Alla ricerca del Continente Emerso

di MoneLu1223
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1 - JULIET
 
Un leggero scatto e la porta si aprì. L’aroma di caffè e di brioches appena sfornate furono la prima cosa che sentii non appena misi piede nel locale. A parte un leggero chiacchiericcio sovrastato dal rumore dei jet che di tanto in tanto passavano davanti al posto. Poche persone erano sedute ai tavolini del piccolo bar dove ero appena entrata e pochi si voltarono non appena richiusi la porta.
“Ciao Juliet!”
Tom, il barista sorridente, alto, sulla trentina, smilzo ma dal viso cordiale, mi accolse sorridendomi.
“Il solito?”
“No Tom, oggi preferirei qualcosa di più leggero, ho passato una nottataccia.”
Il barista mi sorrise e si girò dall’altra parte e nel frattempo andai ad accomodarmi su una delle poche poltroncine rimaste libere. Pochi minuti dopo, Tom, si avvicinò a me e mi versò nella tazza un po’ di latte bollente e mi servì un cornetto, poi si sedette di fronte a me.
“Non dovresti stare dietro al bancone e servire i clienti?” lo guardai con aria interrogativa e allo stesso tempo divertita.
“Tranquilla, Alex può farcela benissimo da solo e poi non starò mica qui per l’eternità! Ogni tanto fa bene scambiare quattro chiacchiere con una vecchia amica.” Mi squadrò da sopra a sotto, poi, per qualche secondo, volse la testa dall’altra parte, come se cercasse di scovare qualcuno appostato in silenzio ad origliare . Tom aveva sempre avuto un debole per me e sapevo che, qualunque cosa gli avessi detto, non l’avrebbe mai rivelata a nessuno. Avevo dieci anni quando ho conosciuto Tom, ero appena arrivata a Tentown. Il lavoro dei miei genitori non lasciava scampo: eravamo costretti a trasferirci spesso. Ma quando ci trasferimmo qui avemmo fortuna: papà finalmente trovò un posto fisso. Conobbi Tom a scuola. All’inizio non mi stava molto simpatico, ma col tempo scoprimmo di avere un sacco di cose in comune. Fu allora che legammo parecchio. Quando lasciammo il liceo le nostre strade si divisero per un bel po’ di anni, fino a qualche tempo dopo: quando lo trovai per la prima volta a lavorare nello stesso bar in cui andai quel giorno. Era il 20 febbraio del 3427 e, nella mattina del mio incontro con Tom al Bar, eravamo già entrati nel mese di giugno, quindi non era passato che qualche mese da quella volta. Da allora andai spesso lì e, essendo l’unica persona di cui mi fidavo ciecamente, quando avevo bisogno di parlare con qualcuno mi rivolgevo esclusivamente a lui.
“Allora, come procede il lavoro?”
“Quale dei due intendi?” lo guardai divertita, mentre lui si faceva più serio.
Lavoravo part-time in un grande centro commerciale, ma questo faceva parte della solita, noiosa e monotona vita normale. No, avevo anche cose ben più importanti da fare. Per anni avevo lavorato in uno studio nella High Street, in una società chiamata SoF. Lì facevo le mie ricerche, raccoglievo informazioni ed esponevo le mie tesi, con l’aiuto di alcuni colleghi, si intende. Ma l’ultimo argomento delle mie ricerche sembrava averli lasciati perplessi e sin da subito si erano mostrati poco volenterosi nello svolgere il loro lavoro. Alcune volte arrivai persino a pensare che mi ritenessero fuori di testa per quella faccenda, ma loro sapevano che per nulla al mondo avrei rinunciato a tutto quello e quindi, se pur di malavoglia, mi aiutarono.
“Lo sai bene di quale parlo, Juliet.” Notai un ombra passare sul suo viso. “A che punto sono le ricerche?”
“A buon punto” mentii.
Non avevo mai detto a Tom delle avversioni che i miei colleghi avevano verso questo programma ed ero sicura che sarebbe rimasto deluso se gli avessi detto che le cose non procedevano bene. Alle volte detestavo i miei colleghi, soprattutto quando cercavano di farmi capire che tutto quello che facevo era solo una follia e che da quel progetto non avremmo ricavato niente. Io ero sicura di quello che facevo.
“Sono contento.” fece lui increspando un sorriso e sorseggiando dalla sua tazza tenendo lo sguardo sul mio volto.
“Non mi hai ancora detto come mai hai avuto una nottataccia.” osservò lui, scrutando il mio viso. “Sembri stanca e il tuo viso è pallido, c’è qualcosa che non va?”
“Niente di grave, sono stata sveglia tutta la notte per preparare la sintesi dei dati.” Ancora una volta dovetti mentirgli e la cosa non mi piaceva, ma non volevo che si preoccupasse troppo. Evidentemente lui lo capì, perché mi disse: “C’è qualcosa che non mi hai detto, Juliet? Sai che a me puoi dire qualsiasi cosa.”
“Niente, niente.” presi in fretta la tazza da sopra al tavolino e sorseggiai il mio latte. Lui mi guardò cupo, ancora una volta aveva capito che mentivo.
“Ne sei proprio sicura?” fece ancora lui con fare inquisitorio.
“Sicurissima.” ribattei secca ma allo stesso tempo con un po’ di senso di colpa nella voce.
Il suo sguardo preoccupato si sciolse in un piccolo sorriso.
“Ehi, Alex, perché non porti dell’altro latte? O preferisci bere un The ora?” disse rivolgendosi a me.
“Va benissimo un’altra tazza di latte, grazie.”
“Come vanno gli affari nel centro commerciale?”
“Benissimo!” gli dissi, lieta di poter finalmente cambiare argomento.
“Gli affari vanno a gonfie vele e stiamo guadagnando tantissimo!”.
Tom fece una piccola smorfia e ,ancora una volta, il suo sguardo si incupì. “ Qui le cose non vanno molto bene, come vedi.” e accennò alla parte vuota del locale. “Penso che presto saremo costretti a chiudere se la gente diminuisce ancora.”
Lo guardai tristemente, ma poi mi venne un idea: “Magari, se le cose non dovessero andare bene, posso parlare con la direttrice del centro commerciale perché assuma sia te che il ragazzo.”
il mio sguardo si spostò da Alex al volto di Tom, ora un po’ più sereno.
“Sei davvero molto gentile, grazie dell’offerta.” Sul suo viso comparve un sorrisetto. “Non molti si sarebbero preoccupati quanto te di farmi trovare un altro lavoro” era come se lo dicesse più a se stesso che a me. “Sai, non è più come prima. Dopo che ho finito l’università ho perso i contatti con tutti i miei compagni e mi sembra di non avere loro notizie da secoli ormai. E così sono dovuto andare in cerca di un lavoro tutto solo. Finché non vidi un annuncio vicino alla porta di questo bar dove si diceva che stavano cercando un barista e così eccomi qui. All’inizio, quando c’era il vero padrone, il locale era più florido. Ma dopo il suo incidente…” .
Il suo racconto venne interrotto da un leggero scatto alla porta, qualcuno era entrato. Un uomo alto, corpulento, dai capelli biondi e gli occhi scuri si stagliava sulla porta. Il suo viso sembrava tutt’altro che amichevole a primo impatto. Sembrava una di quelle persone che sarebbe stato meglio non contrariare. Tom si girò per vedere chi era entrato, poi abbozzò un sorriso.
“Jake, amico mio!” il barista si alzò in piedi e diede calorosamente il benvenuto al nuovo invitato, questi invece non fece altro che guardarsi attorno, indifferente. “Vieni a sederti con me, c’è una persona che vorrei farti conoscere!” dopodiché ordinò al ragazzo di servire una bottiglia di Whiskey all’uomo.
Ecco, pensai. Spero che sia più simpatico di quanto sembra. L’uomo si sedette davanti a me e, ancora una volta, si guardò attorno, squadrando chiunque nella stanza. Lo guardai nervosa e, inaspettatamente, questo si girò verso di me, guardandomi torvo.
“Lui è Jake.” presentò Tom, “Jake, lei è Juliet.”
“Piacere!”
L’uomo strinse la mia mano, ma non parlò. Fu Tom a parlare per lui e per me.
“Sai Jake…” disse Tom abbassando di netto la voce così che solo noi tre potessimo sentire.
“Tu e Juliet avete gli stessi interessi, a quanto ho capito.”
Lo guardai interrogativa. Tom, per tutta risposta, mi fece un occhiolino.
“Jake, Juliet sta lavorando al tuo stesso progetto da un po’. E sembra che abbia bisogno di una mano.”
Lo guardai con aria colpevole, allora aveva capito che le cose non stavano andando troppo bene. Mi lasciò spiazzata. Come diamine aveva fatto a capire che non avevo fatto progressi? Ma la cosa che mi colpì di più fu che un’altra persona stesse lavorando sul mio stesso progetto. D’un tratto lo vidi guardarmi con crescente curiosità.
“Davvero?” per la prima volta nell’arco di quella conversazione sentii la profonda voce dell’uomo.
“Davvero!” gli risposi io di rimando.
“ E… hai trovato qualcosa di interessante?”
In quello stesso istante capii di avere l’attenzione dell’uomo tutta per me.
“Qualcosa. Ma niente di rilevante, ancora. Tu?”
“Anche io ho trovato qualcosa. Potremmo lavorare insieme, se lo desideri, Juliet.” Una mano in più era esattamente ciò che mi serviva . Quindi, allora, non solo avrei avuto una mano nelle ricerche ma avrei finalmente avuto qualcuno che mi sosteneva per davvero. Qualcuno, che credeva in tutto quello in cui credevo io. “Certo che lo desidero!” dissi con un po’ di entusiasmo in più di quello che ci avrebbe messo una persona in condizioni normali.
Vidi per la prima volta accennare un piccolo sorriso sul volto dell’uomo.
“Sarò onorato di lavorare con te.” disse.
“Una cosa, però. Vorrei escludere tutte le persone che mi hanno aiutata nel progetto sin ora. Queste persone non credono in quello che crediamo noi e quindi sarebbero solo d’intralcio al nostro lavoro.”
“Di chi stai parlando?” l’uomo parve ancora più incuriosito.
“Della cerchia di scienziati e analisti che hanno lavorato al progetto con me.”
Ma prima che l’individuo potesse fare qualche altra domanda continuai a spiegare: “Lavoro in un ufficio nella High Street con queste persone, non mi hanno aiutata molto fino ad ora ed è questo il motivo per cui preferirei escluderle.”
L’uomo parve capire.
“Allora ci rivedremo presto?” mentre si stava alzando, Jake, mi guardò per un attimo e poi mi disse:
“Ho degli impegni oltre al lavoro che svolgi anche tu, sono un architetto.”
“Fantastico, anche io ho un altro lavoro! Lavoro nel centro commerciale in Hill Road. Quindi dovremmo metterci d’accordo sugli orari di ritrovo!”
“Allora non c’è bisogno che tu venga a cercarmi, verrò a trovarti io lì se ce ne sarà bisogno.”
Con un ultimo cenno, salutò me e congedò Tom e uscì fuori dalla porta.






