Firestorm (traduzione di MagdalenaHaloway)

di Dustbunny13_traduzioni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il silenzio prima della tempesta ***
Capitolo 2: *** Caccia all'uomo ***
Capitolo 3: *** Assassino ***
Capitolo 4: *** Il peggior miracolo ***
Capitolo 5: *** Idioti ***
Capitolo 6: *** Effigie ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il silenzio prima della tempesta ***


ANGOLO DELLA TRADUTTRICE: Hola! Sono Lena :) Che dire? Sono emozionata, è la mia prima traduzione! L'ho rivista e corretta un centinaio di volte, ma se ci sono errori ovviamente sono pronta a qualsiasi annotazione. Pubblicherò un capitolo a settimana, probablilmente ogni venerdì/sabato. La fic originale è molto lunga (44 capitoli), e io per adesso ho tradotto fino al tredicesimo, perciò spero che non ci saranno ritardi.
Ecco il link della fic inglese:
https://www.fanfiction.net/s/9730540/1/Firestorm
Spero che vi piaccia!
Lena


Prologo

Il silenzio prima della tempesta

 

 

Stava per morire.

 

Si era svegliato con quel pensiero in testa. Eccolo lì, chiaro, senza ombra di dubbio: l'aveva destato dal suo sonno inconstante, spaventandolo, come se qualcuno gliel'avesse sussurrato nell'orecchio. Non era una supposizione; se lo fosse stata, l'avrebbe scacciata dai suoi pensieri. Sherlock credeva nei fatti, non nei presentimenti, ed era in grado di distinguere la dura verità dalla paura irrazionale resa confusa dal suo subconscio dominato dai sentimenti. Questo era un fatto.

 

Sapeva che sarebbe successo quel giorno.

 

La sua mente gli suggerì che aveva tralasciato qualcosa – c'era sempre qualche particolare che gli sfuggiva.

 

Si mise a sedere lentamente, cercando di capire dove si trovasse. Non a Baker Street, ma in un anonimo appartamento londinese che gli garantiva la privacy che cercava. Si era rifiutato di stare a casa di Mycroft.

 

Districò le gambe dalle coperte e si alzò con attenzione, facendo un rapido controllo del proprio stato fisico. Ignorò la cacofonia di dolori provocati dai lividi, ma si rese conto che il suo petto freddo era senza dubbio indice di una polmonite; non sarebbe riuscito ad evitare di farsi visitare da un dottore ancora per molto. A meno che, ovviamente, la sua predizione non fosse stata corretta e non fosse davvero morto quel giorno, il che avrebbe reso del tutto superflua qualsiasi cura.

 

Quindi, niente fretta.

 

Comunque, non aveva tempo per star male: c'era un assassino da catturare. E non solo.

 

Normalmente, questa prospettiva lo avrebbe riempito di abbastanza energia da lavorare incessantemente per giorni, senza dormire, mangiando a malapena, senza quasi registrare nulla non correlato al caso nella sua mente frenetica. Ma non ora. Ora molte cose erano cambiate. E non in meglio. Adesso aveva bisogno di dormire di più, ma era tormentato dagli incubi che lo lasciavano ancora più esausto di prima; cercava di mangiare regolarmente per far felice John, ma ogni cibo sembrava polvere e il suo stomaco ne risentiva. Manteneva la sua routine di igiene personale, ma gli costava in grande sforzo e gli sembrava senza senso. Faceva tutto questo per evitare che John si preoccupasse troppo, ma ciò voleva dire che il dottore era convinto che Sherlock sarebbe stato bene anche da solo.

 

Da solo.

 

La solitudine non lo proteggeva più; anzi, era diventata la sua più grande nemica. Tutto quello che aveva fatto in passato era derivato da una sola motivazione: proteggere i suoi amici. Com'era riuscito a diventare così dipendente dalle altre persone? I sentimenti si erano intrufolati nel suo cuore, e ora non poteva più vivere senza l'affetto e l'attenzione e il calore e tutte quelle banali emozioni umane.

 

I fatti erano questi: non voleva più vivere così. Voleva che John fosse lì con lui – o almeno per lui. Ma adesso John era sposato, ed era tutta colpa di Sherlock, perchè era stato lui a lasciarlo per primo, e ci aveva messo troppo a ritornare, e così nel frattempo una donna aveva riconosciuto il vero valore di John e l'aveva legato a sé per l'eternità, mentre Sherlock era in giro a dare la caccia ai nemici. Intelligente, la ragazza.

 

Era molto peggio, a essere sinceri. Mary Morstan non era solo sveglia, era incredibilmente intelligente, spaventosamente buona e infinitamente generosa. Ma la cosa peggiore era che aveva salvato John Watson. A modo suo, era riuscita in quello che Sherlock aveva sempre cercato di fare – solo che non si era gettata da un palazzo, ma aveva sorriso, l'aveva baciato e gli aveva fatto intravedere una promessa di felicità. Sherlock avrebbe potuto farlo – certo che si. Ma era stato troppo impegnato nei suoi giochetti con Moriarty, con il risultato di aver distrutto le loro vite. Se Mary non fosse arrivata per salvare John dalla sua miseria, il dottore sarebbe scivolato nella depressione, e Sherlock sapeva di doverle essere riconoscente per questo.

 

Lo era stato. Per mezzo secondo. Ma poi era stato sopraffatto dal risentimento. Lei era perfetta per John, cosa che lui non sarebbe mai stato: l'aveva reso felice, gli aveva dato sicurezza, si era presa cura di lui – e soprattutto gli aveva dato qualcosa che lui non avrebbe mai potuto garantirgli. Una famiglia. Dei bambini, magari. Amore, sesso e la prospettiva di invecchiare insieme. Si rendeva conto che questo superava di gran lunga catturare assassini e dare la caccia a pazzi psicopatici.

 

A suo tempo, quando seppe di Mary per la prima volta, mentre era ancora in fuga, con la sua sanità mentale che si stava rapidamente deteriorando, aveva anche considerato l'ipotesi di non ritornare affatto, di lasciare semplicemente John in pace con il suo po' di felicità, sapendolo sereno e al sicuro. Ma poi aveva visto che le ferite di John non si erano ancora richiuse, che sarebbe stato segnato per sempre da quel terribile giorno, e che si stava logorando con la stupida convinzione di essere in qualche modo responsabile per il suo suicidio. Poteva anche non darlo a vedere ora – era così innamorato che sorrideva beatamente anche di fronte alle peggiori notizie alla televisione – ma un giorno la maschera sarebbe caduta. Conosceva John. E conosceva sé stesso: voleva che John tornasse nella sua vita, e se non fosse riuscito ad averlo, allora non voleva nemmeno la vita. Era egoista ma non gli importava, aveva conosciuto il dottore ben prima di Mary. E lei doveva fargli spazio.

 

Ed ecco il punto cruciale: lei voleva farlo. Era tutta colpa sua – lui era il problema.

 

Sospirando, Sherlock si trascinò fino alla piccola cucina. Mise su l'acqua per il tè (le dosi erano per due, ma l'avrebbe bevuto da solo), e si costrinse a concentrarsi su un problema alla volta – il dettaglio nascosto che gli sfuggiva, che gli urlava pericolo da un angolo remoto della sua mente.

 

Avevano preparato un'elaborata trappola per prendere Moran, e in poche ore avrebbe incontrato John, Mycroft e un'intero commando di forze speciali arruolate apposta per catturare il braccio destro di Moriarty. Ma quel dettaglio continuava a sfuggirgli, sommerso dalla marea di emozioni che turbavano la sua mente razionale. Si sentiva costretto ad analizzarle – grazie, John, è tutta colpa tua, stavo meglio quando non m'importava nulla di niente e di nessuno!

 

Si rese conto con allarmante chiarezza che non era davvero risentito nei confronti di John, Mary, Mycroft o chiunque altro – eccetto forse per sé stesso. Quello che sentiva davvero era pura e semplice disperazione. Il risentimento sarebbe stato meglio, gli avrebbe dato energia, l'avrebbe reso impavido facendolo gettare a capofitto nell'azione, ma non era altro che un guscio vuoto. Immobile, come congelato nel dolore. Patetico.

 

Moriarty stava cantando vittoria dalla tomba.

 

Distruggere la rete di Moriarty e assicurare la sicurezza dei suoi amici gli aveva lasciato ferite più profonde di quanto potesse immaginare. Si stava perdendo nell'oscurità strisciante che lo circondava, e non trovava la forza, né voleva trovarla, per combatterla, stando in disparte a guardare mentre la sua anima si disfaceva fino a morire nel silenzio e nell'inattività, senza riuscire a parlare con John, a spiegare, a fargli capire ciò che provava.

 

Se si fosse sforzato di più, se magari avesse parlato con Mary – non era una stupida, sapeva quello di cui John, e forse anche Sherlock, aveva bisogno... Ma l'oscurità lo stava trascinando verso il fondo, sovrastandolo, e anche la più semplice delle attività era diventata un sforzo di cui non riusciva a capire il senso.

 

Arricciò le labbra con disgusto: depressione. Naturalmente il suo malessere aveva un nome, un'etichetta, un modo per assegnare ad una categoria il suo stato mentale, ridimensionando la sua personale apocalisse in un banale disturbo di cui soffrivano milioni di persone, come un'influenza.

 

Ma era mille volte peggio. Il suo palazzo mentale era in rovine: un incendio lo aveva raso al suolo, bruciando i ricordi e polverizzando le memorie, riducendo i momenti recenti in cenere, e rendendo quelli più vecchi irriconoscibili – reminiscenze carbonizzate che non sarebbero mai più tornate, lasciandolo ad arrovellarsi su ciò che erano state.

 

Aveva perso la memoria. Molte parti mancavano, oppure erano state messe sottosopra e ridotte in brandelli, tormentandolo – lo schernivano ogni notte, proprio lui, il maestro della deduzione, reso storpio dalla sua inabilità nel ricostruire gli eventi dopo la sua cattura, senza riuscire a dare un senso alla sua memoria danneggiata.

 

Lo avevano preso, e non avevano fatto altro che distruggergli la mente.

 

C'era un modo per uscire da quest'incubo, però: se avesse avuto dei fatti, avrebbe potuto colmare le lacune nel suo passato. Sapeva che la conoscenza e la fredda logica non avrebbero fatto scomparire il terrore, ma gli avrebbero dato la possibilità di razionalizzarlo e trasformarlo in qualcosa che era in grado di affrontare. Ma gli incubi, il senso di colpa, la devastazione che aveva sentito fin dal suo ritorno lo stavano soffocando.

 

Mycroft continuava a fargli pressione, spingendolo ad andare in un ospedale psichiatrico, ma non l'avrebbe mai fatto. Quello che gli serviva davvero era il suo maledetto telefono. Il telefono, non un ospedale.

 

Più precisamente, gli serviva il diario che aveva tenuto su di esso. Ovviamente, le note terminavano al momento della cattura, ma non importava – gli incubi gli davano sufficienti informazioni su quel periodo. La logica avrebbe facilmente riempito gli spazi vuoti. Anche Mycroft, naturalmente, voleva il telefono – i dati racchiusi al suo interno erano molto delicati, e qualsiasi agente segreto avrebbe fatto i salti mortali per averli. Ma lui, Sherlock, era interessato solo al diario. Non c'erano solo scritti gli eventi dello iato, ma anche i suoi pensieri, le sue paure e le sue speranze e – si costrinse a pensare con brutale sincerità – li aveva scritti per John. Nel caso non fosse mai tornato a casa.

 

Ovviamente, non aveva preso in considerazione l'idea di tornare a casa, ma con la mente in brandelli.

 

Aveva bisogno di quel cellulare. Disperatamente. Era l'unico modo per rintracciare i suoi ricordi, ma, soprattutto, era l'unico modo per cercare di far capire tutto a John.

 

Magari era comunque perduto. A volte desiderava che il suo nemico fosse riuscito ad ucciderlo, rendendolo un eroe agli occhi di John. Se fosse morto, al dottore sarebbe stata raccontata la verità sul suo falso suicidio. Mycroft gliel'aveva giurato – non avrebbe permesso che fosse lasciato con la convinzione che Sherlock si fosse suicidato e lui non fosse riuscito a impedirlo. Quindi, il suicidio non era un'opzione: aveva visto che effetto aveva avuto su John.

 

Ma voleva essere morto.

 

Sarebbe potuto morire quel giorno.

 

Strano come un semplice pensiero ti possa dare energia.

 

Il bollitore fischiò.

 

Sherlock versò l'acqua bollente sopra le foglie di tè e le guardò mentre si frantumavano e iniziavano a volteggiare, distendendosi poi velocemente e riprendendo la loro forma originaria.

 

Sorrise. Quel giorno tutto sarebbe cambiato.

 

Bevve il suo tè, assaporando il sapore e la fragranza, crogiolandosi nell'illusione del calore e della beatitudine domestica: la tazza fumante nella luce mattutina, il latte che schiariva il liquido ramato... ma non era Baker Street. Non era casa.

 

Sherlock poggiò la tazza. Basta con i sentimenti; il suo tempo stava scadendo. Andò in bagno per prepararsi per la giornata.

 

Doccia, barba, vestiti.

 

Cappotto, sciarpa, e pistola.

 

Era pronto.

 

Si guardò allo specchio – il suo volto non sembrava così diverso, no? Le rughe erano leggermente più profonde, i lineamenti più definiti, le spalle più ampie. Un piccolo livido sotto l'occhio sinistro, che presto sarebbe scomparso. Sapeva però che c'era un'importante differenza: il suo sguardo guardingo. L'arroganza c'era ancora, così come quel po' di noia e l'acuta intelligenza dei suoi occhi vigili, ma la curiosità era stata rimpiazzata dal sospetto, l'audacia dalla cautela.

