La Magia di un Bacio sotto il Vischio

di Kitri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Prima parte
 
«I passeggeri del volo Clouds Airlines, delle ore nove, diretto a Tōkyō, sono pregati di recarsi all’imbarco».
 
L’altoparlante dell’aeroporto JFK di New York annunciò che era ora di partire.
Il giovane uomo, che leggeva in sala d’attesa, si alzò e, a passo deciso, si avviò verso il Gate 3, come indicato sul tabellone delle partenze.
“Andiamo a risolvere questa faccenda!” disse tra sé, sbuffando nervosamente per quella che considerava una vera e propria seccatura, un imprevisto di cui avrebbe fatto piacevolmente a meno.
Al varco, la graziosa hostess dai capelli neri a caschetto, gli controllò velocemente il biglietto e i documenti, distratta da quegli occhi blu penetranti e da quella sicurezza ostentata.
«Buon viaggio, signore» augurò, rivolgendogli un sorriso lezioso, che lui ricambiò prontamente, facendole anche l’occhiolino. Una reazione istintiva quella, che si innescava automaticamente con le donne.
Che fossero giovani o attempate, belle o poco attraenti, a lui non importava. Mamoru Chiba amava adularle, sfruttando la propria avvenenza fisica e i modi galanti, anche se, a dirla tutta, ben poche avevano avuto il piacere e l’onore di sperimentare le sue doti amatorie. Da questo punto di vista, era decisamente molto selettivo.
Salì distrattamente le scalette dell’aereo, tolse gli occhiali da sole e, tenendo il capo chino, li sistemò nella sua ventiquattrore.
«Buongiorno, signore, e benvenuto a bordo».
Una voce soave ed estremamente femminile lo riportò sull’attenti, mentre il suo sguardo basso si ritrovò ad ammirare un paio di deliziosi piccoli piedi in décolleté neri. Non era mai stato un feticista, ma trovò quell’immagine davvero intrigante.
Con gli occhi risalì lentamente lungo le caviglie sottili e le gambe snelle, per poi continuare a scrutare prima i fianchi armonici, quindi la vita stretta e il seno prosperoso, fasciati dalla divisa nera e rossa della compagnia aerea.
“Niente male” pensò.
E, infine, arrivò al viso.
“Davvero niente male!” ripeté tra sé con maggiore enfasi, notando i lineamenti delicati, i grandi occhi azzurri e il sorriso luminoso.
Rimase stralunato per qualche secondo, fino a quando qualcuno, dietro di lui, non gli fece notare che stava temporeggiando, bloccando la lunga fila di passeggeri.
«Buongiorno a lei, signorina».
Si affrettò a ricambiare il saluto e a entrare. Stavolta, niente ammiccamenti e sorrisini di circostanza: il suo ben collaudato congegno automatico si era improvvisamente, e stranamente, inceppato.
“Faranno dei casting per assumere le hostess?” si chiese ironico, mentre prendeva posto, pensando ancora alla ragazza bionda. Era un vero e proprio schianto e rispettava pienamente, e anche oltre, i suoi parametri selettivi.
Eppure, pensò, gli sembrava di averla già vista da qualche parte e, riflettendoci, non appena i loro sguardi si erano incrociati, gli era parso che la ragazza avesse sgranato gli occhi, come se fosse sorpresa di vederlo.
Ma forse si sbagliava o, molto probabilmente, somigliava solo a qualche vecchia conoscenza.
“Una così me la sarei certamente ricordata!”.
In ogni caso, il viaggio sarebbe stato sicuramente molto più interessante del previsto e si sarebbe deliziato al vederla sfilare, avanti e indietro, lungo il corridoio dell’aereo.
 
Il volo, però, non fu assolutamente piacevole come aveva immaginato e la sua hostess preferita - così l’aveva ribattezzata - non fu per niente gentile e premurosa come ogni normale assistente di volo che si rispetti, anzi, lo ignorò completamente.
La prima volta, Mamoru pensò a una distrazione.
La ragazza, sorridente e garbata, stava distribuendo i quotidiani a tutti i passeggeri, ma, arrivato il turno di Mamoru, il Tōkyō Shinbun, passando sulla sua testa, era finito, invece, direttamente nelle mani dell’uomo che sedeva dietro di lui. Perplesso, si bloccò con la mano a mezz’aria, indeciso se richiamare o meno l’attenzione della giovane. Poi si ricordò della copia del New York Times acquistata in aeroporto e lasciò perdere.
La seconda volta, invece, storse la bocca contrariato.
La ragazza, che spingeva il carrello delle vivande lungo il corridoio, non si era neanche voltata nella sua direzione per chiedergli se desiderasse qualcosa, come se non esistesse o non fosse un passeggero del volo come gli altri. Un caffè, voleva solo un semplice caffè!
“Ok, fa niente, tanto il caffè in aereo fa schifo” si autoconvinse, prima di reimmergersi nella lettura.
Ma la terza volta, quando con il carrello del pranzo gli toccò la stessa sorte che con i due precedenti, Mamoru non ci vide più e protestò.
«Signorina – l’ammonì bruscamente – ho lasciato perdere giornale e caffè, ma il mio pranzo lo pretendo! Ho pagato profumatamente questo viaggio in prima classe e il servizio non vale neanche un centesimo di quello che ho speso!».
A quelle parole, la ragazza si irrigidì. Non si voltò a guardarlo, ma, continuando a dargli la schiena, girò leggermente il viso e parlò con voce sommessa al di sopra della spalla.
«Mi dispiace, signore, ho appena dato via l’ultimo vassoio. Vado in cabina a rifornire il carrello e avrà subito il suo pranzo». E detto questo, senza neanche dargli modo di replicare, corse via verso la testa dell’aereo, mortificata.
Mamoru non voleva umiliarla, ma il suo comportamento, così superficiale e poco professionale, da sembrare addirittura intenzionale, l’aveva fatto innervosire abbastanza. Eppure, provò uno strano rammarico nel vederla scappare così. E fu ancor più dispiaciuto quando, al suo posto, vide comparire un’altra hostess con il vassoio del pranzo, la copia del Tōkyō Shinbun e il caffè, e quasi gli si chiuse lo stomaco. Sapeva di non avere torto, ma si rimproverò, comunque, di non aver usato dei modi più gentili. Decise che, non appena l’avesse rivista, le avrebbe chiesto scusa.
 
Quando, tredici ore dopo, l’aereo finalmente atterrò a Tōkyō, Mamoru era letteralmente distrutto dal viaggio e dal jet lag.
Recuperò il proprio bagaglio, guardandosi intorno e cercando tra la folla il volto della giovane hostess, aguzzando la vista ogni volta che scorgeva, in lontananza, una divisa nera e rossa. Da quello spiacevole incidente non aveva più rivisto la ragazza bionda. Avrebbe tanto voluto scusarsi. E, magari, conoscerne almeno il nome.
Rassegnato, chiamò un taxi e fornì all’autista l’indirizzo della villa del suo vecchio zio, e, dopo un lungo sbadiglio, pianificò che avrebbe dormito almeno un giorno intero, tanta era la stanchezza.
Ma, mentre l’auto si allontanava lentamente, non riusciva a mandare via l’immagine di quella donna e continuò a fissare l’uscita dell’aeroporto, fino all’ultimo, con la speranza di vederla. Non sapeva spiegarsi perché si sentisse così, ma aveva la sensazione di un ricordo sbiadito, sepolto nella memoria, che si stava risvegliando poco a poco.
 
Due giorni dopo, Mamoru decise che era giunto il momento di lasciare il letto e di tornare alla vita. Aveva un mucchio di cose da sistemare e solo un mese a disposizione.
Camminò per le strade affollate del centro, godendosi l’aria gelida e pungente di dicembre. Era un sabato pomeriggio e mancavano due settimane a Natale, ma le vie erano già tutte illuminate a festa e molti sembravano impegnati con i primi acquisti natalizi.
Giunto all’angolo del corso principale, finalmente riconobbe l’insegna luminosa del Crown, la caffetteria gestita dal suo migliore amico Motoki.
Entrò, lasciandosi avvolgere dal tepore del locale, e si guardò intorno, mentre toglieva sciarpa e guanti. Tutto era molto diverso. Il locale era stato ristrutturato e la disposizione dei tavoli e del bancone era cambiata. Non aveva più niente della vecchia sala giochi in cui passava i pomeriggi da liceale in compagnia degli amici, ma, nonostante ciò, rimaneva un posto familiare e accogliente.
«Che mi venga un colpo! Chiba, sei proprio tu?».
Il giovane proprietario era appena uscito dal retro. Trovandosi di fronte il vecchio amico, che non vedeva da quando era stato a New York un anno prima, aveva strabuzzato gli occhi incredulo e si era lasciato andare a una gioiosa espressione di sorpresa.
«Sì, sono proprio io» rispose Mamoru, andandogli incontro e abbandonandosi a un caloroso abbraccio.
«È bello averti qui! Ma perché non mi hai avvertito del tuo arrivo?».
«Sono partito all’improvviso e non ho avuto il tempo di farlo. E poi ho pensato che avresti gradito una sorpresa».
«Beh, direi che ci sei riuscito» rispose Motoki, dilungandosi in pacche amichevoli sulle spalle, contento di averlo di nuovo con sé.
«Ma accomodati! – aggiunse – E, mentre ti preparo un bel caffè caldo, mi spieghi cosa ti ha portato qui con tanta urgenza».
Mamoru prese posto sullo sgabello davanti al bancone e, mentre Motoki armeggiava con la macchina dell’espresso, iniziò a raccontare.
«Mio zio Masao mi ha lasciato in eredità la sua villa».
Motoki sgranò gli occhi stupito.
«Hai ereditato la villa del vecchio Masao?!? Ma vale una fortuna!».
«In realtà, la fortuna è quella che ho dovuto spendere io per mantenerla a distanza, senza contare le tasse, anche se è una casa disabitata. – rispose Mamoru con un sorrisetto ironico - Sono grato a mio zio di essersi ricordato di me. Considerando il modo in cui ha reagito alla mia partenza, mi aspettavo che lasciasse tutto in beneficenza. Ma, sinceramente, gestire questa situazione è molto complicato, oltre che dispendioso, quindi ho deciso di vendere».
«Vendere la villa? Certo guadagnerai parecchio, ma non hai considerato il legame affettivo? Ricordi quanto tempo ci abbiamo passato insieme e quante feste abbiamo organizzato in giardino?».
Mamoru abbassò lo sguardo sulla tazza fumante, che il suo amico gli aveva appena messo davanti. Non era stato facile prendere la decisione di vendere la casa in cui era vissuto, da quando erano morti i suoi genitori. Aveva mille ricordi in quel luogo, belli e meno belli, ma non vedeva altra soluzione. Nonostante fosse un medico in carriera e avesse un ottimo stipendio, non poteva permettersi tutte quelle spese. Ma questo non era l’unico motivo.
«Quei tempi sono andati – rispose serio - Ormai non ho più niente che mi leghi a Tōkyō, la mia vita è a New York».
L’altro tacque, non sapendo come replicare.
Una ragazza alta, con lunghi capelli castani, uscì dal retro reggendo un vassoio pieno di pasticcini.
«Mamoru, - esordì Motoki, deviando così lo scomodo discorso – lascia che ti presenti Makoto, la mia fidanzata. Mako, lui è Mamoru Chiba, il mio migliore amico, di cui ti ho parlato tante volte».
«È un vero piacere conoscerti, Makoto» disse Mamoru, porgendole la mano.
La ragazza, dopo aver appoggiato il vassoio sul banco ed essersi pulita le mani sul grembiule, ricambiò il saluto.
«Il piacere è mio, Mamoru. Perché non assaggi uno di questi dolci che ho appena sfornato?».
«Fidati, amico, Makoto è una cuoca eccezionale» aggiunse Motoki con gli occhi pieni di orgoglio, passando il braccio attorno alla vita della sua fidanzata, che arrossì.
«Se dici così, non posso certo rifiutare – e allungò la mano per prendere uno di quegli invitanti dolci al cioccolato – Mhm, buonissimo! Motoki ha ragione, sei una cuoca bravissima».
La ragazza arrossì ancora di più.
«Ti ringrazio, Mamoru, sei gentile. Questi sono i dolci che mi vengono meglio. Li ho fatti per la mia amica Usagi. Ne va matta».
A sentir pronunciare quel nome, Mamoru si fermò, prima di addentare il secondo pasticcino.
«Usagi? – chiese stupito. Poi, rivolgendosi a Motoki – Odango?».
L’altro sorrise e annuì.
«Vive ancora qui?» chiese ancora Mamoru, ricordando l’adolescente pestifera e pasticciona dai lunghi codini biondi.
«Beh, più o meno. È sempre in giro per lavoro, ma la sua base è qui. Tra pochi minuti verrà ad aiutare Makoto con gli addobbi natalizi. Se ti trattieni un altro po’, potrai incontrarla».
Mamoru, con presunzione, agitò la mano davanti a sé.
«No, grazie, non ci tengo. Anzi, ora che me l’hai detto, mi sono ricordato che ho un mucchio di cose da fare, quindi io levo il disturbo».
Motoki scoppiò a ridere.
«Troppo tardi, amico, è già qui» disse puntando il pollice verso la porta di ingresso.
Mamoru si voltò, quasi infastidito dal tempismo della giovane, che era arrivata prima che lui potesse tagliare la corda.
«Quella … quella è … Odango?!?» esclamò con gli occhi fuori dalle orbite.
Non poteva essere Usagi! Quella splendida ragazza all’ingresso del locale era la sua hostess preferita, quella con la quale si era comportato da maleducato e alla quale non aveva potuto chiedere scusa, rimanendo con uno strano senso di frustrazione nel petto. Benché non indossasse la divisa della compagnia aerea, non c’erano dubbi che fosse proprio lei.
«Non è possibile!» commentò ancora incredulo.
Ma era più che evidente: Usagi e l’assistente di volo erano la stessa persona. Ecco perché aveva pensato che avesse un volto familiare!
Erano passati dieci anni ed era normale che fosse cambiata. Adesso era una giovane donna, che non aveva nulla a che vedere con la ragazzina acerba e goffa che ricordava. Non l’avrebbe mai riconosciuta! Eppure, lei lo aveva fatto, ne era sicuro, come era sicuro del fatto che, adesso, stesse facendo la figura del rincitrullito.
«Credici, è possibilissimo! - lo rimbeccò Motoki - Sono passati dieci anni e Odango non esiste più. Adesso Usagi è una donna stupenda e sicura di sé».
«Lo vedo» mormorò Mamoru a denti stretti.
E in un attimo il ricordo, sepolto tanti anni prima, si fece nitido. La festa di addio nella villa dello zio Masao, la sera prima della partenza per gli Stati Uniti. Una candida ragazzina di appena sedici anni, che riceveva da lui il primo bacio d’amore. Il primo e l’ultimo, l’unico bacio che si erano scambiati, prima che lei scappasse via in lacrime. L’ultima volta che l’aveva vista.
Mentre restava immobile, con la mente annebbiata dal ricordo di quella inaspettata dolcezza provata sfiorando le calde labbra di Usagi, la ragazza camminò con sicurezza verso di lui, senza distogliere lo sguardo perfidamente divertito, si liberò del pesante cappotto, rimanendo in jeans e maglione, e, incrociando le braccia sul petto, si fermò a pochi metri da lui.
«Ciao» gli disse, guardandolo con una determinazione che Mamoru non ricordava in lei.
«Ciao» rispose lui, dopo aver preso una bella boccata d’aria.
«Spero che tu abbia apprezzato il pranzo».
Il tono di Usagi era sarcastico e con una sottile vena di irritazione e Mamoru, per un attimo, tentennò, forse imbarazzato dal ricordo di quello spiacevole incidente in aereo.
«Sì – alla fine rispose – E a proposito, volevo già chiederti scusa, solo che … ».
Usagi sollevò una mano per fermarlo.
«Non preoccuparti, in fondo avevi ragione. Sono stata davvero poco professionale e il servizio non valeva un solo centesimo di quello che hai pagato».
Quella risposta a Mamoru suonò come una presa in giro e si convinse, perciò, a riprendere il controllo della situazione e a non farsi mettere i piedi in testa da una ragazzina. Anche se era cresciuta decisamente bene, per lui rimaneva sempre la stessa Odango. E pensare che le aveva anche chiesto scusa!
«A questo punto, visto come stanno le cose, suppongo che tu l’abbia fatto apposta» insinuò, utilizzando lo stesso tono sarcastico e accennando un sorrisetto ancora più perfido di quello di Usagi.
La ragazza si limitò a sollevare le spalle con sufficienza, senza dargli la soddisfazione di accettare la provocazione.
«Forse supponi bene – rispose. Poi si rivolse a Makoto, che assieme a Motoki assisteva stupita e curiosa a quello strano scambio di battute – Allora, Mako-chan, dove sono gli scatoli con gli addobbi?».
Mamoru con lo sguardo la seguì sbalordito, mentre lei si spostava con assoluta naturalezza e noncuranza, verso il retro del locale.
Si era sbagliato. Quella non era più la stessa Odango, la sua Odango.
«Ho bisogno di un altro caffè!» sospirò rivolgendosi a Motoki, il quale, divertito, se la rise sotto i baffi.
 
