso» fece il
vecchio, accomodandosi
meglio sulla sedia di dimensioni piuttosto larghe e improbabili.
Ignorando
la risatina
di Thatch e deciso a non farmi impressionare
dall’autorità dell’uomo e dal
fatto che non fossi nel mio ambiente e del tutto a mio agio, pensai
bene di
rispondergli per le rime. Magari si era fatto una cattiva impressione
di me e
non gli andavo molto a genio, ma se pensava che mostrandosi restio nei
miei
confronti mi avrebbe allontanato da suo figlio si sbagliava di grosso.
Alzai il
mento e gli
sorrisi sprezzante. «Sorpreso, vecchio?».
Potei
quasi sentire il
gelo calare nella stanza e ghiacciare ogni anima vivente, Thatch e
Marco
compresi, mentre io stringevo i pugni attendendo il verdetto finale
senza
azzardarmi ad abbassare lo sguardo, combattendo una guerra privata con
gli
occhi scuri e duri del famoso Edward Newgate.
«Ma
senti questo»
sbottò un ironico Thatch, sghignazzando a quella scena.
La
tensione si allentò
subito dopo, quando l’uomo scoppiò a ridere
fragorosamente, affermando che il ragazzetto
presuntuoso, testuali
parole, gli piaceva.
Avevo
superato la prova
più ardua, ovvero ingraziarmi il vecchio. Almeno era quello
che credevo, ma
dovetti riconsiderare la questione dato che, dopo Barbabianca, venne il
momento
di conoscere tutti i fratelli del pennuto.
«Haruta,
piacere». Una
ragazza dai capelli corti e l’aria furba mi sorrise cordiale,
un balsamo per i
miei nervi tesi davanti a facce poco amichevoli e strette di mano fatte
per
testare la mia forza, tanto che le mie dita stavano perdendo
sensibilità.
«Felice
di rivederti, fiammiferino».
Mi
ritrovai poi davanti
al tizio che avevo scambiato per l’amante di Marco e mi
sentii incendiare le
guance. Non dovevo aver fatto una bella impressione quella volta.
«Ehm,
p-piacere»
mormorai, pregando di non essere arrossito.
Izou
sorrise e, lanciata
un’occhiata alle mie spalle, mi parlò con
malcelata malizia. «Marco ha davvero
scelto bene il suo ragazzo, non c’è che
dire».
Rimasi
spiazzato e
senza sapere bene cosa dire davanti a quell’affermazione
tanto schietta e
chiara, ma poi sentii Marco ridere per poi afferrarmi una manica della
maglia e
trascinarmi verso il resto dei suoi fratelli.
«Ti
giuro che io non ho
fatto niente» chiarii prima che potessero nascere equivoci.
«Lo
so, non ti
preoccupare. Izou è fatto così» mi
rassicurò, rivolgendomi un piccolo sorriso
prima di ricominciare le presentazioni. Scoprii che quelli che avevo
visto
brindare nella fotografia erano Namiur e Rakuyo, poi fu la volta di
Blamenco e
Fossa, il quale rischiò di farmi soffocare quando
soffiò il suo nome in
risposta, accompagnandolo con una boccata di fumo proveniente dal suo
sigaro.
Vista fu uno dei più cordiali, mentre Jaws
rischiò seriamente di staccarmi una
mano con la sua forza. Curiel indossava un paio di occhiali da sole e
aveva l’aria
di un ufficiale dell’esercito, mentre Atmos faceva
impressione per via della
sua corporatura.
Alla fine
ebbi modo di
conoscerli tutti e, grazie un po’ alla mia fortuna sfacciata
e alle buone e inopportune parole
messe da Thatch, nessuno
si dimostrò ostile o antipatico.
Mi fecero
sedere
accanto al padrone di casa, in modo tale che potesse divertirsi a pormi
le
domande che più gli aggradavano. Thatch prese posto affianco
a me e Marco finì
per piazzarsi davanti a noi con un’espressione rassegnata al
peggio.
Fui
felice di vedere
che nessuno in quella casa seguiva le regole del galateo per mangiare,
così non
dovetti preoccuparmi di controllarmi per fare bella figura e fingermi
educato,
soprattutto quando li vidi rubarsi il cibo dal piatto e lanciarsi le
pietanze. I
gomiti bellamente appoggiati al tavolo, niente posate non necessarie,
ma solo
una forchetta e un coltello e suvvia
Izou, mangia il pollo con le mani che ha un sapore migliore!