*ANGOLO DELLO SCRITTORE*
Ciao a tutti! Questo è il primo capitolo della nostra storia “Alla ricerca del Continente Emerso”! Esatto, nostra, perché per creare quello che leggerete sono state ben quattro mani: io, Mone, ho scritto i capitoli pari, dove il POV è di Jake, mentre Lu si è occupata di quelli dispari, prendendo la voce di Juliet! Beh, che dire: siamo entrambi appassionati dal mondo dello scrivere e questa è stata la nostra prima opera. Ci siamo impegnati e sappiamo che impareremo a migliorare sempre! Perciò chiediamo a voi di comunicarci le vostre opinioni, farci sapere se la nostra storia vi piace, se ci sono falle nella trama o quant’altro! Grazie per l’attenzione!
Mone

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2 – JAKE


La mattina mi alzai alla solita ora, le 6:08 precise, mangiai tre fette biscottate preparate da Greta, la mia domestica, mi lavai e mi vestii con dei jeans, una camicia bianca e un maglioncino scuro con sopra raffigurato un motivo che ricordava l'intersecarsi di piccoli rombi rossi.
Prima di uscire sfogliai il giornale (il local news) che Greta mi aveva fatto trovare sul tavolo. Lessi le principali notizie come: “‘Gruppo ambientalista mira all'abolizione dell'High Skyrider, il grattacielo di 320 piani” e ‘”il profilo pittoresco di Tentown irrimediabilmente rovinato dall'High Skyrider.”  In parte mi ferirono: sono io l'architetto di quel palazzo.  E a questa città quello che serviva era proprio un grattacielo che poteva ospitare una gran quantità di persone. C'era il sovraffollamento delle case e delle strade già da un po' di anni e il palazzo era da costruire. Al diavolo gli ambientalisti! Riuscivano sempre a farmi venire i sensi di colpa. D'altronde sei miliardi di persone in uno spazio ristretto di 8 milioni di chilometri quadrati non era uno scherzo. Bisogna costruire in altezza se non si può in larghezza, cari i miei ambientalisti. Che vengano loro a fare il mio lavoro.
"Sta bene, signor Anderson?" interloquì una voce grossa e femminile.
Mi voltai e vidi il donnone che era Greta.
"La vedo un po' stressato. Domani preferisce non ricevere il giornale?"
"Me lo dia, me lo dia. Me lo porti sempre che tanto ormai non ha più importanza. Tra pochi giorni quel grattacielo compie un anno e sarebbe da stupidi buttarlo giù: la sua funzione è troppo importante e la commissione delle costruzioni lo sa fin troppo bene."
"Come preferisce, signore." Concluse Greta, e si allontanò in un'altra stanza.
Caspita, pensai. Siamo nel 3427 e ci sono ancora delle menti così ottuse. Scommetto che neanche gli uomini di prima erano così oppressivi, e loro sì che erano antichi. Molte volte mi domando cosa sarebbe successo a noi se nel 2097 non ci fosse stato il disastro con l'antimateria in America e in… in… com'è che si chiamava? Ah sì, Russia. Quelle mediocri potenze che facevano le grandi e non avevano capito in che pericolo si stavano ficcando. Ringrazio il cielo che le basi militari erano lontane dal Continente Alfa, in cui tutti abitiamo adesso. I superstiti si sono rifugiati qui e hanno continuato a crescere in numero fino a rendere questa terra una tana di un topo. Per questo gli ambientalisti mi devono ringraziare! Do loro una casa e questi la vogliono abbattere. Pazzesco!
"Signore…"
"Greta! Vuoi lasciarmi in pace?!"
"Mi scusi, ma…"
"Greta, vattene! Ho già abbastanza grilli per la testa oggi. Mi lasci riflettere un altro po'! Tanto il jet è alle 7:30. Che ore sono?"
"Le 7:28, signore."
"Cosa?! Greta! Perché non mi hai avvisato prima?! Va be’, fa niente, non tentare di giustificarti. Devo correre a prendere il jet prima che parta. A stasera, Greta!"
"Arrivederci, signore." Rispose lei, reprimendo a stento una piccola risata.
 
