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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
C’è
un posto nell’universo, senza tempo e senza spazio,
dove io sto
per assaggiare la tua tacchinella al melograno
e tu per
scartare il mio regalo.
Auguri,
tesoro.
Sette
notti, tutto incluso
1
Quel sole le
stava
friggendo il cervello.
Registrava
l’implacabile innalzamento termico, il pigro sfrigolio e il
progressivo obnubilamento delle attività cerebrali con una
sorta di curioso interesse accademico.
In quel
momento,
ad esempio, guardava le labbra della donna al suo fianco muoversi a
venti centimetri dai suoi occhi, ma era stata catapultata in un luogo
di totale deprivazione sensoriale quando la lancetta
dell’orologio aveva conquistato le due del pomeriggio e,
dunque, ritenne di essere già fortunata così. A
poterla almeno vedere ancora.
D’altra
parte quella arrancava stoicamente lungo un lastricato di sampietrini
in lieve pendenza che in circostanze normali avrebbero potuto
percorrere a braccetto, con dodici centimetri di tacco a spillo e il
sorriso sulle labbra, ma in quel momento a lei parve solo di muovere un
tronco di sequoia secolare davanti all’altro. Dubitava,
quindi, che Francesca avesse da pronunciare qualcosa di senso compiuto,
ma la profonda amicizia che nutriva per lei la indusse comunque a dire
qualcosa, giusto per solidarietà.
«Sei
proprio una stronza», ansimò mentre qualcosa di
ruvido le si infilava nei sandali, tra le dita dei piedi. Lo
ignorò, senza pietà per la sua recente pedicure
perché fermarsi sarebbe equivalso a rallentarsi, che sarebbe
equivalso a prolungare la loro permanenza sotto quel sole feroce, che
sarebbe equivalso ad un ricovero assicurato in Pronto Soccorso.
Che
poi… ce l’avevano un Pronto Soccorso in quel posto
sperduto del Cilento?
«Ti
voglio bene anche io, tesoro», rispose l’altra con
molto meno sforzo ma tradendo lo stesso una certa tensione nella voce.
Carla esultò in silenzio, perché
l’amica continuava ad essere molto più sportiva di
lei e decisamente più in forma e, questo, era qualcosa che
non le avrebbe mai perdonato davvero.
Ma
avrebbe
mantenuto il passo. Forse sarebbe morta nel farlo, ma era decisa a
proseguire.
«Cristo,
fermiamoci Fra. Sta per partirmi un polmone»
«Se
stai
zitta e cammini, risparmi il fiato. Vedrai che ne varrà la
pena».
Ci
provò
sul serio. Provò a convincersi che la piccola tettoia con
tre centimetri di ombra che aveva intravisto con la coda
dell’occhio alla sua destra non fosse tanto invitante, la sua
unica salvezza dal collasso certo, la sola promessa di refrigerio nella
totale, riarsa immobilità che le circondava.
E il frinire
delle
cicale… le sembrava che quegli insetti fossero milioni, in
agonia più di lei e avessero deciso di stabilirsi nel suo
cranio a tempo indeterminato a dimostrazione che c’era sempre
il modo di peggiorare una situazione già difficile di suo.
«Guarda
che a me della torre Normanna non me ne frega un ca-»
«Shhh!
Non.Pronunciare.La.Parola.Con.La.C!», la sgridò
l’amica, sul volto un’espressione tetra.
Carla
inspirò profondamente ed ebbe la sensazione che il petto le
si liquefacesse. La sua amica aveva ragione, naturalmente.
Si erano
meritate
quella vacanza.
Ogni mail
che s’erano scambiate in
quell’anno, ogni messaggio sul cellulare, ogni brindisi a
festeggiamento di una batosta erano stati una piccola pietra lanciata
su uno specchio d’acqua apparentemente quieto: invece di
sprofondare negli abissi, quelle pietre erano rimbalzate una, due,
infinite volte.
E
l’acqua aveva preso vita.
La loro
amicizia
aveva preso vita.
Era
inquietante
la
sintonia che s’era instaurata tra loro: due amiche, complici
come mai sarebbe accaduto tra due sorelle. Perché loro due
avevano avuto il privilegio di potersi scegliere.
«Giusto.
Niente parola con la C», confermò il loro mantra
delle ultime settimane, quello che continuavano a ripetersi da quando
l’uomo che doveva condurre Francesca all’altare
aveva ritenuto opportuno fare prima una sosta a Caracalla. Anzi,
più di una, così come avevano precisato gli
agenti che avevano arrestato il promesso sposo per favoreggiamento
della prostituzione. Un
cliente abituale, l‘avevano definito.
Come se
avesse
fatto una qualche differenza se fosse stato occasionale.
La sua amica
era
andata in caserma quando il bastardo l’aveva chiamata. Carla
si sarebbe fatta puntare una pistola alla tempia, ma non le avrebbe mai
chiesto il motivo per cui Francesca, avvocato di successo della
capitale, aveva garantito per quell’uomo e l’aveva
fatto uscire. Non era affatto da Francesca, ma si sa: l’amore
rende ciechi. Con la buona disposizione d’animo che
contraddistingueva ultimamente lei, invece, avrebbe corrotto tutti i
trans della Tiburtina e si sarebbe assicurata per quel porco un
biglietto di sola andata per Regina
Coeli.
Poi, nel
cuore
della notte, Francesca aveva bussato alla sua porta e a lei era bastato
un solo sguardo a quegli occhi asciutti come il deserto per capire che
era a pezzi. Dopo qualche giorno aveva fatto i bagagli per entrambe ed
erano semplicemente sparite dalla circolazione per quella vacanza che
programmavano da mesi, da quando Francesca l’aveva ingaggiata
per arredare il suo studio legale, vacanza che non avrebbe dovuto
prevedere una sincope nel Cilento ad agosto, ma esclusivamente Piña Colada
a dicembre su una spiaggia delle Hawaii. Tuttavia il tempo a sua
disposizione era stato quello che era stato e Carla, in last minute, era
riuscita a trovare solo Acciaroli, perla del Cilento e luogo in cui,
molto probabilmente, avrebbe lasciato la pelle.
«Fra,
devo fermarmi. Tu continua, ma se io faccio un altro passo è
altamente probabile che sia anche l’ultimo»,
l’implorò. Implorare a volte funzionava con la sua
amica. Non molto spesso, in verità, e lei si chiese quanto
il bastardo avesse dovuto implorarla per convincerla a tirarlo fuori di
prigione. Sempre se l’aveva fatto. Carla non
l’aveva mai vista cambiare idea se era convinta di qualcosa,
anzi. Solitamente accadeva il contrario: più la pregavano,
più Francesca s’impuntava.
L’amica
la guardò in tralice. «Ti stai
rammollendo», asserì senza scomporsi.
«Il valore storico di questa torre è immenso. Lo
sai che faceva parte di un sistema difensivo di cinquantotto torri su
tutta la costa da Agropoli fino a Sapri, ideato dagli spagnoli nel XVI
secolo?»