 

Cambiamenti lievi. La maggior parte delle persone aveva notato solo che era un po' invecchiato, i suoi capelli erano più corti e il suo corpo era – sorprendentemente – più forte. Ma John aveva visto molto di più. Il dottore poteva non avere lo sguardo più acuto del mondo davanti ai fatti e alle prove, ma era un infallibile segugio quando si parlava delle emozioni di Sherlock.

 

Non voleva vederlo.

 

Sherlock sogghignò cinicamente di fronte al proprio riflesso. Che ironia del destino: per tre anni, tutto ciò che aveva desiderato era stato rivedere il suo amico. Ma John era ancora un suo amico? Dopo quello che Sherlock aveva fatto – fermò quel pensiero immediatamente, ma anche solo sfiorare quel ricordo lo aveva fatto trasalire.

 

Inutile. Sherlock girò le spalle allo specchio. Era tempo di andare.

 

Una macchina nera lo stava aspettando, grazie a Mycroft. Entrò nell'auto senza degnare di uno sguardo l'autista. Schiacciandosi contro la portiera, tirò fuori il suo telefono e iniziò a scrivere. Il cellulare era nuovo, un regalo di Mycroft, proprio come la replica perfetta del suo amato Belstaff, il suo modo per dire bentornato a casa. Solo che non si sentiva a casa. Ancora una volta, inutile.

 

Si lasciò trasportare attraverso Londra, fino al luogo dove tutto era iniziato: l'aula di un tribunale all'Old Bailey.

 

Doveva al mondo una resurrezione.

 

Narcisi

 

John imprecò.

 

Si era versato il caffè troppo frettolosamente, facendo cadere il liquido bollente dalla tazza sulla sua mano, bruciandosi la pelle e inzuppando completamente la tovaglia. Stava cercando furiosamente di riemediare a quel casino, con l'unico risultato di far cadere il vaso di cristallo con i narcisi, bagnando il tavolo.

 

“Cazzo!” ringhiò, dando una manata al vaso, che sbriciolò i fiori e macchiò di polline giallo la tovaglia bianca. “Merda”, sibilò, litigando con i narcisi e chiazzando il tessuto con altra acqua, polline e linfa. “Fantastico, verde, giallo, che casino.”

 

“Basta, John.” Mary sfiorò con un tocco delicato le spalle del dottore. “Va tutto bene. Non ti preoccupare”

 

“Mary, mi dispiace, sono così maldestro oggi, non so che cosa – Gesù, se penso che sono un chirurgo e non riesco nemmeno a versarmi una tazza di caffè senza causare una catastrofe...”

 

“Sei nervoso, John, ecco tutto. La maggior parte delle persone non è troppo contenta di andare a incontrare un assassino.” disse, inarcando un sopracciglio.

 

John sospirò. “Ero un soldato, Mary, andare in battaglia era una cosa normale. Non è questo quello che mi sta mandando fuori di testa.”

 

“Allora che cos'è?” chiese dolcemente, intrecciando le dita della sua mano delicata con quella del marito, trasmettendogli una sensazione di calore che lo calmò. John chiuse gli occhi, in guerra con sé stesso, e sentì Mary toccargli il viso.

 

“E' Sherlock, non è vero? Incontrarlo ti rende più nervoso che dare la caccia a Moran.”

 

John sbuffò. “Già.” La guardò, osservando il suo corpo avvolto in una vestaglia color malva: era di mezza testa più alta di lui, anche a piedi nudi. I riccioli scuri le ricadevano sulla schiena, la sua pelle chiara era punteggiata di lentiggini, e i suoi occhi erano i più caldi che avesse mai visto. Non riusciva ancora a capacitarsi di come una donna così bella, fiera e intelligente si fosse potuta innamorare di un uomo ordinario come lui, ma lei l'aveva inseguito con una determinazione e testardaggine che gli ricordavano di Sherlock.

 

Si rese conto che molte cose di Mary gli ricordavano Sherlock.

 

“E' tutto l'insieme, immagino, tornare in tribunale, ascoltare di nuovo il caso, cercare di provare l'innocenza di Sherlock e poi mettere in scena la sua resurrezione. Sarà un inferno, quel giorno. La stampa ci farà a pezzi. E poi c'è questa cosa tra di noi... Questo silenzio.” sospirò profondamente. “Non so più chi sia Sherlock.”

 

“Andrà tutto bene, John, ne usciremo, in qualche modo, quando questa pazzia sarà finita.”

 

“Come?” gemette il dottore, senza aspettarsi una risposta.

 

“Non lo so,” rispose Mary, alzando il sopracciglio. “Non penso che la terapia di coppia sia la cosa migliore per voi due,” ridacchiò, “ci vuole qualcosa sopra le righe. Ci dev'essere un modo per risaldare quest'amicizia.”

 

“Non credo”, mugolò John. “Non mi parla nemmeno, sta solo lì a fissarmi – Dio, mi fa paura! E tutta questa cosa di non permettere a nessuno di toccarlo, cioè lui non è mai stato un tipo da abbracci, ma questo – questo mi terrorizza, cavolo!”

 

“Sai di che cosa si tratta, John”, disse Mary dolcemente, “lo sapete tutti. Sapete esattamente che cosa gli sta succedendo.”

 

“Si. Disturbo da stress post-traumatico. Come da manuale. Ma come aiutarlo è un altro paio di maniche. Non penso che riusciremo a convincere Sherlock ad andare in terapia.” scoppiò in una risata amara al solo pensiero. “Non oso immaginare chi ne uscirebbe più sconvolto.”

 

Mary fece un sorriso obliquo. “Ha bisogno di te, John.”

 

“Non sono sicuro che lui la veda così.”

 

“Invece si.”

 

“Beh, allora ha un modo molto strano di farmelo capire.”

 

“D'altronde non mi sembra quel che si dice un uomo ordinario, giusto?”. Sorrise con fare rassicurante e gli accarezzò il dorso della mano con il pollice, calmandolo in silenzio.

 

“No, Sherlock decisamente non è ordinario”, sospirò. Aggrottando le ciglia, alzò un lembo dello scialle che Mary portava attorno al collo. Sapeva cosa nascondeva. Mary gli spostò dolcemente la mano. “Sto bene, John.”

 

John provò a dire qualcosa, ma dalla sua bocca non uscì nessun suono.

 

“Cosa c'è?” chiese Mary.

 

“Niente. E' solo... solo... come puoi perdonare così facilmente? Come? Mi sento un tale stronzo quando – ”

 

“E' facile, John.” Sorrise maliziosamente. “Posso perdonare a Sherlock praticamente tutto, per una semplice ragione: se non fosse stato per lui, non avrei avuto te.” Il suo sorriso scomparve. “Non saresti vivo e non ti avrei conosciuto. E se lui non ti avesse lasciato, non mi sarei mai avvicinata a te. Quindi, niente Sherlock, niente John per me. Se lui possa perdonare me per averti portato via è un'altra domanda.”

 

“Come se avesse qualche motivo per lamentarsi.” brontolò John.

 

“John”, Mary gli diede un lieve pizzicotto sul petto, “lascia stare per ora, va bene? Devi concentrarti. Solo – solo non ti fare male, okay?”

 

“Certo, certo. Starò attento”, promise John.

 

“No, non è vero”, sogghignò. “Resta vivo, almeno. Affare fatto?”

 

“Si.” La strinse in un abbraccio e nascose il viso nella sua spalla, inalando il suo profumo. “Hhm, hai un odore così buono.”

 

Lei rise. “Beh, è un profumo da cento sterline, metti pure che non sia buono!”

 

“La tua pelle ha un odore meraviglioso anche senza profumo”, mormorò John, baciandola sul collo.

 

Lei ridacchiò. “Già, sono stata proprio fortunata a riceverne uno ridicolmente caro da quel tipo ricchissimo come ricompensa per i miei sforzi, quando invece tutto quello che volevo era una donazione per la biblioteca dell'università.”

 

“Devo ammettere”, sussurrò John, esplorando con le labbra il punto del suo collo dove la fragranza era più intensa, “che quel tipo ricchissimo ha proprio un ottimo gusto e la biblioteca è l'ultimo dei miei pensieri, adesso.”

 

Mary lo baciò di rimando. “Meglio così, perchè adesso anche tu hai il mio stesso profumo,” disse, facendo una risatina. “Un po' femminile per un dottore militare, non trovi?” Le sue dita affondarono lentamente nei suoi capelli.

 

“Non mi interessa”, mugolò John. “Mi ricorda di te.” La strinse più forte, e si stava giusto iniziando a domandare se c'era il tempo per dei baci seri e forse qualcosa di più, quando sentì il clacson di una macchina. Un momento dopo, il campanello suonò: gli scagnozzi di Mycroft erano arrivati per portarlo all'Old Bailey e assistere alla resurrezione di Sherlock. Sospirò e Mary si liberò dall'abbraccio; lui la lasciò andare riluttante, baciandola velocemente sulla punta del naso. Lei fece un sorriso e si riavvicinò, baciandolo come si deve sulla bocca.

 

“Ora,” sorrise mentre lo accompagnava alla porta, “vai a fare il miracolo, dottore. Fai risvegliare quell'uomo dalla morte.”

 

John sorrise mestamente di rimando, e il campanello suonò ancora, decisamente impaziente questa volta.

 

Fece un cenno del capo all'uomo vestito di nero che lo aspettava sulla porta. “'Giorno.”

 

“Buon giorno, signore”, rispose quello, e gli aprì la portiera della macchina che lo aspettava, desideroso di portarlo via dalla linea di fuoco. John alzò le sopracciglia ed entrò. Si sentiva protetto - Mycroft aveva trasformato quella deliziosa stradina di Kensington in una fortezza, nonostante l'illusione di tranquillità con le sue aiuole fiorite, le persiane francesi, le pareti stuccate e i lampioni colorati. Non c'era nessun pericolo ora; Sherlock aveva escogitato un piano, e conosceva Moran meglio di chiunque altro – sapeva come pensava quell'uomo. Con Sherlock come mente e Mycroft come braccio, non c'era nessuna possibilità per Moran di batterli.

 

John si sedette tranquillamente e tirò fuori il cellulare. Sospirò: nessun messaggio da Sherlock. Normalmente, avrebbe ricevuto almeno cinque messaggi, sempre più impazienti, culminanti in qualche fantasioso insulto. Ora non c'era altro che silenzio. Mise via il telefono e guardò nel finestrino, fissando il proprio riflesso.

 

Questi tre anni avevano lasciato il segno, nonostante la recente felicità con Mary. I suoi capelli erano quasi del tutto grigi ora, le rughe sul volto erano più profonde, scavate non dalle risate ma dal dolore. Mary l'aveva salvato tanto quanto Sherlock; e se solo fosse riuscito a convincere Sherlock ad accettare il suo aiuto, allora forse sarebbero riusciti a rimarginare le ferite della loro amicizia. Dio, quanto gli mancava quell'arrogante figlio di puttana – lo Sherlock malinconico che aveva incontrato una settimana prima lo spaventava. C'era una silenziosa aurea di minaccia che lo circondava, e sembrava che Sherlock si fosse chiuso in sé stesso, escludendo tutti gli altri. John voleva disperatamente attraversare questa barriera invisibile, ma se la sua mente grandiosa e testarda non voleva cambiare idea, nessuno sarebbe mai riuscito a costringerlo. Presto, una montagna sarebbe crollata.

 

Sospirando, si pizzicò tra le sopracciglia per far diminuire il mal di testa da nervosismo. Com'era possibile che tutto fosse andato così terribilmente male? Perchè?

 

I suoi pensieri scivolarono al fatidico giorno del ritorno di Sherlock. Il giorno che sarebbe dovuto essere il più felice della sua vita. Invece, il miracolo si era trasformato in un incubo.

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Capitolo 2
*** Caccia all'uomo ***


ANGOLO DELLA TRADUTTRICE: Hola! Grazie a chi ha recensito, o anche solo letto, il primo capitolo di questa storia. So che avevo promesso di aggiornare ogni venerdì, o al più tardi ogni sabato, ma sono tornata solo oggi a casa da un paesino sperduto tra le montagne senza wi-fi. Detto questo, un breve appunto sul capitolo: da qui inizia un flash-back, che durerà per vari altri capitoli, e racconterà tutto ciò che è avvenuto tra l'incontro di John e Sherlock e la "resurrezione" di quest'ultimo davanti agli occhi del mondo. Buona lettura!
Lena

Capitolo 2

Caccia all'uomo

 

John e Sherlock erano d'accordo su una cosa: era tutta colpa di Mycroft.

 

Se solo Mycroft avesse rivelato a John che Sherlock era vivo, lui si sarebbe infuriato, avrebbe gridato, forse anche pianto, ma avrebbe capito; e avrebbe accettato. Si sarebbe lasciato portare in un posto sicuro, sapendo che c'era un assassino in libertà, e non uno qualsiasi, ma il braccio destro di Mortiarty, deciso a finire il compito che gli era stato assegnato e a vendicarsi dell'uomo che l'aveva ingannato recitando la propria morte. Moran, ora che sapeva che Sherlock era vivo, era determinato a uccidere John, e il dottore aveva bisogno di protezione. Solo che Mycroft non gliel'aveva detto. John si rifiutava categoricamente di parlare con lui dal giorno del suicidio, incolpandolo della distruzione del fratello, ma, se Mycroft si fosse sforzato, l'avrebbe contattato, magari attraverso Mary. Mary era sempre stata quella sensibile.

