No Bravery

di Jo_March_95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I was not magnificent ***
Capitolo 2: *** Something my soul needs ***



Capitolo 1
*** I was not magnificent ***


                                    I was not magnificent



-This phone call it’s..it’s my note.
That’s what people do, don’t they? Leave a note.
                                                                                                                                                                   -Leave a note, when?



 
 
La prima sensazione è il vuoto, vuoto che incombe, vuoto che aspetta. E’ stato lì per tutto quel tempo, a torreggiare dal basso e imporsi sul niente. Resta lì spalancato ad attendere un corpo in caduta, corpo che preme, corpo che crolla.
La seconda sensazione è il bruciore, la gola si infiamma, la voce non esce, bolle pesanti si dispongono rispondendo alle leggi dell’entropia, distribuiscono silenzi dove nessuno potrà mai profanarli.
Un urlo si scaglia, è un proiettile di precisione, raggiunge il bersaglio, affoga nel centro. Spacca in due i timpani.
<< SHERLOCK >>
E’ John, urla più forte, crede di raggiungerlo, spera in una legge fisica che alteri la velocità del suono e renda corporei i suoi movimenti, chiama un po’ più forte per riuscire a sentirsi, tutto rimbalza e ritorna al mittente, quegli strilli acuti lo travolgono come un boomerang.
La terza sensazione è l’asfalto, John è veloce, lo mastica con i piedi, ne lascia miglia indietro, si scontra con la distanza che taglia in due il fiato. Sherlock continua la sua danza, è aggraziato mentre le braccia si piegano in maniera innaturale, nella compostezza dell’impatto nessun osso resta al suo posto, tutti insieme suonano una melodia scordata, sono archi di violino lacerati e legno smussato dall’umidità.
La quarta sensazione è l’impatto, John perde qualsiasi percezione, dimentica la prospettiva, non sente più rumori. Qualcuno lo travolge e quel dolore alla testa non è abbastanza da fermarlo, non ora che è quasi vicino, non ora che è quasi non così lontano. Non ora, non ora..
Sherlock non lo sente il pietriccio che spinge per entrare da ogni ferita aperta, dal taglio che squarcia in due le tempie e il sangue che scorre senza alcun freno.
John si rialza, fa leva sui reni per rimettersi in piedi ma le ginocchia non smettono di tremare e le pupille vagano impazzite, come magneti con troppi nord non sanno su quale dettaglio soffermarsi, a quale lembo di pelle potersi aggrappare, un alito di vita che gli dia di nuovo respiro. Perché così non funziona, così i polmoni sono afflosciati e la cassa toracica è compressa in uno spazio di vuoto cosmico. La bocca è spalancata, la trachea trasporta a singhiozzi molecole di H2O.  Qualcuno  afferra il biondo alle spalle, la natura non ha abbastanza energia per aiutarlo ad opporsi. Mani lo trascinano giù, mani lo tengono fermo, barriere di mani, di mani di estranei.
L’ultima sensazione è il contatto, le dita rigide di Sherlock sono rivolte verso l’alto, aspettano un messaggio, un codice morse spedito dal cielo. Un pallido calore lo avvolge, infiamma i polsi, se esistesse ancora un controllo riuscirebbe a tirar su gli angoli della bocca, oppure ad autoimporsi di non far trapelare nulla. Le unghie di John sono affamate, scavano tre i tendini per cercare un battito, per sentire il suono del sangue che fluisce, la promessa di un nuovo finale. Non fa in tempo a tracciare i contorni delle falangi nodose da violinista dell’altro mentre sono ancora irrigate, i primi capillari diventano viola, la bocca si avvia all’ultimo sospiro. Qualcuno lo afferra dalla giacca.. dicono che andrà tutto bene, dicono che ci penseranno loro.. l’ipocrisia li spinge a garantire l’immutabilità degli eventi, la paura spinge il dottor John ad aggrapparsi con ogni neurone a quei futuri inventati, se li lega stretti attorno al collo cosicché se dovessero lacerarsi almeno portino a fondo anche lui, lavato via dalla corrente.
 