«Cerchi
di impressionarmi con la tua memoria fotografica? Guarda che ti ho
vista, stamattina, mentre sfogliavi la guida turistica. Quindi, lo so
perfettamente che neanche a te frega un ca-», le narici di
Francesca ebbero uno spasmo di rabbia, «-volo dei tesori
archeologici della zona. Torniamo indietro, Fra. Stasera ci chiudiamo
in camera, ci ubriachiamo fino a perdere i sensi e domani ci spostiamo
da qualche parte con un po’ più di vita. Palinuro.
O Marina di Camerota. O quello che ti pare»
«…quello
che la guida non riporta, però, è che ci sono dei
cunicoli sotterranei che collegano tutte le torri. Sono stati usati dai
partigiani durante la seconda guerra mondiale»,
proseguì imperterrita l’altra.
Carla si
azzittì perché nella voce di Francesca
c’era quella determinazione contro cui, lo sapeva bene, non
esisteva possibilità di vittoria. Appoggiò una
mano sulla ringhiera rovente in ferro battuto di
un’abitazione lì vicino per sostenersi e si
fermò definitivamente.
«Cunicoli, dici?».
L’idea era allettante.
Tunnel sotterranei, ombra, fresco. E poi non era la cima di una torre
da cui potersi lanciare nel vuoto, per un colpo di calore o per una
delusione d’amore.
«Pare
di
sì. E ho intenzione di corrompere il custode per farci
accedere. Sembra che conservino ancora gli effetti personali dei
fuggiaschi».
Carla
afferrò la ringhiera anche con l’altra mano,
mentre si lasciava scivolare sui primi gradini che conducevano
all’ingresso della casetta di tufo. «Quindi potrei
semplicemente perire nel tentativo di scovare qualcosa che nemmeno le
guide turistiche riportano. Prosegui pure, piccola esploratrice. Io
sono arrivata». E con un sospiro si accasciò sullo
scalino in pietra che le ustionò la porzione di gluteo
lasciata scoperta dagli shorts
che indossava.
L’amica
le lanciò solo uno sguardo, senza tradire alcuna emozione.
«Come vuoi». Si girò e riprese a scalare
la pendenza della strada con rinnovato vigore.
Quando Francesca
svoltò l’angolo ci vollero solo pochi secondi
prima che il rumore dei sandali di cuoio contro
l’acciottolato ardente si affievolisse del tutto e Carla
piombasse nel silenzio di quell’afoso pomeriggio estivo. Non
permise ai sensi di colpa di farsi strada dentro di lei: Francesca
aveva il sostegno della sua rabbia a condurla, ma lei aveva la
pressione massima a novanta nei suoi giorni buoni e quindi una
giustificazione più che valida per parecchi picchi di
pigrizia improvvisi a venire. Rimpianse solo di non essere stata
previdente al punto da munirsi almeno di una bottiglia
d’acqua prima di affrontare il deserto e sollevò
una mano per schermarsi il viso dall’implacabilità
del sole, mentre lanciava uno sguardo alla piccola piazza su cui si
affacciavano diverse abitazioni come quella che aveva eletto a proprio
rifugio.
Per
essere
bella,
Acciaroli era più che bella. Era affascinante, suggestiva.
I muri in
pietra delle
case
erosi dai secoli, la solidità del legno d’acero
dei battenti, gli stretti percorsi di sampietrini su cui si
affacciavano i balconi in ferro battuto e le occasionali torri di
guardia angolari. L’aria. Con il profumo degli agrumi e di
qualcosa di più nascosto, antico, perduto.
Si aveva
l’impressione di essere stati proiettati di colpo nel piccolo
borgo medioevale che, Carla lo percepiva chiaramente, ancora echeggiava
vita e movimento.
Il
movimento,
per
l’appunto.
L’essersi
fermata non le aveva apportato alcun beneficio termico; il calore
sembrava addirittura aver trovato un bersaglio migliore nella sua
staticità e lei seppe con certezza che se non correva subito
ai ripari non avrebbe mai potuto ascoltare la voce della sua amica che
le raccontava entusiasta della piccola esplorazione che contava di
effettuare in quegli improbabili cunicoli sotterranei.
D’istinto
spostò lo sguardo in basso e seguì un breve
tratto di lastricato polveroso immaginando che, forse, in quel preciso
istante lì sotto si stava spostando anche Francesca.
Al fresco.
I suoi occhi
indugiarono al limitare di una piccola viuzza registrando qualcosa di
insolito nel panorama ripetitivo che si proponeva al suo sguardo. Un’insegna
di
legno
consunta penzolava pigramente da uno spuntone di ferro dalla
lavorazione essenziale. Attraverso il velo distorcente del calore,
riuscì a distinguere la parola
“Antichità”, ma la cosa che le fece
aggrottare la fronte era l’altezza a cui l’insegna
si trovava. Circa un metro dalla pavimentazione, ad occhio e croce.
A meno
che
quello
non fosse un paese popolato da gnomi, lì c’era un
sottoscala.
E
c’era
l’ombra.
Il meccanismo a
molla presente nelle sue gambe - che non sapeva nemmeno di possedere -
scattò e Carla si diresse rapida verso il punto designato
dal suo spirito di conservazione.
Ed eccola. La
porta
d’ingresso di una bottega a cui era possibile accedere
tramite cinque, forse sei scalini più in basso. Carla
provò ad indovinare qualche movimento dietro il vetro opaco
dell’anta di legno ma, quando capì che la porta
era soltanto socchiusa, lasciò da parte ogni ulteriore
indugio e scese giù.
*****
«Dio
sia
lodato», sospirò non appena riuscì a
sgattaiolare all’interno del negozio. La variazione di
temperatura non doveva essere eccezionale ma quel piccolo locale
polveroso, stipato di chincaglierie e di ogni genere di oggetti di
varia forma e grandezza, le parve il posto più bello in cui
avesse mai avuto occasione di mettere piede. Brividi deliziosi
iniziarono a percorrerle la pelle scoperta delle braccia e delle gambe,
percepì tutto d’un tratto il sudore che le
imperlava la fronte e la base del collo e capì che,
dopotutto, la felicità era davvero fatta da piccole cose:
tipo un riparo, al momento del bisogno.
Si
guardò intorno.
Più
che
il negozio di un antiquario, sembrava quello di un restauratore.
Tre sedie, di
cui
una azzoppata, attendevano di essere rimpiallacciate intorno ad un paio
di tavolini pieni di bozzi e graffi. Cornici d’ottone
sbiadito ammassate le une sulle altre impreziosivano paesaggi marini o
ritratti di anonimi sconosciuti. Su quasi ogni superficie piana a
disposizione c’era lo scheletro di una lampada da comodino,
un abat-jour
sbilenco o il braccio di quello che, un tempo, doveva essere stato un
pretenzioso lampadario a goccia o a cascata.
«Uhm…
c’è nessuno?», domandò con
scarse speranze di essere disattesa. Non aveva abbastanza fede
nell’umanità per credere che esistesse ancora
qualcuno che lasciava intenzionalmente le porte aperte in sua assenza
e, dunque, si sentì sciocca per quella domanda retorica.