 

Però, Mycroft non gli aveva detto niente, ma era ritornato ai suoi soliti rapimenti. Sfortunatamente, John non aveva nessuna intenzione di essere rapito, e gli scagnozzi di Mycroft avevano dimenticato che non avevano a che fare solo con un tranquillo dottore, ma con un ex-soldato che sapeva come combattere, correre e far perdere le proprie tracce. Ed è proprio quello che aveva fatto.

 

Questo aveva fatto diventare Sherlock isterico. Era riuscito con enorme difficoltà a rientrare in Inghilterra, dopo una drammatica missione di salvataggio organizzata da Mycroft – solo per scoprire che John non c'era più. Ovviamente Mycroft aveva cercato di nascondere il fatto che se lo fosse fatto scappare, ma il fratello aveva imparato molto durante il suo iato, e una di questa era come estorcere informazioni. Un'altra era come scomparire. Così, nel giro di un'ora, l'impensabile era accaduto – un altro uomo era scivolato dalle mani di Mycroft.

 

Sherlock sapeva dove sarebbe potuto andare John. Anche Moran lo sapeva, grazie ai continui pedinamenti, così Sherlock andò lì per salvarlo. Molto semplice. Però lo disse a Mycroft, in modo che potesse mandare rinforzi. Era una situazione troppo pericolosa per potersi permettere di dare ascolto a vecchi risentimenti e al suo orgoglio. Doveva fare in fretta, così non prese la macchina, ma usò una barca.

 

John, all'oscuro di tutto, arrivò in autobus e camminò per la restante manciata di metri, facendo attenzione che le telecamere di sicurezza riprendessero solo una sagoma indistinta nella nebbia. Quando era ormai vicino alla sua destinazione, prese il telefono e mandò un messaggio a Mary, facendole sapere che cosa era successo, e che aveva bisogno di schiarirsi le idee e liberarsi da quel senso di turbamento che lo opprimeva.

 

Turbamento era un eufemismo: la sua mente galoppava a mille all'ora, quasi come il suo cuore. Quando John era scappato dagli uomini di Mycroft, uno di loro aveva sibilato una commento rabbioso al suo compagno, una frase che aveva scatenato una tempesta nel suo petto.

 

Il fratello si infurierà.

 

Il fratello. Quale fratello, se non quello di Mycroft? Ma era morto. O no? John deglutì, conscio del fatto che tutto il dolore non era affatto scomparso, ed ora si stava risvegliando, dilaniando il suo cuore.

 

Il suo telefono vibrò: Mary lo stava chiamando.

 

“Tutto bene?” Sembrava preoccupata, ma non arrabbiata. Non gli avrebbe detto di smettere di aggrapparsi alla stupida idea che Sherlock fosse ancora vivo; lo conosceva troppo bene per farlo.

 

“Si sto bene, è solo che – ho solo bisogno di stare un po' lontano dal mondo.” Fece una pausa e prese un profondo respiro.

 

“Pensi che sia vivo.” Era un'affermazione, non una domanda.

 

“Mary, so che è assurdo, e ho smesso di sperare in questo miracolo molto tempo fa, ma questo – questo è così – ” Sconfitto, tacque, ben consapevole che doveva sembrare matto. “Per favore, non pensare che io sia pazzo.”

 

“So che non lo sei.” Poteva percepire il suo sorriso anche attraverso la cornetta.

 

“Come lo sai?” Sentiva la felicità riversarsi in lui. Dio, quanto l'amava.

 

“Sei la persona più ragionevole che abbia mai conosciuto, e, da quanto mi hai detto, Sherlock è l'unico che avrebbe potuto escogitare uno stratagemma del genere. Quindi no, non è impossibile, e tu non sei pazzo.”

 

John si fermò di colpo. “Quindi pensi che potrebbe essere vivo?”

 

“No,” disse tranquillamente, “Ma se lo fosse, digli che mi piacerebbe incontrarlo.”

 

“Mary?”

 

“Si?”

 

“Ti amo.”

 

“Lo so.” Ridacchiò. “Ti amo anch'io. Adesso vai, fai ordine tra i tuoi pensieri, ti passo a prendere più tardi. Possiamo tornare a casa insieme.”

 

“Si.” Chiuse gli occhi per un momento. “Grazie.”

 

Terminò la chiamata e continuò a camminare, sentendosi già meglio, nonostante la sua mente stesse ancora brulicando con le ipotesi più disparate. Aveva bisogno di pensare, e doveva trovare un posto tranquillo per farlo. Disperatamente. Putroppo, Mycroft conosceva ogni nascondiglio, ogni pub, ogni panchina sul fiume. Così andò nell'uinco posto in cui era certo che a Mycroft non sarebbe mai venuto in mente di cercare, perchè era uno dei posti più inusuali per la contemplazione: Battersea Power Station, la vecchia centrale elettrica.

 

L'enorme costruzione di mattoni vicino al Tamigi, con le sue quattro ciminiere bianche protese verso il cielo, circondato da rifiuti, erbacce ed edifici abbandonati, era il rifugio perfetto. L'area cirostante era circondata da un'alta rete metallica per tenere lontani i curiosi, da un cantiere in disuso con due grandi gru dalla parte del fiume, da una ferrovia a ovest, dal quartiere industriale a est, e da una strada trafficata a sud. John oltrepassò la recinzione, evitò le telecamere di sicurezza e si diresse verso il profilo dell'agglomerato di mattoni nell'oscurità. Si sentì davvero ridicolo guardando le persone, dall'altro lato del Tamigi, che davano serenamente da mangiare alle anatre, mentre invece lui stava vagando per i corridoi abbandonati di una centrale per la combustione del carbone degli anni '30. Bisogna andare molto lontano per sfuggire a Moriarty. Due pensieri lo distrassero: il ricordo dell'incontro con La Donna, probabilmente l'unica persona al mondo in grado di scalfire l'armatura metallica del cuore di Sherlock – e solo perchè lui gliel'aveva permesso. Inoltre, il palazzo gli ricordava sé stesso: vecchio stampo, solido, affidabile, e abbandonato.

 

Arrivò a lato del palazzo e si arrampicò sopra un'altra recinzione, atterrando senza sforzo sui suoi piedi. Dopo aver incontrato Mary, aveva riniziato a fare esercizio, e questo dava i suoi frutti – un anno prima non sarebbe stato così facile, ma d'altronde un anno prima non avrebbe avuto bisogno di scappare da Mycroft per contemplare la possibilità che Sherlock fosse ancora vivo.

 

John stette in silenzio per un po', guardandosi attorno e cercando di sentire eventuali altri solitari come lui, ma non sembrava esserci nessuno. Il piano terra era illuminato da lampioni, che puntavano verso la carcassa dell'edificio e che probabilmente polverizzavano ogni anno migliaia e migliaia di dollari per evitare che degli idioti si facessero male o morissero cadendo nei buchi allagati del pavimento o venendo trafitti dalle punte di ferro che sporgevano dai muri. Era un posto pericoloso, di notte.

 

John attraversò una delle grandi sale, ed evitando i cumuli di mattoni e calce salì al secondo piano, facendo lo slalom tra piastrelle rotte e fili elettrici fino ad arrivare al lato della costruzione che dava sul fiume, dove le finestre in frantumi si affacciavano sul Tamigi.

 

C'era ancora un po' di luce che sfiorava la superficie dell'acqua, facendo risplendere le onde e illuminando le gru del cantiere abbandonato. Era quasi surreale il contrasto tra il vecchio edificio di mattoni ormai in rovina e i nuovissimi grattacieli di vetro che si innalzavano dall'altra parte di Londra. Prese un respiro profondo e cercò di calmare il proprio tumulto interiore.

 

Il fratello. In tutta onestà, avrebbe potuto significare qualsiasi cosa – era altamente improbabile che l'uomo di Mycroft si stesse riferendo a Sherlock. D'altro canto, però, John aveva sempre avuto i suoi dubbi sul suicidio dell'amico, immaginando le teorie più assurde su come avesse potuto inscenarlo, ma dopo un anno senza che fosse successo il miracolo per cui aveva pregato, si era arreso. I miracoli non esistevano. Dio solo sapeva perchè Mycroft voleva parlargli proprio ora, ma certamente non era a cause di un'imminente risurrezione di Sherlock. D'un tratto si sentì stupido per essere venuto lì, nascondendosi e affaticandosi per nulla.

 

Sentimenti. Sherlock avrebbe riso di lui.

 

John stava per girarsi e tornare indietro, quando i suoi occhi notarono un lampo di colore nell'acqua; aguzzò lo sguardo e si sporse dalla finestra. Non si era sbagliato: era proprio una barca.

 

Qualcun altro era lì. E questa persona era venuta in un modo alquanto inusuale. Il suo istinto da soldato si fece subito sentire, mentre la sua mente vagliava tutte le possibilità – un criminale, gli scagnozzi di Mycroft, dei teppsitelli che volevano fare un festino nella vecchia centrale? Una voce continuava a sussurrargli pericolo, e doveva fidarsi dei suoi istinti, non importa quanto fossero improbabili. Per la prima volta dopo tre anni, desiderò di essersi portato una pistola.

 

John si ritirò da quella postazione, ritornando sui suoi passi all'interno dell'edificio. A metà della galleria, credette di aver sentito un suono. Si immobilizzò all'istante, tutti i suoi sensi improvvisamente acuiti – ma non c'era nulla. Poi, proprio quando stava pensando di averlo solo immaginato, lo udì di nuovo: dei passi, così leggeri e silenziosi che non sarebbero potuti appartenere a un'intruso sconsiderato – no, era un predatore a caccia.

 

Il suono quasi impercettibile di metallo sui vestiti, il fruscio leggerissimo della stoffa, e quello degli anfibi che si facevano strada tra il pietrisco e la polvere, con il proprietario che cercava disperatamente di soffocarlo – cosa impossibile in un palazzo pieno di detriti e schegge di vetro. Chiunque fosse quest'uomo, era proprio sotto di lui, al piano terra. John si costrinse a mantenere regolare il suo respiro, preparandosi a una corsa forsennata giù per le scale di metallo e attraverso la grande sala. Molto, molto lentamente si addentrò all'interno del palazzo e diede una rapida occhiata giù dalla galleria al piano inferiore.

 

Si. Nella grande pozza d'acqua che filtrava dal pavimento, riuscì a scorgere il riflesso di un uomo che strisciava furtivamente rasentando la parete, cercando di restare in ombra. Aveva una pistola. E non un semplice fucile da caccia o una rivoltella, ma un fucile da cecchino, un'arma ad alta precisione fornita anche di mirino telescopico. Non si va a caccia di scoiattoli con quella. Si va a caccia di uomini.

 

A quanto John sapesse, era l'unica preda in quel luogo, e, nonostante tutto ciò non avesse assolutamente alcun senso, non si preoccupò di capire il perchè. L'importante era trovare un modo per uscire. All'istante. Ma precipitarsi di sotto e correre nel bel mezzo della sala non sembrava una grande idea – sarebbe stato un bersaglio facile. Si spremette il cervello e infine decise che scalare la costruzione di ferro sulla parete esterna dell'edificio era probabilmente l'idea migliore – se fosse riuscito a farlo di nascosto. Se si fosse fatto scoprire, l'assassino sarebbe stato in netto vantaggio – dal piano terra sarebbe riuscito facilmente ad arrivare in ogni parte della centrale, e con quel maledetto fucile non avrebbe dovuto far altro che inginocchiarsi, prendere la mira e sparare opportunamente a John mentre lui pendeva aggrappato alla parete del palazzo come un pipistrello.

 

Non aveva scelta. John strisciò attraverso la galleria, trattenendo il respiro e cercando disperatamente di non fare rumore – grazie al cielo le sue scarpe avevano le suole morbide, ma comunque era buio e il pavimento era coperto di detriti e piastrelle scheggiate, e se ne avesse pestata una –

 

Si immobilizzò. Dannazione. Il suo cuore inizò a battere furiosamente, pompando il sangue nelle vene così velocemente che gli rendeva difficile sentirlo – ma ne era sicuro, quel maledetto cecchino si stava avvicinando, si trovava indubbiamente sui gradini di metallo di quella scala traballante, e stava per raggiungere la galleria. L'aveva sentito?

 

Doveva agire in fretta. Arretrò fino all'edificio adiacente, puntando le finestre rotte; poteva già vedere il cielo stellato e le costole dello scheletro di ferro sul muro esterno – la sua via per la salvezza. Anche se l'uomo l'avesse sentito, John ora aveva un piano: il lato del palazzo non era illuminato ed era pieno di ombre indistinte – il cecchino avrebbe potuto tentare qualche colpo nell'oscurità, ma avrebbe perso tempo prezioso nel correre di nuovo al piano terra e poi fuori, all'aperto. Nel frattempo, John sarebbe scomparso.

 

Solo che non arrivò mai a quel punto. Con gli occhi fissi sulla finestra, stava già per salire sul cornicione quando un uomo lo afferrò dalla schiena e lo tirò indietro con una forza sconcertante. Subito una mano gli tappò la bocca, sigillando in essa ogni suono ancor prima che questo potesse lasciare le sue labbra, le dita che premevano dolorosamente sugli zigomi; sentì le costole che si incrinavano sotto la pressione delle braccia fortissime dell'assalitore – l'aria gli fu fatta uscire a forza dai polmoni, mentre l'uomo lo colpiva con le ginocchia, facendogli perdere l'equilibrio, e prima ancora che John potesse anche solo pensare di difendersi, si schiantò contro la parete. L'avversario lo immobilizzò, efficacemente e senza fatica, semplicemente schiacciandolo con il proprio stesso corpo. L'uomo era alto, forte, e implacabile, e John si sentì come una mosca intrappolata in una ragnatela. Le sue orecchie furono pervase da un suono stridulo, e la vista inizò ad appannarsi, con il dolore che si irradiava per tutto il petto, e se non fosse riuscito a fare un bel respiro entro pochi secondi, sarebbe presto morto. Però, nonostante il panico, il suo subconscio riconobbe quelle lunghe dita premute sulla sua bocca, e soprattutto il caldo profumo di quell'amatissima pelle.