-Nobody could be that clever.
                                                       
                                                                                                                                                                                                           -You could





Le pareti degli ospedali sono sempre troppo bianche  perché vogliono dare un volto alla morte, la gente si ci specchia e soppesa i propri fantasmi tra una sfumatura di intonaco e l’altra.
Il silenzi negli ospedali durano sempre troppo a lungo, perché vogliono prepararti al peggio, vogliono riprogrammarti e renderti un veicolo per il dolore.
Attraverso il silenzio impari l’assenza, attraverso il silenzio inizi a scrivere il tuo addio.

La testa di John continua a far male, il sangue è raffermo e una crosta antiestetica funge da apice su quello che sembra a prima vista un brutto bozzo da trauma cranico ma schiodarlo dalla sedia per portarlo nella sala risonanze è fuori discussione, le mani sono arpionate al ferro freddo e non hanno intenzione di lasciarlo.

I passi dei medici risuonano sempre troppo a lungo, negli ospedali. Annunciano l’arrivo di una notizia, ne stabiliscono la cadenza e l’andatura. Pochi passi frettolosi e forse si salva, pedate pesanti e forse è troppo tardi, se restano fermi stanno per recidere il filo.
Lo sguardo di John è perso nel vuoto, un’infermiera lo osserva senza dare nell’occhio, ha paura che svenga di nuovo, ha paura che ricominci ad urlare.

Passa tutta una notte, la gente arriva a pezzi e se ne va indolenzita e soddisfatta, con bende, gessi e punti, crede di poter restare intatta ancora per molto.
Un medico pieno di sangue esce dalla sala operatoria sulla sinistra, si leva la bandana verdognola, abbassa lo sguardo e punta verso l’unica anima assente  presente in sala. Gli occhi di John si fanno giganti, prova a scappare ma i piedi non rispondono, prova a fingere che non stia andando verso di lui, condanna con lo sguardo gli altri pazienti, spera sia l’uomo grasso con l’ infarto ad essere morto. Sua moglie è giovane, potrebbe rifarsi una vita. John senza..senza Sherlock non respirerebbe più.
La danza finisce con un tocco di grazia, il medico prende a torcersi le mani. Non è lui ad aver operato, gli altri, quelli con delle competenze, sono ancora dentro ad agitarsi attorno al corpo magro e nervoso di quel coinquilino strampalato. Chiede il permesso di rianimarlo, chiede di poter fingere di aver fatto tutto il possibile mentre lo lascia morire con una costola retta a  perforargli il cuore. John abbassa il capo, inizia a sentirsi male. Il primo conato è solo un avvertimento, il secondo allaga la sala di bile verde e ora non ci sono più scuse per la risonanza, lo portano dentro e lo infilano in una cellula che sembra aliena,mentre lui non può far altro che tremare. Se avesse un dio al di fuori di Sherlock pregherebbe, ma una divinità in punto di morte come la si salva?
Lo pungono con un ago per indurlo a dormire, ha le iridi gonfie e i bulbi arrossati, spalanca le palpebre in un moto di ribellione ma alla fine il calmante è più forte. Così non potrà più urlare, spiega l’infermiera con un sorriso, così non dovrò più insozzare l’aria con il mio dolore, le fa eco il biondo.

