Sette notti, tutto incluso

di endif
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


C’è un posto nell’universo, senza tempo e senza spazio,
dove io sto per assaggiare la tua tacchinella al melograno
e tu per scartare il mio regalo.
Auguri, tesoro.


acciaroli

Sette notti, tutto incluso


1


Quel sole le stava friggendo il cervello.
Registrava l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una sorta di curioso interesse accademico.

In quel momento, ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e, dunque, ritenne di essere già fortunata così. A poterla almeno vedere ancora.
D’altra parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava, quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto, ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi. Lo ignorò, senza pietà per la sua recente pedicure perché fermarsi sarebbe equivalso a rallentarsi, che sarebbe equivalso a prolungare la loro permanenza sotto quel sole feroce, che sarebbe equivalso ad un ricovero assicurato in Pronto Soccorso.
Che poi… ce l’avevano un Pronto Soccorso in quel posto sperduto del Cilento?
«Ti voglio bene anche io, tesoro», rispose l’altra con molto meno sforzo ma tradendo lo stesso una certa tensione nella voce. Carla esultò in silenzio, perché l’amica continuava ad essere molto più sportiva di lei e decisamente più in forma e, questo, era qualcosa che non le avrebbe mai perdonato davvero.
Ma avrebbe mantenuto il passo. Forse sarebbe morta nel farlo, ma era decisa a proseguire.
«Cristo, fermiamoci Fra. Sta per partirmi un polmone»
«Se stai zitta e cammini, risparmi il fiato. Vedrai che ne varrà la pena».
Ci provò sul serio. Provò a convincersi che la piccola tettoia con tre centimetri di ombra che aveva intravisto con la coda dell’occhio alla sua destra non fosse tanto invitante, la sua unica salvezza dal collasso certo, la sola promessa di refrigerio nella totale, riarsa immobilità che le circondava.
E il frinire delle cicale… le sembrava che quegli insetti fossero milioni, in agonia più di lei e avessero deciso di stabilirsi nel suo cranio a tempo indeterminato a dimostrazione che c’era sempre il modo di peggiorare una situazione già difficile di suo.
«Guarda che a me della torre Normanna non me ne frega un ca-»
«Shhh! Non.Pronunciare.La.Parola.Con.La.C!», la sgridò l’amica, sul volto un’espressione tetra.
Carla inspirò profondamente ed ebbe la sensazione che il petto le si liquefacesse. La sua amica aveva ragione, naturalmente.
Si erano meritate quella vacanza.
Ogni mail che s’erano scambiate in quell’anno, ogni messaggio sul cellulare, ogni brindisi a festeggiamento di una batosta erano stati una piccola pietra lanciata su uno specchio d’acqua apparentemente quieto: invece di sprofondare negli abissi, quelle pietre erano rimbalzate una, due, infinite volte.

