Siamo solo formiche

di Dynamis_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Siamo solo formiche ***
Capitolo 2: *** Dream or reality? ***
Capitolo 3: *** “Riesci ancora a sentire, Marco?” ***



Capitolo 1
*** Siamo solo formiche ***


Non aveva mai pensato alla morte, o meglio, non aveva mai pensato che questa, tra tutti, potesse cogliere proprio lui.
Da lì riusciva a scorgere tutte le casette ammucchiate e diroccate, e i soldati che, come formiche, tentavano di arrestare l'avanzata di un nemico troppo grande, troppo potente per essere abbattuto.
Ecco cos'erano: solamente formiche.
Lo capiva dall'olezzo del fiato del gigante che adesso lo fissava bramoso, lo capiva dalla pressione sul suo corpo che gli impediva di muoversi e reagire, lo capiva da quella mano serrata attorno a sé: erano formìche tra le mani dilaniatrici della morte, non avrebbero potuto far nulla.
Dall'alto gli sembrava tutto più semplice, era logico dopotutto: non ce l'avrebbero mai fatta; se lo avesse capito prima avrebbe gettato le armi e avrebbe trascorso quegli ultimi momenti con lui, non si sarebbe gettato tra le grinfie dei titani, non avrebbe combattuto una battaglia persa in partenza.
Adesso che era a un passo dalla morte, gli parve di osservare tutto da un punto di vista diverso, quasi disinteressato - dopotutto non era più sua quella realtà, la sentiva distante e aliena, era al mondo dei morti che apparteneva, era da quello che proveniva il richiamo che sentiva, sempre più forte e inarrestabile come un'eco ridondante.
Non sentiva nemmeno quel corpo come proprio, non riusciva a trovare la volontà di muoverlo, ma stette lì, malfermo, aspettando che giungesse la sua fine, che il respiro abbandonasse una volta per tutte i suoi polmoni.
Se per qualche strano caso del destino fosse riuscito a sopravvivere - ne dubitava - avrebbe preso per mano Jean e lo avrebbe trascinato via con sé senza mai voltarsi, lontano dal terrore e dal vuoto - dalla Morte.
Eppure, la giornata era iniziata nel migliore dei modi: si era svegliato accanto al suo compagno, le lenzuola tese sui loro corpi nudi; aveva spinto la mano verso lui - lo ricordava bene - e lo aveva accarezzato con immensa dolcezza; gli aveva sussurrato di amarlo oltre ogni misura e gli aveva detto che sarebbe stato solamente suo, che non avrebbe desiderato mai nessun altro.
Se c'era qualcosa che né la Morte né i titani avrebbero portato con sé erano i sentimenti che Marco provava per Jean, quell'amore così sincero che gli seccava la gola e gli faceva sentire le farfalle allo stomaco ogni volta che lo scopriva mentre lo fissava, ogni volta che sentiva sfiorarsi con la punta delle sue dita, ogni volta che lo rendeva veramente suo.
La Morte non avrebbe cancellato né questo né la percezione e il ricordo che Jean aveva di lui.
Non gli dispiaceva nemmeno di morire in un certo senso, aveva dato e ricevuto amore, gli sarebbe stato accanto lo stesso, giorno per giorno, lo avrebbe visto innamorarsi di qualcun altro, una donna magari, avrebbe visto crescere i suoi figli, lo avrebbe visto piegarsi sotto il peso degli anni e pensare al suo amico e compagno d'armi, al ragazzo con il quale più di una volta aveva consumato quell'amore totalizzante e perfetto, quell'amore che era stato eclissato dal tempo.
Una lacrima di amarezza solcò il suo viso, scese fino sul collo senza arrestare la sua avanzata.
No, non era questo che voleva per sé, non era questo che voleva per entrambi, sebbene se ne volesse convincere. Eppure non vedeva alcuna via di fuga, nessuna scappatoia o scorciatoia: era da solo adesso, insieme alle braccia eternatrici dell'oblio.
Chiuse totalmente gli occhi per non provare paura, convincendosi che quello fosse uno dei suoi soliti e vividi sogni e sorrise: Jean era ancora accanto a lui nel letto, non lo aveva mai abbandonato, Marco non si era ancora alzato quella mattina. Immaginò le sue labbra, ricordò perfettamente i suoi contorni e il loro colorito, la loro consistenza. Ricordò la notte precedente, come entrambi avevano goduto appieno dei loro sentimenti, come si erano resi un'unica cosa, un unico essere.
Sorrise appena, Marco: era felice, lo era davvero, anche se sapeva benissimo che la sua fine era ormai prossima.
Sorrise perché mai prima di allora era stato amato così tanto, perché sapeva che qualcuno - lui - lo avrebbe ricordato, avrebbe posato un timido fiore sulla pietra con su inciso il suo nome, lo avrebbe sognato, magari, avrebbe ripensato al suo sorriso e al rossore delle sue gote quando lo fissava, quando gli sussurrava dolci parole all'orecchio solleticandolo con il suo respiro.
Lo avrebbe rivisto nei volti dei passanti, nelle forme che assumevano le nuvole o nelle costellazioni che lambivano il cielo la sera.
E Marco ci sarebbe stato ogni singolo momento, la sera avrebbe sentito il proprio nome uscire dalle sue labbra ben più di una volta, lo avrebbe consolato quietamente e silenziosamente, interrompendo i suoi incubi e donandogli la pace che avrebbe meritato. Lo avrebbe protetto comunque, senza chiedere nulla in cambio se non la sua sopravvivenza e lo avrebbe aspettato fino a quando non fosse giunto anche il suo tempo.
Il suo volto era totalmente umido e rigato, ma un nuovo sorriso, una nuova speranza, traspariva dalla sua espressione.
Non sentì nemmeno dolore quando i denti del titano affondarono nella sua carne, strappandola da parte a parte, non percepì paura o terrore quando si sentì finito e abbandonò questa realtà, lasciando i suoi affetti - lasciando Jean - dietro di sé.

