Di Girasoli, Bossoli e Asfodeli di Reagan_ (/viewuser.php?uid=510681)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Girasoli ***
Capitolo 2: *** Bossoli ***
Capitolo 3: *** Asfodeli ***
Capitolo 1 *** Girasoli ***
Di Girasoli, Bossoli e
Asfodeli.
Primo Capitolo
Girasoli
Maggio
2027-Londra
Si era svegliato
improvvisamente e con il respiro affannoso. Con ancora gli occhi
chiusi gettò un braccio verso l'altra parte del letto e
rabbrividì
al contatto con la piega liscia delle lenzuola e il tipico freddo di un
giaciglio abbandonato.
Peter Miller aprì gli
occhi e gemette disperato.
Non capiva come fosse
possibile ritrovarsi improvvisamente solo e con la prospettiva di
rimanerci a tempo indeterminato.
Era cresciuto in un
famiglia numerosa che ora sembrava l'ombra di sé stessa,
incolpando
la guerra appena conclusa oppure la semplice crudeltà della
vita,
per le disgrazie che lo avevano colpito.
Pochi anni prima, però,
si
era ritrovato a sorridere di nuovo.
Era felice perché si
era
scontrato per caso con una donna speciale e se n'era scioccamente
innamorato.
Non fu facile all'inizio, erano decisamente diversi e
portavano sulle loro spalle dei passati complessi e pieni di dolore,
ma alla fine ne erano usciti insieme e sommariamente felici.
Si voltò verso una
foto
che aveva messo sul suo comodino da alcuni giorni e si beò
nell'osservare la genuina bellezza di sua moglie nel giorno delle
loro nozze.
Ricordava perfettamente il
forte vento d'Inghilterra che aveva sollevano leggermente il suo
vestito corto e quasi portato via i petali del bouquet, il suo timido
sorriso e quel “sì”
detto in francese, e gli sguardi pieni di
diverse emozioni che si erano scambiati quella sera, seduti su un
divanetto di una hall di un albergo qualunque.
Ma quei ricordi erano
stati spazzati via da un incidente e una diagnosi inflessibile.
Peter percorse i corridoi
del settimo piano del Georgia Grace Militar Hospital alle porte di
Londra assaporando visioni di intimità degli altri degenti.
C'era chi fingeva di
dormire dando le spalle alla porta aperta, chi fissava con occhi
spenti il televisore e chi come sua moglie se ne stava seduto a
guardare la pioggia battente dall'ampia finestra della stanza.
Il dottor Jovovich, grande
esperto di traumi neurologici ed insignito delle maggiori
onorificenze militari, aveva richiesto il giorno prima un colloquio
nella sua spartana saletta privata.
Con una certa franchezza gli
aveva strappato ogni speranza di tornare alla vita di tutti i giorni.
Sua moglie aveva perso quasi ogni ricordo di lui e della loro vita.
La memoria se n'era andata subito dopo aver sbattuto violentemente una
parte del cranio mentre spingeva lontano un bambino imprudente e si
lasciava investire da un'auto in folle velocità.
Un
grande gesto di bontà
che lui non riusciva a non condannare per avergli consegnato un
futuro amaro.
Amnesia
retrograda
tendenzialmente lacunare.
Lui, che di mestiere usava
prevalentemente le parole, aveva dovuto consultare vecchi dizionari e
siti internet per comprenderne appieno la tragicità.
Nessun farmaco, nessuna
terapia e nessuna operazione poteva restituirle i ricordi.
Le ossa erano guarite, le
ferite si erano rimarginate, l'energia vitale era ritornata forte e
decisa come un tempo, ma i ricordi si erano persi e lui non era che
un'idea sbiadita.
Bussò debolmente e si
avvicinò a lei che sembrava troppo assorta nel fissare la
tipica pioggia
inglese.
-Ciao Clémence.-
La donna si voltò
pigramente e non incontrò il suo sguardo.
Le sue dita cominciarono a
tormentarsi in grembo e addentò il labbro inferiore, quel
gesto che
aveva visto mille volte in quegli ultimi anni lo intenerì e
nello
stesso momento lo colpì violentemente.
Quei piccoli gesti non gli
appartenevano più, aveva perso il diritto di conoscerli.
-Dobbiamo andare. Sei
stata dimessa.- l'avvertì lasciando su una sedia una piccola
borsa
che aprì. -Ti ho preso dei vestiti.-
Clémence
gettò uno
sguardo al suo pigiama e alla vestaglia appesa alla porta e
cercò di
ricordarsi se avessi uno stile o un colore preferito.
Richiamò delle
immagini, delle sensazioni, qualunque cosa, ma il suo cervello
sembrò
non registrare nessun comando. Scese dal letto, prese la borsa e si
chiuse in bagno e mentre si vestiva, pianse.
Peter gettava continue e
distratte occhiate alla moglie seduta di fianco a lui. L'auto
scorreva silenziosa fra i sobborghi di una Londra
ingrigita dalla
recente guerra, fu un sollievo sentirla parlare, anche se
durò un
paio di secondi.
Peter aveva commentato
l'inutilità di due carri armati fermi di fronte al ponte con
un
accenno di timore e aveva sorriso quando lei lo aveva corretto.
-Si chiamano MBT.- disse
automaticamente. Si sorrisero incerti per qualche secondo.
-Lo facciamo spesso,
questo giochino.- le disse Peter mentre guidava e si addentrava in un
delizioso ed ordinato complesso residenziale immerso nel verde.