Purtroppo,
però,
arrivarono anche le note dolenti che mi fecero andare di traverso il
boccone.
«Allora,
Ace, come hai
conosciuto il pennuto?» proruppe Thatch, a voce abbastanza
alta affinché tutti
potessero sentire la domanda. Un bel modo per mettermi al centro
dell’attenzione.
E in imbarazzo.
Provai a
sviare l’argomento,
ma lo sguardo insistente di Barbabianca mi obbligò a dire
almeno qualche
parola. «Un giorno. Al bar» mormorai sfuggente. E
se volevano i dettagli avrei
detto che non me li ricordavo.
«E
non ti sei
impressionato davanti ai suoi capelli?». Frecciatina rivolta
al diretto
interessato che rispose con un dito medio alzato nella direzione di
Vista.
«Chi
ha fatto il primo
passo?» si incuriosì Haruta, poggiando il mento su
una mano e sorridendomi
gentile. Avevo come la netta sensazione dietro a quella facciata
adorabile
nascondesse una doppia identità, più scaltra e
vivace.
Fissai
Marco, indeciso
su cosa rispondere. Ad essere sinceri l’idiota che si era
esposto ero stato io
quando l’avevo baciato sul retro di un locale, per giunta di
proprietà del
padre, ma non mi sembrava una grande idea sbandierarlo ai quattro
venti, meglio
mantenere un profilo basso.
«Beh,
non saprei. E’
successo così, per caso».
«Io
scommetto che sia
stato il ragazzino, Marco è troppo pigro per certe
cose» commentò Blamenco in
fondo alla tavolata.
Prima che
qualcuno
potesse ribattere, l’idiota vicino a me che aveva dato il via
a quell’interrogatorio
pensò bene di riscaldare ulteriormente gli animi.
«E quando vi siete scambiati
il primo bacio?» chiese malizioso, dandomi delle leggere
gomitate sul fianco in
un gesto d’intesa, ma che stonavano incredibilmente.
Marco,
che stava
bevendo, rischiò di strozzarsi, mentre Barbabianca
scoppiò di nuovo a ridere. Io
sbiancai e Thatch ricevette un meritato scappellotto sulla nuca dal suo
vicino,
Jaws, che per poco non lo spedì con la faccia nel piatto. Il
castano rispose
insultandolo e la situazione degenerò in un litigio fatto di
battutine acide,
insulti, l’aggiunta di altri due elementi, una minaccia
riguardante la marmitta
di un’auto, sguardi assassini, risate in sottofondo, qualche
bestemmia e altri
insulti, un coltello piantato sul tavolo, un pollo allo spiedo lanciato
in
aria, Marco che si nascondeva il viso con una mano e, in conclusione,
Thatch
che rotolava a terra con tanto di sedia, piatto e posate.
Quella
non era una
famiglia, ma una ciurma di sbandati.
Dopo
molti discorsi
insensati, domande personali raggirate, battute irritanti e litigi tra
fratelli, il Signor Newgate decise che era arrivata per lui
l’ora, l’una e
mezza del mattino, di andare a coricarsi. Non mi aspettavo,
però, che mi
chiedesse cortesemente di accompagnarlo lungo il corridoio fino alle
scale che
portavano al piano superiore, chiaro segno che gradiva rimanere solo
con me. Ovviamente
non avevo potuto rifiutare e avevo mascherato l’agitazione
nel miglior modo
possibile. Inutile dire che a calmarmi, in parte, era stato anche lo
sguardo
rassicurante di Marco.
«Sono
stato molto
contento che tu abbia accettato l’invito, Ace»
disse Barbabianca una volta
fuori dal salone, «Hai conquistato in poco tempo
l’approvazione mia e di tutti
i miei figli».
Rimasi di
stucco a
quelle parole e mi domandai se per caso non avessi capito male.
«Non
ho mai visto Marco
così partecipe» ammise, «Non che di
solito sia distante, ma resta sempre un po’
sulle sue, invece è da un pezzo che non è
più così e ne sono lieto. Sembrate davvero
inna…».
«Ehm,
l-la ringrazio
S-signore» mi affrettai a dire, sicuro di non voler scendere
nei dettagli e
ritrovandomi a far ridere il vecchio. Di nuovo.
«Chiamami
babbo e dammi del tu. Ormai
sei di famiglia, non credi?». E,
così dicendo, mi augurò una buona notte e
salì le scale, scomparendo alla mia
vista e lasciandomi in corridoio con l’animo in tumulto.