Tuttavia non ricevette risposta e ritenne saggio mantenersi nei pressi
dell’ingresso, mentre riprendeva la valutazione critica
dell’oggettistica del negozio.
Non
c’era
alcun intento espositivo nella disposizione della merce,
stabilì. Eppure lei, che di mestiere faceva
l’arredatrice, vide il potenziale celato dietro quel cumulo
di mobili e cianfrusaglie. I negozi d’antiquariato che talora
visitava a Roma per conto di qualche cliente erano ben differenti:
lucidi, organizzati, efficienti. E, sebbene non avesse una particolare
predilezione per il disordine, dovette ammettere che la trascuratezza
di quel posto aveva una sua attrattiva: la promessa
dell’esplorazione e della scoperta.
Tra
quegli
orologi, ad esempio. A pendolo, a cucù, da parete, inseriti
in orrende statue, intagliati nel legno o nel quarzo.
O dietro a
quello
specchio color oro annerito dai decenni, lì dove uno
scaffale traboccava stoicamente volumi gonfi
d’umidità, con le coste rovinate e le consunte
copertine di cuoio rese lucide dall’uso.
Quel
negozio
poteva rivelarsi la sua Eldorado personale.
Capì
di
aver abbandonato ogni cautela quando prese a rigirarsi tra le mani un
orologio da taschino decisamente antico, con il vetro di protezione
tutto scheggiato e la catena spezzata. Doveva esserci di sicuro un
meccanismo di apertura posteriore della cassa…
«È suo. Per cento
euro».
Carla
sussultò appena e s’impose di continuare a
valutare l’oggetto con attenzione senza voltarsi,
perché infilarsi in un negozio per sopravvivere alla calura
non era tanto scortese quanto arrivare di soppiatto alle spalle di una
persona.
«Per
sistemarlo ce ne vorrebbero almeno ottanta. Credo che le
farà compagnia ancora per un bel po’»,
rispose e lanciò un’occhiata alle sue spalle
mentre riponeva l’orologio su una mensola, assieme ad altri
in condizioni più o meno simili.
Quello che
suppose
fosse il proprietario del negozio era chino su un tavolino bacheca e
nemmeno guardava nella sua direzione.
«Restauratrice»,
sentenziò l’uomo sollevando e abbassando il vetro
del tavolo, prima di spruzzare qualcosa nelle giunture e ripetere il
movimento.
«Arredatrice»,
rettificò lei senza
aggiungere che il restauro era una passione che non aveva mai
approfondito adeguatamente.
«Ah,
ma
allora è nel posto giusto. Quel Trumeau del
‘700 alla sua destra la stava proprio aspettando. Glielo
regalo per quattrocento euro. Un affare». Proseguì
nella sua occupazione mentre lei lanciava un’occhiata al
mobile indicatole.
«Per
un Trumeau
del
‘700 gliene davo anche mille, di euro. Ma quattrocento per un
cassettone con alzata? Senza offesa, ma nel suo negozio fa un
figurone». Carla incrociò le braccia e si
voltò completamente verso quel piccolo imbroglione.
L’uomo,
ancora piegato sul tavolino, sollevò il capo e lo sguardo su
di lei per lanciarle la prima, vera occhiata da quando era
sopraggiunto. E continuò a fissarla anche mentre si
raddrizzava e prendeva uno strofinaccio lercio dalla tasca del suo
pantalone di stoffa scuro per pulirsi le mani.
La ragazza
ricambiò lo sguardo e registrò istintivamente i
dettagli di quel volto. Non avrebbe potuto definirlo bello, come non
poteva definire bello quel locale. Eppure possedeva qualcosa di
accattivante. Forse il taglio degli occhi, forse
quell’accenno di barba, o il rigore di quei capelli tagliati
cortissimi che cozzava con l’immagine di trasandatezza
suscitato dai suoi indumenti.
«Se non ha
intenzione di acquistare nulla, che ci fa nel mio negozio? Vuole forse
vendere qualcosa?». Il proprietario infilò lo
strofinaccio logoro nella tasca del pantalone con un gesto secco e,
prima di chinarsi a sollevare il tavolino bacheca, Carla
notò come un angolo delle labbra dell’uomo fosse
appena piegato verso l’alto.
«La
porta era aperta», aggiunse in tono troppo orgoglioso per
illudersi di non sentirsi obbligata a giustificare la propria presenza
lì.
Lui la
guardò ed inarcò un sopracciglio mentre si
spostava con agilità reggendo il peso tra le braccia.
Carla
osò un’occhiata rapida ad un bicipite che tendeva
la stoffa della camicia che lui indossava. «La porta era
aperta e io stavo morendo di caldo, lì fuori»,
aggiunse in tono molto più mite. «Sono entrata
solo per ripararmi dal sole», confessò.
L’uomo
annuì con fare assorto e sistemò il mobiletto in
un angolo, dopo aver ricavato un po’ di spazio colpendo un
paio di volte col piede una colonnina intarsiata che, evidentemente,
non aveva più diritto ad una doppia – uso singola.
«Dunque lei non è una fatalista»,
commentò acciuffando la pezza lurida nella tasca dei suoi
pantaloni per ridistribuire lo sporco. Osservò la nuova
disposizione e, quando si voltò nuovamente verso di lei, ne
parve sufficientemente soddisfatto. «Eppure, camminando
s’è fermata proprio vicino al mio negozio. Per
sfuggire al sole ha scelto di scendere e di entrare, piuttosto che far
ritorno al suo B&B».
La
studiò pensieroso, prima di incrociare le braccia al torace.
«Non
tutte le cose accadono per caso, Carla».
Minific di tre capitoli.
Uno al giorno, a partire da oggi.
A domani!
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
2
«Non abbia
quell’espressione sconvolta. Acciaroli è un paese
piccolissimo. Praticamente ci conosciamo tutti. Anzi»,
l’uomo strofinò con cura le dita sullo
strofinaccio prima di riporlo in tasca e compiere qualche passo verso
di lei. «Io mi chiamo Giambattista». E
restò in attesa, la mano protesa, il sorriso cordiale.
Carla
esitò. Se
non fosse stata diffidente per natura, molto difficilmente sarebbe
arrivata dov’era.
L’uomo che
l’aveva generata aveva idee poco chiare sulle
responsabilità che comportava una paternità ma
non sull’impegno collegato alla passione per il gioco
d’azzardo, attività alla quale si dedicava con
rigore e costanza. Quasi una professione, a pensarci bene.
Carla
aveva compreso molto in
fretta che ”fidarsi è bene, ma non fidarsi
è meglio”, più che un detto era un
prezioso consiglio e ne aveva fatto la propria filosofia di vita. Non
aveva praticamente mai vissuto in casa con i suoi, lì dove
invece sua madre restava ancorata, perché
“casa” era ristoro, conforto, rifugio. O, forse,
era solo l’ultimo baluardo in un’esistenza
tormentata.
