A penny for your thoughts

di Backyard Bottomslash
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


A penny for your thoughts
Capitolo 1




Quinn Fabray aveva scelto di dedicare la sua intera vita al lavoro.

Non aveva avuto figli, non si era sposata, non aveva mai provato l'amore.

Una sorte piuttosto triste e paradossale per chi l'amore lo scriveva.

A 16 anni, quando tutte le sue amiche si erano innamorate, si era sentita esclusa e fuori luogo. A 20, al college, essere single e con il cuore libero le era parsa una benedizione. A 26, quando il suo nome era finito per la prima volta tra gli scaffali di una libreria si era sentita forte e indipendente. A 28, quando, messa la parola fine al suo secondo romanzo, abbassò lo schermo del computer e si voltò dall'altra parte del letto, trovarlo vuoto scatenò un senso di tristezza e terrore che si riversò in un pianto disperato.

Il giorno dopo si svegliò con le guance ancora umide e un copricuscino rovinato dal mascara che dimenticava sempre di togliere.

Quella mattina decise che Quinn Fabray non avrebbe mai amato.

Mantenere la promessa non fu più difficile che pronunciarla.

Volti e corpi si susseguivano nella sua vita e nel suo letto.

Mai nel suo cuore.

Cambiò casa a 32 anni, quando il suo terzo libro era ancora una bozza grezza e zeppa di idiozie. Si disse che lo faceva per colpa di Miss Joyce, un'inquietante vecchietta dalla maniacale passione per i nani da giardino e i parcheggi impossibili, in realtà era colpa delle macchie di mascara che non erano mai andate via da quella federa.

Quando fu pronta a traslocare si sentì quasi disgustata all'idea che tutta la sua vita era chiusa dentro degli scatoloni, contenuti nel retro di un camion ed affidati ad un autista dai baffi troppo lunghi e i capelli troppo corti.

Aveva scoperto di avere abbastanza soldi da potersi permettere un loft a SoHo e decise di cedere alla corte di quel dannato cliché.

Giunta nel suo nuovo nido, la prima cosa che fece fu bruciare quel copricuscino e sbarazzarsi delle sue ceneri.

Si prese qualche giorno per sé, per mettere nuovamente in ordine i suoi pensieri, per studiare la zona, per godersi il paesaggio urbano e l'aria così piena di smog e così priva dell'odore dell'odiosissima crostata alle fragole di Miss Joyce.

New York era una benedizione!


****


New York era una maledizione!

Questo pensava mentre l'orologio nel cruscotto le comunicava che erano passate due ore da quando era rimasta imbottigliata nel traffico.

Di quel passo non avrebbe raggiunto la sede della sua casa editrice prima di un'altra ora. Non che smaniasse per rivedere le facce grige e poco stimolanti dei suoi editori, ma l'idea di aver vissuto quell'inferno per nulla la frustrava ancora di più.

Un'ora e mezza dopo attraversò le porte dell'edificio.

Ne uscì 45 minuti dopo. Un'espressione scura sul suo viso.

Non guidò per circa due settimane, in seguito a quell'avvenimento.

La necessità di spostarsi però si fece ugualmente sentire. E allora camminò, prese il tram, il bus, evitò con maestria tutti i taxi e scoprì che poco più di un'ora di metro la divideva dalla sede della casa editrice.

Improvvisamente spostarsi non era più tanto difficile e tanto stressante.

Si consolò al pensiero che alla prossima riunione avrebbe fatto valere le sue idee.

Più che altro si illuse.


****


Prendere la metro, una mattina di tre settimane dopo, si rivelò un'impresa non da poco.

La sveglia non aveva fatto il suo dovere e Quinn era scattata in piedi con quasi mezzora di ritardo rispetto ai suoi piani. Per quella coincidenza, una volta, avrebbe dato la colpa a Miss Joyce e ad uno dei suoi nani. Gongolo probabilmente.

Arrivò alla fermata con le guance rosse per lo sforzo e tre volantini nella mano destra. Neanche ricordava quando le erano stati rifilati.

Nella metro si tenne ad uno dei manici fino a quando il suo vagone non fu vuoto abbastanza da permetterle di sedersi. Da quella posizione studiò un paio di passeggeri, rabbrividendo davanti allo stereotipo del ragazzino di buona famiglia che si finge uomo di strada. Le sue scarpe erano troppo pulite e la collana che indossava troppo brillante per non provenire da una famiglia benestante.