Scesi usando l'ascensore, e in pochi secondi fui dal piano 120 al piano terra. Uscii di corsa, presi in mano il biglietto con cui sarei potuto salire sul mezzo e guardai l'orologio. 7:30. Rallentai. Il jet era perso e non sarei mai arrivato al lavoro in tempo. Me la presi con Greta, tanto per avere un capro espiatorio.
Poi con un rombo assordante una ragazza in motojet inchiodò proprio di fronte a me. Aveva il casco, così non la potei riconoscere.
"Jake?" mi chiese.
"Scusa. Ci conosciamo?" risposi.
"Dimentichi sempre le persone così in fretta?" disse, e nel frattempo alzò la visiera.
"Oh, scusami. Non ti avevo riconosciuta. Ciao Juliet."
"Sbaglio o il tuo jet è partito un paio di minuti fa?"
"Sì, ma come fai a saperlo?"
"Hai un biglietto in mano, e il jet passa solo ogni trenta minuti."
"Perspicace." Accennai ad un sorriso.
"Vuoi un passaggio?"
"Su quel coso?! Preferisco farmela a piedi."
"Sono almeno quaranta chilometri. A piedi non arriveresti mai. Dai, monta su! Tanto andiamo dalla stessa parte."
Scrutai il motojet. Analizzai le possibili alternative.
"Vada per il passaggio, ma vai piano."
"Prendi il casco e stai tranquillo, Jake."
Lo infilai, salii dietro di lei e partimmo. Le cinsi la vita con entrambe le braccia e non pensai ad altro se non a tenermi saldo. Soltanto in seguito mi sarei accorto di avere creato una situazione piuttosto imbarazzante.
Mentre mi guardavo in giro notai più volte l'High Skyrider stagliarsi solo contro l'intera città e il cielo stesso. Provai un brivido di piacere.
Gli altri edifici erano molto alti ma nessuno poteva eguagliare il mio progetto. Persino la grande associazione in cui lavoravo arrivava sì e no ai tre quarti dell'altezza complessiva del palazzo.
Saliva a cilindro diventando sempre più sottile e terminava con un enorme disco. Era il massimo del design e della sofisticatezza.
"Siamo quasi arrivati."
Mi guardai intorno e constatai che aveva ragione. In lontananza si intravedeva il SoF, la nostra società.
"Abbiamo fatto veloce."
Arrivammo all'edificio. Juliet parcheggiò il motojet, mi fece scendere, mi tolsi il casco e poi scese anche lei. Se lo tolse, lasciando cadere i capelli corvini sulle spalle. Gli occhi erano di una particolare tonalità di verde, una tonalità che riusciva a mettermi a disagio. Erano troppo… puri.
Ci avvicinammo al portone automatico. Una voce metallica chiese di avvicinarsi ad un sensore posto in parte alla grande porta. Prima fece Juliet, poi toccò a me. Andai di fronte allo scanner dell'iride, che impiegò una manciata di secondi per identificarmi. "Buongiorno, signor Jake Anderson."
Le porte automatiche si aprirono e noi due entrammo. Ci trovammo in un grande salone (tutto metallico) affollato: una moltitudine di persone si muoveva avanti e indietro alla ricerca del proprio ufficio mentre sul soffitto volteggiavano dei piccoli marchingegni costruiti con l'intento di portare messaggi ai propri colleghi.
Ai lati del salone c'erano due lunghe rampe di scale che conducevano ai piani superiori.
"Dov'è il tuo ufficio?" mi chiese lei.
"Scale a destra, secondo piano."
"Io sono al piano terra.  Ci vediamo Jake! Buona giornata!"
"Buona giornata anche a te. Ti avviso dopo per gli impegni riguardo alla ricerca del vecchio continente americano." risposi, e presi le scale.
Salii i due piani e imboccai la via per arrivare al mio ufficio. Stranamente la porta era aperta. Guardai dentro con circospezione e trovai il mio capo, il signor Voltaire.
"Salve Anderson." esordì lui.
"Buongiorno, signore."
"Le comunico che oggi è il suo giorno fortunato."
La cosa mi preoccupò non poco. Voltaire era famoso per i suoi ‘‘giorni fortunati’. Una volta aveva mandato un dipendente a vivere con delle mucche per una settimana, per capire se il latte che beveva la mattina era prodotto da animali sani e trattati bene. E aveva avuto il coraggio di chiamare questo come una ‘‘promozione’.
"Ha presente le ultime ricerche che sta svolgendo?"
"Come potrei non…"
"Bene. Per i prossimi due mesi andrà a lavorare sul territorio."
La cosa mi suonò strana. Io studiavo la terra che mille anni fa era chiamata America. Era sparito quel continente, immerso dalle acque, spazzato via dai cataclismi.
"Come scusi?"
"Abbiamo motivo di ritenere che il continente in questione non sia completamente, come dire, morto. Abbiamo mandato un superspace a fare un esperimento nel pacifico e l'aereo si è spinto troppo in là. I piloti hanno affermato di aver visto della terra, una vera parte del continente emerso."
La notizia mi colpì come uno schiaffo in faccia. Mi aprì una nuova ottica di ricerca. Studiare sul campo, sul territorio americano. Avrei visto le rovine. I resti degli uomini di prima. E chissà cos'altro.
"Non sta scherzando, vero?" gli chiesi.
"No, Anderson. E le buone notizie non finiscono qui. Può portare con sé un dipendente della società. Lascio scegliere a lei perché saprà meglio di me chi è più qualificato per questo ruolo."
Non era vero. Non avrei scelto io perché non conoscevo nessuno della mia impresa. Ero sempre fuori sede per ‘collaudare progetti ad alto rischio di pericolo.
"Deve darmi ora il nome. È poco preavviso ma non possiamo permetterci di perdere tempo. "
Chi portare? Tanti miei colleghi sembravano appassionarsi alle mie ricerche ma nessuno di loro aveva negli occhi quella scintilla che avevo trovato in Juliet. Quel luccichio benevolo e curioso si addiceva ad un vero scienziato, sempre pronto a fare nuove scoperte"
"Tra una settimana partirà. Ci pensi bene e mi faccia sapere." continuò lui.
"Ho deciso chi portare."
"Bene, mi faccia trovare un biglietto col nome sulla mia scrivania."
"Assolutamente, signore. Grazie per l'opportunità che mi sta offrendo."
"Si figuri. Se la merita. Ha lavorato molto per quest'azienda. È ora che siamo noi a fare qualcosa per lei." Detto questo, uscì.
Saltai tre volte sul posto. Quasi mi venne da piangere. Era il sogno di una vita. Ma che sogno?! Un'utopia! Non potevo crederci. Stavo per partire per il continente emerso.