Se non fosse stata diffidente
per natura, sarebbe stato necessario molto più della
semplice buona educazione per farle stringere quella mano sudicia e
poco invitante come, invece, fece con vigore: perché una
mano impolverata, piena di tagli e così ruvida al tatto,
tanto differente dalle mani dell’uomo che si professava suo
padre, non poteva che raccontare di una vita dedita alla fatica.
D’altronde suo nonno glielo diceva sempre: un uomo onesto si
riconosce dai calli che ha sulle mani. E Carla si fidava ciecamente di
suo nonno.
«Carla. Devo
dedurre che la proprietaria del B&B in cui alloggio
sia… una cugina?», domandò ironicamente.
«Alla
lontana», rispose lui.
Aveva una mano forte, la
presa decisa che durò solo pochi istanti ma che
bastò a rivelare un temperamento d’acciaio. Gli
occhi, di una confortevole tonalità castano scuro,
sostennero con pacatezza l’esame sfrontato che la ragazza non
lesinò loro. Anche quella era una cosa che aveva imparato da
suo nonno: non ci si può fidare di una persona che non ti
guarda dritto negli occhi.
«Capisco. Il paese
è piccolo, la gente mormora… che si dice di
queste due turiste che affluiscono dalla capitale?». Nelle
sue intenzioni non c’era quella di essere scortese, eppure
Carla avrebbe volentieri strappato quella linguetta pettegola alla
padrona della stanza che aveva preso in affitto insieme alla sua amica
per la loro vacanza. Avevano persino approfittato della
possibilità di estendere la formula da B&B a
pensione completa, senza sospettare che “sette giorni, tutto
incluso” avrebbe compreso anche il servizio di pubbliche
relazioni.
L’uomo sorrise.
«Che quella più carina si chiama Carla. Non potevo
sbagliarmi».
Suo malgrado,
la ragazza
restituì il sorriso. «O la più
rammollita. Francesca, la mia amica, in questo momento sta cercando non
so quale passaggio segreto per convincersi di non avere il cuore a
pezzi. Ed io, che tecnicamente sono la spalla su cui dovrebbe piangere,
ho abbandonato il progetto a metà strada per intrufolarmi in
un negozio alla ricerca di un po’ di refrigerio. Ah, e
continuo a ripetere quella parola con la C che non si deve pronunciare,
anche se non lo faccio di proposito. Sono pessima, non
carina».
«La parola con la
C?», domandò Giambattista inarcando un
sopracciglio.
Carla
ebbe la grazia di
arrossire lievemente. «Una specie di codice. Cose di ragazze
che ogni tanto hanno le traveggole». E le traveggole le parve
di averle sul serio. Come le veniva in mente di rivelare certe
confidenze ad uno sconosciuto?
«Sarà il
caldo. Ogni tanto succede. Allora, pessima
Carla», incalzò Giambattista,
«cosa ti porta nell’assolata, solitaria, noiosa
Acciaroli?» e le sorrise.
Era vestito come suo nonno.
Con quei pantaloni pesanti e una camicia a quadretti come se tirasse
una leggera frescura e avesse paura di prendere un colpo di freddo e
non come un uomo che avrebbe dovuto gocciolare pure l’anima
visti i 40°C di fuori. Ma quello continuava a guardarla e lei
aveva abbastanza dignità da radiografare solo individui
inconsapevoli.
«E’ stata
una combinazione. Francesca ed io avevamo bisogno di riportare lo
stress a livelli accettabili. Abbiamo fatto i bagagli e siamo
partite», spiegò la ragazza distogliendo lo
sguardo e lasciandolo vagare per il negozio.
«Le combinazioni
sono quelle delle casseforti. Perché Acciaroli?»,
proseguì l’uomo e lei fu certa che gli occhi di
lui avessero iniziato a puntare le sue gambe. Cominciava a sentirsi
come se avesse oltraggiato una Chiesa con la propria nudità.
«Beh, mi sono
collegata ad internet, ho aperto un sito di last minute e ho
scelto la prima offerta che m’è capitata sotto gli
occhi. Il nome mi sembrava familiare e quindi … eccoci qua.
Quello lì è interessante…».
Compì un paio di passi verso la seggiola sbilenca e si
accovacciò.
C’era un piccolo
dipinto che faceva capolino dietro ad un ritratto di una zingara con un
abito rosso fuoco. Era un acquerello senza vetro di protezione, i
colori sbiaditi dalla tecnica e dal tempo, eppure pieno di luce.
«Posso?», chiese lanciando un’occhiata da
sopra le proprie spalle all’uomo qualche passo più
dietro.
«Certo,
Carla».
Carla seppe in
quel momento
che quell’uomo era un pericolo. Sapeva pronunciare il suo
nome come se lo stesse assaporando sulle labbra e questo le fece girare
la testa per un secondo: lei aveva giurato a se stessa che non si
sarebbe mai fatta infinocchiare da un uomo dalla lingua magica.
Okay, forse avrebbe evitato
solo gli uomini dalla chiacchiera magica.
Tornò a prestare
attenzione al dipinto e le parve di sapere già cosa avrebbe
ritratto prima ancora di afferrarlo e liberarlo dagli ingombri che lo
coprivano. Era una scena di vita
quotidiana: una donna portava sulla testa un cesto traboccante di
frutta e saliva un pendio, trascinandosi dietro un bambino che le si
reggeva al grembiule. Dall’altra parte due uomini fumavano
placidamente appoggiati
ad un muro.
Quella
particolare tecnica
pittorica l’affascinava da sempre. Era stata istruita a
riguardo da suo nonno che aveva dipinto fino a quando la mano aveva
conservato la forza di reggere un pennello. Poi un giorno,
semplicemente aveva deciso di non provarci più e aveva
smesso di farlo, staccando dalle pareti tutti i suoi quadri per
dimenticare di averlo mai fatto. E poi era morto.
Ma quel quadro non era solo
stato dipinto alla stessa maniera, ma proprio dalla stessa persona.
«Chi te lo ha dato
questo?», sussurrò la ragazza raddrizzandosi
immediatamente. Sentì che Giambattista si avvicinava alla
sue spalle e si voltò.
«E’
sempre stato qui dacché ricordi», rispose lui
senza degnare
il quadro di un’occhiata e mantenendo lo sguardo fisso su di
lei. «Conosci l’autore?».
Lei
tornò a
osservare la raffigurazione tra le sue mani per studiarla nel
dettaglio, ma gli angoli erano troppo rovinati per poter ottenere
qualche informazione sull’esecutore. «Non lo so.
Forse».
Si voltò dandogli
le spalle. Reggeva ancora il dipinto tra le mani, ma aveva bisogno di
riprendere fiato per scacciare il groppo che le si era formato alla
gola. Non aveva mai saputo di un solo quadro venduto da suo nonno. Ne
aveva regalati a centinaia, ma a Carla parve lo stesso sconcertante che
ne avesse trovato uno proprio in quel posto dimenticato da Dio.
«Vuoi sederti un
po’? Mi sembri pallida, Carla». La voce che
deviò il corso dei suoi pensieri non tradiva preoccupazione,
ma sicurezza. Della diagnosi e della terapia.