***



Dall'altro lato del campo la battaglia imperversava, ma lui era ancora vivo, contro ogni aspettativa.
Ancora poco tempo e avrebbe rivisto Marco, sarebbero tornati entrambi illesi dalla loro prima battaglia, si sarebbero curati le ferite a vicenda e avrebbero trascorso quella notte insieme, squassati dagli incubi ricorrenti.
Avrebbe affrontato quella notte di dolore con lui, era quello a farlo andare avanti, non aveva bisogno di nessun ulteriore incentivo o spinta per reagire.
Proprio nel momento in cui il moro esalò l'ultimo respiro, in cui l'ultimo soffio vitale abbandonò per sempre il petto di Marco, Jean sentì una stretta al cuore, senza riuscire a capire il perché.
Lo avrebbe compreso troppo tardi, quando non ci sarebbe stato ormai nulla da fare, quando avrebbe visto le ceneri del suo corpo mischiarsi a quelle di molti altri, quando avrebbe versato così tante lacrime che ne avrebbe avuto abbastanza per una vita intera.
Affondò ancora una volta la lama nelle carni di un titano, proprio mentre il corpo di Marco - spezzato - cadeva per terra con un tonfo, facendo ondeggiare l'aria.
No, Marco non sarebbe più tornato, ma lui non poteva sapere, non era a conoscenza del fatto che avrebbe per sempre ricordato le parole di quella mattina con una stretta allo stomaco, che lo avrebbe aspettato per una vita intera senza riuscire ad amare nessun altro.
Non ne era per niente consapevole: per questa ragione continuò a lottare con un sorriso sulle labbra, attendendo di ricongiungersi con lui perché mai nulla avrebbe reso quella sopravvivenza ancor più voluta e agognata.