*ANGOLO DELLO SCRITTORE*
Ciao lettori, sono Mone. Questo è il mio primo capitolo e sinceramente non ne sono molto convinto. Avete presente quando si parla di esordi esplosivi? Ecco, bene, questo non ci si avvicina per niente. Diciamo che miglioro col tempo e che i capitoli successivi (in particolare dalla metà in poi) sono di gran lunga migliori.
Come al solito, vi chiedo di recensire la storia, facendoci sapere i vostri giudizi e le vostre critiche! Grazie a tutti!
Mone

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3 - JULIET
 
 
Lasciai Jake nell’immensa Hall dell’edificio e mi diressi nel mio ufficio al pianterreno. Ma appena mi avvicinai alla porta del mio studio vidi che questa era socchiusa. Mi ritrassi per qualche secondo, non ricordavo di aver lasciato incustodita la mia postazione di lavoro. Ma poi pensai che forse era stato quell’ idiota di Albert, doveva essersi dimenticato di chiudere la porta della stanza prima di andarsene. Sì, pensai, forse era proprio così che era andata. Ma mi sbagliavo. Una voce familiare mi invitò ad entrare.
“Entri signorina Rose, prego, si accomodi.”
Un uomo corpulento, con i baffi da tricheco, quasi senza collo e dal cipiglio severo era seduto dove di solito prendevo posto io. Lo riconobbi non appena spalancai la porta: era il mio capo, il signor Smith. Di solito le sue visite non promettevano nulla di buono, e come poteva non essere altrimenti, dato che il mio dipartimento era quello dedicato agli incidenti? Ma il posto sembrava tranquillo e se fosse successo qualcosa l’avrei saputo non appena avessi messo piede qui. La ragione doveva essere per forza un’altra. La sua richiesta di accomodarmi nel mio stesso ufficio mi sembrava buffa, se non strana addirittura. Detta da lui, poi. C’era un motivo se lo chiamavano ‘Smith il grigio’ . Le sue notizie non erano mai quello che si definisce piacevoli e questo gli conferiva un’austerità quasi innaturale. Mi accomodai nella poltrona di fronte alla scrivania e mi guardai in giro, l’ufficio era completamente vuoto e gli unici rumori presenti nella stanza erano i bip sommessi dell’orologio elettronico e il lavorare febbrile del computer, ma non c’era alcuna traccia dei miei colleghi. Quasi come se mi leggesse nel pensiero il signor Smith disse:
 “Non si preoccupi per i suoi collaboratori, li ho mandati al bar più vicino a far colazione. Torneranno tra non meno di mezz’ora , giusto il tempo di fare una chiacchierata veloce.”
 Lo guardai con aria interrogativa per qualche minuto, fino a ché, il grigio, non si decise a parlare. 
“Vede signorina Rose…” e si sporse in avanti per guardarmi dritto negli occhi. “Ho appena saputo dal mio collega, il signor Voltaire, capo del dipartimento di progettazione, che un suo dipendente lavora allo stesso progetto a cui sta lavorando lei da tempo . Ha capito di quale progetto sto parlando, non è vero?” .
Accennai un leggero sì con la testa, ero momentaneamente sorpresa. Come poteva, un uomo come Smith, interessarsi ad un progetto come il mio? Ma la cosa non m’interessava più di tanto, ciò che volevo sapere era il perché si era spinto ad arrivare sin lì per parlarmi di quel progetto. Ma non dovetti attendere molto, prima che le sue intenzioni si facessero più chiare.
“Il signor Jake Anderson, sono sicura che si ricorderà di lui perché vi ho visti scambiarvi qualche parola mentre eravate nell’ingresso, come ben sa, lavora nel suo stesso campo da qualche mese.”
 Lasciò passare qualche istante prima di proseguire, come se volesse vedere l’effetto sortito dalle sue parole comparire sul mio volto. Ma restai impassibile, lo sguardo concentrato solo su lui. Ma come faceva a sapere della mia chiacchierata al bar con Jake? Che sciocca, pensai: per qualche momento avevo dimenticato che Smith veniva sempre a sapere tutto, in un modo o nell’altro. Era perfino più informato del Local News ed era la fonte più affidabile in assoluto. Nessuno aveva mai saputo tutto quello di cui era al corrente lui.
“E il signor Voltaire…” disse, guardandomi in viso “Ha offerto al signor Anderson la possibilità di andare a lavorare sul posto su cui entrambi state svolgendo le vostre ricerche.”
Fece passare ancora qualche altro istante prima di aprire nuovamente la bocca. “Voltaire sostiene che i suoi abbiano visto una parte dell’antico continente americano che non è stata sommersa dall’acqua o distrutta dopo il disastro del 2097. Ora si starà chiedendo del perché io le stia dicendo tutto questo. Il signor Voltaire non vuole che il signor Anderson vada da solo.”
Qui sembrò soppesare le parole che stava per dire mentre la curiosità cominciava a divorarmi. Era una delle caratteristiche principali di quell’uomo: era capace di suscitare negli altri una curiosità così grande da non potergli staccare gli occhi di dosso per un momento quando stava per dirti qualcosa di importante.
“Così…” e qui mi squadrò da sopra a sotto “Ho pensato che chi meglio di lei avrebbe potuto dare una mano al signor Anderson in questa impresa?”
 Lo guardai sorpresa per un attimo, fu come se un secchio di acqua gelida mi fosse caduto addosso, portandomi alla realtà. Io? Vedere le rovine del vecchio continente? Per un attimo pensai di star sognando, così per sicurezza mi tirai un pizzicotto sul braccio. Mi feci un po’ male, ma almeno sapevo di non star immaginando tutto.
“Cosa c’è signorina Rose, le sembra che stia scherzando? Le posso assicurare che tutto questo è reale.” l’uomo pareva divertito.
“No, signore, è solo che… Speravo da tanto che accadesse una cosa del genere e ora che sta per succedere non posso crederci, davvero.” le parole mi uscirono dalla bocca tutte d’un fiato. L’uomo accennò un sorriso. Era strano, in un certo senso, vederlo sorridere, aveva sempre avuto un aria così seria tutte le volte che l’avevo visto nelle varie conferenze o nelle riunioni con i membri del dipartimento. Ma gli donava, dopotutto. Lo faceva sembrare più …simpatico, se così si può dire.
“Allora, Rose, vuole avventurarsi con il signor Anderson in questo pericoloso viaggio?” me lo chiese quasi come se avesse saputo sin dall’inizio la risposta che gli avrei dato.
“Certo, signore. Sarò onorata di far compagnia al signor Anderson in questa avventura.”
Mi fissò ancora per un attimo, poi disse:
“Se questa è la sua ultima parola, temo che per me sia ora di andare.”
Si alzò dalla sedia e accennò un saluto.
“A rivederla, signorina Rose”
“A rivederla, signore.” 
Non appena fu uscito dalla porta mi affacciai alla finestra. Stavo davvero per andare in America. O almeno, in quello che di essa ne era rimasto. D’ un tratto la porta si aprì di nuovo ed entrarono i miei colleghi ora intenti ad accendere i vari macchinari. “Cosa voleva da te il signor Smith, Juliet?” indagò Jhon.
“Hai presente il progetto su cui stiamo lavorando? Quello!” gli risposi con voce concitata.
“Ti ha forse detto che devi smetterla di sognare ad occhi aperti e lavorare di più sui fatti reali?” mi schernì Albert.
“Affatto. Indovina un po’? Partirò per l’America! Ah, non credo che ci sia più bisogno di voi, ci andrò con il signor Anderson. Inizialmente l’incarico era stato affidato a lui, ma vogliono che qualcuno lo accompagni in questa ‘impresa’ e chi meglio di me può aiutarlo?”
 “Stai scherzando, spero.” la voce di Jhon tremava un po’.
“Per nulla”, lo guardai in tralice. Lui rimase sbigottito.
Le ore nell’ufficio passarono lente e io non vedevo l’ora di andarmene e di incontrare di nuovo Jake, volevo saperne di più sui dettagli del viaggio. Alle 13 in punto uscii dal mio ufficio per la pausa pranzo, fu allora che lo rividi. Lo salutai con la mano e lui mi fece cenno di avvicinarmi. Mi sedetti sulla panchina accanto a lui. “Devo parlarti.” mi disse con crescente eccitazione, ma intuii già cosa stesse per dirmi.  “Stamattina, il signor Voltaire è venuto nel mio ufficio e abbiamo parlato  del nostro progetto e…vuole che parta per l’ America. Ma non da solo.” si affrettò ad aggiungere. “Così ho pensato che tu potevi venire con me, se lo vuoi, ovviamente.” Lo guardai divertita per un attimo e poi gli dissi:
“Credo che il mio capo ti abbia battuto sul tempo. Stamattina è venuto a farmi visita in ufficio e mi ha proposto di partire con te.”
 Lui rimase un attimo in silenzio, come inebetito.
“E tu..?” mi chiese con fare indagatorio.
“Ho accettato!” glielo dissi come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo.
Vidi comparire un piccolo sorriso sul suo volto e io gli sorrisi a mia volta.
“Sai qualcosa di più che io non so, su questo viaggio?” chiesi.
“Non so se ti hanno detto che partiremo la prossima settimana”
“Come?” stavolta fui io a rimanere inebetita.
Una settimana?Pensai. Così poco? Come avremmo potuto prepararci al meglio in una settimana? Quindi, allora, l’unica cosa da fare era darsi una mossa e cominciare a lavorare sodo. Jake sembrò intuire i miei pensieri perché mi disse:
“Vedrai, ce la faremo. Andrà tutto bene.”
Ancora una volta mi ritrovai a sorridergli.
“Che ne dici se stasera vieni a cena da me, Jake? Così cominciamo ad organizzare qualcosa, a mettere insieme i pezzi delle varie ricerche e fare una sintesi accurata dei dati. Allora, che ne dici? Ci stai?”
 Lui parve rifletterci un attimo su.
"Vedremo, non ne sono sicuro. Ti farò sapere se ho intenzione di venire."
Accennai un sì con la testa, lo salutai, poi lo lasciai seduto sulla panchina e io me ne tornai al mio lavoro. Mi aspettavano ancora lunghe ore di fatica, ma il solo pensiero del viaggio mi rendeva felice.
 