E l’acqua aveva preso vita.
La loro amicizia aveva preso vita.
Era inquietante la sintonia che s’era instaurata tra loro: due amiche, complici come mai sarebbe accaduto tra due sorelle. Perché loro due avevano avuto il privilegio di potersi scegliere.
«Giusto. Niente parola con la C», confermò il loro mantra delle ultime settimane, quello che continuavano a ripetersi da quando l’uomo che doveva condurre Francesca all’altare aveva ritenuto opportuno fare prima una sosta a Caracalla. Anzi, più di una, così come avevano precisato gli agenti che avevano arrestato il promesso sposo per favoreggiamento della prostituzione. Un cliente abituale, l‘avevano definito.
Come se avesse fatto una qualche differenza se fosse stato occasionale.
La sua amica era andata in caserma quando il bastardo l’aveva chiamata. Carla si sarebbe fatta puntare una pistola alla tempia, ma non le avrebbe mai chiesto il motivo per cui Francesca, avvocato di successo della capitale, aveva garantito per quell’uomo e l’aveva fatto uscire. Non era affatto da Francesca, ma si sa: l’amore rende ciechi. Con la buona disposizione d’animo che contraddistingueva ultimamente lei, invece, avrebbe corrotto tutti i trans della Tiburtina e si sarebbe assicurata per quel porco un biglietto di sola andata per Regina Coeli.
Poi, nel cuore della notte, Francesca aveva bussato alla sua porta e a lei era bastato un solo sguardo a quegli occhi asciutti come il deserto per capire che era a pezzi. Dopo qualche giorno aveva fatto i bagagli per entrambe ed erano semplicemente sparite dalla circolazione per quella vacanza che programmavano da mesi, da quando Francesca l’aveva ingaggiata per arredare il suo studio legale, vacanza che non avrebbe dovuto prevedere una sincope nel Cilento ad agosto, ma esclusivamente Piña Colada a dicembre su una spiaggia delle Hawaii. Tuttavia il tempo a sua disposizione era stato quello che era stato e Carla, in last minute, era riuscita a trovare solo Acciaroli, perla del Cilento e luogo in cui, molto probabilmente, avrebbe lasciato la pelle.
«Fra, devo fermarmi. Tu continua, ma se io faccio un altro passo è altamente probabile che sia anche l’ultimo», l’implorò. Implorare a volte funzionava con la sua amica. Non molto spesso, in verità, e lei si chiese quanto il bastardo avesse dovuto implorarla per convincerla a tirarlo fuori di prigione. Sempre se l’aveva fatto. Carla non l’aveva mai vista cambiare idea se era convinta di qualcosa, anzi. Solitamente accadeva il contrario: più la pregavano, più Francesca s’impuntava.
L’amica la guardò in tralice. «Ti stai rammollendo», asserì senza scomporsi. «Il valore storico di questa torre è immenso. Lo sai che faceva parte di un sistema difensivo di cinquantotto torri su tutta la costa da Agropoli fino a Sapri, ideato dagli spagnoli nel XVI secolo?»
«Cerchi di impressionarmi con la tua memoria fotografica? Guarda che ti ho vista, stamattina, mentre sfogliavi la guida turistica. Quindi, lo so perfettamente che neanche a te frega un ca-», le narici di Francesca ebbero uno spasmo di rabbia, «-volo dei tesori archeologici della zona. Torniamo indietro, Fra. Stasera ci chiudiamo in camera, ci ubriachiamo fino a perdere i sensi e domani ci spostiamo da qualche parte con un po’ più di vita. Palinuro. O Marina di Camerota. O quello che ti pare»
«…quello che la guida non riporta, però, è che ci sono dei cunicoli sotterranei che collegano tutte le torri. Sono stati usati dai partigiani durante la seconda guerra mondiale», proseguì imperterrita l’altra.
Carla si azzittì perché nella voce di Francesca c’era quella determinazione contro cui, lo sapeva bene, non esisteva possibilità di vittoria. Appoggiò una mano sulla ringhiera rovente in ferro battuto di un’abitazione lì vicino per sostenersi e si fermò definitivamente.
«Cunicoli, dici?». L’idea era allettante. Tunnel sotterranei, ombra, fresco. E poi non era la cima di una torre da cui potersi lanciare nel vuoto, per un colpo di calore o per una delusione d’amore.
«Pare di sì. E ho intenzione di corrompere il custode per farci accedere. Sembra che conservino ancora gli effetti personali dei fuggiaschi».
Carla afferrò la ringhiera anche con l’altra mano, mentre si lasciava scivolare sui primi gradini che conducevano all’ingresso della casetta di tufo. «Quindi potrei semplicemente perire nel tentativo di scovare qualcosa che nemmeno le guide turistiche riportano. Prosegui pure, piccola esploratrice. Io sono arrivata». E con un sospiro si accasciò sullo scalino in pietra che le ustionò la porzione di gluteo lasciata scoperta dagli shorts che indossava.
L’amica le lanciò solo uno sguardo, senza tradire alcuna emozione. «Come vuoi». Si girò e riprese a scalare la pendenza della strada con rinnovato vigore.
Quando Francesca svoltò l’angolo ci vollero solo pochi secondi prima che il rumore dei sandali di cuoio contro l’acciottolato ardente si affievolisse del tutto e Carla piombasse nel silenzio di quell’afoso pomeriggio estivo. Non permise ai sensi di colpa di farsi strada dentro di lei: Francesca aveva il sostegno della sua rabbia a condurla, ma lei aveva la pressione massima a novanta nei suoi giorni buoni e quindi una giustificazione più che valida per parecchi picchi di pigrizia improvvisi a venire. Rimpianse solo di non essere stata previdente al punto da munirsi almeno di una bottiglia d’acqua prima di affrontare il deserto e sollevò una mano per schermarsi il viso dall’implacabilità del sole, mentre lanciava uno sguardo alla piccola piazza su cui si affacciavano diverse abitazioni come quella che aveva eletto a proprio rifugio.
Per essere bella, Acciaroli era più che bella. Era affascinante, suggestiva.
I muri in pietra delle case erosi dai secoli, la solidità del legno d’acero dei battenti, gli stretti percorsi di sampietrini su cui si affacciavano i balconi in ferro battuto e le occasionali torri di guardia angolari. L’aria. Con il profumo degli agrumi e di qualcosa di più nascosto, antico, perduto.
Si aveva l’impressione di essere stati proiettati di colpo nel piccolo borgo medioevale che, Carla lo percepiva chiaramente, ancora echeggiava vita e movimento.
Il movimento, per l’appunto.
L’essersi fermata non le aveva apportato alcun beneficio termico; il calore sembrava addirittura aver trovato un bersaglio migliore nella sua staticità e lei seppe con certezza che se non correva subito ai ripari non avrebbe mai potuto ascoltare la voce della sua amica che le raccontava entusiasta della piccola esplorazione che contava di effettuare in quegli improbabili cunicoli sotterranei.
D’istinto spostò lo sguardo in basso e seguì un breve tratto di lastricato polveroso immaginando che, forse, in quel preciso istante lì sotto si stava spostando anche Francesca.
Al fresco.
I suoi occhi indugiarono al limitare di una piccola viuzza registrando qualcosa di insolito nel panorama ripetitivo che si proponeva al suo sguardo. Un’insegna di legno consunta penzolava pigramente da uno spuntone di ferro dalla lavorazione essenziale. Attraverso il velo distorcente del calore, riuscì a distinguere la parola “Antichità”, ma la cosa che le fece aggrottare la fronte era l’altezza a cui l’insegna si trovava. Circa un metro dalla pavimentazione, ad occhio e croce.
A meno che quello non fosse un paese popolato da gnomi, lì c’era un sottoscala.
E c’era l’ombra.
Il meccanismo a molla presente nelle sue gambe - che non sapeva nemmeno di possedere - scattò e Carla si diresse rapida verso il punto designato dal suo spirito di conservazione.
Ed eccola. La porta d’ingresso di una bottega a cui era possibile accedere tramite cinque, forse sei scalini più in basso. Carla provò ad indovinare qualche movimento dietro il vetro opaco dell’anta di legno ma, quando capì che la porta era soltanto socchiusa, lasciò da parte ogni ulteriore indugio e scese giù.