 

Oh Dio. Oh mio Dio.

 

Gli occhi di John si aprirono, il suo cuore stretto in una morsa dolorosa, e diede un violento strattone per liberarsi, ansimando in cerca d'aria, l'amato nome già sulla punta della lingua –

 

“Taci.” Era solo un sibilo, udibile a malapena, ma così autoritario che John si zittì all'istante.

 

Scoppiò quasi a ridere – tre anni di agonia, e le prime parole che gli rivolgeva erano “taci”.

 

“Anche a me fa piacere rivederti,” pensò ironicamente, e sbarrò gli occhi, sopraffatto, pregando che il suo cuore non scoppiasse. Obbligò la sua mente, che vagava senza controllo, a concentrarsi, cercando disperatamente di realizzare che era accaduto il miracolo: Sherlock era vivo. Era lì, era tutto intero, ed era terribilmente aggressivo.

 

C'era qualcosa di spaventoso nel modo in cui Sherlock lo aveva spinto contro il muro – era brutale, gli stava facendo male e non c'era alcun bisogno di quella presa di ferro. John cercò di dimenarsi, con l'unico risultato di scontrarsi ancora più dolorosamente con il corpo dell'amico. Non andava bene. Si costrinse a rilassarsi e sentì Sherlock fare lo stesso, anche se solo leggermente, ma abbastanza per consentire a John di girare la testa, avvicinando la bocca all'orecchio di Sherlock – i suoi riccioli erano molto più corti, si accorse con stupore, e il suo corpo era duro e inaspettatamente massiccio; non indossava il suo solito cappotto, ma alcuni pratici indumenti, e sapeva di polvere e sudore e armi e Sherlock, tranne che per lo shampoo costoso, che non era affatto male... John mise un freno ai suoi pensieri incontrollati.

 

“Sherlock,” sussurrò, e improvvisamente, come se avesse detto una parola magica, il suo amico lo lasciò andare e indietreggiò velocemente di due passi, decisamente troppo per i gusti di John. Non gli sarebbe dispiaciuto poterlo toccare, facendo scorrere le dita sul suo corpo, assicurandosi che fosse vivo, sentire il suo calore, il battito del suo cuore, i suoi capelli incrostati di sangue. Era troppo buio per vederlo in faccia, ma il profilo della sua ossatura aristocratica e dei suoi zigomi affilati era inconfondibile. John voleva meravigliarsi di questo miracolo, ma non era il momento: c'era un killer a briglia sciolta.

 

John indicò la finestra, gesticolando freneticamente per spingere Sherlock a scappare, ma lui scosse la testa. Con un movimento repentino, il detective si posizionò accanto alla finestra, sbirciando furtivamente fuori. Poi alzò una mano, richiamando l'attenzione di John, e indicò una macchia sul terreno. Accigliandosi, il dottore si sporse nell'oscurità – e, infine, lo vide. C'era un altro uomo nascosto nell'ombra, accucciato dietro gli arbusti nell'area circostante. Se John si fosse calato giù, gli avrebbero sparato prima ancora che avesse capito da dove veniva il proiettile. Soffocò un'imprecazione: ora erano intrappolati tra un assassino che setacciava la galleria e il suo compagno che li aspettava fuori. L'uomo della galleria doveva essere vicino ormai – si, John poteva sentire il suono ovattato dei suoi passi. Guardò Sherlock; lui tirò fuori una pistola da una tasca della giacca e si premette un dito contro le labbra. John si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, anche se l'arma non poteva fare molto contro un fucile ad alta precisione.

 

Cercò di attirare l'attenzione di Sherlock, improvvisando un piano per tendere un'imboscata al cecchino, ma lui scosse nuovamente la testa, estraendo un piccolo oggetto dalla tasca. Fece uno strano gesto e ci volle un momento a John per capire che doveva coprirsi le orecchie. Le sue sopracciglia si incurvarono dalla sopresa e dalla confusione, ma fece come gli era stato detto. Sherlock lo guardò; i fari di una macchina giù in strada illuminarono i suoi lineamenti abbastanza da permettere a John di vedere un improvviso ghigno sul volto del detective mentre questi premeva l'interruttore. E poi il mondo venne invaso dalle fiamme.

 

Non molto lontano, un'assordante esplosione lacerò il silenzio, seguita dal ruggito del fuoco e dalle macerie che volavano in aria. Il pavimento tremava, provocando una pioggia di detriti e polvere dalle pareti, il cielo notturno illuminato d'improvviso da un bagliore rossastro. L'uomo a terra si rannicchiò istintivamente ancor di più dietro gli arbusti, ma poi abbandonò la posizione. In un unico, fluido movimento, Sherlock afferrò la pistola, la caricò, prese la mira e sparò due rapidi colpi. L'uomo fu scaraventato via e ricadde sulla schiena colpendo il duro suolo, e poi rimase immobile, le braccia allargate scompostamente come una bambola rotta.

 

John spalancò la bocca, “Cavolo”, esclamò, “quello si che era un colpo!” Ancor prima di poter anche solo reagire, Sherlock gli gettò la pistola tra le mani e lo spinse verso la porta. “John, corri dietro a Moran,” incalzò, “se non gli puoi sparare, cerca di farlo arrivare all'entrata principale, gli uomini di Mycroft arriveranno da lì. Fai attenzione, anche in fuga è estremamente pericoloso. Sparagli alle spalle se devi, non esitare!”

 

“Cosa? Sherlock – ” chiese John, nella confusione più totale, ma il detective stava indicando freneticamente il pavimento.

 

“Ce n'è un altro, non capisci?”

 

“Cosa? Dove?” John guardò in direzione dell'uomo morto, e vide qualcuno affrettarsi verso di esso, una sagoma alta e magra che si muoveva furtivamente. “Dannazione, si, lo vedo – ”

 

“Vai!” gli urlò Sherlock, dandogli una leggera spinta, “Prendi Moran!”

 

“Sherlock! Sei disarmato!” John cercò di ridargli la pistola, ma lui si era già calato dalla finestra. “Non ho bisogno di un'arma!” ringhiò. “Prendi. Moran.”

 

“Diamine!” imprecò John, guardando Sherlock aggrappato alla costruzione di ferro con sorprendente agilità. “E comunque, chi è questo Moran?” gridò, senza ricevere nessuna riposta. Osservò la pistola che aveva tra le mani: era una Glock 17, l'arma standard dell'esercito, niente di speciale. “Oh, sei un bastardo.” ridacchiò. “Ti sei trasformato in un tiratore scelto.” Poi si girò e fece come gli era stato detto, sgattaiolando dentro l'edificio, facendo attenzione che il cecchino non fosse più nella galleria.

 

Non c'era. John si sporse da dietro una colonna giusto in tempo da vedere l'uomo correre verso il fiume, probabilmente per raggiungere la barca. “Oh no, non lo farai,” sibilò il dottore, e sparò velocemente un colpo nella sua direzione. Moran fece una larga curva, capendo che non poteva arrivare alla barca senza attraversare la linea di tiro. Invece, girò a est, facendo attenzione a non andare mai troppo allo scoperto. “Così va meglio,” confermò John torvamente, e improvvisamente sentì l'adrenalina scorrere nel suo corpo, affinandogli i sensi e aumentando il battito cardiaco, e un sorriso incredulo apparve sul suo viso, il cuore pieno di gioia, assaporando il brivido della caccia e la certezza che il suo amico fosse vivo. Sherlock era tornato. E anche lui.

 

Poi, si diede all'inseguimento.

 

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Capitolo 3
*** Assassino ***


Capitolo 3

Assassino

 

Aveva percepito il calore delle fiamme molto prima di capire che cosa Sherlock avesse fatto saltare in aria: il magazzino adiacente al lato est della centrale elettrica. John si immobilizzò sui suoi passi, ancora al primo piano. L'intero edificio di fronte a lui stava andando a fuoco, il tetto già completamente carbonizzato, con lunghe lingue rossastre che si innalzavano verso il cielo buio, riempiendo l'area circostante di scintille e frammenti di legno bruciato. Un odore pungente lo colpì, facendogli trattenere il respiro – qualsiasi cosa Sherlock avesse usato per causare l'esposione, beh, era decisamente tossica: percepiva catrame, olio e solvente. John si schermò gli occhi con le mani, e ispezionò freneticamente il terreno. Notò un'attività febbrile sulla parete est: lampi di luce azzurrognola, uomini pesantemente armati che correvano verso l'incendio – non erano pompieri, si rese conto, questi uomini erano lì per combattere e si muovevano con precisione. Forze speciali, dunque.

 

Moran aveva raggiunto il piano terra, e a quanto pareva li aveva visti anche lui. Non esitò, comunque; cambiò invece direzione, puntando dritto verso il fuoco, senza curarsi delle esplosioni che ancora detonavano all'interno del magazzino. John imprecò, capendo cosa aveva in mente: con la costruzione in fiamme come scudo, aveva intenzione di scavalcare la recinzione che circondava l'area e poi svingarsela nel buio. Una volta arrivato dall'altra parte della rete metallica, era comunque virtualmente irriconoscibile, essendo vestito ed equipaggiato come ogni altro soldato. John puntò la pistola verso di lui, ma era del tutto inutile a quella distanza, e poi avrebbe dovuto correre il rischio di attirare la sua attenzione – doveva essere cauto, quell'uomo aveva un fucile ad alta precisione e aveva abbastanza sangue freddo da girarsi e ucciderlo con calma nonostante il pericolo imminente.

 

Continuò a tenere la pistola puntata nella sua direzione, per ogni eventualità, ma non c'era niente che potesse fare. “Dannazione!” urlò, mentre osservava Moran scappare, evitando abilmente i soldati di Mycroft che si avvicinavano all'edificio.

 

“Che accidenti sta succedendo qui?” borbottò, e si chiese velocemente se l'assassino fosse venuto per lui o per Sherlock – e chi diavolo era Moran? Ma poi, un altro pensiero lo colpì: chi era il terzo uomo, quello che era corso verso il cadavere – quello che Sherlock stava andando a combattere, disarmato?

 

Sherlock.

 

Doveva trovare Sherlock. Gesù Cristo, stava affrontando un nemico senza nemmeno un coltellino svizzero. Si girò, lasciando cadere la pistola, e inizò a correre – proprio in quel momento, un'altra esplosione lacerò il silenzio. John sentì l'onda d'urto colpirlo da dietro, facendolo cadere in ginocchio. L'aria venne invasa da un calore ustionante, e lui si accovacciò, coprendosi la testa, fino a che la pioggia di polvere e macerie non si calmò. Sentì l'eco dei tonfi provocati da oggetti pesanti che colpivano il suolo, come se qualche gigante stesse gettando qua e là bidoni della spazzatura e lattine di metallo. “Ma cosa – ” Si alzò in piedi e corse verso la finestra, il vetro rotto dalla forza dell'esplosione, il cornicione che pendeva di traverso.

 

Il magazzino in fiamme era saltato in aria completamente, e John guardò attonito le taniche d'olio rotolare lì intorno, mentre tutti correvano per mettersi al riparo.

 

“Gesù Cristo” mormorò John, “Sherlock, non si può dire che tu non sappia come mettere in piedi uno spettacolo.”

 

Ogni singolo camion dei pompieri disponibile a Londra sembrava essere arrivato; ovunque si poteva vedere il lampeggiare bluastro delle luci, la notte scura era squarciata dal suono penetrante delle sirene, e dozzine di torce venivano accese contemporaneamente. La zona si fece più luminosa del sole, e il cuore di John si fermò; lui dimenticò di respirare, mentre la paura attraversò il suo corpo come una scarica elettrica: lì, tra i vigili del fuoco, c'era la macchina di Mary.

 

Era senza dubbio la sua, di quell'inconfondibile colore azzurro cielo, con l'ammaccatura sul cofano, ricordo di quando erano andati a Dublino e avevano parcheggiato vicino al cimitero, e un ragazzino ci era saltato sopra. Inoltre, l'auto era arrivata lì prima dei pompieri, perchè ora la stavano portando via per fare spazio; si ricordò della telefonata di prima, quando lui le aveva detto dov'era e lei aveva risposto ti passo a prendere più tardi... e improvvisamente, lo colpì il ricordo di aver trovato quell'altra figura che era corsa verso l'uomo morto stranamente familiare. Oh mio Dio, pensò John, era così da Mary correre in aiuto di un ferito nonostante il pericolo. E Sherlock le era andato dietro.

 

John corse.

 

Si scagliò attraverso il piano terra, aggirando gli ostacoli e saltando sopra le buche nel terreno fino ad arrivare al lato esterno dell'edificio, cercando disperatamente un segno di Mary o di Sherlock.

 

Si stava già precipitando nell'area circostante, quando sentì il rumore di uno sparo, lacerando l'aria come una frusta. Si immobilizzò all'istante. Era venuto dal piano superiore, non lontano da dove aveva incontrato Sherlock pochi minuti prima. Come era finito lì sopra? John si girò e rientrò di corsa nella centrale, salendo rumorosamente le scale di metallo, guidato dal suono di un urlo soffocato e di piedi che colpivano il pavimento.