L’idea
di fare parte di
un qualcosa di grande, di una famiglia tanto numerosa in cui tutti
erano pronti
a dare la vita per gli altri mi faceva sentire dannatamente bene e
assurdamente
felice. Ripensandoci, quel vecchiaccio non era poi tanto male.
Quando
ritornai in
salone non tenni più lo sguardo basso, ma sorrisi a chiunque
mi rivolgesse la
parola, risposi alle battute con altrettanto divertimento, iniziando a
scherzare e a prendere confidenza con tutti, ignorai Thatch come sempre
e mi
godetti ogni istante di quel nuovo calore che sentivo irradiarsi nel
petto e
scaldarmi dentro.
«Ehi,
Ace, unisciti a
noi!».
«Si,
dai! Tieni, bevi
questo e siediti qui!».
«Siete
sicuri?» chiesi
per precauzione, sedendomi su un enorme tappeto dove tutti si erano
stravaccati, iniziando a rotolare o a darsi spintoni, mentre Thatch
rovistava
alla ricerca di qualcosa dentro una cassapanca li vicino. Ai suoi piedi
si
trovava un album di fotografie.
«Certo.
Fai parte della
famiglia ora» decretò Vista, lisciandosi i baffi
di cui era orgoglioso.
Ero
così felice in quel
momento che la successiva vista di tutte le loro foto da adolescenti
con gli
ormoni imbizzarriti mi scandalizzò e, quando Marco mi
baciò davanti a tutti
dopo aver bevuto entrambi abbastanza da poterci permettere di farlo,
neanche
allora il mio umore venne scalfito. Probabilmente il giorno dopo tutti
sarebbero
stati troppo ubriachi per ricordarlo, perciò non ci
sarebbero stati grossi
problemi di imbarazzo.
Se solo
Thatch non
avesse fatto foto a insaputa dei presenti.
Quale
modo migliore per
concludere una cena in famiglia?
Oh, salve
ragazzi, come
vi va la serata? ^^
Sono
giorni che guardo
il pc, apro Word e rileggo le prime due pagine del capitolo,
ritrovandomi poi
davanti a un blocco, ma stasera mi sono imposta di finirlo
perché, che diavolo,
non posso lasciare che il tempo passi così, alla cavolo.
So che
è tardi, ma
dovevo raggiungere questo traguardo. Fate finta di essere felici e
amatemi, vi
prego.
Eh, lo
so, sono
parecchio in ritardo con molte cose, ma abbiate fede, verrà
il giorno in cui mi
rimetterò in pari e vi ringrazierò come si deve.
Sappiate intanto che leggo
qualsiasi commento mi lasciate e rotolo ogni volta per la
felicità. Quindi grazie
infinite a tutti, davvero.
Lo Special ve lo metto nel prossimo
capitolo perché questo è già
assurdamente lungo.
E poi
ecco Thatch e
Marco da piccoli, tesori belli: https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-prn2/t1.0-9/s403x403/10257695_609553585788855_3416049391323461335_n.png
Avviso di
Servizio per
chi segue le altre fiction: Portuguese D.
Ace aggiornata, yeee; Chi non muore
si rivede in fase di produzione (è un parto e mi
vorrei sparare, ma
continuate a sperare, Amen).
Detto
questo buonanotte
e andate in pace.
See ya,
Ace.
|
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Capitolo 55 *** Capitolo 55. Ogni mia giornata. ***
Capitolo 55. Ogni
mia giornata.
«Dici
sul serio?».
«Si».
«Ma,
voglio dire, sul serio, sul serio?».
Roteai
gli occhi al
cielo, sbuffando divertito mentre finivo di asciugare
l’infinita pila di
bicchieri che avevo messo in equilibrio precario sul lavello.
«Si,
Thatch, sul serio.
Ora, mi lasci finire di lavora…».
Qualcosa
di simile ad
un ululato isterico partì dalla gola dell’uomo
accanto a me, spaccandomi i
timpani e rischiando di farmi perdere la presa sulle stoviglie.
«Per
favore, vorresti
calmarti?» sbottai, mollando il lavoro a metà e
lasciando lo strofinaccio sul
ripiano, voltandomi verso il castano con le braccia sui fianchi. Avevo
tentennato
fino all’ultimo, ma alla fine avevo deciso di dare la notizia
a Thatch,
fidandomi di lui e della sua praticamente
inesistente capacità di tenere la boccaccia
chiusa. Evidentemente avevo
fatto la più grande cazzata di sempre.