*****


«Dio sia lodato», sospirò non appena riuscì a sgattaiolare all’interno del negozio. La variazione di temperatura non doveva essere eccezionale ma quel piccolo locale polveroso, stipato di chincaglierie e di ogni genere di oggetti di varia forma e grandezza, le parve il posto più bello in cui avesse mai avuto occasione di mettere piede. Brividi deliziosi iniziarono a percorrerle la pelle scoperta delle braccia e delle gambe, percepì tutto d’un tratto il sudore che le imperlava la fronte e la base del collo e capì che, dopotutto, la felicità era davvero fatta da piccole cose: tipo un riparo, al momento del bisogno.
Si guardò intorno.
Più che il negozio di un antiquario, sembrava quello di un restauratore.
Tre sedie, di cui una azzoppata, attendevano di essere rimpiallacciate intorno ad un paio di tavolini pieni di bozzi e graffi. Cornici d’ottone sbiadito ammassate le une sulle altre impreziosivano paesaggi marini o ritratti di anonimi sconosciuti. Su quasi ogni superficie piana a disposizione c’era lo scheletro di una lampada da comodino, un abat-jour sbilenco o il braccio di quello che, un tempo, doveva essere stato un pretenzioso lampadario a goccia o a cascata.
«Uhm… c’è nessuno?», domandò con scarse speranze di essere disattesa. Non aveva abbastanza fede nell’umanità per credere che esistesse ancora qualcuno che lasciava intenzionalmente le porte aperte in sua assenza e, dunque, si sentì sciocca per quella domanda retorica. Tuttavia non ricevette risposta e ritenne saggio mantenersi nei pressi dell’ingresso, mentre riprendeva la valutazione critica dell’oggettistica del negozio.
Non c’era alcun intento espositivo nella disposizione della merce, stabilì. Eppure lei, che di mestiere faceva l’arredatrice, vide il potenziale celato dietro quel cumulo di mobili e cianfrusaglie. I negozi d’antiquariato che talora visitava a Roma per conto di qualche cliente erano ben differenti: lucidi, organizzati, efficienti. E, sebbene non avesse una particolare predilezione per il disordine, dovette ammettere che la trascuratezza di quel posto aveva una sua attrattiva: la promessa dell’esplorazione e della scoperta.
Tra quegli orologi, ad esempio. A pendolo, a cucù, da parete, inseriti in orrende statue, intagliati nel legno o nel quarzo.
O dietro a quello specchio color oro annerito dai decenni, lì dove uno scaffale traboccava stoicamente volumi gonfi d’umidità, con le coste rovinate e le consunte copertine di cuoio rese lucide dall’uso.
Quel negozio poteva rivelarsi la sua Eldorado personale.
Capì di aver abbandonato ogni cautela quando prese a rigirarsi tra le mani un orologio da taschino decisamente antico, con il vetro di protezione tutto scheggiato e la catena spezzata. Doveva esserci di sicuro un meccanismo di apertura posteriore della cassa…
«È suo. Per cento euro».
Carla sussultò appena e s’impose di continuare a valutare l’oggetto con attenzione senza voltarsi, perché infilarsi in un negozio per sopravvivere alla calura non era tanto scortese quanto arrivare di soppiatto alle spalle di una persona.
«Per sistemarlo ce ne vorrebbero almeno ottanta. Credo che le farà compagnia ancora per un bel po’», rispose e lanciò un’occhiata alle sue spalle mentre riponeva l’orologio su una mensola, assieme ad altri in condizioni più o meno simili.
Quello che suppose fosse il proprietario del negozio era chino su un tavolino bacheca e nemmeno guardava nella sua direzione. «Restauratrice», sentenziò l’uomo sollevando e abbassando il vetro del tavolo, prima di spruzzare qualcosa nelle giunture e ripetere il movimento.
«Arredatrice», rettificò lei senza aggiungere che il restauro era una passione che non aveva mai approfondito adeguatamente.
«Ah, ma allora è nel posto giusto. Quel Trumeau del ‘700 alla sua destra la stava proprio aspettando. Glielo regalo per quattrocento euro. Un affare». Proseguì nella sua occupazione mentre lei lanciava un’occhiata al mobile indicatole.
«Per un Trumeau del ‘700 gliene davo anche mille, di euro. Ma quattrocento per un cassettone con alzata? Senza offesa, ma nel suo negozio fa un figurone». Carla incrociò le braccia e si voltò completamente verso quel piccolo imbroglione.
L’uomo, ancora piegato sul tavolino, sollevò il capo e lo sguardo su di lei per lanciarle la prima, vera occhiata da quando era sopraggiunto. E continuò a fissarla anche mentre si raddrizzava e prendeva uno strofinaccio lercio dalla tasca del suo pantalone di stoffa scuro per pulirsi le mani.
La ragazza ricambiò lo sguardo e registrò istintivamente i dettagli di quel volto. Non avrebbe potuto definirlo bello, come non poteva definire bello quel locale. Eppure possedeva qualcosa di accattivante. Forse il taglio degli occhi, forse quell’accenno di barba, o il rigore di quei capelli tagliati cortissimi che cozzava con l’immagine di trasandatezza suscitato dai suoi indumenti.
«Se non ha intenzione di acquistare nulla, che ci fa nel mio negozio? Vuole forse vendere qualcosa?». Il proprietario infilò lo strofinaccio logoro nella tasca del pantalone con un gesto secco e, prima di chinarsi a sollevare il tavolino bacheca, Carla notò come un angolo delle labbra dell’uomo fosse appena piegato verso l’alto.
«La porta era aperta», aggiunse in tono troppo orgoglioso per illudersi di non sentirsi obbligata a giustificare la propria presenza lì.
Lui la guardò ed inarcò un sopracciglio mentre si spostava con agilità reggendo il peso tra le braccia.
Carla osò un’occhiata rapida ad un bicipite che tendeva la stoffa della camicia che lui indossava. «La porta era aperta e io stavo morendo di caldo, lì fuori», aggiunse in tono molto più mite. «Sono entrata solo per ripararmi dal sole», confessò.
L’uomo annuì con fare assorto e sistemò il mobiletto in un angolo, dopo aver ricavato un po’ di spazio colpendo un paio di volte col piede una colonnina intarsiata che, evidentemente, non aveva più diritto ad una doppia – uso singola. «Dunque lei non è una fatalista», commentò acciuffando la pezza lurida nella tasca dei suoi pantaloni per ridistribuire lo sporco. Osservò la nuova disposizione e, quando si voltò nuovamente verso di lei, ne parve sufficientemente soddisfatto. «Eppure, camminando s’è fermata proprio vicino al mio negozio. Per sfuggire al sole ha scelto di scendere e di entrare, piuttosto che far ritorno al suo B&B».
La studiò pensieroso, prima di incrociare le braccia al torace.
«Non tutte le cose accadono per caso, Carla».





Minific di tre capitoli. Uno al giorno, a partire da oggi.
A domani!











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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


acciaroli

2



«Non abbia quell’espressione sconvolta. Acciaroli è un paese piccolissimo. Praticamente ci conosciamo tutti. Anzi», l’uomo strofinò con cura le dita sullo strofinaccio prima di riporlo in tasca e compiere qualche passo verso di lei. «Io mi chiamo Giambattista». E restò in attesa, la mano protesa, il sorriso cordiale.