 
 
Ehilà! Qui è Lu che parla. Essendo questo uno dei miei primi capitoli, forse non è dei migliori! Andando più in là con i capitoli miglioro un pochettino, ma se avete dei suggerimenti o delle critiche, sono prontissima ad accogliere le vostre parole!
Buona lettura a tutti quanti!:)
Lu :)

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4 - JAKE
 
Arrivai a casa verso sera, dopo aver terminato alcune pratiche che dovevo chiudere prima della partenza. In giornata era venuto nel mio ufficio Voltaire accompagnato da un uomo grassoccio che si era presentato come il signor Smith. Il primo a parlare fu il mio capo.
“Anderson, le presento il signor Smith. È il capo della signorina Juliet Rose.”
Rose? Il cognome mi suonava familiare.
“Lieto di fare la sua conoscenza.” interloquì lui.
“Piacere mio, signore. A cosa devo la vostra visita?” gli risposi.
“Essendo lei il coordinatore dell’esperimento, volevamo spiegarle come procederà il tutto. Non ci metteremo più di venti minuti ma esigiamo la sua più completa attenzione.”
“Iniziate pure.”
“Bene. Per prima cosa tra sette giorni avverrà la partenza, ci troveremo al porto di Sunair. Per quanto riguarda il mezzo con cui giungerete in America, che da ora chiameremo Continente Beta, eravamo indecisi sul darvi un superspace o il watercastle. Il primo vi offre rapidità e sicurezza, mentre il secondo è più lento, ma avendo una maggiore superficie è più propenso al trasporto dei macchinari che vi fornirà la società e dei campioni che troverete sul luogo.
“La fortezza galleggiante è dotata di un grande laboratorio, oltre che ai normali macchinari che chiunque ha in casa. Sulla struttura, oltre a voi due, sarà presente ogni sorta di macchinari. I più banali si occuperanno della pulizia, mentre i più efficienti saranno in grado di trovare i luoghi sicuri nel continente.
“Potrete portare tutto ciò che volete, però ricordate che nel Continente Beta dovrete utilizzare solo apposite tute e cercapersone che vi saranno dati in seguito.
“Nel primo sopralluogo, la fortezza dovrà essere lasciata almeno a tre kilometri di distanza. Manderete Y5, una sonda, a perlustrare il territorio per voi. Solo al suo ‘ok’ potrete avvicinarvi fino ad un kilometro. In seguito, per giungere sulla costa userete un piccolo jet che vi faremo trovare all’ultimo piano del watercastle.
“Non dovete preoccuparvi di cibo, bevande o vestiti da indossare sulla fortezza: tutto sarà pronto per la data di partenza.
“L’operazione durerà due mesi, o almeno così speriamo. Attenendoci al protocollo non dovreste incontrare alcun tipo di difficoltà. I pericoli ipotizzabili saranno evitabili grazie alle apparecchiature che avrete a bordo.
“Ricordate che l’obiettivo primario è salvaguardare il watercastle. In caso di imprevisti la fortezza è tutto ciò che vi può salvare.
“Ho dimenticato qualcosa?” concluse Smith, rivolto a Voltaire.
“Solo che abbiamo inviato una squadra di ricerca per verificare l’effettiva esistenza del Continente Beta. Saranno di ritorno tra non molto.
“Tutto chiaro, Anderson?”
Posai in quel momento la matita. Aveva scritto ogni cosa. “Tutto chiaro, signore.”
“Bene, si occupi lei di informare la signorina Rose.”
Poi se ne andarono, io terminai le pratiche e uscii. Presi il jet e arrivai a casa. Ad accogliermi trovai Greta.
“Buonasera, signor Jake. Ha passato una buona giornata?”
Le corsi incontro e l’abbracciai. Saltellammo per qualche secondo, poi riuscii a ricompormi.
“Mi chiedi se ho passato una buona giornata?! Non potrai mai indovinare che…”
“Partirà per il continente emerso, signore?”
La guardai stupito. “E lei…”
“Ha appena telefonato una certa signorina Juliet per chiedermi una conferma alla cena di stasera e ci siamo messe a chiacchierare. All’inizio non potevo crederci, ma poi ho capito che non mi stava prendendo in giro!”
“Sì, Greta, è tutto vero!”
“È fantastico, signore!”
“Lo so, lo so!” trattenni una risata di gioia “comunque per la cena, dai pure la conferma”
“Sarà fatto. Lei vada a prepararsi.”
Abbracciai nuovamente Greta, poi andai in camera mia. Mi tolsi i vestiti, prestando particolare attenzione al maglione scuro, un ricordo di mio padre. Accesi l’acqua della doccia ed entrai dopo un paio di minuti. Amavo stare lì dentro. L’acqua calda che accarezza la pelle, il vapore che annebbia la vista, il tepore che ti solletica, ma soprattutto il tempo per pensare.
Stavo per andare in America, nel continente emerso o Continente Beta, comunque si voglia chiamare. Era il sogno di una vita.
Fin da piccolo ero sempre stato interessato alla Grande Guerra e agli usi e costumi degli uomini di prima. In storia ho sempre preso il massimo di voti e fino a qualche anno fa ero sicuro che avrei intrapreso una strada che mi avrebbe portato all’archeologia, ma, sfortunatamente, per mio padre non sarebbe stato abbastanza remunerativo. Così mi dovetti iscrivere ad una facoltà di architettura avanzata. Non che mi dispiacesse, ma tutto ciò che riguardava quello che era successo prima mi affascinava come nient’altro. La storia ci narra, ci spiega, ci fa capire quello che esisteva e che ha portato ai giorni nostri. Sapere la storia, conoscerla in ogni dettaglio avrebbe fatto di me una persona migliore: una delle cose che ho imparato è che la storia si ripete, si ripete all’infinito.
Diventare un potente leader, sapere in anticipo le mosse degli avversari, sventare i loro piani sul nascere. Tutto questo studiando e leggendo. I motivi delle guerre non sono mai differenti. Si cerca sempre qualcosa: denaro per finanziare la manodopera, miniere per ottenere metalli e pietre preziose, territori per dar casa alla popolazione in continua espansione. Sarebbe bastato analizzare qualche dato e i problemi sarebbero saltati fuori.
O almeno così credevo da ragazzo.
Ora comprendo quanto può essere difficile analizzare e dedurre le cause e le conseguenze, ma in cuor mio posso ancora sperare che la storia non sia perdita un tempo, anzi, seppur in piccola parte, possa aiutare gli uomini a comprendere i propri errori.
Fatto sta che mi laureai in architettura e lavorai come architetto per una decina d’anni. Progettai e costruii palazzi, tra i quali figura anche l’High Skyrider, la mia più grande opera.
