Berlin, 1943

di LaniePaciock
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'appartamento del secondo piano ***
Capitolo 2: *** Sensi di colpa ***
Capitolo 3: *** La straniera ***
Capitolo 4: *** L'invito ***
Capitolo 5: *** L'attacco ***
Capitolo 6: *** Il bacio di Peter Pan ***
Capitolo 7: *** Sordi per non sentire e muti per non chiedere ***
Capitolo 8: *** Una magia per dimenticare ***
Capitolo 9: *** Solo un uomo ***
Capitolo 10: *** Roy Montgomery ***
Capitolo 11: *** Sempre ***
Capitolo 12: *** Storie da raccontare ***
Capitolo 13: *** L'ora della verità ***
Capitolo 14: *** Scegliere in cosa credere ***
Capitolo 15: *** Night and Day ***
Capitolo 16: *** Incontri inattesi ***
Capitolo 17: *** Lettera dal passato ***
Capitolo 18: *** Un semplice scambio ***
Capitolo 19: *** L'uomo sulla Luna ***
Capitolo 20: *** Una voce nel buio ***
Capitolo 21: *** Tempo di regali ***
Capitolo 22: *** Tregua di Natale ***
Capitolo 23: *** Semir ***
Capitolo 24: *** Come un cane davanti a un cancello ***
Capitolo 25: *** L'interrogatorio ***
Capitolo 26: *** Un attimo di speranza ***
Capitolo 27: *** Addio ***
Capitolo 28: *** Ordini da rispettare ***
Capitolo 29: *** Fuori dall'Inferno ***
Capitolo 30: *** Dopo ***



Capitolo 1
*** L'appartamento del secondo piano ***


Cap.1 L’appartamento del secondo piano


“Ah, che bravo ragazzo! Si merita il titolo di colonnello!”
“Lei dice Tenente Colonnello? Ma non le sembra giovane?”
“Sciocchezze, Maggiore! L’ho visto in azione ed è un tipo sveglio!”
“Ma è americano…”
“Solo di origine. Nessuno è perfetto, Maggiore. Neppure lei o io!”
“Sì, ma per quanto ne sappiamo potrebbe…”
“Cuciti la bocca, soldato!”
“Signori, per favore. Il Colonnello Castle è giovane, ma è anche un ottimo soldato. E non dimentichiamoci che suo padre si era sacrificato per la causa già anni fa…”
“Ha ragione, General Maggiore. Se ha anche solo un briciolo dello spirito del padre, allora potrà anche aspirare a diventare uno tra i più giovani generali di Germania! E allora…”
Bla, bla, bla. E ancora bla. Quanto odiava quelle chiacchiere tra vecchi soldati nazisti? Ma soprattutto, quanto odiava quelle stupide feste?
Con un sospiro, il neo Colonnello Richard Castle si aggiustò con un gesto annoiato una piega dell’uniforme grigia e bevve un sorso di spumante. Quella era la sua festa per la promozione, ma la odiava esattamente come tutte le altre. Erano sempre costellate di uomini con divise dal grigio chiaro al blu scuro o al bianco a seconda dell’appartenenza all’esercito di terra, marina o aeronautica. Il numero di medaglie e mostrine scintillanti era incalcolabile e tutti li sfoggiavano con onore nelle loro uniformi tirate a lucido. Ma Castle ci vedeva quasi solo due tipi di persone: i vecchi, che non avevano più voglia di stare sul campo e si lasciavano andare ingrassando, e i giovani ambiziosi, che si sarebbero spianati la strada in qualunque modo.
“Allora, Colonnello, tutto bene?” domandò ridacchiando qualcuno alle sue spalle. Un mezzo sorriso gli scappò dalle labbra. C’era solo una persona tra tutta quella gente che poteva permettersi di chiamarlo ‘colonnello’ ghignando.
“Maggiore Ryan.” lo salutò girandosi verso di lui. Il maggiore lo guardò divertito e alzò appena il bicchiere che aveva in mano per congratularsi della promozione.  Kevin Ryan era poco più basso e giovane di lui. Capelli a spazzola biondi e occhi azzurro chiaro. Sarebbe sembrato un tedesco a tutti gli effetti (e della miglior specie a quanto si diceva al momento), se non fosse stato che era irlandese. Solo una cosa lo tradiva: quel sorriso buono che aveva sempre in volto. Chiunque l’avrebbe definito ingenuo, ma Castle sapeva che la realtà era molto differente. Dietro a quel semplice sorriso c’era un uomo leale e coraggioso. E un ottimo amico.
“Cavolo, Colonello, ora dovrò cominciare a rispettarti sul serio!” dichiarò divertito Ryan. Essendo un maggiore, era di due grandi inferiore al suo, ma a Castle non importava. Nonostante le regole dell’esercito, non gli avrebbe mai permesso di trattarlo troppo da superiore e lui non lo avrebbe mai trattato da inferiore. Nessuno dei due infatti si era arruolato nell’esercito tedesco per sostenere la causa nazista, come era stato per i loro genitori. I Ryan si erano trasferiti qualche anno prima dall’Irlanda perché avevano creduto che quella nazista fosse la miglior politica esistente. I Castle avevano fatto una cosa simile, ma erano arrivati dall’America. I loro figli però non avevano condiviso le stesse idee. Si erano arruolati perché credevano di poter contribuire davvero a fare qualcosa di diverso che non prevedesse lo spargimento di sangue di innocenti. Entrambi pensavano ci fosse più bisogno di giustizia che di ‘pulizia’.
“Sì, come se ne fossi capace, Maggiore!” replicò ironico Castle. Ryan in risposta fece una finta smorfia offesa che lo fece ridacchiare. “Allora, Kevin, come sta Jenny?” domandò poi il colonnello in tono informale e con un sorriso sincero in volto. Quando chiedeva della moglie del suo amico non usava mai il tono da soldato. Inoltre conosceva la donna davvero bene, tante erano state le ore che aveva passato a casa dei coniugi.
Il volto di Ryan si illuminò al nome della moglie e un grosso sorriso gli comparì subito in volto.
“Sta bene, grazie Rick” rispose. “Anche se non ne vuole sapere di stare tranquilla!” aggiunse poi un secondo dopo sbuffando. Castle ridacchiò. La signora Ryan era incinta di cinque mesi del primo figlio e il marito dava di matto per ogni singola cosa. Il colonnello sapeva che il suo amico non aspettava altro che quel pargoletto, o pargoletta, uscisse dalla pancia della mamma per tenerlo, o tenerla, in braccio. “Dimmi tu che devo fare!” esclamò un momento dopo Kevin allargando le braccia esasperato e rischiando non solo di far cadere lo spumante dal bicchiere che aveva in mano, ma anche di lanciarlo addosso al Generale Hoffman che stava passando accanto a loro proprio in quel momento. Il Generale gli lanciò un’occhiataccia e sbuffò tra i suoi baffoni, ma per loro fortuna non disse niente e passò oltre, dirigendosi verso il centro della grande sala davanti a loro per ballare con la moglie che teneva sottobraccio.
Castle lanciò un’occhiata di ammonimento all’amico e lui alzò appena le spalle, sollevato però dello scampato pericolo. Ryan bevve un sorso dal suo bicchiere con fare noncurante, quindi riprese il discorso.
“Dicevo… dimmi tu che devo fare!” borbottò scocciato. “L’altro giorno l’ho trovata che stava per salire su una sedia per prendere un vassoio da una credenza in alto. Ma, io dico, che cosa l’abbiamo a fare una cameriera se poi si mette a salire su ogni mobile nelle sue condizioni??” Castle si morse il labbro per non ridere della sua faccia scocciata. Immaginava nitidamente Kevin tornare a casa e trovarsi la moglie su una sedia, magari con l’aiuto della loro domestica di colore, Victoria Gates, mentre a lui si prendeva un infarto seduta stante.
“Guarda che non è inferma.” commentò Rick divertito. “E’ solo incinta…”
“Peggio ancora!” replicò Ryan sbuffando. “Si deve preoccupare per due e lei che fa? Sale sui mobili!!” commentò alzando gli occhi al cielo. Il colonnello non riuscì a trattenersi dal ridacchiare.
“E la famiglia?” domandò poi Castle alzando appena le sopracciglia in un’occhiata allusiva. Era un codice. Era passato diverso tempo da quando il maggiore aveva sentito la sua famiglia l’ultima volta. Quella che intendeva il colonnello era l’altra famiglia, ossia quella che teneva nascosta in casa in una piccola stanza segreta. Da tempo infatti Kevin e Jenny, nonostante il rischio altissimo, davano rifugio a persone o piccole famiglie di ebrei o altri perseguitati dal regime nazista. Non restavano da loro per più di qualche tempo, giusto quello che serviva per procurare i documenti falsi dal loro tipografo di fiducia, Roy Montgomery, per far poi partire i fuggiaschi verso Inghilterra, America o Russia. Alcune volte era più facile, soprattutto se le persone che i Ryan ospitavano erano di pelle bianca e poco conosciute, altre volte invece era più complicato. La famiglia che a cui davano rifugio in quel momento ad esempio, gli Esposito, composti dal capofamiglia di origini cubane Javier, dalla moglie afroamericana Lanie e dal loro piccolo Leandro, era di colore ed era più difficile farli passare per tedeschi nonostante abitassero in Germania da tanti anni. Roy Montgomery, però, un uomo che Ryan aveva salvato tempo prima quando le SS avevano minacciato di distruggere la sua bottega di tipografia tirata su con anni di fatica, gli aveva semplicemente chiesto del tempo in più per organizzare una storia e un nome decente per gli Esposito. Era un tipografo di grande inventiva e quando si presentava con i documenti falsi aveva sempre in mente una storia plausibile per delle possibili domande dei soldati nazisti.
Castle e Ryan in quello erano complici. Se il maggiore si preoccupava di ospitare i perseguitati, il compito del colonnello era fare in modo che nessuno sapesse quello che accadeva in quella casa. Rick proteggeva il segreto e depistava ogni possibile domanda o indagine contro Kevin. Finora ne erano state aperte quattro di indagini su di lui, ma Castle era riuscito sempre a farle chiudere con un nulla di fatto e lasciando la fedina di Ryan immacolata. Era per questo motivo però che Rick era avanzato di grado mentre Kevin no, nonostante anche lui fosse molto promettente. Molti erano ancora sospettosi nei suoi confronti.
“Stanno bene.” rispose il maggiore con un mezzo sorriso, capendo perfettamente cosa volesse sapere l’amico. “Il più piccolo è un po’ irrequieto, ma chi non lo è alla sua età?” continuò divertito. Castle annuì. Aveva conosciuto Leandro Esposito il mese precedente. Era un bimbo di appena 7 anni, ma molto vivace, curioso e intelligente.
“Alla tua età? Forse dovresti già iniziare a pensare a ritirarti in pensione, Maggiore. L’uniforme non ti si addice.” Una voce, che ben conoscevano entrambi, fece voltare immediatamente Castle e Ryan. Il sorriso sparì subito dai loro volti, sostituito da una espressione seria e fredda. L’uomo in divisa grigia davanti a loro era il Colonnello Michael Dreixk. Era di appena un anno più vecchio di Castle, capelli tagliati a spazzola neri, come i suoi occhi e il suo essere. Era uno di quegli uomini ambiziosi e privi di scrupoli che non si sarebbero sottratti dall’uccidere chiunque, perfino la loro madre, se solo avesse voluto dire salire di grado. Castle lo odiava Dreixk per la sua totale mancanza di umanità e correttezza. Inoltre aveva più volte tentato di screditare Ryan e portare avanti inchieste su di lui che per fortuna erano state liquidate sempre come infondate. Dreixk però non era stupido. Aveva capito che qualcosa Ryan combinava, anche se non avrebbe saputo forse dire esattamente cosa, ma aveva imparato che Castle non avrebbe esitato un attimo a salvarlo. “Perdonatemi, ho interrotto una conversazione privata?” aggiunse qualche secondo dopo con un ghigno malevolo notando lo sguardo di puro odio dei due.
“Solo chiacchiere da festa, Colonnello.” replicò secco Castle.
“Ah, giusto.” replicò Dreixk alzando appena il bicchiere nella sua direzione. “Complimenti per la promozione, Colonnello…” dichiarò con un tono ironico che fece stringere nervosamente il bicchiere in mano a Rick. “Ma sappiamo entrambi che una stella in più sulla controspallina non fa un vero soldato.” aggiunse poi con un ghigno, andando a prendere un sorso del suo spumante. Castle si lanciò un’occhiata alla spallina. Sul rettangolino giallo era incisa una corda intrecciata grigio metallico e, sopra questa, due stelle d’oro, il simbolo del grado di Colonnello.
“Hai ragione, Dreixk.” replicò Castle freddo voltandosi di nuovo verso di lui. Ryan si voltò a guardarlo stupito, mentre l’altro gli rivolse un’occhiata sospettosa. “Una stella in più non fa un vero soldato. Ma d’altronde sappiamo anche che un corno in meno non fa un vero uomo…” commentò facendogli un sorrisetto ironico. Dreixk divenne paonazzo. La settimana precedente aveva scoperto che sua moglie lo tradiva. In realtà lo sapevano in molti, visto che a quanto pareva la donna divideva il suo letto con tutti tranne che con lui. Al traditore aveva mozzato il pene seduta stante e l’avrebbe anche ucciso se non fosse stato che una pattuglia di soldati era passata proprio in quel momento davanti alla sua abitazione sentendo le urla dell’uomo appena evirato.
Senza dire altro, ancora furibondo, il Colonnello Dreixk girò sui tacchi e si mischiò di nuovo alla folla di uniformi. Ryan scoppiò a ridere e si congratulò con Castle.
“Amico, l’hai fregato ancora una volta!” esclamò allegro il maggiore battendogli una mano sulla spalla. “Ma con la tua parlantina mi stupirei del contrario!” continuò ridacchiando. Castle fece una mezza smorfia offesa, ma sentendosi sotto sotto lusingato. Sapeva di avere una lingua che difficilmente restava ferma, cosa che nel tempo gli aveva provocato più di un richiamo dai suoi superiori, ma a volte era più forte di lui. E poi era proprio grazie a questa che aveva salvato più volte sé stesso, Ryan e altri da situazioni potenzialmente spinose, come nelle inchieste, ma anche da battute ironiche nei loro confronti. Inoltre Dreixk lo invogliava proprio a rispondere per le rime. E visto che ora erano diventati pari grado, Rick avrebbe avuto anche molti meno problemi a farlo.
In quel momento un altro ufficiale in uniforme grigia venne a congratularsi con Castle. Lui gli strinse la mano come ringraziamento e scambiò i soliti noiosi convenevoli. Riuscì a liberarsi del soldato solo qualche minuto dopo. A quel punto il colonnello lanciò un’occhiata alla sala vasta e piena davanti a lui, chiedendosi che fine avesse fatto Ryan. Quel salone era stato prenotato apposta dal suo superiore per la sua promozione. Tra gli invitati spiccavano molti ufficiali, ma anche dei soldati meno importanti. Secondo il suo superiore aveva fatto bene ad aggiungerli perché così si sarebbe guadagnato la fiducia dei gradi inferiori. Secondo il suo punto vista, lo faceva perché quei ragazzi, con cui aveva lavorato sul campo e che gli avevano coperto le spalle in più di un’occasione, meritavano una serata di svago molto più di alcuni generali presenti. Inoltre erano fedeli compagni e si fidavano di lui, della sua integrità e onestà, nonostante molti lo appellassero come Il traditore perché di origini americane. Ryan era stato uno di quei fidi soldati con cui aveva stretto un’alleanza più forte e duratura.
Nel mezzo della sala, i ballerini si muovevano a tempo di valzer con tutta l’eleganza che gli era possibile, date le uniforme impomatate e i vestiti ingombranti delle signore. C’era un continuo luccichio di mostrine, scintillanti alla luce delle lampade di vetro che simulavano quelle di cristallo dei grandi saloni illuminati, un tempo dominanti nelle sale degli imperatori e degli zar russi delle favole per bambini.
Un baluginio scuro attirò l’attenzione di Castle che si voltò verso una delle pareti. Notò un soldato in divisa blu che inseguiva una donna tentando di invitarla a ballare. Il colonnello ridacchiò. Aveva riconosciuto la ragazza come la figlia di uno dei General Maggiori presenti. Non appena ne fosse stato consapevole anche il ragazzo, si sarebbe tenuto ben lontano dalla damigella. Il tempo di una distrazione e i due erano spariti.
Chi aveva allestito la sala, aveva riempito le pareti di specchi così che la luce venisse riflessa e fosse più intensa, ma facendo in modo anche che la sala sembrasse più grande e piena di quello che era davvero. Qualche secondo dopo Castle ritrovò i due ragazzi che parlavano di soppiatto dietro un gruppo di soldati. Lui non li vedeva davvero, ma il loro riflesso era perfettamente visibile dallo specchio ad angolo accanto a cui i due si erano fermati.
“Colonnello Castle!” esclamò una voce femminile alle sue spalle. Sospirò silenziosamente e si voltò, proprio mentre notava dallo specchio il ragazzo sbiancare ad alcune parole della ragazza. Qualcosa gli diceva che la fanciulla gli aveva appena rivelato le sue origini.
Una donna dalla pelle chiarissima e con i capelli rossi tirati sul capo in un’elegante crocchia, stava in piedi di fronte a lui con le braccia incrociate. Aveva un’espressione imbronciata e uno sguardo torvo.
Frau Otto.” rispose lui inchinandosi appena in avanti. “A cosa devo questo onore?” continuò ironico.
“Colonnello, sono esterrefatta!” esclamò lei, disincastrando le braccia dal busto e iniziando ad agitarle per aumentare il peso delle sue parole. “Sono qui da quasi un’ora ad osservarla e lei non mi ha ancora invitato a ballare!” Castle alzò un sopracciglio e lanciò un’occhiata alla sala affollata. In pochi secondi notò il Generale Otto, marito della donna. Era un uomo alto la metà di lui e largo il doppio e stava parlando allegramente con un altro soldato. Aveva in mano un grosso bicchiere di vino semipieno e, dal colore scuro del suo naso, sembrava non fosse il primo che prendeva.
Castle tornò a guardare la donna con un sospiro.
“Meredith,” replicò usando il nome della donna, come faceva ogni volta che erano soli, con il tono di un adulto che cerca di spiegare un concetto a un bambino. “Abbiamo già avuto i nostri giorni di gloria insieme.” Era vero. Lui e Meredith erano stati insieme per tre anni, ma poi, il giorno stesso che lui avrebbe voluto chiederle di sposarla, l’aveva trovata a letto con un allora in forma Colonnello Otto. Castle all’epoca era un semplice Tenente, con un futuro incerto e un passato da americano, e questo era bastato perché lei cercasse qualcosa di più. C’era stato il prestigio sociale di lei in gioco. Non avevano contato più le notti insieme, né l’amore. Se c’è ne era mai stato. Castle se lo era chiesto più volte nel corso degli anni.
Ora che la sua ascesa all’interno dell’esercito si era ben più che avviata, lei aveva tentato più volte di avvicinarlo. Ma lui non era un traditore e non lo sarebbe mai stato. Aveva provato sulla propria pelle cosa volesse dire.
Meredith sbuffò sonoramente, quindi, come se avesse avuto un ripensamento, gli rivolse un sorriso smagliante.
“Non mi trovi bene, Rick?” chiese facendo un giro su sé stessa. Castle la guardò appena. Era una bella donna, lo era sempre stata, e quel vestito rosa le stava davvero bene. Ma non era più la donna per lui.
“In splendida forma.” replicò quasi ironico, ma lei non se ne accorse.
“E allora perché non mi fai ballare?” domandò ancora con il tono di una bimba petulante.                               
“Perché non solo suo marito è in questa sala, Frau Otto…” esclamò all’improvviso Ryan sbucando alle spalle della donna con un sorriso amabile, facendola sobbalzare. Castle ringraziò silenziosamente l’amico, mentre la donna lanciava al maggiore un’occhiataccia. “Ma anche perché,” continuò Kevin. “Sono desolato, ma devo rubarvi il colonnello per un’importante dibattito a cui è atteso.” Poi, prima che Meredith potesse aprire bocca, il maggiore prese Castle per un braccio e lo tirò via con sé.
“Grazie!” sospirò sollevato Castle, mentre Ryan ridacchiava.
“Di niente, Colonnello!” replicò quello.
“A proposito, di che bisogna discutere?” domandò poi curioso e completamente dimentico della donna, continuando a seguire l’amico.
“Uhm, niente…” mormorò quello trattenendo a fatica un ghigno. Dopo ancora qualche passo si ritrovarono davanti al tavolo del buffet e Rick vide i suoi sottoposti, riuniti intorno a diversi boccali di birra pieni fino all’orlo, che lo guardavano con un sorrisetto angelico in volto. Il colonnello li guardò sospettoso a uno a uno, cercando di fermare, con scarso successo, un mezzo sorriso divertito.
“Colonnello,” lo salutò il Tenente Durren scambiando intanto un’occhiata d’intesa con i suoi compagni. “Scusi se la interrompiamo durante la festa, ma avevamo un’importante domanda da farle…” Castle aggrottò le sopracciglia curioso.
“Parla, Durren.” sbottò qualche secondo dopo in risposta. Il tenente lanciò un’altra occhiata ai suoi compagni, quindi prese un respiro profondo per creare ancora un po’ di patos. Che attore… pensò divertito Rick.
“Ecco, ci chiedevamo se un Colonnello può buttare giù più birre di un Maggiore!” confessò alla fine Durren. Tutti, Ryan compreso, si voltarono a guardarlo in attesa mentre cercavano di non ridere. Castle alzò un sopracciglio.
“Tua moglie non ti caccerà di casa?” domandò a Kevin pensando a una furiosa Jenny incinta che scacciava il marito fuori dalla porta con una scopa in mano. Il maggiore scosse la testa.
“Sa quanto odi queste feste, quindi mi ha detto di fare qualunque cosa per farti passare tempo!” replicò Ryan come se fosse la cosa più ovvia. “Se dici di no, però lo capiremo…” aggiunse subito dopo con aria grave. “In fondo sappiamo che ora che sei Colonnello devi mantenere un certo tono e…”
“Dammi una birra!” esclamò Castle rivolto a Durren, sbuffando divertito, senza lasciar finire di parlare Ryan. Era pure diventato colonnello dell’esercito tedesco, ma alla fin fine era sempre un americano pronto a divertirsi. E quella era la sua festa.
 
Castle rabbrividì leggermente per il freddo e nascose quella piccola debolezza con uno sbuffo irritato. Una grossa goccia d’acqua gli piombò sul naso all’improvviso e lui scosse la testa d’istinto, sorpreso e scocciato. Di solito gli piaceva la pioggia. Creava un’atmosfera indistinta e solitaria intorno a ogni cosa e lo scroscio dell’acqua aveva sempre un effetto calmante su di lui. Ma quel giorno tutto quello veniva cancellato dall’idea di dover camminare a novembre inoltrato per le strade di Berlino con solo il giaccone a coprirlo da freddo, vento e pioggia. Sospirò pesantemente da sotto il bavero. Avrebbe dovuto aspettarselo in effetti, vista l’ubriacatura che si era preso alla festa della sua promozione. Però non credeva che il General Maggiore Hoster sarebbe stato così bastardo da metterlo di ronda per una settimana per le vie della città a controllare i soldati!
Sbuffò di nuovo.
“Ehi, hai finito di lamentarti là sotto?” commentò ridacchiando Ryan al suo fianco. Gli lanciò un’occhiataccia. Da bravo compagno di bevute, il maggiore aveva avuto la stessa punizione del colonnello.
“Non ti secca neanche un po’ girare con questo tempo?” domandò di rimando Castle irritato, dando insieme qualche pacca al cappotto per far scivolare le gocce più grandi. Tutti i soldati erano attrezzati di giubbotti impermeabili per i turni sotto la pioggia, ma un ufficiale non avrebbe dovuto averne bisogno. Quindi lui e Ryan si dovevano accontentare dei giacconi invernali di stoffa pesante. Pessimi con l’acqua.
“In realtà no.” replicò il maggiore tranquillo. “Anzi, sento piuttosto umido, sai?” aggiunse un attimo dopo sogghignando. Castle alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. Da quando Jenny era incinta, Kevin alternava momenti di gioia e divertimento ad altri di paura e ansia. Evidentemente quella mattina era uno di quelli di battute di spirito.
Rick non commentò all’uscita dell’amico per evitare di mandarlo a quel paese. Si schiacciò con più forza il cappello sulla testa, schizzandosi da solo alcune gocce d’acqua in faccia, e riprese il suo giro per le strade fangose e piene di pozzanghere della città. In quella settimana lui e Ryan avevano dovuto visitare ogni singolo angolo per controllare che non ci fossero problemi tra i soldati e ne aveva piene le scatole. Non che gli mancasse il lavoro in scrivania, visto che lo odiava proprio, ma non vedeva l’ora di poter tornare dalla sua squadra a presidiare una sola zona della città.
Sentì i passi di Ryan seguirlo fedelmente dietro le spalle. Sapeva che anche lui non aspettava altro che tornare alla loro postazione, senza contare che casa sua era a poca distanza il che significava stare più vicino alla moglie in caso di necessità. Castle soffiò ancora silenziosamente da sotto il bavero per scaldarsi appena la faccia. Quindi si guardò intorno con aria malinconica da sotto il cappello. Prima della guerra quelle strade erano state piene di vita. Bambini per strada, ambulanti chiassosi, gente che passeggiava… poi tutto era cambiato. Ricordava i colori vivaci e gli odori mescolati che avevano accolto lui e la sua famiglia anni prima. Ora tutto sembrava grigio e odorava di muffa.
Dall’altra parte della strada notò due uomini avvicinarsi lentamente da sotto la pioggia. Ci mise un paio di secondi a capire che avevano la divisa. Una divisa nera. Uomini delle SS.
Castle si fermò e, nascosto dalla visiera bassa, guardò con disprezzo quegli uomini che avevano contribuito a rendere una città viva e calda in un susseguirsi di case vuote e prive di speranza. Sentì Ryan fermarsi accanto a lui e irrigidirsi alla vista dei due soldati. Il maggiore li odiava tanto quanto il colonnello e probabilmente anche di più. Erano ciò che aveva distrutto la sua famiglia. I genitori di Ryan si erano trasferiti dall’Irlanda pieni di aspettative e promesse e ciò che avevano avuto in cambio era stata la rovina e la morte. Se ne erano accorti troppo tardi.
I due dell’SS lanciarono appena un’occhiata a Colonnello e Maggiore. Non li salutarono, né si fermarono. Semplicemente continuarono per la loro strada chiacchierando tranquillamente come se non esistessero. Non che a Castle o Ryan avesse dato fastidio, ma per legge, o per lo meno per i gradi che avevano sulle spalline, avrebbero dovuto fare loro il saluto.
“Stronzi.” borbottò Ryan tra i denti. Castle si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
“Se volevi fare amicizia, avresti potuto invitarli a bere con te.” commentò il colonnello con tono divertito. Il maggiore alzò appena le spalle.
“Sì, ma poi avresti perso il tuo compagno di bevute preferito.” replicò ironico. Castle scosse la testa ridacchiando, poi un attimo dopo scorse un camioncino con almeno otto soldati caricati che attendeva davanti a un palazzo pochi passi davanti a loro. Aggrottò le sopracciglia. Non era un fatto normale. Di solito un simile spiegamento di uomini avveniva o per prevenire uno scontro o per provocarne uno. Decise di controllare. E poi avrebbe dovuto farlo in ogni caso.
Il colonnello si fece subito serio e si avvicinò deciso al gruppo, seguito a poca distanza dai passi attutiti dall’acqua di Ryan. I soldati ci misero un paio di secondi a vederli e riconoscerli. Uno di loro scese di fretta dal camioncino riparato, atterrando però direttamente in una pozzanghera e alzando diversi schizzi d’acqua.
“Colonnello!” lo salutò subito allungando il braccio verso di lui. Castle represse una smorfia. Odiava quella forma di saluto. Preferiva di gran lunga quella americana che faceva portare la mano destra dritta davanti alla fronte. “Maggiore!” continuò quello rivolto poi a Ryan. Castle lanciò un’occhiata alle mostrine del soldato. Due colonne chiare in campo nero appuntati sul bavero e una semplice striscia argentata sulle spalline con il bordo dorato. Era un sergente.
“Nome e grado, soldato.” ordinò con tono pacato.
“Sergente Frederick Dussel, signore!” rispose velocemente quello con voce rauca. Castle lo studiò con attenzione. Era magro e più giovane di lui, non doveva avere neanche trent’anni, ma aveva dei grossi baffoni biondi che gli oscuravano buona parte della bocca. Il suo colorito era pallido e smunto e aveva delle pesanti occhiaie, come se non dormisse da diverso tempo. Pareva potesse crollare da un momento all’altro. Castle però lo vide anche muovere quasi impercettibilmente a scatti la mascella e notò, da sotto la visiera del suo elmo, che i suoi occhi erano sgranati. Il sergente era nervoso. Ma d’altronde lo erano anche la maggior parte dei suoi commilitoni. Nonostante fossero in piena Berlino, una guerra era in corso. E non solo fra tedeschi e stranieri. Una parola di troppo poteva farti finire direttamente in uno di quei campi di lavoro in cui rinchiudevano i loro stessi arrestati ebrei, omosessuali, prigionieri politici, semplici criminali, zingari e quant’altro. Nessuno sapeva esattamente cosa facessero. Anche perché nessuno era mai tornato per raccontarlo.
“Cosa fate qui, sergente?” domandò Castle lanciando un’occhiata alla facciata della palazzina davanti a cui erano fermi. Sembrava un’anonima e grigia abitazione di tre piani.
“Ci è stata fatta una soffiata, signore.” rispose quello con non troppa convinzione. “Dicevano che c’era un’americana nei dintorni. Mi è stato ordinato di trovarla e portarla alla centrale.”
“Quindi state perquisendo tutti gli appartamenti della zona, giusto?” Era la procedura standard in quei casi.
“Sì, signore.” replicò il sergente. “Questo era l’ultimo.” Castle annuì sovrappensiero. Ecco perché il tono scettico dell’uomo. La soffiata era stata fatta, ma loro non avevano trovato nulla. Probabilmente il sergente aveva mandato solo un paio di uomini in ricognizione nel palazzo, sperando che si sbrigassero in modo da potersi togliere da quella pioggia torrenziale. Ma un altro dubbio si affacciò alla mente del colonnello. Se la soffiata era reale, allora cosa diavolo ci faceva un’americana lì? Non sapeva che rischiava la vita?
“Molto bene, Sergente.” disse Castle con la mente ancora rivolta a quella donna. Se era vero che c’era, sperò ardentemente che non la prendessero. Doveva mandarli via e cercarla di persona. “Recupera i tuoi soldati e andate a farvi una birra al caldo. Ve la siete meritata.” A quelle parole, l’uomo si permise di sorridere appena da sotto i baffoni, un po’ più rilassato. Probabilmente aveva avuto paura di una lavata di capo perché non aveva trovato niente.
“Grazie, Colonnello.” replicò con un sospiro sollevato. “Lo faccio subito.” Prima che potesse anche solo girarsi verso i suoi uomini sul camioncino però, un urlò risuonò nella strada anche attraverso la pioggia battente. Castle alzò subito la testa verso la direzione del rumore. Arrivava dal secondo piano della palazzina. Un attimo dopo un altro urlo, più forte e disperato, seguì il primo.
Senza pensarci, Castle corse verso il portone aperto e ci si infilò dentro. Non si curò minimante della voce di Ryan che lo chiamava. Sapeva cosa stava per succedere in quella casa e non lo avrebbe mai permesso sotto il suo comando. C’erano degli ufficiali che a volte lasciavano i soldati liberi di “svagarsi” con alcune donne arrestate. Ma lui no. Non avrebbe mai toccato una donna che non avesse voluto e altrettanto dovevano fare i suoi sottoposti. Nonostante fosse uno che lasciava molte più libertà di altri ai propri uomini, quella era una delle poche regole su cui era inflessibile.
Castle vide subito la scala davanti a lui e ci si fiondò di corsa. Salì i gradini velocemente mentre un altro urlo, stavolta più ovattato, rimbombava per le scale. Perse il cappello e quasi rischiò di scivolare sui gradini lisci a causa dell’acqua sui suoi stivali, ma non si fermò neanche un attimo. Arrivato al secondo piano si bloccò, il fiato leggermente corto. C’erano tre porte davanti a lui e non aveva tempo di sfondarle tutte. Sentì diversi passi muoversi dietro e sotto di lui. Probabilmente Ryan e i soldati si erano ripresi dallo shock e lo stavano raggiungendo.
Dove sei?? pensò disperato il colonnello. All’improvviso un nuovo urlo. Si voltò di scattò e in due passi raggiunse la porta sulla destra. La sfondò con un singolo calcio. Davanti a lui vide un piccolo salotto arredato con molti oggetti, ma con nessuna persona presente. Tese le orecchie e sentì come un rumore attutito di lotta dietro una delle porte del piccolo corridoio alla sua sinistra. Vi si avviò velocemente e in un attimo un lamento trattenuto gli fece capire qual era la porta giusta. La aprì senza nemmeno pensare a recuperare la pistola al suo fianco. E si bloccò sulla porta.
Un uomo in divisa, con già i pantaloni calati come aveva temuto, stava tenendo ferma una donna sotto di lui cercando insieme di alzarle la veste. Entrambi si voltarono stupiti. La donna non piangeva, ma era terrorizzata, gli occhi sgranati. L’uomo sembrava seccato dall’interruzione. Quella sua espressione fece infuriare Castle ancora di più.
Senza dire una parola, percorse il breve tratto tra loro, prese l’uomo per la collottola, lo alzò da terra di peso e lo fece sbattere violentemente sulla credenza dietro di lui. Il soldato latrò per il dolore quindi si alzò e lo guardò con odio. Recuperò velocemente la pistola dai suoi pantaloni semi calati e si lanciò contro Castle, non avvedendosi né della sua divisa né del suo grado. Il colonnello gli bloccò il polso con l’arma in modo da essere fuori portata e poi fulmineamente gli tirò un pugno allo stomaco. Quello si piegò in due su di lui spuntando sangue sul suo giaccone e sul pavimento. Castle lo lasciò andare, sperando che ne avesse abbastanza visto come era piegato. Un attimo dopo però, quello si alzò un poco e caricò di testa verso il suo stomaco. Essendo ferito, il soldato era più lento e il colonnello riuscì a bloccare in parte il suo attacco. Prima che potesse colpirlo di nuovo però, si ritrovò la pistola davanti alla faccia. Per un istante rimase paralizzato. Si riprese però immediatamente andando a bloccargli la mano con la pistola con la sua e tirandogli insieme un altro pugno allo stomaco. In quel momento un colpo scoppiò dalla canna della pistola, facendo sussultare il colonnello che abbandonò la presa sull’arma. Il soldato, ritrovatosi di colpo libero, tentò di miragli al petto, ma il colonnello fu di nuovo più veloce. Con un calcio gli fece volare via la pistola e il pugno successivo fu un devastante diretto contro la faccia dell’uomo. Cadde a terra svenuto senza nemmeno un lamento, mentre un fiotto di sangue iniziava uscirgli dal naso. Probabilmente glielo aveva rotto.
Fu solo in quel momento che Castle si ricordò della donna. Ansimante e dolorante per lo scontro, si girò velocemente nella camera. Notò a malapena Ryan alla porta che lo guardava con la bocca semiaperta insieme ad altri soldati. Non era quello che cercava. Un attimo dopo la vide. La donna che aveva cercato di salvare. Era riversa a terra, in una pozza rosso scuro, un foro nero grondante degli ultimi spasmi di sangue in mezzo al petto e gli occhi spalancati verso il nulla.