Carla esitò. Se non fosse stata diffidente per natura, molto difficilmente sarebbe arrivata dov’era.
L’uomo che l’aveva generata aveva idee poco chiare sulle responsabilità che comportava una paternità ma non sull’impegno collegato alla passione per il gioco d’azzardo, attività alla quale si dedicava con rigore e costanza. Quasi una professione, a pensarci bene.
Carla aveva compreso molto in fretta che ”fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio”, più che un detto era un prezioso consiglio e ne aveva fatto la propria filosofia di vita. Non aveva praticamente mai vissuto in casa con i suoi, lì dove invece sua madre restava ancorata, perché “casa” era ristoro, conforto, rifugio. O, forse, era solo l’ultimo baluardo in un’esistenza tormentata.
Se non fosse stata diffidente per natura, sarebbe stato necessario molto più della semplice buona educazione per farle stringere quella mano sudicia e poco invitante come, invece, fece con vigore: perché una mano impolverata, piena di tagli e così ruvida al tatto, tanto differente dalle mani dell’uomo che si professava suo padre, non poteva che raccontare di una vita dedita alla fatica. D’altronde suo nonno glielo diceva sempre: un uomo onesto si riconosce dai calli che ha sulle mani. E Carla si fidava ciecamente di suo nonno.
«Carla. Devo dedurre che la proprietaria del B&B in cui alloggio sia… una cugina?», domandò ironicamente.
«Alla lontana», rispose lui.
Aveva una mano forte, la presa decisa che durò solo pochi istanti ma che bastò a rivelare un temperamento d’acciaio. Gli occhi, di una confortevole tonalità castano scuro, sostennero con pacatezza l’esame sfrontato che la ragazza non lesinò loro. Anche quella era una cosa che aveva imparato da suo nonno: non ci si può fidare di una persona che non ti guarda dritto negli occhi.
«Capisco. Il paese è piccolo, la gente mormora… che si dice di queste due turiste che affluiscono dalla capitale?». Nelle sue intenzioni non c’era quella di essere scortese, eppure Carla avrebbe volentieri strappato quella linguetta pettegola alla padrona della stanza che aveva preso in affitto insieme alla sua amica per la loro vacanza. Avevano persino approfittato della possibilità di estendere la formula da B&B a pensione completa, senza sospettare che “sette giorni, tutto incluso” avrebbe compreso anche il servizio di pubbliche relazioni.
L’uomo sorrise. «Che quella più carina si chiama Carla. Non potevo sbagliarmi».
Suo malgrado, la ragazza restituì il sorriso. «O la più rammollita. Francesca, la mia amica, in questo momento sta cercando non so quale passaggio segreto per convincersi di non avere il cuore a pezzi. Ed io, che tecnicamente sono la spalla su cui dovrebbe piangere, ho abbandonato il progetto a metà strada per intrufolarmi in un negozio alla ricerca di un po’ di refrigerio. Ah, e continuo a ripetere quella parola con la C che non si deve pronunciare, anche se non lo faccio di proposito. Sono pessima, non carina».
«La parola con la C?», domandò Giambattista inarcando un sopracciglio.
Carla ebbe la grazia di arrossire lievemente. «Una specie di codice. Cose di ragazze che ogni tanto hanno le traveggole». E le traveggole le parve di averle sul serio. Come le veniva in mente di rivelare certe confidenze ad uno sconosciuto?
«Sarà il caldo. Ogni tanto succede. Allora, pessima Carla», incalzò Giambattista, «cosa ti porta nell’assolata, solitaria, noiosa Acciaroli?» e le sorrise.
Era vestito come suo nonno. Con quei pantaloni pesanti e una camicia a quadretti come se tirasse una leggera frescura e avesse paura di prendere un colpo di freddo e non come un uomo che avrebbe dovuto gocciolare pure l’anima visti i 40°C di fuori. Ma quello continuava a guardarla e lei aveva abbastanza dignità da radiografare solo individui inconsapevoli.
«E’ stata una combinazione. Francesca ed io avevamo bisogno di riportare lo stress a livelli accettabili. Abbiamo fatto i bagagli e siamo partite», spiegò la ragazza distogliendo lo sguardo e lasciandolo vagare per il negozio.
«Le combinazioni sono quelle delle casseforti. Perché Acciaroli?», proseguì l’uomo e lei fu certa che gli occhi di lui avessero iniziato a puntare le sue gambe. Cominciava a sentirsi come se avesse oltraggiato una Chiesa con la propria nudità.
«Beh, mi sono collegata ad internet, ho aperto un sito di last minute e ho scelto la prima offerta che m’è capitata sotto gli occhi. Il nome mi sembrava familiare e quindi … eccoci qua. Quello lì è interessante…». Compì un paio di passi verso la seggiola sbilenca e si accovacciò.
C’era un piccolo dipinto che faceva capolino dietro ad un ritratto di una zingara con un abito rosso fuoco. Era un acquerello senza vetro di protezione, i colori sbiaditi dalla tecnica e dal tempo, eppure pieno di luce. «Posso?», chiese lanciando un’occhiata da sopra le proprie spalle all’uomo qualche passo più dietro.
«Certo, Carla».
Carla seppe in quel momento che quell’uomo era un pericolo. Sapeva pronunciare il suo nome come se lo stesse assaporando sulle labbra e questo le fece girare la testa per un secondo: lei aveva giurato a se stessa che non si sarebbe mai fatta infinocchiare da un uomo dalla lingua magica.
Okay, forse avrebbe evitato solo gli uomini dalla chiacchiera magica.
Tornò a prestare attenzione al dipinto e le parve di sapere già cosa avrebbe ritratto prima ancora di afferrarlo e liberarlo dagli ingombri che lo coprivano.
Era una scena di vita quotidiana: una donna portava sulla testa un cesto traboccante di frutta e saliva un pendio, trascinandosi dietro un bambino che le si reggeva al grembiule. Dall’altra parte due uomini fumavano placidamente appoggiati ad un muro.
Quella particolare tecnica pittorica l’affascinava da sempre. Era stata istruita a riguardo da suo nonno che aveva dipinto fino a quando la mano aveva conservato la forza di reggere un pennello. Poi un giorno, semplicemente aveva deciso di non provarci più e aveva smesso di farlo, staccando dalle pareti tutti i suoi quadri per dimenticare di averlo mai fatto. E poi era morto.