Si compiacque del suo cinismo.

Finse di farlo.

In realtà morì un po' dentro.

Succedeva ogni giorno, ma, dopotutto, poteva fingere che non fosse così, d'altronde al suo fianco non c'era nessuno che se ne sarebbe accorto.

Fino a quando non fu più così.

«Un penny per i suoi pensieri.»




_________________________________________


Note:
Hi guys!
So che non vi interessa, ma, onestamente, trovare il modo di iniziare le note è sempre un trauma.
Dunque, questo è il primo di quelli che saranno circa 3 capitoli. Tutti saranno più o meno della stessa lunghezza e, nel caso in cui ve lo stiate chiedendo, sì, avrei potuto unirli. Ci ho pensato, ho valutato, ma non ho voluto farlo perché ho un’idea specifica e non si tratta di una shot.
Un'ultima precisazione: il rating è momentaneamente verde, devo ancora decidere se lo sarà effettivamente.
Detto questo, vi lascio i miei contatti Facebook, Twitter e Ask e, se non l’avete fatto, correte a leggere “Do you remember the time?"

Alla prossima!

-BB

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


A penny for your thoughts
Capitolo 2



Rachel Berry era sempre riuscita in tutto.

La sua vita, seppur ancora relativamente breve, era stata un susseguirsi di successi.

A 16 anni aveva incontrato quello che allora considerava l'amore della sua vita. A 20 era riuscita a vincere lo showcase invernale che la NYADA organizzava annualmente. A 26, dopo aver ottenuto il massimo dei voti all'esame finale, aveva conquistato il suo primo ruolo off Broadway. A 28, dopo un'ennesima meravigliosa esibizione, il suo nome era stato menzionato sul New York Times.

L'articolo affermava che prima di morire, chiunque avrebbe dovuto assistere ad una esibizione di Rachel Berry.

Quella mattina, la mattina dell'articolo, Rachel aveva avuto l'impressione che persino il sole le stesse sorridendo.

Più tardi avrebbe imparato che anche il sole era in grado di ghignare, maligno.

Più tardi avrebbe imparato che, esattamente come con le sue mani aveva costruito il suo futuro, con esse avrebbe potuto distruggerlo.

A 32 anni, quelle mani avevano stretto la penna che segnava la fine della sua storia d'amore.

Si dissero che lo facevano perché ormai troppo incompatibili.

A Rachel venne il dubbio che lo fossero sempre stati.

Semplicemente se avesse continuato a stare accanto a suo marito avrebbe finito per odiarlo.

Traslocare significò cambiare vita.

Svegliarsi in un letto troppo grande per una sola persona la faceva sentire triste, chiamare Kurt, la sera, prima di andare a dormire, la faceva sentire patetica.

Impiegò qualche settimana per comprendere che ci vuole coraggio a tornare ad essere soli dopo 16 anni. Iniziò a chiamare sempre meno Kurt e a parlare sempre più con se stessa. Scoprì che la solitudine, dopo così tanto tempo, non poteva spaventare più di quanto non potesse emozionare.

Ringraziare mentalmente Finn fu automatico.

Alzare la cornetta e lasciarsi andare a parole mai pronunciate fu ponderato.

E capì che aveva fatto bene quella mattina a firmare quei documenti.

Quella mattina aveva deciso che Rachel Berry non avrebbe mai odiato.


****


Odiava dover dare spiegazioni.

Soprattutto dal momento che non aveva mai avuto una grande attitudine per le bugie. Probabilmente il suo inconscio ancora credeva alla storia del naso che si allunga.

Per quale motivo le persone avessero tanto paura di dire la verità non era mai riuscita a comprenderlo.

Avrebbe voluto semplicemente dire che no, quando aveva 11 anni ed era nella classe del professor Gibson, il cane non aveva mangiato i suoi compiti. Avrebbe voluto chiamarlo ora e confessargli che, a dirla tutta, lei un cane non l'aveva neanche mai avuto.

Avrebbe voluto non dover mentire quando aveva chiesto una giornata libera, ma, quando erano giunte le domande e la richiesta di spiegazioni, si era resa conto di non potersela cavare se non con una giustificazione standard.