 

Si scaraventò all'interno di una stanza – e per poco non cadde: gran parte del pavimento era crollata, e lui era quasi precipitato oltre la ringhiera di protezione, con solo delle barre di ferro tra lui e l'abisso, ad aspettarlo detriti e schegge di legno. Era buio nella stanza, ma non completamente nero, grazie alle torce dei pompieri che creavano un po' di luce, dando alla stanza un'atmosfera sinistra. Ansimando, riguadagnò l'equilibrio e fissò i tafferugli di fronte a lui. Si sentì gelare il sangue; e infine urlò con quanto fiato aveva in corpo: “Sherlock! Smettila!”

 

Fino a quel giorno, John aveva sempre pensato che il suo incubo peggiore fosse quello in cui Sherlock si gettava dal tetto del St. Bart, dopo avergli detto Pensi che io sia una macchina? Guarda come mi rompo. Ora si rese conto che la realtà era molto peggio.

 

Sherlock stava uccidendo Mary.

 

Era troppo buio per vedere le loro facce, solo due ombre che lottavano – ma non poteva non riconoscere quella voce, quegli ansimi affannati, quel corpo che si contorceva violentemente. Sherlock l'aveva schiacciata a terra, con le mani attorno alla sua gola, soffocandola, completamente insensibile alle sue richieste di pietà.

 

Con orrore, John balzò in avanti. Avvertì il suo piede colpire contro qualcosa di duro – una pistola – e la fece slittare sul pavimento. Forse Mary aveva preso la pistola dell'uomo morto? Ma che importava. Saltò addosso a Sherlock. “Sherlock! Fermati! La stai uccidendo!”

 

Sherlock sembrava assolutamente sordo alle sue grida. Era come se agisse seguendo solo l'istinto, isolato da tutto ciò che lo distraeva dal suo intento; e il suo intento era uccidere l'avversario.

 

John ringhiò, “Sherlock! E' mia moglie! La stai uccidendo!”

 

Non ebbe alcun effetto. John aggredì disperatamente Sherlock, scuotendolo e infine anche prendendolo a pugni, cercando di spezzare la stretta assassina – ma senza successo. Allora afferrò la pistola e premette la canna contro la tempia del detective. Fece in modo che lo schiocco, indicante che l'arma era pronta all'uso, fosse udibile.

 

“Lasciala andare. Ora.” La voce di John era perfettamente calma e le sue mani non avevano il minimo tremito.

 

Sherlock si immobilizzò – forse per la determinazione nella voce del dottore, o forse per il metallo gelido premuto sulla sua pelle – e lasciò cadere le mani, liberando la vittima. Mary ansimò, in preda ai conati.

 

“Allontanati da mia moglie,” ordinò John, e Sherlock si alzò con un movimento fulmineo, allontanandosi immediatamente di alcuni passi. “Dio, Mary!” John gettò via la pistola e si inginocchiò accanto a lei. Fece correre le mani sul suo corpo, come per assicurarsi che fosse viva – e grazie al cielo si stava muovendo, tossendo violentemente in cerca d'aria. La aiutò a sedersi.

 

“Mary, riesci a sentirmi? Va tutto bene, sono qui, respira, tranquilla.” Sentì le sue mani che cercavano il suo viso. “Va tutto bene, sei al sicuro. Stai andando benissimo,” le disse dolcemente, sorreggendole la testa. Lei uggiolò e si rannicchiò contro il suo petto, ancora senza fiato, aggrappandosi disperatamente a lui. “E' tutto okay,” mormorò, stringendola ancora più forte e accarezzandole la schiena. “E' tutto okay, ora.”

 

Non era in grado di parlare, realizzò John, ma il suo respiro era diventato meno affannoso e il suo cuore stava rallentando. Le esaminò velocemente il collo, ma non c'era nessuna ferita evidente. “Andiamo, vieni qui,” sussurrò, abbracciandola con delicatezza. “Adesso ce ne andiamo,” promise, “c'è un'ambulanza qua fuori, e ti portiamo in ospedale, okay?” Lei stava ancora ansimando, ma mugolò una risposta che sembrava molto una protesta.

 

“Devi farti visitare, Mary,” spiegò con calma col suo tono da dottore, “anche se adesso ti senti a posto, perchè la tua gola potrebbe infiammarsi e darti difficoltà respiratorie in futuro. Non vogliamo che questo succeda, non è vero?” Non le disse nulla sulla rottura dei vasi sanguigni, sul possibile danno alla laringe o della frattura dello ioide o di altri ossi nel collo.

 

Lei annuì, ma diede un leggero strattone al suo giubbotto, con aria infelice. “Bene,” disse John, “andiamo.”

 

Solo in quel momento si ricordò di Sherlock. Imprecando silenziosamente, John si girò, abbracciando Mary con fare protettivo. Sherlock era immobile, un paio di passi indietro, niente più che una sagoma scura illuminta dalle luci dei camion dei pompieri. C'era qualcosa di profondamente sbagliato in lui; John lo percepiva, ma non riusciva a capire che cosa fosse. Il suo corpo era teso come una corda di violino, le sue dita erano aperte, come immobilizzate nel bel mezzo di un movimento. John si mordicchiò il labbro inferiore, incerto su come reagire – lui per primo era sommerso dalle emozioni, e non sapeva come prendere il violento attacco di Sherlock contro Mary. Anche se in un primo momento l'avesse scambiata per un nemico, perchè non si era fermato quando John gli aveva detto che era sua moglie?

 

John si concentrò sulle sue priorità: ora come ora doveva portare Mary in ospedale e andare, insieme a Sherlock, in un luogo sicuro. Dio solo sapeva se Moran era ancora nei paraggi meditando un secondo tentativo.

 

“Sherlock,” disse, cercando di sembrare il più calmo possibile. “Dobbiamo andarcene da qui. Mi daresti la mano, per favore?”

 

Nessuna risposta.

 

“Senti, parleremo dopo di quel che è successo. Spero per te che tu abbia delle buone spiegazioni. Ma ora tutto ciò che conta è raggiungere gli uomini di Mycroft. E, tanto per la cronaca: sono contento che tu sia vivo.”

 

Come per confermare il concetto, si sentirono le voci e i passi di soldati in avvicinamento. Stranamente, questo sembrò scuotere Sherlock dal suo stato di immobilità: trasalendo, indietreggiò, avvicinandosi pericolosamente al luogo dove il pavimento era crollato. “Sherlock!” John si alzò in piedi, e stava per raggiungere il suo amico quando improvvisamente la stanza sembrò essere colpita da un fulmine.

 

Un raggio di luce squarciò l'oscurità, e tutto divenne bianco, accecandolo dolorosamente, seguito da un'esplosione così forte che minacciò di distruggergli i timpani. John fece scudo a Mary con il suo corpo, annaspando per lo shock e la confusione.

 

Granata stordente, pensò. La sua mente funzionava ancora, nonostante la momentanea perdita sensoriale; rimase immobile, sapendo che non sarebbe stato in grado di vedere o sentire alcunchè per alcuni secondi.

 

Appena i suoi sensi iniziarono a ritornare, si mise a fatica in piedi, oscillando pericolosamente, ancora frastorato e disorientato a causa della granata. Imprecò ad alta voce, ma riuscì a malapena a sentire la propria voce, le sue parole sommerse da un acuto stridio nella sua testa.

 

“Idioti!” urlò. “Noi siamo i buoni!” Si lasciò andare ad altre colorite espressioni, ma poi tornò da Mary. I soldati avevano fatto irruzione con una torcia, e ora la luce al magnesio stava illuminando la sua faccia terrorizzata con scioccante chiarezza. Però sembrava meno sconcertata di lui: indicava freneticamente il buco nel pavimento, cercando di dirgli qualcosa. E infine John capì. Sherlock non c'era più.

 

Si guardò intorno, avvicinandosi al baratro, alla ringhiera distrutta e alla granata – doveva essere stata quella a far perdere l'equilibrio al detective. “Oh Dio, no.” John trasalì, gettandosi in ginocchio davanti al profondo squarcio nel pavimento, e fissò l'abisso.

 

I lampioni illuminavano una pila di macerie, con pezzi di legname e metallo che sporgevano. E, in cima ad essa, con la testa che ondeggiava e il volto coperto di sangue, c'era Sherlock.

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Capitolo 4
*** Il peggior miracolo ***


Capitolo 4

Il peggior miracolo

 

Un'altra caduta.

 

John scoppiò a ridere. Era isterico, ovviamente, e dopo si odiò per questo, arrossendo con imbarazzo al ricordo, ma al momento tutto ciò a cui riusciva a pensare era, “Piccolo bastardo. L'hai fatto di nuovo.” Poi i suoi istinti da dottore prevalsero e corse di sotto, saltando letteralmente i gradini per fare più in fretta.

 

“Sherlock!” Si arrampicò sulla pila di detriti, pregando che il suo amico non fosse caduto su qualche pezzo di metallo affilato, ma era impossibile dirlo con certezza senza muoverlo.

 

“Sherlock,” sentì il respiro abbandonarlo, e la sua voce si ruppe mentre cercava disperatamente di prendergli il polso.

 

“Non farmi questo, non – ” improvvisamente si sentì invadere dalla nausea, e si allontanò, ma le sue dita si rifiutavano di staccarsi da quella gelida pelle.

 

E poi eccolo, un battito, forte e sicuro. “Oh Dio, grazie,” sussurrò John, sentendosi mancare dal sollievo. Si accostò di nuovo al corpo per controllare la faccia coperta di sangue, terrorizzato all'idea di trovare ferite profonde e ossa scoperte, ma c'era solo un grande squarcio che andava dalla tempia alla base del collo. Se l'era probabilmente fatto durante la caduta – c'erano moltissimi cavi elettrici e travi che sporgevano da ogni parte. A ogni battito, il sangue fuoriusciva dalla pelle lacerata, inondando i morbidi riccioli. Sherlock era atterrato in cima al cumulo e ora giaceva sulla schiena, con la testa che ciondolava scomposta, gli occhi e il naso ricoperti dal denso liquido rossastro.

 

John sospirò pesantemente, realizzando solo in quel momento di aver trattenuto il respiro. “Gesù, per favore, fa che Sherlock stia bene. O almeno che non sia messo troppo male. C'è un limite a quello che posso sopportare.”

 

Esaminò attentamente il petto e l'addome dell'amico, e poi si assicurò che le lunghe braccia non fossero rotte. Non trovò niente di eccessivamente preoccupante, ma esitava comunque a girare il corpo, spaventato di trovare qualche coccio nella schiena, gli organi vitali perforati o la spina dorsale spezzata.

 

Proprio in quel momento entrarono i soldati, che sollevarono la polvere con gli stivali, le armi puntate verso di loro. Gridavano. John alzò le mani e chiuse gli occhi per un momento, cercando di sopprimere la rabbia che gli stava montando nel petto. Era pura follia.

 

Si sforzò di mantenere la sua voce calma e chiara. “Il mio nome è John Watson, sono un dottore e di certo non sono il cecchino che state cercando. Ora abbassate quelle pistole e chiamate il comandante. Ma soprattutto chiamate un'ambulanza e dei paramedici!”

 

Uno dei soldati salì sulla collinetta di macerie. “Signore!” chiamò, “Mi dispiace, signore,” si girò e ordinò agli altri uomini di stare giù. “Ha bisogno di aiuto, signore?”

 

“Chiama l'ambulanza,” ringhiò John, troppo scosso per far caso alle formalità. “E anche Mycroft Holmes, se è raggiungibile.”

 

“Lo è, signore,” confermò il soldato. “Avevamo l'ordine di fargli rapporto appena vi avessimo trovati.”

 

“E allora cosa state aspettando? Fatelo!” scattò John, concentrandosi di nuovo su Sherlock. “C'è una donna al piano di sopra, dove avete fatto esplodere la granata – anche lei necessita di cure mediche, quindi chiamate quella maledetta ambulanza! Ora!”

 

“Sissignore, subito, signore!” l'uomo abbaiò un paio di ordini e, rivolgendosi nuovamente a John, chiese, “Signore, posso darle una mano con lui?” Guardò il corpo sanguinante con sospetto, avvicinandosi alla spalla dell'uomo privo di sensi.

 

“Non lo tocchi,” lo avvertì John, “può essersi ferito alla schiena. Mi porti un kit del pronto soccorso.”

 

John stava delicatamente esaminando le scapole di Sherlock, quando le palpebre del detective ebbero un guizzo; questo sobbalzò violentemente, in preda a un attacco di tosse.

 

John lo afferrò per le spalle e lo obbligò a rimanere sdraiato. “Sherlock, riesci a sentirmi? Resta calmo, non ti muovere, non sforzare la schiena, okay?”

 

Sherlock tossì ancora, rantolò – e improvvisamente c'era sangue che fuoriusciva dalle sue labbra. John entrò in panico, pensando subito ad un polmone perforato; sentì la sua professionalità scomparire, semplicemente perchè quello era Sherlock, ed era terrorizzato di vedersi scivolare il miracolo dalle dita, finchè non realizzò che il sangue non proveniva dai polmoni. Era solo quello che già copriva il volto di Sherlock, che scorreva fin dentro la sua bocca e le sue narici; tutto ciò che doveva fare era tamponare la ferita. Semplice. Si sentì uno stupido per aver panicato.

 

La mente di John ritonò nella modalità professionale, e aprì il kit che il soldato che gli stava porgendo. Tirò fuori delle bende e le avvolse intorno alla testa dell'amico, ma si inzupparono immediatamente. Così prese altre garze per impedire al sangue di arrestare la respirazione di Sherlock. Era un'azione in buona fede, ma scatenò una reazione terribile.