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Xiao! :D 
Innanzitutto... BUON ANNO!!! :D
Ok, andiamo avanti! XD Allora so che speravate già di esservi liberati di me, ma dovevo fare qualcosa per i miei 2 anni di pubblicazione su EFP! ù.ù (lo so, ditelo pure, che egocentrica! XD) Anyway, questa ff è spuntata un po' dal nulla, nel senso che stavo guardando una rivista di film e mi sono ritrovata davanti un film con dei soldati che durante la seconda guerra mondiale rubavano le opere d'arte ai nazisti e mi sono detta (siccome la mia mente è a senso unico XD) "Come sarebbero stati Castle e Beckett durante la seconda guerra mondiale?". Ho esposto la mia fantasia (pazzia) alle mie consulenti (Katia e Sofy che ancora una volta ringrazio per la pazienza e perché vi adoro!! <3) e mi è stato risposto: "Scrivila!" e così ho dovuto fare! XD
Detto questo, spero vi piaccia! :) Stavolta ho già qualche cap pronto quindi almeno per il momento dovrei riuscire ad aggiornare in tempo una volta a settimana...
A presto!! :D
Lanie
ps: non ho assolutamente pretese storiche, semplicemente mi piace la storia, quindi spero non me ne vogliate nel caso abbia commesso errori sulle cose dell'epoca...
pps:Grazie a Katia per la splendida locandina!! *.*

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Capitolo 2
*** Sensi di colpa ***


Cap.2 Sensi di colpa
 

Castle finì di allacciarsi l’ultimo bottone argentato della divisa e rimase per un momento a osservarsi allo specchio. Era alto, in forma nei suoi 38 anni, un ampio torace ben fasciato dall’uniforme grigia, braccia forti e muscoli scattanti… eppure tutto quello non era servito a salvare l’americana. Cercò i suoi stessi occhi nello specchio. Due iridi blu lo fissavano con lo stesso sguardo abbattuto che aveva avuto durante tutta la settimana, da quando lei era morta. Non era la prima volta che vedeva qualcuno venire ucciso davanti a lui. Era un soldato, c’era una guerra in corso e abitava in un paese che aveva come leader un fanatico della pulizia etnica. In qualche modo però quella morte lo aveva scosso più di quanto avrebbe dovuto. Forse perché era una donna innocente, forse perché americana come lui. Ma, più di tutto, forse perché il dubbio di essere stato proprio lui l’artefice della sua morte lo facevano sentire colpevole.
Da quando quel colpo era partito, Castle si chiedeva chi avesse realmente sparato. Lui o il soldato? Non riusciva a ricordare chiaramente i dettagli della lotta. Ricordava solo di avergli afferrato la mano con la pistola. Chi poteva dire che non era stato lui? Magari aveva premuto il grilletto per sbaglio o schiacciato un dito all’uomo così che sparasse.
Scosse la testa mentre si alzava il colletto dell’uniforme, sistemando insieme le mostrine al collo. Aveva tentato di fare l’eroe, senza pensare che avrebbe potuto benissimo fermare il soldato se si fosse presentato e gli avesse ordinato di lasciar andare la donna, magari puntandogli la sua stessa pistola contro. La morte di lei era stato il prezzo della sua avventatezza. Non erano nemmeno riusciti a scoprire come si chiamasse. La donna non aveva indosso documenti e l’appartamento in cui si era rifugiata era abbandonato da tempo. Tutto quello che sapevano, era che i vicini l’avevano sentita parlare in inglese.
Rick sospirò esasperato, aggiustandosi intanto i gemelli ai polsi. Con quella informazione in realtà non avrebbero saputo dire neanche se la donna arrivasse dall’America, dall’Inghilterra o da qualsiasi altro luogo in cui si parlasse inglese.
Finì di sistemarsi meccanicamente l’uniforme d’ordinanza con ancora la testa piena di dubbi. Quindi si infilò il giaccone, recuperò il cappello e il mazzo di fiori che aveva comprato un paio di ore prima e uscì. Quel giorno il tempo era freddo ma per fortuna limpido. Camminò con lo sguardo basso e pensieroso per quei dieci minuti che lo separavano dalla casa di Ryan, non curandosi minimamente delle persone e dei soldati che passavano intorno a lui. Avrebbe potuto farsi portare da uno dei suoi uomini con una camionetta, ma quando aveva bisogno di schiarirsi le idee preferiva sempre fare quattro passi. Inoltre non voleva arrivare troppo presto a casa dell’amico. I Ryan lo avevano invitato per il pranzo, sicuramente per tentare di distrarlo dai suoi cupi pensieri di sensi di colpa dell’ultima settimana. Rick non era molto dell’umore e non aveva voglia di rovinare loro il pasto, ma i coniugi avevano talmente tanto insistito, dicendo che era una vita che non mangiavano insieme, e tirando anche in causa il piccolo Leandro, che non era riuscito a rifiutare.
Alla fine arrivò davanti all’abitazione. Era una piccola palazzina a due piani, stretta e alta, color rosso mattone, incassata tra altre due palazzine della stessa dimensione ma di colore leggermente differente. Castle si era sempre chiesto se le avessero fatte in quel modo per poter lasciare più privacy agli abitanti o se invece per aiutarli a fargli perdere la strada di casa nella loro stessa via.
Salì i due gradini bianchi davanti alla porta e si fermò sotto la tettoria naturale creata dal balconcino del secondo piano. Prese un respiro profondo e si impose di lasciare fuori dalla sua testa quei pensieri funerei per un po’. Quindi suonò il campanello. Nell’attesa girò lo sguardo verso la strada. C’era poca gente a quell’ora, per lo più uomini che tornavano a casa per il pranzo o donne con borse della spesa. Solo un paio di bambini gironzolavano, anche se controllati a vista dalle madri a pochi passi da loro.
In quel momento Rick sentì dei passi dietro la porta e un attimo dopo Kevin gli aprì.
“Ehi, colonnello!” lo salutò il maggiore con un sorriso facendosi da parte per farlo entrare nel piccolo corridoio che fungeva da anticamera.
“Kev.” replicò in risposta Castle con un mezzo sorriso e un cenno della testa. Si fece avanti togliendosi automaticamente il cappello e portandolo sotto braccio.
“Quelli sono per me?” domandò divertito Ryan indicando i fiori che aveva in mano.
“Spiacente.” rispose Rick subito. “Mi servono per corteggiare tua moglie.” dichiarò serio, notando Jenny arrivare proprio in quel momento con un sorriso dalla cucina. Era davvero una bella donna, il suo amico l’aveva scelta bene. Non era molto alta, ma era snella, con i capelli biondi e lunghi e gli occhi azzurri costantemente allegri. La gravidanza inoltre l’aveva resa ancora più splendente.
Quando Jenny si avvicinò Castle le fece l’occhiolino. Ryan chiuse la porta sbuffando e superò il colonnello per passare un braccio intorno alla vita della moglie con fare possessivo.
“Trovati la tua!” ribatté il maggiore in risposta. Jenny alzò gli occhi al cielo, mormorando qualcosa di molto simile a ‘bambini’, mentre il colonnello ridacchiava. La donna poi si liberò dalla stretta del marito e lo spedì in salone. Kevin si allontanò borbottando, fintamente offeso per essere stato mandato via. A quel punto lei si avvicinò a Castle con un sorriso dolce e lo baciò sulla guancia.
“Come stai, Rick?” gli chiese. Voleva essere una domanda di circostanza, ma non era riuscita a nascondere la seria preoccupazione che aveva per lui. Castle e Ryan erano come fratelli, quindi per lui Jenny era come una cognata acquisita che si preoccupava per il suo benessere come per il marito. Prima della guerra inoltre era sempre stata la prima a presentargli ragazze che potessero finalmente accasarlo.
“Bene…” mentì lui, porgendole i fiori ed evitando accuratamente di guardarla negli occhi.
“ZIO RICK!!” Una vocetta squillante li fece voltare entrambi verso la fine del corridoio, dove si trovava il salone.
“Ciao Leandro!” lo salutò Castle con il primo sorriso sincero che aveva in volto da tutta la settimana. Il piccolo arrivò di corsa e lui lo prese al volo. “Wow, siamo diventati pesanti!” commentò ridacchiando per lo sforzo, mentre quello gli si attaccava al collo.
“Non sono pesante!” replicò il bambino facendo una smorfia. “Sei tu che stai invecchiando, zio!” continuò poi Leandro con aria seria, facendolo restare a bocca aperta.
“Vecchio io??” esclamò Rick con gli occhi sgranati. “Hai sentito??” domandò poi scandalizzato rivolto a Jenny accanto a lui. “Mi ha dato del vecchio!! Ah, ma io lo so chi è stato!” aggiunse poi tornando a guardare il piccolo. “E’ stato quel simpaticone di zio Kev insieme a tuo padre, ne sono certo!” Leandro ridacchiò e gli lasciò un bacio sulla guancia come ricompensa per la sua faccia offesa. In risposta Castle gli scompigliò i capelli neri con un sorriso affettuoso. In poco tempo si era affezionato molto a quello scricciolo. Leandro era piccolo e magrolino, ma stava crescendo in fretta. Con la carnagione un po’ scura che si ritrovava, gli occhi neri, vivaci e caldi, e il carattere aperto che aveva, Rick era sicuro che a breve avrebbe fatto strage di cuori. Sempre che la guerra in corso glielo avesse permesso.
“Leando, vai di là e dì a tutti di lavarsi le mani mentre zio Rick si toglie la giacca che ora è pronto.” gli disse dolcemente Jenny. Quello annuì subito e attese che Castle lo posasse a terra.
Rick sospirò e lo mise giù, pregando che il bambino non conoscesse mai gli orrori della guerra e della morte che avevano vissuto molti suoi coetanei. Leandro schizzò subito verso il salone, sparendo dalla sua vista, per avvertire che stavano per pranzare. A quel punto Castle recuperò il cappello dal pavimento, che gli era caduto quando aveva afferrato al volo il piccolo, e si tolse la giacca per posarli entrambi sull’attaccapanni poco lontano da lui. Jenny gli lanciò un’occhiata del tipo ‘per stavolta ti sei salvato’ e poi sparì in una porta laterale che dava sulla cucina insieme ai fiori. Il colonnello sospirò internamente sollevato. Quindi si voltò verso un’altra porta, nella parte opposta del corridoio, per andare in bagno.
“Ben arrivato, Herr Castle.” L’uomo si fermò e fece un mezzo sorriso nel sentirsi chiamare così. Tutti lo nominavano sempre con il suo grado dell’esercito, o semplicemente con il cognome, ma una sola persona preferiva usare il termine di signore: Victoria Gates, la cameriera di casa Ryan. Castle era certo che in passato la donna avesse avuto dei problemi con i soldati, ma non aveva mai saputo quali. D’altronde la Gates non era una signora di molte parole. Però era saggia e sempre pronta a rispondere a tono. Non era la classica domestica infatti. Aveva la carnagione scura, cosa non molto comune in quegli anni in Germania, inoltre era piccola e di una certa età, ma era anche una gran lavoratrice e fedele domestica. Lavorava in quella casa perché sapeva di essere al sicuro con Kevin e Jenny. Inoltre era pagata, e Castle sapeva che mandava buona parte dei soldi che guadagnava alla sua famiglia, nascosta alla periferia della città, spesso tramite lo stesso Ryan.
Rick si voltò di nuovo e infatti si ritrovò davanti la cameriera con un grosso vassoio d’argento chiuso da un coperchio. Aveva al solito un’aria severa, ma il colonnello sapeva che per lo più era facciata. La prima volta che l’aveva incontrata, si era convinto che lei ce l’avesse con lui. E forse era stato anche così, visti i suoi borbottii ogni volta che si parlava di guerra e soldati e soprattutto quando lui ne parlava, come se non capisse davvero cosa stesse dicendo. Con il tempo però avevano imparato a rispettarsi e a rimanere se non altro in buoni rapporti. Anche se a volte ancora lo preoccupavano quegli sguardi taglienti che gli lanciava. Nonostante questo, Castle aveva visto come la Gates si comportava quando c’erano bambini in giro. Ogni volta che uno era presente in casa, lei diventava peggio di una tata premurosa. Con Leandro era stata la stessa cosa. E il colonnello era sicuro che fosse stata anche tra le prime a gioire per la notizia della nascita del piccolo Ryan.
Frau Gates.” la salutò di rimando Castle con un mezzo sorriso, accennando insieme un inchino con il capo.
“Farà meglio a sbrigarsi perché sto mettendo in tavola.” dichiarò secca la donna alzando appena il vassoio tra le sue mani per fargli capire meglio il concetto. Rick in risposta le fece un saluto militare all’americana, portando la mano tesa alla fronte e mettendosi sull’attenti.
“Sì, signora!” esclamò subito. La Gates gli lanciò un’occhiataccia, ma il colonnello vide anche un guizzo divertito nei suoi occhi neri. Quindi sbuffò appena, come scocciata ed esasperata insieme, e si voltò per andare a portare il vassoio in salone. Castle ridacchiò e andò in bagno a lavarsi le mani. Aprì il rubinetto e fece scorrere l’acqua fredda. Si lavò le mani con cura usando la saponetta bianca posta lì accanto.
A un certo punto però il suo sguardo si perse. Un ricordo lo colpì all’improvviso. Una ruga profonda gli si formò in mezzo alla fronte per l’ansia. Per un attimo rivide le sue mani sporche di sangue. Il sangue della donna che aveva cercato di salvare. Perfino dopo aver visto la sua espressione spaventata, pallida e spenta, morta, si era buttato su di lei nel tentativo di fermare quel fiotto rosso sul suo petto che si affievoliva sempre più. Ma era stato troppo tardi. Era dovuto intervenire Ryan per farlo staccare da quella sconosciuta. L’aveva alzato di peso e l’aveva portato fuori da quell’appartamento all’improvviso diventato soffocante e odorante di morte. Aveva scalciato, pregato Kevin di farlo tornare da lei, da quell’innocente che non meritava la morte, da quella donna che avrebbe dovuto proteggere e che invece aveva finito per ammazzare!
Il respiro gli si fece veloce e pesante. Il sangue rosso era ancora vivido sulle sue mani. Non riusciva a toglierlo! Non riusciva a…!
“ZIO RICK!!” La voce del piccolo Leandro proveniente dal salone riportò Castle bruscamente alla realtà. Si accorse di essere leggermente sudato, ansante, le mani strette a pugno sopra il lavandino tanto forte da conficcarsi quasi le unghie nella pelle. Notò che aveva ancora in mano la saponetta. L’aveva deformata completamente nella sua stretta. La lasciò andare come se scottasse e quella cadde con un tonfo nell’acqua del lavandino ancora aperto. Deglutì, sbattendo insieme gli occhi e scuotendo la testa per riprendere lucidità. Poi aggrottò le sopracciglia, confuso e preoccupato, mentre il suo cuore tentava di diminuire i battiti cardiaci. La domanda che aveva di nuovo in testa era sempre la stessa: Perché lei mi fa questo effetto?
“Zio Rick!” Castle sussultò spaventato e si voltò di scatto verso la porta del bagno, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. Cercò di ricomporsi immediatamente non appena vide Leandro che lo guardava preoccupato e un po’ spaventato per la sua espressione. “Zio, stai… stai bene?” domandò esitante. Il colonnello spostò lo sguardo dal bambino, deglutì di nuovo e si passò una mano umida tra i capelli. Quindi prese un respiro profondo e tornò a osservarlo, cercando di simulare una calma che non aveva.
“Sì… sì, sto bene.” replicò Rick con un mezzo sorriso incerto. “Scusami, io… arrivo subito.” continuò poi con tono più sicuro, spostando però gli occhi da Leandro ancora fermo sulla soglia del bagno. “Finisco di lavarmi le mani e vi raggiungo.” concluse infine recuperando la saponetta e iniziando a sfregarsela sulle mani con colpi decisi.
“Ok…” sentì mormorare il piccolo a bassa voce. Quindi un lieve scalpiccio gli indicò che se ne era andato. Castle lanciò un’occhiata alla porta per assicurarsi che non ci fosse nessuno e sospirò stancamente. Poi alzò gli occhi sull’immagine riflessa di sé stesso nello specchio sopra il lavandino. Era ancora un po’ pallido e le borse sotto gli occhi si erano fatte più vistose. Scosse la testa, quindi mise le mani a coppa e le riempì d’acqua gelata che si gettò poi in faccia. Doveva restare lucido. Dai Ryan non si poteva attaccare a una bottiglia per dimenticare quelle immagini.
Chiuse il rubinetto e osservò ancora per un attimo le sue mani, ora bagnate e pulite. Poi prese un respiro profondo, si asciugò e si preparò a sfoggiare il miglior sorriso che gli sarebbe riuscito per il pranzo.
 
“Ehi, amico, allora non ti sei perso!” esclamò Javier Esposito divertito, vedendo finalmente entrare Castle nel salone. Il colonnello scosse la testa e sorrise all’uomo. Javier era più basso di lui, pelle scura e capelli neri ricci tagliati a spazzola. Dai muscoli delle braccia, che si intravedevano dalla camicia bianca che portava, si poteva intuire che una volta doveva essere stato in gran forma. Ora però la vita familiare, e soprattutto lo stare nascosto in casa tutto il giorno, l’avevano impigrito e una lieve pancetta si poteva facilmente intravedere dai bottoni tesi sullo stomaco. Castle conosceva poco del suo passato perché l’uomo non ne parlava volentieri. Sapeva solo che si era trasferito con Lanie, sua consorte da circa nove anni, in Germania dall’America poco prima di sposarsi per cercare un lavoro migliore nella Berlino in forte crescita. Una cosa che Rick aveva notato avere in comune con la moglie, era che erano entrambi testardi e orgogliosi, ma anche focosi e piuttosto maliziosi.
“Lascialo in pace, Javi!” lo riprese severamente Lanie al suo fianco. Lei era più bassa del marito, pelle scura, lunghi capelli neri e lisci, aveva inoltre labbra piene e un seno prosperoso. Una volta l’aveva vista mentre aveva indosso una sottoveste piuttosto scollata e girava per casa di Ryan liberamente e senza vergogna. Castle era entrato per parlare con Kevin e se la era ritrovata davanti in quell’abbigliamento. Era rimasto imbambolato a fissarla all’altezza del seno e per poco non si era beccato un cazzotto da Esposito, arrivato in quel momento dalla loro camera segreta. Ovviamente Javier sapeva che il colonnello non ci avrebbe mai provato con la moglie, ma aveva voluto ricordargli di chi era la donna a modo suo, da vero macho latino qual era. “Ha passato una settimana difficile.” continuò Lanie sempre rivolta al marito, ma lanciando insieme un’occhiata preoccupata a Castle. Ecco un’altra che si preoccupa per me… pensò Rick con un misto di irritazione e affetto. A causa del lungo tempo che avevano già passato in casa Ryan, ormai anche loro erano diventati un po’ parte della famiglia. Quando sarebbe giunto il momento però, quel legame avrebbe reso solo più difficile l’addio.
“Lo so, ma ho fame!” replicò Javier con una smorfia. “Non posso mica aspettare che cerchi di salvare tutte le donne della città, no?” aggiunse poi verso il colonnello strizzandogli l’occhio. Rick sbuffò divertito. Era il suo modo di confortare le persone: scherzare sull’accaduto. In effetti non era male come idea. Forse solo un po’ cupa, ma d’altronde, con una guerra in corso, ‘cupa’ era sempre meglio di ‘nera’.
“Come stai, Castle?” domandò Lanie, ignorando il commento del marito. Il colonnello sospirò. Non sapeva più quanta gente gli avesse fatto quella domanda nell’ultima settimana.
“Bene.” mentì ancora una volta, girando lo sguardo per la stanza alla ricerca di Leandro. Il salone dei Ryan era piuttosto ampio e ben arredato con mobili in legno scuro. Una libreria piuttosto fornita campeggiava a lato della stanza, dove stavano anche una poltrona e un divano su cui erano seduti gli Esposito, mentre di fronte si trovava una credenza antica davanti alla quale c’era il tavolo da pranzo. Il tavolo era già coperto da una tovaglia bianca e apparecchiato di tutto. Sulla parete di mezzo c’era una grande finestra che riusciva a illuminare da sola tutto lo spazio circostante.
“Si mangia!” annunciò allegro Ryan entrando in quel momento dalla cucina con il cestino del pane. Nonostante avessero una cameriera, sia Jenny che Kevin preferivano non trattarla da serva. Certo, la donna puliva, lavava e preparava il pranzo, ma entrambi la aiutavano, anche se ora di meno con Jenny incinta e il maggiore sempre fuori casa. Inoltre era la Gates che controllava la casa e i suoi ‘ospiti’ ogni volta che marito e moglie erano fuori.
Kevin posò il pane sul tavolo e fece cenno agli altri di avvicinarsi per prendere posto. Castle notò che al centro c’era un grande vassoio con un mucchio di tartine dai colori differenti. Doveva essere quello che aveva prima in mano la cameriera quando era entrato.
“Non siete ancora seduti?” borbottò entrando in salone la Gates, arrivando proprio in quel momento con un altro vassoio, questa volta aperto e con un grosso pezzo di carne fumante ben visibile, lanciando occhiatacce a tutti.
“Arriviamo!” dichiarò subito Esposito alzandosi di scatto e filando verso il tavolo. Più che il cibo, Castle sospettò che fosse stato lo sguardo della cameriera a farlo schizzare in piedi.
“Leandro!” chiamò Lanie una volta in piedi. “Vieni che è ora di mangiare!” Castle si guardò intorno e finalmente scorse il bambino dietro le tende della portafinestra con in mano due cavalli giocattolo. Il colonnello lo guardò con tenerezza. La finestra era uno dei posti preferiti del piccolo, nonostante il rischio di essere visto, per via della luce che vi entrava e di quel poco di paesaggio che vedeva. Doveva mancargli davvero tanto lo scorrazzare libero all’aria aperta e poteva anche capirlo.
Leandro corse nella camera segreta a posare i giocattoli, quindi tornò in salone. Appena gli passò davanti, Castle lo prese al volo e lo lanciò per aria. Il bambino, che all’inizio aveva un’aria preoccupata per la faccia strana che gli aveva visto in bagno, cominciò a ridere mentre il colonnello lo faceva volare per quei pochi centimetri lontano dalle sue mani per poi riprenderlo al volo.
“Pronto per la pappa?” domandò alla fine Rick tenendo il bambino in braccio mentre ancora ridacchiava. Leandro annuì subito.
“C’è anche il dolce dopo!” esclamò poi dimenticando completamente l’episodio del bagno. “E io ho aiutato a farlo!” aggiunse orgoglioso.
“Davvero?” domandò Castle divertito. “Possiamo fidarci a mangiarlo, allora?” chiese poi avvicinandosi al tavolo mentre anche Jenny e Kevin prendevano posto insieme a Lanie e Javier. Il bambino mise il broncio alla sua affermazione e Rick ridacchiò. Quindi gli scoccò un bacio sulla guancia e lo mise direttamente sulla sua sedia. “Sono sicuro che sarà venuto buonissimo.” disse poi con tono di voce dolce, scompigliando i capelli scuri del piccolo. Leandro sorrise felice. Quindi venne distratto dalla Gates che gli stava servendo proprio in quel momento una bella fetta di carne. Castle andò a prendere posto insieme a quella che ormai era diventata un po’ la sua famiglia.
 
“Si sa qualcosa di Amburgo?” domandò cauto Esposito rivolto sia a Ryan che a Castle. Avevano finito di mangiare e tutti e tre si erano spostati a lato del salone, avvicinando l’apparecchio radio, situato prima in un angolo per evitare che qualcuno lo rompesse accidentalmente, per sentire le ultime notizie. Rick e Javier si erano posizionati sul divano, Kevin invece era seduto sulla poltrona. Tutti e tre avevano un’aria pensierosa e addolorata. Jenny e Lanie erano in cucina insieme alla Gates per chiacchierare e intanto lavare piatti e posate. Leandro era di nuovo alla finestra con i suoi soldatini e cavalli giocattolo.
La radio aveva appena annunciato che il numero delle vittime dell’attacco aereo su Amburgo, avvenuto tra il 25 luglio e il 3 agosto, era stato altissimo anche se non era stata ancora fatta una stima precisa nonostante i mesi di distanza. I feriti, gli sfollati e i dispersi erano inoltre ancora incalcolabili. Si parlava di un’intera città quasi rasa al suolo, case e chiese cadute come castelli di carta, esplosioni e incendi ovunque...
“I dati ufficiali non sono ancora stati diramati.” rispose Castle con un sospiro. “Ma si contano sulle cinquantamila vittime…”
“Cinquatamila??” ripeté incredulo Ryan scuotendo la testa. Erano entrambi soldati e conoscevano cosa volesse dire mandare avanti una guerra in termini di vite umane, ma quello era qualcosa di completamente diverso. Era bombardare una città con quasi il solo scopo di fare il più alto numero di vittime civili tra i nemici per demoralizzare il rivale e costringerlo ad arrendersi.
“Probabilmente di più.” aggiunse il colonnello con tono mesto, lo sguardo puntato sulla radio davanti a sé, ma la testa altrove. Era stato ad Amburgo due mesi prima per ordine del suo superiore. Aveva dovuto fare una stima dei danni e redigere un rapporto iniziale su cosa era ancora sfruttabile militarmente. Non ci aveva messo molto. Mezza città era stata distrutta, soprattutto la parte delle fabbriche e degli alloggi militari. Moltissimi innocenti però c’erano andati di mezzo per il solo fatto di abitare ad Amburgo. Aveva visto i danni delle bombe ai pavimenti, ai muri, alle case. Tutto era stato almeno in parte danneggiato. Anche perché avevano usato un altro tipo di arma oltre le bombe normali. Era un tipo di bomba particolare, che il colonnello sapeva ancora in via di sperimentazione. Evidentemente avevano usato Amburgo come camera di prova.
Castle aveva visto i muri neri, le ceneri di ciò che il fuoco aveva bruciato. Non solo oggetti. Soprattutto persone. Aveva visto i corpi sfigurati dei morti e dei vivi, con la carne viva e pulsante in vista e i brandelli di pelle laceri e neri lungo il corpo. Bombe incendiarie. Ecco cosa avevano usato sulla città. Castle aveva ancora in testa le urla dei feriti e i loro sguardi spenti e doloranti. Per chi ancora aveva gli occhi per poter guardare.
“Pensate che attaccheranno di nuovo?” domandò Esposito, togliendo Rick dall’orrore dei suoi pensieri.
“Amburgo? Non credo.” replicò Ryan andando a girare una manopola per spegnere la radio. Dopo diversi minuti di cupo gracchiare, scese il silenzio. “Hanno fatto così tanti danni che ci vorranno anni per rimetterla in sesto. Non è più un punto strategico…”
“Intendo Berlino.” lo fermò Javier. Castle alzò gli occhi e si accorse che lo sguardo preoccupato di Esposito era rivolto dietro di lui, verso il piccolo Leandro seminascosto da una tenda a giocare. “Finora hanno attaccato sporadicamente Berlino e si sono concentrati su altre città, però…”
“Quelli non erano attacchi.” mormorò cupo Rick. Sapeva di cosa parlava Javier. Tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre c’erano state diverse incursioni aeree su Berlino, ma, a parte l’ultima, nessuna aveva causato danni davvero ingenti. Il 23 agosto gli inglesi avevano gettato bombe a caso, senza un bersaglio preciso e avevano finito per fare poche rovine e anzi molti velivoli erano stati abbattuti dai cannoni antiaerei. Il 31 agosto avevano sbagliato proprio punto di sganciamento, col solo risultato di abbattere qualche fattoria a 50 km di distanza. L’ultimo attacco però, la notte del 3 settembre, nonostante fosse stato mal progettato anche in quel caso, aveva finito per danneggiare diversi quartieri più periferici. Uno dei suoi tenenti aveva perso la moglie e due figli a causa di una bomba che aveva fatto crollare la casa in cui abitavano. Dopo quello, molti berlinesi avevano deciso di lasciare la città per paura di un nuovo attacco. E forse non avevano avuto tutti i torti, perché quello non era stato per niente un attacco mirato a Berlino. “Erano solo esercitazioni.” continuò con lo stesso tono Castle.
“Ma sono passati tre mesi dalla loro ultima incursione…” iniziò Ryan speranzoso. Il maggiore cercava di trovare un lato positivo a causa del figlio che sua moglie portava in grembo. Voleva, o meglio sperava, che potessero restare al sicuro entrambi. Ma in quella guerra nessuno era al sicuro.
“Vuol dire solo che dobbiamo aspettarcelo da un momento all’altro.” concluse il colonnello preoccupato e pensieroso, gli occhi rivolti verso il bambino alla finestra.
 
Castle salutò tutti e uscì dalla casa dei Ryan solo a pomeriggio inoltrato. Dopo la conversazione seria e pesante avuta con Kevin e Javier, aveva sentito il bisogno di qualcosa di più leggero. Così aveva iniziato a giocare con Leandro mentre gli altri adulti li guardavano ridacchiando. Non era una cosa comune in fondo vedere un bambino magrolino di sette anni che dava ordini a un uomo, per di più colonnello grande e grosso, su come muoversi con i soldati e i cavalli lungo il campo di battaglia che era il pavimento del salone. Quel carattere docile e da bambinone veniva fuori raramente in Rick. Con il lavoro che faceva era obbligato a darsi un contegno e al suo appartamento non aveva nessuno con cui far uscire quel lato di lui. Quindi quando aveva intorno Leandro, Castle diventava la persona più giocherellona e tenera del mondo. Una cosa che si concedeva di fare solo davanti agli occhi dei Ryan e degli Esposito.
Castle rabbrividì appena nel cappotto. Il contrasto tra il caldo della casa e il freddo dell’esterno era notevole. Si notava che erano in novembre. Le giornate si erano fatte più gelide e grigie e si erano accorciate vistosamente. Ormai era già quasi buio. Il colonnello alzò il bavero della giacca e si calcò di più il cappello in testa per proteggersi dal venticello leggero ma freddo che si era alzato, quindi si incamminò verso il suo appartamento. Aveva ancora in testa la conversazione di prima. Gli inglesi avrebbero attaccato presto Berlino, ne era certo. Era in quei momenti che si chiedeva se non avesse fatto meglio a restare in America, facendo magari un altro mestiere, invece di seguire il volere di suo padre. Non era la paura per sé stesso che lo preoccupava però. Era il terrore di perdere qualcuno a cui voleva bene. Ryan era un soldato come lui e sarebbe potuto cadere sotto uno degli attacchi cercando di difendere la città. Oppure avrebbero potuto colpire la sua casa e allora sarebbero rimasti sotto le macerie Jenny, gli Esposito, il piccolo Leandro o anche la Gates. Oppure ancora una bomba avrebbe potuto far saltare in aria uno dei teatri in cui sua madre recitava e…
Castle scosse violentemente il capo come a voler scacciare tutti quei pensieri dalla sua testa. Non poteva pensare a quello. Se avesse continuato a vedere i corpi dei suoi amici o di sua madre morti davanti a lui, avrebbe preso tutto e se ne sarebbe andato, Dio sa solo dove. Ovunque tranne che in Germania. E si sarebbe portato dietro tutti loro. Ma in fondo dove andare? L’aveva capito già prima: si combatteva non solo lì, ma anche nel resto del mondo. Nessuno era al sicuro in quella guerra.
Il colonnello sospirò e, alzando gli occhi, si accorse di essere praticamente arrivato a casa. Scosse la testa stupito. Non aveva prestato la minima attenzione alla strada. Dopo neanche un minuto stava salendo i pochi gradini verso la porta della sua abitazione. Tirò fuori le chiavi da una tasca e aprì la porta. Una volta dentro la richiuse e poi si tolse cappotto e berretto, andandoli ad appendere sull’attaccapanni lì vicino. Come abitazione era molto simile a quella di Ryan, palazzina piuttosto stretta, anche se meno di quella di Kevin, alta a due piani e incassata tra altri due alloggi, ma un po’ più grande e più spoglia. Castle non ci aveva mai tenuto troppo ad arredarla. Qualche foto, un paio di dipinti e oggetti particolari, come una spada intarsiata appesa a una parete, ma niente gli dava una sensazione di calore vero come la casa dei Ryan. Probabilmente era il fatto che fossero una famiglia, mentre lui era sempre solo, a eccezione della madre che veniva a trovarlo di tanto in tanto, fermandosi a volte a dormire. Quella in cui stava non riusciva a vederla come casa sua comunque. Gli era stata assegnata quando era diventato Maggiore e sarebbe rimasta sua finché non fosse diventato Generale. Ma non era davvero sua. L’unica cosa che considerava più vicino a una casa era il piccolo appartamento in cui aveva vissuto con i genitori, finché il padre non era morto, e dove viveva attualmente la madre. Più o meno da quel tempo i suoi alloggi gli erano sempre stati assegnati nelle zone in cui sarebbe stato utile militarmente.
Si passò una mano tra i capelli e si sbottonò la giacca dell’uniforme mentre attraversava il piccolo corridoio d’ingresso per infilarsi nel salone. Lanciò un’occhiata alla pendola a uno dei lati della stanza e vide che mancava ancora più di un’ora prima del suo turno alla postazione di difesa. Per un momento pensò di dormire un po’, ma poi ci ripensò. Era capace di addormentarsi e risvegliarsi il mattino dopo invece che un’ora più tardi.
Castle si guardò pensieroso intorno, poi gli venne in mente che poteva fare. Si diresse quindi verso un’altra stanza che avrebbe dovuto fungere da studio privato, ma che lui aveva trasformato in una piccola biblioteca. Amava leggere, soprattutto i romanzi investigativi, d’azione e di fantascienza. Era la sua debolezza. Una debolezza che doveva tenere nascosta perché la Germania nazista non vedeva di buon occhio i libri, soprattutto se americani o comunque stranieri. Rick ricordava bene il rogo dei libri avvenuto dieci anni prima. Quello era stato solo l’inizio del peggior potere mai esistito. Per fortuna lui non aveva praticamente mai ospiti in casa a cui doverli nascondere.
Scosse la testa per liberare la mente da quei pensieri, quindi si mise alla ricerca di un libro che lo interessasse e distraesse per un po’. Tre pareti su quattro erano scaffali pieni di volumi e al centro della sala c’erano due grosse e comode poltrone con un tavolino in mezzo. Cercò per qualche minuto finché non trovò un titolo che lo attirasse. In realtà aveva già letto quasi tutti i libri, ma gli piaceva rileggerli di tanto in tanto. Alla fine il suo sguardo fu catturato da Ten Little Indians di Agatha Christie. Lo prese e si tolse la giubba dell’uniforme lasciandola su una poltrona per poi sedersi sull’altra, rimanendo così con la sola camicia bianca per stare più comodo. Sprofondò un po’ nella poltrona e aprì il libro. In un’altra vita, pensò Castle mentre sfogliava lentamente le pagine iniziali per arrivare al primo capitolo, mi sarebbe piaciuto fare lo scrittore. Avrei scritto storie d’azione e di spionaggio, mettendoci anche una bella donna per il protagonista. Forse avrei potuto anche farlo innamorare… ma alla fine avrebbe dovuto lasciarla comunque per via del suo lavoro. O magari sarebbe morto lui. Però avrebbe potuto anche essere solo morto per finta e ritirarsi a vita privata. Magari solo per un po’, finché non fosse stato richiamato e… Un mezzo sorriso comparve sulle labbra del colonnello. Un sorriso triste. In un’altra vita. pensò. Una vita senza guerra.
 
Un’ora e mezza più tardi, Castle era alla sua centrale operativa. ‘Centrale operativa’ in effetti era un po’ un’esagerazione. In realtà era un piccolo edificio grigio con poche finestre e molti uffici. Il suo pregio però era che aveva uno spiazzo sul retro molto ampio, ottimo per radunare i soldati nei casi di emergenza per impartirgli gli ordini dovuti e anche abbastanza grande da tenere un paio di cannoni antiaerei con relativi proiettili.
Il colonnello si fermò per un momento sulla soglia dell’uscita dell’edificio al piazzale. Diversi soldati giravano armati di mitragliette pronti per i turni di guardia, altri si allenavano da un lato con dei pesi, altri ancora giocavano a dadi in un angolo buio. Come se questo impedisse che i superiori li vedessero. In ogni caso ormai quasi nessuno sgridava più gli uomini che giocavano d’azzardo. Avevano bisogno di allentare la tensione in qualche modo e, finché non si azzuffavano, a Castle andava bene così. Avevano pure il diritto di sfogarsi. In fondo meglio quello che violentare donne o uccidere per divertimento.
Rick alzò gli occhi e rimase a osservare due soldati che, dall’altra parte dello spiazzo, davano il cambio ad altri due uomini a guardia di uno dei cannoni antiaerei. Ogni ‘centrale’ aveva le sue difese per Berlino e loro avevano due cannoni e diverse mitragliette posizionate lungo il muro perimetrale. E tutto quello faceva capo a lui. Era responsabile della sicurezza e dell’ordine di quella specie di caserma in miniatura e di tutta la zona circostante. Per fortuna erano quasi in periferia e non avevano praticamente mai grossi problemi.
“Colonnello!” lo chiamò uno dei suoi soldati dall’interno dell’edificio. Castle si voltò e attese che il Tenente Durren gli facesse il saluto prima di proseguire. “Ci sono dei civili che vogliono parlare con lei.” continuò quindi con una mezza smorfia in volto il soldato. Evidentemente non gli andava molto a genio che disturbassero il suo superiore. E Castle immaginava anche perché.
“Sono parenti di dispersi?” domandò con un sospiro, tornando a guardare malinconico verso lo spiazzo. Durren annuì.
“Perché vengono sempre a rompere qui??” domandò scocciato il Tenente senza riuscire a trattenersi. Castle sapeva che era la tensione a farlo parlare in modo brusco e senza pensare troppo. “Sembra che noi conosciamo la sorte di tutti…” Durren era giovane, di almeno dieci anni più giovane di lui, irrequieto e un po’ testa calda, ma un ottimo soldato.
“Sai bene che le foto e i nomi dei deceduti in battaglia o negli attacchi passano da qui.” replicò il colonnello con un mezzo sorriso triste. Era vero. I nomi dei morti, insieme ai loro oggetti personali o foto, arrivavano allo sbaraglio alla centrale. Lì venivano trascritti, divisi per zone di provenienza, o di morte, e inviati di nuovo verso la sede principale di Berlino, che si sarebbe presa il compito di avvertire le famiglie o comunque di fare una lista di facile consultazione. “Cercano solo di capire la sorte dei loro cari.” continuò Castle, distogliendo alla fine gli occhi dal piazzale per rivolgerli verso l’ansioso tenente davanti a lui. Quello annuì e abbassò gli occhi come dispiaciuto. “Dove sono?”
“Alcuni già nel suo ufficio.” replicò Durren con di nuovo un tono un po’ seccato. “Qualcuno è rimasto nell’atrio.” continuò poi, stavolta con un’inflessione diversa nella voce. “E c’è una donna tra loro che vorrei tanto andare a consolare, se permette, Colonnello…” Rick ridacchiò per l’aria furba di Durren. Non era la prima volta che cercava di ‘consolare’ una bella vedova.
“Prima aspetta almeno che ci parli, Tenente!” dichiarò Castle divertito. Quindi gli passò davanti e si inoltrò nello stretto corridoio davanti a lui, superando le molte porte aperte e rumorose lungo la strada, piene di soldati indaffarati a trascrivere nomi, conservare foto, passare messaggi e altro.
“Dovrebbe vederla, Colonnello!” continuò il tenente con aria sognante come se Rick non avesse parlato. “E’ una visione!”
“Beh, spera che la tua visione non ci dia troppe grane, Durren.” lo bloccò Castle scuotendo la testa esasperato, ma con un lieve sorriso divertito sulle labbra. “O potrai scordarti di consolarla.” Il colonnello sentì prima un leggero sbuffo e poi un borbottato “Sì, signore.” alle sue spalle proveniente dal tenente.
In quel momento arrivarono all’atrio dell’edificio. Era piuttosto ampio, con un tavolo sul lato opposto della sala rispetto al portone d’entrata che avrebbe dovuto fungere da banco accettazione. In realtà era più un punto informazioni per le persone che venivano a cercare i loro parenti o amici. C’era infatti una grande bacheca, che occupava quasi interamente una delle pareti laterali dell’atrio, che conteneva nomi e, nei casi fortunati, foto dei morti più recenti. Quando però un nome non veniva trovato, allora i parenti si rivolgevano al banco per sapere se erano arrivate notizie della tal persona che abitava nella tal città che era stata appena bombardata. Spesso infatti i nomi erano talmente tanti da non riuscire a farceli stare nella bacheca, così i soldati al banco si occupavano di cercare negli archivi le copie dei certificati di morte mandati alla sede centrale oppure di visionare tra i nuovi arrivi se ci fossero corrispondenze.
Castle alzò gli occhi verso la parete ingombra di gente. Era stracolma di foto in bianco e nero e nomi scritti su pezzi di carta attaccati alla meno peggio con uno spillo al sughero della bacheca. Il loro numero era aumentato vertiginosamente negli ultimi mesi. Le persone alla timorosa ricerca dei nomi dei loro cari erano molte, tanto che si faticava a intravedere le immagini appese. Spesso accadeva che qualcuno non riuscisse a trovare il nome della persona che cercava, o che al contrario la trovasse, ma non volesse credere che quella fosse la realtà, e allora Castle si ritrovava a dover combattere anche con civili delusi, addolorati o ostili, che pensavano che ci fosse stato un errore di trascrizione. Succedeva ogni giorno ormai. La fila davanti al suo ufficio era sempre più lunga.
Il colonnello stava già per prendere le scale, sulla parete opposta a quella della bacheca, per salire al suo ufficio, quando qualcosa all’improvviso lo trattenne dal muoversi. Aggrottò le sopracciglia, mentre scrutava meglio tra la folla davanti a lui. Poi capì cosa l’aveva bloccato. Rimase a bocca aperta, gli occhi sgranati, il fiato d’un tratto corto e il cuore in accelerazione.
“Ah! E io cosa le avevo detto, Colonnello?” dichiarò Durren allegro quando vide cosa stava guardando il suo superiore. “Non è una visione?”
Doveva essere davvero una visione. O un sogno. O un incubo. Per forza. Perché quella donna non poteva essere davvero lì. Era morta. Morta sotto i suoi occhi a causa di un proiettile in mezzo al petto. Dissanguata in pochi secondi davanti a lui. Ma allora come era possibile che fosse viva e in salute a pochi passi da lui?
Prima che Castle riuscisse a dire o fare qualcosa, la donna si voltò e lo vide. Per un momento il colonnello tremò quando gli occhi color verde-nocciola, lucidi e attenti, di lei incontrarono i suoi. Erano così uguali e insieme così diversi da quegli occhi marroni, spenti e morti, della donna che aveva visto morire in un piccolo appartamento la settimana precedente. Rick non riusciva a muoversi. Sembrava pietrificato sul posto. Una parte nascosta di lui aveva sempre creduto alla magia, agli alieni e ai fatti paranormali… ma la resurrezione non l’aveva mai ritenuta possibile.
Poi la donna si mosse nella sua direzione e il colonnello trattenne il respiro. Pochi passi dopo era già davanti a lui.
“Lei è il Colonnello Castle?” domandò la donna. Ha una bella voce… si sorprese a pensare Rick. Ma con un forte accento… Scosse violentemente la testa, quindi sbatté per un momento le palpebre per riprendere lucidità. In fondo era sempre un colonnello dell’esercito. Avrebbe dovuto saper gestire ogni situazione!
Si schiarì la gola e annuì.
“Sì, sono io.” rispose Castle cercando di essere il più indifferente possibile. “Cosa vuole?”
“Sto cercando mia madre.” rispose senza mezzi termini la donna. “Voglio sapere se è viva e mi hanno detto di venire da lei.” Castle la studiò per un momento e finalmente vide che era più giovane della donna che aveva visto morire. Capì di aver sbagliato. Non era un fantasma. Era la figlia della donna. All’improvviso si sentì insieme sollevato e in colpa.
“Come ti chiami?” domandò con un tono un po’ più informale, sentendo anche le difficoltà di lei nel parlare tedesco.
“Beckett.” rispose. “Kate Beckett.”