***

Il corpo di Marco giaceva al suolo, dimenticato.
Non era questa la fine che si era aspettato, non pensava di morire senza gloria né onore, non riconosciuto nemmeno dai suoi compagni, strappato via da un'esistenza che aveva ancora molto da offrirgli.
Continuava a stare lì, in una pozza di sangue, aspettando che qualcuno si ricordasse di quel ragazzo con le lentiggini, che il suo Jean tornasse e gli desse la giusta pace.
Era paziente, Marco, ancor di più di fronte alla prospettiva dell'eternità: tra tutte avrebbe aspettato la sua voce, la avrebbe riconosciuta al di sopra delle altre e allora sarebbe stato ricordato, lo sapeva.
Aspettava incessantemente, certo che la sua attesa, un giorno, sarebbe stata ripagata.
Sarebbe stato ritrovato.

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Capitolo 2
*** Dream or reality? ***


Aveva pianto tutta la notte.
Aveva chiamato il suo nome così tante volte, sperando che gli rispondesse, che non era stato più nemmeno in grado di tenerne il conto.
E lui non aveva risposto.
Sebbene gli avesse detto che non lo avrebbe mai lasciato, che per lui ci sarebbe sempre stato, non aveva risposto al suo richiamo.
Aveva sentito l'altro lato del letto così freddo - il freddo della morte, lo stesso freddo che pervadeva il corpo straziato di Marco sotto la luce delle stelle maligne, sotto il ghigno della luna - che aveva cominciato a tremare, le dita arpionate sulle coperte, il cuscino tra i denti per soffocare i singhiozzi.
Si era voltato ben più di una volta sperando di vederlo varcare la porta, di vederlo scostare quelle coperte candide e stendersi accanto a lui, un braccio attorno al suo fianco e la testa poggiata sulla sua schiena.
Ma non era arrivato, nemmeno dopo quella estenuante attesa.
Semplicemente non voleva crederci, non voleva nemmeno pensare che quella parte del letto sarebbe rimasta vuota per sempre, che Marco avesse portato con sé non una parte del cuore, ma tutto se stesso, che non avrebbe più rivisto quelle lentiggini e quelle fossette che si formavano ai lati della sua bocca quando sorrideva con disinteresse, quando entrambi cadevano per terra stremati dalle troppe risate.
Jean non sapeva che la mattina successiva lo avrebbe rivisto, l'occhio roteato e la carne nettamente divisa in due, il sangue rappreso, ancora un'espressione beata sul viso perché aveva pensato a lui sino all'ultimo, perché era stato l'ultima parola che aveva sussurrato, il fiato persino più freddo del vento, molto più sottile e sommesso di quanto fosse lo Zefiro.
Jean non poteva sapere che Marco aveva pensato a lui fino all'ultimo, che non lo aveva abbandonato nemmeno in quel momento e che si trovava adesso accanto a lui, in quel letto troppo grande perché non lo condividesse con nessuno, in quella voragine troppo ampia perché non avesse una spalla sulla quale poter riversare il proprio dolore.
Marco era lì, sulla parte sinistra del letto inondato dalla luce della luna, a piangere per avergli fatto del male, per avergli lasciato un vuoto insanabile nel petto, quello stesso vuoto che provava adesso lui.
Marco piangeva perché non poteva toccarlo. Non ne era più capace.
Era soltanto un'ombra, un'impronta di ciò che era stato, lo specchio di sé stesso in un'altra realtà priva di senso, una realtà che non comprendeva lui.
E Jean continuava a piangere, il cuscino pregno delle sue lacrime, i tessuti strappati per la rabbia di aver perso tutto in un effimero attimo.
Piangeva e lo odiava perché lo aveva lasciato da solo, perché non aveva rispettato la sua promessa, perché avrebbe visto il futuro da solo e non lo avrebbe apprezzato, non quanto avrebbe voluto.
Si girò per l'ultima volta verso la parte sinistra del letto e tese una mano, proprio come aveva fatto la mattina precedente, abbracciando il cuscino, affondando il viso in esso: se chiudeva gli occhi, poteva pensare di averlo ancora accanto, era quasi facile, poteva persino udire il suo respiro regolare e i suoi brontolii nel sonno, poteva quasi avvertirne la presenza.
Respirò nuovamente quell'odore, tentando di non alterarlo con il proprio, altrimenti Marco lo avrebbe abbandonato di nuovo e non avrebbe potuto resistere questa volta.
Lo immaginò che gli scostava i capelli e che gli dava un timido bacio in fronte, arrossendo subito dopo, lo immaginò sussurrargli parole di conforto.
Ma Marco lo stava facendo.
«Dormi, Jean. Sono ancora qui al tuo fianco, come ti avevo promesso. Io non infrango mai le promesse.»
Lo aveva accarezzato e il biondo per un attimo lo aveva sentito, aveva spalancato gli occhi e urlato il suo nome contro l'aria, sollevandosi sui gomiti.
Ma non aveva scorto nessuno, nemmeno quella volta.
Aveva portato le mani a coprire il viso e aveva ripreso a singhiozzare, fino a che, sfinito, si era lasciato andare al sonno, incontrando Marco almeno lì dove poteva, una notte dopo l'altra per tutta la vita.