Dorme per 12 ore, si alza con le occhiaie lucide, come fossero nuove nuove di zecca. Il primo pensiero è rivolto all’amico, al migliore amico, al suo dio. Si chiede se sia ancora tutto intero, si chiede se sia ancora rosso di sangue o se il bianco delle pareti lo abbia inghiottito, se sia una specie di zombie. Si piega in due con un braccio all’addome, in quel gesto si tira dietro tutti i fili della flebo, fa cadere a terra il sostegno di ferro, il suono è secco e non c’è eco.
Dicono che abbia una specie di esaurimento nervoso, dicono che non sia insolito per i coniugi metabolizzare la perdita in modo sbagliato, lo guardano come se fosse un caso clinico, lo vorrebbero spedire in psichiatria perché quello sguardo spento e la litania gutturale li spaventa, però questo non lo dicono.
<< Sherlock? >> Non è neppure una domanda, piuttosto una richiesta, piuttosto un’ancora a cui aggrapparsi.
 Gli restituiscono i vestiti e lo incoraggiano ad indossarli prima di dare una risposta, vogliono avere l’impressione di parlare con una persona normale e non un pazzo con lo sguardo vitreo e la mascella abbandonata.
L’espressione facciale non cambia ma la giacca al posto del camice a quadretti azzurri aiuta i medici e li fa sentire più tranquilli, si lavano la coscienza con il dubbio che affligge John.
<< V-vivo? >>
Non sarebbe così stupido da morire, se lo sussurra interiormente ma un singhiozzo sfugge alla barriera di controllo inesistente.
Il medico annuisce ed è il secondo più lungo della sua vita, quel movimento decisivo, quella risposta di transitoria assolutezza.
Il resto è un blabla di paroloni medici e anticipazioni di quello che sarà il futuro, di incertezze saldate da documentazioni mediche e prognosi riservate. E’ lunga la lista dei danni e dei rischi, John vorrebbe tenerla a mente ma non ci riesce, vorrebbe non conoscerla a memoria e dimenticare tutti quegli anni di medicina, tutte quelle verità nascoste dietro formule chimiche e danni irreversibili.
Chiedono se vuole vederlo, sperano che un infarto non lo stronchi sulla porta della stanza 221, sperano che entrambi se ne vadano il prima possibile perché tutta quell’angoscia è insostenibile per coloro che devono conviverci tutti i giorni.

Se non fosse per la massa riccioluta di ciocche ribelli che contornano i lineamenti forti del viso, non si distinguerebbe dalle lenzuola a causa del pallore così accentuato.
Una grossa garza appiattisce il ciuffo e arriva fino a allo zigomo, nascondendo per intero uno di quei due pozzi azzurro verdi, quelle lenti di ingrandimento, quegli strumenti di scienza perfetta.
<< E-ehi >> La voce è roca e per niente amichevole, è come se un incontenibile desiderio omicida e un insostenibile bisogno di certezze si siano fusi. Vorrebbe vederlo aprire gli occhi, alzarsi con quei fianchi stretti e dondolare in punta di piedi fino alla finestra, a quel punto sarebbe John stesso ad afferrarlo per le clavicole e scaraventarlo di sotto ma stavolta starebbe bene attento a non lasciare la presa, cadrebbe insieme a lui, per sempre.
<< C-come hai potuto? >> Non alza gli occhi per non doverlo guardare, per non imprimere nella memoria quel sorriso smorto e le mani abbandonate, tutto il rosso che spinge attraverso le bende, i bip delle flebo e le vene nervose tartassate dagli aghi.
Non è una domanda e non è neppure retorica, è una di quelle invocazioni senza risposta e senza sete di sapere, è una di quelle affermazioni che vanno espresse con la voce acuta e il tono tagliente mentre in cuore martellano solo delle scuse.
<< Scusa scusa scusa scusa scusa scusa scusa scusa >>
L’infermiera arriva poco dopo, lo sorprende con una sedia in mano, in procinto di lanciarla chissà dove. Lo sgrida come avesse cinque anni, lo maltratta e lo spinge dimenticandosi che avendo perso il proprio baricentro non possiede più equilibrio. John si accascia, fa il patetico e si abbandona alle lacrime, lava quel pavimento fatto di piastrine e globuli bianchi, lava quelle guance scavate dalla vergogna, poi si rialza e va via sbattendo la porta.
E’ già lontano quando un bip di troppo attira l’attenzione, è come se quel comportamento avesse turbato Sherlock, è come se tutto quel dolore fosse stato assorbito e infatti quello increspa le sopracciglia e inizia una crisi convulsiva.