E così i suoi papà le avevano fatto una sorpresa ed avevano fatto un salto a New York. Gli stessi papà che in quel momento si trovavano probabilmente alla riunione settimanale del club di letteratura a Lima, in Ohio.

Non riuscì a mantenere un sorriso trionfante quando, il giorno dopo, si svegliò presto.

Non lo trattenne neanche quando salì su una metro a caso.

Perché il viaggio è immensamente più bello quando non c'è una destinazione.

Avrebbe lasciato scegliere al caso anche quella e, semmai non avesse trovato la sua fermata, semmai la sua fermata non fosse neanche esistita, avrebbe continuato a godersi il viaggio.

Quel giorno, per lei e solo per lei, il tempo si sarebbe fermato e le avrebbe permesso di lanciare una rapida occhiata alla vita degli altri.

E per la prima volta essere invisibile non sembrava una prospettiva tanto orribile.

Al contrario allettante.

Mise piede su quella metro e si rese conto di non aver mai realmente viaggiato prima.

Perché non avere una meta non significava non avere un obbiettivo.

Perché la sua meta poteva essere qualunque luogo e qualunque persona, ma fu quella donna dai capelli biondi e l'aria di chi ha bisogno di comprare una nuova sveglia perché quella vecchia non fa più il suo dovere.

«Un penny per i suoi pensieri.»





Note:
Ecco a voi il secondo capitolo!
Non ho molto da dirvi se non che spero abbiate colto tutte le analogie con il capitolo precedente e tutte le contraddizioni presenti in questo.
Un grande grazie a chi ha recensito o aggiunto questa storia tra le preferite/seguite/da ricordare. Siete meravigliosi.
Vi ricordo che questo fine settimana io e ManuKaikan pubblicheremo il nuovo capitolo di "Do you remember the time?" e vi lascio i miei account: Facebook, Twitter, Ask.
A presto!

- BB

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


A penny for your thoughts
Capitolo 3





Se fosse stata una situazione normale, probabilmente avrebbe finto di parlare un'altra lingua o di essere sorda.

Se fosse stata Miss Joyce a porle quella domanda, le avrebbe risposto cortesemente, con un sorriso che avrebbe fatto invidia a chiunque.

Poi, durante la notte, avrebbe decapitato Gongolo.

Se la ragazza al suo fianco non avesse avuto la voce più bella che avesse mai ascoltato, avrebbe sputato fuori una risposta sarcastica.

A malapena riuscì a blaterare un: «Mi scusi?» prima di venir abbagliata da un sorriso tanto ampio quanto fuori luogo.

Si tenne per sé anche quella considerazione.

In fondo era davvero un gran bel sorriso.

«Mi sembrava particolarmente assorta.»

«Lo ero.» Rispose con sincerità.

Era sempre sincera con gli sconosciuti. Se non altro, poteva dire che almeno qualcuno conoscesse dei veri aspetti della sua personalità... Per lo meno fino a quando non entrava in scena la curva dell'oblio e il vero volto di Quinn Fabray finiva nel dimenticatoio.

«Sono spiacente di aver interrotto i suoi pensieri.»

«No, non lo è.» Constatò dopo aver studiato l'espressione della ragazza.

«No, non lo sono.»

Sconosciuti e sincerità: vincente accoppiata!

«Sfacciata!» Commentò Quinn in tono apertamente compiaciuto.

«Sincera.» Puntualizzò la ragazza.

«Curiosa.» Giudicò con sufficienza.

«Intraprendente.» Si vantò, correggendola.

«Interessante...» Ebbe l'ardire di lasciarsi sfuggire.

«Prego?»

Bingo!

«Sei interessante.» Ripeté Quinn, senza mostrare la minima titubanza.

«Sei abituata a dare del tu agli sconosciuti?»

«Solo a quelli particolarmente intraprendenti.»

«Touchè.» Concesse, arricciando le labbra e alzando gli occhi al cielo.

Un adorabile sorrisino fece capolino sul viso di Quinn, ma lo contenne stringendo le labbra e Rachel amò all'istante le piccole fossette che presero vita ai lati della sua bocca.

E quella situazione fu improvvisamente scomoda.

Rispondere ad improbabili domande di una sconosciuta con altrettanto improbabili risposte andava bene, fissare senza alcuna apparente ragione era imbarazzante.