«Oh
no, ragazzino, scordatelo!»
mi disse, piazzandomi un indice ammonitore sotto al naso e
avvicinandosi troppo
con la sua faccia alla mia, «Non puoi pretendere di dirmi che
vai a vivere da
Marco e sperare che non mi venga un infarto!».
Gli
spostai il braccio,
superandolo e uscendo da dietro il bancone, diretto in cucina. Se
voleva
sbraitare era meglio che lo facesse in un posto meno pubblico della
sala
principale del bar dove chiunque poteva origliare. Anche se non ero del
tutto
certo che avrebbe conversato a bassa voce, ma tanto valeva provarci.
«Quando
ti trasferisci?
E te lo ha chiesto lui? Come? oh, aspetta, aspetta! Ti ha regalato un
anello?»
iniziò a domandare a raffica, afferrandomi per la collottola
e guardandomi con
occhi spiritati non appena varcammo la soglia della porta sul retro. Mi
ritrovai a guardarlo preoccupato, leggermente in imbarazzo per quello
sguardo
che sembrava non aspettare altro che una mia parola per saltarmi
addosso e
riempirmi di abbracci, cosa che speravo vivamente di evitare.
«Ehm,
senti, non è che
mi molleresti prima?» gli chiesi, anche se risultò
più come una supplica.
«Scordatelo!
Sputa il
rospo, forza!».
Non ero
sicuro che
sbattermi a destra e a sinistra come un sacco di patate fosse un buon
modo per
invogliarmi a confidarmi con lui, ma, fortunatamente, in quel momento
fece il
suo ingresso Marco, il quale, intuendo la situazione, venne in mio
soccorso,
prendendo Thatch per i capelli e stringendo la presa, facendolo
bloccare sul
posto.
«So
che ci tieni ai
tuoi capelli» mormorò il biondo, sorridendo
maligno e beccandosi
un’occhiataccia dal fratello.
«Esatto,
quindi non
toccarli».
Marco
negò, facendo un
cenno con il capo verso di me. «Prima lascia andare
Ace».
Thatch
sembrò sul punto
di dire qualcosa, ma all’ultimo si trattenne, liberandomi
dalla sua presa e
venendo a sua volta graziato. Fu allora che, dopo essersi sistemato con
nonchalance la camicia, si schiarì la voce, deliziandoci con
le sue cazzate.
«Il
principe azzurro ha
salvato la principessa».
Fui
più veloce degli
improperi di marco e delle gambe di Thatch, perché riuscii a
centrargli il
sedere con un calcio giusto prima che si defilasse dalla cucina,
ridendo
sguaiatamente e informandoci a gran voce che avrebbe provveduto ad
avvisare
tutti con un messaggio sul gruppo di famiglia che condividevamo nei
cellulari.
Marco
fissò la porta
perplesso, chiedendomi cosa diavolo avesse combinato quella volta da
dover
informare i fratelli restanti, insospettendosi ulteriormente quando mi
vide
farmi piccolo, piccolo contro la credenza.
«Ace,
che hai fatto?»
fece, assottigliando lo sguardo e incrociando le braccia al petto.
«Uh,
perché pensi che
sia colpa mia?» dissi con finta innocenza.
«Perché
Thatch una la
minaccia del messaggio ogni volta che scopre qualcosa»
spiegò con ovvietà,
facendo un passo avanti, verso di me.
Sospirai,
preparandomi
a vuotare il sacco. Prima o poi lo avrebbe comunque scoperto,
soprattutto
grazie a quel deficiente di fratello che si ritrovava. Pazienza il mio,
ma
anche con Thatch, in quanto a stupidità, non si scherzava.
«Gli
ho detto di quella
cosa. Insomma, della novità» farfugliai a testa
bassa.
«Non
ci posso credere.
Gli hai detto del trasferimento?».
«Mi
ha stressato per
tutto il pomeriggio!» scoppiai a dire alla fine, esausto e
mentalmente
distrutto. Thatch aveva passato l’intera giornata a farmi
domande su cosa ci
facessero degli scatoloni davanti la porta dell’appartamento
di Marco e come
mai lui non ci fosse a lavoro. Aveva usato un sacco di trucchetti per
cavarmi
le parole di bocca e alla fine avevo ceduto, rotto le scatole fino allo
sfinimento. Avrei voluto vedere lui al mio posto. «Non mi ha
mollato nemmeno
per un secondo. Ce l’avevo attaccato al culo persino quando
prendevo le
ordinazioni!».