E per quanto il primo istinto
fosse stato quello di rifiutare con altrettanta fermezza, la ragazza si
trovò a dover considerare la possibilità reale
che la sua pressione avesse raggiunto un nuovo picco minimo e quindi
accettò, sperando almeno che non le offrisse la sedia
azzoppata.
Ma quello le offrì
uno sgabello tondo in legno ancora più incerto e si
allontanò per qualche istante tornando con un bicchiere
d’acqua ghiacciata che fece quasi genuflettere Carla, senza
riguardo per quarant’anni di onorato femminismo italiano.
Tracannò l’acqua velocemente e fu quasi pronta a
giurare su una Bibbia di aver appena raggiunto l’orgasmo
principe della sua vita grazie ad un bicchiere. Poi rimase ferma, col
quadro tra le mani, a fissare le linee tratteggiate dalla mano
amorevole di suo nonno.
«E’ la
piazza. Questa piazza qui sopra», sussurrò la
ragazza indicando il dipinto e lui annuì. Carla
studiò con attenzione lo sfondo realizzando che la
raffigurazione era proprio fedele al luogo in cui aveva scelto di
fermarsi, sfinita dalla passeggiata a prova di infarto che Francesca le
aveva imposto – stessa angolazione, stesse abitazioni, stesso
periodo estivo - e provò un palpito d’emozione a
pensare che, forse, suo nonno un tempo aveva percorso quelle strade,
visto gli stessi paesaggi, respirato la stessa aria come ora stava
facendo lei. E non l’aveva
nemmeno mai saputo.
«Quanto
vuoi?», domandò sistemando il quadro sulle
ginocchia per poi puntare lo sguardo negli occhi di Giambattista quando
fu certa di aver ripreso al lazo
tutti i suoi nervi.
Lui la
fissò a
lungo. «Mi dispiace, ma non è in
vendita».
«Suvvia!», replicò lei in
tono di
scherno. «Stai cercando di vendermi una cianfrusaglia dietro
l’altra da quando ho messo piede qui dentro. E’ un
modo per alzare il prezzo? Per questo sono pronta a pagare»,
aggiunse con incrollabile determinazione. Non avrebbe lasciato quel
negozio e quel paesino senza quel quadro.
Giambattista
sollevò appena le spalle a mo’ di scusa.
«Mi è stato detto che non dovevo venderlo, ma
conservarlo. Che sarebbe passato qualcuno a ritirarlo, ma non
è mai accaduto», rispose. «Facciamo
così: ti vendo questi due per cinquanta euro. Sono di un
artista lo-»
«Non li voglio quei
due, voglio questo!». Carla saltò dallo sgabello
valutando la distanza che la separava dall’uscita e la forza
fisica del proprietario nel caso l’avesse riacciuffata prima
che l’avesse guadagnata.
Non riusciva a spiegarsi il
senso di panico che provava a reggere tra le mani qualcosa appartenuto
alla persona che aveva più amato in vita sua senza potersene
garantire il possesso, il conforto della prova di
un’esistenza senza la quale Carla - in quel momento lo
realizzava con chiarezza - aveva smarrito il senso e la direzione della
propria.
Inspirò
profondamente. «Okay, ascoltami. Questo quadro…
credo l’abbia dipinto mio nonno. Ne sono quasi certa. La
tecnica, il modo di sfumare i colori… vedi?»,
spinse il dipinto fra loro per mostrargli una zona con la punta di un
dito. «Questo scoloramento non è casuale: lo
otteneva dipingendo bagnato sul bagnato». E
continuò ad esporgli le prove a sostegno della sua tesi
indicandogli i dettagli della tecnica che le sembravano rivelatori,
lanciando al suo interlocutore solo brevi occhiate, ma imprimendo alle
sue parole tutta la fermezza di cui si sentiva capace.
Quando fu certa
di essersi
lasciata alle spalle quel sentimentalismo inconsapevole che si portava
dietro e che rischiava di renderla eccessivamente emotiva,
respirò. «Ecco. Sono disposta a pagarti
più di quanto ci ricaveresti da un qualsiasi altro
acquirente. Per me ha un valore e per te è solo un oggetto
che toglie spazio ad un altro».
Giambattista
l’aveva ascoltata tutto il tempo con pazienza, senza
interromperla e con attenzione. Carla aveva un buon presentimento.
«Dunque dovrei
darti questo quadro perché legalmente non
c’è traccia di una sua vendita precedente e dalla
tua soggettiva analisi strutturale hai dedotto che sia stato eseguito
da tuo nonno e questo ti conferisce una sorta di diritto di prelazione.
Ho capito bene?». Non c’era traccia di scherno
nella voce dell’uomo, ma Carla ebbe la netta sensazione che
volesse deriderla ugualmente.
«Pressappoco.
Sì, diciamo che il riassunto è abbastanza
corretto», rispose lei, caparbia.
Giambattista annuì
lentamente col capo, le braccia sempre incrociate, mentre con la punta
della vecchia scarpa dava dei colpetti ad una piccola pila di libri
abbandonata sotto un comodino.
Dopo aver atteso
all’operazione con cura esasperante, sciolse
l’incrocio delle braccia e tese una mano nella sua direzione.
Carla gli passò il quadro, senza mostrare visibile
esultanza, ma pronta a versargli qualsiasi cifra quello le avesse
chiesto. L’uomo studiò il dipinto per qualche
istante, poi lo depose dietro di sé, nello spazio creato
prima dall’incessante lavorio della sua scarpa su quei libri
sgraziatamente disposti per terra.
«Torna domani, pessima Carla. Puoi
fare di meglio».
A domani!
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
3
«Puoi iniziare con quelle
lampade da tavolo. Devono essere spolverate».
Carla
lanciò uno sguardo sgomento alla direzione che
Giambattista le aveva indicato non appena aveva messo piede nello
squallido negozietto di antiquariato. Poiché quelle erano le
prime parole che le rivolgeva senza alcun riguardo alla cortesia di un
saluto convenzionale, la ragazza realizzò che quaranta gradi
all’ombra non erano nulla se paragonati a quanto
l’avrebbe fatta sudare quel tipo per decidersi a darle il
quadro di suo nonno.
S’era
pure fatta bella. Con un vestitino di lino senza
maniche e i capelli acconciati in modo vaporoso ma naturale sotto un
cappellino bianco con un nastrino di raso rosso. E aveva portato un
sacchetto di dolci alle mandorle e un bricco di caffè
preparato dalla proprietaria linguacciuta del B&B
perché se un uomo le diceva che poteva fare di meglio, a lei
non restava che raccogliere la sfida e fargli rimangiare ogni parola.
Depose dolci e
bevanda su uno dei tavolini vicino
all’ingresso con molta meno grazia di quanto si era
ripromessa, tolse il cappellino con un gesto brusco impigliandosi una
ciocca, naturale e vaporosa, nella paglia e ingoiò buona
parte dei commenti al vetriolo che sentiva salire alle labbra,
intendendo risparmiarli per un secondo momento. Preferibilmente dopo
aver raggiunto il suo obiettivo.