-Ti correggo spesso?-
domandò lei rendendosi conto di non ricordare nulla, nulla
di
quell'uomo che da giorni andava a dire in giro che era suo marito. Le
aveva persino mostrato delle foto e delle carte, ma lei non era
riuscita a nascondere lo sgomento di ritrovare il proprio volto
così
strano e diverso. Come se si trattasse della vita di una sorella
gemella perduta di cui veniva a conoscenza solo ora.
-Mi correggi spesso,
soprattutto nelle questioni militari.-le raccontò felice di
essere
utile a riempire quel libro vuoto che ora era la sua memoria.
-Discutiamo regolarmente sull'utilità degli acronimi negli
ambiti
non operativi.-
Clémence
annuì e voltò
la testa per non essere obbligata a sorridergli.
Non lo ricordava. Non
ricordava di averlo visto, di averlo baciato, sposato, parlato di
questioni militari, figuriamoci le abitudini consolanti della vita
coniugale!
Le sue mani cominciarono a
tremare e sobbalzò quando sentì la sua mano,
calda e liscia,
stringere una delle sue vacillanti.
Avvampò e boccheggiò e con una
certa difficoltà districò le sue dita dalla
gentile presa.
Peter si diede mentalmente
dell'idiota e con una certa angoscia parcheggiò di fronte
alla loro
casa. Una spaziosa villetta che suo padre aveva progettato quasi tre
decenni prima e che era rimasta a lungo invenduta. Quando lui le
aveva chiesto di sposarlo e Clémence, ancora restia, aveva
accettato, si era guardato intorno alla ricerca di un piccolo nido
per entrambi. E l'aveva ritrovata.
L'avevano ristrutturata insieme, ci avevano fatto l'amore fino allo
sfinimento e avevano litigando fino a minacciare il divorzio,
insomma, ci avevano vissuto.
-Bentornata,
Clémence.-
le disse aprendole la porta, pregando Dio di dargli un mano per
affrontare tutto questo.
Clémence ricordava
bene
il suo nome, la sua data di nascita, qualche episodio della sua vita,
soprattutto quelli legati all'infanzia passata in Bretagna, le estati
in Toscana, i nomi e le professioni svolte da alcuni membri della sua
famiglia e pezzi della guerra.
Quando un'infermiera con
accento dell'Est le si era avvicinata giorni prima e aveva annusato
un leggero odore di sigaretta, per alcuni minuti aveva rivissuto
periodi della guerra. Rammentava il rumore metallico dei bossoli
delle mitragliatrici che cadevano incessantemente l'uno sull'altro, i
sorrisi sdentati di alcuni bambini in un campo profughi, gli ordini
che venivano strillati e le sue mani intorpidite e ingiallite dalla
nicotina che sfogliavano una
cartina plastificata sotto la pioggia battente.
Da quelle poche
informazioni che era riuscita a scucire da chi le stava intorno in
ospedale, sapeva di essere stata un militare arrivata a un buon
grado, ora spostata nella polizia inglese a causa di una grave
carenza di personale.
Come e quando avesse
incontrato quel ragazzo con i capelli rossicci e il viso slavato e
del perché l'avesse sposato, rimanevano un mistero.
Appena entrata in casa,
una villetta molto carina ma che non le diceva niente, Peter si
avvicinò per aiutarla a far scivolare il soprabito lungo le
spalle e
il braccio ancora ingessato. Il tocco leggero delle sue mani
sembravano forzatamente delicate.
Appese la giacca e la
fissò con uno sguardo intristito e con una certa agitazione
in corpo
la precedette insistendo nel volerle mostrare la casa.
-Puoi per favore non
parlare mentre me la fai vedere, potrebbe aiutarmi.- mentì
Clémence.
Non voleva sentire delle mille cene mangiate su quei tavoli, dei
bicchieri che aveva comprato o a chi apparteneva la scelta del colore
dei muri. Era già strano averlo costantemente intorno a
sé, la sola
idea di vederlo e sentirlo parlare ancora di quel “noi”
a cui
tanto sembrava tenere, la nauseava.
-Prima fatti dare questi.-
disse lui cercando di nascondere l'amarezza di quella richiesta.
S'infilò in soggiorno e prese un grosso mazzo di girasoli.
-Sono i tuoi fiori
preferiti. Mi hai detto che li hai sempre adorati perché ti
ricordano delle estati con i tuoi in giro per l'Italia. Te li metto
nel vaso.- raccontò Peter e si emozionò quando
vide uno strano
bagliore negli occhi chiari di Clémence.
Lei si avvicinò di un
passo e li guardò con una certa attenzione.
Poi
si scostò
improvvisamente e decise che avrebbe curiosato per quella casa di cui
aveva pagato parte del mutuo.
Si stupì della tanta
luce
presente nella casa che filtrava dalle grandi finestre, le librerie
che circondavano molti muri, i colori caldi. I suoi piedi sapevano
muoversi bene, segno che la memoria cinetica si era ben fissata nel
suo cervello, notò alcune foto incorniate qua e
là, ma decise di
non badarci.
Si lasciò trasportare
da
un'infantile curiosità per la disposizione perfetta dei
mobili, dei
loro materiali, salì sulle scale, sperando di sbarazzarsi
della
sensazione di essere costantemente seguita, e perlustrò la
loro
camera da letto.
Era molto carina e grande.
Tendeva al grigio con punte di colore sparse senza ordine. Si sedette
sul letto e si tolse gli scarponcini e le calze, il fresco del
copriletto contro la pianta del piede le piacque e rimase a lungo a
guardarsi intorno, sperando di trovare un indizio qualunque.
Quando la testa
cominciò
a girarle si alzò e fuggì nella ordinata cabina
armadio, si stupì,
ma non seppe mai perché, nel notare degli abiti svolazzanti
appesi e
delle gonne pudiche e scure ben piegate. Il resto dell'abbigliamento
era decisamente neutro: jeans scoloriti, maglioni con le trecce dai
colori scuri o tenui, camicie, maglie da sport, reggiseni spartani,
giacche scure e tante sciarpe.