Marco, al
contrario di
quello che avevo pensato, scoppiò a ridere, coprendo le
distante e arrivando a
scompigliarmi i capelli come faceva di solito, passandomi poi un
braccio
attorno alle spalle e attirandomi a sé.
«Va
bene così, idiota. Tanto
glielo avrei detto io a breve».
Sbuffai,
ricambiando l’abbraccio
e inspirando il profumo di biscotti di Marco.
«L’unico idiota qui è Thatch»
borbottai, fingendomi offeso, aprendo gli occhi e adocchiando una mano
che
sbucava dalla porta della cucina reggendo un telefonino. Un click mi giunse alle orecchie, rendendo
fin troppo chiaro che l’idiota
in
questione era tornato alla carica con la sua idea di fare un album
fotografico per,
parole testuali, il matrimonio del secolo.
E per
matrimonio
intendevano il mio, peccato che non avessero ancora capito che a
sposarmi non
ci pensavo proprio, e Marco nemmeno.
Stavamo
troppo bene nel
suo appartamento, senza problemi o pensieri, liberi di fare quello che
volevamo
senza renderne conto a nessuno.
Così,
giusto per
rendere chiaro il concetto, iniziai ad accarezzare lentamente le spalle
del mio
ragazzo, quello mi avevano costretto ad ufficializzarlo, staccandomi da
lui
quel poco che bastava per trovare le sue labbra e catturarle con le mie
in un
bacio lento, ma sempre più intenso.
«Uh,
Ace, in cucina?»
mormorò non proprio a bassa voce, ammiccando. Aveva sentito
anche lui lo scatto
fotografico del cellulare di Thatch e, a quanto pareva, sembrava
d’accordo con
me nel metterlo in imbarazzo.
«Certo,
dopotutto, è l’unico
posto dove non l’abbiamo ancora fatto» ribattei a
mia volta, scandendo bene le
parole, ma rendendole abbastanza maliziose da farle sembrare casuali,
il che,
con Marco tra le mie mani, mi veniva facile.
«Se
proprio insisti»
acconsentì, sollevandomi e poggiandomi al ripiano,
sistemandosi fra le mie
gambe e riprendendo a baciarmi con più passione del
previsto, tanto che presi
in considerazione l’idea di andare fino in fondo.
Passarono
solo pochi
secondi prima che sentissimo la voce schifata di Thatch provenire
dall’altra
parte della sala.
«Mio
Dio, datevi un
contegno, accidenti!».
Sarei
scoppiato
volentieri a ridere se non fossi stato tanto impegnato.
Dire che
fossi euforico
era dire poco. Giusto qualche settimana prima, Marco mi aveva proposto
di
condividere l’appartamento, di stare da lui, di vivere con
lui.
Certo,
significava
lasciare libero la casa che condividevo con i ragazzi, ma non mi
preoccupavo
poi molto, sapendo che la mia stanza sarebbe finita al mio fratellino
Rufy,
dato che per lui finiva il liceo e iniziava una nuova vita. inoltre,
ero certo
che a Bepo non sarebbe dispiaciuto avere compagnia, visto e considerato
che
anche Trafalgar e Penguin avrebbero presto levato le tende.
Inoltre,
avrei
continuato a lavorare e avrei continuato gli studi, contando anche che
ero
praticamente stato adottato da un’enorme e numerosa famiglia
e la cosa, se
proprio dovevo essere sincero, non mi dispiaceva affatto.
Per
quello, quando
Marco me lo aveva chiesto, lo avevo baciato come stavo facendo in quel
momento
e avevo detto semplicemente di si.
Perché
avevo capito che
era ciò che volevo, che quel posto era ormai diventato casa
mia e che le
persone che mi circondavano ogni giorno erano le migliori che avessi
mai potuto
sperare di incontrare.
Erano
tutto ciò di cui
avevo bisogno e Marco, beh, lui mi faceva sorridere sempre,
costantemente.
«Se
ne è andato?»
chiese dopo che entrambi fummo rimasti senza respiro.
«Per
nostra fortuna, si»
dissi soddisfatto.
Marco
sorrise, guardando
i fornelli. «Ehi, ti va un caffè?»
chiese, allungandosi per prendere una tazza
arancione. La mia, per la
precisione.
«Bollente
e zuccherato?»
mi accertai, seguendolo con gli occhi.