Per le due ore successive, Mamoru dimenticò i propri impegni, rimandandoli direttamente al lunedì. Si giustificò con se stesso dicendo che era ancora troppo stanco, ma, in realtà, quell’incontro inatteso l’aveva stranamente spossato.
Trascorse così l’intero pomeriggio al Crown a chiacchierare con Motoki e a lanciare, di tanto in tanto, qualche occhiata furtiva nella direzione di Usagi.
Notò che si divertiva ed era decisamente instancabile. Mentre canticchiava Jingle Bells o White Christmas, saliva e scendeva dallo scaletto per appendere i festoni al soffitto, correva avanti e indietro, da un angolo all’altro del locale, per sistemare ghirlande e ninnoli di ogni genere alle pareti, decorò un enorme albero e, alla fine, ancora piena di energia, si dedicò agli stencil dorati sui vetri e alle luci esterne.
Mamoru non aveva dimenticato che Usagi amava il Natale e, a giudicare dall’entusiasmo che ci mise a trasformare il Crown nella casa di Babbo Natale, dopo dieci anni non aveva perso quello spirito. Dopo tutto quel tempo, Usagi era ancora una ragazza allegra e piena di vita, al contrario di lui che, crescendo, si era spento.
Quel pensiero gli velò il volto di malinconia.
«Si è fatto tardi – esclamò, all’improvviso, rivolto a Motoki – Ora è meglio che vada».
Il ragazzo annuì con un cenno del capo.
«Stasera c’è una festa a casa di Rei, sei dei nostri?» aggiunse, mentre l’altro abbottonava il cappotto.
Mamoru rise brevemente.
«Rei Hino? Non credo che sarebbe tanto contenta di rivedermi».
Motoki gli rispose con un gesto vago della mano.
«È acqua passata – disse - Rei è sposata e ha appena avuto un bambino. Ha sempre parlato bene di te, quindi non vedo che problema potrebbe esserci. Anzi, secondo me sarebbe felice di rivederti. In ogni caso, le telefonerei per avvisarla».
Mamoru sembrò pensarci su un attimo. In effetti, non aveva voglia di trascorrere il sabato sera, da solo, nella vecchia villa dello zio Masao. Lanciò una breve occhiata verso Usagi, che era alle prese con un enorme fiocco rosso e, poi, prese la sua decisione.
«Ok, va bene. Avvisami, però, nel caso Rei dovesse urlarti contro o attaccarti il telefono in faccia» disse ricordando il caratteraccio della sua ex.
«Non lo farà» rispose Motoki con una certa convinzione.
Mamoru sorrise. Salutò il suo amico e la fidanzata, poi si voltò a guardare Usagi. Lei lo stava fissando, ma quando lui alzò una mano per salutarla, chinò immediatamente il capo sul fiocco rosso, ignorandolo, come aveva fatto tutto il pomeriggio. Il messaggio era chiaro, non voleva avere nulla a che fare con lui.
 
«Direi che abbiamo fatto un ottimo lavoro!» esclamò Usagi guardandosi intorno soddisfatta.
«Sì, è meraviglioso!» esclamò Makoto compiaciuta.
«Ora, però, io andrei».
«Non vuoi che ti prepari almeno una cioccolata calda per sdebitarmi?».
«Ci vorrà molto di più di una cioccolata per ripagare il mio lavoro! – la prese in giro Usagi – Ma per stasera, passo. Sono davvero molto stanca».
«Ok, allora vuol dire che avrai cioccolata calda gratis per una settimana intera – rispose Makoto sorridendo - Ci vediamo stasera da Rei».
Usagi trasalì.
«Non credo che ci sarò. Preferirei fare un bagno caldo e filare di corsa a letto» mentì.
In realtà, la ragazza non aveva alcuna intenzione di incontrare ancora Mamoru. Aveva udito chiaramente Motoki invitarlo e, alla fine, lui aveva accettato senza troppe remore.
Quando se l’era trovato davanti, in cima alle scalette dell’aereo, si era quasi sentita morire. Pensava di avere dimenticato il suo primo amore, ma a giudicare dal modo in cui aveva reagito il proprio cuore, mettendosi a battere forte fino a farle mancare il respiro, non era esattamente così.
Durante il volo, aveva fatto di tutto per evitarlo, al punto da passare per maleducata e incapace, e, appena aveva potuto, se l’era svignata in seconda classe.
Quel pomeriggio, era stato abbastanza facile far finta che non ci fosse. Prima lo aveva affrontato con arroganza, anche se il cuore e il respiro la stavano tradendo, e poi l’aveva stoicamente ignorato, distraendosi con le decorazioni natalizie. Però, di tanto in tanto, non aveva saputo resistere completamente alla tentazione di voltarsi verso di lui a spiarlo.
Ma adesso, passare un’intera serata in sua presenza sembrava un’impresa impossibile, senza trascurare il violento mal di testa che le era scoppiato al solo pensiero.
«Non puoi mancare! Rei ci resterà male!» protestò Makoto.
Usagi pensò allo sguardo infuriato di Rei e alla ramanzina che le sarebbe toccata. “Sei una pessima zia per il mio bambino!” le avrebbe sicuramente urlato con l’indice puntato contro. Quell’immagine la sconfortò a tal punto che, alla fine, non trovando altra soluzione, fu costretta a cedere.
«Va, bene, non mancherò» sbuffò.
 
Durante tutto il tragitto a piedi verso casa, Usagi era triste e non poteva fare a meno di pensare e rimuginare. A causa del ritorno improvviso di Mamoru, si era aperto un enorme baule di ricordi, che credeva sepolti in un angolo nascosto della sua testa, ma che, invece, continuavano a venire fuori l’uno dopo l’altro.
Ricordò con un misto di malinconia e dolcezza il loro primo incontro e tutto ciò che ne era seguito.
Era un giorno piovoso e lei, bagnata fradicia, correva per non arrivare tardi a scuola. Distratta come al solito, gli era letteralmente andata a sbattere contro.
«Attenta!» aveva esclamato lui irritato. Ma poi, dopo averla osservata da capo a piedi, le sue labbra si erano aperte nel sorriso più bello che lei avesse mai visto e, dopo, le aveva offerto un passaggio sotto al suo ombrello.
E, in quello stesso istante, Usagi si era innamorata. I suoi occhi blu, i suoi lineamenti perfetti, le fossette che si formavano sulle sue guance, tutto di lui le faceva pensare che fosse il ragazzo più bello del mondo.
Dopo, Usagi aveva preso a frequentare sempre più spesso il Crown, sapendo che lui passava lì con Motoki tutti i suoi pomeriggi, con la speranza che un giorno si accorgesse di lei in maniera diversa. Era così stupida e ingenua, che per un certo periodo, aveva preferito le battute sarcastiche e le prese in giro all’essere completamente ignorata.
Ma, quando si era fidanzato con Rei, il cuore di Usagi era andato in frantumi. Per rispetto verso la sua amica, non poteva nutrire più speranze nei confronti di Mamoru, ma i suoi sentimenti erano sempre lì e sempre più forti. Così si era sforzata di mascherarli, cominciando a rispondere a tono alle sue provocazioni. Litigi e battibecchi divennero all’ordine del giorno. Entrambi sembravano trarre energia da quelle discussioni e Usagi si sentiva viva. Quello era l’unico modo in cui poteva averlo solo per sé.
Poi, il breve fidanzamento con Rei era finito e in lei era nata di nuovo la speranza. Piano piano, lui aveva cambiato atteggiamento, sembrava più dolce e meno propenso a liti furibonde. Ma la tregua era durata poco. Subito dopo il diploma, Mamoru comunicò a tutti che sarebbe partito per gli Stati Uniti, dove avrebbe studiato medicina. Per la seconda volta il cuore di Usagi andò in mille pezzi, e, stavolta, niente l’avrebbe più guarito.
Ricordò quella sera nel bellissimo giardino della villa dello zio di Mamoru, quando in lacrime gli confessò che lo amava.
Che parole impegnative per una ragazzina immatura di appena sedici anni! Ma in quel momento lei ne era convinta e, dopo dieci anni, con l’esperienza, poteva confermare che quello che provava allora era davvero amore.
Mamoru non aveva risposto a quella dichiarazione inaspettata, ma le aveva preso il viso tra le mani, asciugandole le lacrime con i pollici. Pochi secondi dopo, Usagi si era ritrovata ad assaporare, per la prima e unica volta, le sue labbra e a ricevere il primo vero bacio d’amore. Fu un bacio dolce, tenero, senza la passione che caratterizza i rapporti più maturi, quella che Usagi avrebbe avuto modo di sperimentare, molto dopo, con altri ragazzi. Ma quel bacio non l’avrebbe mai dimenticato, perché aveva un retrogusto amaro, la consapevolezza che non ce ne sarebbero stati altri e che il suo amore per Mamoru finiva con esso.
In preda alla disperazione, si era allontanata da lui.
«Non ti dimenticherò mai» gli aveva detto prima di scappare via.
Quella era stata l’ultima volta che lo aveva visto.
 