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Xiao!! :D
Ecco qui il secondo cap! X) Mi scuso se il primo è risultato un po' lento, ma dovevo raccontare per forza qualcosa dei protagonisti perché fosse più facile comprenderli... Per chi aveva pensato che la donna nell'appartamento fosse Kate... Beh, direi che ora sapete che non è lei! XD
Spero di aver iniziato a suscitare qualche interesse in più per la storia... XD 
Boh, buona settimana! ;D (e buon PCA a chi lo guarda stasera! Incrocio tutte le dita!!!!!)
A presto! :) 
Lanie
ps: pubblicherò di nuovo mercoledì prossimo! ;)
pps: di nuovo grazie alle mie super consulenti Katia e Sofy (anche se una delle due è un po' oberata di studio povera...) <3

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Capitolo 3
*** La straniera ***


Cap.3 La straniera

“Lei è il Colonnello Castle?” domandò la donna. Ha una bella voce… si sorprese a pensare Rick. Ma con un forte accento… Scosse violentemente la testa, quindi sbatté per un momento le palpebre per riprendere lucidità. In fondo era sempre un colonnello dell’esercito. Avrebbe dovuto saper gestire ogni situazione!
Si schiarì la gola e annuì.
“Sì, sono io.” rispose Castle cercando di essere il più indifferente possibile. “Cosa vuole?”
“Sto cercando mia madre.” rispose senza mezzi termini la donna. “Voglio sapere se è viva e mi hanno detto di venire da lei.” Castle la studiò per un momento e finalmente vide che era più giovane della donna che aveva visto morire. Capì di aver sbagliato. Non era un fantasma. Era la figlia della donna. All’improvviso si sentì insieme sollevato e in colpa.
“Come ti chiami?” domandò con un tono un po’ più informale, sentendo anche le difficoltà di lei nel parlare tedesco.
“Beckett.” rispose. “Kate Beckett.”


“Ok, Kate…” iniziò Castle quando finalmente si fu abbastanza ripreso dalla sorpresa per decidere cosa fare.
“Preferirei Beckett.” lo bloccò subito la donna, sempre con il suo forte accento. Con la mente più lucida, il colonnello lo riconobbe: era americano.
Appena Rick arrivò a quella constatazione, il suo sguardo si fece teso. Era meglio che Beckett non parlasse troppo. Già qualcuna delle persone in cerca dei loro cari si era voltata verso di lei con aria curiosa e insieme guardinga, se non astiosa. In fondo erano in guerra con gli americani. Castle era un’eccezione perché dopo anni in Germania conosceva e parlava perfettamente il tedesco senza inflessioni. Inoltre, visti i capelli castano chiaro e gli occhi azzurri, e il fatto che fosse colonnello dell’esercito, nessuno si azzardava a domandare niente sulle sue origini. Ma Kate era un’altra cosa. Era sola e con un accento chiaramente americano, bruna e bellissima, abbigliata in modo molto più ‘libero’ delle donne tedesche. Tutto di lei in pratica diceva straniera. E le straniere non facevano una bella fine in quel clima di guerra.
“Beckett, allora.” accettò nervosamente Castle con un cenno del capo e un mezzo sorriso. “Hai una foto di tua madre?” Kate annuì e portò una mano alla tasca del cappotto grigio scuro che indossava. “Aspetta!” la fermò il colonnello con un gesto. “Vieni, andiamo a parlare nel mio ufficio.” aggiunse subito dopo indicandole con un gesto le scale dietro di lui. La donna lo guardò diffidente per un momento. Evidentemente sapeva di non potersi dire al sicuro e quello Rick lo prese come un segnale positivo. Non era una sprovveduta se non altro.
Alla fine Kate cedette e annuì, precedendo poi il colonnello su per le scale. L’ufficio di Castle era al secondo piano. Appena arrivati, videro una fila di persone davanti a una porta chiusa in fondo al corridoio che attendevano pazientemente che arrivasse il proprietario, ovvero il colonnello.
Rick sospirò frustrato. Aveva sperato che almeno quel giorno gli concedessero un po’ di tregua, ma evidentemente non era possibile. Per un momento si chiese che fare. Mandare via tutta quella gente per parlare solo con Beckett, oppure far passare prima lei? Avrebbe evitato molti rischi, ma sarebbe parso sospetto.
Il colonnello prese una decisione mentre si avvicinavano al fondo del corridoio e alle persone in fila. Calcolò che dovessero essere almeno una decina. Un attimo prima di raggiungerle, Rick si fermò e bloccò Kate per un polso. Lei si voltò di scatto e gli lanciò un’occhiata omicida, ma insieme sorpresa e agitata.
“Aspetta qui.” le sussurrò avvicinandosi appena. Quindi il colonnello tornò qualche passo indietro e si affacciò sulla tromba delle scale. “TENENTE DURREN!” urlò per farsi sentire sopra il costante rumore degli uffici e del vociare dei civili. Meno di un momento dopo il tenente stava schizzando su per le scale verso il suo superiore.
“Dica, Colonnello!” esclamò fermandosi davanti a lui e facendogli il saluto militare.
“Non far salire più nessun civile.” ordinò Castle. “Per oggi faccio solo questi. Se qualcun altro chiede di poter parlare con me, fallo tornare domani. Mi hai capito?”
“Sì, Colonnello!” replicò quello. Quindi il tenente gli rifece il saluto, scese di nuovo le scale e si piazzò davanti a esse per impedire l’accesso. Durren non era troppo stupito di quella richiesta. Non era una cosa inusuale che nel turno del pomeriggio-sera si decidesse di sentire solo un certo numero di lamentele. Di solito Castle cercava di prestare ascolto a tutti, ma di tanto in tanto, quando era stanco o doveva sbrigare delle pratiche urgenti, impediva l’accesso ai civili rimandando l’eventuale incontro al giorno successivo.
Appena Durren se ne fu andato, il colonnello tornò indietro e si fermò di nuovo accanto a Beckett.
“Non muoverti e non parlare con nessuno.” le disse velocemente a bassa voce. “Aspetta il tuo turno. Appena finirò queste persone potremo parlare tranquillamente.” La donna aggrottò le sopracciglia, cauta e sospettosa per il suo comportamento. Sembrava indecisa se mandarlo al diavolo e andarsene oppure restare. Alla fine la preoccupazione per la sorte della madre dovette avere la meglio, perché annuì con un piccolo sbuffo scocciato. Castle le fece un piccolo sorriso e annuì di rimando. Quindi si allontanò da lei per entrare nel suo ufficio. Velocemente si tolse il cappotto e lo lanciò sull’attaccapanni, quindi buttò il cappello sulla sua scrivania già ingombra di carte. Si sedette sulla sua poltrona e diede il via libera per entrare alla prima persona in fila. Una donna piuttosto anziana e con un grande foulard violaceo che le copriva la testa aprì la porta e si fece avanti con passo malfermo. Un attimo prima che chiudesse l’accesso dietro di lei, Castle vide fugacemente in fondo al corridoio la figura di Beckett. Era appoggiata di schiena al muro, le braccia incrociate davanti al petto in un atteggiamento che voleva sembrare rilassato, ma che invece risultava alquanto rigido. Teneva il capo leggermente chino in avanti, come a voler nascondere il volto dietro l’alto bavero del suo cappotto da cui spuntavano solo gli occhi, in modo da controllare così la situazione intorno a lei. Il colonnello sospirò internamente, sollevato che Beckett stesse seguendo le sue indicazioni sul non farsi notare. L’ultima cosa che gli venne in mente, prima che la signora appena entrata si sedesse sulla seggiola davanti alla scrivania e iniziasse a parlargli, fu l’espressione scocciata di Kate quando le aveva praticamente ordinato di stare ferma e zitta. Un quasi invisibile sorriso si formò sulle labbra del colonnello. ‘E’ adorabile.’ pensò. L’attimo dopo si accorse di quello su cui stava rimuginando. Scosse la testa per farsi uscire Beckett dalla mente e si impose di prestare attenzione alla donna davanti a lui.
 
“Ma, Colonnello, mio figlio non può essere morto!! Lei deve…!!”
Herr Schmidt, si calmi per favore!” lo bloccò Castle con forza, ma insieme cercando di usare tutto il tatto possibile. L’uomo davanti a lui non aveva neanche cinquant’anni e suo figlio, appena diciannovenne, era purtroppo uno dei migliaia di morti di Amburgo di cui Rick aveva parlato proprio qualche ora prima con Ryan ed Esposito. Il corpo del ragazzo era stato ritrovato tre settimane prima sotto un cumulo di macerie e il suo nome era spuntato in caserma solo quella mattina. Quell’uomo era venuto ogni singolo giorno per sapere qualcosa sul figlio, pregando di non vedere mai il suo nome appeso sulla bacheca all’ingresso della centrale. Ora che era successo, non riusciva ad accettarlo.
“Colonnello… Lambert era il mio unico figlio maschio…” mormorò l’uomo con le lacrime agli occhi, perdendo all’improvviso tutta la rabbia che aveva avuto fino a quel momento e accasciandosi sulla sedia, pallido in volto. In un attimo sembrò invecchiato di vent’anni. Castle sospirò e si alzò per fare il giro della scrivania.
“Mi dispiace sinceramente per la sua perdita.” disse Rick in tono contrito. Posò una mano sulla spalla dell’uomo e strinse la presa per dargli un po’ di conforto, anche se sapeva che non sarebbe servito a molto. Quella stretta non gli avrebbe certo riportato indietro il figlio. Schmidt rimase con gli occhi lucidi e assorti fissi davanti a lui, senza in realtà vedere nulla. “So cosa vuol dire perdere qualcuno che si è amato.” aggiunse poi il colonnello, mentre anche il suo sguardo si perdeva per un momento verso il muro. Si riscosse quasi subito sbattendo le palpebre. “Dovrebbe tornare a casa ora, Herr Schmidt.” dichiarò alla fine con tono fermo, ma gentile. “La sua famiglia la starà aspettando.”
“Mia moglie è morta di malattia lo scorso autunno.” replicò atono l’uomo con lo sguardo sempre fisso nel vuoto. “Dei tre bambini che avevo, la mia Edna è morta a causa di una bomba inesplosa due mesi fa… aveva solo dodici anni… e ora anche Lambert…” mormorò mentre la voce gli si spezzava. Ci fu un momento di silenzio, mentre Rick assimilava con un dolore nel petto le informazioni dell’uomo. Aveva praticamente perso tutto. O quasi.
“Ha detto che aveva tre bambini.” disse cauto Castle. “Vuol dire che uno è ancora vivo.”
“Sì…” mormorò Schmidt sbattendo le palpebre e passandosi nervosamente le mani tra i capelli e sulla faccia, come se si fosse risvegliato in quel momento da un incubo. “La piccola Hanne…” mormorò mentre un piccolo sorriso dolce gli si formava sulle labbra.
“Quanti anni ha?” chiese il colonnello.
“Cinque.” rispose. Castle si mise davanti all’uomo senza lasciargli la spalla e attese finché Schmidt non alzò gli occhi per guardarlo.
“Allora vada a casa per lei.” gli disse in tono serio. “Vada dalla sua bambina. Non la lasci sola ora. Ha già perso quasi tutta la sua famiglia. Non faccia sì che perda anche suo padre.” L’uomo lo guardò per un momento come stupito, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati. Quindi scosse la testa e si alzò in piedi di scatto, come se si fosse reso improvvisamente conto che aveva una piccola vita a cui badare e che, nonostante tutto, non poteva abbandonare. Fece un cenno agitato di congedo al colonnello e velocemente si portò all’uscita della stanza. “Se vuole un mio consiglio…” lo fermò Castle, un attimo prima che Schmidt aprisse la porta del suo ufficio. Quello si voltò e il colonnello lo guardò negli occhi per fargli capire meglio la gravità della situazione. “Lasci la città con sua figlia.” Schmidt rimase per un momento immobile. Quindi annuì nervosamente e uscì rapido dall’ufficio, lasciando la porta semiaperta dietro di lui.
Una volta che Schmidt fu scomparso, Castle sospirò malinconico e tornò a sedersi pesantemente sulla sua poltrona. Quindi appoggiò i gomiti sulla scrivania e mise la testa fra le mani. Quel giorno le lamentele erano state più difficili da ascoltare. Quella di Schmidt era stata il colpo di grazia. Il figlio aveva solo diciannove anni... Castle chiuse per un momento gli occhi. Si sentiva stanchissimo. Si chiese quante altre persone ancora mancassero prima che potesse finalmente attendere tranquillo che il suo turno finisse per poi tornare a casa a riposarsi.
Un lieve bussare lo tirò via dai suoi pensieri. Non si mosse e semplicemente disse ‘Avanti’. Forse non era molto dignitoso farsi trovare in quella posa per un colonnello, ma si sentiva davvero sfinito. Udì la porta aprirsi di più con un lieve cigolio, seguito poi da dei passi incerti.
“Posso entrare?” chiese una voce dal forte accento. Castle si ricordò all’improvviso che c’era ancora almeno una persona che non aveva ascoltato. Alzò la testa di scatto e vide Beckett ferma sull’uscio dell’ufficio.
“Vieni, entra!” esclamò subito il colonnello, scuotendo la testa e passandosi le mani sugli occhi per cercare di riprendersi un poco da quegli infelici incontri. Si alzò e le indicò la sedia davanti alla scrivania. Quindi, mentre lei prendeva posto, lui andò a chiudere la porta. Beckett aggrottò le sopracciglia al suo gesto e si irrigidì.
“Scusa.” esordì Rick in inglese così che Kate lo capisse senza problemi. Dall’espressione stupita di lei, la bocca semiaperta e gli occhi sgranati, era evidente che non se lo aspettava. “So che non ti puoi fidare di uno sconosciuto, ma se non chiudo la porta qualcuno potrebbe sentire che non parliamo tedesco e…”
“Tu parli inglese??” lo bloccò Beckett ancora stupita, passando anche lei alla sua lingua madre. Castle ridacchiò.
“Non ti ha fatto venire un dubbio il mio nome?” domandò divertito mentre prendeva un’altra sedia, dimenticata in angolo, e la portava vicino a lei davanti alla scrivania. Si accorse solo in un secondo momento del gesto che stava compiendo. Togliere la barriera della scrivania non era un’idea saggia perché confondeva il lavoro con il resto. Ma d’altronde Rick non voleva la scrivania tra di loro, quindi seguì la sua azione istintiva senza farsi troppi problemi. “C-A-S-T-L-E.” rimarcò lui scandendo ogni lettera mentre si sedeva. Lei arrossì un poco alla sua affermazione.
“Veramente l’ho solo sentito da uno dei soldati che mi ha indicato questo posto e pensavo fosse scritto, non so, con la K o comunque che solo la pronuncia fosse simile all’inglese…” dichiarò imbarazzata. Il colonnello ridacchiò e si mise più comodo sulla sedia, appoggiando la schiena indietro e incrociando le gambe con fare rilassato. Notò che Kate era davvero carina con quel rossore sulle guance.
“No, americano nel sangue!” replicò con un ghigno.
“Allora perché sei qui?” domandò Beckett stupita e insieme curiosa. Castle all’improvviso si oscurò. Si fece serio in volto e si irrigidì, incrociando insieme le braccia al petto. Quindi voltò il capo per non guardarla negli occhi e sembrò cercare per un momento qualcosa nella stanza.
“Direi per lo stesso motivo per cui tu sei qui…” commentò alla fine con gli occhi al soffitto. “A causa di un genitore.” spiegò riabbassando lo sguardo su di lei. Kate sembrò ricordarsi all’improvviso del perché era in quella stanza con un colonnello dell’esercito tedesco. Velocemente portò una mano alla tasca del cappotto che ancora indossava e tirò fuori una fotografia. La osservò per un momento con uno sguardo di preoccupazione mista a tenerezza e infine la allungò a Castle.
Rick non prese subito la foto. Rimase a osservare per qualche secondo la mano di Beckett che gli offriva quel pezzo di carta come se fosse l’unica cosa che potesse aiutarla a ritrovare la madre. Ma lui era terrorizzato. Aveva paura non di vedere l’immagine della donna viva, bensì quella della donna morta, stesa davanti a lui in un lago di sangue. Deglutì e si impose di essere lucido e ragionevole. Come si poteva avere paura di una fotografia?
Alla fine Castle districò un braccio dal petto e allungò lentamente la mano. L’attimo in cui le sue dita si strinsero su quella foto ebbe la sensazione che stesse per accadere qualcosa. Ma com’era venuta, quella sensazione sparì. Forse anche a causa dello sfioramento che le sue dita avevano avuto con quelle di Kate. Era bastato quello e una scarica elettrica gli era partita dalla mano per finirgli lungo tutta la spina dorsale.
Rick si schiarì la gola per non far trapelare l’effetto che aveva avuto su di lui quel semplice contatto, mentre Beckett ritirava velocemente la mano ora vuota. Poi prese un respiro profondo e finalmente guardò la foto. Gli bastò una sola occhiata per capire che la sua intuizione era giusta: la donna che aveva visto morire era la stessa dell’immagine. La madre di Kate.
“Come si chiama?” domandò il colonnello usando volutamente il presente. Non sapeva ancora cosa dire a Beckett e non voleva allarmarla prima del previsto.
“Johanna Beckett.” rispose prontamente Kate con una nota di impazienza repressa nella voce. Rick annuì automaticamente mentre osservava la foto. Erano molto simili Johanna e Kate. Tutt’e due belle donne, entrambe avevano i capelli lunghi, mossi e, anche se l’immagine era in bianco e nero, Castle era sicuro che quelli della madre fossero color castano come quelli della figlia. La forma del viso e del naso inoltre era la stessa. Solo gli occhi sembravano differenti. Forse Kate li aveva presi dal padre. “Ne sapete niente?” chiese all’improvviso Beckett togliendo Castle dall’immobilità che lo aveva colpito mentre studiava il mezzobusto di Johanna. Alzò gli occhi e la vide nervosa e agitata, le mani strette con forza contro la pancia, i denti che mordevano il labbro inferiore. Per un istante il colonnello non seppe cosa rispondere. Dire la verità o mentire? Osservò Beckett per qualche istante dubbioso e combattuto, le sopracciglia aggrottate. Alla fine decise cosa dirle.
“No.” rispose con un sospiro allungando di nuovo la foto a Kate. “Non ne sappiamo niente.” aggiunse poi, alzandosi intanto dalla sedia con un peso nel cuore e voltandole le spalle. Non era riuscito a dirle la verità. Non ce l’aveva fatta. Non sapeva neanche lui perché, visto che era una cosa che faceva tutti i giorni, comunicare alle famiglie la dipartita di una persona cara. Forse semplicemente non voleva far soffrire quella donna così speciale davanti a lui, che aveva viaggiato migliaia di chilometri per cercare la madre in un paese straniero e ostile, oltre che in guerra. Forse, egoisticamente, voleva solo avere la possibilità di rivederla.
Con la coda dell’occhio, Rick notò la donna accasciarsi un poco sulla sedia. Sembrava insieme affranta e sollevata per quella notizia.
“Sei sicuro? Insomma…” cominciò la donna lanciando un’occhiata alla porta chiusa e sedendosi più dritta sulla sedia. “Ci sono migliaia di nomi e foto che passano da qui ogni giorno. Come fai a sapere che non c’è quello di mia madre?” ‘Perché sono io il responsabile della sua morte e non avevamo né foto né nome di lei da mettere sulla bacheca…’ avrebbe voluto rispondere Castle.
“Perché tutti i nomi e le foto passano davanti a me prima o poi.” rispose invece atono, andando verso la finestra del suo ufficio e lanciando fuori un’occhiata. L’unica cosa che vide nel vetro buio fu la sua immagine riflessa. “E non ho visto nessuna Johanna Beckett, né tanto meno ho visto una sua fotografia.” aggiunse poi, voltandosi di nuovo verso di Kate. In fondo era vero. Fino a pochi minuti prima non conosceva il nome della donna che aveva contribuito a uccidere, né l’aveva mai vista in foto. Beckett annuì piano, lo sguardo triste. “Perché non mi dici qualcosa di lei?” chiese all’improvviso Castle. Beckett lo guardò sorpresa per poi aggrottare le sopracciglia perplessa. “Magari mi aiuterà a trovarla.” continuò il colonnello alzando appena le spalle. E poi così avrebbe potuto sapere qualcosa di più anche su Kate.
La donna ci pensò qualche secondo, come a valutare se le sue informazioni avrebbero potuto davvero aiutare a trovare la madre o meno. Alla fine dovette decidere di fidarsi di Castle, perché prese un respiro profondo e annuì.
“Ok.” rispose solo. Prima ancora che potesse aprire bocca però, il colonnello la sorprese di nuovo.
“Vuoi un caffè?” domandò infatti Rick avvicinandosi a un angolo della stanza dove c’era un piccolo fornelletto da campo con sopra una caffettiera. Non era molto, ma quando era in servizio era quello che lui riusciva a permettersi. “E’ piuttosto amaro, ma ho un sacco di zucchero e del latte per addolcirlo.” continuò il colonnello, iniziando ad accendere il fuoco.
“Io…” iniziò Beckett un po’ titubante. Castle si voltò e la vide mordersi il labbro inferiore. Sorrise.
“Giuro che non metterò veleno né strane droghe nel caffè!” dichiarò divertito. Quell’affermazione strappò un sorriso a Kate. Un sorriso che per un attimo mandò in tilt il cervello di Rick.
“Posso fidarmi di un colonnello nazista?” gli chiese Beckett ironica. Lui ci pensò su per un secondo, non offendendosi minimamente a quell’affermazione un po’ provocatoria. Prese tempo, versando intanto dell’acqua di una brocca lì vicino nella caffettiera e aggiungendo il caffè in polvere prima di posizionare il tutto sul fornellino.
“Puoi fidarti dell’uomo americano.” rispose alla fine Castle serio, girandosi di nuovo verso di lei. Kate lo squadrò per un momento, stupita dalle sue parole e dal tono in cui erano state pronunciate. Alla fine cedette con un sospiro.
“Un cucchiaino di zucchero e tanto latte…” borbottò Beckett sconfitta. Il colonnello sorrise e attese che il caffè uscisse per prepararlo come gli era stato ordinato. Non dissero una parola mentre aspettavano pazientemente che la bevanda fosse pronta. Il silenzio comunque non era imbarazzante. Era come se entrambi stessero rimuginando sui propri pensieri per capire quante informazioni rivelare all’altro e quante celare.
Qualche minuto dopo il borbottio liquido del caffè ruppe il silenzio. Castle prese due tazze e le riempì, aggiungendo poi un cucchiaio di zucchero in uno e tre nell’altro insieme a una generosa dose di latte per entrambi.
“Ecco qui!” dichiarò il colonnello con un mezzo sorriso, porgendo a Beckett la sua tazza e sedendosi poi di nuovo sulla seggiola davanti a quella di lei. “Allora…” iniziò lui soffiando appena sul caffè, ma tenendo gli occhi incollati su Kate. La donna stava assaggiando cauta un sorso dalla sua tazza. “Cosa mi puoi dire su Johanna Beckett?”
Beckett non rispose subito. Soffiò appena sul caffè bollente e guardò il liquido muoversi appena quando lei si fece girare un poco la tazza tra le mani. Qualche secondo dopo prese un respiro profondo.
“E’ una giornalista.” dichiarò infine Kate atona, gli occhi fissi sulla sua tazza. “Fino a pochi anni fa molti in America erano convinti che in Germania in fondo non andasse così male, come dichiaravano alcune voci. Si vociferava di soldati a ogni angolo delle città, di persone portate via di casa con la forza, di uomini imprigionati e picchiati senza un motivo, di donne stuprate, di campi di lavoro fatti per ammazzare gli ebrei, i politi contrari e chissà chi altro…” Durante quella breve presentazione, la voce di Beckett si era fatta più tesa e agitata. Si fermò e prese un altro respiro profondo per calmarsi. “A differenza di molti però,” continuò poi più tranquilla. “Mia madre credeva a quelle voci. Erano troppo…” Cercò la parola migliore per indicare quello che pensava con una piccola smorfia di dolore in volto. “Orribili… per non essere vere.” Alzò gli occhi su Castle per cercare di capire se avesse inteso quello che diceva. Lui annuì piano, consapevole molto più di altri che quelle voci erano del tutto vere. “Scrisse più e più volte insieme ad altri giornalisti le barbarie del governo di Hitler, per denunciare quello che accadeva in Germania, ma pochi le diedero retta. La maggior parte delle persone in America preferirono semplicemente chiudere gli occhi e pensare che quello nazista fosse solo un governo più rigoroso di altri.” Disse la parola ‘rigoroso’ con un chiaro disprezzo nel tono. “Così mia madre decise a far aprire gli occhi all’America e al mondo intero. Prese una nave da New York e qualche giorno dopo sbarcò nel nord della Germania.” Si fermò di nuovo e fece un sospiro. “Tutto questo comunque accadde più di due anni fa, prima dell’attacco di Pearl Harbor dei Giapponesi e quindi prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. E a quel punto tutte le voci e le teorie dei giornalisti come mia madre furono prese finalmente in considerazione prima e poi ritenute vere.” Commentò l’ultima frase con una nota ironica. “Da quel momento ho avuto solo sporadiche chiamate e qualche lettera, ma ormai erano diverse settimane che io e mio padre non la sentivamo. Mi sono preoccupata e sono partita per cercarla.” concluse alla fine con una lieve alzata di spalle come se fosse la cosa più ovvia da fare. Castle la guardò sorpreso.
“E tuo padre ti ha lasciato andare??” Lei si morse il labbro inferiore.
“Non esattamente…” Da quelle due parole, il colonnello capì che l’ultima cosa che avrebbe voluto il padre sarebbe stato vedere la figlia partire per un paese in guerra. “Ma volevo sapere se mia madre stava bene!” aggiunse subito Kate combattiva, come a voler sfidare l’uomo a dire il contrario. Rick la osservò per un momento con una punta di ammirazione, colpito ogni momento di più dalla donna davanti a lui.
“Perché non è scappata quando gli Stati Uniti hanno dichiarato guerra?” chiese il colonnello curioso. “Tutti gli stranieri sono fuggiti in qualche modo e…”
“Mia madre è ebrea.” buttò fuori Beckett alla fine, deglutendo appena e irrigidendosi sulla sedia, come se fosse sul punto di fuggire al minimo movimento del suo interlocutore. Castle sgranò gli occhi sorpreso. Non per la notizia in sé. Più che altro si stava chiedendo come avesse fatto Johanna Beckett a sopravvivere per più di due anni lì a Berlino. Doveva aver avuto un bel fegato e una bella dose di fortuna. Finché non aveva incontrato lui. “Mi aveva detto di essersi già identificata come tale prima di Pearl Harbor.” continuò Beckett. “Quindi molti sapevano chi era e l’avevano schedata.” Rick annuì piano.
“Quindi non poté fuggire…” commentò pensieroso, le sopracciglia aggrottate. Stava pensando che avrebbe dovuto approfondire meglio le ricerche su Johanna, allargando il raggio d’azione. Aveva chiesto solo alle centrali vicine se qualche donna schedata corrispondesse alla descrizione della morta. Avrebbe dovuto mandare una descrizione in tutte le caserme di Berlino, ma erano pochi quelli che si preoccupavano di controllare i nomi dei deceduti. Per questo tutti i nomi e le foto finivano nella loro centrale, perché erano gli unici che se ne curavano. “Non indossava neanche la stella…” mormorò tra sé Castle. Stava pensando alla stella di David che ogni ebreo era obbligato a portare appuntata al petto.
“Come?” domandò Kate nervosa. Rick alzò la testa di scatto.
“Niente.” replicò subito. “Mi chiedevo solo se porta la stella.” Beckett si agitò sulla sedia e negò con il capo, continuando a fissarlo come lui se dovesse attaccarla da un momento all’altro. “Ok.” disse solo il colonnello.
“Pensi che riuscirai a trovarla?” chiese diretta Beckett qualche secondo dopo. Castle riuscì a reggere il suo sguardo speranzoso solo per un attimo, poi dovette abbassare gli occhi.
“Ci proverò.” rispose.
“Provarci non mi basta.” replicò seccata la donna. Il colonnello sbuffò divertito.
“Cercherò ogni traccia di tua madre per quanto me ne sarà possibile.” dichiarò allora Rick con un mezzo sorriso. “Più di questo non posso prometterti. Ok?” Beckett lo squadrò per qualche secondo.
“Ok.” sbottò alla fine. Castle ovviamente sapeva cosa era successo alla madre, ma si era messo in testa di cercare ogni informazione su Johanna per capire quanto conoscessero di lei. Soprattutto voleva controllare che non risultasse che avesse una figlia. E poi lo incuriosiva sapere come era rimasta nascosta per tutto quel tempo a Berlino. Voleva ricreare la sua storia e i suoi spostamenti, per quanto possibile. Magari sarebbe stato utile per qualche futuro lavoro di occultamento con Ryan e la sua sempre nuova ‘famiglia adottiva’.
“Sarà il caso che vada ora.” dichiarò Beckett alzandosi dopo aver lanciato un’occhiata fuori dalla finestra ormai completamente buia. “Hai di certo del lavoro da fare e…”
“Ti accompagno.” dichiarò Castle alzandosi a sua volta. “Dove alloggi?”
“Perché?” chiese diffidente.
“Devo sapere se quello in cui stai è un posto sicuro.” replicò il colonnello. “E poi altrimenti come faccio a farti rapporto se trovo qualcosa?” aggiunse con un sorrisetto ironico.
“Posso sempre venire io qui.” ribatté Kate. Rick scosse la testa.
“C’è troppa gente.” rispose. “Non solo aspetteresti ore, ma rischieresti anche che qualcuno scopra le tue origini.” Beckett sbuffò contrariata, ma alla fine annuì.
“Sto al Finder Blau.” confessò. Castle ci pensò su per un momento. Conosceva quell’hotel. Un posto nella media che fino a pochi anni prima era stato molto gettonato dai turisti. Ora era conosciuto più che altro per il suo pub, aperto a tutte le ore, che ospitava soprattutto soldati dell’esercito. Rick ricordava inoltre che era uno dei posti preferiti del colonnello Dreixk, suo rivale e piantagrane da sempre.
“Non va bene, devi cambiare posto.” dichiarò Castle allungando il passo per arrivare alla porta e chiamare il suo sottoposto, il Tenente Durren.
“Cosa??” chiese scioccata Beckett mentre il colonnello urlava ‘DURREN!’ con la testa fuori dalla porta.
“Il Finder Blau non è sicuro.” le spiegò velocemente Castle a bassa voce mentre sentiva il tenente salire le scale. “E’ costantemente frequentato da soldati. Ti serve un posto più anonimo.” In quel momento arrivò Durren e il colonnello passò al tedesco per non destare sospetti.
“Durren, manda Gustaf e Ulmann al Finder Blau a prelevare i bagagli di Fraulein Beckett.” gli ordinò sotto gli occhi stupiti della stessa Kate. “Quindi digli di portarli al Fidel Weltbummler. Mi raccomando, Tenente, tutto deve essere fatto con discrezione.” In un clima come quello, fortunatamente nessuno si sarebbe insospettito troppo se due soldati fossero entrati a forza in un alloggio per portare via i bagagli del proprietario. L’unica cosa a cui dovevano fare attenzione, cioè quello che Castle intendeva con discrezione, era non dire assolutamente nessun nome o luogo e controllare di non essere seguiti.
“Sì, Colonnello!” rispose il tenente, quindi gli fece il saluto, un cenno a Beckett e scappò di nuovo di corsa alle scale.
“Come puoi fidarti che faranno quello che gli hai detto?” domandò Kate in inglese con una smorfia scettica.
“Perché gli ho dato un ordine.” rispose Castle chiudendo di nuovo la porta e tornando anche lui all’inglese. “E poi perché sono i miei uomini. Loro si fidano di me, quindi io mi fido di loro.”
“Ok, ma in ogni caso cosa ti fa pensare che il Fido Wel… Fidie Witl… Fide Weltbum…!” Castle ridacchiò del suo problema di lingua e lei gli lanciò un’occhiataccia arrossendo appena. “Insomma quel posto che hai detto! Come puoi sapere che è più sicuro dell’altro?”
“Al Fidel Weltbummler ho amici all’interno che ti terranno d’occhio.” replicò Rick. “E controlleranno anche che nessuno, soldato o ammiratore o scimmia ammaestrata allo zoo ti diano fastidio mentre sei qui.” aggiunse velocemente prima che lei potesse replicare. Kate rimase spiazzata da quell’ultima frase.
“Credevo che voi soldati foste tutti uguali…” commentò piano, stupita, abbassando pensierosa lo sguardo al pavimento. Rick fece un mezzo sorriso a quell’affermazione.
“Solo perché la maggior parte lo sono, non significa che lo siano tutti.” replicò con un sorriso. “E nel mio caso, forse devi solo imparare a conoscermi meglio.” aggiunse poi con un vago tono di speranza nella voce. Kate alzò gli occhi e i loro sguardi si intrecciarono. Rick cercò di comunicarle che poteva fidarsi. Lei tentava di non farsi sentire così bisognosa di protezione in un luogo che non conosceva con scarso successo. Il mondo intorno a loro fu come svanito per un attimo. Ma durò solo un attimo. Una campana di una chiesa vicino batté all’improvviso le ore e li fece risvegliare bruscamente dalla loro trance.
“E’ tardi, devo andare.” disse velocemente Beckett girandosi verso la porta mentre un vago rossore le colorava le guance. Rick annuì.
“Prendo la giacca.” dichiarò avvicinandosi all’attaccapanni del suo ufficio. La donna sgranò gli occhi stupita per poi lanciargli un’occhiataccia.
“Perché?” domandò irritata. “Posso benissimo andare a quell’albergo da sola!”
“Ah, sì?” commentò Rick, alzando un sopracciglio e cercando di soffocare una risata per la testardaggine di Kate mentre si infilava il cappotto. “Dimmi come si chiama allora.” Lei lo guardò male. Il colonnello finì di allacciarsi i bottoni con calma e prese il cappello sulla sua scrivania ancora sotto lo sguardo di fuoco di Beckett. Quando finalmente rialzò gli occhi su di lei, la vide sbuffare contrariata.
“Accompagnami.” borbottò sconfitta senza guardarlo prima di sgusciare fuori dalla porta. Castle la seguì ridacchiando.
 