Ne prese una e chiudendo
l'armadio andò vicino allo specchio adiacente e la
portò intorno al
suo collo. Era una normale sciarpa cinerea a righe blu ed azzurre,
notò che s'intonava con i suoi occhi grigi e si
domandò se fosse il
tipo di donna che tentava di coordinare il proprio guardaroba per
esaltare qualche caratteristica fisica.
-Te l'ho regalato tre mesi
fa per San Valentino. Risalta i tuoi occhi.-
Peter l'aveva osservata a
lungo girare per la stanza ed guardare con una certa
meticolosità
il loro armadio. Quando lei si era infilata quella sciarpa, qualcosa
lo aveva commosso. Forse, anche se lei non ne era consapevole, qualcosa
ricordava.
-A dir la verità
siamo
andati nel Galles per un paio di giorni, tempo schifoso ma ci siamo
divertiti.- raccontò, rimanendo alla porta della stanza, le
braccia
incrociate e lo sguardo rivolto verso di lei, ma assente.
Clémence
ne ebbe quasi paura.
-Siamo andati in questo
piccolo ristorante sulla costa che servivano anche la tua marca
preferita di birra francese,“Bière
du Desert”. Ne hai bevuta un
sacco, sai? Siamo stati bene in quei due giorni. Meditavamo di
trascorrerci qualche giorno di vacanza ad agosto.-
Peter fermò il suo
racconto sovrappensiero. Il medico aveva chiesto di non travolgerla
di informazioni perché poteva non riuscire ad assorbirle con
la
stessa facilità di prima, le rivolse un timido sguardo e
notò che
aveva gli occhi ludici.
-Non me lo ricordo. Non me
lo ricordo proprio. Non mi ricordo nulla.- balbettò sentendo
le
lacrime scorrere lungo le sue guance infuocate.
La sua stanza
cominciò ad
ondeggiare, i suoi occhi si chiusero e l'ultima cosa che
percepì
furono le forti braccia di Peter frenarle la corsa verso il
pavimento.
Fa freddo,
Clémence
tira fuori il naso dalla stretta della sciarpa per inspirare quel
forte odore di benzina, fuoco e morte e per un paio di secondi si
distrae. Gli elicotteri procedono spediti e a bassa quota,
l'orizzonte non è altro che un miscuglio di colori
fosforescenti che
segnano ai passivi spettatori la fine di altre vite. Le bombe si
schiantano contro le case e il terreno con una regolarità
spaventosa.
Di fianco a lei, in
piedi ad osservare il declino del mondo, c'è un uomo dal
sorriso
sghembo.
-Non credo ne usciranno
vivi.- le sussurra.
Clémence
annuisce
distratta. -Non credo che, alla fine, qualcuno di noi ne
uscirà
vivo.-
-E' la tua ultima
missione?- le domandò.
Clémence si
voltò a
fissarlo, le dita che scorrevano febbrili lungo la lunga canna del
fucile. -Sì, me ne vado a Parigi e poi forse in Inghilterra.-
Un'esplosione troppo
ravvicinata li fece sobbalzare, i capi cominciarono a gridare ordini,
ma loro due rimasero ad osservare la coltre di polvere che
s'innalzava ed avvolgeva l'orizzonte.
-Allora auguri, forse
ci rivedremo ancora.- disse l'uomo fissandola a lungo, per un attimo
sembrò volersi avvicinare, ma le voltò le spalle
e s'incamminò
verso la sua postazione e Clémence rimase lì
finché non decise che
era venuto il momento di ubbidire agli ordini e cominciare ad
avanzare con il suo carro armato.
Con gli occhi sbarrati e
la bocca secca, Clémence si svegliò.
La mente ripercorreva
stralci di quel sogno così vivido, il panico aveva bloccato
ogni
muscolo e l'emicrania le faceva lacrimare gli occhi.
Cominciò a respirare
lentamente cercando di riprendere il controllo di sé e solo
allora
si accorse che era sdraiata su un letto, in una stanza buia.
Sgranò gli occhi e si
guardò intorno, tastando di lato riuscì a trovare
una piccola
lampada posta sul comodino e l'accese.
La stanza di cui aveva un
ricordo vago venne illuminata e per un attimo si rese conto che non
si trovava in una spoglia caserma o in un fatiscente bunker sudanese.
Sul suo stomaco era
appoggiato il braccio pesante di Peter che si era addormentato al suo
fianco e la cosa imbarazzò moltissimo Clémence
che cercò di
spostalo lontano da lei.
Ma Peter si mosse e si
svegliò quasi del tutto.
-Scusa …
-bofonchiò.
La donna notò che
aveva
un'aria adolescenziale mentre dormiva, come se ringiovanisse
improvvisamente nel sonno.
Per un attimo si pentì di averlo
svegliato.
Si domandò quante
notti
avevano passato l'uno nelle braccia dell'altro.
Peter stropicciò un
occhio e si alzò a sedere. -Scusa, mi sono addormentato.-
-Sono svenuta, giusto?-
domandò Clémence sfilando l'elastico con cui
aveva legato i biondi
capelli ore prima. Infilò le dita e li sparpagliò
sulle spalle
rilassate. Quel sonnellino forzato sembrava avesse giovato al suo
corpo, ma la sua mente ne era uscita ammaccata.