La casa in cui Rei viveva con la sua famiglia faceva parte di un complesso residenziale di villette a schiera, poco distante dal centro.
Mamoru si fermò e sollevò la testa per osservarla meglio. Era molto graziosa e le lampadine colorate intermittenti, che ricordavano l’arrivo del Natale, la rendevano ancora più calda e familiare.
Dall’esterno, vedeva il salotto illuminato e sentiva le voci degli ospiti. Tra quelle, riconobbe subito la voce di Usagi, ma di certo non perché fosse la più alta e squillante. Quella voce si era insinuata nella sua mente e difficilmente avrebbe potuto confonderla.
Quando si decise a suonare il campanello, una giovane donna con un neonato in braccio venne ad aprirgli.
«Mamoru Chiba, sei cambiato!». Rei lo salutò con un sorriso caloroso, porgendogli una guancia per farsi baciare.
«Tu invece sei sempre uguale» rispose Mamoru, dandole un bacio affettuoso e utilizzando quel sorriso accattivante che era abituato a sfoderare con il gentil sesso.
Ma Rei ricambiò con il sorriso di chi la sapeva lunga e lo conosceva bene.
«I tuoi modi da adulatore sono sempre gli stessi, però. – lo rimproverò scherzosamente. Poi mostrandogli il bambino che aveva tra le braccia aggiunse – Lui è il mio piccolo Akira».
«Ciao Akira» disse Mamoru, sfiorando con un dito la manina del neonato, che dormiva placidamente.
«Vieni, - continuò Rei - gli altri sono già tutti qui. Così ti presento anche mio marito».
Mamoru entrò in un salotto caldo e accogliente, dove una ventina di persone chiacchieravano in gruppetti, seduti sul lungo divano di pelle o accanto al tavolo del buffet. Riconobbe, tra essi, alcuni volti, associandoli a quelli di adolescenti imberbi e ragazzine acerbe, che aveva conosciuto anni prima e gli sembrò di fare un tuffo nel passato. Strinse la mano a tutti, scambiando qualche piccola battuta e, alla fine, si presentò a Yuichiro, il marito di Rei.
Ma ciò che catturò maggiormente la sua attenzione, fu la figura alta e snella in piedi davanti al caminetto acceso. Usagi se ne stava lì in disparte, avvolta in un vestitino di lana verde che le sottolineava le morbide curve. Il fuoco alle sue spalle creava uno splendido gioco di luci e riflessi tra i capelli e a Mamoru sembrò ancora più bella.
Non si lasciò intimorire da quell’espressione cupa negli occhi azzurri della ragazza e camminò deciso verso di lei. Senza dire una parola, le prese il bicchiere che aveva in mano e fece un breve sorso di quella bevanda ignota, rimanendo con gli occhi incollati ai suoi.
«Buono, ma cos’è?» chiese, non curandosi dell’occhiataccia della ragazza.
Il gesto di Mamoru e quello sguardo, con il quale sembrava volesse penetrare nei meandri della sua mente, provocarono a Usagi una stretta al cuore. Odiava il modo in cui la stava guardando, perché la faceva sentire debole, e odiava la sicurezza che ostentava, perché sapeva che non sarebbe riuscita a resistere.
Non gli rispose ma, con un movimento brusco, si riprese il bicchiere, ignorando il liquido rosa che schizzò dappertutto.
«Dongiovanni da strapazzo! Vai a fare il seduttore con qualcun’altra, con me non attacca!» lo minacciò con aria severa, prima di voltargli le spalle per raggiungere un gruppo di amiche.
Mamoru trasalì. Usagi aveva frainteso, non voleva mica sedurla? O forse sì? Scosse la testa a quel pensiero. Aveva un mucchio di cose da fare durante quel mese e conquistare una donna non era certo tra quelle. Anche se quella donna stava stuzzicando i suoi pensieri da quando l’aveva incontrata.
«Non riuscite proprio ad andare d’accordo, vero?». La voce di Motoki alle sue spalle lo distolse dalle sue turbe mentali.
Mamoru si voltò e si strinse nelle spalle, come a dire che non gliene importava nulla di andare d’accordo con Usagi.
«Secondo me – aggiunse Motoki – siete fatti l’uno per l’altra. L’ho sempre pensato, ma, per un motivo o per un altro, il destino non vi ha aiutato».
A quelle parole, la birra che gli aveva portato l’amico gli andò di traverso e Mamoru cominciò a tossire.
«Ma cosa ti salta in mente?».
Motoki lo osservò meglio, sollevando un sopracciglio in una chiara espressione di disappunto.
«Vuol dire che mi sono sempre sbagliato?» chiese.
«Alla grande!» esclamò Mamoru.
Motoki era comunque dubbioso.
«Io non credo. Forse sei tu quello che non ha mai capito» aggiunse a bassa voce, piegandosi leggermente verso di lui, prima di dargli una pacca sulla spalla e allontanarsi alla ricerca di Makoto.
“Non ti sei sbagliato, amico!” ammise mentalmente Mamoru.
In realtà, Usagi gli era sempre piaciuta, fin da quando l’aveva incontrata la prima volta. L’immagine tenera di lei, bagnata come un pulcino, che correva sotto la pioggia, lo fece sorridere.
Però, aveva capito troppo tardi i propri sentimenti e lasciare Rei non era servito a nulla. Poco dopo, infatti, sarebbe partito per gli Stati Uniti e confessarle il proprio amore sarebbe stato un puro atto di egoismo. Eppure, quando lei, in lacrime, gli aveva detto di amarlo, aveva ceduto e l’aveva baciata.
Pensava di aver dimenticato quello che aveva provato a diciotto anni, ma evidentemente quelle emozioni erano così forti e vere, che alla prima opportunità erano venute fuori di prepotenza.
 
Usagi aveva appena finito di coccolare il piccolo Akira, prima che la mamma lo mettesse a dormire nella sua culletta. Si era fatto tardi e stava pensando seriamente di tornarsene a casa. Ora che il suo dovere di zia era compiuto, Rei non poteva rimproverarle niente. Sapeva dal principio che andare a quella cena era una pessima idea. La presenza di Mamoru l’aveva stressata e aveva passato tutta la serata a schivarlo come la peste. Aveva sentito il suo sguardo addosso, bollente come una lama infuocata e, purtroppo, lei non era riuscita a evitare qualche occhiata fugace. “Solo per studiare le sue mosse!” si era detta, mentendo spudoratamente a se stessa.
Abbandonò il piano superiore, dove si trovava la cameretta del piccolo, e scese verso il salotto. Mamoru era lì, ai piedi della scalinata, e sembrava attendere proprio lei.
«Che cosa vuoi?» chiese brusca, abbassando lo sguardo e continuando a scendere.
«Perché mi eviti? Voglio solo parlare con te, sapere cosa hai fatto in tutti questi anni».
«Non ti evito e non ho alcuna voglia di parlare con te!» esclamò la ragazza fermandosi sull’ultimo gradino, in modo da poter essere alla sua stessa altezza e fissarlo negli occhi per convincerlo del proprio disinteresse.
Mamoru restò un attimo in silenzio a studiarla.
«È per via di quello che è successo l’ultima volta che ci siamo visti?».
Usagi alzò gli occhi al cielo e sbuffò, ma soltanto per nascondergli quanto la sua supposizione fosse esatta.
«Sono passati dieci anni, me ne ero completamente dimenticata» mentì, e con decisione scansò il corpo di Mamoru per tornare dagli altri ospiti, dove si sarebbe sentita al sicuro.
Ma il ragazzo fu più rapido e l’afferrò per un braccio costringendola a voltarsi.
«Tu ci pensi ancora! – disse sicuro di sé – E ce l’hai con me perché, in tutto questo tempo, non mi sono mai fatto sentire».
Usagi si liberò dalla sua presa.
«Tu sei pazzo!» esclamò, nascondendo con un ghigno i suoi veri pensieri, per poi proseguire il percorso.
«Io credevo di averlo dimenticato – esclamò Mamoru ad alta voce – Ma da quando ti ho rivisto non faccio che pensarci e chiedermi come sarebbe andata tra noi, se non fossi mai partito».
La ragazza si bloccò all’istante, rimanendo ferma sotto l’arco che segnava l’ingresso del salotto. Mamoru la raggiunse in pochi lunghi passi.
«Esci con me, Usagi!».
Usagi sgranò gli occhi sorpresa da quell’invito inatteso.
“No, Usagi! Resterà solo un mese e poi tornerà a New York, lasciandoti di nuovo sola e ferita” ripeté mentalmente per cacciare la tentazione di accettare quella proposta.
«Mi dispiace, la tua richiesta suona come un ordine ed è … assurda, ecco!»
«Perché?».
«Perché non abbiamo niente di cui parlare io e te. E poi, tra un mese, tornerai a New York e io … ». Si fermò giusto in tempo, prima di rivelargli quanto ci fosse rimasta male la prima volta.
«E tu?» insistette Mamoru.
«E io … ehm … lavoro tanto. – proseguì la ragazza - Ho dei voli nazionali in questi giorni e starò via per un bel po’».
«Solo una volta!».
«No!».
La risposta di Usagi fu secca e categorica. Rimasero così, per qualche minuto, a guardarsi negli occhi, senza sapere cos’altro aggiungere.
«Siete sotto il vischio, siete sotto il vischio!».
Minako, l’amica bionda e svampita di Usagi e Rei, aveva gridato verso di loro.
Entrambi, ancora intontiti dalla strana discussione che stavano avendo, guardarono prima la ragazza e poi sollevarono lo sguardo verso quella ghirlanda di foglie verdi e bacche rosse, che giaceva sotto l’arco, proprio sopra le loro teste.
«Dovete rispettare la tradizione!» urlò ancora Minako, appoggiata dagli altri presenti, che erano zittiti improvvisamente per assistere a quella simpatica scenetta.
«Ma non è ancora Natale!» protestò Usagi, cercando l’appoggio di Mamoru.
Il ragazzo, invece, la guardò con un ghigno divertito, scrollando le spalle con noncuranza.
Fu un attimo e Usagi non capì più niente di quello che stava succedendo. Si sentì afferrare le spalle e in breve la bocca di Mamoru era sulla sua.
Quando si riprese dallo scossa iniziale, le loro labbra erano ancora incollate e la lingua di Mamoru l’accarezzava delicatamente, invitandola a schiudere la bocca. Il calore che le si irradiò lungo la schiena, le fece perdere completamente la testa. E, invece di ritrarsi, accettò quella dolce invasione e gettò le braccia al collo di Mamoru.
Quello non era il bacio dolce e tenero che si erano scambiati da ragazzini. Era un bacio travolgente e carico di passione, un bacio da adulti.
C’era qualcosa che era rimasto in sospeso tra loro, e che avevano messo da parte per tanto tempo. Qualunque cosa fosse si era risvegliato e, in quell’esatto momento, entrambi capirono che non avevano scampo e non sarebbe stato semplice rinunciarvi.
Furono i fischi degli ospiti e le acclamazioni divertite a riportarli sulla terraferma, dopo aver fatto un giro vorticoso tra le nuvole. Si staccarono rapidamente, rimanendo poi a fissarsi istupiditi, per secondi che durarono un’eternità.
Usagi si portò la mano alla bocca, che ancora bruciava, e arrossì vistosamente al pensiero che aveva baciato Mamoru in quel modo così appassionato, senza pudore e davanti a tutti.
Senza dire una sola parola, scappò via e, afferrando il suo cappotto al volo, lasciò l’appartamento di corsa.
Mamoru non la inseguì, ma restò fermo sotto quel ramo di vischio. Stava appena incominciando a guardare la propria vita da un’altra prospettiva.