Ma quel quadro non era solo stato dipinto alla stessa maniera, ma proprio dalla stessa persona.
«Chi te lo ha dato questo?», sussurrò la ragazza raddrizzandosi immediatamente. Sentì che Giambattista si avvicinava alla sue spalle e si voltò.
«E’ sempre stato qui dacché ricordi», rispose lui senza degnare il quadro di un’occhiata e mantenendo lo sguardo fisso su di lei. «Conosci l’autore?».
Lei tornò a osservare la raffigurazione tra le sue mani per studiarla nel dettaglio, ma gli angoli erano troppo rovinati per poter ottenere qualche informazione sull’esecutore. «Non lo so. Forse».
Si voltò dandogli le spalle. Reggeva ancora il dipinto tra le mani, ma aveva bisogno di riprendere fiato per scacciare il groppo che le si era formato alla gola. Non aveva mai saputo di un solo quadro venduto da suo nonno. Ne aveva regalati a centinaia, ma a Carla parve lo stesso sconcertante che ne avesse trovato uno proprio in quel posto dimenticato da Dio.
«Vuoi sederti un po’? Mi sembri pallida, Carla». La voce che deviò il corso dei suoi pensieri non tradiva preoccupazione, ma sicurezza. Della diagnosi e della terapia.
E per quanto il primo istinto fosse stato quello di rifiutare con altrettanta fermezza, la ragazza si trovò a dover considerare la possibilità reale che la sua pressione avesse raggiunto un nuovo picco minimo e quindi accettò, sperando almeno che non le offrisse la sedia azzoppata.
Ma quello le offrì uno sgabello tondo in legno ancora più incerto e si allontanò per qualche istante tornando con un bicchiere d’acqua ghiacciata che fece quasi genuflettere Carla, senza riguardo per quarant’anni di onorato femminismo italiano. Tracannò l’acqua velocemente e fu quasi pronta a giurare su una Bibbia di aver appena raggiunto l’orgasmo principe della sua vita grazie ad un bicchiere. Poi rimase ferma, col quadro tra le mani, a fissare le linee tratteggiate dalla mano amorevole di suo nonno.
«E’ la piazza. Questa piazza qui sopra», sussurrò la ragazza indicando il dipinto e lui annuì. Carla studiò con attenzione lo sfondo realizzando che la raffigurazione era proprio fedele al luogo in cui aveva scelto di fermarsi, sfinita dalla passeggiata a prova di infarto che Francesca le aveva imposto – stessa angolazione, stesse abitazioni, stesso periodo estivo - e provò un palpito d’emozione a pensare che, forse, suo nonno un tempo aveva percorso quelle strade, visto gli stessi paesaggi, respirato la stessa aria come ora stava facendo lei. E non l’aveva nemmeno mai saputo.
«Quanto vuoi?», domandò sistemando il quadro sulle ginocchia per poi puntare lo sguardo negli occhi di Giambattista quando fu certa di aver ripreso al lazo tutti i suoi nervi.
Lui la fissò a lungo. «Mi dispiace, ma non è in vendita».
«Suvvia!», replicò lei in tono di scherno. «Stai cercando di vendermi una cianfrusaglia dietro l’altra da quando ho messo piede qui dentro. E’ un modo per alzare il prezzo? Per questo sono pronta a pagare», aggiunse con incrollabile determinazione. Non avrebbe lasciato quel negozio e quel paesino senza quel quadro.
Giambattista sollevò appena le spalle a mo’ di scusa. «Mi è stato detto che non dovevo venderlo, ma conservarlo. Che sarebbe passato qualcuno a ritirarlo, ma non è mai accaduto», rispose. «Facciamo così: ti vendo questi due per cinquanta euro. Sono di un artista lo-»
«Non li voglio quei due, voglio questo!». Carla saltò dallo sgabello valutando la distanza che la separava dall’uscita e la forza fisica del proprietario nel caso l’avesse riacciuffata prima che l’avesse guadagnata.
Non riusciva a spiegarsi il senso di panico che provava a reggere tra le mani qualcosa appartenuto alla persona che aveva più amato in vita sua senza potersene garantire il possesso, il conforto della prova di un’esistenza senza la quale Carla - in quel momento lo realizzava con chiarezza - aveva smarrito il senso e la direzione della propria.
Inspirò profondamente. «Okay, ascoltami. Questo quadro… credo l’abbia dipinto mio nonno. Ne sono quasi certa. La tecnica, il modo di sfumare i colori… vedi?», spinse il dipinto fra loro per mostrargli una zona con la punta di un dito. «Questo scoloramento non è casuale: lo otteneva dipingendo bagnato sul bagnato». E continuò ad esporgli le prove a sostegno della sua tesi indicandogli i dettagli della tecnica che le sembravano rivelatori, lanciando al suo interlocutore solo brevi occhiate, ma imprimendo alle sue parole tutta la fermezza di cui si sentiva capace.
Quando fu certa di essersi lasciata alle spalle quel sentimentalismo inconsapevole che si portava dietro e che rischiava di renderla eccessivamente emotiva, respirò. «Ecco. Sono disposta a pagarti più di quanto ci ricaveresti da un qualsiasi altro acquirente. Per me ha un valore e per te è solo un oggetto che toglie spazio ad un altro».
Giambattista l’aveva ascoltata tutto il tempo con pazienza, senza interromperla e con attenzione. Carla aveva un buon presentimento.
«Dunque dovrei darti questo quadro perché legalmente non c’è traccia di una sua vendita precedente e dalla tua soggettiva analisi strutturale hai dedotto che sia stato eseguito da tuo nonno e questo ti conferisce una sorta di diritto di prelazione. Ho capito bene?». Non c’era traccia di scherno nella voce dell’uomo, ma Carla ebbe la netta sensazione che volesse deriderla ugualmente.
«Pressappoco. Sì, diciamo che il riassunto è abbastanza corretto», rispose lei, caparbia.
Giambattista annuì lentamente col capo, le braccia sempre incrociate, mentre con la punta della vecchia scarpa dava dei colpetti ad una piccola pila di libri abbandonata sotto un comodino.

Dopo aver atteso all’operazione con cura esasperante, sciolse l’incrocio delle braccia e tese una mano nella sua direzione. Carla gli passò il quadro, senza mostrare visibile esultanza, ma pronta a versargli qualsiasi cifra quello le avesse chiesto. L’uomo studiò il dipinto per qualche istante, poi lo depose dietro di sé, nello spazio creato prima dall’incessante lavorio della sua scarpa su quei libri sgraziatamente disposti per terra.
«Torna domani, pessima Carla. Puoi fare di meglio».







A domani!


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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


acciaroli

3




«Puoi iniziare con quelle lampade da tavolo. Devono essere spolverate».