Servono due settimane prima che entrambi siano abbastanza in forze per un nuovo colloquio.
John si sente elettrico, neppure il giorno del ballo dell’ultimo anno era stato così ansioso. Nemmeno durante le sparatorie in Afghanistan aveva mai avuto un tentennamento. E ora eccolo volteggiare davanti lo specchio per decidere cosa indossare, se un maglioncino di lana o una camicetta a quadri, spera che Sherlock apprezzi il suo outfit da sotto le palpebre chiuse.
Neppure un miglioramento, da quella crisi epilettica al nulla.
Avevano obbligato il dottore a stare alla larga dalla stanza 221, credevano fosse dannoso per entrambi continuare con quei comportamenti morbosi. Eppure le cose si erano rivelate diverse, Sherlock era rimasto come in stato vegetativo, non rispondeva in maniera adeguata e anche John, un tutt’uno col divano, rifiutava di mangiare e di tentare di vivere.
Non riusciva a concepire l’idea di dover sopravvivere al proprio inquilino, voleva ridursi ad essere lui.
Ed eccola la buona novella, il permesso di andarlo a trovare.
Si riempie le tasche di appunti, prepara una valigia colma di giornali di cronaca rosa, prova ad accordare il violino ma dopo due minuti si rende conto di non avere la minima idea di come funzioni quindi si limita ad infilarlo nella custodia e stringerlo al petto come un bambino.
<< Oggi è il gran giorno >> Lo fischietta per strada, ma è un cinguettio da uccelletto spaurito.
Nessuno è andato a trovare il consulente investigativo, perché il biondo aveva deciso così.
“se non io, allora nessuno”, e così era stato.
Da solo, in quella stanza di bianco atterrante, una persona normale avrebbe avuto paura ma John dava per certo che la mente razionale di Sherlock non potesse cedere a simili debolezze per cui non prova alcun rimorso.
La porta è socchiusa e un leggero odore di alcol solletica le narici, basta una leggera pressione sul legno per far cigolare i cardini e spalancare l’ingresso della camera.
<< So di averti fatto arrabbiare l’ultima volta >> tiene lo sguardo fisso verso il basso, finge una conversazione normale con chi sai che ti risponderà, o, nel caso di Sherlock, con chi sai ti smerderà mettendo a nudo la tua ignoranza.
<< I-io non c-credo che tu..>> Commette l’errore di innalzare le pupille, le guance scavate del moro lo atterriscono, le labbra screpolate non proferiscono suono. E’ come un incubo, solo più bianco.. è come un incubo, solo senza potersi svegliare.
Ingoia il resto della confessione in un misto di parole e lacrime, non vuole avere un’altra crisi, non vuole un’altra pausa di due settimane.
<< Ho portato il tuo ..violino. Non ho idea di come si accordi o di come si tenga un archetto e spero solo di non aver lesionato le corde mettendolo nella custodia. In tal caso la prossima sparatoria alle due di notte non sarà contro il muro ma la mia testa, o sbaglio? >> E’ talmente ridicolo quel fiume di parole, che vale la pena lasciarlo andare. Continua il suo discorso passando attraverso qualsiasi sciocchezza gli passi per la testa, arriva persino a poggiare una confezione di Chesterfield rosse da dieci sul davanzale.
Arriva l’ora di pranzo e Sherlock non oppone resistenza mentre lo cibano con soluzioni saline e vitamine sparate diritte in vena, John prova a protestare ma alla fine mastica il panino a bocconi piccoli e amari.
Lo cacciano fuori che è notte inoltrata, il medico ha speso troppe parole quando con una persona con le conoscenze di John, con un dottore come lu,i sarebbe bastato sentir dire “idrocefalo” per mettere a posto tutti i pezzi.
Ma  John non piace giocare, non vuole riordinare un bel niente, non vuole farsi convincere da una diagnosi così incalzante.
<< Il suo ragazzo si sveglierà –il biondo non ha neppure premura di contraddirlo, quell’allusione gli scivola addosso e sedimenta in fondo all’anima- si sveglierà ma non sarà più la persona che conosce. All’inizio sarà disorientato, difficoltà di adattamento, potrebbe anche non parlare. Poi si presenteranno stati di coscienza alterati, cambi di personalità (..) >>
John fa il coraggioso, come un boyscout in gara per la medaglia, trattiene fiato e pugni per non scagliarsi in lacrime contro un muro. Ingoia quelle nuove consapevolezze sapendo di averle metabolizzate per 14 giorni ormai, infila una mano nella tasca del pantaloni e sfiora con i polpastrelli umidi un pezzo di carta stropicciato con su scritta la stessa sentenza proferita dalle labbra secche del medico di turno. John sapeva, sapeva da prima, sapeva tutto.