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


Seconda parte
 
In una settimana, Usagi aveva coperto l’intero territorio nazionale, volando da Tōkyō a Hokkaidō, da Shikoku a Kyūshū, fino a Okinawa.
Il lavoro la distraeva, ma quando, nei momenti meno opportuni, le veniva in mente la figuraccia che aveva fatto a casa di Rei, davanti a tutte quelle persone, il sangue le fluiva interamente al cervello e diventava sgarbata e irascibile con tutti, colleghi e passeggeri.
Si malediceva perché era scappata via come una ladra e non aveva saputo gestire la propria reazione. Avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco, accettando la provocazione di Mamoru e limitandosi a un insignificante bacio a stampo, per mettere a tacere Minako e le sue trovate geniali. Ecco quello che avrebbe dovuto fare! Non saltare addosso a Mamoru, come se non aspettasse altro da dieci anni. Così, adesso, tutti avrebbero pensato che provava qualcosa per lui.
Più di tutto, ciò che le dava sui nervi era che, dopo sette lunghissimi giorni, quel bacio ancora la infiammava, il ricordo del tocco di Mamoru ancora bruciava sulle sue labbra, il pensiero di come i loro corpi si erano avvinghiati le faceva tremare le gambe. E questo era assurdo e inammissibile.
In passato era stata innamorata di Mamoru e adesso non poteva permettersi di ricaderci. Anche se aveva vacillato, quel sentimento doveva rimanere morto e sepolto. E si consolava pensando che la propria reazione sconsiderata fosse, sicuramente, da attribuire allo shock di averlo rivisto dopo tanti anni, o, forse, al fatto che, da tanto tempo, non avesse un ragazzo e la vicinanza delle amiche, tutte felicemente sposate o fidanzate, la stesse influenzando negativamente.
Ma lei non voleva un ragazzo! Voleva essere libera di viaggiare su e giù per il mondo e inseguire il proprio sogno, che finalmente stava realizzando. Non voleva qualcuno che le tarpasse le ali, né tantomeno aveva bisogno di un casanova sbruffone e pieno di sé, che sarebbe ritornato alla sua vita tra meno di un mese.
“Esci con me, Usagi!”
Con quanta convinzione e sicurezza aveva pronunciato quella frase, pensava furibonda, mentre con il carrello delle vivande percorreva il corridoio dell’aereo.
«Col cavolo!» esclamò.
L’ignara signora, a cui stava versando del succo di frutta, la guardò sbigottita.
«Mi … mi scusi … pensavo ad alta voce» provò a giustificarsi imbarazzata, mostrando un finto sorriso a trentadue denti, mentre mentalmente continuava a maledire se stessa, Mamoru Chiba, il vischio e tutto quanto le facesse venire in mente quel bacio.
 
Se, da un lato, Usagi era pessimista e nervosa, dall’altro lato, Mamoru sembrava più calmo e riflessivo.
Negare che quel bacio avesse smosso qualcosa dentro di lui era da stupidi. Ci pensava continuamente e voleva rivedere Usagi, parlare, capire.
“Esci con me, Usagi!”le aveva detto.
E, benché, senza comprenderne il motivo, fosse ciò che desiderava ardentemente, era più che consapevole del fatto che New York e la propria vita lo attendevano tra meno di un mese.
Eppure, in pochi giorni, inconsciamente non aveva più le certezze con le quali era partito. Tōkyō, le proprie origini, i vecchi amici e, soprattutto, Usagi, avevano minato la sua solidità.
In settimana, aveva contattato la migliore agenzia immobiliare della città e da una prima valutazione era emerso che la villa e il terreno circostante valevano quasi il doppio rispetto a quanto aveva ipotizzato. Con quella cifra avrebbe potuto comprare e arredare l’attico dei suoi sogni a Manhattan, prendere un’auto nuova, finanziare parte del progetto di ricerca che stava seguendo con la sua equipe e, magari, donare anche una cospicua somma al reparto pediatrico dell’ospedale in cui lavorava.
Ma, nonostante tutti questi progetti fossero a un passo dalla realizzazione, Mamoru aveva provato un’inspiegabile sensazione di disagio, quando il primo potenziale acquirente si era fatto avanti, e fu stranamente sollevato, quando questi mostrò la propria titubanza. Mamoru non fece niente per convincerlo almeno a pensarci su.
Aveva creduto che liberarsi del passato e di quello che lui era un tempo fosse facile. Ma, come si dice, lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Quando aveva messo piede in Giappone, la nostalgia lo aveva colpito come un pugno in pieno viso. E, in tutto questo, il pensiero di Usagi era una costante che non lo abbandonava.
A diciannove anni, si ha un modo completamente diverso di vedere le cose rispetto a quando se ne hanno quasi trenta, si è più romantici e sognatori, molto meno pratici e concreti. Per questo, Mamoru non riusciva a capacitarsi di come un solo sguardo e un bacio avessero potuto sconvolgerlo.
Era scombussolato a tal punto, da chiedersi, ripetutamente, come sarebbe stata la sua vita se, quella maledetta sera di dieci anni prima, avesse confessato a Usagi che anche lui l’amava.
Ma, adesso, cosa provava per lei? La sua era soltanto una crisi passeggera o c’era qualcosa di più profondo da esplorare e comprendere?
Questo era quello che si chiedeva, mentre passeggiava distratto lungo le vie di Tōkyō, ignorando la gente che le affollava e la ressa nei negozi per gli acquisti di Natale.
«Mamoru!».
All’improvviso, si sentì chiamare e fece ritorno sul pianeta Terra.
Si voltò e sorrise alla giovane donna bruna, che avanzava verso di lui, spingendo una carrozzina blu.
«Non è un po’ tardi per andarsene in giro, da sola, con un bambino così piccolo?» chiese, avvicinandosi a Rei e allungando lo sguardo verso il piccolo Akira.
La ragazza sollevò le spalle passivamente.
«Il meteo prevede forti nevicate nei prossimi giorni - spiegò - e così ho approfittato di quest’ ultima tregua per concludere gli acquisti natalizi. Tu, invece, dove te ne vai di bello?».
«Ho incontrato il primo potenziale acquirente della villa».
Rei captò l’espressione seria di Mamoru in quella risposta.
«E allora? Come è andata?» chiese curiosa.
Mamoru non fiatò, ma si strinse nelle spalle, facendole capire che non era stato concluso alcun affare.
La ragazza si sentì quasi sollevata. Anche per lei quella villa era piena di ricordi e, benché non vi mettesse piede da quando Mamoru era partito, un po’ le dispiaceva sapere che lui avesse deciso di metterla in vendita. Ma tenne queste nostalgiche considerazioni per sé e preferì cambiare discorso.
«Ti andrebbe di aiutarmi a scegliere il regalo per Yuichiiro? Ho già un’idea, ma il parere di un uomo può sempre tornarmi utile. Dopo, potrei offrirti un caffè per sdebitarmi».
«Mi farebbe molto piacere … il caffè, intendo» scherzò Mamoru.
«Spiritoso!» lo rimbeccò Rei, riprendendo a spingere la carrozzina.
Mamoru la seguì, camminandole di fianco, pensando sorridente a quanto fossero bizzarri i casi della vita. Mai avrebbe immaginato di accompagnare una sua ex-fidanzata, con figlioletto al seguito, a scegliere un regalo per il marito.
 
Quando presero posto nella caffetteria, sistemandosi in un angolo dove la carrozzina non desse fastidio agli altri avventori, Rei era decisamente entusiasta del regalo appena acquistato.
«A Yu piacerà tantissimo» esclamò battendo le mani come una ragazzina.
Quell’entusiasmo fece sorridere Mamoru.
«È tutto merito mio! – esclamò pavoneggiandosi in maniera ironica – Fosse stato per te, avresti scelto quel triste maglione verde».
«Già! È per questo che ti sto offrendo il caffè, per dimostrarti che ho apprezzato il tuo aiuto» rispose la ragazza condiscendente, strizzando un occhio.
Mamoru ordinò un caffè ristretto, mentre Rei scelse una cioccolata calda con panna.
Il piccolo Akira si era svegliato e brontolava nella sua carrozzina. La mamma lo prese in braccio, rivolgendogli qualche parolina dolce per rassicurarlo. Poi, chiese alla cameriera la cortesia di scaldare il biberon.
Per tutto il tempo Mamoru la osservò, intenerito da quell’immagine.
«Deve essere bello avere una piccola vita di cui occuparsi».
«È meraviglioso – rispose la ragazza con sguardo sognante, ammirando il suo bambino - È la mia unica ragione di vita!».
«Sei molto felice» affermò Mamoru, convinto di non averla mai vista così. Eppure un tempo l’aveva conosciuta piuttosto bene
Rei chinò il capo di lato, come se avesse intuito i suoi pensieri, e rimase alcuni secondi in silenzio, accennando un sorriso.
«Adesso posso dirtelo, perché è passato un sacco di tempo, - disse, emettendo un breve e lieve sospiro - Vedi, dieci anni fa, avrei tanto voluto che tutto questo fosse con te e non ti nascondo quanto sono stata male, quando mi hai lasciato. Pensavo che la mia vita fosse finita. Ma poi, ho conosciuto Yu e, solo allora, ho capito cosa fosse realmente l’amore. Quindi sì, sono molto felice. E, un po’, è anche merito tuo».
«Per averti lasciato?» chiese Mamoru perplesso arcuando un sopracciglio.
Rei annuì.
«È la prima volta che una donna mi ringrazia per averla lasciata e fatta soffrire» ironizzò il ragazzo, ma comprendendo quanta verità ci fosse, in fondo, nell’affermazione di Rei. Se non l’avesse mai lasciata, Rei non avrebbe mai scoperto l’amore vero e non sarebbe mai stata completamente felice.
«Sono la prima che te lo dice. Ma sono sicura che ce ne siano altre che vorrebbero farlo».
Mamoru rise brevemente.
«Questo discorso è assurdo!» esclamò divertito.
Rei scosse la testa.
«Nel tuo cuore c’è sempre stato posto per una sola persona» pronunciò serafica.
Mamoru si prese il mento tra il pollice e l’indice e alzò gli occhi, fingendo di riflettere per fare il punto della situazione.
«Mhm … vediamo un po’ … sono stato fidanzato con Mikiru per quattro anni, poi c’è stata Sarah per due e Setsuna per quasi uno. Quindi sono tre, senza contare le precedenti, qui in Giappone».
Rei sogghignò davanti alla sceneggiata. Con quella risposta, Mamoru aveva elegantemente glissato l’argomento.
«Sai bene a cosa, o meglio, a chi mi riferisco! – lo rimproverò – E il bacio dell’altra sera mi ha confermato che, nonostante siano passati tutti questi anni, non è cambiato niente».
Ci fu un attimo di silenzio, in cui Mamoru chinò il capo sul suo caffè, mentre Rei si destreggiava tra il biberon con il latte di Akira e la cioccolata ormai fredda.
«Tra me e Usagi non c’è mai stato niente» disse, infine, il ragazzo.
Rei, a quell’affermazione, alzò lo sguardo posandolo su di lui e sollevò un sopracciglio, scettica.
«Andiamo, Mamoru! Non sono stupida – lo ammonì - Ho sempre saputo che eri innamorato di lei, ma per tutto il tempo ho preferito fare finta di niente. Non facevi altro che cercarla, in ogni momento, e il modo in cui litigavate era … come dire … eloquente? Per non parlare, poi, di quei rari momenti in cui non discutevate: eravate complici e c’era un affiatamento tra voi che raramente ho visto in altre persone».
Mamoru non rispose, limitandosi a una smorfia di disappunto, e Rei continuò la sua filippica.
«Ho sempre pensato che, prima o poi, mi avresti lasciato per lei. E quando l’hai fatto, ero convinta che vi vedeste di nascosto. In quel periodo, ho odiato Usagi, in un modo di cui non pensavo essere capace. Solo quando sei partito, ho capito che non mi avevate mentito e che Usagi non c’entrava nulla. Ero solo gelosa di quello che provavi per lei, qualcosa che non aveva nulla a che vedere con quello che, invece, ti aveva legato a me. Solo allora ho smesso di riversare la mia frustrazione su di lei. Ma non ho mai smesso di pensare, neanche per un secondo, che vi eravate sempre amati e, dopo che ho visto quel bacio e quella passione, l’altra sera, sono convinta, più che mai, che tra voi ci sia ancora qualcosa».
Mamoru non negò e rispose in un modo che non fece altro che sottolineare l’evidenza dei fatti.
«Rei, tra un mese torno a New York. E, forse, anche meno, se riesco a vendere la villa prima del previsto».
«La mia era solo una constatazione. - disse la ragazza, seria - Credo che abbiate qualcosa in sospeso e che dovreste parlarne».
«Non vedo che utilità possa avere parlare, se sappiamo già come si concluderà questa storia» rispose Mamoru, ignorando che lui per primo aveva avuto quella stessa esigenza.
Rei, però, continuò imperterrita.
«Usagi torna stasera» disse allungandosi verso la borsa per estrarne il cellulare e una penna. Non avendo altra carta a disposizione, prese un tovagliolino e vi scrisse sopra qualcosa, porgendolo poi a Mamoru.
«Ora si è fatto tardi - disse, alla fine, alzandosi - Per il mio piccolo è l’ora del bagnetto».
 