Carla lanciò uno sguardo sgomento alla direzione che Giambattista le aveva indicato non appena aveva messo piede nello squallido negozietto di antiquariato. Poiché quelle erano le prime parole che le rivolgeva senza alcun riguardo alla cortesia di un saluto convenzionale, la ragazza realizzò che quaranta gradi all’ombra non erano nulla se paragonati a quanto l’avrebbe fatta sudare quel tipo per decidersi a darle il quadro di suo nonno.
S’era pure fatta bella. Con un vestitino di lino senza maniche e i capelli acconciati in modo vaporoso ma naturale sotto un cappellino bianco con un nastrino di raso rosso. E aveva portato un sacchetto di dolci alle mandorle e un bricco di caffè preparato dalla proprietaria linguacciuta del B&B perché se un uomo le diceva che poteva fare di meglio, a lei non restava che raccogliere la sfida e fargli rimangiare ogni parola.
Depose dolci e bevanda su uno dei tavolini vicino all’ingresso con molta meno grazia di quanto si era ripromessa, tolse il cappellino con un gesto brusco impigliandosi una ciocca, naturale e vaporosa, nella paglia e ingoiò buona parte dei commenti al vetriolo che sentiva salire alle labbra, intendendo risparmiarli per un secondo momento. Preferibilmente dopo aver raggiunto il suo obiettivo.
«Sicuro che devono essere spolverate?». Carla si rigirò tra le dita un orrendo puttino che al posto della testa aveva una lampadina e cercò di reprimere una smorfia di disgusto. «Queste non se le prende nessuno. Nemmeno se sei tu a pagare loro».
Lanciò uno sguardo fugace a Giambattista intimandosi di essere più cordiale e meno pungente, ma quello entrava ed usciva da una porticina, evidentemente un retrobottega, senza prestarle in apparenza la minima attenzione. Carla soppesò la macabra lampada da tavolo nella mano e, valutando la distanza, gli ostacoli, la luce, il vento e la pendenza nel negozio, ritenne di poter centrare la testa del proprietario senza sforzo.
Giambattista rispuntò dal retro reggendo due colonnine di legno intarsiate che la ragazza non trovò eccessivamente sgradevoli come gran parte di ciò che era presente in quella bottega, ma incastrati sotto a un braccio l’uomo portava anche i due piccoli ripiani superiori: come gran parte di ciò che era presente in quella bottega, anche le colonnine andavano riparate.
Tutto, in quel negozio, attendeva di essere riparato.
Pensò di scagliare il puttino alla cieca: in un colpo solo poteva risparmiare a Giambattista almeno sette, otto ore di lavoro e, invece di terminarlo, ne avrebbe conquistato la riconoscenza. E il quadro di suo nonno.
Ma poi le arrivò addosso un fagotto polveroso e pungente di abiti come se fosse un proiettile. Solo grazie ai suoi poderosi riflessi, la ragazza evitò una caduta accidentale della preziosa lampada da tavolo e nel contempo riuscì a non mancare il lancio.
«Mettili, se vuoi che il tuo vestito resti bianco e grazioso».
Mai, nemmeno in un milione di anni lei avrebbe indossato gli indumenti di un ricattatore, sfruttatore, approfittatore che fingeva di avere a cuore il suo abitino da trecento euro.
«Non credo che mi servir-»    
Qualcos’altro le colpì il braccio.
«Con questo puoi coprire i capelli. Gente di città…».
E scomparve nel retrobottega, scuotendo il capo.

*****

«Posso sapere cosa stai guardando?». Carla sbirciò tra le dita della mano destra e scorse Giambattista, un gomito appoggiato sul ginocchio a reggersi il mento, il martello penzoloni nell’altra mano, che la fissava, proteso verso di lei.
«E’ da un’ora che fai quella cosa con le dita», smozzicò quello, due chiodi che si reggevano in bilico da un angolo della bocca.
«Quale cosa?»
«Quella. Ti strofini gli occhi. In continuazione». L’uomo si tirò indietro, prese un chiodo dalle labbra, lo posizionò e diede un paio di martellate allo sportello del comò che stava riparando. «Hai i canaletti otturati? Una volta avevo un cane che lacrimava sempre. Aveva i canaletti otturati». E giù con l’altro chiodo.
Carla lo fulminò con un’occhiata sprezzante, gentilmente offerta dai suoi “canaletti” pervi. «I miei dotti lacrimali funzionano benissimo, nonostante non li eserciti da quando avevo sette anni circa. E’ la polvere», chiarì. «Mi fa starnutire e mi strofino la base del naso, vicino agli occhi, per evitarlo».
Giambattista annuì senza guardarla. «Anche il mio cane. Si strofinava il naso con la zampa quando gli prudeva».
La ragazza chiuse gli occhi e cercò le ultime briciole di pazienza dentro di sé. «Forse era allergico», replicò sarcastica.
«Avverto nelle tue parole una leggera riprovazione. Non ti sarai offesa?», domandò l’uomo. «Guarda che è stato un buon cane. Gli volevo bene».
«Offesa? Fammi pensare …», Carla si mise un dito al centro del labbro inferiore e volse lo sguardo verso l’alto. «Hai cercato di vendermi qualunque cosa presente in questo negozio su cui, sciaguratamente, è caduto il mio sguardo provando a truffarmi sul prezzo il cento per cento delle volte. Eccetto che per il quadro di mio nonno. Quello non vuoi venderlo. No, perché i soldi io voglio darteli ma per quello tu non intendi prenderli. Dici che posso fare di meglio e allora torno qui, con tutta l’umiltà e la buona volontà che possiedo, ma tu hai una visione mistica e decidi che sono perfetta per spolverare, rassettare, lucidare le tue cianfrusaglie mentre tu dai qualche colpo di martello qui e lì, in una versione tutta personale del lavoro di restauro, ma universalmente riconosciuta di sessismo».
La ragazza si alzò dallo sgabello scuotendo polvere e sporcizia dalla parte anteriore del suo vestito – vestito che si era categoricamente rifiutata di sostituire a beneficio degli abiti che Giambattista le aveva offerto – e si strappò dalla testa il foulard che aveva accettato, invece, per proteggere i capelli. Sentiva un calore montarle al cervello ma s’impose di mantenere una parvenza di controllo, sebbene fosse consapevole che ormai era giunta al limite della pazienza.
«E adesso mi paragoni al tuo cane. Che sarà stato pure più fedele di Lassie, ma resta pur sempre un animale, che ha fatto la pipì sui tronchi degli alberi e sulle ruote delle auto. Ma no. Perché mai dovrei sentirmi offesa?».
Ribolliva di rabbia.
Non avrebbe saputo spiegarlo diversamente, ma dopo ore impegnate in lavori manuali si sentiva il corpo indolenzito, le spalle contratte, le dita intorpidite e il naso continuava a pruderle incessantemente per tutta la polvere che dagli strofinacci le si era riversata addosso. Era stanca, affamata e non aveva più la forza di tergiversare, né di tenere a freno le sue emozioni.
Giambattista, che per tutto il tempo non aveva smesso di martellare, diede un ultimo colpo solenne all’anta del comò, si raddrizzò, depose l’attrezzo sul ripiano superiore del mobile e tirò fuori la pezzuola lercia dalla tasca per strofinarsi con calma le mani.
«Ti sei offesa», constatò con irritante placidità.
«Okay, ora ne ho davvero abbastanza». Carla avanzò con passo battagliero e si fermò ad un passo da lui. «Ho fatto tutto quello che volevi. Ho riso delle tue battute stupide, sono stata gentile e carina con te. Ora, perché non mi dici se hai intenzione di darmi il mio quadro e la facciamo finita?».
«Dalle mie parti, nessuno ti definirebbe gentile. Carina sì. Ma gentile …». Giambattista scosse appena il capo in segno di riprovazione e Carla batté il piede a terra per la stizza.
«Dimmi, pessima Carla, cosa sta facendo la tua amica in questo momento?», incalzò l’uomo.
La ragazza aggrottò la fronte per la sorpresa. Che c’entrava Francesca in tutto questo?
Fece spallucce. «Credo… mi pare che sia tornata alla Torre. Ha detto che stanno allestendo una mostra e che il custode l’avrebbe fatta entrare in via eccezionale… non lo so! Ma che t’importa?», spalancò le braccia per lo sconforto. Dove voleva andare a parare con quelle domande?
«Bene. Allora, dimmi», ammiccò lui e le si accostò un po’. «Cosa sei disposta a fare per avere quel quadro?».
Carla fece un passo indietro e raddrizzò la schiena. Quello di sicuro non era disposta a farlo.
«Se credi che sia quel tipo di persona, di donna», riprese fiato. «Oh, ma certo! Tu sei convinto che io sia pronta a fare quello che pensi facciano le donne per ottenere qualcosa. Tipico di voi uomini!». S’interruppe perché la veemenza dell’indignazione che aveva preso il posto della rabbia la soffocava.
«Hai finito?», le domandò quello, senza scomporsi e Carla si chiese come potesse restarsene così calmo dopo una proposta tanto sfacciata. Strinse le labbra tra loro indispettita e dopo qualche attimo di silenzio da parte di entrambi si voltò, pronta ad andarsene via.
«Quando sei diventata così diffidente nei confronti del prossimo, Carla? E’ stato tuo padre a deluderti?».
La voce di Giambattista bloccò i suoi movimenti. Poteva essersi lasciata sfuggire qualche commento personale durante il tempo trascorso insieme, ma questo non autorizzava le sue illazioni.
«Come ti permetti … tu non mi conosci», sibilò risentita, girandosi a guardarlo.
«Lo credi davvero? Sei una donna giovane, bella ma avvizzita nell’animo. E hai sofferto talmente tanto in vita tua che non permetti più a nessuno di raggiungerti. Sei avvelenata dal rancore e lo usi per schermarti dal resto del mondo. Non ho bisogno di conoscerti quando mi basta riconoscerti».
Giambattista le era così vicino che Carla dovette inclinare il capo indietro per sostenerne lo sguardo. «Hai bisogno di allontanare la rabbia da te. E’ importante, credimi».
La ragazza continuò a fissarlo, in silenzio.
«Perdonati, Carla. Lui l’ha fatto».
Il respiro le si bloccò in gola. Non poteva… non era possibile che lui sapesse…
Si voltò e fuggì via dalla quella bottega e da quel paesino del Cilento.