 

Senza alcun avvertimento, Sherlock si scagliò contro il soldato inginocchiato accanto a lui, mandandolo a gambe all'aria; si alzò in un lampo e attaccò John, le sue mani attorno alla sua gola, in una stretta mortale.

 

John boccheggiò, preso di sopresa, e provò a protestare, ma dalla sua bocca non uscì che un suono soffocato. Si sentì strattonato e gettato all'indietro, sotto il peso del corpo di Sherlock, con le sue ginocchia che premevano dolorosamente contro di lui. Gli istinti di sopravvivenza di John presero il sopravvento, ma le sue braccia erano pesanti come piombo. La sua vista iniziò a divenire sfocata, e la sua mente iniziò a ronzare. Il suo ultimo, irrazionale pensiero fu, “Bene, niente ferite alla schiena... Speriamo non gli sparino.” Poi tutto divenne nero.

 

Riprese i sensi brontolando SherlockMarySherlock, e si risvegliò completamente in un istante. Non era rimasto svenuto per più di cinque secondi, e si rimise in piedi ancor prima di aver riacquistato del tutto la vista.

 

Sherlock se n'era andato.

 

Imprecando, corse giù dalla montagna di detriti e si rivolse al soldato più vicino, che per qualche ragione si stava medicando il naso rotto. “Dov'è?” urlò.

 

Il soldato lo fissò come se avesse appena parlato in cinese.

 

“L'uomo! L'uomo che è caduto!”

 

“Fuori,” ansimò, indicando un buco nella parete. “Andato. E' pazzo,” aggiunse, con una nota di rispetto nella voce.

 

John sbuffò, “Ci puoi scommettere,” realizzando solo in quell'istante che c'era un secondo soldato, svenuto a terra, e le armi di entrambi erano scomparse. Opera di Sherlock? Alzando un sopracciglio, mormorò, “Che hai intenzione di fare? Ora che hai smesso di giocare a Spock, inizi con 007?”

 

Si chiese velocemente se il suo nuovo stile includesse anche una donna...

 

John si lanciò fuori dalla centrale, ma appena uscito incespicò, incredulo.

 

“Sherlock... per favore, no, no...”

 

La scena che gli si parava di fronte era surreale: Sherlock era in piedi, circondato da soldati con le pistole puntate verso di lui. Sembrava ancora più alto alla luce delle torce, e, con la faccia coperta di sangue, aveva in tutto e per tutto l'aspetto di un terrorista. Era armato con un fucile, ma era abbastanza intelligente da tenerlo abbassato; però aveva in mano una granata, pronta a esplodere.

 

John si avvicinò lentamente ai militari, con le mani in alto in segno di difesa. “Sherlock, ascoltami,” incalzò, sforzandosi di sembrare calmo. Con l'adrenalina che scorreva a fiumi, era sufficiente una sola scintilla per far andare in panico entrambe le parti, e Sherlock rischiava di essere ucciso. A prima vista, sembrava che avesse intenzione di lanciare la granata. “Sherlock,” ripetè, “i soldati sono uomini di Mycroft. Non sono tuoi nemici. Abbassa le armi.”

 

“Signore,” lo interruppe un soldato.

 

“No, mi conosce, lasciatemi parlare con lui,” disse. L'uomo fece un passo indietro. John si leccò le labbra ansiosamente, preparandosi attentamente le parole da dire prima di parlare. “Sherlock, quello che stai facendo è assolutamente irrazionale. Sei ferito, pochi minuti fa eri privo di sensi, e stai agendo d'istinto.” Si rese conto con paura crescente che Sherlock non dava alcun segno di averlo riconosciuto. “Sherlock,” ritentò, con voce tremante, “tutto ciò non ha senso. Le tue azioni sono illogiche.” Deglutì nervosamente, sforzandosi di trovare un modo per fare breccia nella sua corazza di indifferenza.

 

Disperato, cambiò strategia. “Sherlock, ti stai comportando come un maledetto idiota, per l'amor di Dio!”

 

Il detective, coperto di sangue, dapprima aggrottò le sopracciglia, poi si accigliò.

 

“Ha ragione, dottor Watson,” affermò una voce irritantemente familiare, “e devo ammettere che è rassicurante sapere che almeno una persona qui è sana di mente. Mio fratello, chiaramente, non lo è.”

 

John gemette: Mycroft.

 

Sherlock girò la testa in direzione del fratello. “Mycroft,” disse lamentosamente, “voglio andare dietro a Moran!”

 

“Lo so,” ribattè serenamente Mycroft. “Per questo ho ordinato loro di trattenerti.”

 

Sherlock reagì all'informazione con un ruggito. “Lasciami. Andare. Ora!”

 

“No.” Mycroft si fece strada con calma tra i soldati e si fermò di fronte al fratello, solo pochi centimetri a separarlo dall'imponente figura. John venne colpito da quanto poco avessero in comune: il maggiore era lo stereotipo del raffinato gentiluomo inglese, mentre il minore sembrava una creatura selvaggia fuggita dalla giungla.

 

“Voglio andare dietro a Moran,” sibilò Sherlock. “Te lo stai lasciando sfuggire!” C'era così tanto odio nella sua voce che John trasalì.

 

“E non c'è niente che tu possa fare a riguardo.” Mycroft cercò di far abbassare lo sguardo al fratello, ma questo non vacillò. “Per l'amor del Cielo, Sherlock, riusciresti solo a farti ammazzare!” Scattò, sporgendosi in avanti con impazienza. “Prenderemo Moran, ma non oggi.”

 

“Per allora ci avrà portato alla distruzione!” disse esasperato il consulente detective.

 

Mycroft sospirò. “Non pensi di aver causato abbastanza problemi per oggi? Grazie a te, molti diplomatici sono stati sballottati qua e là ben bene. Già organizzare quell'organizzazione militare per farti scappare dalla Russia è stato difficile, ma correre in giro con abbastanza esplosivi da far saltare in aria Downing Street ha irritato molte persone, credimi, caro fratello!”

 

“Necessario,” ringhiò Sherlock. “Dal momento che la tua gente si è dimostrata totalmente incapace di proteggere John, mi sono dovuto arrangiare da solo!”

 

“E per farlo dovevi proprio penetrare in un deposito di armi ad alta sicurezza? Ma mantenere un basso profilo finchè i miei uomini non fossero arrivati non era abbastanza drammatico, vero, Sherlock? Dovevi far esplodere una bomba!”

 

“Dovevo distrarre Moran,” rispose aggressivamente Sherlock. “Cosa suggerivi di fare? Tirargli addosso delle patate?”

 

Mycroft sbuffò con rabbia, stringendo le mani attorno al manico dell'ombrello. “Non puoi andartene in giro a far saltare cose in aria come se niente fosse, per l'amor di Dio! Che cosa dovrei dire adesso alla stampa? Che qualcuno ha lanciato un mozzicone di sigaretta facendo esplodere la Battersea Power Station?”

 

Sherlock si irrigidì. “Stai esagerando. Battersea è ancora in piedi; inoltre, recentemente ho fatto esplodere moltissime cose, ma nessuno se n'è mai curato. Uno dei vantaggi di essere morto, suppongo.”

 

“Era in altri paesi!” scoppiò Mycroft. “Questa è Londra!”

 

“Mi sento già il benvenuto.” Sherlock strinse i pugni, quasi dimenticandosi di avere una granata in mano; un mormorio nervoso si diffuse tra i soldati.

 

John li fissava inebetito, senza capire la metà di quello che dicevano, sentendosi il terzo incomodo tra i due fratelli. Era una sensazione tristemente familiare. “In realtà, Mycroft,” puntualizzò, “sono piuttosto felice delle patate di Sherlock. Senza di loro, sarei morto. Ora, se volete scusarmi, devo andare a prendermi cura di mia moglie.”

 

“Perchè?” La voce di Sherlock. Confusa, quasi petulante.

 

John si immobilizzò, strizzando gli occhi. Si irrigidì e si girò verso l'amico. “Perchè l'hai quasi uccisa, Sherlock.”

 

Qualcosa attraversò gli occhi del detective, come se un'orribile consapevolezza lo avesse colpito, ma il suo sguardo tornò gelido in un secondo e John non sapeva se se lo fosse solo immaginato.

 

“Mi hai puntato una pistola contro,” affermò Sherlock, senza emozione.

 

John si agitò, a disagio, e abbassò lo sguardo. Alzando gli occhi, incontrò il volto imperscrutabile di Sherlock. “Era l'unico modo per fermarti. Non mi ascoltavi. E l'avresti uccisa. Davanti a me.” A bassa voce, aggiunse. “Ma non avrei mai premuto il grilletto. Mai.”

 

“E come saresti riuscito a evitare che strangolassi tua moglie?” Gli chiese l'amico, freddo come il ghiaccio, provocandolo deliberatamente.

 

John si accigliò, ma poi scrollò le spalle. “Colpendoti alla testa, razza di idiota.” E con questo se ne andò, pensando E' il peggior miracolo di sempre.

 

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Capitolo 5
*** Idioti ***


Angolo della traduttrice: Scuuuusate tantissimo se non ho aggiornato la scorsa settimana, ma ho avuto un lutto ed è stato tutto molto...diciamo... particolare. Ho capito tante cose, una delle quali è che non bisogna mai dare per scontato nulla e che bisogna aggrapparsi con tutte le proprie forze alle cose che ci fanno stare bene, e questa folle avventura della traduzione è certamente una di quelle cose. Grazie di sostenermi e di condividere tutto questo con me.
Lena


Capitolo 5

Idioti

 

Due ore dopo, John si trovò nella sala d'attesa di un ospedale, cercando di rimettere in ordine gli eventi della notte. Mary era ancora sotto osservazione, ma le cose sembravano andare abbastanza bene – i raggi X mostravano che non c'erano ossa rotte. Mentre sedeva in quella stanzetta beige, con le sedie celesti, un tappeto verde e dei murales per bambini (così brutti che sembrava che qualcuno avesse tirato della vernice sulle pareti), provò a riorganizzare le proprie emozioni. Non erano confuse, di più.

 

Sherlock era vivo. Il suo miracolo si era realizzato.

 

Ma Sherlock era anche estremamente aggressivo. Nel giro di un'ora aveva sparato ad un uomo, quasi ucciso Mary, attaccato John, e minacciato di far saltare in aria tutto e tutti con una bomba a mano. Non si poteva certo dire che fosse stata una serata noiosa.

 

John cercò di dare un senso a tutto ciò, ma non ci riuscì. Quando Sherlock era saltato fuori dal buio per salvargli la vita, lo aveva riconosciuto abbastanza facilmente, nonostante la sua nuova vena aggressiva lo avesse lasciato sconcertato. Ma dopo, quando aveva tentato di assassinare Mary, era stato come se si fosse trasformato in una macchina – non ascoltava, non pensava, non si preoccupava delle conseguenze. Era inarrestabile.

 

La sua reazione al tentativo di John di curarlo dopo la caduta era stata altrettanto preoccupante. Dal momento che aveva appena ripreso i sensi, la sua sensazione di smarrimento era giustificata, così come il fatto di agire d'istinto, ma i suoi livelli di panico e violenza erano oltre il normale. Cosa li aveva provocati?

 

John immaginò che fosse stata la combinazione di molti elementi: le mani che lo tenevano a terra, le bende inzuppate di sangue sulla faccia, e una sensazione di semi-incoscienza che oscillava tra la modalità di attacco e di difesa. In quanto dottore di guerra, aveva un'idea alquanto precisa di ciò che portava a queste reazioni. Il solo pensiero lo fece trasalire.

 

Non cercò nemmeno di dare un senso all'improvvisa ricomparsa di Sherlock e alla questione di Moran – Dio, la stampa si starà leccando i baffi – sperando che Sherlock avesse una buona spiegazione da dargli. C'era molto da chiarire. Per esempio, perchè non era morto; o meglio ancora perchè si fosse gettato da quel palazzo. E perchè aveva fatto assistere John. Il dottore era sicuro che c'entrasse con Moriarty, ma voleva che ora tutto gli si fosse spiegato con dovizia di particolari, e voleva delle scuse per l'inferno in cui Sherlock lo aveva fatto vivere in quegli ultimi tre anni, e delle giustificazioni per non essere tornato prima, e, ad essere onesti, voleva davvero, davvero tanto prenderlo a pugni per aver realizzato il miracolo e poi averlo rovinato, tutto nella stessa sera. Ma soprattutto voleva abbracciare quell'idiota.

 

Forse prima prenderlo a pugni e poi abbracciarlo. Sembrava ragionevole. Se solo il detective si fosse fatto vivo. Non aveva idea di dove fosse Sherlock – di nuovo.

 

Alla fine, le spiegazioni toccarono a Mycroft. Avvolto nel suo completo immacolato fatto su misura, senza dimenticare l'immancabile ombrello, il fratello di Sherlock entrò a passo lento nella sala d'attesa, con un'espressione serena. John si irrigidì immediatamente.

 

“John, è bello rivederti. Spero che Mary non sia ferita gravemente.”

 

Considerando il fatto che non si erano mai visti negli ultimi tre anni – se si escludeva la scaramuccia di fronte a un circolo di soldati dal grilletto facile, due ore prima – il vecchio Holmes sembrava fin troppo sicuro di sé.

 

“Fortunatamente no,” rispose John raddrizzando la schiena.

 

Mycroft si sedette vicino a lui e accavallò le gambe.

 

“Immagino tu lo sapessi.” disse John senza guardarlo.

 

Mycroft non esitò. “Naturalmente sapevo che fosse vivo. Aveva bisogno di risorse, ovvio. Soldi e informazioni.”

 

“Così ha lavorato per te.”

 

Mycroft scoppiò in una breve risata. “Sherlock lavora solo per sé e per i suoi scopi, questo non è cambiato, John.”