Usagi atterrò a Tōkyō esausta, sognando un bagno caldo profumato e morbide coperte di lana ad accoglierla nel suo appartamento. Dopo aver salutato i colleghi, augurando a tutti buon Natale, si diresse verso il nastro trasportatore per recuperare il bagaglio e sperò di trovare subito un taxi disponibile, che la riportasse a casa.
Trascinando pesantemente il trolley, si diresse all’uscita e, quando la porta scorrevole degli arrivi, che dava nella sala d’attesa, si aprì, tra le tante persone che aspettavano i loro cari, scorse subito un volto familiare.
Tra tutti coloro che sperava venissero a prenderla all’aeroporto, risparmiandole una costosa corsa in taxi, Mamoru Chiba era sicuramente l’ultimo, anzi, non era neanche incluso nella lista.
Tentennò un istante, rallentando il passo e, lui, prima appoggiato a uno dei pilastri in muratura della sala, si raddrizzò e poi avanzò cauto verso di lei, senza mai distogliere lo sguardo, ma rivolgendole un sorriso furbo e accattivante, che, invece di mandarla su tutte le furie, la fece sciogliere completamente.
“Coraggio, Usagi!” si disse con un lungo sospiro, mentre il cuore le batteva furioso nel petto. Non poteva scappare anche stavolta, dopo che, per sette giorni, si era rimproverata la fuga precipitosa del sabato precedente. Doveva mostrarsi indifferente e stare al suo gioco, perché l’indifferenza era esattamente l’unica cosa che provava nei confronti di Mamoru. Così preferiva credere.
«Che cosa vuoi?» gli chiese brusca, non appena furono l’uno di fronte all’altra.
L’asprezza con cui gli si rivolse non era proprio sinonimo di indifferenza, ma si disse che andava bene ugualmente, purché non si dimostrasse turbata.
Fortuna che Mamoru non potesse sentire le capriole del suo cuore traditore e non potesse leggere nella sua mente, dato che l’unica cosa a cui Usagi pensava, in quel momento, erano le labbra di lui e il sapore che avevano.
«Anche io sono contento di vederti, Usagi» ironizzò Mamoru, prendendole la valigia.
Usagi lo lasciò fare e si incamminò verso l’uscita.
Lui la seguiva e, nel frattempo, osservava deliziato la divisa rossa e nera e il modo in cui le modellava il corpo. Si scoprì geloso al pensiero che altri uomini, a quella vista, potessero avere su di lei gli stessi pensieri poco casti che, adesso, aveva in mente lui.
«Non mi chiedi perché sono qui?» provò a chiederle, cacciando quei pensieri inopportuni.
«Perché sei qui?» ripeté la ragazza come un pappagallo, senza voltarsi, ma continuando a offrirgli la vista del suo sedere tondo che ondeggiava.
Mamoru si impose si darsi un contegno e, accelerando il passo, la raggiunse, portandosi al suo fianco.
Usagi si limitò a guardarlo di sottecchi, senza fermarsi, ma continuando a camminare a passo spedito.
«Ti porto a cena e poi ti riaccompagno a casa» pronunciò il ragazzo, come se fosse la cosa più semplice e naturale del mondo.
A quell’affermazione la ragazza si bloccò, voltandosi verso di lui. Lo guardò per un lungo istante, stringendo gli occhi per studiarlo, poi scosse la testa incredula e riprese a marciare verso l’uscita.
«Gradirei che mi dicessi qualcosa».
Il tono di Mamoru era calmo e modulato, ma si intuiva che l’atteggiamento di Usagi lo stesse infastidendo.
«Qualcosa» rispose lei, trattenendo una risatina e accelerando ancora di più il passo e superandolo, per evitare che Mamoru scorgesse l’esitazione sul suo volto.
«La smetti di correre? Sembra che tu stia scappando dalle tue responsabilità» la minacciò il ragazzo.
«Io non scappo e non ho delle responsabilità nei tuoi confronti».
«Ah, come no! Ho visto come sei scappata l’altra volta!».
Usagi si bloccò all’istante e si girò verso di lui.
«Io … io non sono scappata … ero … ero imbarazzata, ecco».
Mamoru colse l’incertezza nella sua voce e capì che quello era il momento migliore per agire e mettere a segno il colpo.
«Imbarazzata? Ma se mi hai baciato davanti a tutti» affermò con un sarcasmo che le diede sui nervi.
«Tu mi hai baciato, idiota» lo minacciò Usagi puntandogli l’indice sul petto.
Mamoru si strinse nelle spalle, con l’aria di voler farsi beffe di lei.
«Io mi sono limitato a osservare la tradizione. Sei tu che mi hai gettato le braccia al collo».
«Ma tu mi hai provocato».
«Ma a te è piaciuto».
«Anche a te è piaciuto».
Mamoru rimase un attimo in silenzio, poi esibì il suo solito sorriso sornione
«Moltissimo» ammise con un tono più basso e roco, avvicinandosi pericolosamente.
A quel punto, Usagi sgranò gli occhi, notando che, adesso, i loro visi erano a pochi centimetri e lo sguardo di Mamoru si era fatto più scuro e profondo.
«Non lo fare!» quasi lo supplicò, intuendo le sue intenzioni.
«Non lo faccio» mentì Mamoru, mantenendo il suo sorriso furbo.
Usagi avrebbe potuto fare un passo indietro, ma non lo fece e, quando lui le prese il viso tra le mani, continuando a fissarla, come se volesse divorarla da un momento all’altro, lei si rese conto che, da una settimana, non aspettava altro.
Poi Mamoru, finalmente, la baciò.
Dapprima, fu solo un lento sfiorarsi di labbra, mentre con gli sguardi continuavano a tenersi incatenati l’uno all’altra. Poi, entrambi chiusero gli occhi e il bacio si fece più profondo.
Non fu un bacio furioso e appassionato, come il precedente, né esitante e incerto, ma fu un bacio caratterizzato dalla sincerità e dall’intimità di chi si conosce da sempre.
Usagi gli afferrò i polsi, sollevandosi sulle punte dei piedi per essere alla sua altezza e, poi, si lasciò andare completamente. Mamoru accolse quel gesto come un invito e si strinse maggiormente a lei. Entrambi persero il senso dello spazio e del tempo e naufragarono in un vortice di sensazioni, dove non c’era posto per nient’altro.
«Buon Natale, Usagi!».
Il tono scherzoso, con cui era stata pronunciata quella frase, e le risatine che ne seguirono, li riportarono alla realtà.
Lentamente si staccarono, senza mai perdere il contatto visivo tra loro.
Un senso di vertigine avvolse Usagi, facendole tremare le gambe. Si erano lasciati andare in pubblico, di nuovo, proprio come la volta precedente.
La ragazza si voltò verso quelli che aveva riconosciuto come suoi colleghi e, alzando una mano in segno di saluto, finse un sorriso rilassato e ricambiò gli auguri.
Mamoru le prese la mano, ma non fece alcun commento sull’episodio, riportando, invece, l’attenzione su quanto di più importante era appena, e di nuovo, accaduto tra loro.
«Ora che abbiamo stabilito che la colpa non è di nessuno e che è piaciuto a entrambi, possiamo andare a cena?» le chiese con dolcezza.
Usagi si limitò a un cenno affermativo con il capo, e in silenzio lo seguì, continuando a tenergli stretta la mano e abbandonando definitivamente l’idea di fargli la guerra.
 
Mamoru osservava Usagi mangiare con voracità la pizza che aveva ordinato e sorrise compiaciuto. Ringraziò mentalmente Rei per avergli scritto, su quel pezzo di carta rimediato, il numero del volo, con il quale Usagi sarebbe atterrata, e l’orario previsto.
Non sapeva esattamente a cosa lo avrebbe portato tutta questa storia, né ne capiva il senso. L’unica cosa di cui era certo era che, in quel momento, stava bene, come se non fosse mai passato, inesorabile, tutto quel tempo. E, ancora una volta, si trovò a chiedersi cosa sarebbe successo se, all’epoca, si fosse comportato in maniera diversa.
Non era pentito della propria scelta. Era soddisfatto del proprio lavoro e del tipo di vita che conduceva, ma qualcosa lo riportava a farsi e ripetersi, troppo spesso, quella stessa domanda.
Sentendosi osservata, Usagi alzò lo sguardo.
«Perché mi guardi e non mangi?» chiese, indicando la sua pizza, mangiata solo per metà.
«In realtà, non ho molta fame».
Le labbra di Usagi si allargarono in un enorme sorriso.
«Allora se permetti, la mangio io la tua pizza» esclamò soddisfatta, allungandosi a prendere il piatto di Mamoru.
Il ragazzo scoppiò a ridere.
«Non sei cambiata per niente, Usako!» esclamò divertito, per poi tornare serio, subito dopo essersi accorto del nomignolo con cui l’aveva chiamata.
Usagi avvampò, poi sul suo volto scese, inevitabile, un sottile velo di malinconia.
«Era da tempo che non sentivo quel nome – disse - Le rare volte che non litigavamo, mi chiamavi sempre così. Tutte le altre volte, ero solo Odango».
«Piccola Usagi … » ripeté Mamoru con dolcezza.
Imbarazzata, Usagi finse di sorridere di nuovo.
«Già, ma adesso non mi si addice più … non sono più tanto piccola» e rise per mascherare la tristezza che si era impadronita di lei.
Mamoru si allungò sul tavolo, sporgendosi verso di lei. Con un gesto delicato, percorse il suo viso con le dita.
«Ma sei sempre dolce come allora» le disse.
Usagi notò che non la stava prendendo in giro. La sua espressione era seria e profonda, Mamoru pensava realmente che lei fosse dolce. E la delicatezza con cui la stava sfiorando ne era un’ulteriore prova. Per un attimo, chiuse gli occhi, assaporando la magia di quell’istante, e poggiò la testa sulla sua mano calda, che nel frattempo si era aperta in una morbida carezza.
«Mi dispiace se non mi sono più fatto sentire» disse Mamoru.
La sua mano, ora, era immobile sul viso di Usagi e con il pollice tracciava brevi percorsi sulla guancia.
La ragazza trasalì e aprì gli occhi. Per un attimo aveva perso il controllo lasciandosi andare alla tenerezza.
«È passato tanto tempo, me ne sono dimenticata, ormai» mentì lei.
«Io non ho mai dimenticato quello che mi hai detto quella sera e … ».
« … e ti sei chiesto cosa sarebbe successo se non fossi mai partito – Usagi, ostentando una finta disinvoltura, lo interruppe, continuando il suo discorso – Smettila di chiederti cose inutili, la tua vita è a New York e non c’è spazio, ormai, per i ma e per i se».
Un po’ deluso da quella risposta, Mamoru annuì, mentre Usagi deglutì nervosamente dopo aver mentito ancora una volta e aver taciuto che anche lei si era posta la stessa domanda.
Per alleggerire il clima teso che si era creato, allora, la ragazza cambiò completamente argomento.
«Cosa fai per Natale?» gli chiese, prendendo di nuovo in mano forchetta e coltello per tagliarsi un pezzetto di pizza.
Mamoru fece spallucce.
«Motoki mi ha proposto di organizzare una festa nella villa, in memoria dei vecchi tempi. Anche se dovessi venderla, fino a fine dicembre sono ancora il proprietario».
«La trovo un’idea bellissima! Potremmo darti tutti una mano a organizzarla».
Di fronte all’entusiasmo dilagante e contagioso della ragazza, Mamoru si convinse che quella di Motoki non era poi una brutta idea e non poté fare a meno di sorridere.
«Va bene, allora organizzeremo questa festa per la sera della vigilia».
Usagi batté le mani entusiasta.
«Devi avvisare subito Motoki e le altre» ordinò con quella vivacità che Mamoru aveva sempre apprezzato e ammirato in lei.
L’entusiasmo e l’allegria di Usagi erano sempre gli stessi, pensò.
«Allora non sei proprio cambiata, Usako!» le disse, usando, questa volta di proposito, quel nomignolo.
Usagi gli sorrise complice.
«Anche tu, Mamo-chan!».
 