Il tragitto verso casa è sempre uno strazio,  più passano i giorni più ritornare è faticoso. Inizia a riaffiorare un leggero dolore al ginocchio, dapprima è uno zoppicare discreto, poi man mano più accentuato fino a dover ritornare alla stampella. Rifiuta di prendere il taxi perché il posto vuoto accanto al suo lo fa impazzire, rifiuta di fare sempre la stessa strada altrimenti inizierebbe ad averne la nausea.
Sherlock resta impalpabile nella luce austera filtrata dalle tende di tessuto leggero, le ferite si rimarginano all’esterno ma sotto quel cranio ammaccato i danni iniziano a fare paura.
<< Non resta che aspettare >>
Sono sempre le infermiere a sentirsi in dovere di consolarlo ma lui non ci fa caso, quelle carezze non lo sfiorano neppure.

<< So che stavi mentendo. >> Alla fine ci riesce, ci riesce a concretizzare quel pensiero, quella scheggia profonda nell’essere.
<< So che sei migliore di questo, so che sei il migliore. >>
Alla fine non si trattiene più, affonda il naso nell’incavatura del gomito e dalle palpebre strizzate iniziano a fuoriuscire quelle lacrime cristallizzate incapaci di lavar via alcun dolore. E forse quel suono irritante, forse quel calore bagnato o quell’umido rimpianto spingono Sherlock a fare un passo nella cortina di nebbia dell’incoscienza, ad avanzare verso la luce bianca emanata da John. Le iridi risplendono sotto la luce al neon, un sorriso enigmatico tira all’insù gli zigomi scheggiati, un impercettibile movimento della pupilla esagera l’andatura del destino e da nuova forma al presente.
E’ tempo di rinascere.

 

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Capitolo 2
*** Something my soul needs ***


Sweetheart, what have you done to us?


John non sa esattamente quando le cose abbiano iniziato a peggiorare, tutto il susseguirsi di eventi ha come unico scopo quello di metterlo di fronte all’evidenza di aver avuto un passato accettabile,pensa tra sé e sé in un ridicolo tentativo di conforto, un abbraccio di illusioni bordate di bianco.

Bianco che inghiotte e non demorde, ingloba e non rigetta.
Lascia il pus infetto a ristagnare nel centro delle emozioni.