 

“E allora cos'è cambiato?” John si sentì invadere dalla rabbia di fronte a quell'atteggiamento indifferente, senza contare il fatto che aveva passato gli ultimi tre anni struggendosi nella convinzione che Sherlock si fosse suicidato.

 

“Devi dirmelo tu.”

 

“Come potrei?” Ringhiò John, “L'ho a malapena visto. E in quel momento mi era sembrato abbastanza impegnato a uccidere un uomo, cercare di strangolare mia moglie, e, oh, a provare ad soffocare anche me. Sembra sia il suo nuovo hobby. Decisamente non era così prima – ” esitò, sentendo la voce incrinarsi. “ – della caduta.”

 

Mycroft posò lo sguardo sull'ombrello, facendolo roteare lentamente. “La caduta, già...”

 

“Ti dispiacerebbe darmi una spiegazione?” John si girò verso di lui, con la rabbia, la delusione e il dolore scritti in viso – ma con una nota di speranza nella voce.

 

E Mycroft gliela diede. Con parole asciutte descrisse il piano di Moriarty per uccidere John, la signora Hudson e Lestrade se Sherlock si fosse rifiutato di suicidarsi, e come quel genio criminale si fosse sparato in testa per evitare che lui lo obbligasse a dare il segnale di ritirata ai suoi cecchini, forzandolo così a gettarsi dal tetto del St. Bart.

 

“Come esattamente è riuscito a fingere la sua morte è qualcosa che ti dovrai far raccontare da lui, dato che non si è degnato di dirmelo. Ha passato questi tre anni cercando di rintracciare ogni singola persona a conoscenza del piano di Moriarty, e che fosse in grado in un modo o nell'altro di portarlo avanti o comunque di costituire un pericolo. Facendo ciò, ha smascherato un buon numero di crimini e riportato moltissimi ricercati sotto la giurisdizione dei rispettivi paesi – o almeno ha fatto sì che non continuassero le loro attività. Moran è l'ultimo uomo che ha trovato. Era il cecchino incaricato di uccidere te, John, ma soprattutto era il braccio destro di Moriarty. Spietato, abile e fedele. Certamente capace di prendere il comando di almeno una parte della rete di Moriarty. Le sue intenzioni sono chiare: vuole ucciderti, e poi prendere il posto del suo capo.”

 

John guardò le guardie del corpo che vigilavano fuori dalla porta. E così ora non sarebbe nemmeno riuscito ad andare in bagno senza compagnia.

 

“Ovviamente, non ci riuscirà,” continuò Mycroft, tirando fuori il suo orologio da taschino e guardando l'ora. “Non può davvero prendere il posto di Moriarty. Moran non è stupido, nient'affatto, ma non è nemmeno lontanamente brillante come il suo predecessore.” Rimise l'orologio nella tasca interna della giacca. “Sarà un criminale abbastanza bravo, però. La mediocrità è sufficiente in questo caso, suppongo.” sospirò.

 

John lo schernì, “Già, guarda a cosa si è ridotto il mondo.”

 

“Non c'è bisogno di essere sarcastici, John,” sorrise tristemente Mycroft. “Comunque stiano le cose, la priorità è che tu sia al sicuro, così come Lestrade e la signora Hudson. Anche se ho buone ragioni per credere che Moran sia interessato solo a te.” Alzò lo sguardo, facendo in modo che i suoi occhi di ghiaccio si incontrassero con quelli – morbidi e caldi, per quanto induriti dalla rabbia e dalla confusione – di John. “Hai attirato la sua attenzione. Eri un soldato, proprio come lui, e stanotte hai provato di essere più che alla sua altezza.” Alzò un sopracciglio. “Ama la caccia quasi quanto Moriarty amava il suo gioco.”

 

John chiuse gli occhi e gemette. “Dio, sono così stanco di tutto questo.”

 

“Comprensibile.” Mycroft fissò il muro, lo sguardo vacuo.

 

“Quindi, lui dov'è?”

 

Mycroft aggrottò le sopracciglia e disse: “Non lo sappiamo, Moran sa come nascondersi – ”

 

John scattò. “Non mi interessa un accidenti di Moran.”

 

“Ah,” si irrigidì Mycroft, probabilmente perchè non era abituato ad aver torto. “Sherlock. Ma certo.”

 

“Pensavo che sarebbe stato lui a spiegarmi tutto.” John non riuscì a nascondere la delusione nella voce. Si preparò mentalmente prima di fare la domanda, non del tutto sicuro di voler ascoltare la risposta. “E' messo tanto male? Voglio dire, ha fatto una brutta caduta – ancora,” aggiunse. Mycroft rimase in silenzio, così lui chiese, molto più a bassa voce. “Come sta?”

“Non lo so.” disse Mycroft, senza inflessione.

 

“Cosa vuol dire che non lo sai?” Ringhiò John dall'irritazione. “Non dirmi che è scappato di nuovo! Davvero, Mycroft, non è da te farti sfuggire le persone così – ”

 

“Infatti.” Mycroft colpì il pavimento con la punta dell'ombrello. “No, questa volta mi sono asscicurato che il mio caro fratello non se ne andasse a zonzo indisturbato. Ma se ti riferisci alle sue condizioni fisiche e mentali, non so nulla. Non può essere toccato.”

 

“Come non può essere toccato?” John lo fissò, confuso. “Stava sanguinando molto – ”

 

“Non permette a nessuno di avvicinarsi. Vedrai tu stesso.”

 

John rimase in silenzio. Non sapeva come prendere quest'informazione, ma non sembrava portare a nulla di buono. Ripensò a quando Sherlock aveva provato a soffocarlo. Si schiarì la gola. “Mycroft, non so cosa gli sia successo, ma per via del modo in cui ha reagito quando era semi-svenuto e ho cercato di aiutarlo, ho pensato – è possibile che sia stato – ”

 

Mycroft lo interruppe con un gesto secco. “Non menzionare nulla di tutto ciò di fronte a lui. Non è il momento, John. Tu più di tutti dovresti sapere quanto sia importante che la vittima sia pronta a parlarne. Sherlock, chiaramente, non lo è.”

 

“Oh – okay.” Si accigliò John. “Quindi, esattamente, che cos'è accaduto? Avevi accennato a una missione di salvataggio dalla – uh – Russia?” John lanciò a Mycroft uno sguardo interrogativo, ma questo si irrigidì. “Oh, andiamo,” sbuffò John, “non dirmi che non eri autorizzato a parlarne ma eri così agitato che te lo sei lasciato sfuggire. Ero un soldato, Mycroft, so come trattare informazioni confidenziali.” Passando ad un tono più minaccioso, aggiunse, “Non pensi di dovermi qualche risposta dopo tre, maledetti, anni?”

 

“Si. Hai ragione,” cedette Mycroft. “Molto bene. E' vero, qualche tempo fa Sherlock è stato catturato e tenuto prigioniero in Russia. Ha ottenuto informazioni segrete – e le ha accumulate nel corso di questi anni.”

 

“Che tipo di informazioni?” Lo interruppe John.

 

“Di qualsiasi genere. Dalle operazioni anti-spionaggio al crimine organizzato alle attività dei terroristi. Qualsiasi cosa che avesse a che fare con Moriarty più alcune missioni che gli ho affidato io personalmente, per via della sua posizione, per così dire, particolare – ”

 

“Intendi il fatto che ufficialmente fosse morto,” disse John seccamente. “Niente regole. Scommetto che ti è tornato utile.”

 

Mycroft non fece una piega. “Si. Si, mi è tornato molto utile. Comunque, la sua ultima missione è rimasta incompiuta. Sherlock fu catturato, ma prima di essere preso riuscì a nascondere il telefono che conteneva tutti i dati. Dati di grande valore, credimi.” Alzò un sopracciglio. “Era in grado di inviarmeli solo sporadicamente, quindi in pratica sono tutti su quel cellulare. E' uno molto speciale, ovviamente.”

 

“Ovviamente.” John lo schernì. “Scommetto che sia come quello di Irene Adler, un aggeggio iper attrezzato che può immagazzinare dati, fare il caffè e anche far saltare in aria un palazzo se solo uno preme il tasto sbagliato.”

 

Mycroft gli lanciò uno sguardo penetrante. “Non proprio, ma non sei neanche troppo distante dalla realtà. Il telefono è sicuro, senza dubbio – non può essere sbloccato senza la password di Sherlock. Se qualcuno cerca di aprirlo, i dati vengono automaticamente distrutti.”

 

“Hai detto che lo era riuscito a nascondere – quindi adesso ce l'avete voi?”

 

Il maggiore dei fratelli Holmes rimase in silenzio per qualche istante. “No, non ce l'abbiamo. Sherlock era sul tetto di un edificio quando – ”

 

“Oh no, no,” gemette John, “non un'altra volta. Dimmi che è uno scherzo.”

 

“Non lo è. Apparentemente, ha considerato seriamente l'opzione di buttarsi, essendo pienamente cosciente di ciò che gli avrebbero fatto se lo avessero preso.”

 

“Ma non l'ha fatto.” John sospirò dal sollievo.

 

“Era troppo impegnato a nascondere il telefono,” disse Mycroft, serio in volto. “E' stato semplicemente troppo lento.”

 

“La tua empatia mi sconvolge.” John alzò gli occhi al cielo. “Chi lo prese, e perchè?”

 

“Gli americani. Volevano il telefono, ovviamente.”

 

“Americani?” John alzò gli occhi, sorpreso. “Non avevi detto che era in Russia?”

 

“Si, ma è stato preso da loro.”

 

“E io che pensavo che gli americani fossero nostri amici e fratelli.” Sbuffò John con amara ironia.

 

“Sherlock non è esattamente nelle grazie dell'America – non dimenticare lo scandalo a Belgravia. E dal momento che comunque era già morto...”

 

“Già, è un vantaggio per entrambe le parti, non è così? Niente regole.” John digrignò i denti. “Come l'avete tirato fuori?”

 

“Ho fatto un patto con i Russi, naturalmente.”

 

“Naturalmente.”

 

“Beh, era l'unica cosa logica da fare – dopo tutto anche i Russi volevano il telefono, ed erano rimasti terribilmente scontenti alla notizia che i servizi segreti Americani operavano sotto il loro naso, e nel loro territorio, per giunta.”

 

“Il cellulare in cambio di Sherlock?”

 

Mycroft annuì, e John si mordicchiò il labbro superiore. “Mi sembra un patto equo.”

 

“Non direi.” Mycroft fece una smorfia irritata. “Il telefono è scomparso. Non sappiamo dove sia. L'abbiamo perso.”

 

John si alzò di scatto. “Perso? Ma come – ”

 

“Come sono riuscito a salvare Sherlock senza di esso? Beh, i Russi hanno avuto quello che volevano: il cellulare in possesso degli Americani.” Sogghignò. “E' un falso.”

 

“Cosa?” John lo fissò, in preda alla confusione. “Aspetta.” Aggrottò la fronte. “Scusami, Mycroft, è stata una lunga giornata, sono ancora un po' scosso dall'esplosione, dall'essere stato quasi ucciso, e dalla scoperta che il mio migliore amico morto è in realtà vivo. Cerca di capirmi se sono un po' lento.”

 

Mycroft sorrise a denti stretti. “E' abbastanza semplice, ma ingegnoso. Sherlock ha nascosto il vero telefono – e sfortunatamente è scomparso. Non sappiamo dove sia al momento. Quel che è certo è che né i Russi né gli Americani ce l'hanno. Comunque, Sherlock aveva un secondo cellulare, una copia, che gli Americani hanno scambiato per quello vero.”

 

“Quindi per tutto questo tempo gli Americani – e ora i Russi – hanno cercato di impadronirsi del telefono sbagliato.”

 

“Si.”

 

“Fantastico. Ma i Russi ormai saranno ad un passo dallo scoprire – ”

 

“No. Sherlock ha passato mesi a inserire dati falsi nella copia. Sembra originale – e anche se se ne rendessero conto più in là, non ne farebbero parola. Imbarazzo, capisci.”

 

“Capisco.” John scosse la testa. “No, in realtà no. Ma scusa – se era solo un falso, perchè Sherlock non gli ha dato direttamente la password? Poteva evitare tutti questi danni.”

 

“Sherlock sapeva che l'avrebbero ucciso non appena avessero saputo la password. Sperava che io lo trovassi prima.”

 

John rimase in silenzio a lungo. “E ce l'hai fatta,” disse poi a bassa voce.

 

Mycroft sospirò. “Temo che invece mi ci sia voluto troppo tempo.”

 

“Ma non sei arrivato tardi.”

 

“Non ne sono così sicuro.”

 

“Cosa vuoi dire?” chiese John, spalancando gli occhi con apprensione.

 

Mycroft esitò, quasi mordendosi le labbra, ma fermandosi prima, conscio di quanto rivelatore potesse essere quel gesto. “Sherlock è stato torturato, come avrai già capito. E' estremamente instabile. Non ho bisogno di startelo a spiegare, l'hai verificato sulla tua pelle. Ho provato in tutti i modi a convincerlo ad accettare aiuto, ma puoi immaginare quanto questo possa essere stato difficile. Comunque,” il suo volto si illuminò quasi impercettibilmente, “sono giunto ad un accordo. Si sottoporrà ad una terapia una volta che il pericolo che incombe su di te e sui suoi amici sarà finito.”

 

John si grattò la nuca. “Oh Dio. Oh buon Dio, abbi pietà.” Nascose il viso tra le mani, cercando di elaborare le informazioni. Infine, sollevò lo sguardo. “Quindi, ricapitolando: Sherlock andrà in terapia se catturiamo Moran e spezziamo la rete di Moriarty. E, se siamo molto fortunati, ce la caveremo solo con un paio di graffi e qualche livido.”