«Sicuro
che devono essere spolverate?». Carla si
rigirò tra le dita un orrendo puttino che al posto della
testa aveva una lampadina e cercò di reprimere una smorfia
di disgusto. «Queste non se le prende nessuno. Nemmeno se sei
tu a pagare loro».
Lanciò
uno sguardo fugace a Giambattista intimandosi di
essere più cordiale e meno pungente, ma quello entrava ed
usciva da una porticina, evidentemente un retrobottega, senza prestarle
in apparenza la minima attenzione. Carla soppesò la macabra
lampada da tavolo nella mano e, valutando la distanza, gli ostacoli, la
luce, il vento e la pendenza nel negozio, ritenne di poter centrare la
testa del proprietario senza sforzo.
Giambattista
rispuntò dal retro reggendo due colonnine di
legno intarsiate che la ragazza non trovò eccessivamente
sgradevoli come gran parte di ciò che era presente in quella
bottega, ma incastrati sotto a un braccio l’uomo portava
anche i due piccoli ripiani superiori: come gran parte di
ciò che era presente in quella bottega, anche le colonnine
andavano riparate.
Tutto, in quel
negozio, attendeva di essere riparato.
Pensò
di scagliare il puttino alla cieca: in un colpo solo
poteva risparmiare a Giambattista almeno sette, otto ore di lavoro e,
invece di terminarlo,
ne avrebbe conquistato la riconoscenza. E il quadro di suo nonno.
Ma poi le
arrivò addosso un fagotto polveroso e pungente di
abiti come se fosse un proiettile. Solo grazie ai suoi poderosi
riflessi, la ragazza evitò una caduta accidentale della
preziosa lampada da tavolo e nel contempo riuscì a non
mancare il lancio.
«Mettili,
se vuoi che il tuo vestito resti bianco e
grazioso».
Mai, nemmeno in un
milione di anni lei avrebbe indossato gli indumenti
di un ricattatore, sfruttatore, approfittatore che fingeva di avere a
cuore il suo abitino da trecento euro.
«Non
credo che mi servir-»
Qualcos’altro
le colpì il braccio.
«Con
questo puoi coprire i capelli. Gente di
città…».
E scomparve nel
retrobottega, scuotendo il capo.
*****
«Posso
sapere cosa stai guardando?». Carla
sbirciò tra le dita della mano destra e scorse Giambattista,
un gomito appoggiato sul ginocchio a reggersi il mento, il martello
penzoloni nell’altra mano, che la fissava, proteso verso di
lei.
«E’
da un’ora che fai quella cosa con le
dita», smozzicò quello, due chiodi che si
reggevano in bilico da un angolo della bocca.
«Quale
cosa?»
«Quella.
Ti strofini gli occhi. In continuazione».
L’uomo si tirò indietro, prese un chiodo dalle
labbra, lo posizionò e diede un paio di martellate allo
sportello del comò che stava riparando. «Hai i
canaletti otturati? Una volta avevo un cane che lacrimava sempre. Aveva
i canaletti otturati». E giù con l’altro
chiodo.
Carla lo
fulminò con un’occhiata sprezzante,
gentilmente offerta dai suoi “canaletti” pervi.
«I miei dotti lacrimali funzionano benissimo, nonostante non
li eserciti da quando avevo sette anni circa. E’ la
polvere», chiarì. «Mi fa starnutire e mi
strofino la base del naso, vicino agli occhi, per evitarlo».
Giambattista
annuì senza guardarla. «Anche il mio
cane. Si strofinava il naso con la zampa quando gli prudeva».
La ragazza chiuse
gli occhi e cercò le ultime briciole di
pazienza dentro di sé. «Forse era
allergico», replicò sarcastica.
«Avverto
nelle tue parole una leggera riprovazione. Non ti
sarai offesa?», domandò l’uomo.
«Guarda che è stato un buon cane. Gli volevo
bene».
«Offesa?
Fammi pensare …», Carla si mise
un dito al centro del labbro inferiore e volse lo sguardo verso
l’alto. «Hai cercato di vendermi qualunque cosa
presente in questo negozio su cui, sciaguratamente, è caduto
il mio sguardo provando a truffarmi sul prezzo il cento per cento delle
volte. Eccetto che per il quadro di mio nonno. Quello non vuoi
venderlo. No, perché i soldi io voglio darteli ma per quello tu non
intendi prenderli. Dici che posso fare di meglio e allora torno qui,
con tutta l’umiltà e la buona volontà
che possiedo, ma tu hai una visione mistica e decidi che sono perfetta
per spolverare, rassettare, lucidare le tue cianfrusaglie mentre tu dai
qualche colpo di martello qui e lì, in una versione tutta
personale del lavoro di restauro, ma universalmente riconosciuta di
sessismo».
La ragazza si
alzò dallo sgabello scuotendo polvere e
sporcizia dalla parte anteriore del suo vestito – vestito che
si era categoricamente rifiutata di sostituire a beneficio degli abiti
che Giambattista le aveva offerto – e si strappò
dalla testa il foulard che aveva accettato, invece, per proteggere i
capelli. Sentiva un calore montarle al cervello ma s’impose
di mantenere una parvenza di controllo, sebbene fosse consapevole che
ormai era giunta al limite della pazienza.
«E
adesso mi paragoni al tuo cane. Che sarà stato
pure più fedele di Lassie, ma resta pur sempre un animale,
che ha fatto la pipì sui tronchi degli alberi e sulle ruote
delle auto. Ma no. Perché mai dovrei sentirmi
offesa?».
Ribolliva di
rabbia.
Non avrebbe saputo
spiegarlo diversamente, ma dopo ore impegnate in
lavori manuali si sentiva il corpo indolenzito, le spalle contratte, le
dita intorpidite e il naso continuava a pruderle incessantemente per
tutta la polvere che dagli strofinacci le si era riversata addosso. Era
stanca, affamata e non aveva più la forza di tergiversare,
né di tenere a freno le sue emozioni.
Giambattista, che
per tutto il tempo non aveva smesso di martellare,
diede un ultimo colpo solenne all’anta del comò,
si raddrizzò, depose l’attrezzo sul ripiano
superiore del mobile e tirò fuori la pezzuola lercia dalla
tasca per strofinarsi con calma le mani.
«Ti sei
offesa», constatò con irritante
placidità.
«Okay,
ora ne ho davvero abbastanza». Carla
avanzò con passo battagliero e si fermò ad un
passo da lui. «Ho fatto tutto quello che volevi. Ho riso
delle tue battute stupide, sono stata gentile e carina con te. Ora,
perché non mi dici se hai intenzione di darmi il mio quadro
e la facciamo finita?».
«Dalle
mie parti, nessuno ti definirebbe gentile. Carina
sì. Ma gentile …». Giambattista scosse
appena il capo in segno di riprovazione e Carla batté il
piede a terra per la stizza.
«Dimmi, pessima
Carla, cosa sta facendo la tua amica in questo
momento?», incalzò l’uomo.