Dal momento del bacio in aeroporto, quando poi si erano stretti la mano, esclusivamente per il desiderio di mantenere un contatto, il clima tra loro si era addolcito e le tensioni sembravano tutte spazzate vie.
Discorsero amabilmente di ciò che avevano fatto in quei dieci anni, dei loro studi e dei rispettivi lavori, con relative soddisfazioni. Passarono velocemente da un argomento all’altro, ridendo e scherzando, fino ad arrivare all’ organizzazione della festa per la vigilia di Natale, più per l’entusiasmo di Usagi che non per quello di Mamoru, che si esaltava solo di riflesso, spinto dalle briose proposte di Usagi.
Ci fu qualche piccolo battibecco, ma, del resto, come sottolineò Mamoru, lei era ancora una Odango, una testolina buffa, capricciosa e testarda. Usagi, però, non se la prese, e quasi adorò quel soprannome, allo stesso modo di come adorava sentirsi chiamare Usako.
E risero tanto, proprio come facevano un tempo, con la stessa complicità e lo stesso affiatamento di tutte le volte che non erano impegnati a discutere o insultarsi a vicenda.
Nessuno dei due si chiese, quella sera, cosa sarebbe successo in seguito, quando Mamoru sarebbe tornato negli Stati Uniti. Entrambi pensavano solo a godersi la serata e a crogiolarsi nel ricordo di quello che erano stati un tempo, pur senza mai esserlo stati realmente.
 
Mamoru accostò la macchina vicino alla palazzina in cui viveva Usagi. Aprì la portiera e fece il giro della vettura per prendere la valigia dal bagagliaio.
«Mamo-chan, nevica!».
La voce di lei richiamò la sua attenzione e, davanti agli occhi, Mamoru si trovò ad ammirare lo spettacolo più bello che avesse mai visto: Usagi volteggiava su se stessa, con gli occhi estasiati che puntavano verso il cielo e le mani che giocavano ad afferrare quei primi candidi e leggiadri fiocchi.
Sembrava fatta per danzare nella neve e quell’immagine, così semplice e innocente, lo ferì come una lama affilata. E si chiese come avesse potuto rinunciare a lei, come avesse fatto a seppellire il suo ricordo, sotterrandolo sotto cumuli di immagini di altre donne, che non gli avevano lasciato niente, se non l’illusione di aver dimenticato qualcosa di più grande e vero.
Solo in quell’istante, Mamoru capì che Usagi non era una cotta adolescenziale, un’infatuazione passeggera, Usagi era l’amore che lui non aveva saputo cogliere.
La verità lo colpì duramente, costringendolo a darsi dello stupido per non aver saputo guardare a fondo nel proprio cuore e, ormai, era troppo tardi per tornare indietro. La sua vita era altrove e avrebbe dovuto accontentarsi solo di briciole di lei, pur sapendo che non lo avrebbero mai saziato.
 
Usagi non volteggiava più, ma ferma, con il sorriso disegnato sulle labbra, si lasciava sfiorare dai fiocchi di neve, che, ormai, cadevano sempre più veloci e grossi.
I suoi occhi erano incatenati a quelli blu di Mamoru, che le sorrideva mentre lentamente si avvicinava a lei.
Lasciò che la accarezzasse delicatamente e che le scansasse una ciocca di capelli biondi dal viso per sistemarglieli dietro un orecchio. Poi si abbandonò tra le sue braccia, per farsi cullare dolcemente, in silenzio, sentendo il suo respiro caldo sul collo, mentre tutto intorno cominciava a imbiancare.
E, seguendo solo quello che il cuore le dettava, prese la decisione più giusta. Una notte sola. Se ne sarebbe accontentata, pur di avere di lui un ricordo più intenso e profondo che la riscaldasse, quando lui sarebbe stato dall’altra parte dell’oceano. Le avrebbe fatto male, ma non più del fatto di non essere mai stata sua.
 
La luce dei lampioni, dalla strada, filtrava attraverso i vetri delle finestre, andando a posarsi sul letto e creando sensuali chiaroscuri intorno ai loro corpi nudi, stesi tra le lenzuola roventi e attorcigliate.
Non c’era frenesia, ma solo il desiderio profondo di assaporare, attimo per attimo, quella notte, irripetibile, che era tutta e solo per loro.
Rimasero sdraiati fianco a fianco, concedendosi tempo. Tutto il tempo necessario per scoprirsi, attraverso il tocco delle labbra e delle mani sulla pelle calda e bisognosa di essere venerata, per fissare nella memoria ogni dettaglio e chiuderlo a chiave nello scrigno dei ricordi e non lasciarlo andare mai più.
Mamoru scoprì che Usagi aveva un corpo morbido e carnoso, liscio come seta, che profumava di muschio bianco. Scoprì che la sua pelle, sensibile e recettiva, si infiammava a ogni tocco e che i suoi seni sembravano fatti apposta per le sue mani, come pure le sue gambe, lunghe e snelle, che gli si avvolgevano in vita, creando un incastro perfetto. Tutto di lei lo accendeva, rendendolo bramoso, senza oscurare però la tenerezza e la dolcezza che solo lì, tra le sue braccia, si sposavano meravigliosamente con il desiderio impellente e la sensualità pura.
Usagi si lasciò condurre nel piacere, in giochi di passione e grovigli sensuali nuovi, stupendosi di come quelle sensazioni, mai provate prima, fossero così profonde e del tutto incomparabili, meravigliandosi per come il suo corpo reagisse inarcandosi verso di lui e chiedendo sempre di più.
Mamoru si immerse dentro di lei, catturato dal suono dei suoi respiri cadenzati e dal sapore della sua pelle. Usagi lo accolse, calda e bagnata, mentre il suono del suo nome usciva dalle proprie labbra, come un invito a non fermarsi.
Erano insieme nella magia del momento, nel lento e morbido scivolare dei movimenti, nella dolce sensazione di possedersi, nel folle crescere del desiderio, fino all’apice del piacere da cui iniziava la precipitosa discesa.
E quando caddero, caddero l’uno negli occhi dell’altra.

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***


Terza Parte
 
Era la mattina della Vigilia di Natale e, nonostante il freddo pungente e il vento gelido che sferzava la pelle, le strade del centro pullulavano di gente alla ricerca del regalo dell’ultima ora.
Usagi si fermò e, pensierosa, alzò lo sguardo verso il cielo plumbeo, che minacciava un’altra abbondante nevicata. Si alitò sulle mani congelate, nonostante i guanti di lana, e si strinse ancora di più nel suo cappotto, riprendendo, poi, a camminare intirizzita, in quel frenetico via vai di persone.
Quando si voltò per imprecare contro l’ennesimo passante distratto, che l’aveva spintonata malamente, la sua attenzione fu catturata dai colori caldi di una vetrina, pazientemente decorata con rami di abete e ghirlande di vischio. Rimase per qualche minuto a osservare tutti quegli articoli di ottimo artigianato, che facevano bella mostra di sé dietro il vetro, dai vari oggetti in legno ai piccoli accessori di arredamento, tutti accuratamente rifiniti. Incuriosita, decise di entrare a dare un’occhiata da vicino.
La proprietaria la salutò con un sorriso cortese, invitandola ad accomodarsi.
Era una bottega piccola, ma calda e accogliente, e Usagi, davanti alla parete interamente dedicata a ninnoli e decorazioni natalizie, rimase letteralmente incantata, prendendo nota tra sé di tornarci l’anno successivo per acquistare nuovi addobbi.
La vecchia proprietaria, con il suo abile fiuto per gli affari, notò subito che l’attenzione della cliente si era focalizzata su un oggetto in particolare. Così, con cautela, prese la boule de neige dalla mensola, caricò il carillon e, roteando il polso con un gesto deciso, fece vorticare la finta neve al suo interno.
«Questo è un oggetto unico» disse, posandola tra le mani di Usagi.
Una musichetta natalizia prese a diffondere le sue dolci note, mentre la statuina all’interno della palla di vetro girava su se stessa, danzando tra i fiocchi di neve. Usagi sorrise.
Quello era il regalo perfetto per Mamoru: non troppo personale, né impegnativo, ma sicuramente qualcosa che avesse un valore simbolico, qualcosa che gli avrebbe parlato di lei ogni qualvolta vi avesse posato lo sguardo. Sarebbe costato un bel po’, ma decise che ne valeva la pena per un oggetto così bello e purché Mamoru avesse un ricordo particolare di lei e dell’unica notte che avevano trascorso insieme.
«Lo prendo!» esclamò decisa, senza neanche chiederne il prezzo.
E pochi minuti dopo, uscì da quel negozietto tutta sorridente, stringendo tra le mani un piccolo pacchetto rosso, convinta di aver fatto la scelta giusta.
 
La mattina seguente a quella magica notte, Usagi e Mamoru si erano svegliati abbracciati, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e avevano di nuovo fatto l’amore, con dolcezza e passione.
Poi, lui aveva preparato la classica colazione americana, pancakes, succo d’arancia, caffè e uova strapazzate, e lei, pur apprezzando l’intimità di quel gesto, non aveva saputo trattenersi dal prenderlo in giro, per tutto il tempo, per come le sue abitudini si fossero completamente “americanizzate”.
«Bleah! Uova di prima mattina! Ma come fai?» aveva esclamato sorseggiando il caffè, mentre lui mangiava con gusto.
Mamoru aveva riso forte davanti alla sua avversione per le uova a colazione.
«Ho bisogno di parecchie energie!» le aveva poi risposto, lasciando trapelare le proprie intenzioni dal tono malizioso della voce.
E, in men che non si dica, si erano ritrovati stesi sul divano, di nuovo nudi, a consumare la forte passione che li divorava.
Prima di andare via, Mamoru l’aveva salutata con un bacio dolce e affettuoso, dicendo che si sarebbero sentiti presto.
Scene di vita quotidiana di una giovane coppia innamorata, avrebbe pensato chiunque vedendoli da fuori, ignorando che tutto, invece, era finito non appena lui aveva messo piede fuori da quella casa.
Infatti, Mamoru l’aveva cercata, più e più volte, ma Usagi non aveva mai risposto alle sue chiamate, ignorando anche i messaggi, fino a quando, alla fine, dopo svariati tentativi, lui non si era arreso.
Non che fosse pentita, anzi, pensava che quella fosse stata la notte più bella della sua vita e che non l’avrebbe mai dimenticata. Ma era innamorata di Mamoru, lo era sempre stata e, anche se aveva accantonato quel sentimento per un po’, nulla era mai cambiato da allora. Se ne era resa conto, definitivamente, tra le sue braccia e, non volendo illudersi che potesse esserci un futuro per loro, aveva deciso di porsi dei freni e di evitare di vederlo, o anche solo sentirlo, per non cadere in tentazione.
Se una sola notte, seguita da quei momenti di intima complicità, aveva lasciato un segno indelebile nel suo cuore, una seconda avrebbe segnato la via del non ritorno e una terza addirittura l’avrebbe uccisa.
Però, si era ripromessa che lo avrebbe rivisto una volta soltanto, non appena lui fosse pronto per tornare in America, ma solo per dirgli addio. Non poteva lasciarlo andare così, senza neanche salutarlo. Sempre che lui fosse ancora felice di vederla un’ultima volta, dopo il modo infantile in cui si stava comportando, senza dargli neanche una motivazione adeguata.
La notizia che la villa era stata venduta e che Mamoru sarebbe partito subito dopo Natale, arrivò proprio il giorno prima della Vigilia. Il momento dei saluti era giunto con dieci giorni di anticipo rispetto a quanto si aspettasse.
Quando Makoto le aveva telefonato per informarla, per un attimo il cuore di Usagi aveva smesso di battere, mentre gli occhi già cominciavano a inumidirsi.
“Non essere stupida, lo sapevi - si ammonì silenziosamente - Ma meglio così! Prima se ne andrà e prima finirà questa storia!”.
E, mentre si sforzava di sorridere, con la mano si asciugò l’unica lacrima che era riuscita a scivolare giù, lungo la sua guancia.
La stessa mattina della Vigilia, svegliandosi, aveva preso la decisione di partecipare alla festa alla villa di Mamoru. Lo avrebbe salutato in quell’occasione, proprio come dieci anni prima, ma questa volta sarebbe stato per sempre.
Così si era vestita, e con lo spirito risoluto di chi si appresta a chiudere una parentesi della propria vita, era andata in centro a comprare un abito nuovo da indossare quella sera e un regalo per lui.
 