 

“Questo è il piano,” rispose Mycroft con lo stesso tono.

 

“Sarà, ma a me sembra tutto troppo facile,” sospirò John.

 

 

Mary era seduta in un letto d'ospedale, pallida come un lenzuolo, con la gola fasciata. A quanto pareva aveva rifiutato di indossare un collarino, e stava fissando con disapprovazione la camicia da notte da due soldi. Quando John entrò, lo fulminò con lo sguardo.

 

Lui si immobilizzò sui suoi passi, guardandola con apprensione. Non si aspettava che fosse arrabbiata – ma a pensarci bene era stato il suo migliore amico ad averla quassi uccisa, e lui l'aveva abbandonata in una centrale in rovina, circondata da soldati, per correre dietro al suddetto migliore amico. Il suo stomaco si fece pesante dai sensi di colpa. Lei glielo lesse in faccia, e sogghignò, facendogli dei segni con le mani.

 

John aggrottò la fronte, confuso, e la guardò con l'espressione di un cucciolo bastonato. Lei rise – quasi; il suono si interruppe subito, e lei sobbalzò dal dolore. Alla fine, John capì quel che lei gli stava chiedendo – voleva carta e penna. Corse a prendergliele.

 

Mary sbuffò dal sollievo quando lui le porse un bloc-notes. Scarabocchiò furiosamente qualcosa, e glielo spinse sotto gli occhi.

 

John lesse lentamente le lettere disordinate. Voglio andare a casa. ADESSO.

 

Alzò lo sguardo. “Mary, sarebbe meglio se tu rimanessi almeno una notte in osservazione – ”

 

Fu il NO più rumoroso mai scritto. John alzò un sopracciglio. “Okay, immagino che anche un medico militare vada bene. Ti posso tenere d'occhio io da casa.”

 

Altri scarabocchi. Bene.

 

“Okay.” John si schiarì la gola, guardandosi intorno. “Non penso di poter semplicemente chiamare un taxi, gli uomini di Mycroft...” Si interruppe, rendendosi conto di dover spiegare tutta la situazione a Mary, in particolare quella cosuccia sul killer. Oh Dio. Sua moglie avrebbe inziato ad odiarlo, Sherlock.

 

Mary lo guardò in cagnesco, e le parole gli morirono sulle labbra.

 

Lei riniziò a scrivere. E così, questo è Sherlock?

 

“Uh, si, è quel tipo strano che ti ha confuso per un membro di una qualche banda criminale...”

 

Voglio incontrarlo.

 

“Oh.” John sembrò sconcertato. “Si, in effetti anch'io. Ma non credi che sarebbe meglio se tu – voglio dire, aspettare che ti ritorni la voce?” La guardò con circospezione.

 

Non ho bisogno di parlare. Può dedure quello che voglio dire.

 

“Suppongo di si,” mormorò John, “pensavo solo che ti sarebbe piaciuto potergli urlare contro.”

 

Mary ridacchiò.

 

“Ascolta,” John guardò in basso, a disagio. “Credo di doverti qualche spiegazione a proposito del comportamento di Sherlock – ”

 

Lui sobbalzò all'indietro quando Mary, per dirgli di star zitto, gli agitò sotto gli occhi il bloc-notes.

 

L'Uomo di Ghiaccio è stato qui. Non mi servono spiegazioni. Voglio incontrare Sherlock il prima possibile.

 

“Mycroft è venuto a parlarti?” Le sopracciglia del dottore si sollevarono tanto che quasi toccarono l'attaccatura dei capelli. “Uhm, okay, bene. Allora lo sai. Farei meglio a preparare tutto per il nostro ritorno a casa, quindi – ” era così confuso che dimenticò di guardare il taccuino dove Mary aveva scritto la risposta. Lei glielo sventolò sotto il naso.

 

TU devi parlare con lui ORA. L'uomo di Ghiaccio non ci sa fare. Metti le cose a posto con Sherlock.

 

“Oh, Mary, mi piacerebbe molto mettere le cose a posto con Sherlock, ma... è tutto un po', uh – ha provato a strangolarti...”

 

Scarabocchi furiosi. Ci penseremo dopo. Per adesso, ha bisogno di capire che è il benvenuto.

 

“Che è il benvenuto,” ripetè John, come se le sue capacità di lettura non fossero superiori a quelle di un bambino di sette anni. “Lo è?” Le chiese, la fronte aggrottata.

 

CERTO. Idiota.

 

“Chi, io o lui?”

 

ENTRAMBI.

 

John sospirò. “Lo sai, me lo ricordi tantissimo.”

 

Mary ridacchiò.

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Capitolo 6
*** Effigie ***


Angolo della traduttrice: Scusate davvero tanto per i continui ritardi! Credo che d'ora in poi non sarò in grado di pubblicare ogni weekend, quindi l'aggiornamento sarà più arbitrario, ma ovviamente farò in modo che sia abbastanza costante. Grazie ancora per il vostro supporto!

Capitolo 6

Effigie

 

E così questo era l'interno dell'MI6. Così poco glamour.

 

Che cosa Sherlock ci facesse lì era un mistero per John, ma con il detective non si può mai sapere – magari aveva acquisito alcune informazioni particolarmente scandalose durante i suoi tre anni allo sbaraglio, infastidendo così qualche governo estero e facendo impazzire Mycroft.

 

John fu scortato per un corridoio con uffici da ogni lato, deserto a quell'ora della notte. Due uomini in nero gli indicarono una porta, poi si fecero da parte.

 

Il dottore prese un profondo respiro e raddrizzò la schiena. Improvvisamente sentì il petto farsi pesante e la gola stringersi; questo gli ricordò di quando Sherlock aveva provato a soffocarlo, e non fu di nessun aiuto.

 

Durante quegli anni aveva immaginato in migliaia di modi il giorno in cui si sarebbe riunito con Sherlock, generalmente comprendendo insulti, pugni e abbracci, ma mai imbarazzo, e per giunta mai in un posto squallido come un ufficio. Tossicchiò e cercò di tirarsi su il morale, ma appena aprì la porta e vide Sherlock che fissava la finestra, dandogli le spalle, si rese conto che la riconciliazione non sarebbe certo stata una passeggiata.

 

John strizzò gli occhi, sorpreso: il detective indossava il suo cappotto. Doveva trattarsi di una replica; non avrebbe mai dimenticato il terribile giorno in cui aveva ritirato dall'obitorio il Belstaff insanguinato, e immerso il viso nel pesante tessuto, credendo che il profumo di cui era intrisa la lana sarebbe stata l'ultima traccia di Sherlock che avrebbe mai potuto avere.

 

Il ricordo gli fece tornare alla mente i giorni seguenti alla caduta, quando si era sentito come se qualcuno lo avesse prosciugato, lasciandolo come un morto vivente, nemmeno capace di piangere o disperarsi. L'oscurità che lo aveva avvolto per oltre un anno, rendendo tutto senza significato, minacciò di ritornare, e John si sentì mancare al solo pensiero. Strinse le mani sullo schienale di una sedia, cercando di scacciare quel sentimento. Sherlock era vivo, era lì, e avevano la possibilità di ricominciare da capo. O almeno sperava.

 

Dalla finestra proveniva solo silenzio. John deglutì nervosamente, di colpo senza parole – cosa si deve dire a un amico che credevi morto? Ciao, come stai? Decisamente no. Si guardò intorno, e infine disse: “E così, sei vivo.” Strinse ancora più forte la sedia, rendendosi conto di aver appena affermato l'ovvio, e Sherlock odiava quando la gente lo faceva. Percepì un leggero movimento dal detective, come se fosse sul punto di commentare, e la sua mente si preparò a sentire un annoiato ovviamente, ma quelle parole non vennero mai.

 

Si schiarì la gola. “Sherlock...”

 

Nessuna reazione.

 

John si accigliò, chiedendosi se Sherlock non si fosse accorto di lui – ma era impossibile. Inspirò profondamente, sforzandosi di non sentirsi come uno scolaretto nell'ufficio del preside. Tutto ciò era ridicolo, erano entrambi due uomini adulti, avevano rischiato le loro vite l'uno per l'altro e non importa quello che era successo, tutto quel che dovevano fare era parlare.

 

Solo che con Sherlock nulla era mai così semplice.

 

John si prese a calci mentalmente e decise di porre fine a quest'assurda situazione di stallo. Poche ore prima, quando Sherlock gli aveva lanciato una pistola tra le mani e gli aveva ordinato di andare dietro a Moran, erano stati bene, quasi come ai vecchi tempi. Era quello l'uomo di cui si fidava, non questa effigie silenziosa. Da qualche parte sotto quella superficie di ghiaccio c'era lo Sherlock che conosceva e lui l'avrebbe tirato fuori, ad ogni costo.

 

Lasciò andare lo schienale della sedia, girò attorno al tavolo e si avvicinò a Sherlock da un lato – non da dietro, data la passata esperienza doveva far attenzione. Non aveva alcuna intenzione di toccarlo, non importava quanto ardentemente desiderasse farlo – Dio, sarebbe stato meraviglioso sentire il calore del suo corpo forte e inspirare quel profumo familiare – ma no. Sherlock non era mai stato un amante di quel tipo di gesti, nemmeno prima della caduta, e l'avvertimento di Mycroft era ancora fresco nella sua mente.

 

Comunque, Sherlock sussultò quasi impercettibilmente, aspettandosi una mano sulla spalla. Il fatto che aborrisse così tanto un suo tocco ferì John immensamente, e lo irritò il fatto che Sherlock lo considerasse così noncurante nei suoi confronti da causargli un disagio. Avrebbe dovuto sapere che non lo avrebbe mai toccato senza che lui lo desiderasse.

 

John sentì un'ondata di amarezza pervaderlo, e improvvisamente si ricordò di tutte le volte in cui Sherlock l'aveva ferito, chiamandolo un idiota, sibilandogli contro di non avere amici, facendolo quasi impazzire con quell'esperimento a Baskerville, e infine facendolo assistere al suo suicidio, distruggendogli la vita nel momento in cui il suo corpo si schiantava contro il pavimento. Moriarty poteva pur aver bruciato il cuore di Sherlock, ma lui aveva spezzato quello di John. Bisognava ringraziare Mary se il dottore ancora era ancora in grado di respirare e amare.

 

Comunque, dal momento che lo aveva salvato dalla trappola mortale di Moriarty, ci teneva a lui – o almeno, ci teneva tre anni fa.

 

John tossicchiò.

 

La testa di Sherlock ebbe un leggero scatto verso sinistra, giusto quel tanto per far capire che si era accorto della sua presenza, ma il suo sguardo restava fisso al suolo. John avrebbe dato qualsiasi cosa per poter guardare ancora una volta in quegli occhi luminosi, in quelle iridi che nella luce passavano dal verde acqua all'azzurro ghiaccio, come l'interno di una conchiglia. L'ultima volta che li aveva visti, erano grigi e vuoti.

 

Ma Sherlock non alzò mai lo sguardo. Le sue labbra si aprirono ed ebbero un breve guizzo, ma sembrò passare un'eternità prima che emettessero un suono, e quando finalmente inizò a parlare, era freddo e distante.

 

“Mycroft ed io stiamo lavorando ad un piano per catturare Moran. La tua casa è stata resa sicura ora, quindi dovresti poter ritornare molto presto. La signora Hudson e Lestrade sono sotto la protezione di mio fratello, ovviamente, anche se nessuno di loro due sa ancora che io sia vivo. Prima dobbiamo neutralizzare Moran. Suggerisco di rimandare tutte le altre questioni.”

 

John fissò il vuoto, inebetito, come se avesse appena ricevuto un calcio in testa. Si era aspettato ogni tipo di reazione da Sherlock, da una completa mancanza di comprensione per i suoi sentimenti a una dirompente energia data dall'eccitazione per la caccia, ma non una tale freddezza.

 

Deglutì, lottando per controllare le proprie emozioni. Era indeciso se prenderlo a pugni in faccia o piangere per la delusione, ma rifiutò di dargli nessuna di queste soddisfazioni – doveva rimanere in sé.

 

“Giusto,” disse John a denti stretti, “tutte le altre questioni. Uh. Non sembri considerarle importanti, a quanto pare. Ma io sì. Voglio parlarti, Sherlock. Voglio che tu mi spieghi – ”

 

“No.”

 

“No?” John restò a bocca aperta, sentendo un'improvvisa ondata di rabbia montargli nel petto. “Okay, senti, capisco che tu non voglia essere distratto ora, ma ti prego – ”

 

“No.”

 

John fissò il profilo dell'uomo. Sembrava scolpito nel marmo; nessuna reazione umana. “Perchè?” chiese sottovoce.

 

Sherlock rispose piattamente. “Non voglio che tu mi scarichi addossi il peso del tuo caos interiore.”

 

John rimase a fissarlo per qualche secondo, sentendosi come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco. Ci volle un po' prima che la gravità dell'insulto facesse effetto. Annuì brevemente, girò i tacchi e si incamminò rigidamente verso la porta.

 

Si fermò poco prima di uscire, e, senza girarsi, disse, “Spero solo che avremo tempo di parlare, più tardi. A volte le persone muoiono, sai.”

 

E con questo se ne andò sbattendo la porta, bruciando, infuriato e nauseato, per la terribile sensazione di essere stato respinto.

 

Tre anni di disperazione, e i suoi sentimenti non erano importanti. Peggio, erano un peso.

 

Aveva aspettato tre maledetti anni – per un insulto. Non era importante. Ovviamente.

 

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