Il colonnello scortò Beckett fino al Fidel Weltbummler senza dare minimamente ascolto ai lamenti della donna che, ogni due minuti, borbottava che poteva benissimo essere lasciata al primo angolo con le sole indicazioni stradali. Castle la portò in auto, guidando lui stesso la piccola Volkswagen bombata messagli a disposizione per i suoi spostamenti dall’esercito. L’alloggio era a quasi venti minuti di distanza dalla centrale e molto vicino al centro di Berlino, in uno dei pochi quartieri relativamente tranquilli. Rick conosceva il proprietario, un tedesco contrario ai nazisti che aveva aiutato più volte lui e Ryan quando avevano dovuto nascondere qualcuno che Kevin aveva in casa durante un’indagine su di lui. Era una persona fidata e di buon cuore. Una rarità in quei tempi.
“Eccoci arrivati!” esclamò alla fine Castle parcheggiando a lato della strada. Beckett alzò lo sguardo verso il palazzo davanti a cui si erano fermati. Era un edificio di cinque piani di uno strano colore marroncino chiaro. Un tempo doveva essere stato molto ricco poiché si vedevano diversi intagli e decorazioni dipinte sugli angoli e intorno alle finestre. Ora però molta della vernice si era scostata e formava piccoli riccioli un po’ ovunque sulla facciata mentre in molte parti si scorgevano i mattoni rossi della muratura.
Beckett concluse la sua analisi dell’edificio lanciando a Castle un’occhiata scettica, un sopracciglio alzato. Castle scosse la testa con un mezzo sorriso.
“Non si dovrebbe mai giudicare un libro dalla copertina.” commentò sorridendo un attimo prima di scendere dall’auto e andare velocemente ad aprire la portiera di Kate.
“Sarà…” mormorò lei seguendolo dubbiosa all’interno della palazzina. Non appena varcarono la porta principale, la donna rimase a bocca aperta.
“Che ti avevo detto?” domandò divertito Rick. Quel posto faceva sempre quell’effetto. L’esterno era diroccato e mal tenuto, ma l’interno era tutta un’altra storia. Non era d’alta classe ovviamente, ma pulito, caldo e confortevole. Davanti a loro si apriva un’ampia sala. Le pareti erano color legno e perfino il tetto era composto da travi di colore scuro, mentre una serie di lampade a olio appese alle pareti e al soffitto illuminavano l’ambiente. Un lungo bancone era posizionato di fronte alla porta principale, in fondo alla sala, mentre tutt’attorno c’erano tavoli e sedie per chi voleva mangiare. In pratica la hall fungeva anche da pub per gli avventori e gli ospiti. La prima volta che l’aveva visto, Rick si era convinto di essere entrato all’improvviso in una taverna medioevale. Senza però lo sporco, l’aria pregna di sudore e fumo e gli uomini ubriachi seduti ai tavoli che molestavano le taverniere e giocavano a dadi. Beh, in realtà quest’ultima cosa, gli uomini ubriachi, li aveva trovati in una sua successiva visita e più di una volta.
“Wow...” mormorò Kate stupita. Castle sorrise e la spinse gentilmente insieme a lui verso il bancone.
“Richard!” esclamò una donna dall’altra parte del tavolo facendogli un gran sorriso. La donna era piccola e tozza, con lunghi capelli castano scuro acconciati in una treccia, occhi altrettanto scuri e un sacco di lentiggini. Rick sorrise a sua volta. Solo Frau Gothe e sua madre lo chiamavano con il nome intero.
“Alwara.” la salutò di rimandò il colonnello con un cenno della testa. “Come stai?” chiese in tedesco. In auto Rick era riuscito a convincere Kate a parlare il meno possibile e a farlo in tedesco, riservando l’inglese solo per quando parlava con lui. Non era egoismo, era preoccupazione per lei. “Come vanno gli affari?”
“Lasciamo stare!” sbuffò sonoramente la donna, scuotendo la testa accigliata. “Quegli stupidi nazisti mi stanno spaventando la buona clientela con le loro improvvisate!!” Castle si oscurò subito.
“Sono stati qui?” chiese con tono preoccupato.
“Tranquillo, Richard, sono entrati e usciti come al solito!” replicò Alwara, mentre un sorrisetto divertito le spuntava sulle labbra. “Io e il mio Edzard non li abbiamo nemmeno fatti avvicinare alle scale!” Poi abbassò la voce e si allungò appena in avanti verso il colonnello, mettendo in parte in mostra dalla scollatura del vestito il suo ampio seno. “Al momento non c’è niente da nascondere, ma devono sapere chi comanda qui dentro!” dichiarò con l’indice puntato con decisione sul tavolo. Castle soffocò una risata. I nazisti che venivano lì per controlli di routine si trovavano sempre davanti il muro di ferro dei coniugi Gothe. Che Rick sapesse, lui e Ryan erano gli unici soldati a cui era concesso di andare nelle camere ai piani superiori. Infatti alla fine mandavano sempre loro a controllare se c’erano irregolarità al Fidel Weltbummler. Ovviamente non avevano mai trovato nulla di cui parlare.
“Sei sempre la migliore, Alwara!” dichiarò Rick ridacchiando.
“Certo che è la migliore, altrimenti perché l’avrei sposata??” Una voce profonda li fece voltare verso le scale. Un omino, piccolo quanto la donna di fronte a loro e altrettanto robusto, con due baffoni che gli coprivano in parte le labbra, i capelli biondi tagliati corti e due occhi azzurro ghiaccio, scese gli ultimi gradini e venne verso di loro tirandosi su le maniche della camicia a quadri rossi che indossava. Data la larghezza delle sue braccia, Rick era sempre stato convinto che Edzard Gothe in realtà fosse uno spaccalegna che aveva messo su un albergo solo per passare tempo.
“Perché è un’ottima cuoca, Ed!” esclamò di rimando Castle allungandogli una mano con un sorriso. Edzard ridacchiò e strinse con forza la mano del colonnello annuendo vigorosamente. Con la coda dell’occhio il colonnello vide Beckett osservarlo preoccupata. Evidentemente si stava chiedendo se per caso l’uomo non gli stesse stritolando la mano.
“Mi hai scoperto!” replicò Edzard lasciando finalmente la mano di Castle. “Oh, Alwara, tesoro,” disse poi all’improvviso con tono più dolce voltandosi verso la moglie. “I signori Strass hanno bisogno di nuovi asciugamani. Puoi portarglieli, per favore?”
“Vado subito.” rispose annuendo la donna. Un attimo prima di andarsene però si bloccò e lanciò un’occhiata curiosa a Castle e, soprattutto, a Beckett dietro di lui che ancora non aveva aperto bocca. “Ma prima mi piacerebbe sapere perché il nostro colonnello preferito sia qui…”
“In effetti è vero.” commentò il marito osservando Kate come se la vedesse per la prima volta. “Cosa ti porta qui, amico mio? Immagino non sia una visita di cortesia.” Edzard non si preoccupò di abbassare la voce, quindi il colonnello immaginò che al momento ci fosse solo gente conosciuta e fidata nel locale.  Scosse la testa in risposta.
“Edzard ho bisogno di un favore…” iniziò Rick abbassando comunque la voce e guardandosi in giro circospetto.
“Richard!” esclamò Alwara all’improvviso in tono scandalizzato. “Non ti facevo uno da questo genere di cose!!” lo rimproverò severa. Castle e Beckett la guardarono per un momento confusi. Appena capirono cosa intendesse, Rick si affrettò a spiegare prima che Kate potesse replicare furibonda.
“Alwara, non è come pensi…” cercò di dire il colonnello, ma Beckett scoppiò lo stesso.
“Non sono una prostituta!” esclamò indignata. Marito e moglie la guardarono sorpresi. Kate aveva parlato in tedesco, ma, essendo arrabbiata, il suo accento americano era risultato ancora più marcato del solito. Rick si guardò intorno preoccupato, ma per fortuna gli unici avventori erano un po’ a distanza, e soprattutto erano già ubriachi, e non avevano recepito niente.
“Rick, che significa?” chiese Edzard all’improvviso serio. Il suo tono profondo di voce rese quelle parole severe e dure. Se prima aveva osservato Kate con curiosità, ora la guardava con diffidenza. E lo stesso valeva per la moglie. Il colonnello sospirò frustrato. Era quello che avrebbe voluto evitare. Edzard e Alwara era due bravissime persone che combattevano a modo loro contro il nazismo, ma erano tedeschi e la Germania in quel momento era in guerra con gli Stati Uniti. Quegli stessi Stati Uniti che, d’altronde, durante un attacco aereo congiunto con l’Inghilterra, gli avevano ucciso il loro terzogenito quasi un anno prima mentre giocava per strada. Sapevano entrambi chi aveva iniziato quella guerra, ma non potevano perdonare che il loro bimbo più piccolo fosse morto innocente a soli 6 anni.
Beckett dovette sentire su di sé tutto quell’astio perché Castle la sentì muoversi a disagio vicino a lui.
“Vi prego, ascoltatemi prima di prendere qualsiasi decisione!” esclamò a bassa voce Rick con tono quasi implorante avvicinandosi ai due coniugi immobili. “Lei…”
“Come fai a sapere che non è una spia o qualcosa di simile?” lo bloccò Edzard facendo una smorfia scocciata. “Come puoi sapere che è davvero chi dice di essere?” Castle per un attimo non seppe cosa rispondere. Sapeva che Kate diceva la verità, perché se lei era lì, in parte era anche per colpa sua. Ma come poteva spiegarlo?
“Sua madre è sparita.” rispose Castle con tono grave. Aveva deciso di dire parte della verità, quella che gli aveva raccontato la stessa Kate. Solo quelle poche parole però iniziarono a fare un certo effetto, almeno su Alwara. Infatti ora, insieme alla diffidenza, c’era anche un po’ di compassione. “Sì, Beckett è americana, ma è venuta qui solo per...”
“Beckett?” esclamò Alwara sorpresa scambiandosi un’occhiata con un altrettanto sorpreso Edzard. A quel comportamento, Kate sgranò gli occhi e si fece subito attenta. Rimase stupito anche il colonnello. Non si aspettava che i due sapessero qualcosa. “Johanna Beckett?”
“Conoscete mia madre?” domandò subito Kate a bassa voce, lottando contro il suo accento. “L’avete vista?” C’era un’eccitazione repressa nel suo tono, mista ad autentica speranza, che non poteva che indicare che la sua storia fosse vera, che cercava davvero sua madre. L’atteggiamento di Alwara cambiò completamente, mentre quello di Edzard, seppure più tranquillo, rimase ancora un po’ diffidente.
“Ha alloggiato qui circa tre mesi fa per due settimane.” rispose Alwara dolcemente. “Ora che me lo fate notare, tu le assomigli molto.”
“Sapete dov’è ora??” chiese ancora più eccitata Beckett. Ma la donna scosse la testa dispiaciuta.
“No, bambina.” replicò. Kate sembrò afflosciarsi su sé stessa. Per un attimo Rick fu tentato di abbracciarla. Si stupì da solo di quel pensiero. Non era solito dare abbracci agli sconosciuti, anche se belle donne, ma lei… lei era diversa.
“Capite ora perché siamo qui?” domandò alla fine Castle, dopo qualche momento di silenzio, guardando marito e moglie. “Ha bisogno di un posto dove stare mentre faccio delle indagini sulla madre. Un posto sicuro.” Alwara annuì.
“Ce ne prenderemo cura noi.” replicò subito la donna facendo il giro del bancone per portarsi accanto a Beckett. Arrivava appena all’altezza del suo mento. “Vero, Edzard?” domandò poi retorica al marito lanciandogli un’occhiataccia mentre prendeva delicatamente Kate per un braccio. Quello borbottò qualcosa, ma annuì e si infilò senza dire altro dietro al bancone, prendendo il posto precedentemente occupato dalla moglie. “Bene!” commentò Alwara con un tono, chiaramente rivolto al marito, che voleva reprimere ogni protesta. “Andiamo, bambina, ti porto alla tua camera.” aggiunse subito dopo con tono più dolce a Beckett portandola con sé verso le scale. “Sembri molto stanca e una buona notte di sonno è quello che ti ci vuole! Non preoccuparti per la cena, tra un momento te la porto su e…”
“Un attimo!” esclamò Kate liberandosi appena della stretta protettiva di Alwara per girarsi di nuovo verso Rick. “Quando ci rivedremo?” domandò preoccupata.
“Domattina avevo in mente di andare a fare qualche domanda in giro.” rispose Castle cauto. “Per cui, se ti va bene, pensavo di venire per ora di pranzo.” Lei ci pensò su un momento, quindi annuì.
“Ok. Buonanotte.” replicò Kate salutandolo e lasciandosi finalmente portare da Alwara su per le scale.
“A domani…” mormorò Rick quando le due donne sparirono, chiacchierando sottovoce, al primo piano. Poi sospirò e infine si rivolse a Edzard di fronte a lui. L’uomo aveva ancora un’aria scettica, ma Rick era certo di poter contare sulla sua lealtà.
“Metti il mio nome per la sua camera.” disse a Edzard. “E, per favore, tenetela al sicuro.”

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Xiao!! :D
Ecco per chi si chiedeva cosa avrebbe detto Castle... beh direi che è più importante quello che NON ha detto! XD
Anyway, sarò corta stavolta! X) Spero solo vi sia piaciuto il capitolo e che almeno un poco questa storia vi stia interessando! :)
Come sempre grazie alle mie consulenti/minacciatrici Katia e Sofia! <3
A presto! :D
Lanie
ps: di tedesco non so nulla, i termini li ho presi da internet, quindi se sbaglio qualcosa è colpa di internet! XD

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Capitolo 4
*** L'invito ***


Cap.4 L’invito

La settimana seguente passò più o meno tranquillamente. Non c’erano stati attacchi, né nuovi sviluppi sul fronte della guerra, quindi Castle ne aveva approfittato per andare a raccogliere informazioni su Johanna. Da Beckett si era fatto dire il porto in cui la madre era sbarcata più di due anni prima e da lì aveva cominciato le sue ricerche per ricostruirne gli spostamenti. Il momento dell’arrivo della donna era stato documentato, come anche la sua registrazione prima in un albergo e poi in un monolocale. Le ultime informazioni però risalivano a poco meno di un anno prima. Dopo queste, le tracce del suo passaggio diventavano sempre più invisibili. Aveva saputo ben nascondersi.
Per fare quelle ricerche, il colonnello aveva fatto in modo di avere sempre il turno in centrale pomeridiano, così da poter andare a far domande al mattino e incontrare Kate per ora di pranzo. Castle avrebbe preferito farli a cena quegli incontri, ma, con il coprifuoco in atto, sarebbe stato difficile spiegare la sua presenza in quella parte di città senza far scoprire Beckett. In pochi giorni comunque quei pranzi erano diventati quasi una routine per i due. Ogni giorno, più o meno alla stessa ora, Beckett scendeva nella hall del Fidel Weltbummler e Castle la raggiungeva dal suo giro di ricerche. Lì pranzavano e discutevano su quello che il colonnello aveva scoperto nella mattinata. In cambio, da Kate riceveva nuove informazioni sulla madre o su di lei. Richard aveva faticato non poco a convincere Beckett a restare nell’alberghetto, ma aveva come l’impressione che la sua richiesta fosse stata comunque ascoltata solo in parte. Non voleva trattenere la donna, né imprigionarla ovviamente, ma aveva paura per la sua incolumità.
Ogni giorno Rick riportava a Kate le notizie che trovava, ma sapeva che non sarebbe durata a lungo. Sì, Johanna si era nascosta bene, ma presto o tardi sarebbe giunto il momento di rivelare alla donna l’ultimo posto in cui aveva vissuto, e in cui era morta, la madre. Ogni giorno erano un po’ più vicini alla meta di Johanna e ogni giorno Castle sperava in cuor suo di trovare il meno possibile, così da non dover raccontare a Beckett la dolorosa verità. In una settimana erano arrivati a scoprire informazioni fino a un anno dall’arrivo di Johanna in Germania.
“Castle, sei sicuro che non sappiano altro??” domandò scocciata Kate. Rick sbuffò esasperato, osservando nel frattempo come le sottili dita della donna di fronte a lui si muovessero veloci mentre giocavano distrattamente con la forchetta.
“No.” replicò Rick, portandosi affamato alla bocca un pezzo di pollo. Deglutì e continuò. “Tua madre ha lavorato in quel piccolo giornale solo per qualche giorno e…”
“Come può essere definito un lavoro se lo fai solo per qualche giorno??” lo interruppe Beckett nervosamente. “Insomma di solito non richiedono un minimo di credenziali o un recapito per spedire ovunque i giornalisti?” Castle alzò gli occhi su di lei e la guardò con un sopracciglio alzato. Kate in risposta gli lanciò uno sguardo che diceva chiaramente ‘Che c’è??’.
“Sai, credo che a volte dimentichi dove siamo…” commentò Rick addentando un altro pezzo di pollo. “Questa non è l’America.” le disse abbassando il tono di voce così che solo lei potesse sentire. “Forse lì va ancora così, ma non qui. Qui siamo in un territorio di guerra a tutti gli effetti, anche se molti cercano di non pensarci. Qui i giornali contro il regime non fanno fortuna, proprio l’opposto! E se c’è qualcuno che è disposto a dare qualche notizia… beh, diciamo che lo pubblicano senza stare troppo a guardare il giornalista.” Beckett aggrottò le sopracciglia, frustrata. Sapeva che Castle aveva ragione. “Per questo quel giornale ha mandato in stampa i pochi articoli che ha scritto tua madre senza chiederle nulla.” concluse il colonnello finendo la sua carne.
Kate giocherellò con il cibo nel suo piatto per qualche secondo, quindi prese un respiro profondo.
“Credi che riuscirai a scoprire qualcosa domani?” chiese alla fine, il tono quasi un po’ rassegnato, come se si aspettasse già una risposta negativa. Rick alzò appena le spalle, mentre portava il bicchiere colmo d’acqua alla bocca e ne prendeva una generosa sorsata.
“Non lo so.” rispose sincero, posando di nuovo il bicchiere sul tavolo. “Sta diventando sempre più difficile scoprire qualcosa sui posti in cui è stata tua madre. Insomma, l’informazione sul giornale l’ha avuta per puro caso!” Era vero. Castle infatti stava chiedendo notizie su Johanna quando un uomo, sentendo quel nome, l’aveva preso da parte e gli aveva rivelato che suo cugino, che aveva lavorato in un piccolo giornale anti-nazista, una volta gli aveva parlato di una bella donna americana chiamata Johanna Beckett. “Per quanto ne sappiamo, a un certo punto potrebbe anche aver potuto cambiare nome.” Kate fece un verso scocciato e buttò praticamente la forchetta contro il piatto. Il colonnello la guardò impassibile. Dopo averla frequentata per una settimana, aveva capito che era meglio lasciar stare Beckett quando era così agitata. Gli faceva male vederla in quello stato in realtà. Inoltre, a causa sua, Kate era relegata quasi tutto il giorno nella sua camera, quindi quando ne usciva era sempre un po’ nervosa. Eppure lei non era così tutte le volte. Castle infatti era rimasto stupito quando, due giorni, prima aveva riportato un’informazione preziosa sugli spostamenti di Johanna e Beckett gli aveva sorriso radiosa. Un sorriso come quello non lo avrebbe dimenticato facilmente. Kate era una bellissima ragazza, ma quando sorrideva… quando sorrideva sembrava che il mondo splendesse per lei. Inoltre erano riusciti anche a scherzare un po’. Avevano addirittura flirtato un pochino. Soprattutto quando si erano salutati…
 
“Ehi, non devi tornartene alla caserma ora?” aveva domandato Kate sorridendo.
“Uhm, sì, dovrei…” aveva risposto lui con una mezza smorfia. “Ma non è che abbia tutta questa voglia. E poi finisco sempre tardi e mi tocca tornare nella mia casa vuota!” Con quelle parole, Rick aveva alzato gli occhi su di lei, quasi speranzoso, con un’aria molto simile a un cucciolo con un sorrisetto da volpe. “Non è che potrei venire a farti compagnia in camera qualche sera, vero?”
“Beh,” aveva replicato lei mordendosi il labbro inferiore e avvicinandosi di più al colonnello dopo averci pensato per qualche secondo. “La mia camera sai dov’è, no?” Castle aveva deglutito a vuoto, mentre la bocca gli era rimasta semiaperta, gli occhi sgranati.
“Quindi posso…?”
“No!” l’aveva bloccato Beckett divertita. “C’è il coprifuoco, ricordi?” aveva aggiunto poi, alzandosi in piedi dal tavolo a cui erano seduti. Quindi si era avvicinata pericolosamente a lui, tanto che il colonnello aveva potuto sentire il respiro caldo di lei sulla pelle. “Magari quando la guerra sarà finita…” gli aveva sussurrato prima di voltarsi con un sorrisetto divertito in volto per risalire le scale dell’alberghetto, ancheggiandogli intanto davanti. Solo una volta che era sparita, Rick aveva ripreso a respirare.

 
Castle scosse la testa, cercando di scacciare dalla mente quei pochi momenti di relativa normalità tra loro due. In quei pochi giorni si era ritrovato più volte a chiedersi come sarebbe stato se avesse conosciuto Beckett in un altro momento, lontano da quella guerra e dal problema della scomparsa della madre.
Con un silenzioso sospiro, il colonnello tornò a osservare Kate. Si stava mordendo nervosamente il labbro inferiore, lo sguardo perso verso un punto imprecisato del pavimento. Una piccola rughetta di preoccupazione le si era formata in mezzo alla fronte, ma in qualche modo la rendeva solo più adorabile. I suoi capelli erano semi raccolti dietro la testa, lasciando buona parte di essi liberi in boccoli più o meno accentuati lungo le spalle. Rick si chiese cosa avrebbe provato a passare le mani tra quei capelli per avvicinarla a lui per baciarla. Non era la prima volta che quel pensiero lo sfiorava. Si era accorto che i suoi pensieri erano sempre più popolati dalla figura di Kate Beckett. Più o meno vestita. Insomma, per un motivo o per un altro, non riusciva a togliersela dalla testa.
“Castle?” lo chiamò lei all’improvviso facendolo semi-balzare sulla sedia. Rick scosse appena la testa per riprendere lucidità e ascoltare qualunque cosa lei volesse dirgli. Notò che Kate non aveva cambiato posizione durante le sue fantasie a occhi aperti. Aveva ancora gli occhi malinconici rivolti al pavimento.
“Sì?” chiese il colonnello passandosi una mano tra i capelli, sollevato per non essere stato scoperto a guardarla ma insieme curioso.
“Dimmi che la troverò.” continuò lei a bassa voce, lo sguardo spento. Castle si ritrovò le parole bloccate in gola. Sentiva la bocca talmente secca che quasi aveva paura che gli si sgretolasse la lingua. Cosa poteva risponderle? Non voleva dirle una bugia. Ma non poteva dirle nemmeno la verità. L’avrebbe persa. Beckett scelse proprio quel momento per alzare gli occhi su di lui. I suoi occhi verde nocciola imploravano di essere rassicurati, ma allo stesso tempo chiedevano la verità. Rick non riuscì a reggere il suo sguardo. Abbassò gli occhi sul tavolo e prese un respiro profondo.
“Sai che non posso prometterti nulla.” mormorò a bassa voce, quasi con tono di scuse. Con la coda dell’occhio vide Kate irrigidirsi sulla sedia e il suo respiro diventare appena più veloce e pesante, come se stesse cercando di non piangere. Castle si sentì male. Si sentì uno stronzo per come si stava comportando con lei. Si sentì un codardo per non avere il coraggio di confessarle che sapeva esattamente dov’era sua madre. “Una cosa posso promettertela però.” aggiunse alla fine, cercando di arginare un poco del dolore della donna davanti a lui. Beckett a quelle parole tirò su la testa di scatto e lo guardò con occhi lucidi e speranzosi. “Continuerò a cercare.” dichiarò sicuro. Internamente aggiunse: ‘un modo per dirti la verità’. A quelle parole, Kate gli fece un mezzo sorriso e abbassò appena la testa come ringraziamento.
 
“Allora, amico, quando pensavi di parlarmene?” domandò Ryan entrando nell’ufficio di Castle con un sorrisetto malizioso. Attaccò cappello e cappotto all’attaccapanni e si avvicinò velocemente alla scrivania in mezzo alla stanza.
“Parlarti di cosa?” domandò il colonnello con tono scocciato a causa del rapporto che aveva davanti. Già normalmente non amava le scartoffie, ma quel resoconto era più di mezz’ora che stava cercando di compilarlo con scarso successo. Era pomeriggio inoltrato, ma aveva ancora la testa al pranzo con Kate, alla sua voce che gli chiedeva se avrebbe mai trovato la madre. Aveva perso il filo del rapporto venti volte e in altrettante si era ritrovato a scrivere Frau Beckett invece di Frau Becker, una donna che era stata rapinata il giorno prima ed era venuta a sporgere denuncia. ‘Che poi neanche mi occupo di rapine!!’ pensò irritato Castle. ‘Siamo in mezzo a un guerra e io devo pensare anche a questa che è stata così idiota da lasciare la finestra del primo piano aperta!!’
“Come di cosa??” esclamò quasi indignato il maggiore, appoggiandosi con i palmi alla scrivania dov’era curvo il colonnello. Rick alzò la testa e aggrottò le sopracciglia.
“Ryan, che vuoi? Sono piuttosto occupato al momento.” replicò Castle alzando appena il foglio del rapporto che aveva davanti su cui erano ben visibili diverse cancellature. Con uno sbuffo, Richard pensò che avrebbe pure dovuto ricopiarlo in bella copia una volta finito.
Ryan alzò un sopracciglio e alla fine scosse la testa esasperato.
“La donna, Castle!” sbottò Kevin con tono ovvio. Rick si irrigidì per un momento, bloccandosi con la mano sopra il rapporto.
“Quale donna?” domandò cauto il colonnello, senza alzare gli occhi dal foglio, ma tenendo le orecchie ben tese per ascoltare la risposta.
“Che vorrebbe dire ‘quale donna’??” esclamò offeso Ryan. “Quella che è venuta più di una settimana fa a chiedere della madre, parlando un pessimo tedesco con accento americano! Quella che mi hai tenuto nascosto e che hai mandato al Fidel Weltbummler, ovviamente per nasconderla! Quella che vedi tutti i giorni a pranzo!” Castle alzò la testa di scatto, stupito che Kevin sapesse tutte quelle cose, gli occhi sgranati, la bocca semiaperta.
“Tu come diavolo fai a…”
“Saperlo?” concluse per lui il maggiore cono tono divertito. “Beh, essendo il tuo migliore amico, Durren ha chiesto a me che fine avesse fatto la ragazza americana che avevi fatto trasferire d’albergo. Voleva sapere se poteva ancora provarci con lei.” Il pugno di Castle si strinse con forza attorno alla penna che aveva in mano e la mascella gli si serrò. “Stessa cosa con i Gothe.” continuò Ryan, come se il colonnello non si fosse mosso. “Sono andato a trovarli e mi hanno parlato di una certa donna americana che vedi ogni giorno a pranzo. Curiosa coincidenza, non ti pare?” domandò alla fine ironico. Kevin non era arrabbiato perché era stato tenuto all’oscuro. Forse solo un po’ deluso.
Rick rimase immobile per qualche secondo, quindi prese un respiro profondo e si passò una mano tra i capelli.
“Chi altro sa di lei?” domandò alla fine nervoso.
“Nessuno.” rispose il maggiore. “Durren e gli altri sanno tenere la bocca chiusa, come anche i Gothe. Solo che conoscono i nostri rapporti, quindi hanno dedotto che sapessi anche io di lei.” Castle sospirò un po’ più sollevato.
“Te l’avrei detto.” dichiarò alzando gli occhi sull’amico e appoggiandosi allo schienale della sedia con aria stanca. “Presto. Solo che…”
“Solo cosa?” chiese curioso Ryan sedendosi finalmente sulla sedia di fronte alla scrivania. Il colonnello rimase silenzioso per qualche momento, ma alla fine si decise. Se c’era una persona di cui si fidava, quella era Kevin.
“Ti ricordi la donna che ho… la donna dell’appartamento?” Stava per dire ‘che ho ucciso’, ma qualcosa gli impedì di far uscire quelle parole. Comunque Kevin sapeva di cosa parlava. Infatti annuì semplicemente. “Beh, lei… lei è la figlia.” Il maggiore sgranò gli occhi.
“Cosa??” domandò incredulo, la bocca aperta. “Vuoi dire che…”
“Si chiama Kate Beckett.” confessò alla fine Castle con lo sguardo perso sul rapporto incompleto davanti a lui. “E’ arrivata poco meno di due settimane fa dall’America per cercare la madre scomparsa, ovvero Johanna Beckett.”
“E tu sei certo che sia lei?” domandò perplesso, e ancora stupito, Ryan. “Insomma può essere…”
“Aveva una sua foto.” lo interruppe Rick. “E inoltre dovresti vederla. La somiglianza è davvero notevole.” Kevin annuì senza dire niente mentre assimilava quelle informazioni. Poi aggrottò le sopracciglia.
“Spiegami una cosa.” iniziò curioso. “Se sa che sua madre è morta, perché è ancora qui?” domandò. “Insomma, un’americana a Berlino non è proprio al sicuro…” A quelle parole, il colonnello si morse il labbro inferiore nervoso. Ryan socchiuse gli occhi squadrandolo, iniziando a intuire qualcosa. “Perché lei sa della madre, vero?” Rick si agitò sulla sedia.
“Uhm…” balbettò. “Ecco, veramente…”
“Castle, ti prego, dimmi che glielo hai detto!” esclamò il maggiore esasperato. Il colonnello aprì la bocca per replicare, ma rimase immobile per un attimo e alla fine la richiuse. Scosse la testa senza guardare Ryan. “Cazzo.” si lasciò scappare l’amico. “Che cavolo ti passa per la testa, Rick??” lo sgridò sottovoce Kevin per non farsi sentire da eventuali persone fuori dalla porta. Poteva permettersi di parlargli in quel modo perché in quel momento erano solo amici, non soldati.
“Lei non è pericolosa!” esclamò subito Castle sulla difensiva, drizzandosi sulla sedia.
“Lo so, è una donna che cerca la madre, quasi sicuramente non lo è!” replicò scocciato Ryan. “Ma più resta qui, più diventa pericoloso per lei! Avresti dovuto dirle la verità e farla andare via subito!”
“E come l’avrei mandata via??” sbottò il colonnello. “Non so neanche come diavolo sia riuscita a entrare in Germania!!”
“Hai mai provato a chiederglielo?” domandò Kevin alzando un sopracciglio. Rick rimase per un momento senza parole, quindi scosse la testa. “Mi domando perché…” commentò sarcastico il maggiore. “Ma al momento mi chiedo un’altra cosa: perché non sei venuto da me? Sapevi benissimo che in due potevamo farla uscire dalla Germania! Come abbiamo sempre fatto d’altronde da due anni a questa parte!” continuò abbassando ancora di più la voce, quasi ad arrivare al livello di un sussurro concitato.
“Io…” mormorò Castle. Alla fine alzò appena le spalle. “Io non lo so. Non volevo dirle che sua madre era morta, ma lei si è intestardita a cercarla e io le ho promesso che l’avrei aiutata a farlo.”
“Ma tu sai già dov’è.” replicò ovvio Ryan alzando un sopracciglio.
“Sì, ma…” Rick non riuscì a finire la frase e lanciò uno sbuffo scocciato. Kevin lo guardò serio ancora per qualche secondo. Quindi un piccolo sorrisetto gli si formò in volto.
“Andiamo.” disse con tono leggermente divertito alzandosi.
“Andiamo dove??” domandò stupito Castle mentre Ryan raggiungeva l’attaccapanni e gli lanciava il cappello.
“Dalla tua bella!” rispose ridacchiando il maggiore. “Ho come l’impressione che presto scoprirò perché non riesci a mandarla via!”
 
“Sai, non sono sicuro sia una buona idea.” dichiarò Castle nervoso. “Anzi, è proprio una pessima idea e…”
“Colonnello, ti vuoi rilassare?” esclamò divertito Ryan. “Sono anni che ti conosco e non ti ho mai visto così agitato! Guarda che non sono mica il padre di Kate!” aggiunse ridacchiando. Rick gli lanciò un’occhiataccia. Si erano fatti portare in auto al Fidel Weltbummler, così da perdere meno tempo, e ora colonnello e maggiore stavano per entrare nell’alberghetto dove alloggiava Beckett.
“Ryan, io non gli ho parlato di te!” sbottò Castle con un leggero tono di scuse. “Potrebbe non fidarsi più di me se porto altri soldati che non conosce!”
“Non ti chiederò se sei certo che si fidi di te, perché non credo tu voglia davvero sapere la risposta.” replicò Kevin tranquillo, lasciando Rick a corto di parole. “Ma se un giorno vorrà tornare a casa, sai benissimo che è un lavoro per due.” continuò a bassa voce. “Non mi sembra il caso di presentarmela la mattina in cui dovremo nasconderla in un barile di un camion per portarla via.” Il colonnello annuì con un piccolo sbuffo irritato. Sapeva che il suo amico aveva ragione. Stava faticando già molto così per conquistare un po’ della fiducia della donna. Se l’avesse presentata a uno sconosciuto il giorno della fuga, aveva come l’impressione che Beckett si sarebbe agitata e non avrebbe accettato facilmente qualsiasi eventuale cambio di programma, pensando a un tranello o qualcosa di simile. E i cambi di programma non era una cosa inusuale nelle fughe. Inoltre il fatto dei barili era accaduto realmente quasi un anno prima, dove all’ultimo avevano dovuto nascondere due ragazzini, figli della famiglia fuggiasca che stava ospitando in quel momento Ryan, in altrettanti barili, facendoli passare poi per contenitori di pesce andato a male, che gli avevano debitamente sparso attorno. La puzza non era stata il massimo, ma tutti erano riusciti a passare indenni dai controlli con quel piccolo stratagemma inventato all’ultimo minuto.
Entrambi entrarono nel grande salone che fungeva da hall del Fidel Weltbummler, Castle piuttosto nervoso, Ryan al contrario molto più tranquillo.
“Ma guarda un po’, i miei due soldati preferiti!” esclamò Alwara allegra da dietro il bancone non appena si avvicinarono e si tolsero i cappelli, lasciandoli sul tavolo. “Vi porto qualcosa da bere?” domandò poi indicandogli la fine del lungo bancone adibito a piano bar. Non era la prima volta che andavano lì a bersi una birra insieme, ma stavolta entrambi scossero la testa.
“Grazie, Alwara, ma siamo qui per Kate.” replicò Castle cercando di mantenere un tono neutro. Ryan lo guardò alzando un sopracciglio, ma con aria molto divertita, quando lo sentì chiamare per nome la donna. “Volevo dire Beckett!” si affrettò a correggersi il colonnello. “Non è uscita, giusto?” chiese per sicurezza. Le aveva raccomandato di non uscire, ma col tempo stava diventando sempre più certo del fatto che Kate fosse piuttosto sorda alle sue richieste.
“No, no è di sopra.” rispose Alwara sorridendo. “Ora vado a chiamarla.” continuò, uscendo dal bancone per avviarsi verso le scale. “Comunque lo sapevo che le tue visite si sarebbero fatte più frequenti Richard! E’ davvero una ragazza da non lasciarsi scappare quella!” aggiunse poi facendogli l’occhiolino un attimo prima di sparire verso il piano di sopra. Castle voltò le spalle alle scale, cercando di non arrossire e di rimanere impassibile, con scarso successo, mentre Ryan ridacchiava accanto a lui.
“Finiscila!” sibilò irritato all’amico con l’unica conseguenza di farlo ridere di più. “Non ti sei già divertito abbastanza??”
“Ho come l’impressione che sia solo l’inizio…” replicò quello ghignando. Un momento dopo però, Rick lo vide alzare gli occhi verso un punto dietro le sue spalle. Ryan alzò le sopracciglia, sorpreso, la bocca semiaperta. Prima di riuscire a voltarsi però, il colonnello vide la faccia del suo amico passare dallo stupore alla comprensione. “Ora sì che capisco perché non vuoi lasciarla andare!” sussurrò Kevin con un largo sorriso a Rick. Castle aggrottò le sopracciglia confuso, quindi si voltò e vide Beckett scendere dalle scale dietro ad Alwara. Non era la prima volta che la osservava, ma ogni volta era come se lo fosse. Kate era bellissima. Si era cambiata dal pranzo, o meglio, aveva qualcosa in meno. Visto il clima freddo, qualche ora prima era scesa con una giacca pesante, ma in quel momento indossava solo un lungo vestito a maniche lunghe, evidentemente pensando che quella di Rick fosse una visita breve. Le aderiva perfettamente al corpo e il colonnello faticò a non passare in rassegna ogni singola curva della figura di lei. Quando Kate lo vide, gli fece un sorriso che lo mandò in estasi.
Rick rimase a osservarla con un sorriso sognante mentre si avvicinava a loro. Si accorse lui stesso di avere una faccia imbambolata, ma non poteva farci niente. Beckett stava per arrivare a pochi passi da loro, quando uno dei tizi seduti a uno dei tavoli del salone fischiò nella sua direzione. Lei neanche si girò, completamente indifferente a quel tipo di approccio, ma il colonnello non era della stessa opinione. Si voltò, all’improvviso serio, vero la sala e individuò immediatamente il disturbatore, che ora stava ridacchiando insieme ai suoi amici per la sua bravata.
“Scusatemi un attimo.” borbottò Rick, recuperando meccanicamente il suo cappello dal bancone.
“Castle, lascia perdere…” cercò di trattenerlo Ryan, ma non aveva neanche concluso la frase che il colonnello era già davanti al fischiatore con il cappello sotto braccio.
“Stammi bene a sentire.” sussurrò minaccioso al tipo, abbassandosi verso di lui. L’uomo cercò di fare lo spavaldo stando a testa alta davanti a lui, ma la sua faccia pallida e i suoi occhi preoccupati che viaggiavano sulle sue mostrine lo tradirono. “Azzardati di nuovo a importunarla o solo a rivolgerti a lei e giuro che prima ti faccio ingoiare i denti e poi ti rinchiudo a marcire da qualche parte. Ci siamo capiti?” Il tipo deglutì vistosamente e annuì subito. Di certo non aveva voglia di andare a mettersi nei guai con un ufficiale con i tempi che correvano. “Bene.” disse poi Castle con un mezzo sorriso sprezzante, alzandosi di nuovo dritto. “Godetevi la vostra cena ora.” concluse freddo con un cenno ai piatti appena intaccati davanti agli uomini. Quindi si voltò e tornò verso Ryan, Beckett e Alwara, quest’ultima già tornata dietro il bancone. Mentre li raggiungeva, sentì Kevin dire divertito alle due donne:
“Fa sempre così quando solo sfiorano qualcuno a cui tiene!” Era ovvio a chi era rivolto il sott’inteso della frase.
“Mi sembrava di averti detto che non avevo bisogno di una ulteriore protezione.” commentò Kate con il suo forte accento appena Rick buttò di nuovo il cappello sul bancone. La donna stava cercando di migliorarsi a tutti i costi, e in una settimana aveva fatto progressi quasi incredibili, ma era difficile perdere un accento.
Castle le lanciò un’occhiata, quindi alzò appena le spalle.
“Lo so, ma qui si trattava di rispetto, non di protezione.” replicò cauto, aspettandosi una sfuriata su quanto lei non avesse bisogno di guardie del corpo. Invece, quando rialzò gli occhi su di lei, si ritrovò davanti un piccolo sorriso rivolto solo a lui. Rimase imbambolato a guardarla, quando le labbra di lei si mossero lievemente a formare un ‘grazie’ appena sussurrato in inglese.
“Allora, colonnello, non mi presenti la tua ragazza?” domandò divertito Ryan rompendo quel piccolo, magico momento tra di loro.
“Non è la mia ragazza!” esclamò subito Castle come un adolescente, mente Kate arrossiva e Alwara e Kevin ridacchiavano. “Comunque!” disse poi Rick a voce più alta come per chiudere il precedente discorso. “Lei è Kate Beckett.” la presentò tornando a un tono di voce più normale. “Kate, lui è il Maggiore Kevin Ryan.” Beckett squadrò il maggiore per un momento, poi gli porse la mano e lui gliela strinse subito con un sorriso affabile.
“E’ un piacere conoscerti, Fraulein Beckett.” affermò Ryan facendo insieme un piccolo inchino.
“Ryan è un mio buon amico e compagno di guai!” dichiarò Castle divertito, dando una pacca sulla spalla a Kevin. “A te… uhm… non da fastidio conoscerlo, vero?” domandò poi, di nuovo nervoso, a Beckett. Kate osservò entrambi gli uomini per un momento, quindi scosse la testa.
“Certo che no.” rispose alla fine. “Se è un tuo amico, posso fidarmi.” aggiunse con un mezzo sorriso. Rick rimase per un secondo stupito dalla risposta, quindi un sorriso enorme gli si formò in faccia senza che potesse controllarlo. Si fidava di lui. Kate Beckett si fidava di lui!
“Oh, di due giovanotti come loro ti puoi davvero fidare, bambina!” esclamò Alwara all’improvviso con un sorrisetto divertito, ma sincero.
“Tranne forse che per la puntualità!” esclamò Ryan vedendo l’ora nella piccola pendola dietro il bancone. “Dobbiamo andare, Castle, o ci daranno per dispersi.” Il colonnello annuì ed entrambi ripresero i loro cappelli, calcandoseli poi sulla testa.
“Beh, ci vediamo domani allora, Beckett.” disse speranzoso Rick a Kate. Lei annuì semplicemente.
“Senti, perché una volta non vieni a mangiare a casa mia?” la invitò Ryan allegro. Appena Castle sentì quelle parole, sbiancò. Perché si sentiva improvvisamente come un ragazzino il cui padre ha appena chiesto alla fidanzatina di andare a mangiare con la famiglia? “Mia moglie cucina davvero bene e sono certo che, nonostante Alwara ed Edzard, tu non abbia molta compagnia, rinchiusa qui dentro. E poi…” aggiunse alla fine abbassando la voce così che solo Rick, Kate e Alwara potessero sentire. “Sono altrettanto certo che non ti dispiacerebbe tornare a parlare inglese per un po’!” Castle vide gli occhi di Beckett diventare più grandi mentre si mordeva il labbro inferiore. Era tentata, lo vedeva chiaramente da come si agitava sul posto.
“Tu ci sarai?” chiese a un certo punto a Rick. Lui la guardò sorpreso, quindi annuì.
“Sì, certo.” rispose. Kate si morse ancora per un momento il labbro, pensando alla risposta da dare. Alla fine annuì.
“Mi farebbe molto piacere.” replicò a Ryan con un sorriso timido.
“Ottimo!” esclamò Kevin allegro. “Allora ti aspettiamo domenica a pranzo! Sono certo che da bravo cavaliere Castle ti verrà a prendere…” Rick gli lanciò un’occhiataccia mentre Kate ridacchiava. Non che non sarebbe venuto a prenderla, ma avrebbe voluto per lo meno dirglielo lui. “Ora però dobbiamo proprio scappare. Ci vediamo presto, Beckett, è stato un piacere conoscerti!” concluse alla fine Ryan salutando e tirandosi dietro Castle per un braccio. Rick fece appena in tempo a fare un cenno alle due donne rimaste al bancone che si ritrovò il vento freddo dell’esterno sulla faccia.
“Ma avevamo tutta questa fretta??” si lamentò scocciato il colonnello sistemandosi il giaccone che Kevin gli aveva tirato per trascinarlo fuori.
“Più o meno.” rispose l’altro. “Dobbiamo fare un po’ di cose alla centrale e devo chiamare Jenny per dirle di domenica. E comunque…” continuò poi ghignando e dandogli una pacca sulla spalla. “Ora so esattamente perché non vuoi far andare via Beckett!”
 