Lui
annuì, guardando il
tempaccio e la grandine che cadeva fuori dalla finestra.
«Quello giusto per le
giornate di pioggia».
«Allora
si» dichiarai,
saltando a terra e avvicinandomi per aiutarlo, andando alla ricerca dei
biscotti che Thatch aveva nascosto da qualche parte.
Quando
riuscii a
trovarli, Marco aveva ormai finito e, porgendomi la tazza mentre io
aprivo il
barattolo con dentro i miei dolci al cioccolato preferito, lo
ringraziai.
«Questo
lo offre la
casa» precisò, lasciandomi per un istante senza
parole.
Sorseggiai
il caffè, pensando
a quando ero stato fortunato e a quanto marco fosse sexy con quella
oscena
maglia con un ananas stampato sopra, riflettendo sul fatto che lui
riuscisse a
rendere bella ogni mia giornata.
*Special*
«Certo
che ce ne hai
messo di tempo».
«A
fare che?».
«A
capire che sono il
meglio in circolazione. Il più attraente, il più
affascinante, il più simpatico…».
«Il
più cretino».
«Smettila
di fare il
ritroso».
«Thatch,
ma non ti
riesce di stare zitto?».
«No,
Dolcezza, forse dovresti trovare un
modo
adeguato per obbligarmi».
«Non
mi tentare».
«Peccato,
almeno ci ho
prova…».
Non finii
la frase
perché mi ritrovai impegnato ad intrattenere la lingua di
Izou con la mia. Finalmente
quella piaga aveva ceduto. Era stato un calvario, ma alla fine ce
l’avevo
fatta.
Dovevo
congratularmi
con me stesso.
Click.
Mi gelai
sul posto,
tanto che anche Izou smise di baciarmi, osservandomi confuso e
chiedendomi cosa
mi fosse successo.
A
rispondergli, però, non
fui io, ma bensì Ace.
«Come
siete carini»
fece smielato, sventolando il cellulare con il quale mi aveva appena
fregato, «Sono
sicuro che ai ragazzi piacerà un sacco quando gliela
invierò» disse sorridente,
scomparendo dal salotto nel quale mi ero rintanato per stare tranquillo.
Mi alzai
di scatto, incurante
di aver fatto cadere Izou a terra, e rincorrendo il moccioso,
più che deciso a
fermarlo e ad ucciderlo, se fosse stato necessario.
«Occhio
per occhio,
Thatch» sentii dire alle mie spalle, ma la risata del
ragazzino mi incitò a
continuare.
Quel
piccolo bastardo.
*
The FUCKING End.
Angolo
Autrice.
Eh,
insomma, buonasera.
*schiva
una vagonata di oggetti improponibili*
Dopo,
aspettate, quanto
è passato? Un anno ormai, credo. Insomma, dopo un macello di
tempo, ecco che
finalmente concludo anche questa raccolta che mi è costata
sangue, dolore,
unicorni e arcobaleni. Non è sfociata nel rosso (so sorry), ma ha avuto i suoi bei
momenti direi. Oww, sono così
contenta del lieto fine per la mia OTP ** li amo, non posso farci
niente, sono
l’AMMORREH!
Mi
dispiace che sia
durata così tanto, che alla fine mancasse solo un capitolo e
di aver
tergiversato A LUNGO. Me ne rendo conto e chiedo scusa a chi
l’ha aspettato con
ansia e curiosità. Ormai era agli sgoccioli, ma penso sia
sempre bello vedere
qualcosa concludersi a tutti gli effetti.
Anyway,
alla fine
eccolo qui, meglio tardi che mai!
Colgo
l’occasione per
ringraziare TUTTI, dal primo
all’ultimo,
a partire da quel famoso giorno in cui la long è iniziata.
Grazie di cuore a
chi l’ha seguita, a chi ha riso con me di tutte le avventure
passate tra questi
due, a chi ha adorato Thatch e Izou, a chi ha apprezzato ogni piccolo
particolare e a chi ha aspettato tra insulti e bestemmie.
GRAZIE.
E non
preoccupatevi,
anche se adesso ci sarà un po’ di pausa, prima o
poi qualcosa di rosso tra Ace
e Marco verrà fuori, mlmlml.
If
You Know What I Mean.
E’
ora di andare, ma mi
sento male ;_______;
Un
abbraccio enorme, un
bacio e Buone Vacanze a tutti ^^
See
ya, as always.
Ace.
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