-Sì, ti è
già capitato
altre volte in ospedale. Dicono che non sia grave e
passerà.-
Peter le sorrise cercando
di infonderle fiducia, le strinse una mano. Per lui era difficile
limitarsi a una semplice stretta di mano, erano sempre stati una
coppia molto fisica, cercavano costante conforto nel toccarsi,
nell'amarsi in modo impetuoso e incontrollato.
Con il sesso
eliminavano rancori e risolvevano litigi, con le effusioni
rinsaldavano il loro amore. Non avevano bisogno di lunghi discorsi
filosofici o spirituali.
Ma ora doveva limitarsi
anche in questo.
Si alzò dal letto e
si
tolse il maglioncino che indossava. -Vado a dormire, domani devo
andare a un incontro importante.- le disse mentre cercava il
pantalone del suo pigiama. -Tornerò per pranzare con te e se
vuoi
nel pomeriggio possiamo uscire, fare quattro passi nel quartiere.-
Clémence
annuì
sopraffatta. -Come vuoi.-
La risposta venne accolta
freddamente da Peter che la salutò cortese prima di
annunciarle che
avrebbe dormito nella stanza accanto. Uscì e chiuse la porta
leggermente stizzito da sé stesso, per un attimo gli era
sembrato di
rivedere la sua Clémence.
La mattina dopo si
comportarono in modo formale.
Peter le aveva preparato
un'abbondante colazione che fu quasi del tutto ignorata dalla moglie
che continuava a fissare il vaso con i girasoli.
Più di una volta
cercò
di attirare la sua attenzione, di scrollarla da quell'isolamento
volontario.
Ma Clémence era
troppo
concentrata nell'osservare le diverse pieghe dei piccoli e fragili
petali gialli dei girasoli, sentiva una strana connessione con quel
fiore.
-Erano i fiori preferiti
di maman. Io e papà li abbiamo colti in un campo poco
lontano da
casa quando siamo tornati dal cimitero e da allora, ogni volta che
posso, li porto a casa.- mormorò Clémence
assaporando quei pochi e
frammentari ricordi. -La prima volta che ci siamo usciti insieme a
cena, avevi in mano dei girasoli.-
Sul viso di Peter si
allargò un genuino sorriso di sorpresa, non fece caso al
bricco di
latte che si era rovesciato e aggirò il tavolo e la
raggiunse. La
strinse a sé, le baciò la fronte e quei capelli
bruciacchiati dal
sole e non poté non azzardare ad un veloce quanto
appassionato bacio
su quelle labbra che tanto gli mancavano.
Si era ricordata di
qualcosa, si era ricordata di loro, si era ricordata di lui.
^/^/^/^
Questa
storia ha partecipato al Contest: Het, Slash, FemSlash ... mi va bene
tutto purché sia costruttivo di Sere-Channy.
Si
è classificata prima ed ha vinto i premi:
-Premio
Promessa: storia con linguaggio più forbito.
-Premio
Originalità: alla storia più originale.
-Premio
Impegno: alla storia in cui l'autore ha messo più impegno.
-Premio
Love: alla storia d'amore più bella.
a. Fornitura lessico:5 /5
b. Uso parole e aggettivi 5/5
c. Correttezza lessico5 /5
d. Totale: 15/15
Gradimento personale:
a. Originalità 5/5
b. Elaborazione 4/5
c. Caratterizzazione personaggi 4/5
d. Totale:13 /15
Grammatica:
d. Morfologia5/5
e. Sintassi5 /5
f. Totale:10 /10
Extra:
d. uso del pacchetto:10 /10
e. attinenza al contest10 /10
f. totale: 20/20
Punti tolti: 1 (cambio pacchetto)
Punti
premio/bonus/ocomelivoletechiamare: 2 (originalità e
impegno)
errori: 1 (essendo errori di battitura
non fanno media nella valutazione finale, ma vanno comunque
calcolati)
Totale:59 /60
Bene, la storia mi piace. Si vede che
hai messo tutta te stessa nella storia, hai usato il pacchetto
perfettamente, l’uso del promt era molto originale, e anche
la
citazione era usata bene! Inoltre hai eseguito alla lettera
ciò che
era richiesto nel contest. Un eccellente lavoro se non fosse stato
per gli errori di battitura, erano più o meno una decina, ma
dato
che erano errori di battitura (non di distrazione, non
grammaticali…di battitura) ho preferito colcolarteli come 1
in
totale. O meglio, avendo segnalato ogni errore come 0,1, il numero
degli errori era 1,2, ma 0,2 punti contano poco, quindi ho preferito
toglierli. Se non fosse stato per questi avresti preso un punto in
più, ma il risultato è ottimo, la storia mi
è piaciuta veramente
tanto. Un’altra cosa che ti ha impedito di prendere il
massimo è
stato il cambio del pacchetto.
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Capitolo 2 *** Bossoli ***
Secondo Capitolo
Bossoli
Giugno
2027-Londra
Peter si guardò
sconsolato intorno e lasciò la sua valigetta sul tavolo.
La casa era perfettamente
pulita e ordinata.
Non c'era più la normale confusione di prima,
quella fatta di calzini introvabili, fogli di giornali e tazze di
tè
abbandonate qua e là.
Clémence si era
trasformata in una casalinga perfetta.
Si svegliava al mattino
all'alba, gli cucinava colazione, pranzo e cena, si assicurava che
lavorasse sempre con una tazza di caffè fumante vicino al
computer.
Lo aiutava persino con la la stesura finale del suo saggio e stirava
le sue camicie con una precisione militare. Tutte cose che non aveva
mai fatto prima, se non quando lui era malato o la minacciava di
ritorsioni.
Non lo prendeva in giro,
non gli urlava mai contro e soprattutto non gli parlava.
Chiacchieravano poco e di
cose come il tempo e le ultime notizie sui giornali.