***

Lo aveva sognato quella notte, ed era stato bene per davvero.
Si era svegliato con il suo cuscino stretto ancora tra le braccia, stretto in quell'abbraccio a senso unico, senza che qualcuno potesse ricambiare la sua stretta, cercando conforto.
E lo aveva trovato, se pur vano, illusorio, fasullo e breve lo aveva trovato nella sua mente e nel suo cuore, un riparo nel quale sarebbe stato solito chiudersi spesso, da allora in poi.
Nel suo cuore Marco sarebbe stato sempre vivo, lo avrebbe ritrovato in ogni luogo, nelle forme che l'acqua assumeva, nel suo riflesso allo specchio, nella maglietta spiegazzata che gli apparteneva e che giaceva, senza essere toccata, sulla spalliera della sedia.
Nei suoi sogni avrebbero potuto incontrarsi ancora tante di quelle volte che Jean avrebbe sempre atteso con ansia l'arrivo della sera.
E se Jean fosse andato a trovare la sua lapide - il simbolo del 104º Corpo di Addestramento Reclute in bella vista - gli avrebbe raccontato ogni singolo momento, lo avrebbe reso partecipe ancora della sua vita, avrebbe atteso una sua risposta per sempre e la avrebbe avuta molti anni dopo, quando sarebbe stato troppo vecchio per trattenersi ulteriormente e si sarebbe congedato da questa vita.
Ormai non aveva più lacrime da versare, e non voleva farlo assolutamente, non più: sarebbe stato gli occhi di Marco, avrebbe visto per entrambi il futuro e gli avrebbe raccontato quanto fosse bello l'esterno, quanti colori esistessero, quali fiori avesse incontrato nel corso della sua vita, quanto ancora ci fosse da scoprire...
E Marco avrebbe sorriso ancora una volta, gli avrebbe teso la mano e lo avrebbe stretto a sé ancora tantissime volte, senza nessuna pretesa e senza risparmiarsi poiché di tempo ne avrebbero avuto a sufficienza, ne avrebbero avuto per sempre.
Nel frattempo avrebbe combattuto soprattutto per lui, li avrebbe annientati tutti quanti uno alla volta, nel petto due volontà ardenti che si mescolavano, negli occhi due pozzi colmi di dolore e determinazione.
Ancora poche ore e sarebbe tornato tra le braccia ammaliatrici del sonno, per adesso doveva soltanto sopravvivere, uscire fuori da quella stanza e combattere per un'altra giornata.