“Sai, non sono certo che questa sia stata una buona idea...” mugugnò Castle, per quella che doveva essere la decima volta, passandosi nervosamente una mano tra i capelli.
“Oh, andiamo Rick!” replicò Ryan ridacchiando. “E’ stata un’ottima idea! Lei potrà svagarsi un po’, noi la conosceremo e tu potrai stare più tempo con lei!” A quelle ultime parole, Rick gli lanciò un’occhiataccia.
“Amico, credo che Kevin abbia ragione.” aggiunse Esposito divertito. “Se una donna riesce a renderti così agitato, noi dobbiamo conoscerla! Altrimenti poi come facciamo a prenderti in giro??” domandò ridendo, mentre batteva il proprio pugno contro quello di Ryan in un gesto d’intesa.
“Siete davvero spiritosi, ragazzi.” borbottò ironico Castle alzandosi in piedi dal divano su cui si era accasciato e raggiungendo Leandro alla finestra del salone. Era già arrivata domenica e nel giro di un’ora Rick sarebbe dovuto uscire per andare a prendere Kate. Si era preparato già dalla mattina presto e poi era andato dai Ryan per un po’ di conforto morale. Quello che aveva ricevuto fino a quel momento però, erano state le battute di spirito di Kevin e Javier.
Rick sistemò meccanicamente un’invisibile piega nell’uniforme grigia, quindi si sedette lentamente, per non rovinare la divisa, vicino al piccolo Leandro. Gli scompigliò i capelli con affetto e il bambino in risposta gli fece un grosso sorriso e lo invitò a giocare con i suoi cavalli giocattolo. Il colonnello iniziò a nitrire e muovere quel piccolo animaletto come il piccolo gli diceva, ma la sua mente era completamente altrove. Qualcosa di quel pranzo lo inquietava. Beckett lo aveva conosciuto solo superficialmente, attraverso le brevi conversazioni che avevano avuto nei giorni passati. E se non le fosse piaciuto il Castle in cui si trasformava quando era con i suoi amici?
“No, zio, non così!” lo riprese Leandro quando lui fece schiantare inavvertitamente il cavallo sopra un paio di soldatini. Rick scosse la testa e cercò di allontanare l’ansia per prestare attenzione al bambino.
“Scusami, Leo, non volevo.” mormorò dispiaciuto. “Oggi ho un po’ la testa altrove.”
“Dalla signorina Beckett?” domandò il piccolo curioso. Castle lo guardò stupito. “Papà mi ha detto che a pranzo la porti e che farai un sacco di cose buffe per piacerle!” aggiunse un attimo dopo ridacchiando. Rick sgranò gli occhi e rimase a bocca aperta. Quindi si voltò con uno sguardo omicida verso Esposito che, avendo sentito la conversazione dal divano, stava già tentando di scappare silenziosamente verso la camera nascosta dove dormiva con la sua famiglia.
“Javier!” lo sgridò Lanie. Nella stanza, oltre ai quattro maschi, c’erano anche Jenny e Lanie che stavano chiacchierando sedute al tavolo da pranzo. Evidentemente avevano ascoltato anche loro la conversazione tra il bambino e il colonnello. Inoltre erano giorni che non aspettavano altro che finalmente Rick portasse questa misteriosa ragazza americana, di cui erano venuti solo da poco a conoscenza, a pranzo. “Cosa ti viene in mente di dire a mio figlio??”esclamò ancora irritata Lanie al marito. Quello si fermò in piedi tra il salone e la camera, grattandosi la nuca con gli occhi bassi, quasi imbarazzato per essere stato scoperto. Leandro ridacchiò per il tono con cui la madre si rivolgeva al padre. Rick era altrettanto divertito. “Castle non farà cose buffe per piacerle a pranzo, perché sono sicura che le piace già!” concluse Lanie convinta. Il colonnello spalancò gli occhi e lanciò un’occhiataccia alla donna, rosso in viso per l’imbarazzo, mentre Leandro e gli altri occupanti della sala scoppiavano a ridere.
“Begli amici che mi ritrovo…” borbottò Rick irritato, puntando di nuovo gli occhi sul cavallo che aveva in mano. Quando finalmente tutti smisero di ridere, Leandro lo tirò per una manica così che alzasse la testa verso di lui.
“Zio, posso uscire un poco?” domandò speranzoso. Castle si fece serio e alzò gli occhi verso Ryan. Kevin sapeva sempre se i vicini erano presenti o meno, e quindi se il piccolo poteva uscire nel cortiletto interno per prendere un po’ d’aria fresca. Il maggiore annuì, dandogli il via libera, quindi Rick fece un sorriso a Leandro e annuì a sua volta. A quel segno, il bambino scattò in piedi, forse preoccupato che i grandi potessero cambiare idea, e aprì la portafinestre del salone. Un sorriso enorme gli si aprì subito sul piccolo visetto scuro non appena iniziò a saltellare felice per il giardinetto insieme ai suoi inseparabili giocattoli. Rick si alzò e lo seguì in quel pezzetto di erba, passandosi intanto una mano sui pantaloni per pulirli di eventuali tracce di polvere. Uno di loro usciva sempre con Leandro, in modo da recuperarlo in tempo nel caso fosse passato qualcuno per la strada sul retro o se uno dei vicini fosse rientrato prima, nonostante il muretto nascondesse abbastanza il giardinetto dagli sguardi indiscreti.
Castle rimase a guardare con un sorriso come il bambino si rotolava sulla terra umida ridendo. Lanie non sarebbe stata molto contenta quando sarebbe rientrato, ma almeno per un poco il piccolo si sarebbe sfogato. Una soffiata di aria gelida fece rabbrividire il colonnello. Leandro, visto quanto si stava agitando, non sentì nulla. Rick alzò gli occhi al cielo. Il tempo era stato piuttosto nuvoloso e freddo negli ultimi giorni e anche in quel momento c’era uno spesso strato di nuvole grigie sopra di loro che sembrava minacciare di buttare giù acqua da un momento all’altro.
Castle rimase per qualche minuto a osservare il cielo, mentre le risate e i borbottii di Leandro riempivano l’aria. Poi sentì dei passi arrivare dall’interno della casa verso di lui e, con la coda dell’occhio, notò Ryan fermarglisi accanto.
“Lo sai che andrà bene il pranzo, vero?” domandò Kevin tranquillo. Il colonnello alzò appena le spalle senza staccare gli occhi dal cielo. “Ho visto come ti guarda, Rick.” commentò poi. Castle aggrottò le sopracciglia e finalmente lo osservò, curioso e confuso.
“Come mi guarda?” domandò un po’ nervoso. Il maggiore ridacchiò e annuì.
“Forse tu puoi non vederlo, ma io…”
Ryan continuò la frase, ma Castle non la sentì. Un altro rumore aveva attirato i suoi sensi. Un rombo basso e cupo, ogni secondo sempre più forte. Come di motore. Di molti motori. Che arrivavano dal cielo. Un pensiero certo e terribile si formò immediato nella mente di Rick. Aerei. Alzò la testa di scatto, proprio quando udì ciò che più temeva. Un fischio lungo e alto.

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Xiao! :D
Ho ritardato un po' e purtroppo l'ho riletto pure male il capitolo, quindi se avete lamentele fatele pure, non mi offendo! XD
Comunque questo è un po' un capitolo di passaggio (beh, ok, se avete letto fino a qui lo sapete XD), ma... quel fischio?? XD
Ok vado che è tardi! XD Spero solo vi sia piaciuto almeno un po' il capitolo! :)
A presto (a meno di problemi, mercoledì prossimo)!! :D
Lanie
ps:come sempre, grazie alle mie consulenti Katia e Sofia! <3

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Capitolo 5
*** L'attacco ***


Cap.5 L’attacco
 

Bomba. Una bomba era appena stata lanciata giù da uno degli aerei sopra di loro.
Castle fece appena in tempo a realizzare la cosa quando una serie continua di fischi, sempre più vicini e forti, iniziò a forargli le orecchie.
“LEANDRO!!” urlò, cercando di sovrastare quel rumore sempre più assordante, sempre più letale. Il bambino era immobile pochi metri davanti a lui, gli occhi enormi e terrorizzati verso il cielo. Leandro aveva già assistito a un attacco aereo prima di arrivare in casa Ryan, anche se per fortuna non ne era rimasto coinvolto da vicino, quindi sapeva esattamente cosa stava per accadere. Chi avrebbe mai dimenticato quel fischio caratteristico del missile che trapassa l’aria, il fragoroso impatto di una bomba o il rombo dell’aereo che ti passa a bassa quota sulla testa?
In due passi Castle raggiunse il piccolo e lo prese in braccio senza troppe cerimonie. Proprio in quell’istante, la prima bomba scoppiò. Per fortuna il botto non avvenne troppo vicino, ma lo fu abbastanza perché l’onda d’urto scaraventasse il colonnello e il bambino a terra. Altri botti si susseguirono per qualche secondo, forti, spaventosi. Castle tenne Leandro sotto di sé, le braccia a coprirgli la testa per proteggerlo da qualsiasi cosa gli fosse piovuto addosso.
Un momento dopo gli scoppi cessarono. Rick si alzò velocemente sulle braccia, scuotendo la testa per riprendersi dal leggero stordimento causato dalle bombe. Abbassò lo sguardo e vide il bambino. Leandro era terrorizzato e, nonostante fosse schiacciato sotto di lui e tremasse visibilmente, era saldamente ancorato alla sua uniforme grigia, le sue piccole nocche scure sbiancate per la forza con cui si teneva.
“LEANDRO!! RICK!!” Dall’interno le voci di Lanie e degli altri si mischiavano spaventate chiamando i loro nomi. Castle alzò la testa e vide Ryan seduto a terra davanti alla porta finestre distrutta, come tutti vetri da quel lato della casa, a causa dell’onda d’urto. Kevin aveva una mano alla tempia e una smorfia sulla faccia. Tra le sue dita scorreva sangue.
Altre bombe iniziarono ad esplodere dietro di loro, ma sembravano già più lontane rispetto a prima, sia per il più basso e attutito rumore, sia per il minore spostamento d’aria.
“Andiamo!” sussurrò al bambino, alzandosi velocemente, ma continuando comunque a tenerlo in braccio. Leandro non disse una parola, si mosse solo per stringersi forte al suo collo. Rick percorse i pochi passi per tornare in casa di corsa. Lanie si affrettò a recuperare dalle sue braccia il bimbo terrorizzato e stringerselo al petto. “State bene?” chiese il colonnello in fretta, ma con una certa calma caratteristica di alcuni soldati durante i momenti di pericolo.
“Kevin è ferito!!” esclamò Jenny preoccupata mentre, inginocchiata a terra, cercava di tamponare freneticamente il sangue in uscita dalla fronte del marito con un fazzoletto. Dalla cucina uscì di corsa la Gates con un altro panno bianco più grande e pulito.
“Non è niente, è solo un graffio!” replicò Ryan deciso. “Devo solo metterci una benda e ci sono!” In effetti Castle sapeva per esperienza che i tagli alla testa sanguinavano molto anche se poco gravi. Osservò comunque per un momento Kevin dubbioso, ma il maggiore, sentendo il suo sguardo, aggiunse subito “Sto bene!” con tono quasi rabbioso.
“Puoi sistemarlo?” domandò il colonnello a Lanie. Lei era stata un’infermiera per molti anni, arrivando anche a curare ferite alla portata di un medico vero. Sarebbe diventata un dottore, se la guerra non avesse infranto i suoi sogni.
Lanie lasciò un bacio veloce sul capo del figlio, quindi lo passò a Javier che lo prese immediatamente tra le braccia. La donna si abbassò subito su Ryan e scostò il fazzoletto, ormai completamente imbrattato di sangue, dalla sua fronte per controllare la ferita. Sembrò fattibile una fasciatura, perché Lanie chiese alla Gates il panno che aveva in mano e le disse di allontanare un poco Jenny, troppo scossa per essere d’aiuto.
Castle intanto non rimase fermo. Si mosse velocemente nella casa, facendo scricchiolare i vetri rotti sotto le sue scarpe, e si accostò a una piccola porta chiusa nel corridoio dell’entrata. Quindi la aprì e vide davanti a lui una stretta scalinata di mattoni che scendeva nel seminterrato e, lo sapeva, conduceva a uno spiazzo non molto grande, ma sicuro: la cantina. Ryan aveva provveduto a rinforzarla nel tempo, in modo che fosse molto più resistente del normale, ed era stata riempita con diversi generi di prima necessità e kit di pronto soccorso, diventando così un buon rifugio antiaereo anche in caso di attacco prolungato. Forse non avrebbe resistito se una bomba gli fosse caduta direttamente sopra, ma era la loro migliore soluzione.
Dopo aver dato un’occhiata veloce perché tutto fosse in ordine, tornò in fretta nel salone.
“Allora??” domandò Rick.
“Fatto!” esclamò in quel momento Lanie. Aiutata dalla Gates, avevano creato una spessa fasciatura con il leggero panno bianco sopra la fronte di Ryan. Sembrava ben fatta perché non si vedeva sangue dalla superficie.
“Ottimo.” replicò Castle. “Ora tutti in cantina! Subito!” ordinò poi ai presenti indicando la piccola porta alle sue spalle. I fischi e gli scoppi continuavano a susseguirsi in lontananza. Rick e Kevin dovevano muoversi, mettere gli altri al sicuro e correre alle loro postazioni in centrale. In un attimo, tutti si avviarono verso quella piccola speranza di salvezza. “Restate qui e non muovetevi finché non sentite che è tutto silenzioso o finché non torniamo noi, intesi?” gli intimò il colonnello dalla porta non appena furono scesi tutti.
“Kevin!!” esclamò Jenny agitata, tanto che tentò subito di risalire dalla cantina. Ryan le corse in contro a metà scala per rassicurarla. Mentre il maggiore mormorava qualche parola di conforto alla moglie, Lanie fece un cenno a Castle perché lo guardasse.
Non farlo affaticare!” sillabò la donna indicando Kevin con la mano, senza far uscire un suono per non allarmare Jenny e perché Rick capisse. “Oppure non reggerà!” aggiunse poi indicandosi la testa. Il colonnello annuì.
“Ryan, dobbiamo andare!” lo chiamò Castle. Non voleva portarlo via dalla moglie, ma era loro dovere andare. Anche per loro.
“Arrivo!” esclamò il maggiore. Quindi sussurrò ancora qualcosa a Jenny, la baciò sulle labbra e si voltò, risalendo poi le scale e uscendo dalla porta della cantina senza voltarsi.
“RICK!” lo richiamò Jenny un attimo prima che lui chiudesse la porta. “Riportamelo!” Castle deglutì. Ecco un’altra promessa che non sapeva se avrebbe potuto mantenere. Annuì solo e chiuse la porta. Almeno loro sarebbero stati al sicuro.
“Andiamo!” esclamò poi rivolto a Ryan, già sulla porta di casa ad attenderlo. In un attimo erano in strada, già sulla via per la centrale. Correvano, perché ora che erano all’esterno i fischi e le esplosioni si erano fatte più forti e aggressive. L’onda d’urto, per quanto lontana, sembrava far vibrare gli organi interni. Attorno a loro erano già impressi i segni del primo attacco, quello che avevano sentito loro stessi sulla pelle. Passarono accanto a un enorme cratere che aveva fatto crollare una mezza palazzina. C’era gente presa dal panico ovunque che urlava e correva disperata senza sapere dove nascondersi, insanguinata o sporca di polvere.
Qualche minuto dopo raggiunsero senza fiato la centrale già in subbuglio. I soldati correvano da ogni parte, gli sfollati spingevano e chiedevano a gran voce asilo all’interno della struttura, i feriti si lamentavano e urlavano dal dolore. Tutto questo non faceva altro che aumentare il caos ogni secondo di più. E i suoni, ancora piuttosto forti, delle bombe non aiutavano certo a tranquillizzare la situazione.
Castle e Ryan si fecero largo quasi a gomitate tra la folla, raggiungendo così la parte interna dell’edificio e iniziando a dare ordini. Entrambi sapevano cosa fare. Erano stati addestrati per quello.
“Siamo stati fortunati che hanno fatto un solo attacco qui!” esclamò Ryan pochi minuti dopo, mentre ancora riprendeva il fiato per la corsa, non appena tutti gli ordini necessari furono dati. I cannoni agli angoli della caserma erano già puntati verso gli aerei nemici pronti a fare fuoco.
“Siamo in periferia!” replicò Castle nell’esatto momento in cui uno dei cannoni sparò il primo colpo, perforandogli un timpano. “Le zone da colpire sono in centro!” aggiunse con una smorfia, urlando per farsi sentire al di sopra del frastuono dei proiettili antiaerei.
“Meno male che siamo qui, allora!” gridò Kevin con un mezzo sorriso che non aveva nulla di allegro. Il secondo dopo infatti scomparve. “Non oso immaginare cosa stiamo passando quelli là in centro!” Con la coda dell’occhio, Rick vide una macchia rossa sopra la benda bianca sulla fronte del suo partner. Non avrebbe dovuto fare quella corsa. Si stava già sforzando troppo e secondo Lanie era una cosa da non fare. Era già sul punto di ordinargli di rientrare in caserma, quando un pensiero improvviso lo colpì. Noi siamo in periferia... le zone da colpire sono in centro… noi siamo al sicuro… ma quelli in centro… Un momento! Kate!!
“Kate…” mormorò Castle senza fiato, gli occhi sgranati. Si sentì come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco. Lui l’aveva mandata al Fidel Weltbummler. E il Fidel Weltbummler era praticamente nel centro di Berlino. Lei era in pericolo.
“Cosa…??” cercò di chiedere Ryan, ma il colonnello lo interruppe.
“KATE!!” urlò al maggiore, con la consapevolezza improvvisa che in quel momento lei era sotto le bombe.
“CASTLE ASPETT…!!” Troppo tardi. L’urlo di Ryan rimase inascoltato. Rick era già partito verso l’uscita della centrale.
 
Il colonnello recuperò la sua auto ferma fuori dalla centrale e, pigiando sull’acceleratore, iniziò a correre per le affollate strade di Berlino verso il centro della città. Man mano che si avvicinava sentiva sempre più forte il suono acuto e penetrante delle sirene d’allarme, mescolato al basso rombo dei motori d’aereo e ai perforanti spari dei cannoni antiaerei. Per fortuna il cielo era rimasto coperto di nuvole e sembrava che questo avesse ostacolato di parecchio l’attacco in corso. Castle infatti vide diversi crateri intorno a sé causati dalle bombe, ma quasi nessuno era un obiettivo strategico e molti erano per strada. Solo alcune palazzine erano crollate in parte o del tutto. Per le vie, a quel punto dell’attacco quando tutti ormai avevano capito cosa stava accadendo, giravano solo i disperati arrancando e i soldati di corsa. Tutti gli altri si erano nascosti nelle cantine e i più fortunati nei rifugi antiaerei.
All’improvviso una granata rischiò di farlo saltare in aria con tutta la macchina. Sbandò pericolosamente e l’auto quasi si alzò su due ruote, ma poi Castle riuscì a gestirla e rimetterla in carreggiata. Si asciugò con il dorso della mano il sudore freddo e continuò a filare tra crateri, detriti e persone. Anche senza vederla, sapeva di avere buona parte della lamiera del fianco passeggero ammaccata. Ma in quel momento non gli importava. L’unico suo pensiero era arrivare il più presto possibile alla sua destinazione.
Finalmente, dopo l’ultima curva, frenò bruscamente a pochi passi dal Fidel Weltbummler e si precipitò fuori dall’auto. Quando alzò la testa però, rimase bloccato, il respiro mozzato in gola. Dove una volta c’era l’alberghetto, ora c’era solo un cumulo di macerie nere e fumanti. Una bomba aveva colpito il Fidel centrandolo in pieno.
Per un momento, Castle si sentì mancare e dovette fare qualche passo indietro fino ad appoggiarsi al cofano dell’auto. I suoi occhi sgranati non volevano credere a quello che vedevano. All’improvviso tutto sembrò ovattato. I rombi bassi nel cielo, le sirene acute, le esplosioni, gli spari, le grida. Tutto. Sentiva solo il battito veloce del suo cuore rimbombargli nelle orecchie. Alwara, Edzard… Kate. I loro volti erano davanti ai suoi occhi. Era stanco di perdere amici in quella stupida guerra. E Beckett… beh… ancora una volta aveva fatto una promessa che non aveva mantenuto. Aveva promesso a sé stesso che l’avrebbe protetta. E invece aveva segnato la fine di Kate, spedendola al Fidel Weltbummler. Così come era stato per sua madre.
Rick dovette stringere i pugni e serrare le labbra, gli occhi lucidi, per non mettersi a urlare. Contro chi poi? Hitler? Il nazismo? La Germania? L’Inghilterra? Il mondo? Nessun urlo avrebbe corretto i suoi errori. Niente gli avrebbe riportato Kate o Alwara o Edzard. L’unico pensiero positivo che gli passò per la mente, fu che almeno i due figli più grandi dei due coniugi erano al sicuro da una zia fuori città. Dopo la morte del loro bimbo più piccolo, li avevano spediti lontano quanto più era stato loro possibile da quella guerra.
Come un automa, Castle si voltò e fece per tornare in auto, ma qualcosa lo trattenne. Un debole suono, quasi più una sensazione, era riuscito a passare il suo stato di sordità momentanea al mondo e ad arrivare fino alla sua coscienza. Si girò di nuovo verso le macerie, reprimendo il peso che aveva nel cuore per restare lucido e ascoltare. Infine lo sentì. Era molto debole, quasi un sussurro rotto nascosto dietro a rumori assordanti. Rick fece qualche passo nella direzione del suono, mentre il cuore ripartiva a battergli freneticamente. Perché ora capiva cosa diceva quella fievole voce: il suo nome. Castle.
Un lieve movimento gli fece girare di scatto lo sguardo e alla fine vide la provenienza di quel tenue lamento. Mentre sentiva il cuore balzargli in gola, il colonnello percorse velocemente i pochi metri fino a quella esile figura rannicchiata a terra, tra diverse macerie, in un cappotto grigio chiaro. Quando finalmente vide il suo bellissimo viso sporco di cenere e tirato da una smorfia di dolore, il cuore di Rick perse un colpo.
“Kate…!” mormorò mentre la voce gli si spezzava tanto era il sollievo nell’averla ritrovata viva. “Dio, Kate…”
“Castle…” lo chiamò lei con voce flebile. Rick si abbassò subito sulla donna e le spostò delicatamente i capelli e la polvere dal viso. I suoi occhi blu controllarono velocemente il corpo rannicchiato di Beckett. Una manica grigia della giacca era strappata e da essa si vedeva la pelle chiara macchiata di sangue, ma pareva un taglio di poco conto. Sembrava l’unica ferita visibile, ma Rick non poteva esserne certo. Infatti un momento dopo una chiazza rossa sul marciapiede sotto il fianco di Kate richiamò la sua attenzione. Doveva fare presto. Prima di azzardarsi a toccarla però, si ripassò mentalmente alcune raccomandazioni di Lanie davanti a un ferito. Tranquillizzarlo e non muoverlo prima di aver appurato che un suo spostamento non possa danneggiarlo. “Castle…” lo richiamò Beckett dal suo esame preliminare, aggrappandosi, con una forza che non le avrebbe attribuito in quello stato, alla sua uniforme. Si piegò su di lei per cercare di afferrare le parole dalla sua debole voce nonostante il frastuono intorno a loro. “Chiamami di nuovo Kate… e ti rompo le gambe...” Castle represse a stento un sorriso divertito. A quanto pareva la testa non aveva subito danni.
“Te la senti di alzarti, Beckett?” le domandò, non appena fu di nuovo conscio della loro posizione esposta in mezzo alla strada.
“Forse…” borbottò Kate, stringendo i denti mentre già tentava di tirarsi su a sedere. Il colonnello la aiutò, cercando di toccarla il meno possibile per evitare che la donna si arrabbiasse. Ma qui stava il complicato. Dove cavolo le metteva le mani per aiutarla ad alzarsi se non poteva sfiorarla?
Uno scoppio di granata troppo vicino fece prendere a Castle la decisione finale. Senza tante cerimonie, ma stando comunque attento a non farle male, Rick passò le braccia sotto la schiena e le ginocchia di Beckett. Quindi la tirò su di peso. Kate stava già per protestare, ma una fitta la fece gemere e rannicchiare istintivamente di più contro di lui, mentre una mano le volava al fianco sotto il quale Castle aveva visto la macchia di sangue. Senza perdere altro tempo, il colonnello la portò alla macchina e, il più delicatamente e velocemente possibile, la appoggiò sul sedile passeggero per poi mettersi alla guida.
La strada del ritorno sembrò a Castle molto più lunga dell’andata. Il respiro rotto e ansante di lei lo spaventava, era terrorizzato che a un certo punto si affievolisse del tutto. Continuava a chiamare Beckett, pregandola di non addormentarsi, come gli aveva insegnato Lanie, e intanto guidava più svelto che poteva in strade spaccate o piene di macerie. Frenò solo quando arrivarono davanti a casa Ryan. Rick riprese la donna in braccio, non prestando la minima attenzione alle sue fievoli rimostranze, ed entrò nella casa ancora aperta come l’avevano lasciata. Velocemente andò alla porta della cantina e bussò forte.
“Jenny!! Lanie!! Javier!!” chiamò Castle a voce alta in modo che lo sentissero e venissero ad aprirgli. Meno di dieci secondi dopo la faccia di Esposito gli si presentò davanti. Javier lo guardò perplesso, stupito e preoccupato. Non si aspettavano una sua venuta prima della fine del bombardamento. E i rumori dell’attacco aereo erano ancora nell’aria e probabilmente, sentendolo da solo, avevano già pensato al peggio per Ryan.
“Rick!!” esclamò infatti Jenny terrorizzata nel vederlo. “Kevin…”
“Kevin sta bene!” replicò subito per tranquillizzarla, passando davanti a Esposito e scendendo i pochi gradini verso la cantina con attenzione, ma velocemente. “Lanie, ho bisogno del tuo aiuto!”
In fondo al seminterrato c’erano un paio di materassi. Castle portò lì Beckett e ve la adagiò piano sopra. Con la coda dell’occhio vide Lanie passare Leandro a Jenny in un angolo della cantina. Notò poi la Gates accanto alle scale con due spranghe. Probabilmente lei e Esposito avevano deciso di fare la guardia alla porta, tanto per stare sul sicuro.
“Che è successo?” domandò Lanie, guardando la ragazza ferita sul materasso con occhio medico e insieme preoccupato e un po’ diffidente. Era da capire. Praticamente nessuno sapeva di loro e la allarmava, soprattutto per Leandro, il fatto che ora un’estranea li avesse visti. “Chi è?”
“Lanie, non ho tempo di spiegarti ora.” rispose il colonnello con tono di scuse, ma deciso. “Posso solo dirti che lei è Kate Beckett…” Alle sue parole vide tutti i presenti stupiti, ma non diede alcun tempo per fare commenti. “…e credo sia stata ferita dalla bomba che ha distrutto il Fidel e…”
“Il Fidel distrutto?” chiese Jenny incredula. Rick non riuscì a risponderle. Abbassò solo lo sguardo per un attimo e prese un respiro profondo.
“Ti prego, Lanie, aiutala.” continuò Castle, rivolgendosi alla donna con sguardo supplicante. Lanie lo squadrò per un momento. Quindi annuì con un sospiro.
“Lo farò.” replicò la donna, iniziando ad alzarsi le maniche del vestito che indossava.
“Grazie.” rispose Rick sollevato. “Sei la migliore.” Lanie fece una mezza smorfia, ma non riuscì a non sorridere. Quindi diede istruzioni alla Gates su come aiutarla e sulle cose che le sarebbero servite. Nel frattempo Castle ne approfittò per inginocchiarsi un momento accanto a Beckett. “Ehi…” mormorò il colonnello con un mezzo sorriso, spostando una ciocca di capelli dal viso di Kate. Il volto di lei era impolverato e sudato, ma a lui sembrava splendido proprio come il primo giorno in cui l’aveva visto. “Ti lascio in buone mani.” le sussurrò. Beckett gli fece un debole sorriso, ma quando vide che stava per alzarsi, lo trattenne debolmente per la manica. Castle si abbassò subito di nuovo su di lei, preoccupato nel vederla all’improvviso così pallida e senza forze per il più piccolo sforzo. Sembrava quasi un’altra donna rispetto a quella che aveva recuperato tra le macerie e che ancora aveva l’energia per rimproverarlo. Doveva aver perso più sangue di quanto non avesse creduto.
“Tornerai, vero?” domandò lei piano con una lieve nota di panico mentre gli occhi le si chiudevano dalla stanchezza, come una bambina che non vuole andare a dormire per paura degli incubi. Rick la guardò con tenerezza. Sapeva che era così perché stava male, ma in quel momento Kate sembrava così bisognosa di protezione, in contrasto netto con la donna forte che aveva imparato a conoscere in quei giorni. Ma di certo ai suoi occhi non era meno stupenda.
Castle si riabbassò su di lei e le lasciò un bacio tra i capelli.
“Sempre.” mormorò, prima di alzarsi e uscire dalla cantina.
 
Castle e Ryan rientrarono solo a notte inoltrata. Il bombardamento era durato ore, ma, come il colonnello aveva già notato, le basse nuvole grigie in cielo avevano in parte protetto Berlino dall’attacco aereo a causa della scarsa visibilità che portavano con sé. Entrambi i soldati erano tornati pieni di polvere e cenere. Si sentivano sporchi, sudati e stanchi, ma almeno erano incolumi. Le uniche ferite visibili erano quella alla testa di Kevin (la benda gli era diventata di un vago colore grigiastro con un’enorme macchia rossa) e un taglio poco profondo al dorso di una mano di Rick. Ripensando a quello che era successo, il colonnello capì di esserselo fatto mentre recuperava Kate dalle macerie, ma senza accorgersene minimamente.
“Allora?” domandò Esposito con tono teso e basso. Era seduto su una delle sedie del tavolo da pranzo, che avevano spostato vicino a divano e poltrona, con Leandro saldamente in braccio. Vicino a loro, su altre due sedie, c’erano Lanie, con una mano intrecciata a quella del marito, e la Gates con il viso tirato, come tutti del resto, per la stanchezza e la preoccupazione. Per fortuna era riuscita a contattare la sua famiglia e stavano tutti bene. Le bombe da loro non erano arrivate.
Leandro si era appena addormentato con le braccia ancora avvolte al collo del padre e la testa sulla sua spalla. I bombardamenti erano cessati più di due ore prima, ma Castle e Ryan non erano potuti rientrare a casa subito. Il bambino aveva voluto aspettarli per forza, nonostante la stanchezza, e alla fine era crollato qualche minuto dopo che erano tornati a casa, mezz’ora prima.
“Nonostante tutto, ci sono stati meno danni del previsto.” rispose Ryan con un sospiro, stringendo di più a sé dalla vita la moglie accanto a lui. Il maggiore era seduto sulla poltrona, mentre Jenny era appollaiata sul bracciolo, una mano intorno alle spalle del marito, l’altra alla pancia un poco accennata. “Pochi edifici crollati, due incendi, un centinaio e poco più di morti...” elencò Kevin stancamente. “Poteva andare peggio.” concluse cupamente con lo sguardo vuoto fisso davanti a sé mentre Jenny gli accarezzava delicatamente i capelli. “Molto peggio.” Era pallido in volto, a causa della stanchezza e della ferita, e da quando era entrato in casa la sua mano non aveva mai abbandonato la moglie. Gli si leggeva in faccia che aveva bisogno di un contatto diretto con lei. Fino a quel momento i berlinesi erano stati piuttosto fortunati a scampare agli orrori della guerra, come se fossero in una bolla fuori dal mondo, ma quel giorno aveva ricordato loro con particolare forza che non era così.
“E per questo non finirà qui.” dichiarò Castle terribilmente serio. Lui era seduto a terra, la testa appoggiata al divanetto dietro di lui dove avevano fatto sdraiare Kate. Quando erano tornati, Lanie l’aveva già medicata. Aveva ricevuto un taglio superficiale al braccio mentre un pezzo di vetro le si era conficcato in parte nel fianco. Per fortuna la signora Esposito aveva estratto il pezzo e fasciato tutto con attenzione. Ora Beckett dormiva profondamente con il viso rivolto verso Castle, anche se in realtà questo lei non lo sapeva, visto che era già crollata quando l’avevano trasportata sul divano dalla cantina. “Hanno fatto troppo poco per quello che si aspettavano, ne sono certo.” continuò il colonnello con lo sguardo rivolto al soffitto, senza in realtà vederlo. “Le nuvole ci hanno salvati, ma non farà brutto tempo per sempre.” dichiarò alla fine cupo. Per un poco calò il silenzio. Ognuno era perso nei propri pensieri e la stanchezza stava facendo cedere tutti.
Un piccolo mugugno fece voltare i presenti verso Leandro. Iniziava a stare scomodo, rannicchiato contro il petto del padre, essendo ormai abbastanza cresciuto.
“E’ il caso di andare a riposare un po’.” mormorò stancamente Lanie con un mezzo sorriso, lasciando una lieve carezza tra i capelli del figlio. “Ne abbiamo tutti bisogno.”
“Rick, tu che pensi di fare?” chiese Jenny, mentre si alzava in piedi e come lei anche Kevin, Lanie, Javier e Gates. “Non è meglio se torni a casa a dormire un po’ anche tu?” La faccia di Castle si fece un po’ imbarazzata alle sue parole mentre i suoi occhi volavano subito verso il viso di Beckett poco lontano dal suo. “Kate non andrà da nessuna parte stanotte.” aggiunse dolcemente la signora Ryan vedendolo così indeciso.
“Se per voi va bene, preferirei rimanere qui.” replicò dopo un momento Rick passandosi la mano sana sul collo, percependo quasi la stanchezza come un peso sulle spalle. “Ho già chiamato mia madre dalla centrale. Il teatro dove recitava era vicino a un rifugio antiaereo e casa sua non è stata sfiorata. Abita dall’altra parte della città quindi le ho detto di non venire qui. Perciò sarei solo al mio appartamento…” mormorò alla fine, quasi timido mentre abbassava lo sguardo verso il pavimento.
“Non aggiungere altro.” lo fermò Kevin con un sorriso stanco. “Fermati quanto vuoi. Lo sai che qui sei sempre il benvenuto. Ma almeno usa il divano!” aggiunse poi ridacchiando leggermente. Castle lo ringraziò con il cenno del capo, quindi osservò i coniugi Esposito sparire dentro la stanza segreta, i Ryan avviarsi verso le scale per il secondo piano e la Gates tornare verso la cucina, oltre la quale c’era un’altra stanza dove dormiva.
A quel punto Castle si appoggiò di nuovo con la testa al divanetto, ma stavolta con lo sguardo rivolto verso Beckett. Non aveva voglia di mettersi sul divano. Preferiva restare lì, anche se per terra. Kate sembrava dormire tranquillamente, senza alcuna ruga di espressione in volto. Rick si accorse solo in quel momento che il suo viso era ancora pieno di cenere. Lui era riuscito a darsi una breve lavata al viso quando era rientrato, ma lei ovviamente non aveva potuto.
Cercando di non svegliarla, il colonnello si alzò sulle ginocchia, voltandosi completamente verso Kate, e allungò una mano verso di lei. Prima di sfiorarle il volto, esitò un momento. Quindi prese un respiro profondo e appoggiò delicatamente una mano alla guancia di lei. Notò che era calda e liscia. Il più piano possibile, iniziò a pulirle con il pollice i residui maggiori di sporco. Castle cercò di convincere sé stesso che lo stava facendo solo per Beckett, per ripulirla un poco dopo quello che aveva vissuto. Una parte di lui però continuava a urlargli che non lo stava facendo per lei, ma per sé stesso, per sentire la sua pelle sotto le dita, per osservare da vicino i suoi lineamenti, per essere certo che il suo respiro fosse presente e stabile.
Doveva essersi incantato a guardarla, perché non si era minimamente accorto che Kate si stava muovendo. Quando finalmente tornò in sé, Rick scostò velocemente la mano dalla donna, osservandola con il respiro trattenuto. Beckett si mosse leggermente, rannicchiandosi di più su sé stessa, quindi fece una piccola (e per Rick adorabile) smorfia nel sonno e riprese a dormire come se niente fosse. Castle attese dieci secondi, quindi si concesse di ritornare a respirare. Alla fine decise che un po’ di sonno avrebbe fatto bene anche a lui. Sentiva gli occhi chiudersi e si sentiva indolenzito.
Si alzò e recuperò le coperte che aveva tirato fuori in precedenza Jenny per Kate e che aveva lasciato sul tavolo da pranzo. Erano in tutto tre coperte di cui due molto più calde e pesanti. Mise quelle sopra Beckett, cercando di non disturbare di nuovo il suo sonno, e prese la rimanente per sé. Le finestre del salone, ancora distrutte, lasciavano entrare parecchi spifferi, ma per fortuna Esposito era riuscito a coprirle il più possibile con dei pezzi di stoffa. Alla fine Castle prese il cuscino della poltrona e lo buttò a terra, proprio accanto al divano. Quella poltrona l’aveva sempre trovata scomoda, mentre il soffice tappeto del pavimento gli era molto più congeniale, per quanto potesse sembrare strano.
Rick si addormentò pochi minuti dopo, il volto rivolto verso quello di Kate, che stava ancora osservando, fino all’attimo prima in cui la stanchezza aveva preso il sopravvento su di lui.
 