Clémence aveva
iniziato
ad interessarsi al giardino, unica attività che l'aveva
entusiasmata
anche prima, e si dimenticava spesso e volentieri di lui e di quel
“noi”
sospeso nel tempo.
Ogni tanto Peter azzardava a un
bacio sulla guancia, a una carezza gentile, a una
parola dolce, ma la rigidità e la tristezza con cui lei lo
guardava
lo gelava quasi subito.
Così aveva continuato
a
dormire nell'altra stanza, dandole tutto il tempo del mondo e
scivolando in uno stato comatoso.
La vide rientrare dalla
porta che dava sul giardino, con i guanti da giardino, un cappellino
da baseball calato sulla testa.
-Ciao Peter.- gli disse
con un tono allegro, si tolse le cuffie dalle orecchie e i guanti e gli
indicò
degli arbusti. -Ho sistemato i bossoli, ora sembrano delle siepe
decenti, non trovi?-
Peter le sorrise gentile.
-Sono venuti bene.-
-Già, credo siano
venuti
benissimo.-
Rimasero incerti e troppo
vicini, Clémence si scostò e gli disse che
sarebbe andata a farsi
una doccia.
Salì due, tre gradini
alla volta scomparendo frettolosamente dalla vista di Peter e si chiuse
in
bagno.
Era arrossita, lo sentiva
dall'innaturale calore delle guance.
Non era la prima volta, in
quel mese, che si ritrovava a fissarlo in modo non del tutto
innocente.
Lo trovava molto attraente
e desiderabile.
Alto, con i fianchi
stretti, magro e con quei capelli quasi arancioni e quel viso
ricoperto da curiose efelidi chiare.
Era un uomo bello, di una
bellezza senza tempo.
Non capiva come mai i suo
pensieri si spostassero così velocemente da quello che era
suo
marito a quell'uomo in divisa che stringeva lo stesso fucile che
utilizzava lei di cui ricordava pochi ed inutili frammenti.
Era
forse stata obbligata
a sposarsi da strane circostanze?
Non le sembrava possibile,
lui non era un uomo violento o capace di chissà quali
ricatti. Si
morse le labbra con forza e aprì il rubinetto dell'acqua
gelata.
Si tolse gli abiti sporchi
di terriccio e s'infilò nella doccia, rabbrividendo per il
freddo.
Lo faceva spesso.
Era rigenerante e
l'aiutava a cancellare dalla pelle quelle strane sensazioni che
provava e a cui non riusciva a dare un nome.
Aveva analizzato il
più
possibile i pochi ricordi che possedeva e alla fine si era ritrovata
con nulla se non un paio d' informazioni irrilevanti e la certezza
che pochi mesi dopo avrebbe dovuto ritornare a lavoro.
Come poteva lavorare se
non si ricordava nemmeno un nome dei suoi compagni?
O i casi
più
importanti?
Uscì dalla doccia
più
confusa di prima, s'infilò un paio di jeans e una maglia
leggera per
contrastare quel pomeriggio insolitamente caldo, raccolse i capelli
bagnati in una coda floscia e scese di sotto, non prima di aver
osservato a lungo l'unica porta della casa che era chiusa a chiave.
Più volte aveva
chiesto
le chiavi per pulirla e regolarmente Peter liquidava la faccenda come
non necessaria, infondo era solo una stanzetta vuota, piena di
scartoffie e gingilli del vecchio appartamento di quest'ultimo.
L'espressione nostalgica
che aveva ogni volta che finiva per chiedere di quell'angolo di casa
ancora chiuso la metteva a tacere ogni volta.
Alla fine cosa ne poteva
sapere lei?
Lei che a malapena
ricordava il suo passato?
Peter si era tolto la
giacca e aveva arrotolato le maniche della camicia.
Sorseggiò una birra e
quando sentì i passi di Clémence la
invitò a sedersi sui gradini
del patio. La donna lo accontentò titubante e per la prima
volta si
sedette accanto a lui.
Le loro spalle si
toccavano, Peter poteva sentire il delizioso profumo di agrumi e
notare il tenero rossore delle sue guance.
-E' venuto veramente
bene.- le disse riferendosi ai bossoli appena sistemati.
Clémence lo
fissò
sorridendo. -E' venuto bene, ma non benissimo. Devo aver dimenticato
delle nozioni … -
Peter scosse la testa
mentre apriva una seconda birra. -Assolutamente no. Magari ti manca
un po' di pratica, ma le nozioni te le ricordi.- gliela
passò e per
un secondo sentì le sue calde dita sfiorarlo.
Rabbrividì e distolse
lo sguardo.
-C'è qualcosa che
devi
dirmi?- domandò Clémence intuendo nei suoi gesti
troppa finta
disinvoltura.
Peter prese un lungo
respiro. -Il cielo di oggi è sommerso interamente
da un immenso
tramonto rosso. Ti ho vista camminare da sola …
d’ora in poi ti
proteggerò.- recitò sovrappensiero.
-E' con questa frase che
due anni fa ti ho conquistato. Eravamo in un bar affollato dove molti
soldati festeggiavano la prima licenza dopo anni di servizio. Tu
suonavi il violino sul palco e quando sei scesa mi hai fissato a
lungo. O meglio, te ne stavi a fissare io che leggevo un manga in quel
casino allucinante. Ti sei avvicinata e mi hai sorriso. E io ti ho
letto la prima frase che avevo sotto gli occhi.-
Clémence sorrise e si
morse un labbro allegra, le piaceva la storia e in qualche modo la
sentiva sua. -Sei sicuro che tu mi abbia conquistato con una semplice
frase?-
Peter ridacchiò e
posò
la sua seconda bottiglia a terra. -Abbiamo fatto sesso quella sera
stessa. In un vicolo buio di Parigi e mi hai accompagnato alla
stazione per prendere il treno verso Calais. Ti ho mandato una
cartolina qualche giorno dopo con il mio indirizzo e il giorno del
mio compleanno tu eri a Soho.-
Per qualche motivo a
Clémence non piacque quella strana sensazione che le stava
attorcigliando lo stomaco, strinse le braccia intorno alle ginocchia
e chiese a Peter di continuare il suo racconto.