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Capitolo 3
*** “Riesci ancora a sentire, Marco?” ***


Gli era stato ordinato di tornare sul campo di battaglia - su quel campo dove aveva perso ogni cosa, persino la speranza - per identificare i corpi dei caduti; sapeva che avrebbe potuto rivedere Marco, ma si sentiva pronto.
Inutile dire che non lo fosse abbastanza.
Aveva voltato l'angolo al confine di quel distretto ridotto ormai in macerie, lo aveva voltato pensando al numero di corpi che aveva visto fino a quel momento, a tutte quelle persone che non sarebbero più tornate indietro, ai suoi compagni con i quali aveva condiviso gran parte della propria vita e di cui adesso non rimaneva nulla se non un mucchio d'ossa indistinte.
Aveva voltato l'angolo senza pensare a ciò che avrebbe potuto vedere una volta abbassato lo sguardo, senza sapere che l'equilibrio precario in cui si trovava sarebbe stato messo alla prova un'ulteriore volta.
Non era per nulla preparato a quello.
«Marco... sei... tu?»
Gli mancò il respiro, sentì la testa - l'intera strada - vorticare perché mai, nemmeno in un tempo infinitamente lungo, sarebbe stato abbastanza pronto per subire quello shock.
Si poggiò barcollando alla casa semidistrutta, la mano sulla gola tentando di ristabilizzare la respirazione - invano- e scivolò appena sulla superficie scagliosa e tagliente, le parole morte tra le labbra, incapace di articolare qualsiasi suono.
Non poteva credere che lui avesse avuto quella fine così indecorosa, che giacesse per terra mischiandosi alla polvere e ai detriti, lontano dal campo di battaglia.
Non poteva nemmeno accettare di scorgere quell'occhio privo di vita rivolto al cielo, di non vedere il suo petto muoversi lentamente, di dare una rapida occhiata a quel corpo divelto e smembrato terribilmente.
Cadde in ginocchio, le mani a coprire il viso per l'ennesima volta, il busto curvato in avanti, quel corpo che non ne poteva più di subire così tanto dolore, di dover sopportare quel peso gravoso e inalienabile.
Affondò le dita nella terra ingrata, terra che, probabilmente, era sporca del sangue dei suoi simili, dello stesso sangue di colui che più aveva amato e per il quale avrebbe volentieri dato la vita.
Sottili gocce bagnarono quello stesso terreno, scivolando sulle sua guance alla vista del suo amore - forse l'unico - senza vita e cadendo irrimediabilmente verso il vuoto.
Erano in caduta libera, tutti quanti, senza poterci fare nulla, senza appigli ai quali aggrapparsi, senza pareti che rallentassero il loro salto.
Il suo, di appiglio, giaceva esanime a pochi metri di distanza da lui, incapace di reagire o di dirgli semplicemente che ci sarebbe stato, che avrebbero operato quel salto insieme tenendosi per mano.
Era solo.
Il cielo stava crollando, la terra tremava, il fuoco lo consumava da dentro otturandogli i polmoni e rendendo arsa la gola e lui era solo, come mai lo era stato.
Rivolse lentamente lo sguardo verso Marco - il suo Marco - e comprese che mai più avrebbe assaporato la dolcezza di quello sguardo, che mai più avrebbe avuto il suo calore vicino, che non avrebbe mai più sentito la sua risata aleggiare per la stanza, riempire l'aria con la purezza e la spensieratezza che più lo contraddistinguevano.
Non si sarebbe mai abituato al vuoto delle giornate senza lui e alla noia che lo avrebbe martoriato in maniera sempre più pressante, nei giorni a seguire avrebbe volto più di una volta lo sguardo verso il cielo e avrebbe pensato a lui, si sarebbe chiesto se stava bene adesso che non poteva più provare paura e dolore, adesso che sapeva che Jean non l'avrebbe dimenticato mai.
E Marco in cuor suo gli avrebbe risposto silenziosamente che provava ancora paura, paura che la vita di colui a cui più teneva avrebbe potuto spegnersi troppo velocemente e ardere in un'unica fiamma, ma che in fin dei conti, se così fosse avvenuto, si sarebbero rincontrati.
Jean però in quel momento non riusciva a pensare, provava così tanto dolore al petto che avrebbe preferito anche lui abbandonare quella merda di vita e ricongiungersi a lui. Voleva soltanto avere la forza di lasciarsi tutto alle spalle e rialzarsi più forte di prima, perché era troppo debole.