Castle si svegliò lentamente. Una lieve luce gli filtrava attraverso le palpebre, non abbastanza forte da costringerlo ad alzarsi, ma sufficiente per infastidirlo. Provò a muoversi leggermente, ma scoprì che praticamente tutti i muscoli gli dolevano. Una smorfia gli passò immediata sul volto e cercò di nasconderla infilando di più la faccia all’interno del cuscino. Fu in quel momento che sentì un lieve ridacchiare. Rimase immobile com’era, voltato su un fianco e seminascosto dal cuscino, per cercare di provare meno dolore possibile e intanto concentrarsi con gli altri sensi sull’ambiente esterno. Sentiva solo un leggero respiro poco sopra di lui.
Nonostante il sonno, Rick si costrinse a girare la testa e aprire gli occhi. Sbatté le palpebre un paio di volte prima di ricordarsi dove si trovava. Era sdraiato sul pavimento del salone dei Ryan e per questo era dolorante, anche se il morbido tappeto sotto di lui aveva attutito in parte la durezza del legno del parquet. La luce che gli arrivava dritta negli occhi era quella che filtrava da una delle imposte di stoffa improvvisate della porta finestre distrutta il giorno prima.
Con gesti lenti, si passò una mano tra i capelli e accennò uno sbadiglio, chiedendosi che cavolo ci facesse là a terra, quando, girando ancora la testa, si trovò davanti le gambe del divano. Fu a quel punto che si ricordò improvvisamente del perché era in quella posizione scomoda. Alzò lo sguardo e gli mancò il fiato. Due occhi verde-nocciola lo stavano fissando divertiti dal divano sopra di lui.
“Ehi.” lo salutò Kate piano mentre un piccolo sorriso le si allargava in volto.
“Ehi…” replicò Rick quasi in un sussurro. Ci mise un paio di secondi a riprendere la giusta lucidità. Sbatté di nuovo le palpebre e scosse la testa. “Che facevi? Mi spiavi?” domandò poi passandosi di nuovo la mano sana tra i capelli per cercare di dargli un’aria decente, che sapeva non avrebbero mai avuto in quel momento, e contemporaneamente alzandosi a sedere con la mano fasciata. Il movimento gli fece scricchiolare tutte le ossa. Represse il dolore facendo fuoriuscire solo una smorfia trattenuta. Si sentiva un vecchio.
“Uhm, no...” rispose Beckett poco convinta. Castle alzò un sopracciglio alla sua risposta.
“Sei inquietante, lo sai?” dichiarò qualche secondo dopo mentre un sorrisetto divertito e malizioso gli si stampava in faccia. “Ma devo ammettere che ti capisco. Insomma, con tutto questo ben di dio che ti ritrovi davanti…” aggiunse indicando sé stesso con un tono che indicava un fatto ovvio. Kate sbuffò.
Ben di dio,” ripeté lei sfottendolo. “Non pensare che non abbia visto come mi guardavi in questi giorni quando ci incontravamo. Osservarmi mentre mangio, quello sì che è inquietante, oltre che irritante!” Il colonnello fece un gesto noncurante con la mano, ma comunque arrossì un poco a quell’affermazione. Era convinto di essere stato attento, ma a quanto pareva invece era stato beccato a osservarla. Si stupì che non glielo avesse fatto notare prima, visto che quando si incontravano i suoi occhi blu rimanevano fissi su di lei dal primo all’ultimo secondo. Cercando di far finta di non curarsi delle sue parole, Rick si stiracchiò con le braccia sopra la testa, ma un dolore alla schiena lo fece immediatamente rannicchiare di nuovo su sé stesso con una smorfia. Decisamente mai più pavimento come letto. “Stai bene?” domandò Kate con una nota di preoccupazione nella voce al vedergli fare quel gesto. “Come ti è saltato in mente di dormire sul pavimento??” chiese ancora lei irritata. “E poi…” aggiunse guardandosi intorno, come se si accorgesse per la prima volta che il posto non le era familiare. “Dove siamo? Come ci sono arrivata qui?” Beckett cercò di alzarsi all’improvviso, ma appena lo fece un gemito le scappò dalle labbra, si irrigidì e si portò immediatamente le mani al fianco.
“Beckett!” esclamò Castle scattando in ginocchio accanto a lei, ignorando completamente il dolore sordo dei suoi muscoli. La vide respirare pesantemente, mentre aspettava che il dolore diminuisse. Rick attese con lei. Le mise una mano sul braccio, dal quale si intravedeva una fasciatura bianca dalla manica strappata, e iniziò ad accarezzarlo lievemente per darle un po’ di conforto. Si sentì impotente. Non aveva nulla per farle diminuire il dolore purtroppo. Attesero che il male si attenuasse, Beckett prendendo respiri profondi, Castle carezzandole il braccio dalla spalla alla mano e ritorno. Quando finalmente il corpo di Kate si rilassò, anche Rick tirò un sospiro di sollievo. “E chiedi a me come sto?” domandò il colonnello, con una punta di ironia nella voce per nascondere la preoccupazione. Le spostò delicatamente una ciocca di capelli che le era caduta sul viso e le pulì un poco la fronte ancora un po’ sporca di polvere e sudore. Tutto quello che la donna replicò in risposta fu un piccolo sbuffo scocciato. Castle la osservò nervoso. Era impallidita e sembrava più stanca di quando l’aveva trovata sveglia. Inoltre un momento dopo, dalla coperta spostata dal movimento di lei, il colonnello si accorse che le mani di Kate sul suo fianco si erano arrossate di sangue fresco. Se Lanie le aveva messo dei punti la sera prima probabilmente li aveva strappati o semplicemente il movimento brusco aveva riaperto la ferita.
“Non hai risposto alle mie domande.” commentò Beckett sottovoce, ancora provata dal dolore. Quando Castle rimase in silenzio, si voltò verso di lui con le sopracciglia aggrottate. Rick aveva lo sguardo perso verso la sua mano ancora appoggiata sopra di lei. Ora che la paura era in parte passata, la realtà di quello che era accaduto solo poche ore prima lo colpì con forza.
“Qual è l’ultimo ricordo che hai?” domandò il colonnello atono. Kate ci pensò su per un attimo, le sopracciglia aggrottate le formavano una piccola rughetta sulla sua fronte che Rick aveva imparato a conoscere bene in quei giorni. Poi Beckett spalancò gli occhi e la bocca le rimase semiaperta. Non respirava.
“Le bombe…” mormorò mentre all’improvviso gli occhi le si facevano lucidi, iniziando anche ad ansimare lievemente. “Le bombe hanno distrutto… Alwara e Edzard loro sono… sono ancora dentro!!” esclamò alzando di scatto gli occhi verso Castle, lo sguardo spaventato. “Devi andare ad aiutarli! Potrebbero essere ancora…”
“Morti.” la bloccò Rick. Cercò di mascherare il dolore nel suo tono, ma ci riuscì solo in parte. Lei lo guardò con gli occhi spalancati. “Quando sono arrivato per portarti via da quell’inferno, l’edificio era già distrutto.” spiegò Castle piano, senza guardarla. “Dopo averti nascosto qui sono tornato al Fidel. E… li ho trovati.” concluse solo con un gran sospiro. “Dovrò anche avvisare i figli…” aggiunse dopo qualche momento di cupo silenzio passandosi una mano sulla faccia.
“Mi dispiace…” bisbigliò Kate allungando una mano e stringendola intorno alla sua sana.
“Per cosa?” domandò il colonnello sorpreso, più per la mano che per la domanda. “Non hai sganciato tu quelle bombe e non hai iniziato tu la guerra.” le disse facendole un mezzo sorriso rassicurante.
“Ma li conoscevi bene. Erano tuoi amici.” insisté Beckett stringendogli di più la presa sulle sue dita. Rick prese un respiro profondo e annuì lentamente. Il calore della mano di lei sulla sua gli dava una sensazione di conforto che non avrebbe mai sperato, anche se non cancellava il dolore.
“Non sono i primi amici che perdo.” dichiarò distaccato, senza aggiungere altro. Rimasero qualche secondo in silenzio, tenendosi per mano come se fosse una cosa normale fra loro. Un momento dopo però, Kate si lasciò sfuggire un piccolo gemito di dolore e riportò la mano al fianco. “Ehi, ehi, tranquilla.” le sussurrò Castle per distrarla un poco, carezzandole di nuovo un braccio e i capelli per rassicurarla. “Comunque, per rispondere all’altra tua domanda, questa è la casa di Ryan.” le disse indicandole la stanza circostante. Beckett si guardò per un momento intorno con occhi stanchi e poi annuì. “Sarebbe il caso di aspettare Lanie per medicare la ferita.” continuò Rick. “Però se vuoi posso iniziare a dare un’occhiata per vedere quanto è grave.”
“Cerchi solo una scusa per alzarmi la maglia…” borbottò Kate dolorante, ma insieme divertita. Castle scoppiò a ridere. Non aveva minimamente pensato a un secondo fine, tanto era preoccupato per le sue condizioni.
“Lo ammetto, mi hai scoperto!” replicò ghignando. “Speravo fossi così spossata da non accorgertene.” Kate sbuffò piano.
“Rassegnati, Castle.” rispose mentre cercava di reprimere un sorriso. “Sarò sempre troppo sveglia per te.”
“Beh, su questo ha ragione, amico!” La voce di Ryan dall’entrata del piccolo corridoio fece sobbalzare entrambi. Non l’avevano minimamente sentito scendere le scale. Rick e Kate si lasciarono subito le mani, fino a quel momento strette insieme, prima che Kevin potesse avvicinarsi tanto al divano da vederle.
“Kev, Beckett ha bisogno di Lanie.” dichiarò Castle cambiando argomento. “Deve essersi riaperta la ferita perché sta sanguinando di nuovo.” Ryan si fece subito preoccupato e si avvicinò velocemente al divano.
“Sto bene…” borbottò Kate, ma le sue mani sporche di sangue fresco dicevano tutt’altro. Appena Kevin le diede un’occhiata, aggrottò le sopracciglia serio.
“Vado a chiamarla.” disse subito, quindi si voltò e si avviò rapido verso l’apertura della stanza segreta dove dormivano gli Esposito.
“No, io non…” mormorò Beckett, ma Castle la fermò.
“Kate, per favore, hai bisogno di cure.” la implorò il colonnello. Aveva perso degli amici quel giorno, non era stato in grado di aiutare sua madre a sopravvivere, era stanco e provato da tutto quello. Se non fosse riuscito a convincere almeno Beckett a farsi aiutare, sarebbe scoppiato. Il suo sguardo dovette far trasparire tutta la sua preoccupazione e ansia perché lei lo osservò per un momento, quindi sospirò e annuì piano. Non lo sgridò neppure per averla chiamata Kate.
“Puoi aiutarmi ad alzarmi?” domandò lei iniziando a far leva sulle braccia. Una smorfia di dolore la fece bloccare subito.
“Beckett, devi restare giù!” cercò di ordinarle Rick, ma stavolta lei scosse la testa con forza.
“No.” replicò decisa, anche se un po’ affannata. “Non voglio presentarmi a nessuno come una malata.”
“Ma tu sei malata.” rispose Castle in tono dolce e insieme un po’ esasperato per la testardaggine della donna. “Avevi un pezzo di vetro nel fianco, sei ferita e…”
“Non importa.” borbottò Kate in risposta. “Mi aiuti ad alzarmi o no?” gli domandò alla fine con tono di sfida. Castle le lanciò un’occhiataccia, ma non servì a nulla. Testarda e orgogliosa, ecco com’era Kate Beckett. Non voleva mostrarsi debole a degli estranei nonostante quegli stessi estranei l’avessero più o meno rimessa in sesto semicosciente il giorno prima. Rick sbuffò, ma alla fine la aiutò con attenzione a mettersi in posizione seduta. A operazione conclusa, Beckett aveva una mano stretta al fianco, era impallidita e aveva il respiro mozzato per il dolore e lo sforzo, ma almeno era più tranquilla.
Proprio in quel momento entrarono nel salone Lanie e Javier con Leandro in braccio, seguiti subito dietro da Ryan. Come se si fossero dati appuntamento, dal corridoio dall’altra parte della stanza arrivarono anche Jenny e la Gates. Castle sentì Kate irrigidirsi per un attimo. La comparsa di tutte quegli individui doveva averla disorientata e messa in agitazione. I suoi occhi schizzavano veloci da una persona all’altra, come a cercare di capire chi potesse rappresentare di più una minaccia.
“Loro sono i miei amici.” le disse Rick dolcemente, posandole una mano sul ginocchio per tranquillizzarla. Il solo che fatto che parlasse ancora in inglese sembrò calmarla un poco. Poi iniziò a indicarle i presenti. “Lei è Jenny, la moglie di Ryan. Victoria Gates è la loro cameriera. Loro invece sono Javier Esposito, sua moglie Lanie e il loro figlio Leandro.” Poi presentò Kate. “Lei invece è Kate Beckett.”
“La famosa Kate.” commentò Jenny con un sorriso facendo voltare Beckett verso di lei, curiosa. “Rick ci ha parlato molto di te.”
“Diciamo pure che negli ultimi tempi ha parlato solo di te, tesoro.” dichiarò Lanie ridacchiando. Kate tornò a guardare Castle perplessa, ma con un vago sorrisetto sulle labbra. Rick alzò le spalle come a volersi scusare, ma intanto arrossì.
“Certo che Castle ci aveva detto che eri bella, ma non credevo così tanto!” commentò Esposito divertito, un attimo prima di beccarsi una gomitata sullo stomaco da Lanie. “Ehi!!” esclamò offeso aggiustandosi meglio Leandro tra le braccia. “Guarda che ho tuo figlio in braccio!”
“Allora mi riserverò di parlarti dopo a quattr’occhi di questa affermazione.” replicò Lanie con un tono tranquillo che fece deglutire Javier spaventato.
“Tu sei la fidanzata di zio Rick?” chiese all’improvviso Leandro con tutta l’ingenuità di un bambino. Castle e Beckett diventarono subito completamente rossi, mentre gli altri scoppiavano a ridere.
“Rick, ci hai parlato così tanto di te che ormai pure Leo ha questa impressione!” dichiarò Ryan ridacchiando.
“Uhm… esattamente…” mormorò Kate, ancora rossa in volto, a Rick. “Quanto gli hai parlato di me?”
“Ehm… un pochino?” rispose lui piuttosto insicuro. Possibile che avesse parlato di Beckett così tanto?? Ripensò alle ultime cene, pranzi e visite che aveva fatto a casa Ryan da quando aveva conosciuto Kate. E capì, sconcertato, di averne parlato davvero troppo. Sicuramente poi le chiacchiere maliziose dei genitori di Leandro e dei Ryan avevano fatto il resto sulle idee del bambino. “Devo aver accennato a te più del previsto…” aggiunse imbarazzato sottovoce, lo sguardo basso, più a sé stesso che alla donna davanti a lui. Lanciò un’occhiata sottecchi a Kate e notò che si stava mordendo il labbro inferiore cercando di non ridere.
In un attimo però il suo sorriso si trasformò in una smorfia dolorosa e si piegò in due su sé stessa. Prima che Castle potesse andare in suo soccorso, Lanie era già accanto a lei.
“Devo controllare la ferita.” disse con aria seria, da medico esperto. “Ieri in cantina purtroppo avevo pochi attrezzi per rimetterti in sesto, ma ora vediamo di rimediare.” Kate aggrottò le sopracciglia.
“In cantina?” chiese confusa con voce appena ansante.
“Jenny, Gates, potreste darmi una mano?” chiamò Lanie senza curarsi minimamente della domanda di Beckett. Le due donne annuirono subito. “Mi servirebbe acqua calda, ago, filo e dei panni puliti per coprire il taglio.”
“Vado a prenderli.” replicò la cameriera, quindi si avviò a passo sicuro in cucina.
“Jenny mi spiace chiedertelo,” continuò Lanie “Ma dovresti prestare dei vestiti a Kate, visto che questi sono sporchi di sangue. Possibilmente qualcosa di un po’ largo, di te incinta, in modo che non le comprima i fianchi.”
“Non c’è problema, dammi un minuto.” rispose Jenny prima si voltarsi e sparire verso le scale per il secondo piano dov’era la camera sua e di Kevin.
“Castle, dammi una mano anche tu.” lo richiamò Lanie. Rick scattò in piedi, nonostante avesse ancora dolore a ogni singolo muscolo. Decisamente mai più pavimento.
“Che devo fare?” chiese.
“Aiutami a portarla di là.” gli disse indicando con un cenno la loro stanza segreta. “Devo stenderla e spogliarla e non mi sembra il caso di farlo nel salone. Anche se sono certa che non ti dispiacerebbe del tutto la cosa, vero?” aggiunse alla fine maliziosa e divertita. Il colonnello fece finta di non aver sentito, ma il lieve rossore sulle sue guance lo tradì. Non dando corda a Lanie, Castle pensò per un momento a come spostare Kate. Alla fine, l’unica soluzione che gli venne in mente, e che prevedesse per lei il minimo sforzo, fu prenderla in braccio. Cosa che, sicuramente, Beckett non avrebbe particolarmente gradito.
Senza neanche fermarsi per chiedere alla donna se le andava bene il suo metodo di trasporto, per paura di un rifiuto, semplicemente la affiancò e le mise un braccio dietro la schiena e uno sotto le ginocchia. Quindi la sollevò prima che lei potesse protestare.
“CASTLE!!” esclamò sconvolta Kate attaccandosi, per istinto di sopravvivenza, al suo collo.
“Cosa?” chiese Rick tranquillo, con un sorrisetto stampato in faccia. Da quella posizione poteva sentire ogni curva del fianco di Beckett contro di lui, la sua morbidezza, il suo calore, il suo profumo… Dopo un attimo scosse la testa e si impose di pensare solo al mettere un piede dopo l’altro per portare la donna nella camera prima di spiacevoli… inconvenienti.
“Mettimi giù!” esclamò Beckett con lo stesso tono di un ordine mentre Rick la trasportava lentamente verso la stanza. “So camminare da sola!” Rick avrebbe voluto ridacchiare, ma aveva paura di rischiare un pugno in faccia. Sì, Kate sapeva camminare da sola, ma, tralasciando il fatto che fosse ferita, il colonnello stava notando benissimo che alla fin fine lei non si stava poi muovendo tanto tra le sue braccia. Anzi gli sembrava pure piuttosto rilassata. Ma forse era solo uno scherzo della sua immaginazione.
“Certo, ma meglio evitare di spargere sangue ovunque non ti pare?” replicò Castle, ancora divertito, entrando nella stanza di traverso per non far sbattere da nessuna parte Kate. Quindi, mentre lei ancora borbottava tra le sue braccia, si avvicinò al letto e la adagiò delicatamente sul materasso. Beckett non pesava molto ed era facilmente trasportabile, ma già in qualche modo quel peso e quel calore aggiuntivo mancavano a Rick.
Quando Kate si distese, un’altra piccola smorfia le comparve in volto. Il colonnello le spostò una ciocca di capelli dal volto e istintivamente passò la punta delle sue dita sul volto di lei. La sfiorò soltanto, seguendo leggero le curve della fronte, degli zigomi, della guancia e dell’angolo della bocca fino al mento. Beckett alzò gli occhi su di lui con sguardo quasi curioso. Alcune parole viaggiarono per la mente di Castle mentre i loro occhi erano incrociati: adorabile, bellissima, stupenda, straordinaria. Prima che potesse dirgliene anche solo una però, sentì Lanie entrare con Jenny e la Gates a seguito.
“Ti lascio in buone mani.” le sussurrò con un mezzo sorriso. ripetendole ciò che le aveva già detto quando l’aveva lasciata nella cantina. Spostare la mano dal viso di Kate, così liscio e delicato, fu un’impresa più difficile del previsto, ma ci riuscì prima che una delle altre donne nella stanza lo notasse. “Se hai bisogno, sono nel salone. Non devi fare altro che chiamarmi, ok?” Beckett lo osservò per qualche secondo senza dire nulla, quindi annuì e gli sorrise appena.
“Castle, fuori ora!” esclamò Lanie dandogli qualche colpetto sulla schiena per spingerlo via. “La tua ragazza ha bisogno di essere medicata e non posso farlo se stai qui!”
“Lei non è la mia ragazz…!” esclamò contrariato Rick, ma prima che potesse avere il tempo di concludere la frase, Lanie l’aveva già cacciato del tutto fuori, chiudendo poi a chiave la porta alle sue spalle.

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Xiao! :D
Ok sarò breve, vista l'ora imporponibile a cui sto pubblicando! XD Qualcuna di voi (una a caso che mi parla di nutellicidio) mi aveva minacciato perchè i nostri eroi non facessero una brutta fine... beh, come vedi per ora stanno più o meno bene! :D Più o meno... e la guerra mica è finita... XD
Ah comunque piccola nota storica: il bombardamento c'è stato davvero, la notte tra il 18 e il 19 novembre 1943 a Berlino da parte degli aerei inglesi... nel caso voleste qualche info in più, vi basta cercare "Battaglia aerea di Berlino"! ;)
Bho detto questo, spero vi sia piaciuto il capitolo! :) Ancora e sempre grazie mie consumenti Katia e Sofia (anche se Sniper mi sa che ha capito che stiamo fuori di testa e ci abbandona in chat... XD) <3
A mercoledì prossimo! ;)
Lanie

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Capitolo 6
*** Il bacio di Peter Pan ***


Cap.6 Il bacio di Peter Pan
 

… al momento il numero delle vittime non è stato ancora accertato, ma si contano sui quattrocento deceduti nell’arco delle poche ore in cui Berlino, Manneheim e Ludwigshafen am Rhein sono state bombardate dagli inglesi in data 18 novembre. Nonostante tutto, le autorità riferiscono che i danni materiali a costruzioni e postazioni militari sono stati minimi e rassicurano i cittadini che le difese sono state ben impiegate per abbattere complessivamente più di cinquanta aerei nemici. Inoltre assicurano che la città riprenderà a breve le sue normali abitudini e che non ci saranno altri attacchi da parte dell’Inghilterra dopo la ritirata che hanno dovuto effettuare e…
Rick spense la radio con un gesto stizzito. Quante cazzate.
“Davvero hanno abbattuto così tanti aerei?” domandò Jenny curiosa e stanca insieme.
“Come no!” replicò Ryan con uno sbuffo ironico. “Nei loro sogni!” Quindi si passò il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi il sudore e ricominciò con Castle ad attaccare alcune assi di legno al posto dei vetri del salotto, distrutti dall’attacco di due giorni prima. Erano entrambi a petto nudo e a lavoro da quasi un’ora. Avevano già completato le finestre della cucina e delle stanze del piano terra e avevano da poco iniziato quello che rimaneva della grande porta finestre del salone. Jenny era con loro che rammendava lentamente un calzino, mentre per gli Esposito avevano reputato più prudente restare nascosti finché i buchi delle finestre non fossero stati del tutto chiusi. Kate era ancora in casa Ryan ed era al sicuro insieme agli altri nella piccola stanza segreta. La Gates invece aveva preso un giorno per andare dalla sua famiglia, usando ogni precauzione necessaria per non farsi scoprire per strada.
“Hanno abbattuto in tutto una trentina di aerei tra tutte e tre le città, di cui nove a Berlino, ma ci hanno attaccato con qualche centinaio di apparecchi.” spiegò Rick tirando su una nuova asse di legno dal pavimento. “E dobbiamo ringraziare che era nuvoloso.” continuò posizionando la trave. “Altrimenti sarebbe stato peggio.”
“Quindi non è finita, vero?” domandò con un sospiro rassegnato Jenny, smettendo di cucire. Non si aspettava una risposta che conosceva già. Castle la vide, con la coda dell’occhio, passarsi una mano sulla piccola pancia ogni giorno più sporgente. Con tutto quel casino, avevano quasi dimenticato che era incinta. Ma lei ovviamente no. Il bambino doveva avere ormai quasi sei mesi.
Ryan posizionò i chiodi e iniziò a martellare con forza contro quel piccolo pezzetto di metallo, come se fosse colpa sua quella guerra. Il suo sguardo assente però, faceva ben intuire che i suoi pensieri agitati erano altrove.
“Dovreste andarvene.” dichiarò cupo Kevin rivolto alla tavola davanti a lui.
“Ne abbiamo già discusso.” replicò Jenny secca.
“Beh, forse dovremmo discuterne ancora!” commentò rabbioso Ryan. Diede una martellata talmente forte alla tavola che ci fece una crepa.
Castle si sentì di troppo in quella conversazione. Conosceva il motivo della discussione ovviamente: Kevin aveva sperato di convincere Jenny ad andarsene per un po’ dalla città, ma la moglie non aveva sentito ragioni. Voleva restare con lui. Secondo Rick la sua decisione era coraggiosa e indice di un forte legame. Secondo Kevin era pericolosa e senza senso.
“Qualunque posto ormai rischia di essere preso di mira da questi attacchi aerei.” disse Jenny con tono calmo, come a voler ammansire un animale feroce. Il suo sguardo malinconico però era puntato sulla sua lieve pancia sopra cui lasciava brevi carezze. Nell’altra mano, calzino, ago e filo giacevano abbandonati. “Inoltre dove andremmo?” domandò retorica riferendosi anche al suo bambino non ancora nato. “Non conosciamo nessuno fuori Berlino. Non ho amici, né parenti da cui rifugiarmi.” Ryan rimase in silenzio, gli occhi fissi sulla tavola davanti a lui, chiodi e martello in mano, come se stesse studiando il posto migliore in cui conficcarli per far reggere meglio l’asse di legno. Castle però vedeva chiaramente il corpo rigido del maggiore, le nocche contratte, i muscoli tesi, la mascella serrata, gli occhi pieni di rabbia e dolore. Sapeva che sua moglie aveva ragione. Mandarla via da Berlino equivaleva ad avere un futuro in bilico. Ma forse era meglio un futuro in bilico che nessun futuro.
Senza dire nulla, Kevin ricominciò a martellare con forza sul chiodo in metallo per sfogarsi.
“Ehi, ma quella finestra la vuoi aggiustare o distruggere??” Rick si voltò, senza smettere di reggere l’asse in posizione per Ryan, e vide la faccia di Esposito spuntare appena fuori dalla porta della camera segreta. “Se continui così dovrai rifare tutti gli infissi quando toglierai quelle tavole!” continuò Javier scuotendo la testa. La risposta di Kevin fu uno sbuffo scocciato, ma cominciò a martellare con meno forza di prima. “Tra l’altro, ma come le state montando??” Questa volta fu Castle a sbuffare.
“Se ti credi tanto bravo, perché non vieni a darci una mano?” ribatté Rick  con tono stanco. “Ormai tanto ci sono abbastanza travi da coprire buona parte della finestra. Con un po’ di attenzione non ti vedrà nessuno.” A quelle parole, Esposito aprì del tutto la porta della stanza e li raggiunse.
“Dammeli.” ordinò a Ryan, scuotendo la testa e allungando le mani per chiedergli martello e chiodi. Il maggiore lo guardò male per un momento, quindi gli mollò in mano gli oggetti. “Lascia.” disse poi a Castle prendendogli l’asse in legno dalle mani. Javier studiò per qualche secondo il telaio della finestra, quindi, senza alcuna esitazione, posizionò la trave nell’esatto posto in cui avrebbe dovuto stare e, con quattro chiodi, in pochi minuti la sistemò. Colonnello e maggiore lo guardarono a occhi sgranati. Loro per sistemare una singola tavola ci avevano impiegato ben più di un paio di minuti. Esposito dovette notare le loro espressioni perché, mentre tirava su un’altra asse, commentò divertito: “Ho fatto il carpentiere nel mio paese da ragazzo.”
“E non potevi dircelo prima??” domandò seccato Castle, asciugandosi intanto del sudore residuo dalla fronte. “A quest’ora avremmo già finito tutte le stanze della casa da un pezzo!”
“Mi avete detto voi di restare nascosto.” rispose ovvio l’altro, iniziando a picchiare il martello sul primo chiodo.
“E perderci voi in queste condizioni?” commentò una voce femminile divertita da dietro le loro spalle. Una voce che il colonnello aveva imparato a riconoscere in pochissimo tempo. Rick si girò di scatto e infatti si ritrovò davanti Beckett insieme a Lanie e Leandro. Non appena fu completamente girato verso di loro, Castle notò lo sguardo di Kate cadere subito verso il suo torace nudo e sudato. La vide mordersi il labbro inferiore mentre un lieve sorrisetto le si formava quasi involontario in volto.
“Beh, in effetti è un bel vedere…” aggiunse Jenny ridacchiando leggermente, gli occhi puntati però sul corpo seminudo del marito. Lanie fece un mugugno di approvazione mentre passava in rassegna gli uomini per poi bloccarsi con insistenza sul fondoschiena del marito a lavoro.
“Ragazze, se volevate uno spogliarello non avevate che da chiederlo!” esclamò Rick allegro. Osservare Kate così concentrata su di lui l’aveva improvvisamente rinvigorito, ogni traccia di stanchezza scomparsa. Con finta noncuranza, cercò di mettersi il più dritto possibile, così che lei vedesse per bene il suo fisico. Un pensiero improvviso passò per la mente di Castle: si sentiva un pavone. Un pavone che cerca di attirare l’attenzione della femmina con la sua ruota grande e colorata. Nel suo caso, con il suo torace ampio e ben formato.
“Mamma, cos’è uno spogliarello?” chiese Leandro ingenuamente. Lanie lanciò un’occhiata omicida a Castle e tutto il suo petto gonfio sparì in un momento. Anzi si rannicchiò anche un po’ con la testa tra le spalle e deglutì. Kate si stava mordendo di nuovo il labbro inferiore, ma stavolta per evitare di scoppiare a ridere. Jenny aveva serrato le labbra, ma gli angoli della sua bocca stavano salendo inesorabilmente all’insù. Perfino Ryan, nonostante il malumore di prima, ora sorrideva divertito. Le uniche parole di ‘conforto’ di Esposito, che non si era nemmeno girato e continuava ad coprire la finestra con le assi in legno, furono: “Amico, sei nei guai.”
“Una cosa da adulti, tesoro.” rispose Lanie al bambino dolcemente. “Uhm, aspetta che devo dire una cosa a zio Rick…” Quindi mise le mani a coppa sulle orecchie del piccolo, per non farlo sentire, e rivolse uno sguardo truce a Castle. “Insegna ancora a mio figlio certe cose e ti giuro che farò un’autopsia al tuo corpo ancora in vita!” lo minacciò in un sussurrò. Rick annuì subito, preoccupato di una possibile ritorsione della signora Esposito. Lanie quindi gli rivolse un sorriso minaccioso e tolse le mani dalle orecchie del figlio. “Kate, ti conviene sederti.” disse poi tornando a un tono tranquillo come se nulla fosse. “I punti al fianco sono pochi, ma per qualche giorno ti conviene non sforzarli troppo.” Beckett annuì e andò a sedersi, con attenzione, su una sedia del salone accanto a Jenny. La signora Ryan le fece posto, togliendo da accanto a sé la scatola del cucito e abbandonandola dietro di lei sul tavolo da pranzo insieme al calzino da finire e ad ago e filo. Rick si rese conto di aver visto anche il giorno prima quella scatola. Era la stessa da cui avevano recuperato uno degli aghi con cui Lanie aveva ricucito Kate al fianco.
“Jenny, posso chiederti una cosa?” disse Beckett, mentre anche Lanie prendeva posto accanto a loro con Leandro in braccio. “Non vorrei sembrare indiscreta, ma di quanti mesi è?” domandò indicandole la piccola pancia. Jenny sorrise radiosa, come ogni volta che si parlava del suo nascituro.
“Non c’è problema, Kate.” rispose divertita per il tono timido di quella domanda. “La prossima settimana sono sei mesi.” dichiarò quindi, mentre il suo sguardo si girava automaticamente in cerca di quello del marito. Ryan le fece un sorriso dolce, anche se i suoi occhi avevano ancora quella sfumatura malinconica di chi ha paura per la sorte dei propri cari.
“Ehi, non è giusto!” esclamò all’improvviso Rick con tono offeso rivolto a Beckett. Tutti si voltarono a guardarlo perplessi, perfino Javier, che aveva un’altra tavola in mano pronta per essere posizionata. “Perché loro ti possono chiamare Kate e io no??” domandò con un broncio degno di un bambino, le braccia incrociate davanti al petto. Tutti scoppiarono a ridere, come se qualcuno all’improvviso avesse ricordato loro che, nonostante ci fosse una guerra là fuori, ci sarebbero stati ancora momenti per scherzare e divertirsi insieme. Il colonnello non riuscì a nascondere un sorrisetto compiaciuto per quella ventata di aria fresca che aveva spazzato via un po’ di tensione tra di loro.
“Castle,” gli rispose Kate quando finalmente finì di ridacchiare. “Che io sappia, tu non mi hai ricucito…” disse indicando Lanie. “Né prestato degli abiti.” continuò indicando stavolta Jenny.
“Se me li avessi chiesti, te li avrei dati!” replicò Rick tornando al suo finto tono offeso. Per fare ancora più scena, voltò la testa di lato e alzò il mento al massimo che poté, gli occhi chiusi a indicare tutta la sua indignazione. Leandro scoppiò a ridere divertito alla vista dello zio in quell’atteggiamento così strano.
Beckett scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, mentre gli altri ridacchiavano. Quindi, con la coda dell’occhio, Rick la vide mordersi all’improvviso il labbro inferiore.
“E se ti dessi un bacio per farmi perdonare?” domandò poi Kate quasi con noncuranza. Castle sgranò gli occhi e si voltò immediatamente verso di lei, la bocca semiaperta.
“Co… cosa??” chiese in risposta, confuso e sbalordito. Non poteva credere che Beckett, la dura e forte Kate Beckett, gli dicesse una cosa del genere!
Come lui, tutti la guardarono, ma curiosi e divertiti.
“Ho detto che se vuoi posso darti un bacio per farmi perdonare di non aver chiesto a te ciò che mi serviva.” rispose Kate tranquilla. “Anche se in realtà non avresti potuto darmi nulla di quello che mi occorreva…” aggiunse un momento dopo ridacchiando.
“Dettagli.” tagliò corto Rick con un gesto stizzito della mano, come a voler cacciare quel pensiero. Poi prese coraggio e si avvicinò lentamente a lei di qualche passo, come aspettandosi una trappola o qualcosa di simile. “Quindi…” commentò con la gola all’improvviso secca. “Mi darai un bacio?”
“Se ti avvicini, certo.” rispose lei con un sorriso divertito, vedendo la sua agitazione, ed eccitazione, per quella richiesta. Rick prese un respiro profondo e coprì gli ultimi metri per arrivare esattamente davanti a Beckett. Essendo lei seduta e lui in piedi, si chinò in avanti, poggiando le mani sulla sedia ai lati delle sue cosce. Per un momento ci fu un silenzio assoluto. Era scomparso perfino il costante martellare di Esposito.
“Allora…?” domandò Rick piano, con il viso a solo una decina di centimetri da quello della donna. Godette nel vederla arrossire e fremere davanti a lui per quella vicinanza. Inoltre era ancora a torso nudo, il che in quel caso pareva proprio dargli un vantaggio su di lei. Poi Kate abbassò gli occhi. Castle pensò fosse per timidezza, così attese con pazienza che lei lo guardasse di nuovo. Quando lo fece, proprio i suoi occhi gli fecero perdere un battito. Un raggio di sole, sfuggito alle tavole della finestra, cadeva proprio su di essi, consentendo a Rick di vedere come il verde dell’iride intorno alla sua pupilla sfumasse in un nocciola chiaro.
Iniziò ad avvicinarsi lentamente ancora di più al viso di lei. Quando mancò non più di qualche centimetro, chiuse gli occhi. Ma invece delle labbra di lei, si ritrovò un pezzo di metallo freddo sulla bocca.
Castle spalancò gli occhi di colpo, confuso, e si allontanò il minimo da lei per mettere a fuoco l’oggetto che Kate teneva sulla punta del dito indice di fronte a lui. Un ditale.
“Mai letto Peter Pan?” domandò lei divertita, anche se un po’ rossa in viso. “Mi sembrava perfetto per un bambinone come te.” concluse con un sorriso, mordendosi insieme il labbro inferiore. Quel piccolo oggettino argentato luccicò lievemente, a causa della luce, tra le sue mani. Dopo un iniziale momento di smarrimento, Rick capì lo scherzo di Beckett. Il ditale, ovvero il bacio secondo Peter Pan. Doveva averlo preso dalla scatola del cucito dietro di lei. Probabilmente l’aveva visto e recuperato mentre lui faceva il finto indignato con gli occhi chiusi e il mento in alto.
Castle si rimise in piedi e la guardò offeso mentre lei si rigirava il ditale tra le dita e gli altri scoppiavano di nuovo a ridere.
“Zio Rick, cos’è Peter Pan?” domandò Leandro con le sopracciglia aggrottate. Il colonnello lo prese in braccio dalla madre e rivolse un’ultima occhiataccia a Kate.
“Andiamo, Leo, te lo racconto.” gli disse, iniziando a dirigersi verso il divano dall’altra parte della sala. “Tanto qui non fanno altro che prendermi in giro!” aggiunse poi con un ulteriore broncio per far ridere Leandro. Un po’ però ci era rimasto davvero male. Per un momento aveva sperato che sul serio Kate lo baciasse. Ma ovviamente era stato tutto un sogno.
“Ehi, Rick!” lo fermò Ryan mentre gli passava accanto con in braccio il piccolo. La voce gli uscì un po’ soffocata perché si stava infilando una maglietta. Per la fretta e la stanchezza però, non si era accorto che stava cercando di far passare la testa da una manica. Il colonnello scambiò uno sguardo divertito con il bambino ed entrambi ridacchiarono silenziosamente, complici, mentre osservavano il maggiore districarsi faticosamente dall’indumento. “Uff, c’è un motivo se preferisco le camicie…” borbottò Kevin quando finalmente ebbe concluso la faticosa vestizione. “Dicevo,” dichiarò poi rivolto di nuovo a Castle in tono serio. “Dopo dovremmo discutere di Kate.” Rick aggrottò le sopracciglia.
“Discutere di Kate?” ripeté confuso.
“Non può stare qui.” continuò Ryan a bassa voce. Castle lanciò un’occhiata preoccupata verso le tre donne, ma per fortuna avevano iniziato a parlare tranquillamente del più e del meno, quindi non avevano sentito le parole del maggiore. “Sai che la terremmo volentieri, ma con gli Esposito e la Gates stavolta siamo al completo. E vorrei evitare che dormisse di nuovo sul divano…”
“Dove potrebbe andare allora??” domandò contrariato Rick, sempre a bassa voce. “Il Fidel è distrutto e Alwara ed Edzard sono morti…” aggiunse con una fitta al petto per gli amici perduti. “Non ci sono altri posti che conosciamo sicuri e che potrebbero ospitarla!”
“Perché non la fai stare da te?” chiese Ryan. Castle lo guardò sorpreso. Aprì la bocca per replicare, ma poi si fermò, pensieroso. In effetti non era un’idea completamente da scartare. C’erano pro e contro. A differenza di Kevin, lui non aveva una stanza segreta in casa quindi Beckett sarebbe stata sempre allo scoperto. Inoltre lui era spesso fuori, il che avrebbe significato lasciarla sola per molto tempo. Però Ryan aveva ragione. Casa sua era grande e Kate avrebbe potuto dormire su un comodo letto, visto che aveva una camera in più utilizzata raramente solo dalla madre. Inoltre sarebbe stata relativamente al sicuro, poiché era l’abitazione di un colonnello. Nessuno sarebbe venuto a effettuare dei controlli lì.
“Ne parliamo dopo, ok?” rispose Rick stancamente, passandosi una mano tra i capelli. Quindi tornò a guardare il bambino attaccato attorno al suo collo e sorrise. “Prima c’è una storia che devo raccontare.”
 