La ragazza
aggrottò la fronte per la sorpresa. Che
c’entrava Francesca in tutto questo?
Fece spallucce.
«Credo… mi pare che sia tornata
alla Torre. Ha detto che stanno allestendo una mostra e che il custode
l’avrebbe fatta entrare in via eccezionale… non lo
so! Ma che t’importa?», spalancò le
braccia per lo sconforto. Dove voleva andare a parare con quelle
domande?
«Bene.
Allora, dimmi», ammiccò lui e le
si accostò un po’. «Cosa sei disposta a
fare per avere quel quadro?».
Carla fece un
passo indietro e raddrizzò la schiena. Quello di sicuro
non era disposta a farlo.
«Se
credi che sia quel tipo di persona, di donna»,
riprese fiato. «Oh, ma certo! Tu sei convinto che io
sia pronta a fare quello che pensi facciano le donne per ottenere
qualcosa. Tipico di voi uomini!». S’interruppe
perché la veemenza dell’indignazione che aveva
preso il posto della rabbia la soffocava.
«Hai
finito?», le domandò quello, senza
scomporsi e Carla si chiese come potesse restarsene così
calmo dopo una proposta tanto sfacciata. Strinse le labbra tra loro
indispettita e dopo qualche attimo di silenzio da parte di entrambi si
voltò, pronta ad andarsene via.
«Quando
sei diventata così diffidente nei
confronti del prossimo, Carla? E’ stato tuo padre a
deluderti?».
La voce di
Giambattista bloccò i suoi movimenti. Poteva
essersi lasciata sfuggire qualche commento personale durante il tempo
trascorso insieme, ma questo non autorizzava le sue illazioni.
«Come ti
permetti … tu non mi conosci»,
sibilò risentita, girandosi a guardarlo.
«Lo
credi davvero? Sei una donna giovane, bella ma avvizzita
nell’animo. E hai sofferto talmente tanto in vita tua che non
permetti più a nessuno di raggiungerti. Sei avvelenata dal
rancore e lo usi per schermarti dal resto del mondo. Non ho bisogno di
conoscerti quando mi basta riconoscerti».
Giambattista le
era così vicino che Carla dovette inclinare
il capo indietro per sostenerne lo sguardo. «Hai bisogno di
allontanare la rabbia da te. E’ importante,
credimi».
La ragazza
continuò a fissarlo, in silenzio.
«Perdonati,
Carla. Lui l’ha fatto».
Il respiro le si
bloccò in gola. Non poteva… non
era possibile che lui sapesse…
Si
voltò e fuggì via dalla quella bottega e da
quel paesino del Cilento.
*****
«Fate
largo alla balena spiaggiata! Oh, tesoro! Sono
arrivata!».
Francesca
entrò in casa di Carla assicurandosi che tutto il
vicinato sapesse che lo stava facendo. Erano degli impiccioni. Ogni
volta che camminava sul pianerottolo li poteva quasi sentire respirare
dietro le porte, a studiare il nuovo arrivato dallo spioncino e a
domandarsi cosa ci fosse tra quelle due donne che stavano sempre
insieme. Specie ora che una delle due camminava fieramente con un bel
pancino gravido di sei mesi.
Che pensassero
pure che erano lesbiche e che avessero realizzato
l’inseminazione artificiale. D’altro canto, lei non
riteneva differente da questo il modo in cui era rimasta incinta sei
mesi prima, poco prima che il suo ex fosse beccato a bazzicare le
prostitute e fermato dalla polizia. L’aveva fatto uscire
grazie alla sua amicizia con il Questore, ma non aveva voluto
più vederlo. E da allora non l’aveva
più sentito.
«La
smetti di urlare come una pazza? Che poi esageri sempre:
sei un’acciuga, altro che balena. In tutto avrai messo su tre
chili».
«Cinque!
Ti rendi conto? Arriverò a fine
gravidanza che avrò perso il conto».
Carla le prese il
soprabito e le sorrise comprensiva.
«Andremo a fare jogging insieme, non temere. La strega la
portiamo con quei passeggini ergonomici… ne ho visto uno
delizioso su un catalogo on-line…»
Francesca
ricambiò il sorriso. Carla era stata stupenda con
lei. Le aveva rivelato della gravidanza solo dopo il viaggio che
avevano fatto insieme, quattro mesi prima quell’estate nel
Cilento. Lei aveva bisogno di riflettere sul futuro suo e di quella
creatura e quel viaggio era stato rivelatore: non avrebbe mai smesso di
ringraziare Carla per averla portata lì, ad Acciaroli, dove
Francesca aveva capito davvero quale fosse la scelta giusta da compiere.
E la sua amica si
era dichiarata entusiasta e disponibile ad aiutarla
quando le aveva confidato che quel bambino voleva tenerlo.
L’aveva abbracciata e le aveva detto che le cose succedono
sempre per una ragione.
«Sei
incredibile», mormorò Francesca,
ferma sulla soglia del salotto. «Come fai a creare un
ambiente così caldo, confortevole,
così… natalizio, senza nemmeno un
camino?». Osservò l’albero che toccava
quasi il soffitto, le luci dorate e blu che si accendevano e spegnevano
lentamente, le palline decorate in tessuti preziosi che pendevano dal
soffitto, le finestre bordate di finta neve, il tappeto rosso ed oro
che dominava il pavimento e pensò che sua figlia sarebbe
stata una bambina fortunata ad avere una zia come Carla.
«Faccio
l’arredatrice, che cavolo! Saprò
decorare un ambiente in occasione del Natale».
Mentre Francesca
si accomodava sul divano e cercava di non farsi
allettare dai profumini provenienti dalla cucina, Carla
tornò con piatto di stuzzichini che poggiò sul
tavolino dinnanzi a lei. Le strizzò l’occhio.
«Jogging. Stai tranquilla».
Prese un salatino
e lo portò alle labbra, beandosi
dell’atmosfera confortevole da cui era più che
bendisposta a farsi avvolgere. «Mmm, sono i quadri di tuo
nonno quelli?», domandò prima di mordersi la
lingua. Parlare del nonno non era un argomento indolore per
Carla, anche se di recente sembrava più incline a farlo.
Dopotutto lei sapeva che l’amica non si era mai perdonata di
non esserci stata quando suo nonno era morto, solo in un ospizio. E
benché Francesca avesse rimarcato come quella struttura
fosse la più adatta alle esigenze dell’anziano,
malato di Alzheimer da anni, Carla non si era mai convinta del tutto.
L’amica
annuì, lanciando uno sguardo alle pareti
su cui aveva esposto alcuni dei lavori di suo nonno.
«Sì. Ho pensato che il loro posto è
questo, dove possono vederli tutti».
Francesca
approvò studiando l’espressione
dell’amica: sembrava serena.
«Mi
dispiace per quel dipinto, quello di Acciaroli. Sei
davvero sicura che fosse di tuo nonno?», domandò.
L’amica
fece spallucce. «La firma era illeggibile,
ma ne sono quasi certa. Non importa, comunque. Costava davvero
troppo».