Mamoru si versò da bere e si guardò intorno. Le luci forti del lampadario di cristallo e il brusio fitto e sottile dei vecchi amici presenti riempivano il grande salone centrale, creando un gradevole clima festoso Un gigantesco albero addobbato di tutto punto e posto accanto alla finestra, dominava la stanza con i suoi colori intermittenti, mentre le decorazioni sparse erano una gioia per la vista. Il camino acceso, poi, era il tocco di classe che rendeva l’atmosfera più intima e piacevole. Mamoru pensò che le ragazze avessero fatto davvero un bel lavoro, ma ricordandosi di come Usagi aveva decorato in poche ore la caffetteria di Motoki, si disse che, in quella stanza, mancava visibilmente il suo tocco artistico.
Trasalì, cercando di mandar via l’ennesimo pensiero su di lei. Erano giorni che in ogni istante, qualunque cosa gliela ricordasse. Ma l’immagine di come gli si era donata quella notte era difficile da mandar via. Non riusciva a togliersi dalla mente come l’aveva vista la mattina dopo, con addosso solo la camicia che gli aveva rubato e le gambe nude, piegate sulla sedia, i capelli scompigliati e gli occhi azzurri che gli lanciavano occhiate maliziose oltre il bordo della tazza, mentre lo prendeva in giro per le uova, spingendolo a perdere la lucidità per l’ennesima volta.
Mamoru nutriva dei sentimenti nei confronti di Usagi, ma solo tra le sue braccia aveva compreso di essere innamorato di lei da sempre, nessuna gli aveva mai toccato le corde giuste, così come aveva saputo sempre fare lei.
L’aveva cercata per giorni, pur di placare il suo profondo desiderio, ma Usagi era stata ben più saggia e razionale di lui, comprendendo che non avevano futuro.
Passare altro tempo insieme, benché lo desiderasse, significava imboccare un vicolo cieco: avevano colto l’attimo, si erano goduti il momento, ma perseverare era decisamente una scelta pessima. Così, a malincuore, aveva accettato la decisione della ragazza e non aveva fatto altre pressioni.
Eppure c’era sempre la costante malinconia che lo seguiva, come una compagna fidata, da quando aveva messo piede a Tōkyō. I ricordi di infanzia e dei momenti felici, la sensazione di non sentirsi solo, come invece succedeva sempre da dieci anni a quella parte, i vecchi amici e, soprattutto, Usagi lo avevano destabilizzato.
Ma la vita quotidiana lo attendeva e, nonostante fosse profondamente combattuto, aveva rifiutato di rifletterci sopra, dando per scontato di non riuscire a immaginare qualcosa di diverso da New York, dal suo lavoro di sempre e dalle sue abitudini americane.
Così, aveva accelerato la vendita della villa, cedendola a un prezzo nettamente inferiore rispetto a quello stimato, pur di scappare via dal Giappone e da quella sensazione di instabilità che lo attanagliava.
L’amore per Usagi e i ricordi avevano proprio fatto un bel lavoro su di lui, ma non avrebbe ceduto. Adesso era decisamente in tempo per tornare indietro, anche se con qualcosa di ben più intimo e profondo che lo avrebbe accompagnato per sempre.
Pensò con amarezza che, forse, non l’avrebbe neanche salutata, sicuro che alla festa non sarebbe venuta. Con forza strinse il pacchettino, che teneva nella tasca della giacca e che non le avrebbe mai potuto dare. E, per non lasciarsi andare ai sentimentalismi, si convinse che non vederla sarebbe stato sicuramente più facile che dirle di nuovo addio.
Ma, proprio mentre giungeva a queste pratiche conclusioni, Usagi fece il suo ingresso nell’enorme salone e, quando i loro occhi si incrociarono, Mamoru dimenticò immediatamente la razionalità e tutto ciò che era giusto o sbagliato.
Era bellissima in quell’abito rosso e la sua solarità riempiva la stanza intera, come se prima, invece, fosse vuota senza di lei. E il sorriso timido e quasi impacciato che gli riservò ebbe il potere di farlo sciogliere.
«Ciao» gli disse la ragazza avvicinandosi a lui.
Mamoru la scrutò a fondo, perdendosi nei suoi occhi azzurri.
«Credevo che non saresti venuta» confessò.
Usagi sembrò imbarazzata, comprendendo l’allusione.
«Beh … vedi … ecco … a tal proposito io volevo scusarmi per come … per come mi sono comportata, è solo che … ».
Ma Mamoru non le fece finire il discorso. Con delicatezza le accarezzò una guancia, facendola fremere e arrossire.
«Non ti devi scusare, Usako. Hai avuto i tuoi motivi, che io condivido».
A quelle parole e al modo calmo, quasi distaccato, in cui le pronunciò, Usagi sussultò.
Non voleva una scenata, certo, ma che lui non avesse niente da ridire a riguardo era sinonimo di totale disinteresse nei suoi confronti.
Già era difficile dirgli addio, ma scoprire che, per lui, quella notte non aveva significato niente rendeva tutto ancora più penoso.
Si diede della stupida. Perché aveva agito dando per scontato che lui provasse qualcosa e per avergli preso un regalo, come ricordo di qualcosa che era stato già dimenticato.
Tutto si ripeteva esattamente uguale a dieci anni prima. Ma, stavolta, non gli avrebbe di nuovo confessato che lo amava, non gli avrebbe permesso di prendersi di nuovo il suo amore, di accartocciarlo e gettarlo via come immondizia.
Abbozzò un finto sorriso e annuì.
«Vado a cercare le mie amiche» disse fredda, congedandosi da lui, senza neanche attendere la sua risposta.
Non gli avrebbe permesso di ridere di lei, si sarebbe comportata come se non gliene fregasse niente. Non gli avrebbe fatto capire che era ancora la ragazzina innamorata di anni prima. Dopo la sua partenza, avrebbe avuto giorni interi per piangere, ma adesso no, non davanti a lui.
 
Ecco la Usagi scontrosa che conosceva, pensò Mamoru. Era arrivata tutta sorridente e, adesso, era di nuovo sfuggente, quando non gli lanciava da lontano occhiate rabbiose.
L’aveva vista trasalire alle sue parole, ma cosa aveva detto di male?
Era stato calmo e accondiscendente, invece di rimproverarle il modo infantile in cui l’aveva liquidato, dopo quello che avevano condiviso. Aveva dovuto arrivarci da solo, senza neanche sentire le sue motivazioni, e, nonostante lui avesse compreso e fosse d’accordo con lei, adesso Usagi faceva di nuovo la bambina, relegandolo in un angolo.
Ma lui non ci stava. Non voleva passare per l’uomo insensibile, che si era approfittato di lei. L’avrebbe affrontata, avrebbero chiarito e si sarebbero detti addio da persone mature, assumendosi ciascuno le proprie responsabilità.
Attese il momento in cui era distratta, girata verso il tavolo del buffet. Con decisione le si avvicinò e, afferrandola per un braccio, prese a trascinarla fuori dal salone, lontano dagli occhi indiscreti che, in quel momento, li stavano fissando curiosi.
«Ma sei impazzito? Lasciami!» gridava Usagi.
Ma lui neanche la sentiva.
«Che cosa vuoi? Mamoru, sto parlando con te! Rispondi!» continuava a urlare, mentre, inutilmente, cercava di divincolarsi dalla sua presa.
La condusse al piano superiore, nello studio, ormai quasi vuoto, che un tempo era appartenuto a suo zio Masao, e solo quando si fu richiuso la porta alle spalle, appoggiandovisi con tutto il suo peso, la fissò minaccioso e cominciò a parlare.
«Non mi piace come ti comporti. Come se fosse solo colpa mia!» la rimproverò.
Colpa. Adesso erano giunti, addirittura, a dover stabilire di chi fosse la colpa.
Usagi sbuffò e mentì.
«Siamo adulti – rispose, nascondendo la delusione – Non è colpa di nessuno».
«E perché ti comporti come se fossi il bastardo approfittatore della situazione?».
“Perché io ti amo e a te, invece, non interessa niente di me” pensò la ragazza, ma incrociando le braccia sul petto, restò, invece, in silenzio.
Mamoru era infastidito da quell’atteggiamento. Quando faceva così era sempre la stessa Odango di un tempo.
«Usagi, - disse marcando la pronuncia del suo nome - sei tu quella che non ha risposto alle mie telefonate, senza darmi neanche una misera spiegazione. Ci sono arrivato da solo alla conclusione che non volessi vedermi più. Ti sembra un atteggiamento da persona adulta?».
«Certo che lo è! Ho guardato in faccia la realtà, invece di continuare a fingere, come avresti voluto fare tu».
«Perché? Perché non abbiamo un futuro?».
«Non è forse così?» chiese la ragazza, chinando il capo di lato e scrutandolo a fondo.
Mamoru incassò il colpo in silenzio e annuì.
Usagi esibì un sorriso tirato per nascondere le lacrime. Quando lui l’aveva trascinata via in quel modo, solo per parlarle, aveva quasi sperato che stesse per dirle che non partiva più. Ma, invece, continuava a dimostrare che di lei non gliene fregava niente, preso solo dal dimostrare di chi fosse la colpa, pronto a lavarsene le mani pur di uscirne con la coscienza pulita.
Ancora una volta delusa, gli voltò le spalle e si avvicinò alla finestra, perdendosi a osservare il giardino imbiancato.
Restarono così, in silenzio, per un po’, mentre in sottofondo giungevano, dal piano inferiore, le voci e le risate degli amici.
Mamoru fece scorrere lo sguardo su quella figura snella, soffermandosi sul profilo del viso e sull’espressione delusa di quegli occhi, che non avevano mai saputo mentire.
Usagi stava soffrendo e lui, che la amava, si stava comportando da vero idiota.
Prese la scatolina, che custodiva gelosamente nella tasca della giacca, e le si avvicinò.
Sentendolo alle sue spalle, Usagi si voltò e abbassò lo sguardo su quel pacchettino che lui le stava porgendo, poi sollevò gli occhi nei suoi, chiedendogli, in silenzio, cosa significasse.
«È un regalo per te – spiegò Mamoru – Voglio che tu abbia qualcosa che ti ricordi di me e di quello che abbiamo condiviso. È stato poco tempo, è vero, ma per me è stato comunque bellissimo».
A quelle parole, il cuore di Usagi prese a battere furiosamente.
Forse aveva frainteso, forse a Mamoru interessava almeno un po’di lei, se gli premeva che avesse un suo ricordo Non la amava, questo lo sapeva già, ma, per lo meno, non avrebbe gettato un momento così intenso nel dimenticatoio.
Senza dire una parola, Usagi prese il pacchettino e lo aprì.
I suoi occhi brillarono per la gioia e il respiro le si bloccò, quando vide il contenuto e ne comprese il significato: una collanina con un ciondolo a forma di cristallo di neve.
«Ti aiuto a metterla» disse Mamoru, prendendole dalle mani tremanti il gioiello, per allacciarglielo sulla nuca.
«Grazie» disse lei sorridendo, guardandolo negli occhi.
Mamoru fece un lungo sospiro e la accarezzò.
«Non dimenticherò mai di averti vista volteggiare sotto la neve. È la cosa più bella che abbia mai visto e …» stava quasi per dirle che era innamorato di lei e che lo aveva capito tra le sue braccia, ma si rese conto, giusto in tempo, che quelle parole non avrebbero avuto senso, come dieci anni prima, visto che la decisione era già presa da tempo.
« … niente … spero che rimanga anche a te lo stesso ricordo» aggiunse, invece.
Usagi sorrise e, non riuscendo più a trattenersi, si slanciò verso di lui, gli avvolse le braccia al collo e lo baciò, con tutto l’amore che nutriva nei suoi confronti e tutta la tristezza per ciò che stava per perdere.
Mamoru ebbe solo un attimo di esitazione, poi l’accolse tra le sue braccia e trasformò quel bacio in qualcosa di più profondo e travolgente, che non poteva più aspettare.
Con le labbra scese lungo la gola di Usagi, fino a fermarsi sulla scollatura, mentre con le mani le accarezzava la schiena, cercando poi la cerniera del vestito, che gli consentisse di liberarsi, quanto prima, degli strati di tessuto che separavano la loro pelle.
Usagi ansimò tra le sue braccia, sotto il tocco sensuale delle labbra e delle mani di Mamoru, che lambivano il suo corpo con delicatezza, come fosse qualcosa di estremamente prezioso.
Una notte aveva lasciato un segno indelebile, due avrebbero segnato la via del non ritorno e tre l’avrebbero uccisa, si ripeté Usagi mentalmente. Ma, considerando la situazione, non avevano la notte a disposizione. Mezz’ora non avrebbe aggiunto o tolto niente a ciò che provava, se non un’ultima breve parentesi di felicità prima dell’inevitabile.
Così si abbandonò a lui e, mentre il suo vestito rosso cadeva, arrotolandosi ai suoi piedi, anche la giacca e la camicia di Mamoru cadevano sul pavimento.
 