-E' successo tutto molto
in fretta. Abbiamo iniziato a convivere fin dal primo giorno e mi
ricordo di essermi preso un colpo quando ti ho vista in cucina a
pulire la tua pistola.- Clémence ridacchiò e
Peter le sistemò una
ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio. -Le prime settimane
scivolarono via e ci siamo accorti di … - s'interruppe e il
suo
volto perse ogni colore e ogni emozione. -Ci siamo accorti di essere
innamorati, ci siamo sposati subito perché volevi che tuo
padre
partecipasse alla cerimonia, prima che la malattia
degenerasse. E'
stato un matrimonio molto intimo.-
Peter tornò a
guardarla
con una certa insistenza. Sperò con tutto il suo cuore che
Clémence
non avesse intuito quella nota di dolore nelle sue parole. Lei lo
fissava con una strana luce negli occhi, si avvicinò a lui e
posò
delicatamente le sue labbra sulla sua guancia, circondandogli il
collo con le braccia.
-Merci.-
-E di cosa?-
-Di avermi aspettato.-
Clémence lo baciò e a Peter non parve vero.
Dopo mesi risentiva le
dolci labbra di sua moglie scorrere sulle sue.
Il suo corpo
ammorbidito dal congedo le aveva regalato nuove curve, il suo profumo
era intenso e mesi di astinenza e negazione lo stavano travolgendo.
Avrebbe voluto fermarsi e
riprendere tutto molto più lentamente, ma
Clémence era furiosa,
sbrigativa e per nulla paziente, come la donna che aveva conosciuto
anni prima.
I loro vestiti crearono un
divertente filo d'Arianna sparso per la casa, Peter la prese in
braccio e per la prima volta la sentì ridere di cuore.
Si chiusero in camera e
non ne uscirono fino a notte fonda.
-Com'è stato?- chiese
Clémence stiracchiandosi le braccia ancora non del tutto
rinsaldate.
Peter le sorrise e
s'infilò una maglia scura e dei boxer. -In che senso?-
-E' stato uguale a prima
…
Non sono cambiata … O peggiorata o che ne so … -
Peter chiuse la bocca e i
pensieri di Clémence con un bacio. -E' sempre stato
particolarmente
intenso, oggi più di prima. Mi eri mancata.-
-Mi dispiace Peter. E'
difficile … Collegare tutto. Niente sembra appartenermi.-
sussurrò la donna.
Peter la prese fra le sue
braccia e le baciò il capo. Poteva solamente immaginare i
dubbi e i
tormenti quotidiani di sua moglie, ma ora era felice e non aveva
voglia di rovinare quella sensazione. -Devo assolutamente dormire,
domani ti porto a cena fuori dai miei, mia sorella insiste da giorni.-
Clémence
posò il capo
sulla sua spalla serena e qualche minuto dopo, sprofondò in
un sonno
pesante.
Peter rimase a sveglio a
lungo finché non uscì da quella stanza che
sembrava soffocarlo con
il suo grigio che di notte diventa più scuro e
vagò un po' per la
cucina e il soggiorno, bevendo una tazza di tè. Una volta
assonnato
decise di rientrare in camera, ma la stanza chiusa poco lontano dal
bagno sembrava invitarlo dentro. Andò nel suo studio a
prendere le
chiavi, nascoste in una scatolina natalizia, e aprì la porta.
L'odore di chiuso lo
colpì, chiuse delicatamente la porta e posò le
sue mani sulla
piccola culla in fondo alla stanzetta verniciata di giallo.
Toccò il legno
gelido,
sfiorò le copertine ricamate e tentò di non
fissare i pannolini
messi in fila e il piccolo fasciatoio circondato da pupazzi.
Il suo cuore fece strani
balzi e le lacrime cominciarono a scendere copiosamente.
Soffocò i
violenti singhiozzi ma scivolò a terra, batté
più volte la fronte
contro la testata della culla e rimase lì, tremante e
arrabbiato con
sé stesso, con tutti e con Dio.
Sapeva di giocare con il
fuoco, nascondendo quella parte della loro vita, ma non voleva
vederla distrutta com'era prima.
Si fece forza dandosi
dell'idiota piagnucolone e chiuse la stanza all'alba.
Decise di fare qualche
chilometro di corsa per tranquillizzarsi per cominciare una nuova
giornata e forse una nuova vita con una Clémence meno
fragile.
Quando aprì gli
occhi, si
chiese come mai fosse così rilassata e solo dopo qualche
secondo la
sua mente ricordò i baci febbrili e l'amplesso intenso e a
tratti
violento che aveva consumato l'altra sera.
Arrossì e si diede della
sciocca, si voltò certa di trovarselo di fianco, ne aveva
sentito a
lungo la presenza la notte precedenza, ma non vi dormiva nessuno da
molto tempo.
Pensò che
probabilmente
si era svegliato presto per fare jogging e cercò di non
farsi
prendere dalla delusione. Decise che avrebbe cucinato quell'orrida
colazione all'inglese a cui lui era fin troppo abituato.
Quando scese in cucina,
trovò sul piano di lavoro un vaso pieno di tulipani rossi e
dopo
molto tempo Clémence si sentì amata.