Tre anni fa, però, il mio attuale capo, Voltaire, mi venne a trovare nel mio ufficio e mi chiese di lavorare per lui, in quanto aveva saputo delle mie doti nel campo storico. Mi disse che avremmo potuto fare grandi cose, e scherzò anche sulla possibilità di vedere l’America.
E ora l’occasione si è realmente presentata.
Andare in America. La terra distrutta mille anni prima dalla Grande Guerra. Un’associazione russa formata da terroristi, i svebolscevichi, aveva dichiarato guerra alla grande potenza e dopo i primi missili con centinaia di morti si era passati ad una guerra fredda. Non si capì bene se per errore o per problemi di altra natura ma un’enorme bomba con quasi duecento grammi di antimateria partì dagli USA per andare a distruggere buona parte della Russia. La risposta non si fece attendere e i due continenti perirono.
La Russia fu ri-civilizzata dall’Europa (ci vollero praticamente mille anni, e anche ora alcune zone non hanno visto miglioramenti), mentre l’America non ricette aiuti in quanto le rimanenti truppe di svebolscevichi impedirono gli imbarchi.
“Signor Jake, non vorrei disturbarla ma mi serve sapere quando ha intenzione di incontrare la signorina Juliet.” urlò Greta, fuori dalla porta del bagno, riportandomi alla realtà.
“Dille che fra venti minuti sono da lei! Ah, e non dimenticarti di chiedere l’indirizzo.”
“Sarà fatto, signore.”
Aspettai che Greta fosse uscita dalla camera, dopodiché mi misi l’accappatoio e uscii dal bagno. Mi asciugai alla svelta il corpo e mi vestii ,non troppo elegante però. Era una cena di lavoro dopotutto, quindi optai per qualcosa di semplice: Indossai una maglia di cotone color panna, un giacchino in pelle color blu scuro e un paio di pantaloni in tinta con la giacca .Poi infilai in tasca gli appunti riguardanti il viaggio, mi asciugai i capelli in qualche secondo e andai in salotto. Trovai Greta che passava l’aspirapolvere. Dovetti urlare per farmi sentire, ma alla fine capì che mi serviva l’indirizzo. Me lo diede, mi salutò e uscii.
Dopo aver preso l’ascensore cercai un taxi a propulsione nucleare e partii per arrivare da Juliet.
Solo allora mi accorsi di non averle preso niente. Ma, dopotutto, era una cena di lavoro. Non servivano fiori o torte.
Appena scesi dal taxi, mi trovai di fronte ad un’immensa villa, completamente immersa nel verde. Alberi e cespugli pieni di bacche spuntavano da ogni parte, facendo sembrare il tutto una fiaba molto pittoresca.
Per accedere alla villa c’era un’enorme cancello, sormontato ai lati da due statue di marmo rappresentanti due cani (forse beagle?) giganteschi. Ai miei occhi, era di pessimo gusto.
Sul cancello stesso c’era un cartello di legno, rifinito con molta cura, con scritto ‘residenza Rose’.
Rose. Ancora quel cognome. Gli rimandava alla mente qualcosa. Ma che cosa?
Suonai il campanello, attesi pochi secondi e poi una voce mi chiamò. Ma non proveniva dal citofono. Juliet era sotto l’immenso porticato della villa, a cinquecento metri da me.
I cancelli si aprirono come per magia, senza che nessuno li avesse toccati. Seguii la strada in ghiaia che conduceva alla villa e Juliet mi venne incontro. Neanche lei era troppo elegante, comunque. Indossava un semplice paio di jeans chiari e una canotta color turchese, sulla quale aveva messo un giacchino della stessa tonalità di celeste, ma l’insieme era gradevole.
“Buonasera, Jake!” mi accolse.
“Ciao anche a te.”
“Vieni, ti faccio entrare. Purtroppo stasera non possiamo cenare nella sala da ricevimento perché i miei genitori stanno ospitando una conferenza. Mangeremo nella sala da pranzo secondaria.”
“Sala da pranzo secondaria?”
“Sì, i miei si trattano bene.”
La seguii in silenzio, o per meglio dire, messo a tacere da quell’incredibile ricchezza e opulenza. Mi condusse per l’atrio, un corridoio lungo ad occhio e croce una ventina di metri, una rampa di scale, un altro corridoio e una stanza.
Arrivammo nella sala da pranzo secondaria. Era grande quanto tutto mio appartamento.
“Perdona l’indiscrezione, ma perché fai la commessa?”
“È un lavoro part-time, quindi occupa veramente molto poco tempo. Inoltre così posso mantenere qualche amicizia: sai, nella nostra società ognuno sembra pensare solo agli affari propri e fuori dal lavoro non conosco praticamente nessuno. Facendo la commessa sto a contatto con la gente, ci parlo, stringo amicizie. Mi piace.”
Ci sedemmo al tavolo.
“Allora, per quanto riguarda il nostro viaggio, ho alcune nozioni da darti. In primo luogo partiremo dal porto di…”
Passammo tutta la serata a parlare dell’America. Prima con gli appunti, poi ci ritrovammo a parlare di sogni e speranze. Eravamo attratti da quello che ci aspettava.
“Così mia mamma mi ha incoraggiata a seguire questo sogno. Sai, è l’unica dei miei due genitori che approvi questo viaggio. È stata lei a far sì che mio padre accettasse l’idea che io partirò. Lei non vorrebbe che rinunciassi a qualcosa a cui tengo, non è come il mio papà. Vuole che io sia felice.”  stava parlando lei. “I tuoi invece che cosa pensano?”
“Mia mamma è morta partorendo, mentre mio padre, sempre contrario alla carriera di storico, è stato ucciso due anni fa.”
Seguì un attimo di silenzio.
“Oh, mi dispiace. Non pensavo che…”
“Stai tranquilla. Va tutto bene. Torniamo a parlare di cose più allegre. Stavi dicendo, riguardo alla sonda Y5…”
Soltanto a discorso ultimato mi accorsi di tutto quello che avevo mangiato. Il primo consisteva in ravioli ripieni di carne avvolti nella salvia e basilico. Come secondo mangiammo scaloppine al latte. Concludemmo con dei profiteroles al cioccolato bianco.
Fummo interrotti da una delle cinque domestiche che ci avevano servito la cena.
“Signorina Juliet, suo padre vuole vedervi.”
“Ti fa niente?” mi chiese lei.
“Dovrei preoccuparmi?” le feci di rimando, ma lei non ebbe il tempo di rispondere.
Entrò, seguito da sei guardie del corpo, un signore con una lunga barba bianca. Mi mancò un colpo al cuore.
“Jake, ti presento…”
“So già chi è!” sentii la voce più amara di quanto in realtà volessi.
“Posso avere l’onore di conoscere il suo nome?” chiese lui.
“Certo, signor Rose. Sono Jake Anderson. Architetto dell’High Skyrider, il grattacielo che la sua società ambientalista vuole distruggere.”