«Credi nel destino...»

Quinn si fermò, dando alla sconosciuta l'opportunità di essere la prima conoscente a godere della sua sincerità.

«Rachel!»

E proprio quando credeva che quella voce non potesse essere più bella, aveva pronunciato il suo stesso nome ed era stata contraddetta.

«Rachel... Credi ci sia una sorta di percorso per ognuno di noi, prefissato da una qualche entità superiore?»

«Credo che troppo spesso ci si perda nella ricerca di risposte piuttosto inutili. Non vorrei sembrare impertinente, ma se anche fosse? Seppur esistesse un fatidico piano superiore, questo ci renderebbe realmente meno artefici delle nostre stesse azioni? Trovo che sia una prospettiva triste ed anche alquanto riduttiva.»

«Rachel: sfacciata, curiosa, interessante e logorroica.» Valutò Quinn, guadagnandosi un'occhiataccia ed un ringhio da parte della ragazza. «Ma si tratta di una prospettiva più che intrigante.» Le diede atto.

Un po' perché realmente lo credeva, un po' perché non avrebbe avuto il coraggio di obbiettare.

Per essere una nanerottola sapeva come terrorizzare le persone.

«Sarebbe carino se anche tu ti presentassi.» Le fece notare Rachel, senza preoccuparsi di celare il disappunto nel suo tono.

«Sarebbe carino che questa metro arrivasse con qualche minuto di anticipo, sarebbe carino che tutti coloro che hanno intenzione di entrare nel campo vitale di qualcun altro usassero il deodorante o per lo meno il sapone, sarebbe carino che la mia sveglia suonasse all'ora in cui è programmata per farlo. Persino i tuoi occhi sarebbero carini al momento, se non li stessi usando per incenerirmi.»

Silenzi imbarazzanti: mai provocarli di spontanea volontà.

 «Quinn...» Gliela diede vinta.

«Piacere, Quinn.»

«Pensavo avessimo già superato i convenevoli.» Insinuò con fare pungente.

Grazie a Dio esisteva ancora chi semplicemente ignorava le stupidaggini che era in grado di tirar fuori.

«Perché la domanda sul destino?»
 
«Perché le persone si scelgono.» Spiegò, mentre, ne era certa, il suo sopracciglio sinistro si alzava irrimediabilmente. «Centinaia di volti scorrono davanti ai nostri occhi, marciando verso l'anonimato. Un lago di visi dimenticati, destinato ad ingrandirsi sempre più, fino a quando non entra in scena l'eccezione. Tra tanti volti ce n'è uno che ricorderemo, che scegliamo di voler ricordare. Tu mi hai scelto, volevo essere certa che ne fossi consapevole.»

Una voce robotica annunciò che la fermata di Quinn e, nel silenzio generato dalle sue ultime parole, si alzò, dirigendosi verso le porte.

Non un saluto.

Non uno sguardo.

Non un gesto di cortesia.

«Nulla è così semplice come sembra, né così complicato come crediamo.»

«Come?»

«È quello a cui stavo pensando.»

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Note:
Hey there!
Perdonatemi se ho impiegato un po' troppo tempo a realizzare questo nuovo capitolo, ma la collaborazione con ManuKaikan mi ha risucchiata e non riuscivo a scrivere altro. Spero comunque di aver soddisfatto le aspettative e di non aver deluso nessuno.
Non ho molto da dirvi se non che ringrazio tutti coloro che stanno dimostrando interesse nei confronti di questa... cosa strana che onestamente non so neanche io come classificare. Ovviamente vi invito a farmi sapere cosa ne pensate e bon... Credo sia tutto.
Ci aggiorniamo presto!

- BB

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


A penny for your thoughts
Capitolo 4



Quinn Fabray aveva passato così tanto tempo a credere che l'amore non facesse per lei, ad autoconvincersi di non essere in grado di provare un sentimento simile che, quando l'amore aveva bussato alla sua porta, lei aveva aperto, più perché infastidita dal metaforico rumore del campanello che per altro, e aveva annunciato, spazientita, che non c'era nulla che le servisse.

Alla fine la sua faccia era finita sul retro di un nuovo libro: il terzo.

Quel gruppo di idioti, altresì conosciuti come i suoi editori, erano riusciti a farle pubblicare l'ennesimo libro.