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Capitolo 3 *** Asfodeli ***
Terzo Capitolo
Asfodeli
Luglio
2027-Londra
Doveva aspettarselo.
Non poteva filare tutto
così liscio. Nelle ultime settimane aveva fatto di tutto per
saldare
quel fragile legame che li aveva uniti quasi all'improvviso e ogni
volta che lei ricordava, quasi sempre fatti inutili, l'ansia lo
prendeva.
Ma quando quella mattina
tornò dalla sua corsa mattutina, rilassato e pronto per una
giornata da passare scrivendo, trovò Clémence
seduta nella stanza di quel loro
figlio mai nato, gli occhi sbarrati e il petto ansante.
Non si accorse nemmeno
della sua presenza finché non cercò di svincolare
dalla sua presa.
-Stai lontano da me.- gli
urlò spingendolo contro la porta. -Stai lontano da me, hai
capito?-
Peter si scostò, cercando di evitare i suoi colpi e
ricordandosi
solo di quanto le sue mani fossero forti ed addestrati per uccidere.
Lei si chiuse nella stanza
e lui rimase ore seduto davanti, in attesa di trovare le parole per
spiegarle il motivo di quell'omissione, ma più scavava e
più si
rendeva conto del suo egoismo.
Sarebbe stato facile
ricominciare di nuovo, cancellando nel vero senso della parole il
passato. Nessuna ferita sanguinante tra loro, solo qualche ricordo
confuso.
Avrebbe potuto finalmente
azzerare gli errori che aveva commesso in passato e condurre la vita
che aveva sempre sognato, senza più dolore, senza
più liti.
Sorrise amaramente ai suoi
squallidi pensieri e le patetiche scuse che stava costruendo e si
alzò, deciso a lasciare quella casa.
-Nascerà per la fine
di aprile.- disse una dottoressa scribacchiando numeri e dati in una
cartelletta gialla.
Peter le strinse la
mano e accarezzò con le lacrime agli occhi il suo piccolo
ventre
rigonfio.
-Se non sbaglio i
calcoli lo avete concepito per la fine di agosto, congratulazioni.-
il medico passò a
Clémence una piccola serie di foto in bianco e nero e si
dileguò
dalla piccola stanza spoglia.
Il sorriso di Peter si
congelò e le mani di Clémence tremarono.
Rovistò in tutta quella
stanza per ore, non trovò nulla che l'aiutasse a ricordare.
Non c'era nemmeno una foto di quello
che avrebbe dovuto essere suo figlio, solo una piccola cornice vuota.
L'improvvisa idea che suo
figlio, un piccolo neonato, fosse morto ancora prima di nascere la
sconvolse.
Scoppiò in un piano isterico e si lasciò
scivolare a
terra, mentre il suo cervello cominciava ad assimilare esigue
informazioni e un forte mal di testa le fece venire la nausea. Quel
piccolo ricordo si sovrappose a quel volto coperto di fumo che la sua
mente continuava a rammentare.
Forse quella creatura
innocente era frutto di una sbadataggine di un caso che aveva tentato
di soffocare in ogni modo.
E il solo pensiero la travolse
definitivamente.
Fu solamente quando la
stanza divenne troppo buia e le lacrime si erano seccate lungo le
guance che uscì e si diresse verso la cucina.
La casa era silenziosa ed
evidentemente abbandonata, Clémence bevve una
quantità spropositata
di bicchieri d'acqua ma la sua gola rimaneva secca, passò
alle
bottiglie di birra inglese che scendeva corposa ed infine si
gettò
sullo champagne che aveva comprato giorni prima per festeggiare
l'imminente compleanno di suo marito.
Paradossalmente bevve per
dimenticare.
Per due lunghi giorni,
Clémence non vide o sentì suo marito.
Dal suo armadio mancavano
poche cose, una giacca, un paio di pantaloni, una valigetta, poche
cose prese alla rinfusa. All'inizio non se ne preoccupò, era
ben
felice di crogiolarsi nel dolore privatamente, nello spazio di una casa
che
pensava di conoscere ma che rivelava antri oscuri e ricordi dolorosi.
Eppure dopo due giorni di
lontananza, non poté iniziare a cercarlo.
Rovistò in giro per il
quartiere, chiamò la sua famiglia provando a mantenere un
tono
disinvolto e dando colpa alla sua amnesia, bussò a casa del
suo
migliore amico e fece un salto dall'editore.
Si arrese tre giorni dopo
e decise che non avrebbe sprecato altre energie.
Passò i giorni seguenti a
letto, scossa da una forte nausea e di lancinanti mal di testa che
l'allontanarono dall'alcool e l'avvicinarono sempre di più
ai
medicinali che tanto odiava.
Non si accorse, quasi una
settimana dopo, di quel piccolo vaso in ceramica blu, posto accanto
alla porta pieno di delicati fiori di asfodelo.
Sopra un piccolo biglietto
che aprì con le mani tremanti e lesse con filo di voce.
-Rimpianto … -
Solo ore più tardi
notò
che non era altro che una cartolina della stazione nord di Parigi,
una pugnalata spietata ai pochi ricordi degli inizi della loro
storia.
Con le lacrime agli occhi
cestinò il tutto.
I giorni che seguirono li
trascorse prevalentemente fra il lavoro in giardino e un perenne
senso di nausea e spossatezza che sembrava coglierla soprattutto di
mattina, le ci vollero fin troppi giorni per rendersi conto che
dentro di sé maturava da tempo una nuova vita.
Lasciarsi dietro le spalle
l'afa di Parigi fu l'unico aspetto positivo di quel breve rientro.