Un respiro profondo e i pensieri riprendono a defluire incuranti dell’interruzione, trovano una strada tutta nuova, asfaltata con materiali impermeabili alle lacrime e indistruttibili dagli uragani esplosivi, quella rabbia che è come detonatore in attesa della scintilla conclusiva.
Chiuso in una gabbia di pulsioni impossibili da soddisfare, solo adesso John si rende conto di aver avuto mille spiragli d’aria a sferzargli il viso dal calore di una passione che non era mai riuscito a riscaldarlo, solo torturarlo tra le fiamme di un sentimento innominabile.
Quei rari momenti di contemplazione in cui lo stand-bye celebrale non era argomento di vergogna e ingenua derisione, solo puro assopimento della razionalità, erano come acqua medica su ferite infette, un’oasi di illusione nel deserto di certezze che Sherlock era riuscito a polverizzare con una sola occhiata e poche parole mirate.
Quel primo incontro, ripensarci blocca l’aria in gola, John non l’avrebbe mai dimenticato e mai fatto riaffiorare. Tra le palpebre socchiuse a godere della luce diffusa e polverosa di una lampadina a risparmio energetico, unica sopravvissuta dell’antico lampadario torreggiante sull’entropia deduttiva del soggiorno di un appartamento comune al 221B di Baker Street ad opera di un ingegnoso Sherlock Holmes, sono molte le memorie con il divieto d’accesso.
Dal divanetto di finta pelle rivestito con stoffa asimmetrica di provenienza indiana, John Watson prende in mano un taccuino spiegazzato e mal gestito, perdendo tempo a cercare una penna tra gli spazi dei guanciali.
Se girasse la testa noterebbe con la coda dell’occhio le pupille vacue e spente di uno Sherlock perso in sé stesso, inseguito da mille fantasmi, vittima della propria ragione.
Non ha più il coraggio di avvicinarsi, fissare il suo sguardo e riconoscere nell’agglomerato di sintomi da sindrome post-traumatica, conosciuta con il nome più amichevole di idrocefalo, i connotati fisici del suo eroe, del suo dio, della sua persona.
Il filo rosso, allegoria poetica che simboleggia un legame impossibile da ridimensionare, è ancora intatto, parte da un polo e arriva all’altro senza interferenze e senza nodi. Rispondendo alla legge fisica della conservazione dell’energia il carico dell’uno non è né inferiore né superiore a quello dell’altro, ma un difetto empatico fa sì che nessuno dei due se ne sia reso conto prima che fosse troppo tardi.
E proprio quel filo lo incatena, lo avvicina, lo fa sprofondare ancorato ai riccioli ribelli di Sherlock e le sue mani tremanti e piene di ematomi bluastri.
Quel primo risveglio era sembrato emblematico e significativo, la mente danneggiata di John non riusciva ancora ad abbracciare l’entità del guasto irreversibile, l’errore nel sistema. Ogni parola del moro rimbalzava contro le pareti fragili dei ventricoli celebrali del biondo, l’eco generato aveva come unico scopo destabilizzarlo, John fremeva di rabbia incontrollabile mentre tedio e disperazione scavavano un tunnel intercostale sedimentandosi e ostacolando la respirazione.
Espandi e comprimi, dice la vita. Espandi e distruggi, urla la morte.
 E Sherlock, in sospeso tra le due, aveva compresso le radici del proprio essere, tirandosi dietro macerie e frammenti di esistenza spezzata. Ognuna più appuntita di un tornio, movimenti pesanti e lascivi non riuscivano a gestirne l’impatto.
Il medico,dichiarando a gran voce la sentenza definitiva,aveva ritorto le falangi nel modo infantile con cui i bambini scongiurano un misfatto di lieve entità, sperava di non rivedere mai più nessuno dei due nel proprio reparto ad inquinare l’aria con parole marce e speranze riciclate.
La degenza era stata impegnativa per tutti.
Uno Sherlock incapace di collaborare, con la vita stretta da un pannolone invalidante e sempre sporco;
un John con la bocca strizzata e mille spine a sfondarne la barriera di indulgenza;
i medici a rimbalzare dal dolore dell’uno a quello dell’altro,con difese di ricette mediche e siringhe spezzate, intermediari di una pena che non avevano chiesto di portare;
le infermiere col rossetto rosso e l’ennesima parola di circostanza, sapevano la formula ma non il momento adatto.
Ognuno appesantito da un fardello dai mille volti e le mille conseguenze, un solo salto e una caduta.
Le giornate passavano veloci, tra discorsi insensati, arginati da denti serrati e unghie frementi, Sherlock e John comunicavano arpionandosi al passato e ai ricordi.
Nessuno era autorizzato ad entrare nella stanza, Sherlock allargava la faringe in urla senza espiazione, non riconoscendo alcun volto ad eccezione di quello di John -plagiato dalle sue dita veloci quando era ancora in grado di dar forma alle cose- ,chiunque varcasse la soglia della camera 221 veniva allontanato in maniera subitanea e irreversibile da strilli acuti e lacrimoni esagerati.
Gli stati di coscienza alternata facevano oscillare la sua personalità, a tratti rassomigliando ad un pargolo sperduto nel labirinto mentale di un palazzo senza fondamenta, a tratti ritornando lucida concentrazione, contenuti conoscitivi senza alcuna forma a tracciarne un contorno seppur evanescente.
Poteva piangere spaventato dal flop di una flebo oppure librarsi dal letto, senza peso, portandosi dietro sentenze e deduzioni ingegnose ricavate dalle fibre lacerate di un’esistenza a stento rattoppata.
Sherlock non conosceva più sé stesso, con un baricentro scheggiato e mal posizionato, l’intero apparato mentale risultava squilibrato e lui, un Minosse spezzato e legato dal filo di Arianna, non conosceva altra via se non un eterno vagare.
La prima crisi aveva riscosso John dal proprio torpore, la favole umida che cascava sulle gote come pioggia chimica sul deserto era evaporata e al suo posto una grande nube di impenetrabile nebbia aveva sovvertito il torpore elevandolo a condizione assoluta di indistinguibile niente.
Le urla incorporee di Sherlock erano state un richiamo lontano, un ritorno allo stato consapevolezza temporale, un presente imminente e incerto.