Mesi e mesi di via vai.

Mesi e mesi di mezzi pubblici.

Mesi e mesi alla ricerca di un viso curioso, di una ragazza dal naso troppo grande e dagli evidenti problemi di logorrea.

Se ne era scoperta ossessionata.

Si era sorpresa a guardare oltre i finestrini dei bus, nella debole speranza di riconoscere quella figura nota in una ragazza che camminava sorseggiando un caffè, in una che lasciava qualche dollaro agli artisti di strada, in una che sbraitava contro un taxi che le aveva tagliato la strada.

Talvolta, nella sicurezza di casa sua, aveva tentato di immaginare cosa stesse facendo in quel momento, in che modo occupasse la sua vita, cosa, quel giorno, su quella metro, l'aveva spinta a parlare con lei.

Lei che con le parole, se non scritte, non ci sapeva proprio fare.

Se ne era accorta, più che mai, quando le porte della metro si erano chiuse dietro quella banalità che aveva lasciato come suo ultimo ricordo.

Ci pensava e ci ripensava.

Talvolta si malediceva.

Spesso sbuffava.

All'inizio aveva tentato di correggere quella che stava diventando un'abitudine, se non addirittura un vero e proprio vizio. Aveva mandato tutto al diavolo dopo poche settimane e aveva ammesso a se stessa che sì, quella ricerca, per quanto persa in partenza, la intrigava e la stimolava, e che i vizi contribuivano in massima parte a rendere il saporaccio della vita quantomeno gradevole. Ci volle un po' più di tempo per accettare che si trattasse di un appiglio.

Non la trovò.

In nessun angolo di strada, dietro nessuna vetrina, in nessun corpo, in nessun volto.

E guardare, settimana dopo settimana, il sediolino vuoto accanto al suo fu più difficile.

E fare i conti con quella porta che lei stessa aveva sbattuto fu più difficile.

Realizzò che quella giovane donna, quella Rachel, le aveva dato ciò che le era sempre mancato: uno scopo.

Che ne valesse o meno la pena, quello che Quinn stava provando era l'agrodolce sapore dell'attesa che precede la più instabile delle mete e la sua bocca stava iniziando ad abituarsi ad esso.

Eppure non avrebbe saputo distinguerne l'origine.

Che sapore aveva l'amore?

Sicuramente non di cucina tailandese.

Detestava il cibo tailandese, come detestava il proprietario del ristorante. Probabilmente più di quanto non avesse mai detestato Miss Joyce e i suoi nani da giardino. Nonostante questo, due giorni a settimana, il locale all'angolo teneva prenotato per lei il tavolo accanto alla vetrata.

Non perché fosse sadica. Non più del minimo sindacale quantomeno.

Le piaceva il panorama.

Non esisteva, in città, posto che avesse una vista migliore sul cartellone che pubblicizzava la riapertura di Funny Girl.

Non esisteva, in città, posto che avesse una vista migliore sul volto della nuova, sfacciata, curiosa, interessante e logorroica beniamina di Broadway.



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Note:
Hi guys!
Dunque, credo proprio che il prossimo sarà il capitolo conclusivo, quindi se stavate pensando di festeggiare, questo è il momento opportuno.
Non ho molto altro da dire, ma ci tenevo a fare un'unica precisazione per spiegare soprattutto il cambiamento subito da Quinn: non credo nell'amore a prima vista, sono dell'idea che sia un sentimento da coltivare, ma dal momento che l'intera storia è di per sè un esperimento non credevo avrei mai avuto occasione migliore.
Se avete ancora qualche dubbio non esitate a chiedere su Facebook o su Ask.
Alla prossima!

-BB

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


A penny for your thoughts
Capitolo 5



Rachel Berry aveva passato così tanto tempo ad aspettare il vero amore, ad attendere le farfalle nello stomaco e il fiato rotto dalla passione, che, dopo averne testato una scialba riproduzione, aveva iniziato a credere che avrebbe semplicemente bussato alla sua porta e lei non si sarebbe dovuta preoccupare se non di aprire in tempo con uno sguardo abbastanza carico di emozione.

Alla fine la sua faccia era finita sui cartelloni pubblicitari di tutta New York.

Alla fine il volto di Rachel Berry era diventato il volto di Fanny Brice.

Niente più via vai... Beh, perlomeno niente più mezzi pubblici.