«Allora.
Vuoi dirmi qual è il menu della
se-»
Il ronzio del
citofono nell’ingresso interruppe la sua
domanda e lei e Carla si scambiarono uno sguardo interrogativo.
«Hai
invitato qualcun altro?», domandò.
«La sera
di Natale? Nessuno merita questo onore. Dammi un
momento», rispose Carla e si allontanò dalla
stanza.
Quando
udì il rumore della porta d’ingresso,
Francesca lanciò uno sguardo alle scarpe di cui si era
disfatta quasi immediatamente pensando – ma solo per qualche
breve istante - che poteva essere più corretto se le avesse
infilate di nuovo, specie in previsione del nuovo, inatteso ospite.
Ma quando Carla
tornò era sola e reggeva un grosso pacco
ricoperto con carta per imballaggio e fissato con uno spago.
«Caspita.
Un regalo». Si alzò dal
divano, sollevata di non essere stata costretta a recitare la parte
dell’avvocato di successo su dodici centimetri di stiletto e
si avvicinò all’amica. «Chi te lo
manda?».
Carla osservava il
pacco con la fronte aggrottata. «Non
c’è nessun biglietto», e quindi lo
scartò velocemente.
Era un quadro,
simile in modo impressionante a quelli che ornavano le
pareti della stanza in cui si trovavano e, incastrato in un angolo
della cornice, c’era un biglietto, la carta ingiallita dal
tempo.
«E’
quello? Il dipinto che volevi
acquistare?», domandò alla sua amica, ma quella
era intenta a leggere il messaggio, dopo aver staccato il cartoncino
dal bordo del quadro. Lo lesse due volte, prima di voltarlo per vedere
se ci fosse scritto altro sul retro e solo allora Francesca
notò che non si trattava di un bigliettino di auguri
tradizionali, ma di una foto, in bianco e nero, lisa ai bordi.
«Non
è possibile…»,
mormorò Carla.
«Cosa?
Ti hanno mandato il quadro di tuo nonno,
giusto?», sollecitò l’amica e visto che
non le rispondeva le tolse di mano la foto e lesse il messaggio, senza
troppi convenevoli.
Sapevo che qualcuno
sarebbe arrivato.
Niente accade per caso,
pessima Carla.
Buon Natale
G.
Francesca
voltò la foto per vedere chi ritraesse.
C’era un gruppo di uomini e donne in posa, ma con abiti
dismessi, segno che l’istantanea era stata scattata rubando
un momento alla quotidianità. Davanti a loro uno stuolo di
bambini, con i visi e le mani tutti sporchi di polvere e fuliggine.
Dietro di loro, Francesca riconobbe la Torre Normanna di Acciaroli.
«Ehi, ma
questo non è tuo nonno?»,
domandò strizzando gli occhi per sovrapporre
l’immagine del giovane che aveva tra le mani e quella
dell’uomo che rammentava di aver visto in molte foto presenti
per casa.
Carla
annuì col capo, tenendosi la mano alla base della gola.
Francesca
osservò la foto per qualche altro istante e poi
spalancò gli occhi e la bocca per la sorpresa.
«Tuo nonno era tra le persone che avevano salvato tutti quei
fuggiaschi, nascondendoli nei cunicoli sotto la Torre durante la
guerra! Perché non me l’hai mai detto?».
La ragazza scosse
il capo e deglutì, ma non si
unì alla meraviglia dell’amica che continuava a
studiare la fotografia, i volti di quelle persone, di quei bambini, per
lo più ebrei.
«Caspita.
Tuo nonno era un eroe. Me le ricordo alcune di
queste persone. Il custode della Torre mi ha mostrato la stanza che
hanno dedicato loro per quella mostra di cui ti ho parlato. Vedi
questa?», con un dito indicò una donna
dall’aria dolce e remissiva. «Due nazisti bussarono
alla sua porta e lei li uccise a sangue freddo per proteggere cinque di
questi bambini che nascondeva in cantina. E questo qui?».
Avvicinò la foto all’amica per facilitarle la
visuale, ma quella si ostinava a guardare da un altro lato.
«Questo con quegli orrendi pantaloni e le braccia muscolose?
Che si strofina le mani con quello straccio? S’è
fatto torturare per giorni prima di essere giustiziato per non aver
voluto rivelare il nascondiglio dei fuggiaschi. Ha salvato centinaia di
persone, la maggior parte bambini.
Aveva un nome
assurdo… Gian-qualcosa…»
«Giambattista.
Il suo nome era Giambattista».
FINE
Salve a tutti.
Per
chi mi conosce già per aver infestato il fandom Twilight
per anni: il vostro masochismo non ha limiti se mi avete seguito anche
qui. Bentrovati.
Per
chi mi legge per la prima volta: non abbiate paura, questa è
solo una brevissima incursione nel sito, ma già fra qualche
minuto potrete dimenticare di avermi mai conosciuta. Grazie per la
fiducia accordatami leggendo fino alla fine.
Questa
minific è nata come una OS. Anzi, come una singola
scena che mi ha lacerato la mente diversi anni fa e che ho dovuto
accantonare per forza maggiore: una ragazza che scendeva sospettosa i
gradini di un sottoscala in quel posto meraviglioso che è
Acciaroli. Perché scriverla adesso? Perché, come
molti di voi già sanno, qualche mese fa mi sono assunta
l’impegno di revisionare la fan fiction “Una sera,
per caso …”, senza sapere che sulla mia strada
sarebbero comparse due editor terrificanti, e la revisione sarebbe
passata a riscrittura. Non fraintendetemi. Mi sto divertendo come una
pazza, ma il mio personale concetto di divertimento è,
forse, un po’ deviato: fare le due di notte per apportare
delle correzioni pur sapendo di dovermi svegliare alle sei di mattina
per andare a lavoro. E poi, il giorno dopo, ricorreggere ancora. E
magari ancora.
Ecco.
Io mi diverto quando mi demoliscono una scena o un intero
capitolo, perché questo significa che non ho dato ancora il
massimo e ci si aspetta che possa fare di più.
L’OS/minific
nasce dalla necessità di rilassarmi tra un colpo
d’accetta e una lavata di capo, un modo per riportare lo
stress a livelli accettabili, per scrivere senza pretese né
troppe seghe mentali. Per scrivere e basta.
Soprattutto,
è il mio modo di augurarvi Buon Natale,
perché amo il Natale e volevo che aveste qualcosa di mio da
scartare sotto l’albero: la speranza e la fiducia nella vita,
la capacità di riconoscere le occasioni e il coraggio di
saperle cogliere.
Ed
è il mio ringraziamento speciale per Francesca, a cui
l’intera storia è dedicata.
Vi
va di scartare un altro regalino? Per
chi non si fosse già fiondato, passate qui
perché Mirya è tornata su EFP con una nuova
storia!
Se
avete piacere a seguirmi e a
conoscere il destino della spremitura dei pochi neuroni ancora
all'attivo vi invito su Twitter,
Facebook
e sul mio blog.
Auguri! E.M.
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