<< Voglio giocare a qualcosa >> Aveva strillato mordicchiandosi un pollice, il sangue colava dalle cuticole in maniera abbondante.
<< S-Sherlock? >> La mappa di John si dipanò, lisciando le pieghe lasciate in balia del dubbio. Cosa sei diventato? Fu l’unico pensiero a cui non diede voce. Cosa mi hai reso? Fu l’unica attribuzione irrisoria del proprio io.
<< Voglio qualcosa, mi annoio. >> Il muso increspato, l’attesa di chi non ne conosce il senso.
John aveva allungato la mano a levigare con i propri palmi indolenziti, gli zigomi spigolosi e suturati dell’altro ma quello aveva schiaffato via ogni intenzione futura, iniziando a strillare e strappandosi tubi e macchinari da braccia e petto.

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<< La fisica delle particelle è la branca della fisica che studia i costituenti fondamentali e le interazioni fondamentali della materia; essa rappresenta la fisica dell'infinitamente piccolo.* >>
Uno spiraglio di speranza balenò nello sguardo di John, con cipiglio sorpreso si rese conto della regolare posizione eretta e angolata delle dita dell’altro, strategia di cui era solito usufruire in momenti di geniale deduzione, con tanto di esaustiva critica al restate auditorio.
<< Talvolta viene anche usata l'espressione fisica delle alte energie, quando si vuole far riferimento allo studio delle interazioni tra particelle elementari che si verificano ad altissima energia e che permettono di creare particelle non presenti in natura in condizioni ordinarie, come avviene con gli acceleratori di particelle *.>>
John non avrebbe voluto fare la figura dello stupido, ma la bocca si aprì senza permesso, insozzò l’aria erudita con un alito di ignoranza, ma non fece in tempo a pronunciare la propria blasfemia, il rito di devozione al ridicolo, che quello annaspò, soffocando nelle sue stesse detrazioni fisiche e accurate.
John si gettò a terra, ricadendo sul menisco con un tonfo secco, capì al volo l’handicap del riccioluto, la matassa di pensieri lo inghiottiva come una massa informe senza che potesse opporsi al retaggio, impedendo l’irrigarsi della propria parte emotiva e personale. Uno scheletro di certezze appiccicose come colla, soffocanti come l’ultimo spiraglio di vita alla deriva, ecco cos’era rimasto di Sherlock Holmes.