Doveva ritirare il visto
per uscire dall'Europa, prendere un paio di cose da casa e salutare
definitivamente Clémence.
Sapeva che lei lo aveva
cercato e la cosa l'aveva prima quasi commosso e poi gettato nel
panico, cosa le avrebbe detto poi?
Che cosa sarebbe successo
dopo tutto quello che aveva fatto?
Clémence non si sarebbe
più potuta fidare di lui, così come non
si era mai del tutto fidata delle sue intenzioni
prima.
Infilò la mano fra i
capelli rossi e posò la testa sul freddo vetro del treno,
assaporò
il veloce scorrere delle campagne inglese che venivano sostituite dai
capannoni industriali.
Quando scese dal treno e
s'incamminò lungo la banchina temette di essere impazzito.
Ferma ad aspettarlo c'era
Clémence.
Peter deglutì incerto e
si avvicinò.
-Ciao … -
-Sei un pezzo di merda.-
sibilò Clémence a braccia incrociate. -Un
deficiente di prima
categoria. Avresti potuto anche lasciare un messaggio.-
Peter si grattò la testa
e la guardò confuso. -Avresti veramente voluto sapere che
stavo
fuggendo?-
-Il problema non è nel voler
sapere o non voler sapere, il problema sta nel fatto che hai deciso
di non degnarmi nemmeno di una piccola spiegazione.-
Clémence si
morse il labbro agitata. -Mi sarei bevuta ogni tipo di scusa,
perché
a me non importava sapere le tue motivazioni ma cercare di capire
com'era possibile che mi fossi completamente dimenticata di mio
… -
un singhiozzo bloccò le sue parole, gli occhi umidi e le
spalle che
le tremavano sconfissero ogni senso di colpa e la strinse fra le sue
braccia.
-Figlio,
nostro figlio …
- completò lui, baciandole la testa.
Peter la cullò a lungo,
riuscendo a mascherare perfettamente le sue di lacrime, e poi le
propose di tornare a casa. Quel viaggio in macchina fu identico al
loro primo ritorno dopo l'incidente.
Clémence si sedette sulle
scale del patio e rifiutò il bicchiere di brandy.
Peter si sedette accanto a
lei e lo fissò stranito.
-Perché? Stai male?-
domandò disorientato Peter spostando il bicchiere.
-Ti spiegherò dopo.-
gracchiò Clémence voltando lo sguardo e passando
una mano sullo
stomaco teso.
Il silenzio sceso tra loro
era rotto dai rumori della strada e dal chiacchiericcio dei bambini
che giocavano ancora per strada.
-Mi sono ricordata di
alcune cose. Sono frammenti, mi ricordo di una visita da una
ginecologa che non è stata così lieta e mi
ricordo di te, in
ginocchio che mi chiedi la mano. Sarebbero dei bellissimi ricordi se
non fossero sciupati da una strana sensazione.-
Peter ascoltò con
attenzione e rammarico, non avrebbe voluto parlare di quei giorni, ma
fece un respiro profondo e cominciò a riportare in vita quei
mesi
difficili.
-Quando ci siamo
conosciuti quella notte, era stato tutto fin troppo magico e perfetto
e quando ti ho trovata davanti a casa con ancora la divisa militare e
una custodia di violino in mano, ho capito di essere stato fortunato
ad incontrarti. Tu, però, uscivi da una relazione burrascosa
con un
tuo collega e quando quella dottoressa ci disse che il bimbo era
stato concepito alla fine d'agosto, sapevamo entrambi che le
possibilità che fosse mio figlio, erano esigue.-
-Allora perché mi hai
chiesto di … Sposarti?-
-Perché non volevo che
tornassi da lui e che finissi … Sapevo di poter amare quel
bambino
ed ero certo di amarti.- Peter le prese una mano.-Doveva nascere in
aprile...-
-Ma lo abbiamo perso a
marzo.- sussurrò Clémence.-Aveva un adorabile
ciuffo rosso. E le
sue manine erano perfette.- Aveva lo sguardo puntato sul nulla.
Sorrise al vuoto al ricordo sbiadito di quel viso rugoso e rosso di
un bimbo troppo perfetto per quel mondo.
-Quando sei tornata a
casa, tutto era cambiato. Non siamo riuscita a trovare un nostro
equilibrio e tu ti eri messi in testa di rimanere incinta subito,
nonostante io non fossi d'accordo. Ogni mese assaporavi la delusione,
ogni giorno te ne stavi seduta qui, dopo il lavoro, per ore intere.-
Clémence asciugò
le
lacrime e per uno strano motivo le venne da ridere. -Non ti sembra
strano che ora ci troviamo seduti proprio qui?-
Peter ridacchiò e le
baciò il palmo della mano più volte. -Ero
arrabbiato con te e allo
stesso momento volevo proteggerti da te stessa. Mi dispiace per
tutto, so che forse è troppo tardi … -
-Non c'è tempo per il
rimpianto.- mormorò Clémence stringendo la sua
mano e
portandogliela lentamente sul suo ventre. -Abbiamo ancora speranza.-
Peter ci mise qualche
secondo prima di aprirsi in un sorriso sincero e travolgendola con un
abbraccio stritolante.
-Ti amo, ti amo, ti amo.-
Clémence sorrise e si
allontanò di un millimetro. -Anch'io ti amo, lo ricordo e lo
sento
anche oggi.- gli baciò una guancia e avvampò
all'idea di un nuovo
futuro.
Note:
Voglio ringraziare tutti
coloro che si sono prodigati nel commentare e nel leggere.
Un ringraziamento
speciale a Sere che ha ideato il contest e grazie ancora al primo
posto, non penso proprio di meritarmelo.
Alla prossima,
Reagan_
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