*****

«Fate largo alla balena spiaggiata! Oh, tesoro! Sono arrivata!».
Francesca entrò in casa di Carla assicurandosi che tutto il vicinato sapesse che lo stava facendo. Erano degli impiccioni. Ogni volta che camminava sul pianerottolo li poteva quasi sentire respirare dietro le porte, a studiare il nuovo arrivato dallo spioncino e a domandarsi cosa ci fosse tra quelle due donne che stavano sempre insieme. Specie ora che una delle due camminava fieramente con un bel pancino gravido di sei mesi.
Che pensassero pure che erano lesbiche e che avessero realizzato l’inseminazione artificiale. D’altro canto, lei non riteneva differente da questo il modo in cui era rimasta incinta sei mesi prima, poco prima che il suo ex fosse beccato a bazzicare le prostitute e fermato dalla polizia. L’aveva fatto uscire grazie alla sua amicizia con il Questore, ma non aveva voluto più vederlo. E da allora non l’aveva più sentito.
«La smetti di urlare come una pazza? Che poi esageri sempre: sei un’acciuga, altro che balena. In tutto avrai messo su tre chili».
«Cinque! Ti rendi conto? Arriverò a fine gravidanza che avrò perso il conto».
Carla le prese il soprabito e le sorrise comprensiva. «Andremo a fare jogging insieme, non temere. La strega la portiamo con quei passeggini ergonomici… ne ho visto uno delizioso su un catalogo on-line…»
Francesca ricambiò il sorriso. Carla era stata stupenda con lei. Le aveva rivelato della gravidanza solo dopo il viaggio che avevano fatto insieme, quattro mesi prima quell’estate nel Cilento. Lei aveva bisogno di riflettere sul futuro suo e di quella creatura e quel viaggio era stato rivelatore: non avrebbe mai smesso di ringraziare Carla per averla portata lì, ad Acciaroli, dove Francesca aveva capito davvero quale fosse la scelta giusta da compiere.
E la sua amica si era dichiarata entusiasta e disponibile ad aiutarla quando le aveva confidato che quel bambino voleva tenerlo. L’aveva abbracciata e le aveva detto che le cose succedono sempre per una ragione.
«Sei incredibile», mormorò Francesca, ferma sulla soglia del salotto. «Come fai a creare un ambiente così caldo, confortevole, così… natalizio, senza nemmeno un camino?». Osservò l’albero che toccava quasi il soffitto, le luci dorate e blu che si accendevano e spegnevano lentamente, le palline decorate in tessuti preziosi che pendevano dal soffitto, le finestre bordate di finta neve, il tappeto rosso ed oro che dominava il pavimento e pensò che sua figlia sarebbe stata una bambina fortunata ad avere una zia come Carla.
«Faccio l’arredatrice, che cavolo! Saprò decorare un ambiente in occasione del Natale».
Mentre Francesca si accomodava sul divano e cercava di non farsi allettare dai profumini provenienti dalla cucina, Carla tornò con piatto di stuzzichini che poggiò sul tavolino dinnanzi a lei. Le strizzò l’occhio. «Jogging. Stai tranquilla».
Prese un salatino e lo portò alle labbra, beandosi dell’atmosfera confortevole da cui era più che bendisposta a farsi avvolgere. «Mmm, sono i quadri di tuo nonno quelli?», domandò prima di mordersi la lingua. Parlare del  nonno non era un argomento indolore per Carla, anche se di recente sembrava più incline a farlo. Dopotutto lei sapeva che l’amica non si era mai perdonata di non esserci stata quando suo nonno era morto, solo in un ospizio. E benché Francesca avesse rimarcato come quella struttura fosse la più adatta alle esigenze dell’anziano, malato di Alzheimer da anni, Carla non si era mai convinta del tutto.
L’amica annuì, lanciando uno sguardo alle pareti su cui aveva esposto alcuni dei lavori di suo nonno. «Sì. Ho pensato che il loro posto è questo, dove possono vederli tutti».
Francesca approvò studiando l’espressione dell’amica: sembrava serena.
«Mi dispiace per quel dipinto, quello di Acciaroli. Sei davvero sicura che fosse di tuo nonno?», domandò.
L’amica fece spallucce. «La firma era illeggibile, ma ne sono quasi certa. Non importa, comunque. Costava davvero troppo».
«Allora. Vuoi dirmi qual è il menu della se-»
Il ronzio del citofono nell’ingresso interruppe la sua domanda e lei e Carla si scambiarono uno sguardo interrogativo.
«Hai invitato qualcun altro?», domandò.
«La sera di Natale? Nessuno merita questo onore. Dammi un momento», rispose Carla e si allontanò dalla stanza.
Quando udì il rumore della porta d’ingresso, Francesca lanciò uno sguardo alle scarpe di cui si era disfatta quasi immediatamente pensando – ma solo per qualche breve istante - che poteva essere più corretto se le avesse infilate di nuovo, specie in previsione del nuovo, inatteso ospite.
Ma quando Carla tornò era sola e reggeva un grosso pacco ricoperto con carta per imballaggio e fissato con uno spago.
«Caspita. Un regalo». Si alzò dal divano, sollevata di non essere stata costretta a recitare la parte dell’avvocato di successo su dodici centimetri di stiletto e si avvicinò all’amica. «Chi te lo manda?».
Carla osservava il pacco con la fronte aggrottata. «Non c’è nessun biglietto», e quindi lo scartò velocemente.
Era un quadro, simile in modo impressionante a quelli che ornavano le pareti della stanza in cui si trovavano e, incastrato in un angolo della cornice, c’era un biglietto, la carta ingiallita dal tempo.
«E’ quello? Il dipinto che volevi acquistare?», domandò alla sua amica, ma quella era intenta a leggere il messaggio, dopo aver staccato il cartoncino dal bordo del quadro. Lo lesse due volte, prima di voltarlo per vedere se ci fosse scritto altro sul retro e solo allora Francesca notò che non si trattava di un bigliettino di auguri tradizionali, ma di una foto, in bianco e nero, lisa ai bordi.
«Non è possibile…», mormorò Carla.
«Cosa? Ti hanno mandato il quadro di tuo nonno, giusto?», sollecitò l’amica e visto che non le rispondeva le tolse di mano la foto e lesse il messaggio, senza troppi convenevoli.