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5 - JULIET

 
 
 
Il silenzio piombò nella sala, carico di tensione.
Gli occhi di papà si ridussero a due fessure, mentre studiava l’individuo che si ritrovava davanti e il suo sguardo saettava da me a Jake e viceversa. Indugiò qualche secondo prima di proferir parola e puntò i suoi occhi nei miei.
“Juliet, potresti lasciarmi cinque minuti da solo con il signor Anderson? Vorrei poter scambiare qualche parola con lui.”
“No, papà.” la mia voce era diventata fredda, avevo intuito quali fossero le sue intenzioni.
“Juliet, tu non puoi ca…”
Dalla mia bocca ne uscì una risatina nervosa, poi lo guardai seria, inarcando le sopracciglia.
“Papà, dovresti smetterla di trattarmi come una bambina. Ho trent’anni ormai, sono abbastanza grande da comprendere come stanno le cose.” Sbottai.
Il volto di mio padre passò dal bianco al bordeaux nel giro di pochi secondi.
“Non osare rivolgerti così a tuo padre, signorina.”
Stava per mollarmi un ceffone, quando la mamma si intromise.
“Per l’amor del cielo, Alan! Non alzare le mani su nostra figlia!” urlò mia madre.
“Sta zitta, Amélie. So io cos’è giusto fare con mia figlia e cosa non lo è.”
Lo guardai con astio e rivolsi uno sguardo riconoscente a mia madre, poi qualcosa mi distrasse: un rumore di passi arrivava dal corridoio. La porta si aprì: sulla soglia c’erano i miei due fratelli gemelli minori: Matthew e Christopher. Rimasero sulla porta qualche secondo a contemplare la scena che gli si parava dinanzi, poi con un cenno salutarono mio padre, il quale aveva assunto un espressione più rilassata e fece un sorriso forzato. Qualcosa mi diceva che non avrebbe voluto che loro sapessero quello che stava succedendo. Io li salutai con un cenno della mano e presentai loro a Jake.
“Jake, loro sono Matthew e Christopher, i miei fratelli minori. Mi sostituiranno a lavoro quando noi  non ci saremo.”
A quelle parole papà fece una smorfia disgustata. Odiava il mio lavoro quasi quanto odiava la costruzione di Jake e questo era un motivo in più per tenerlo a debita distanza. Più lontano restavo da lui, meglio sarebbe stato.
“Piacere di fare la vostra conoscenza.” esordì Jake.
Seguì una stretta di mano silenziosa, poi mio padre parlò nuovamente.
“Matt, Chris, vi sarei grato se usciste da questa stanza per un po’, ci rivedremo più tardi.”
I gemelli annuirono, fecero un ultimo cenno di saluto rivolto a tutti e richiusero la porta alle loro spalle, lasciando che l’eco dei loro passi si perdesse in lontananza, poi mio padre si rivolse ancora una volta a me.
“Non voglio un uomo del genere a casa mia, Juliet. Non voglio rivederlo qui mai più.”
Quelle parole ebbero un tale impatto su di me che ogni sillaba che ne uscì dopo dalla mia bocca fu uno scoppio d’ ira.
“Questa è anche casa mia, papà. Faresti meglio a ricordarlo. Io posso invitare qui chi mi pare e piace, non me ne importa un accidente se poi questa persona non ha le tue stesse idee.”
Poi mi rivolsi a Jake, raccogliendo tutte le cartelline e gli appunti da sopra al tavolo.
“Andiamo nella biblioteca Jake, non vorrei che altri ci disturbassero.”
Con un ultima occhiata di disprezzo a mio padre mi voltai e mi incamminai per il lungo corridoio insieme a Jake. Passò qualche minuto prima che Jake aprisse bocca, a quanto pare era rimasto incantato a fissare le enormi pareti di vetro trasparente nelle quali si potevano notare i pesciolini che nuotavano veloci.
“Carino.” disse Jake accennando alle pareti e poi volgendo lo sguardo verso di me.
“Stravaganze da ricchi.” Ribattei io scrollando appena le spalle. “Papà voleva fare l’originale, così ha deciso di far diventare questo posto un acquario gigante.”
Di nuovo papà, pensai. Era mai possibile che in quella casa non si parlasse d’altro che di quell’uomo? Tutti lo consideravano un eroe, tranne me, la mamma e i miei fratelli s’intende. Da anni avevo cominciato a detestarlo, era diventato odioso. Interruppi i miei pensieri su di lui solo quando fummo arrivati all’ingresso della biblioteca. Presi dalla tasca del mio jeans una card e la feci passare attraverso la fessura nella porta. Una fredda voce femminile e metallica annunciò che il riconoscimento era andato a buon fine. Jake indugiò sulla soglia, così lo esortai ad entrare e ad accomodarsi.
“Le serve qualcosa signorina Rose?” una voce sommessa arrivò dall’angolo, ma era solo Silvia, un'altra delle nostre domestiche.
“Ti ringrazio, Silvia, ma non abbiamo bisogno di aiuto. Piuttosto vorrei che lei uscisse dalla stanza, sarebbe possibile?”
“Come vuole signorina Rose, se ha bisogno di me sa dove trovarmi.” Disse lei accennando un saluto sia a me che a Jake.
“Grazie.” fu l’ ultima parola che le dissi prima che uscisse in silenzio dalla stanza.
Mi sedetti a capotavola e poggiai le mie cartelline e i miei appunti sul legno di noce, così fece Jake, poi mi guardò cupo. Rimasi in silenzio per qualche minuto a dondolarmi sulla sedia girevole, poi lui ruppe il silenzio.
“C’è qualcosa che ti turba, Juliet? Sembri sovrappensiero.”
  Nella sua voce avvertivo una punta di preoccupazione.
“Solo, mi dispiace per la scenata a cui hai dovuto assistere stasera . La prossima volta sceglierò un posto migliore dove parlare di queste cose.” Osservai asciutta mentre scrutavo il suo viso per captarne i pensieri.
“Non preoccuparti.” fece lui scrollando le spalle e rivolgendomi un piccolo sorriso forzato.