Prima di tornare al piano di sotto, Usagi lo aiutò con il nodo alla cravatta e gli sistemò la giacca sulle spalle.
«Aspetta» la trattenne Mamoru. Le ravviò dietro l’orecchio una ciocca di capelli che cadeva sul viso e con i pollici le tolse delle sbavature nere sotto agli occhi.
«Ecco fatto!» esclamò, non appena ebbe finito. Non voleva che gli altri la vedessero così scarmigliata, nonostante fosse bellissima, e intuissero come avevano trascorso l’ultima ora. Anche se qualche idea potevano già essersela fatta, visto che erano spariti entrambi per un bel po’.
Stava per aprire la porta e uscire, quando Usagi richiamò la sua attenzione.
«Ho anche io un regalo per te» disse, aprendo la borsa ed estraendone un pacchettino rosso.
Mamoru, stupito, lo prese e sorrise, ma prima che potesse aprirlo, la ragazza lo fermò.
«Aspetta, non aprirlo! Fallo quando sarai già partito».
Il ragazzo notò la malinconia negli occhi di lei e annuì. Poi l’abbracciò forte.
«Prometto che ti scriverò delle email, Usako» disse, sciogliendosi dall’abbraccio e perdendosi nell’azzurro dei suoi occhi.
Usagi sorrise e scosse la testa.
«Non devi! Non fare promesse che non manterrai, non rendere tutto più difficile!».
Poi si alzò sulle punte, allungandosi verso di lui, e gli posò un bacio sulle labbra.
«Stammi bene, Mamo-chan!».
E prima che le lacrime prendessero a scendere per quell’addio anticipato, uscì dalla stanza e poi lasciò la villa, evitando chiunque incrociasse il suo percorso.
«Addio, mia piccola Usako» bisbigliò Mamoru, ancora in cima alle scale.
 
«I passeggeri del volo Clouds Airlines, delle ore nove, diretto a New York, sono pregati di recarsi all’imbarco».
 
La voce metallica dell’altoparlante rimbombò nella sala d’attesa.
Mamoru prese la borsa ai suoi piedi, che aveva sbadatamente lasciato aperta, e tutto il contenuto si riversò sul pavimento. Rimise tutto a posto, imprecando tra sé, ma tentennò sul pacchetto rosso, che per volere di Usagi non aveva ancora aperto.
Lo girò e lo rigirò tra le mani, pensieroso. Poi, guardò l’orologio e si disse che poteva concedersi un altro paio di minuti, prima di andare al Gate. La curiosità lo stava divorando e lei non avrebbe mai saputo che aveva infranto la promessa.
Con un gesto secco, strappò la carta e aprì la scatola.
L’oggetto che si ritrovò davanti lo fece sorridere, anche se un velo di malinconia gli stringeva  il cuore come una morsa.
Caricò il carillon e roteando il polso fece vorticare la neve al suo interno. Un’unica immagine gli tornò alla mente, la bellezza e l’innocenza di Usagi che danzava tra i fiocchi di neve.
Si alzò e guardò, attraverso l’enorme vetrata della sala d’attesa, lo skyline di Tōkyō che riempiva l’orizzonte.
Si perse in mille pensieri che percorsero la sua mente in pochi minuti.
E, improvvisamente, capì.
 
Usagi si era alzata prestissimo quella mattina, o meglio, non aveva chiuso occhio tutta la notte, se non per un paio di ore, durante le quali non aveva fatto altro che brutti sogni.
Aveva fatto una lunga doccia, per lavare via la tristezza, promettendo a se stessa, che non avrebbe pianto per qualcosa che sapeva bene, dal principio, come sarebbe andata a finire.
Andò in cucina a prepararsi un caffè e un’abbondante colazione, per cominciare bene la giornata, e guardò l’orologio. Erano quasi le nove. A quest’ora l’aereo di Mamoru era già pronto per il decollo.
Forse avrebbe dovuto chiedere alla sua compagnia aerea di lavorare quel giorno e coprire la tratta Tōkyō – New York. Altre tredici ore con lui le sarebbero bastate. Già, ma a che sarebbe servito?
Forse poteva andare a trovarlo non appena avesse viaggiato per gli Stati Uniti.
Scosse la testa. Neanche per sogno!
Gli aveva chiesto di non sentirsi più, neanche tramite email, perché mai avrebbero dovuto vedersi?
Il capitolo Mamoru era chiuso. Ci erano voluti dieci anni, ma adesso era definitivamente chiuso. Fece uno sforzo e prese a sorseggiare il suo caffè.
Mentre, seduta sul divano, si arrovellava il cervello con questi pensieri, il campanello suonò, in maniera piuttosto insistente.
Solo Minako poteva avere un’insistenza del genere, pensò Usagi infastidita.
«Arrivo!» gridò, mentre lentamente andava ad aprire, pensando di non avere voglia di vedere nessuno, e, soprattutto, di sorbirsi l’esuberanza e le chiacchiere di Minako.
Ma lo stupore, quando aprì la porta, la travolse. Non era la sua amica chiacchierona.
«Cosa ci fai qui?» chiese, non appena riuscì a parlare.
Mamoru era lì fuori, vestito di tutto punto, con la valigia ai suoi piedi e la boule de neige, che gli aveva regalato, tra le mani.
Le sorrideva, in una maniera dolce e tenera, che Usagi non ricordava di aver mai visto in lui.
«Ho cambiato idea» le disse.
Usagi non parlò, aspettando di sentire da lui quello che sperava stesse per dire.
«Questa mi ha fatto cambiare idea» aggiunse lui, mostrandole la palla di vetro.
«La boule de neige?» chiese la ragazza perplessa.
Mamoru scosse la testa.
«No, tu e il significato che c’è dietro il tuo regalo».
«Non capisco, che vuoi dire?» domandò ancora Usagi, cercando di mantenere la calma e ignorando le capriole del suo cuore dispettoso.
Mamoru fece un lungo respiro, prima di cominciare a parlare tutto d’un fiato.
«Ho chiamato l’agenzia immobiliare. Ho detto che c’è stato un ripensamento e che non ho intenzione di vendere la villa. Poi, ho chiamato il mio ospedale e ho fatto richiesta di trasferimento. Se tutto va bene, il mese prossimo lavorerò in uno degli ospedali di Tōkyō e potrò anche completare il mio progetto di ricerca, continuando a collaborare con New York. E infine, ho deciso di fare la cosa più importante, venendo qui da te».
Usagi piegò il capo, confusa, chiedendogli altre spiegazioni.
Mamoru si prese ancora un attimo, poi rispose.
«Sposami!» le disse, senza troppi giri di parole.
A quella richiesta, Usagi si sentì quasi svenire. Non poteva essere uno scherzo! Forse, semplicemente non aveva capito bene.
«Non ho capito. Puoi ripetere?» chiese titubante.
Il ragazzo sorrise, le si avvicinò e le prese le mani tra le sue, posando un bacio in ciascuno dei due palmi.
«Ho detto sposami!» ripeté con la stessa determinazione di poco prima.
Usagi sentiva che il suo cuore stava per scoppiare, ma ancora non riusciva a credere che Mamoru stesse parlando sul serio. Doveva essere su un volo per New York e, invece, era davanti a casa sua a chiederle di sposarlo. Impossibile!
«Mi prendi in giro?».
«Non sono mai stato più serio di così».
«Ecco, io … ».
Ma Mamoru non la fece parlare.
«Ti amo, Usako, e non potevo andarmene un’altra volta senza dirtelo» le disse con gli occhi lucidi.
«Vuol dire che … ».
«Vuol dire che ti ho sempre amato, ma sono stato un codardo dieci anni fa. Te lo ripeto, ti amo, Usako, vuoi sposarmi?». E la presa sulle mani di lei si fece ancora più stretta.
Usagi diventò improvvisamente seria.
«Non mi hai chiesto se anche io ti amo».
Mamoru ebbe un sussulto, non poteva essersi sbagliato in questo modo.
«Mi ami?» chiese titubante, temendo una risposta negativa.
A quel punto, leggendo la paura negli occhi del ragazzo, Usagi capì che era sincero e le gambe presero a tremarle. Nei suoi sogni questo momento non sarebbe stato di certo più romantico di com’era realmente. Gli si gettò al collo, con tutta la foga possibile e cominciò a piangere, ma questa volta di felicità.
«Sì, ti amo, Mamo-chan e sì, voglio sposarti» urlò tra i singhiozzi.
E un lungo e appassionato bacio suggellò quel lieto fine, che finalmente si realizzava dopo dieci anni.
 
 
Un anno dopo …
Da lontano, Mamoru osservò sua moglie, che rideva con le amiche.
Era uno spettacolo! Con i suoi sorrisi Usagi gli riempiva le giornate e il cuore.
Era l’uomo più felice del mondo, accanto a lei. Felice di averla come compagna di vita, felice di averlo capito in tempo e di essere tornato a riprendersela. E, adesso, la loro felicità sarebbe raddoppiata.
Le si avvicinò e, avvolgendole le spalle con un braccio, le baciò la fronte. Con l’altra mano, poi, prese ad accarezzarle la pancia, che si faceva via via sempre più grossa e tonda.
«Ha già scalciato due volte» disse la futura mamma.
Mamoru sorrise, pensando che sua figlia sarebbe stata proprio un bel peperino.
«Non vedo l’ora che nasca» affermò.
«Anche io. Chissà come sarà!» si chiese Usagi.
«Bella come la sua mamma» commentò Mamoru, stringendole la mano, con la quale si accarezzava il pancione.
«Siete sotto il vischio, siete sotto il vischio!» urlò, all’improvviso, Minako, proprio come aveva fatto un anno prima, interrompendo quel momento di dolce intimità.
Usagi e Mamoru alzarono lo sguardo sulle loro teste.
«Che dici, la accontentiamo?» chiese Usagi divertita.
Mamoru annuì.
«L’anno scorso ci ha portato fortuna, quindi, direi proprio di sì».
E si sorrisero, prima di avvicinare le labbra e baciarsi sotto quel ramoscello, che aveva dato il via alla loro storia d’amore e a una lunga serie, in futuro, di tradizionali baci natalizi.
 


E con le festività natalizie si conclude anche la mia storia a tema (sono stata precisissima, come avevo promesso!). Volevo ringraziare tutte voi per il riscontro positivo che ho avuto e che sinceramente non mi aspettavo. Grazie davvero! Per le recensioni, per aver inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite, per aver inserito me tra le autrici preferite (lusingatissima!) o anche solo per avermi dedicato mezz'ora del vostro preziosissimo tempo. Un bacio a tutte e di nuovo buon anno. Vi aspetto con la mia "vecchia" storia che tornerà a breve.

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