Sapevo che qualcuno sarebbe arrivato.
Niente accade per caso, pessima Carla.
Buon Natale
G.

Francesca voltò la foto per vedere chi ritraesse. C’era un gruppo di uomini e donne in posa, ma con abiti dismessi, segno che l’istantanea era stata scattata rubando un momento alla quotidianità. Davanti a loro uno stuolo di bambini, con i visi e le mani tutti sporchi di polvere e fuliggine. Dietro di loro, Francesca riconobbe la Torre Normanna di Acciaroli.
«Ehi, ma questo non è tuo nonno?», domandò strizzando gli occhi per sovrapporre l’immagine del giovane che aveva tra le mani e quella dell’uomo che rammentava di aver visto in molte foto presenti per casa.
Carla annuì col capo, tenendosi la mano alla base della gola.
Francesca osservò la foto per qualche altro istante e poi spalancò gli occhi e la bocca per la sorpresa. «Tuo nonno era tra le persone che avevano salvato tutti quei fuggiaschi, nascondendoli nei cunicoli sotto la Torre durante la guerra! Perché non me l’hai mai detto?».
La ragazza scosse il capo e deglutì, ma non si unì alla meraviglia dell’amica che continuava a studiare la fotografia, i volti di quelle persone, di quei bambini, per lo più ebrei.
«Caspita. Tuo nonno era un eroe. Me le ricordo alcune di queste persone. Il custode della Torre mi ha mostrato la stanza che hanno dedicato loro per quella mostra di cui ti ho parlato. Vedi questa?», con un dito indicò una donna dall’aria dolce e remissiva. «Due nazisti bussarono alla sua porta e lei li uccise a sangue freddo per proteggere cinque di questi bambini che nascondeva in cantina. E questo qui?». Avvicinò la foto all’amica per facilitarle la visuale, ma quella si ostinava a guardare da un altro lato. «Questo con quegli orrendi pantaloni e le braccia muscolose? Che si strofina le mani con quello straccio? S’è fatto torturare per giorni prima di essere giustiziato per non aver voluto rivelare il nascondiglio dei fuggiaschi. Ha salvato centinaia di persone, la maggior parte bambini.       Aveva un nome assurdo…  Gian-qualcosa…»
«Giambattista. Il suo nome era Giambattista».



FINE






Salve a tutti.
Per chi mi conosce già per aver infestato il fandom Twilight per anni: il vostro masochismo non ha limiti se mi avete seguito anche qui. Bentrovati.
Per chi mi legge per la prima volta: non abbiate paura, questa è solo una brevissima incursione nel sito, ma già fra qualche minuto potrete dimenticare di avermi mai conosciuta. Grazie per la fiducia accordatami leggendo fino alla fine.
Questa minific è nata come una OS. Anzi, come una singola scena che mi ha lacerato la mente diversi anni fa e che ho dovuto accantonare per forza maggiore: una ragazza che scendeva sospettosa i gradini di un sottoscala in quel posto meraviglioso che è Acciaroli. Perché scriverla adesso? Perché, come molti di voi già sanno, qualche mese fa mi sono assunta l’impegno di revisionare la fan fiction “Una sera, per caso …”, senza sapere che sulla mia strada sarebbero comparse due editor terrificanti, e la revisione sarebbe passata a riscrittura. Non fraintendetemi. Mi sto divertendo come una pazza, ma il mio personale concetto di divertimento è, forse, un po’ deviato: fare le due di notte per apportare delle correzioni pur sapendo di dovermi svegliare alle sei di mattina per andare a lavoro. E poi, il giorno dopo, ricorreggere ancora. E magari ancora.
Ecco. Io mi diverto quando mi demoliscono una scena o un intero capitolo, perché questo significa che non ho dato ancora il massimo e ci si aspetta che possa fare di più.
L’OS/minific nasce dalla necessità di rilassarmi tra un colpo d’accetta e una lavata di capo, un modo per riportare lo stress a livelli accettabili, per scrivere senza pretese né troppe seghe mentali. Per scrivere e basta.
Soprattutto, è il mio modo di augurarvi Buon Natale, perché amo il Natale e volevo che aveste qualcosa di mio da scartare sotto l’albero: la speranza e la fiducia nella vita, la capacità di riconoscere le occasioni e il coraggio di saperle cogliere.
Ed è il mio ringraziamento speciale per Francesca, a cui l’intera storia è dedicata.
Vi va di scartare un altro regalino? Per chi non si fosse già fiondato, passate qui perché Mirya è tornata su EFP con una nuova storia!
Se avete piacere a seguirmi e a conoscere il destino della spremitura dei pochi neuroni ancora all'attivo vi invito su Twitter, Facebook e sul mio blog.

 Auguri!
 E.M.

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