Uno strano lamento riporta John alla realtà, all’appartamento polveroso e disordinato, ai libri dispersi sul pavimento, al dondolio ritmico della schiena ricurva di Sherlock che preme sul muro ricavando energia cinetica a ricompletare il giro per l’ennesima volta.
<< Ehi, Sherlock, ti va di suonare un po’ per me? >>
John afferra il violino, il quale appare talmente pesante che servirebbero più mani, ma si fa bastare quelle che ha e a stento lo strascina fino al letto sbarrato del coinquilino. Abbassa gli occhi sulle unghie martoriate e i polpastrelli violacei, legge in quei segni parole impronunciabili.
Ogni qual volta Sherlock provi a dar voce a pensieri taboo, a riportare in vita cellule celebrali irrigandole del sangue della razionalità mista ad esperienza sensibile induttiva, un blocco pesante come un macigno interrompe l’intero circuito.
Quell’emisfero, quella porzione di vita gli è stata negata.
Il passato tambura incessante sulle tempie, lo spinge a provare a srotolare la lingua, a chiamare per nome John senza attribuirgli un simbolo della tavola periodica.
Gli sfugge un << ZIRCONIO >> ma sta solo chiedendo dell’acqua, il biondo lo intuisce dal tremolare insano degli incisivi, dalla voce gutturale e la lingua secca.
Nella fase di retrocessione inconscia invece parla di biscotti, quando la vescica è piena e gonfia sotto i calzoni, chiede puzzle dimenticandosi ogni scadenza di pranzo e cena.
I momenti peggiori sono quelli in cui i fantasmi dell’io riemergono come naufraghi, con i polmoni pieni d’acqua e vetri di mare al posto degli occhi.
Le notti, sono quei momenti. Un susseguirsi di ululati di riscatto, un febbricitante agitarsi al di sotto della corteccia celebrale che si tramuta in un entropico contrarsi in curvature innaturali e scatti veloci di articolazioni incontrollabili.
E’ talmente tanta la violenza di quegli spasmi, movimenti di dannazione, che John a stento riesce a impedirgli di staccarsi un orecchio o grattarsi via gli occhi.
Ogni mattina sono sempre di più le macchie di sangue sul lenzuolo, sempre di più i marchi infuocati sulla pelle. Il viso è livido e gonfio, nasconde la magrezza dello sterno incavato e le cosce ritratte.
Ogni cambio d’umore è sofferto, il collo è una molla che scatta e ritorna, scatta e ritorna, alternando frasi senza senso a implicite richieste d’aiuto.
A volte è necessario legarlo, impedirgli di farsi del male mentre chiede un una distrazione, piagnucola di sofferenza, indica un livido chiedendo cosa sia con occhi pieni di meraviglia e un malcelato disgusto in fondo all’animo.
John sopporta tutto, lo carica sulle spalle i giorni buoni, quando Sherlock è di buon umore e decide di dimenticare di voler ricordare. Chiede di fare l’aereo, chiede di mangiare solo cioccolata, chiede di giocare, giocare, giocare. Cubi di Rubick, indovinelli, enigmi. Puzzle.
John sopporta tutto, lo afferra dalle gambe durante le crisi alle tre del mattino, quando Mrs Hudson è ancora avvolta nella vestaglia ad affondarsi i denti tra le ginocchia.
John sopporta tutto, lo sguardo gelido e distante, mentre vomita frammenti di tesi scientifiche e documentazioni a cui è rimasto ancorato.
Mai che riesca a chiamarlo per nome, se non nel delirio della fanciullezza forzata, mai che riesca a sembrare il suo eroe e non un giocattolo rotto.

<< Cosa hai fatto? >> mormora il biondo a labbra strette mentre Sherlock ingoia due pillole perfettamente cilindriche, ma non prima di averne calcolato massa e peso, applicando arcane formule a quel presente così distante.

<< Io non ci credo, non credo tu abbia mentito. Tu non hai inventato nulla, tu sei il mio Sherlock, il mio Sherlock, il mio Sherlock … >>
Per una volta, dopo tanto tempo, sono le labbra secche di John a mormorare la consueta litania serale, parole biascicate con cadenza regolare e intonazione intenzionalmente bassa.
Per una volta, dopo tanto tempo, sono di Sherlock, gli occhi rivolti verso il basso a cercare una via di fuga tra le incanalature della pavimentazione, un tarlo nel legno che lo ospiti così com’è, con quel bagaglio di disagio, sintomi di malessere vivente, che allontani le iridi pungenti di John rese scure dalla cappa di nero che aleggia nell’appartamento, rese scure dall’inquinamento acustico delle proprie urla nel cuore della notte, dalle richieste insensate sotto il sole splendente, dalle formulazioni errate a richieste vitali, dal fetore vergognoso di una dignità da discarica.



                                          Oh please, just come here, don’t fight with me
                                   And I admit, think you may have broken it, yeah I admit


              
                                            Oh Sweetheart what have you done to us?
                                             I turned my back and you turned to dust
                                                        What have you done?

 






NdA: Ok, visto l'insuccesso del primo capitolo non so cosa mi abbia spinto a tormentarmi oltre con il secondo, fatto sta che stasera il computer è stato come un magnete, non sono riuscita ad evitarlo.
E' stata una scrittura sofferta, spero che si noti il grado di disperazione di CIASCUNA sillaba.
Il fatto semplice è che una volta che un'idea mi si materializza in testa è difficile da schiodare, questo scenario di tragica realtà mi si è dipinto addosso come fossi una tela orfana di arte e ora non posso che sottomettermi nonostante ogni decisione e ogni delusione in fin dei conti sia mia e non di quest'impulso irrazionale.
Le parti sulla fisica con tanto di collegamento in blu sono OVVIAMENTE un copia incolla da wkipedia, pfff-- che vi aspettavate? E nulla, grazie ai pochi che hanno letto e a chi si è impegnato per capirci qualcosa, se ci fossero dubbi io sono qui.

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