Rick era semi-sdraiato comodamente sul divano, finalmente rilassato e in dormiveglia, gli occhi chiusi, quando un panno gli arrivò all’improvviso in faccia, facendogli prendere un infarto.
“Ehi!!” esclamò indignato, scuotendo la testa. Mise a fuoco la cosa che l’aveva colpito e capì che era una sua maglietta a mezze maniche bianca che usava di emergenza quando dormiva a casa di Ryan.
“Me l’ha data Jenny. Mettitela.” Castle alzò gli occhi e si trovò davanti una divertita Kate Beckett. “Nonostante tutto siamo a Novembre inoltrato e non dovresti stare senza niente addosso!” Il colonnello si guardò il petto nudo, confuso. Aveva dimenticato che erano ore che girava con solo i pantaloni e le scarpe indosso. Non aveva sentito freddo fino a quel momento, ma ora che lei glielo aveva fatto notare, un leggero brivido gli passò lungo il corpo. Rialzando gli occhi, vide Kate mordersi il labbro inferiore mentre indugiava con lo sguardo sul suo fisico per metà scoperto.
“Pensavo ti piacesse la vista.” replicò lui divertito, mettendosi seduto e infilandosi velocemente la maglia.
“Mai detto il contrario.” ribatté lei con un sorrisetto malizioso, sedendosi intanto dalla parte opposta del divano rispetto a lui. “Ma, ripeto, siamo in Novembre e non mi sembra proprio il momento di ammalarsi.”
“Io non mi ammalo mai.” commentò Rick in un mugugno ancora mezzo assonnato mentre si passava le mani sulla faccia per svegliarsi completamente.
“Beh, allora è il caso di non farla diventare la prima volta.” replicò lei scuotendo la testa esasperata, ma sempre con un lieve sorriso sulle labbra. Castle non rispose. Si stiracchiò e sbadigliò sonoramente.  L’ultima volta che aveva dormito decentemente era stato almeno tre giorni prima. La notte dell’attacco infatti aveva dormito sul pavimento di casa Ryan, mentre in quella passata, nonostante fosse tornato al suo appartamento fortunatamente integro, non era riuscito a chiudere occhio con la paura che potessero esserci nuovi attacchi. Quel mattino poi si era presentato molto presto da Kevin, sia per aiutarlo nei lavori di sistemazione della casa, sia per vedere Kate e per rassicurare sé stesso che nulla era cambiato nelle poche ore in cui era stato via. Lui e Ryan si erano presi la giornata dall’esercito, con il solo obbligo di tornare in centrale in caso di nuovi bombardamenti. “Sai, sei stato davvero bravo prima.” disse Beckett di punto in bianco dopo qualche secondo di silenzio. Rick aggrottò le sopracciglia confuso. “Con Leandro.” si spiegò lei con un sorriso dolce. “Insomma, mai sentita una storia di Peter Pan raccontata in modo così… particolare, ecco.” concluse divertita. Castle ridacchiò. In effetti ci aveva messo del suo per arricchire il racconto. Ad esempio a un certo punto aveva fatto diventare i bimbi sperduti un manipolo di spie super addestrate che andavano a sorvegliare Capitan Uncino e i suoi sgherri. E il coccodrillo, subito dopo aver mangiato il capitano in un solo boccone, era diventato inspiegabilmente un ninja che lottava all’ultimo sangue con Peter Pan per l’uncino perso sul campo da Uncino perché era la chiave per il suo tesoro nascosto. “Sei bravo a raccontare storie.”
“Pensavi che un colonnello non avesse fantasia?” domandò Rick divertito. Kate alzò le spalle, ma un sorriso era ben evidente sul suo volto.
“Non ho detto questo.” rispose Beckett. “Solo non mi aspettavo che un soldato non solo conoscesse Peter Pan, ma lo sapesse anche arricchire con nuovi e fantasiosi dettagli.”
“E non hai idea di quanto possa essere fantasioso con una donna…” replicò Castle, con un ghigno furbo e uno sguardo voglioso lungo tutto il corpo di Kate, che lasciava intendere molto di più di quello non detto. Beckett si morse il labbro inferiore con un sorrisetto, dando anche lei un veloce sguardo al corpo del colonnello, spiazzandolo. Non credeva che sarebbe stata così al gioco, ma evidentemente non la conosceva ancora abbastanza.
“Magari un’altra volta.” commentò lei con voce bassa e sensuale, facendo sgranare gli occhi a Castle e lasciandolo sbalordito. Deglutì a vuoto. Kate ridacchiò e scosse la testa nel vedere la sua faccia da tonno lesso. “Comunque,” disse poi tornando a un tono di voce normale, per il sollievo del povero cuore del colonnello. “Dicevo sul serio, sei stato davvero dolce con Leandro.” Rick le fece un mezzo sorriso e voltò la testa verso la porta della cucina dove sapeva ci fossero sia il piccolo che i Ryan. Javier e Lanie erano misteriosamente spariti venti minuti prima nella loro camera segreta, approfittando del fatto che il figlio fosse controllato dagli altri.
“Non resterà bambino per sempre.” mormorò il colonnello malinconico. “Inoltre sta già subendo una guerra che non ha chiesto e che lo costringe a starsene rinchiuso in una stanza buia per sopravvivere invece che vivere all’aria aperta. Non è mio figlio, lo so,” aggiunse, quasi a scusarsi, con un’alzata di spalle e spostando lo sguardo verso il pavimento. “E non lo conosco neppure da molto, ma mi sono affezionato. Quando mi ha chiamato ‘zio’ la prima volta è stato… non lo so... qualcosa di fantastico.” disse con un sorriso dolce sulla labbra e lo sguardo perso a quel ricordo. Poi però il sorriso si spense e sospirò, passandosi una mano tra i capelli. “Vorrei solo che, nonostante tutto, vivesse il più possibile da bambino. Ho visto troppi ragazzini della sua età già adulti per colpa della guerra. Non voglio che lui faccia la stessa fine, se mi è possibile impedirlo.” Aveva ancora la testa a quei pensieri, quando a un certo punto sentì qualcosa di caldo sul dorso della sua mano. Spostò lo sguardo e vide la mano di Kate stringersi sulla sua. Quando alzò gli occhi su di lei, si accorse che lo guardava con un misto di dolcezza e malinconia.
“E tu quando sei cresciuto?” sussurrò lei con un piccolo sorriso senza però essere ironica. Rick fece una mezza risata sarcastica.
“Io l’ho fatto troppo tardi.” rispose solo, duro, con lo sguardo corrucciato di nuovo rivolto verso la cucina senza in realtà vederla. Beckett non disse nulla, aspettando forse una spiegazione che Castle non era pronto a dare o forse solo attendendo con lui che quell’umore scuro passasse. Qualche secondo dopo infatti, Rick sbatté le palpebre, come se fosse appena uscito da un sogno, e scosse la testa. “Scusami.” disse alla donna con un mezzo sorriso.
“E di cosa?” domandò lei retorica stringendo appena la presa sulla sua mano, sollevata dal fatto che fosse tornato con lei e non disperso in qualche ricordo lontano.
“A proposito,” disse Castle ricordandosi all’improvviso della conversazione avuta poco più di un’ora prima con Ryan. “Devo chiederti una cosa.” Cercò un modo per dirle del problema della casa, ma tutto ciò che venne fuori fu: “Ti… ti andrebbe di venire al mio appartamento?” Kate spostò la mano dalla sua, con grande rammarico del colonnello, e alzò un sopracciglio.
“Se è per mostrarmi cosa sai fare con le donne,” rispose Beckett con tono secco, ma insieme divertito. “Non ho mai detto di volerlo sapere ora.” Rick sgranò gli occhi e scosse la testa con forza in segno di diniego.
“No, no, non hai capito!!” esclamò subito portando le mani avanti come a volerla bloccare fisicamente nel suo pensiero. “Intendevo che qui non puoi stare.” le spiegò velocemente. “Kevin ha la casa piena. Gli Esposito e la Gates occupano tutte le stanze disponibili e tu non puoi dormire ancora sul divano, soprattutto con quella ferita.” disse indicandole il fianco. Lei si portò automaticamente la mano nel punto leso, come a voler confermare le sue parole. “Il Fidel è distrutto e non mi fido a mandarti dove non sono certo che sarai al sicuro…” A quelle parole Kate lo guardò sorpresa, ma lui tirò dritto con il suo discorso. “Quindi ecco la mia proposta: vieni a casa mia.” Beckett socchiuse gli occhi e lo guardò pensosa. Capiva le sue motivazioni. “E’ grande.” continuò Rick. “E avrai una stanza tutta per te. E giuro che non ci entrerò se non me lo permetterai espressamente.”
“Anche perché dormo con un coltello sotto il cuscino…” borbottò lei pensierosa. Il colonnello la guardò sconcertato.
“Tu… cosa??” domandò con la bocca semiaperta dallo stupore e le sopracciglia aggrottate. Ma lei non ci fece neanche caso. La rughetta d’espressione che aveva in mezzo alla fronte indicava chiaramente che stava riflettendo su tutti i pro e i contro di quella proposta.
“Mettiamo il caso che decida di accettare questa tua… offerta.” rispose finalmente Kate cautamente dopo qualche secondo di silenzio. “Avrei delle condizioni.” Castle la guardò con un sopracciglio alzato. Sapeva benissimo che quella che le stava proponendo era la sua unica alternativa, quindi cosa stava per chiedergli?
“Sentiamole.” replicò il colonnello, preparandosi alle richieste più assurde. Stava già domandandosi se per caso non gli avrebbe imposto un pony o un intero armadio di abiti, quando Beckett parlò.
“Tu riprenderai a cercare mia madre.” disse. “E io lo farò con te.”
“Questo è escluso.” ribatté Castle deciso, scuotendo la testa. Kate stava già per replicare, ma la precedette. “Ti ho detto che troverò informazioni su tua madre e lo farò. Ma non ti porterò con me.” Già rimpiangeva che non gli avesse chiesto un pony. Ma lo faceva per lei. Non era solo il fatto che in realtà sapesse esattamente dove fosse Johanna. Non poteva rischiare di perderla e il solo fatto che parlasse male il tedesco la rendeva estremamente vulnerabile.
“Perché no??” esclamò lei di rimando, alzando la voce per la rabbia, i pugni serrati sui fianchi. “E’ mia madre!!”
“Non rischierò la tua sicurezza e la tua vita. Punto.” replicò Rick con tono calmo, ma fermo. Su questo non si sarebbe mosso di un millimetro nella sua decisione. “Puoi chiedermi qualsiasi cosa, Kate.” disse poi passando a un tono più dolce e appena implorante. Quel cambio di registro stupì tanto la donna che non lo riprese nemmeno per averla chiamata con il suo nome invece che Beckett. “Davvero. Qualsiasi. Ma non chiedermi di portarti a rischiare la vita. Ti prego.” Stavolta non c’era nessun broncio o smorfia sulla faccia del colonnello. Solo una maschera seria e un paio di occhi blu che la supplicavano di ripensare a quella richiesta. Kate rimase in bilico per qualche secondo, boccheggiante, incerta se dargli vinta almeno quella battaglia o combattere ancora. Alla fine dovette decidere, perché rilassò le spalle e sospirò.
“D’accordo.” rispose piano, senza guardarlo.
“Grazie…” mormorò sollevato Rick. “Altre richieste?” chiese poi più tranquillo. Beckett ci pensò su per un momento.
“Sarò libera di girare come voglio in casa tua?” domandò curiosa, mordendosi appena il labbro inferiore.
“Ovvio, Beckett.” rispose Castle divertito. “Mica sei mia prigioniera! O se intendevi se puoi girare con qualsiasi tipo di indumento, o meglio ancora senza nessun vestito, vorrei avvertirti che io non ho problemi perché sono molto libero di pensiero e…”
“Idiota.” lo bloccò lei con un mezzo sorriso, scuotendo la testa. Rick ridacchiò e attese la prossima richiesta. “Potrò uscire?” domandò quindi Kate, nervosa. Il colonnello sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“Suppongo di non potertelo impedire.” replicò stancamente. “Come dicevo, non sei mia prigioniera. Anche perché spesso dovrò andare in centrale quindi sarai sola.  In ogni caso preferirei che non ti facessi vedere troppo in giro. Insomma, alla fine nessuno sa chi sei e un’estranea che entra ed esce dalla casa di un colonnello porta a parecchia curiosità…”
“Va bene, va bene.” borbottò lei irritata. “Nel caso, cercherò di farmi notare il meno possibile.” Rick sorrise. “Potremo vedere ancora gli altri?” chiese poi indicando con un cenno della testa la cucina dove stavano Jenny, Kevin e Leandro.
“Certamente!” rispose Castle, felice di constatare che Kate avesse fatto amicizia così presto con la sua ‘famiglia’. “C’è altro?” chiese alla fine.
“Per ora no.” replicò Beckett. “Anzi aspetta! Un’ultima cosa che voglio sia ben chiara…” aggiunse lanciandogli un’occhiataccia. “Non ti farò da serva.” Rick ridacchiò.
“Tranquilla, quello non mi è mai passato per la mente.” la rassicurò il colonnello divertito. Con una donna come Kate, era molto più probabile che sarebbe stato lui quello a dover fare da servo. “Allora,” disse qualche secondo dopo, sorridendo e allungandole una mano. “Andata?” domandò. Kate lo osservò ancora un po’ titubante, ma alla fine annuì e gli strinse la mano.
“Andata.”

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Xiao!! :D
Lo so, questo capitolo è più corto, ma premetto già che il prossimo sarà più lungo! XD Questo era un po' più di passaggio diciamo... (sì poi ho finito con i capitoli di passaggio! XD) Anyway spero vi sia piaciuto lo stesso! :) Spero che solo che a occhio e croce conosciate Peter Pan... XD (per chi se lo fosse chiesto, sì il libro era già uscito all'epoca della seconda guerra mondiale)
Ancora grazie alle due tapine consulenti Katia e Sofia che mi sopportano nelle mie mille domande idiote! XD
A mercoledì prossimo! ;D
Lanie
ps: piccolo dettaglio tecnico: da brava (?) studentessa universitaria sono in piena sessione d'esame quindi non ho molto tempo per scrivere purtroppo... per farla breve, quando ho iniziato a pubblicare questa storia ero 4 cap avanti proprio sfruttare il poco tempo negli esami e invece ora devo ancora finire di scrivere il prossimo capitolo... Insomma il prossimo sarà "puntuale" mercoledì prossimo, ma quelli a seguire non so bene dirvi purtroppo... Spero portiate pazienza con me! :(
A presto! <3

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Capitolo 7
*** Sordi per non sentire e muti per non chiedere ***


Cap.7 Sordi per non sentire e muti per non chiedere
 

“Beh, uhm… eccoci arrivati!” esclamò Castle nervoso non appena ebbe aperto la porta del suo appartamento. “Benvenuta a casa mia!” continuò con un sorrisetto agitato, mentre si spostava per far entrare Beckett nel piccolo corridoio d’ingresso. Rick aveva atteso che fosse quasi sera per portare Kate al suo appartamento. In quel modo avevano anticipato il coprifuoco e allo stesso tempo avevano minimizzato la possibilità di essere troppo visibili grazie al calare delle tenebre. Con loro avevano solo una sacca scura un po’ ampia in cui Jenny aveva infilato alcuni suoi vestiti che al momento non utilizzava, a causa della pancia crescente, per Beckett, in modo che potesse avere un cambio visto che i suoi abiti erano scomparsi sotto le macerie del Fidel. Uno dei giorni a venire la signora Ryan aveva poi promesso di portare Kate a comprare qualche abito, nonostante le proteste di Castle. Lui voleva nasconderla e Jenny la portava a fare shopping! Certo, il colonnello non poteva negare che in effetti qualcosa la donna avrebbe dovuto pur mettere. Ma, come aveva già detto scherzosamente a Beckett in precedenza, non gli sarebbe poi dispiaciuto troppo se anche non avesse avuto nulla da infilarsi… E poi alla fin fine lui qualche vestito avrebbe potuto pure prestarglielo in caso di emergenza.
“Dammi pure.” disse Rick prendendole gentilmente il cappotto dalle spalle per andarlo ad appendere all’attaccapanni insieme al suo. Kate gli fece un piccolo sorriso di ringraziamento e poi iniziò a guardarsi intorno curiosa, senza comunque muoversi dall’ingresso. Ora che erano soli, e nel suo appartamento, Castle si sentiva un po’ imbarazzato e agitato. “Ehm... vieni ti mostro la casa.” dichiarò dopo qualche secondo di silenzio. Le indicò la strada e la precedette nel corridoio. Le mostrò la cucina, il salone, la cantina da utilizzare in caso di emergenza e il piccolo giardinetto che, come Kevin, aveva anche lui sul retro della palazzina. Come struttura era molto simile alla casa di Ryan, solo in formato un po’ più grande, quindi Rick non aveva paura che Kate vi si perdesse all’interno.
La cosa più bella, quella che fece fare un balzo al cuore di Castle, fu vedere gli occhi di Beckett accendersi davanti alla sua stanzetta segreta dei libri. La donna si voltò più e più volte in quel piccolo spazio tra le due poltrone presenti, come se non lo credesse reale. Dopo la sorpresa subentrò la felicità. Con un sorriso enorme in volto, fece zigzagare lo sguardo verso tutti i titoli davanti a lei, come se volesse assimilarli a colpo d’occhio in una volta sola. Sembrava una bambina in un reparto giocattoli. A un tratto Rick la vide fermarsi di botto e avvicinarsi a uno degli scaffali con gli occhi socchiusi. Poi un altro sorriso le si aprì in viso e si voltò verso di lui ridacchiando e indicando un titolo.
Peter Pan!” esclamò solo, divertita. Rick scosse la testa con un mezzo sorriso e si passò una mano sul collo, un po’ imbarazzato per chissà quale motivo.
“Dai, ti faccio vedere le stanze e dove dormirai.” dichiarò il colonnello. “Così dopo ti puoi mettere a tuo agio mentre io preparo qualcosa da mangiare.”
“Aspetta…” lo bloccò Kate sorpresa uscendo dalla stanzetta. “Tu sai cucinare??” Castle ghignò.
“Ci sono un sacco di cose che ancora non sai di me, Beckett…” rispose divertito e malizioso insieme. La donna alzò gli occhi al cielo e lo precedette verso le ultime tre porte del piano terra che non avevano ancora visitato. La prima era uno stretto sgabuzzino senza finestre con dentro tutti i generi di attrezzi possibili per riparazioni, come chiodi, cacciaviti e martelli, e per la pulizia della casa. La seconda era un bagno piuttosto ampio con un’enorme vasca da bagno che lasciò stupita Kate. “Beh, se devo rilassarmi, lo faccio per bene!” esclamò Rick, come se fosse una cosa ovvia, quando vide gli occhi di lei sgranati e la sua bocca semiaperta. “Certo, sono disposto anche a condividerla, se per caso tu avessi intenzione di…”
“Andiamo, Castle!” lo bloccò lei esasperata, ma anche divertita, uscendo dalla porta senza neppure degnarlo di un’occhiata. Il colonnello la seguì ghignando e alla fine la condusse davanti all’ultima porta rimasta da vedere al piano terra. Prima di aprirla però, Rick si fermò per un momento con la mano sulla maniglia, prendendo un respiro profondo. Kate lo squadrò curiosa, aspettando che lui le rivelasse il contenuto della stanza.
“Questa è la mia camera.” disse alla fine Castle con un mezzo sorriso imbarazzato. Non aveva idea del perché si sentisse così agitato tutto all’improvviso. Forse aveva paura che lei lo giudicasse in qualche modo. Non che la camera fosse in disordine, tutt’altro, ma era molto… nuda. Spoglia. Come d’altronde il resto dell’appartamento.
Alle sue parole, Kate aggrottò le sopracciglia, forse più per il loro tono all’improvviso insicuro che per altro. Dopo qualche momento Rick si decise e le aprì la porta. Beckett fece qualche passo all’interno e si guardò intorno curiosa, anche se Castle vide che stava cercando di non sembrarlo troppo. Evidentemente le sembrava di violare in qualche modo la sua privacy. Ma alla fine, visto quel poco che c’era all’interno, avrebbe potuto invadere la sua intimità solo guardando dentro il cassetto delle sue mutande e anche in quel caso forse non ne sarebbe rimasto infastidito.
La camera del colonnello era grande e luminosa, a causa dell’ampia finestra sul lato. Un enorme letto matrimoniale era posizionato al centro della stanza e davanti a esso c’era un armadio in legno scuro che copriva tutta la parete. Un lungo specchio era posizionato in un angolo e l’unico altro ornamento alla camera era il comodino a tre cassetti da entrambi i lati del letto con annesse lampade da lettura. C’era solo una fotografia sul comodino e ritraeva Rick e sua madre.
Castle si sentì a disagio per quella camera che sembrava più appropriata per un albergo che per un’abitazione. Si passò una mano sul collo e iniziò a muovere il peso da un piede all’altro, attendendo una qualsiasi parola di Beckett.
“Beh,” commentò lei alla fine adocchiando il letto. “Vedo che anche quando dormi lo fai per bene.” Rick rilasciò il fiato, che non si era accorto di trattenere, e ridacchiò.
“Già.” replicò divertito. “Anche quello ha una prova gratuita, se vuoi per caso…” Prima che completasse la frase, Kate si voltò verso di lui e gli lanciò un’occhiataccia. “Ok, non fa nulla.” concluse Castle con un mezzo sbuffo. “Ma non sai che ti perdi…” sussurrò un attimo dopo quando Beckett gli passò davanti per uscire dalla camera.
“Ti ricordi che ti ho detto che dormo con un coltello, vero?” chiese lei ironica.
“Se credi che ti darò un coltello, ti sbagli.” dichiarò Rick con un sopracciglio alzato mentre si avviavano verso le scale per il secondo piano. “E dato che tutta la tua roba è andata persa al Fidel, come credi di…”
“Chi ha mai detto che tenevo il coltello nella borsa?” commentò lei con tono noncurante, ma con insieme un sorrisetto stampato in faccia.
“Aspetta…” si bloccò Castle all’improvviso in mezzo alle scale, cogliendo solo in quel momento il significato delle sue parole. “Hai il coltello addosso??” domandò lui a bocca aperta. Beckett, essendo qualche gradino più su, si girò a guardarlo. Vedendo la sua faccia stupefatta, ridacchiò divertita. “Mostramelo!” esclamò Rick con un tono che era una via di mezzo tra un ordine e un’implorazione. Kate si morse il labbro inferiore e osservò per un momento da sotto in su il povero colonnello con il cuore in gola. Quindi gli sorrise maliziosa e continuò a salire i gradini per il piano superiore come se nulla fosse. “Beckett!!” la chiamò Rick con tono lamentoso.
“Fammi vedere la mia camera, Castle!” rispose lei con un chiaro tono di divertimento nella voce. Rick salì gli ultimi gradini per il piano superiore, borbottando che prima o poi avrebbe scoperto dove cavolo nascondeva quel coltello. Trovò Kate che lo stava aspettando in mezzo al piccolo corridoio con le braccia incrociate e un sorriso in volto. Il colonnello si trattenne a malapena dal farle una linguaccia e si limitò a lanciare un’occhiata storta. Quindi le indicò la porta sulla sinistra.
“Questa è la tua camera.” disse aprendole la porta e lasciando che fosse lei a entrare per prima. Come per la sua stanza, pure lì Kate si guardò intorno timida, ma curiosa. Anche quella camera aveva un letto matrimoniale al centro e un armadio che copriva uno dei muri, ma era più piccola rispetto a quella di Castle. Inoltre c’era, a differenza dell’altra, una lunga cassettiera con sopra uno specchio altrettanto lungo. “Non ricevo molte visite e di solito questa camera la usa mia madre quando viene a trovarmi.” spiegò Rick. “Nell’armadio e nei cassetti infatti ci sono un po’ dei suoi vestiti, ma occupano solo piccole parti, c’è abbastanza spazio anche per i tuoi, tranquilla.” la rassicurò il colonnello un po’ imbarazzato. “E se non c’è spazio, buttali pure fuori.” Lei si voltò a guardarlo con un sopracciglio alzato.
“Ma sono i vestiti di tua madre!” lo rimproverò lei. “Io non li tocco. Se dici che c’è spazio, allora va bene. In fondo non occupo molto posto…” A quelle parole, Rick si trovò a pensare, senza volerlo, che non gli sarebbe per niente dispiaciuto se lei avesse occupato anche tutta la casa. Si trattenne però dal dirlo e scosse la testa per tornare a prestare attenzione alla donna.
“L’altra porta nel corridoio è il bagno.” la informò Castle, indicandole la porta visibile dalla stanza. “Fai pure come se fossi a casa tua.” disse quindi con un sorriso. “Mettiti comoda e tutto. Io vado a prenderti la borsa e poi preparo qualcosa.”
“Posso portare anche io la mia borsa di sopra…” iniziò Kate con tono semi-scocciato, cercando di passargli davanti per tornare di sotto e fare quello che aveva appena detto. Rick però la fermò piazzandosi davanti alla porta aperta.
“Vado io.” ripeté con tono paziente. “Hai sentito Lanie, vero? Niente sforzi per qualche giorno o rischi di far riaprire i punti.” Beckett sbuffò e incrociò le braccia al petto, prima di andare a sedersi sul letto con chiaro atteggiamento contrariato. Rick ridacchiò e uscì per tornare al piano di sotto a recuperare il borsone. Era davvero una paziente difficile quella donna. Chissà che avrebbe dovuto inventarsi per farla stare buona se fosse stato qualcosa di più grave. Sperò comunque di non doverlo mai scoprire.
 
“Beckett!” la chiamò Castle dalla cucina, dove aveva appena terminato di preparare un po’ di carne alla griglia, purè di patate e un’insalata. “E’ pronto!” Il colonnello non aveva mai avuto una domestica permanente in casa e non ne sentiva neppure il bisogno. Due volte a settimana era sempre venuta Frau Müller, una donnina di cinquant’anni che campava facendo le pulizie nelle case dei soldati scapoli che erano sempre fuori e non avevano il tempo, e secondo lei neppure le competenze, per tenere in ordine un’abitazione. A parte lei però, Castle non aveva mai voluto tenere una cuoca o altro in casa. Gli piaceva cucinare e quando era al suo appartamento preferiva restare tranquillo. E poi così poteva mangiare tutte le schifezze che gli parevano.
“Beckett!” la richiamò Rick, posando la carne su due piatti e portandoli sul tavolo da pranzo nel salone. Non sentendo ancora nessuna risposta, il colonnello si preoccupò. “Kate?” provò, ma di nuovo nulla. Lasciò tutto e decise di salire al piano di sopra. Forse Beckett era in bagno o aveva la porta della stanza chiusa e non sentiva, ma poteva anche darsi che si fosse sentita male. Salì le scale, tendendo le orecchie per un qualsiasi rumore, ma non udì nulla. Era già agli ultimi gradini, le sue spalle ormai all’altezza del pavimento del piano, quando si fermò. Dalle scale era visibile la porta della camera degli ospiti e Castle notò che era semiaperta. Non voleva fare il ficcanaso, ma senza volerlo buttò un occhio all’interno per controllare che tutto andasse bene. E quello che vide lo lasciò senza fiato. Il contorno della figura di Beckett, seduta sul letto nella penombra della stanza. Per un attimo credé fosse senza vestiti e il cuore gli perse un battito. Ma poi capì che quello che stava osservando non era il corpo di lei nudo, bensì il suo corpo coperto dalla fasciatura al fianco e dal reggiseno. Non fu molto sicuro se quella constatazione lo sollevò o lo infastidì.
Mentre la guardava, Kate si infilò lentamente dalla testa uno dei vestiti morbidi di Jenny. Rick si accorse in quel momento che la sua bocca era completamente secca, i palmi delle mani sudati, mentre il cuore partito a mille gli rimbombava frenetico nelle orecchie. Un paio di neuroni si riconnessero tra loro e capì che probabilmente Beckett non lo aveva sentito o non gli aveva prestato attenzione quando l’aveva chiamata perché si stava cambiando.
Dopo qualche attimo di smarrimento, Castle decise di tornare velocemente di sotto prima che Kate lo notasse e decidesse di tirare fuori il suo coltello per usarlo contro di lui. Discese silenzioso, ma rapido, le scale, ringraziando di avere ai piedi solo le calze. Quindi, prima che lei scendesse, si fiondò in bagno a buttarsi un po’ di acqua gelida sulla faccia. Imprecò silenziosamente quando bagnò il sottile strato di garza bianco che gli fasciava la mano da due giorni.
Felice di avere qualcosa con cui distrarsi per non pensare alle curve di Kate, Rick tolse il tessuto bagnato lentamente e controllò la ferita sul dorso. Il taglio rosso era netto e gli andava dalla nocca del mignolo alla base del pollice. Lanie però aveva detto che non era profondo, quindi non gli aveva messo nessun punto. L’unica cosa di cui l’aveva raccomandato era tenere la ferita coperta e pulita per un paio di giorni e così aveva fatto. Castle decise di lasciar respirare la mano per un po’, visto che tanto il taglio non gli faceva più male. Gli tirava solo un po’ la pelle, ora che si stavano formando le croste. Sperò solo che la vista non impressionasse troppo Kate. Anche se alla fine lei aveva una ferita al fianco sicuramente peggiore della sua. I suoi fianchi…
Rick si tirò altra acqua fredda in faccia prima che i suoi pensieri prendessero di nuovo la strada sbagliata. Forse avrebbe dovuto tirarsela anche da un’altra parte l’acqua fredda. Più in basso. Alla fine si asciugò velocemente quando sentì la voce di Kate chiamarlo dal salone.
“Castle?” lo cercò lei a voce alta.
“Sono qui!” le rispose prima di uscire dal bagno per non farla spaventare con una sua apparizione improvvisa in salone.
“Ehi, pensavo di averti perso.” dichiarò lei divertita quando lo vide. Castle osservò il vestito della donna con una rapida occhiata. Come richiesto da Lanie, era di panno morbido e largo ai fianchi. Le arrivava poco sotto le ginocchia, era a maniche lunghe e di un colore marroncino chiaro.
“Scusami.” rispose Rick con un sorriso. “Ho provato a chiamarti per dirti che era pronto in tavola, ma non mi hai risposto…” continuò spiegandole una mezza verità.
“Oh, scusami tu allora, non ti ho proprio sentito!” lo fermò lei imbarazzata.
“Pensavo non avessi ancora finito di prepararti.” replicò Castle tranquillo con un’alzata di spalle. Sperò che Beckett non notasse il suo muoversi a disagio da una gamba all’altra. Si costrinse a fermarsi nel suo moto pendolare prima di farsi scoprire. “Così sono andato in bagno per lavarmi le mani, ma ho bagnato la garza e ho finito per togliermela.” Kate gli lanciò un’occhiata alla mano.
“Sicuro che sia già il caso di levarla?” domandò preoccupata.
“Lanie ha detto un paio di giorni, quindi…” rispose il colonnello. “Ma se ti da fastidio posso sempre rimetterci la garza sopra.” Lei scosse subito la testa.
“No, non mi fa impressione, tranquillo.” lo bloccò lei con un sorriso. “E poi, direi che ho visto di peggio…” aggiunse con una piccola smorfia divertita indicandosi un fianco. Castle le sorrise a sua volta. Era felice che Beckett scherzasse già sopra a una cosa del genere.
“Vogliamo metterci a tavola, allora?” chiese quindi Rick, cambiando discorso e indicandole il tavolo apparecchiato e con i piatti pronti sopra. Si sedettero e iniziarono a mangiare, chiacchierando. Gli veniva quasi più naturale farlo così che da qualche altra parte, in piedi o sul divano. In fondo fino a quel momento i pranzi erano stati il loro modo di vedersi, scambiarsi informazioni e, semplicemente, parlare. Si erano quasi abituati a quella routine quando il bombardamento aveva distrutto quello che avevano creato. Il gesto di rimettersi a tavola a chiacchierare, sembrava quasi un riprendersi quello che la guerra aveva tentato di levargli.
“La carne era fantastica.” disse Kate pulendosi le labbra con un tovagliolo. “E il purè era magnifico. Complimenti davvero, Castle, devo ricredermi! Non pensavo fossi così bravo.”
“Sì, lo so, sono un grande chef!” replicò lui, pavoneggiandosi esageratamente per farla divertire. Non lo deluse. Beckett infatti scosse la testa e roteò gli occhi, ma aveva un sorriso enorme in volto, così come era stato per quasi tutta la cena.
“Devo segnarmi per il futuro di non esagerare con i complimenti,” dichiarò lei ridacchiando. “Oppure rischierò di soffocare in questa casa a causa del tuo ego!” A quelle parole, Rick mise su un broncio che la fece scoppiare a ridere.
“Oh, andiamo!” esclamò Kate all’improvviso, allegra, vedendo che il suo musetto da cucciolo non spariva. Probabilmente senza pensarci, e cogliendo Rick di sorpresa, Beckett allungò un braccio verso di lui e con l’indice spinse leggermente all’interno della sua bocca il labbro inferiore sporgente. Un momento dopo però, prima che il colonnello potesse davvero registrare cosa fosse successo, Kate si piegò in parte su sé stessa con una smorfia di dolore in volto, portandosi una mano al fianco.
“Ehi, tutto bene??” domandò preoccupato Castle alzandosi subito dalla sedia per avvicinarsi a lei.
“Sì…” lo bloccò senza fiato la donna. “Sì, dammi… dammi un secondo…” mormorò prendendo lunghi respiri. Non sapendo come aiutare, Rick si abbassò sui talloni accanto a lei e attese che si riprendesse. Fortunatamente dopo nemmeno un minuto Beckett si rilassò lentamente sulla sedia. Senza pensarci, Castle le spostò alcune ciocche di capelli che le erano finite davanti al viso leggermente sudato. “Scusa, è che…” iniziò a dire Kate prendendo fiato e raddrizzandosi sulla sedia. “Prima ho cambiato le fasciature al braccio e al fianco… ma credo di aver stretto un po’ troppo al fianco…”
“Le hai cambiate da sola?” chiese Rick stupito. “Avrei potuto darti una mano, se me lo avessi detto.” aggiunse senza riflettere. Kate gli fece un mezzo sorriso e alzò un sopracciglio.
“Tralasciando il fatto che la fasciatura mi arriva appena sotto il seno…” rispose lei divertita. A quelle parole, la figura di Beckett in camera si presentò di nuovo davanti agli occhi del colonnello. Dovette sbattere un paio di volte le palpebre e deglutire per tornare lucido. “So badare a me stessa.” concluse.
“Beckett, nessuno dice il contrario.” dichiarò Rick con un sospiro esasperato. “Ma farti aiutare non è una debolezza.” continuò. “Sono solo preoccupato per la tua salute.” A quelle parole, Kate fece una smorfia divertita.
“Sei peggio di mia madre…” borbottò lei. Quella constatazione fece male all’improvviso nel petto di Castle, quasi da mozzargli il respiro. Per un momento evidentemente aveva dimenticato perché Beckett fosse in casa sua, perché avesse rischiato la sua vita sotto le bombe in una terra straniera e ostile, perché lo avesse incontrato… Per sua madre. Quella madre che, inconsapevolmente, Rick le aveva già strappato via.
Strinse i pugni fino a farsi male, la pelle che tirava più che mai sul dorso della mano, tanto che ebbe per un attimo l’impressione di sentire di nuovo il sangue colargli lentamente lungo il dorso. Ma una rapida occhiata gli fece capire di aver solo immaginato quella sensazione. Guardò Kate e le fece un mezzo sorriso, come se tutto andasse bene, come se il suo cuore non provocasse una fitta di dolore a ogni battito. Per fortuna Kate sembrava così persa nei suoi pensieri da non accorgersi dell’improvvisa rigidezza nella postura di Castle, ancora accucciato ai suoi piedi.
“Sai, lei diceva spesso una cosa del genere...” disse alla fine dopo qualche momento Beckett, lo sguardo malinconico puntato su un punto imprecisato del tavolo. “‘Non devi cercare di fare sempre tutto da sola, Katie!’” esclamò con la voce leggermente alterata per risultare più simile a quella di Johanna. “‘Se il buon Dio avesse voluto che usassimo solo le nostre forze, ci avrebbe fatto sordi per non sentire e muti per non chiedere!’” La bocca le si piegò in un piccolo sorriso triste.
“Tua madre è una donna saggia.” commentò Rick piano.
“Già.” replicò lei in un sussurro. Alzando lo sguardo, Castle vide gli occhi della donna lucidi. Senza pensarci, allungò una mano verso il suo viso e le carezzò lentamente una guancia, spostandole intanto di nuovo dietro l’orecchio una ciocca dei suoi capelli. A quel gesto, Kate si girò verso di lui. Aveva uno sguardo indefinibile in volto. Come se fosse insieme curiosa, timida, sospettosa e triste. Poi però gli regalò un piccolo sorriso stanco che tranquillizzò Rick, il quale non aveva mai smesso di carezzarle uno zigomo con il pollice.
“Credo sia meglio che tu vada a riposare ora.” affermò dolcemente il colonnello. Beckett scosse la testa.
“Non sono stanca…” Appena lo disse però, non riuscì a trattenere uno sbadiglio. Castle si alzò in piedi ridacchiando, internamente dispiaciuto che il contatto con la pelle calda e liscia del viso di lei fosse già terminato, e le tese una mano per aiutarla ad alzarsi.
“Credo che il tuo organismo dica un’altra cosa.” commentò il colonnello divertito quando un altro sbadiglio la colse non appena fu in piedi. “Abbiamo avuto una lunga giornata e ti ricordo che, secondo gli ordini di Lanie, tu sei ancora in convalescenza.” continuò. “Quindi vai e riposati.”
“No, voglio aiutarti a sparecchiare e…” cercò di convincerlo Kate, ma Rick le fermò le mani, già con un piatto in mano, e la fece voltare verso di lui.
“Beckett, sei esausta.” constatò Castle con un mezzo sorriso. La trovava adorabile con quell’aria assonnata. “Vai a dormire. Io ci metto due minuti a mettere a posto qui, non preoccuparti.” la rassicurò. Kate lanciò un’occhiata alla tavola apparecchiata, quindi sospirò.
“Ok…” mormorò. Si vedeva che era davvero stravolta. Rick le sorrise di nuovo e le lasciò le mani per potersi occupare dei piatti da portare in cucina. Non appena si voltò però, sentì qualcosa di caldo e morbido sulla guancia. Rimase immobile, ma quella sensazione durò solo un attimo. Si girò di nuovo verso Kate, gli occhi sgranati, il cuore in accelerazione, e la vide tornare giù dalle punte dei piedi con un sorriso timido e le guance appena arrossate. “Grazie.” sussurrò solo. Castle si portò automaticamente una mano nel punto in cui le labbra di lei si erano posate sulla sua guancia, rendendosi conto davvero solo in quel momento che lei lo aveva baciato.
“Per cosa?” chiese senza riflettere, stupito e quasi senza fiato. Beckett ridacchiò piano.
“Per tutto.” rispose. “Per quello che stai facendo per me e per mia madre.” Per Rick quelle parole furono una coltellata al petto.
“Figurati!” riuscì a esclamare con tono quasi normale, stampandosi anche un sorriso tirato in faccia, mentre dentro in realtà si sentiva morire. “Per delle belle connazionali questo e altro!” Kate scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, ma pareva divertita.
“Buonanotte, allora.” gli disse dolcemente prima di voltarsi e allontanarsi verso le scale.
“A domani.” replicò Rick piano. La osservò arrivare alle scale e salirle lentamente, per non ricevere altro dolore al fianco, finché non sparì del tutto dalla sua vista. Quindi il sorriso tirato che aveva in volto gli morì in un attimo. Si accasciò sulla sedia prima occupata da Kate e portò i gomiti sulle ginocchia, le mani tra i capelli, la tavola da sparecchiare completamente dimenticata. Come avrebbe fatto a dirle che sua madre era morta e a causa sua?
 