Le avevano messo a disposizione un autista. Non si trattava di una limousine, di “un'auto di lusso” piuttosto, ci teneva a precisarlo.

Non amava ammetterlo, ma le piaceva da matti essere una privilegiata. Se, però, avesse dovuto trovare un aspetto negativo, l'altra faccia della medaglia, quella faccia avrebbe avuto i lineamenti delicati, gli occhi di un colore indefinibile e un sopracciglio davvero, davvero impertinente.

Se ne era scoperta ossessionata.

E si sentiva ridicola quando, ogni volta che il sipario si alzava, sfidava la luce dei riflettori, pretendendo una risposta alle domande che si insinuavano in lei ogni qualvolta abbassava le difese che si ergevano intorno alla sua mente.

L'aveva vista su quei cartelloni?

Si era ricordata di quella donna che aveva giudicato estremamente insolente? Non era sicura che avesse usato quella parola, ma era certa che l'avesse perlomeno pensata.

Era più salita su quella metro? E se sì, si era mai guardata intorno alla ricerca di una figura, di un volto, di lei?

A dirla tutta, non si era nemmeno mai riuscita a spiegare cosa avesse scatenato la sua indole invadente, quel giorno. Ne aveva attribuito la colpa a due labbra troppo rosa per passare inosservate e ad un profumo di camomilla che le era entrato dentro e non era uscito più.

Nemmeno dopo giorni.

Nemmeno dopo settimane.

Nemmeno quando aveva smesso di tormentare la sua coscienza e aveva iniziato ad attribuire la responsabilità di quel breve, stringato, confuso, strano, ma magnifico dialogo allo stesso destino che Quinn aveva menzionato.

D'altra parte, non aveva smesso di cercare.

Non aveva smesso di sperare di essere ricordata.

Non aveva smesso di sperare di essere trovata.

Perché come si può togliere la speranza a qualcuno che ha lottato per i suoi sogni ancor prima di iniziare a parlare?

Sì, Rachel Berry era egocentrica, petulante, talvolta egoista e spesso sgradevole, ma era armata di fede e caparbietà e già troppe volte aveva vinto le sue battaglie per fallire proprio in quel caso.

Se c'era una cosa che non le era mai mancata, era uno scopo.

E amava quell'agrodolce sapore di sfida.

Amava la sensazione dell'adrenalina che le pervadeva il corpo.

Amava prepararsi per quel nuovo viaggio, per quella nuova, instabile meta.

Aveva la valigia pronta da così tanto tempo che aveva persino dimenticato cosa ci fosse dentro.

E quell'incertezza le piaceva.

E quell'incertezza la logorava.

Ma non la uccideva.

Perché come si può togliere la vita a qualcuno che l'ha appena abbracciata?

Terminò di struccarsi e si guardò allo specchio, lasciandosi andare ad un sospiro. Stanco, eppure felice, eppure vivo.

Si chiuse la porta del camerino alle spalle e si strinse nel lungo cappotto mentre percorreva il corridoio che l'avrebbe nuovamente sputata nel caos di quelle strade grigie.

Non aveva programmato di scontrarsi con del verde... e con dell'oro... e con quella tonalità di rosa troppo particolare per passare inosservata.

Aveva programmato di sentire il rumore di nocche che bussavano alla sua porta, aveva programmato di aprire con il migliore dei suoi sorrisi, uno di quelli che a Lima avevano lasciato interdetta più di una persona.

Ciò che non si aspettava era di dover attraversare la soglia di quella porta, uscire, e con davvero poca grazia capitolare tra le braccia di quell'amore che la guardava con un sopracciglio alzato ed un ghigno pronto ad esplodere in un'armoniosa risatina di scherno.

«Credo che tu mi debba un penny, Miss Berry.»


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Note:
Anche se dopo un secolo e mezzo, ecco a voi il capitolo conclusivo di questa mini, mini, ma veramente mini long.
Come il secondo capitolo era strettamente legato al primo da analogie e contrasti, anche questo lo è con il capitolo precedente, ma se qualcosa vi ha lasciati perplessi, vi ha fatto storcere il naso o semplicemente non vi è piaciuta, vi invito a farmelo sapere: ogni commento, che si tratti di una critica o di un complimento, è ben accetto.
Alla prossima!

- BB

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