“Sai, prima che diventasse il direttore di quella stupida società, non era così sgradevole. È diventato così solo da una decina di anni per colpa dei suoi colleghi. Ora il lavoro per lui è più importante di qualsiasi altra cosa.”  accennai  alla fotografia che era appesa in alto, sulla porta.
“È stata scattata il giorno del mio diploma, ancora prima di essere nominato. Allora era un padre come gli altri. Era certo amante della natura, ma mai come adesso. Ora ne sembra davvero ossessionato. Sì, credo che ossessionato sia la parola più giusta. Anche se una parte dei suoi progetti mi è sembrata buona, quello di buttare giù l’High Skyrider mi sembra una pazzia. Dove andranno a finire tutte quelle persone una volta buttata giù la costruzione? A questo lui non pensa. Ogni tanto cerco di farlo riflettere sull’impatto che questa cosa avrà sulla popolazione, ma lui mi ripete che non sono affari miei e che farei meglio a stare fuori dalla faccenda. Ovviamente tutti pensavano che noi (Io, Matthew e Christopher) avremmo seguito le orme di papà, nulla di più sbagliato: da quando ha cominciato a diventare così ossessivo nei confronti del suo lavoro i nostri rapporti si sono indeboliti, niente è più come prima. Lui però pensa che i miei fratelli non siano al corrente di nulla, mentre loro sanno tutto e si dissociano completamente dalle sue idee. Anche la mamma è in forte disaccordo con questa faccenda dell’High Skyrider. Una sua amica abita lì dentro e le racconta che stanno bene e che nel caso mio padre decidesse di abbattere la struttura, gli inquilini, gli si ritorcerebbero contro. Ma secondo me gli starebbe bene una bella strigliata. Magari riuscirà a comprendere meglio la situazione. Mia madre non glielo dice, comunque. Non osa mancargli di rispetto neanche per un secondo. Hai visto cosa avrebbe fatto a me se non lo avesse fermato, no?”
Jake aveva ascoltato in silenzio tutto quello che avevo detto, ma quando finii di parlare annuì lentamente, sorpreso.
“Così anche tu pensi che buttare giù la mia costruzione sia una follia?”
“Certamente!” esordii. “Tutte quelle povere persone in mezzo ad una strada, ma cosa avrà per la testa mio padre?”.
D’un tratto una figura piccola e marrone s’insinuò nella stanza, era il mio cane, Duncan. Si fermò vicino a Jake per qualche minuto, lo annusò, poi scodinzolò felice ai suoi piedi.
“Duncan, vieni qui bello.” Il piccolo pastore tedesco si avvicinò a me e si sdraiò ai miei piedi. Gli accarezzai la testa, distratta, poi mi voltai verso la finestra e notai le luci dell’ High Skyrider in lontananza.
“Comunque, non era per il viaggio che siamo qui?” osservò Jake.
“Giusto, scusa. È che mi sono lasciata un po’ trascinare dagli eventi di stasera. Non era così che mi ero immaginata questo incontro.”   dissi con un filo di voce, ero un po’ imbarazzata per l’accaduto.
Così passammo il resto della serata a fantasticare ancora una volta su quello che sarebbe potuto succedere durante il viaggio e delle cose che avremmo potuto affrontare. Era semplicemente fantastico poter parlare così. Era come se tutta la rabbia di qualche ora prima, tutte le preoccupazioni, fossero evaporate e queste avessero lasciato il posto alla speranza, alla voglia di scoprire, alla sete di sapere.
Non vedevo l’ora di partire e sei giorni per me non sembravano più così pochi, erano un eternità. Un eternità per cui sarebbe valsa la pena di aspettare. Tutto ciò che era nuovo per me era una fonte d’ispirazione, un modo per aprire ancora di più la mia mente alle nuove frontiere. Il nuovo mi spaventava e mi attirava al tempo stesso, ma niente mi avrebbe fermata, neanche quell’ottuso di mio padre. Non sarebbe stata certo una persona come lui a farmi cambiare idea. E poi c’era mia madre… e i miei fratelli. Loro mi avrebbero appoggiata sempre, in qualsiasi circostanza. Se c’è una cosa che ho imparato è che se si crede in qualcosa bisogna lottare perché si avveri, non possiamo lasciare che gli altri influenzino le nostre scelte. Non dobbiamo permettere a nessuno di cambiare le nostre idee, se ci crediamo fino in fondo. Così ,tra una chiacchiera e l’altra, tra un sogno e un ipotesi, arrivò la mezzanotte, quindi era arrivata ora di separarci.
“Mi ha fatto piacere parlare con te. Solo che mi dispiace ancora per quanto è successo prima, sai…”
Jake m’interruppe.
“Sta tranquilla, Juliet. È tutto apposto, non devi sentirti in colpa. Solo che non mi sarei mai aspettato che tuo padre fosse tanto…”
“Testardo, intendi? Sì, lo è.” Dissi ridendo.
“No…diverso. Non potrebbe essere più diverso da te di così. Ma anche testardo credo sia la definizione più azzeccata.”
Dato il comportamento di mio padre, presi la cosa come un complimento. Ero fiera di essere differente da lui, di avere quel qualcosa in più che lui forse non aveva. Sorrisi ancora.
“Domani sera è meglio se ci ritroviamo in un altro posto. Decidi tu quale, vorrei evitare altri disastri come quello di qualche ora fa.”
“Ti avviserò allora.” Abbozzò un sorriso e poi mi fece un cenno di saluto.
Lo accompagnai fino al cancello. Quando uscimmo fuori dalla villa sembrava molto più a suo agio. E chi poteva dargli torto? Neanche io ero a mio agio lì, sentivo che quello non era il posto in cui dovevo stare. Che la mia vera vita doveva essere altrove. Alzai la mano in segno di saluto mentre lui chiudeva la portiera del taxi jet , un rombo assordante e questo sparì nel cuore della notte.

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