«Sai, Jean...»
Una reticenza e Jean si era voltato, tendendo le orecchie verso ciò che Marco aveva da dire. Aveva avvertito una certa curiosità a causa del suo tono di voce sospeso, di quelle parole fatte uscire come un sospiro, lentamente e pacatamente.
«Penso che tu potresti essere un ottimo leader...»
Lo aveva guardato con fare interrogativo e canzonatorio, non riuscendo a prendere sul serio le parole che gli stava rivolgendo.
Eppure Marco non aveva scherzato, non quella volta.
«E per quale motivo, Marco? Sentiamo! Non puoi dire sul serio, non sono coraggioso abbastanza per esserlo...»
Aveva abbassato lo sguardo, non riuscendo a sostenere quello del proprio compagno che, quasi si aspettasse quella risposta, gli aveva gettato il braccio sulle spalle e lo aveva fissato con uno dei migliori sorrisi che gli aveva mai rivolto sino ad allora.
«Non prenderla male, eh...»
Era arrossito appena, Marco, con quella sfumatura di rosso che tanto amava, e aveva aperto di nuovo le labbra per continuare a parlare, gesticolando con la mano libera.
«Non sei proprio quello che la gente definirebbe forte, ecco.. proprio per questo sei in grado di comprendere i deboli e di aiutarli..».


Era debole.
Ma nella sua debolezza avrebbe trovato la forza necessaria per combattere anche per Marco. Avrebbe fatto della debolezza la sua unica forza, come gli aveva suggerito Marco poco tempo prima, avrebbe fatto tesoro di quel suo ultimo e pressante consiglio.
E si sarebbero rincontrati senza ripensamenti.

***

Stava fissando il fuoco del falò funebre, gli occhi umidi e i pugni serrati sui fianchi. Le fiamme danzavano al ritmo del vento, guizzavano e ardevano silenziosamente e rispettosamente sui cadaveri.
Il fumo si alzava in sottili spire e diventava tutt'uno con il cielo scuro e coperto, dando finalmente pace a coloro che avevano dato la vita perché lui fosse ancora lì, perché gli umani potessero avere la loro prima - ma minima - vittoria, a costo di un prezzo sin troppo alto.
"Era questo che volevi, Marco? Diventare simile alle stelle?"
Proprio là dove il fumo e il cielo si incontravano, riusciva a provare meno dolore: si trovava nell'immenso adesso, poteva vedere il mondo esterno dall'alto, Marco.
Sentiva odore di bruciato, respirava aria pregna dei loro corpi sparsi in sottili particelle, in cenere e fumo.
Respirava il suo corpo.
"Riesci ancora a sentire il rumore del vento, la brezza che adesso ti muove e ti porta in alto, dove i miei occhi non potranno più vederti?"
Ancora bruciore alla gola, forse non se n'era mai andato, ma lo aveva avvertito ancor di più: sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe avuto una percezione così alta del suo compagno, lo stava vedendo allontanarsi in sottili agglomerati di cenere e terra senza riuscire nemmeno a capire quale fosse il confine che separava Marco dagli altri soldati, un unico ammasso indefinito.
"Dimmi, quale di queste ossa è tua? Non riesco a ricordare..."
Il cielo si copriva sempre di più di quel dolore denso e concentrato, delle grida silenziose di migliaia di anime che non avrebbero mai più rivisto la luce.
E i titani dormivano beati, le loro bocche non dilaniavano quella sera, le loro dita non arpionavano, i loro respiri non puzzavano di sangue e morte, non ancora.
Avrebbero aspettato il giorno, solo allora si sarebbero rialzati per giocare ancora con le loro vite: lui li avrebbe aspettati e sarebbe stato pronto.
"Bisogna combattere, non c'è altro modo."





Fine.



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