Il mattino dopo Castle si svegliò controvoglia. Nonostante la stanchezza, aveva dormito male tutta la notte, mentre i pensieri su Kate e Johanna si accavallavano tra di loro trasformandosi in incubi in cui la giovane Beckett lo incolpava di averle ucciso la madre e di averla costretta a rimanere in Germania, mentre la più anziana gli sparava al petto chiedendogli, urlando, cosa si provava a morire e a non farlo sapere ai propri cari. I primi raggi di sole filtravano dalla finestra di cui aveva dimenticato di tirare le tende e gli arrivavano dritti in faccia. Con uno sbuffo, Rick si girò dall’altra parte della luce e affondò la faccia nel cuscino. All’improvviso però sentì un suono metallico. Tirò su il naso dal guanciale e drizzò le orecchie, gli occhi ancora semichiusi per il sonno, le sopracciglia aggrottare. Il rumore si ripeté e Castle cominciò inoltre a sentire un lieve aroma di caffè diffondersi per la camera.
Confuso, il colonnello si costrinse ad alzarsi e si diresse così com’era, scalzo e con solo un paio di pantaloni addosso, verso la fonte del suono e dell’odore. Rimase stupito quando, entrando in cucina, trovò Kate indaffarata davanti ai fornelli. Indossava lo stesso abito largo e morbido della sera prima, che probabilmente voleva usare come veste da casa, e aveva i capelli tirati su con un mollettone, che doveva averle prestato Jenny, da cui sfuggivano diverse ciocche.
“Ehi!” lo salutò allegra e un po’ timida, tirando giù la caffettiera dai fornelli.
“Ehi…” replicò Rick ancora piuttosto assonnato e sorpreso. “Che fai?” chiese sbattendo le palpebre e passandosi una mano sul collo, semidolorante a causa dei continui spostamenti notturni. Kate lo guardò con un sopracciglio alzato.
“Preparo la colazione.” replicò divertita, lanciandogli un’occhiata più approfondita. Castle si ricordò in quel momento di essere a petto nudo. “Mi pare ovvio.” continuò lei. “Hai dormito stanotte?” gli chiese poi osservandogli il volto.
“Uhm…” borbottò Rick passandosi una mano sulla faccia. Sotto le dita sentiva una leggera barba ed era certo di avere le occhiaie per la notte in bianco. “Più o meno.” rispose. “Ma perché hai cucinato?” domandò poi per cambiare argomento. “Pensavo non volessi farmi da serva.” dichiarò divertito. Kate scosse la testa.
“Mi hai preso in casa e hai cucinato per me ieri sera.” rispose Beckett. “Il minimo che potessi fare per ringraziarti era preparare la colazione.” concluse indicando il tavolo. Il colonnello si voltò in quella direzione. Era passato davanti al tavolo del salone, ma non si era minimamente accorto che era già apparecchiato e con una pila di pancakes che lo attendevano insieme a pane tostato, miele, marmellata, frutta e succo. “Non sapevo bene cosa mangiassi al mattino, così l’ho supposto vedendo cosa c’era nel frigo. E ho aggiunto un tocco americano!” disse con un mezzo sorriso intendendo i pancakes. “Mancava solo il caffè e ti avrei chiamato.” dichiarò alla fine mordendosi il labbro inferiore, attendendo ancora una reazione di Castle. “Ho… ho fatto bene? Pensavo…”
“Fantastico!!” esclamò Rick all’improvviso facendo prendere un colpo a Kate. “Era una vita che non mangiavo pancakes!” aggiunse allegro con un sorriso enorme in faccia. Un attimo prima di raggiungere il tavolo però, si fermò e si guardò il torso nudo. “Forse è il caso che vada a mettermi qualcosa addosso, vero?” chiese retorico, più a sé stesso che a Beckett.
“Se devi…” replicò Kate divertita. Castle si voltò verso di lei e la trovò intenta a versare il caffè in due tazze, mordendosi il labbro inferiore per cercare di non sorridere. Scosse la testa e, preso dall’entusiasmo, si avvicinò a lei e le lasciò un bacio sulla guancia. Quindi se ne andò in camera tutto gongolante con in testa la faccia stupita e rossa di Kate.
 
La giornata passò piuttosto tranquilla. Dopo aver fatto colazione insieme, Castle uscì per andare in centrale, lasciando Beckett da sola a casa. Le aveva più volte chiesto se per caso non avesse voluto compagnia, ma lei aveva replicato che lui doveva andare a lavoro per dare un po’ di pace alle famiglie sulla sorte dei loro cari e per cercare, se possibile, nuove informazioni sulla madre. Inoltre Kate lo aveva rassicurato sul fatto che, per quel giorno almeno, non sarebbe uscita e avrebbe approfittato volentieri della stanzetta dei libri per passare tempo. Il colonnello così si era convinto ad andare, ma era tornato comunque per pranzo per mangiare con lei. A sera poi, Castle aveva cucinato di nuovo e stavolta erano rimasti a chiacchierare più a lungo, passando da un argomento all’altro come gli veniva in mente. Avevano parlato degli scherzi di Rick in accademia, dei sogni di Kate bambina, dei cambiamenti in America, della guerra in Europa, di cosa avrebbero voluto fare una volta che tutto quell’orrore fosse finito. Quando erano andati a dormire, erano già le due passate. Ma era facile parlare con Beckett. Molto più che nei giorni passati e Castle se ne rendeva conto ogni momento di più. Prima sembrava sempre che qualcosa frenasse la donna dal parlare troppo di sé, mentre ora rideva di più e diceva senza troppe preoccupazioni quello che pensava. Forse era l’atmosfera più tranquilla e casalinga, forse il fatto che Kate si fidasse di più di lui, questo Rick non lo sapeva. Ma sapeva che gli piaceva quella sensazione di calore che derivava dal parlare semplicemente con Beckett. Era una cosa che non gli era mai capitata con altre donne, non così in fretta se non altro. E anche in centrale si erano accorti che qualcosa in lui era cambiato. Se prima era sempre stato l’ultimo a uscire dalla casermetta per tornare al suo appartamento e a spiluccare qualcosa direttamente in centrale, da quando conosceva Kate era diventato uno dei primi che scappava al cambio turno e che tornava a casa per il pranzo. Tutti quelli che lo conoscevano si erano fatti domande sul suo improvviso cambio di consuetudini. Qualcuno aveva anche tentato di chiederglielo, più o meno velatamente, ma Castle era sempre riuscito a evitare di dare una risposta. Erano arrivati ad un punto che gli erano giunte anche voci di scommesse su di lui, sul perché fosse cambiato, e, a quanto pareva, le ipotesi più accreditate erano che o si allenava per qualche gara automobilistica, vista la sua improvvisa voglia di guidare sempre per tornare a casa presto, oppure che aveva trovato una donna.
 
Il giorno successivo trascorse più o meno come il precedente. Beckett si alzò un’altra volta prima di lui e preparò la colazione. Castle andò in centrale e tornò al suo appartamento per pranzo, mentre Kate passava tempo in convalescenza leggendo i libri più interessanti della piccola biblioteca. La sera il colonnello cucinò di nuovo, sorprendendo la donna anche con un dolce, e ancora una volta rimasero a chiacchierare fino a notte fonda.
“Posso chiederti una cosa?” domandò Beckett a un certo punto trattenendo uno sbadiglio. Rick ridacchiò e annuì.
“Direi l’ultima, o sarò costretto a portarti in braccio fino al tuo letto.” rispose divertito. “Anche se non ne sarei per niente dispiaciuto…” Kate gli fece una smorfia e scosse la testa.
“Come fate a essere soldati senza essere nazisti?” chiese curiosa. “Credevo che lo fossero tutti, ma tu e Ryan di certo non lo siete.”
“Infatti non lo sono tutti.” rispose Castle semplicemente. “Per quanto possa sembrare strano dall’esterno, il partito nazista e i tedeschi sono due entità distinte.” spiegò. “Certo, non esserlo è piuttosto… uhm… diciamo, sconsigliabile, se sei un cittadino comune, ma per i soldati, e soprattutto per gli ufficiali, è un po’ diverso. Tieni conto che ci sono anche Alti Ufficiali fedeli alla Germania, ma completamente contrari a Hitler. Purtroppo non sono molti e non è facile combattere in pochi contro un’ideologia che ha corrotto migliaia di persone…” Lo sguardo di Rick si fece assente e duro per un momento, ma poi scosse la testa per riprendere lucidità e fece un mezzo sorriso a Kate. “Se posso dirlo, fortunatamente la guerra di Hitler sta portando la Germania a conseguenze così disastrose che molti si sono già accorti del loro errore nell’appoggiarlo…”
“E’ un pazzo.” mormorò la donna con tono rabbioso. “Come si può appoggiarlo??” Castle fece un mezzo sbuffo ironico.
“E’ qui che ti sbagli, Beckett.” replicò con tono sconsolato. “Lui è perfettamente lucido. E ha portato nel suo mondo immaginario fatto di un’unica razza tutti quelli che si sentivano inferiori e defraudati di qualcosa. Ma tranquilla,” disse alla fine, sorridendole fiducioso. “Andando avanti di questo passo, la rivolta di pochi che sta tentando di soffocare, presto gli scoppierà in mano. Niente potrà fermarla. E allora la Germania sarà di nuovo libera di decidere del suo futuro.” Kate lo squadrò per un momento, pensierosa.
“Ci credi davvero?” domandò cauta. “Che prima o poi finirà?”
“Devo.” rispose Rick serio. “Perché se voglio che le cose vadano in questo modo, se voglio davvero fare qualcosa e non solo piangermi addosso, allora devo crederci anche io e lottare perché accada.” Kate annuì piano. “E credo anche che sia il caso di andare a dormire!” esclamò Castle, dopo qualche secondo di silenzio, in tono leggero per sciogliere la tensione che quel discorso serio aveva portato con sé. Beckett annuì di nuovo con un piccolo sorriso e si alzò. Prima che arrivasse alle scale però lo richiamò.
“Castle?” Rick si girò verso di lei. “Non c’entra niente con il nostro ultimo discorso…” iniziò Kate un po’ imbarazzata. “Ma mi ero dimenticata di chiedertelo: cos’è quella botola che c’è sul soffitto del piano di sopra, nel corridoio?”
“Quella è per andare in soffitta.” rispose.
“Ah… e posso salirci?” chiese ancora Kate. Castle la guardò perplesso.
“Uhm… sì, penso di sì, se ti piacciono i ragni e la polvere…” replicò confuso. “Perché?”
“Ero solo curiosa.” rispose lei alzando appena le spalle.
“Comunque ci sono solo vecchi scatoloni.” continuò il colonnello. “Ma, per favore, se vuoi andarci stai attenta. La scala è un po’ pericolante.” Kate annuì, gli diede la buonanotte e salì al piano di sopra.
 
“Dannate chiavi…” mormorò Castle scocciato, cercando in ogni tasca possibile. Niente, le aveva proprio dimenticate a casa. Gli sarebbe toccato suonare e farsi aprire da Kate, cosa che lo infastidiva molto. Lui cercava in tutti i modi di non farla notare in giro, di non parlare di lei, di non far insospettire i vicini con la sua presenza e poi che faceva? Dimenticava le chiavi e si faceva aprire da lei, mostrando al mondo che aveva qualcuno in casa!! Che idiota. 
La giornata era trascorsa serena fino a che non era arrivato quel piccolo intoppo. Rick salì i gradini per la porta di ingresso al suo appartamento e suonò il campanello con gesto irritato. Gli sembrava strano suonare a casa propria, visto che era sempre solo e nessuno quindi gli aveva mai aperto, tranne qualche volta sua madre. Incrociò le braccia al petto e attese impaziente. Era quasi buio e non credeva che Kate fosse uscita, anche perché gli aveva promesso che avrebbe preso ancora un giorno a casa prima di provare a mettere un piede fuori. I secondi passavano e a Castle venne in mente la conversazione della sera prima in cui Beckett gli aveva chiesto del solaio. Sperò solo non si fosse messa a esplorarlo proprio in quel momento o non lo avrebbe mai sentito.
“Andiamo!!” sussurrò scocciato, suonando di nuovo il campanello, più a lungo di prima. Si sentiva esposto nel piccolo ingresso. Come se ci fosse qualcuno che lo stesse osservando mentre suonava alla sua stessa porta. Sapeva che era un pensiero stupido, anche perché il suo appartamento era in mezzo a una strada quindi qualunque passante avrebbe potuto vederlo, ma non poteva fare a meno di avere quella sensazione.
Finalmente sentì dei passi leggeri, quasi felpati, provenire dall’interno.
“Beckett!” la chiamò piano per far sentire solo lei, la bocca quasi a sfiorare la porta. “Sono io, apri!”
“Castle??” esclamò la voce stupita e ovattata di Kate. Un momento dopo si udì una chiava girare nella serratura e Beckett aprì la porta. “Perché non hai aperto tu?” domandò sorpresa.
“Ho dimenticato le chiavi.” borbottò Rick scocciato entrando velocemente in casa e chiudendo la porta alle sue spalle. Una volta dentro, finalmente gli sembrò che quella sensazione di vulnerabilità che aveva provato fosse scomparsa. Forse l’aveva davvero solo immaginato. O forse semplicemente era la preoccupazione per Kate che gli faceva partire tutti i sensi a mille. “E tu perché non hai aperto subito?” domandò di rimando. Beckett lo guardò con un sopracciglio alzato e incrociò le braccia al petto.
“Primo: mi hai detto tu di non rispondere a qualsivoglia chiamata esterna, che sia la porta o il telefono.” rispose lei seccata. “Secondo: mi ero dimenticata di cambiare la fasciatura al fianco stamattina e lo stavo facendo ora.” Rick sbuffò, ma non replicò nulla. In fondo forse se la stava prendendo troppo. Probabilmente era la stanchezza di una giornata a contatto con decine di familiari in ansia per la sorte dei loro cari a renderlo così.
“Scusa.” mormorò passandosi una mano tra i capelli. “Hai ragione.” Kate lo squadrò per un momento, ma in qualche modo dovette capire la il suo stato d’animo.
“Dai, vai a farti una doccia.” gli disse con un sospiro in tono quasi materno. “Stasera cucino io. Ma dovrai accontentarti di qualcosa di veloce perché se non mi fai uscire e tu non vai a comprare qualcosa da mangiare, tra un po’ dovremo iniziare a mangiarci la tappezzeria.” Castle ridacchiò, finalmente tranquillo, e annuì.
“Ok, ok.” le concesse alzando le mani come per arrendersi. “Domani vado a fare un po’ di spesa.”
 
L’uomo osservò con fare noncurante la porta chiudersi alle spalle del colonnello. Era bastato un attimo, ma aveva visto che la persona che gli aveva aperto era una donna. La stessa donna di cui gli avevano parlato. Media statura, figura longilinea, capelli lunghi castani e mossi. Era lei. Allora non era scomparsa sotto il Fidel Weltbummler come pensavano in molti. Era sopravvissuta.
L’individuo prese un’ultima boccata di fumo dalla sigaretta che aveva in mano e poi la gettò a terra, curandosi di pestarla per bene. Quindi si calcò il cappello sul capo e, come se avesse deciso che aveva atteso anche troppo a lungo qualcosa, si tirò su dal palo al quale si era appoggiato e si incamminò verso la sua auto parcheggiata una decina di metri più in là. Il passo era lento, di chi non ha fretta, ma dentro fremeva. Aveva la conferma che cercava già da un po’ di tempo. Si chiese dove diavolo il Colonnello Castle avesse potuto nascondere una bella donna come quella, e per tutto quel tempo, senza far insospettire nessuno. Era molto attento, sicuramente, ma di certo doveva aver avuto anche dei complici. Qualcuno di fidato che l’aveva nascosta. Al Fidel prima, ma poi? Forse quel Maggiore Ryan con cui sembrava tanto amico gli aveva dato una mano. In fondo dai dossier che poteva ricordare su di lui sembrava uno che di quelle cose se ne intendeva: far sparire la gente nel nulla.
Rimuginandoci sopra, l’uomo arrivò alla sua auto, salì e mise in moto. Il piede sull’acceleratore rimase piuttosto pesante, ma doveva arrivare in fretta dal suo capo per comunicare quell’ultima scoperta. Non che gli importasse davvero cosa sarebbe successo o perché gli servissero quelle informazioni, ma quello era un lavoro e lui sarebbe stato pagato profumatamente per averlo portato a termine. C’era voluto anche meno del previsto. Vista la prudenza di Castle, si era aspettato di dover rimanere giorni e giorni in appostamento davanti a casa sua o di pedinarlo, come prima del bombardamento, e invece se l’era cavata con appena un paio.
Finalmente arrivò alla sua destinazione. Spense l’auto, scese e si avviò verso il largo edificio bianco e ben tenuto davanti a lui. Entrò dal portone aperto e si diresse senza indugio alle scale. Il posto era pieno di soldati, essendo una centrale molto simile a quella dove lavorava Castle, ma in una versione più grande. Nessuno comunque lo fermò o fece caso a lui. Gli unici soldati che lo adocchiarono furono i due di guardia in coppia alle scale. Uno, il più giovane, lo guardò male quando si avvicinò. Doveva essere nuovo perché l’uomo non l’aveva mai visto. Non poté biasimarlo comunque per quell’occhiata, perché con il cappello calcato in testa e il giaccone lungo tirato su fino al naso poteva benissimo essere un civile qualunque in cerca di grane. Ma lui non era un civile qualunque. Lui era un informatore. L’altro soldato, più anziano, gli lanciò un’occhiata annoiata e gli fece cenno di poter passare. Quello l’uomo lo conosceva di vista da quando era al servizio del suo attuale datore di lavoro.
L’individuo ringraziò il soldato anziano con un cenno del capo e superò i due senza più degnarli di uno sguardo. Salì al quinto piano e andò sicuro in fondo al corridoio. Mentre lo attraversava, si guardò intorno. C’erano diverse porte chiuse, ma si stupiva ogni volta di come ci fosse sempre un silenzio ovattato, quasi irreale, per una semi-caserma.
Arrivato alla porta, l’uomo bussò due volte. Dopo un momento, una voce chiara e forte gli ordinò di entrare. L’individuo si fece avanti e la prima cosa che vide, come al solito, fu una gigantesca scrivania in mezzo alla stanza in legno scuro, quasi del tutto priva di oggetti. Sembrava nuda, con solo una bassa pila di fogli ben ordinati e un astuccio in cui sapeva esserci diverse penne disposte in ordine accurato all’interno e poco altro. Non una foto o una statuetta. Niente che non fosse strettamente necessario.
Il soldato dall’altra parte della scrivania, proprietario dell’ufficio, era seduto sulla sua poltrona e girato verso la grande vetrata che occupava mezza parete, dandogli così le spalle. Una mano uscì fuori dallo schienale e chiese un minuto di pazienza alzando il dito indice. L’uomo si chiuse la porta alle spalle, si tolse il cappello e attese che gli venisse concesse udienza. Senza quel copricapo, era ora visibile una lunga cicatrice che gli partiva dall’attaccatura dei capelli sulla destra della fronte fino ad arrivare a tagliare a metà il sopracciglio a sinistra.
Dopo un minuto buono, finalmente il soldato si girò e posò il foglio che aveva per le mani davanti a lui sulla scrivania. Fu solo in quel momento che alzò gli occhi per guardare il suo ospite.
“Krüger.” lo salutò serio.
“Colonnello Dreixk.” replicò l’uomo.
“Come mai già qui?” chiese indifferente il colonnello, andando intanto a posare il foglio sopra la pila ordinata poco lontano. “Mi sembrava avessi detto che dopo il bombardamento ti sarebbero serviti diversi giorni…”
“Un colpo di fortuna.” lo interruppe Krüger senza riuscire a fermarsi, un mezzo sorrisetto in faccia. Dreixk alzò un sopracciglio. “Vogliamo parlare prima del mio compenso?”
“Parliamo prima di quanto vale il tuo colpo di fortuna.” replicò freddo il colonnello.
“Parecchio.” ribatté l’uomo. Dreixk lo guardò immobile per un momento, quindi annuì e si appoggiò allo schienale della poltrona, i gomiti sui braccioli, le mani chiuse davanti al viso.
“Sentiamo.” Krüger sbuffò contrariato per non essere riuscito a scucire già una somma dal suo capo, ma decise di rimandare a dopo le discussioni. Quegli occhi neri come la pece fissi su di lui lo mettevano a disagio.
“C’è una donna a casa del Colonnello.” spiegò. “E che donna! E corrisponde alla descrizione di quella con accento americano che aveva intravisto quella gente alla centrale settimane fa.” A quella informazione, gli occhi di Dreixk mandarono un lampo. Oltre a quello, l’unico movimento che fece capire a Krüger che il suo capo lo stava ascoltando fu il lieve sorriso che gli si formò sulle labbra. Un sorriso che non prospettava nulla di buono. Un sorriso freddo e maligno.
“Ottimo lavoro, Krüger.” dichiarò dopo qualche istante il colonnello. Si sciolse dalla sua posa e aprì un cassetto della scrivania. Tirò fuori un sacchetto di cuoio grande poco più del suo pugno e lo gettò a Krüger. L'uomo lo prese al volo e diede una rapida occhiata all’interno. Un ghigno si formò subito sulle sue labbra. A occhio era più di quello che si aspettava.
“Molto bene!” disse allegro, infilandosi il sacchetto in una tasca interna del giaccone. “Il mio numero lo conosci e se non c’è altro, io andr…”
Un fischio acuto fece morire le parole in bocca a Krüger. Impallidì di botto e guardò terrorizzato la finestra dietro al colonnello. Dreixk intanto si era alzato di scatto, le narici dilatate come unico segno a tradire la sua ansia, e anche lui si era voltato verso la finestra. Nel cielo pulito della sera, i due videro uno stormo immenso di aerei volare sempre più vicino a loro. I primi avevano già iniziato a sganciare le bombe. Proprio in quel momento, la prima detonò.
 
Castle finì di lavarsi e si asciugò velocemente. Quindi si infilò un vecchio paio di pantaloni, che usava per dormire, e una maglia a maniche lunghe. Non sarebbe dovuto tornare in centrale fino al giorno successivo e per questo aveva deciso di mettersi comodo. Di infilarsi di nuovo la divisa non aveva proprio voglia. E poi sarebbe stato richiamato prima solo in caso di attacco.
Sfregandosi i capelli con un asciugamano, Rick si diresse in cucina. Era curioso di sapere cosa avrebbe cucinato Beckett. Quando la vide, si fermò per un momento a guardarla con un vago sorriso sulle labbra. Nonostante quella coabitazione forzata durasse da poco, Kate aveva già imparato il luogo di ogni arnese, piatto o alimento presente in cucina. Si muoveva sicura e svelta, passando dal recuperare qualcosa in frigo al controllare il contenuto delle pentole sui fornelli.
“Ehi!” lo salutò con un sorriso, notandolo fermo sulla soglia della porta. “Hai già finito?”
“Sì.” rispose tirandosi giù dalla testa l’asciugamano. “Tu?” Beckett fece una piccola smorfia.
“Dopo aver cambiato almeno cinque volte una ricetta di mia madre a causa della scarsità di ingredienti…” Il tono di quelle parole era di leggera accusa e Castle alzò gli occhi al soffitto come se non ne sapesse nulla e avesse appena visto qualcosa di estremamente interessante nell’angolo del muro. “Direi che sarà pronto tra cinque minuti.”
“Perfetto!” replicò Rick allegro. “Vado a mettere l’asciugamano a posto e faccio la tavola allora.” Non fece in tempo a fare due passi però, che all’improvviso un fischio acuto squarciò l’aria, seguito da altri, continui e numerosi, subito dopo quello, e un’esplosione fece tremare la casa. Castle cadde a terra, sorpreso e con il cuore a mille. Mollò l’asciugamano e scattò in piedi, ma un altro scossone lo fece rovinare di nuovo a terra. Polvere e pezzi di soffitto gli volarono in testa, costringendolo ad accucciarsi e ripararsi con un braccio il volto. “BECKETT!!” urlò per farsi sentire sopra il rombo sempre più alto dei motori di aerei e le esplosioni. Cercò di chiamare di nuovo la donna, ma della polvere gli finì il gola e tossì forte. “KATE!!”
“Castle!!” La voce spaventata di lei lo fece voltare subito verso la cucina. Beckett si era infilata a metà sotto il tavolo in mezzo alla stanza e ora era aggrappata saldamente a una delle gambe. Con un rapido sguardo, Rick vide che per fortuna non era ferita. Si alzò e per istinto corse alla finestra, stranamente intatta, per controllare la situazione. Il cuore gli perse un colpo. Uno stormo di aerei immenso stava passando sopra Berlino, avvicinandosi sempre più al centro. Stavolta non c’erano nuvole a nasconderli. Stavolta erano completamente scoperti. E se l’ultima volta avevano cercato di colpire solo il centro della città, questa volta avevano deciso di bombardarla tutta insieme.
Gli allarmi antiaerei iniziarono a mandare il loro acuto segnale ormai inutile. Chiunque a Berlino a quel punto doveva aver intuito cosa stava accadendo. Con rabbia, Castle si chiese se le guardiole avessero dormito tutto quel tempo invece di controllare il cielo pulito.
“Beckett, alzati, ti porto nel rifugio antiaereo!” gli ordinò Rick, passando davanti alla cucina e correndo verso la porta di casa. Al diavolo il nascondersi, doveva proteggerla! Fu in quel momento però che si accorse che la porta era mezza sfondata, con una trave conficcata nella parte superiore del legno. Rimase immobile, stupito, la bocca semiaperta e le sopracciglia aggrottate, mentre ricomponeva mentalmente i pezzi del bombardamento. Una granata doveva aver spaccato qualcosa, forse il tetto suo o dei vicini, e dei calcinacci dovevano essere caduti proprio davanti alla porta (e dentro di essa) ostruendola. Castle lanciò un’imprecazione e scosse la testa, quindi cercò di aprire la porta in qualche modo. Per quanto tirasse però, quella non si muoveva di un millimetro. Provò a scostare la trave, ma sembrava ancora più cocciuta del resto. Dovette arrendersi all’evidenza che era bloccata. Si voltò e cercò velocemente un’altra uscita. Forse, essendo quasi a piano terra, avrebbero potuto scavalcare una delle finestre. Inoltre il salone dava sul piccolo giardino e c’era solo un muretto non troppo alto a separarli dalla strada sul retro. “Beckett, ci sei??” la chiamò andando velocemente in salone a controllare la sua idea. “La porta è bloccata! Dobbiamo uscire da una finestra!” le comunicò rapido. Aprì la porta finestre, stranamente integra, e uscì per un momento dall’appartamento in quel fazzoletto di prato. Lì ogni rumore era amplificato e trapanava i timpani. Sirene, urla, esplosioni, crolli, rombi di motori e stridori di auto. Tutto si mescolava e confondeva. Rick tirò di nuovo la testa in casa. “Beckett, andiamo!!” la chiamò ancora. In quel momento suonò il telefono. Soppresse un’imprecazione e andò ad agguantare il fastidioso apparecchio del salone. “Castle!” rispose seccato.
“Colonnello, sono Bauer, signore!” esclamò una voce maschile allarmata in tedesco dall’altro capo del telefono. Castle la riconobbe: era del Tenente Bauer, uno dei suoi uomini alla centrale. La linea era disturbata e Rick sentiva male quello che il soldato gli diceva. “Deve venire immediatamente, Colonnello! Ci stanno attaccando!” Un'altra bomba esplose a poca distanza, facendo tremare di nuovo la casa.
“MI DICA QUALCOSA CHE NON SO, TENENTE!!” replicò Castle ironico in tedesco, urlando per farsi sentire nel rumore. “Bauer, ora ascoltami bene!” disse poi in un momento di calma. “Il Maggiore Ryan, se non è già arrivato, sta per arrivare. Sapete cosa fare e conoscete già gli ordini. Agite e riferite a Ryan. E’ lui ora al comando. Io al momento sono bloccato in casa. Vi raggiungo non appena esco. Mi hai capito, Tenente?”
“Sì, Colonnello!”  rispose quello agitato. “Ha bisogno di aiuto??”
“No, me la cavo!” ribatté. “Ora vai!”
“Sì, Colonnello!” replicò Bauer e riattaccò. Castle rimise a posto la cornetta e corse in cucina.
“Beckett, dobbiamo andare ORA!!” esclamò Rick, tornando all’inglese. Ma quello che vide lo bloccò sul posto. Kate era ancora immobile dove l’aveva lasciata, attaccata a una delle gambe del tavolo. Le sue gambe sporgevano leggermente da sotto di esso e avevano addosso della polvere bianca caduta dal soffitto. Le sue braccia erano invece saldamente avvinghiate alla gamba del tavolo con la testa incassata tra queste. Castle notò solo in quel momento che la donna stava tremando. “Kate!!” la chiamò precipitandosi da lei e scivolando a terra. “Kate!! Kate, ti prego parlami!! Stai bene?? Sei ferita??” Un altro colpo vicino la fece gemere e nascondere ancora di più la testa tra le braccia. Senza pensarci due volte, Rick le staccò le braccia dal tavolo, veloce ma con delicatezza, e la prese in braccio. La caricò su a peso morto, senza che lei reagisse. Appena fu in piedi però la sentì irrigidirsi contro di lui e le sue mani volarono subito ad aggrapparsi alla sua maglietta. Fu in quel momento che vide che stava piangendo.
“Castle…!” gemette spaventata, chiamando il suo nome. Si attaccò ancora di più a lui, nascondendo la faccia contro la sua spalla, quando un’altra bomba esplose. “NO!! LASCIAMI!!” urlò disperata, iniziando ad agitarsi tanto che quasi gli cadde dalle braccia. “CASTLE!!”
“Sono qui!!” urlò di rimando, correndo quanto più velocemente gli era possibile verso la cantina. Superata la paura che le fosse successo qualcosa, Rick aveva finalmente capito perché Kate faceva così. Stava avendo una crisi di panico. “Sono qui!” le ripeté chiudendo la porta dietro di sé con una spallata e scendendo con attenzione le scale. Una volta arrivato al piano interrato, accese la luce con il gomito e andò a buttarsi con Kate sopra l’unico materasso presente. La sua cantina era meno a prova di bomba di quella di Ryan, ma più profonda e con all’interno più o meno gli stessi generi di prima necessità. Pensare alla cantina di Kevin gli procurò una fitta al cuore. Sperò che i suoi amici fossero tutti al sicuro.
“Castle…!!” lo chiamò ancora con voce rotta Beckett. All’improvviso iniziò ad agitarsi sotto di lui e a cercare di scappare. “Ho… ho bisogno di aria…!” mormorò terrorizzata, ma un’altra bomba la fece sussultare e aggrappare ancora con più forza a lui, mentre contemporaneamente cercava di scacciarlo da sopra di lei.
“Kate, calmati.” cercò di parlarle con voce rassicurante, ma vederla in quello stato lo stava facendo morire dentro. Le carezzò i capelli e sopportò tutti i suoi calci, impedendole di scappare. Era sopra di lei solo in parte, per paura di schiacciarla, ma abbastanza perché non potesse spingerlo via. “Kate, calmati, sei al sicuro qui.” le sussurrò piano contro l’orecchio, continuando a stringerla e carezzarla per tranquillizzarla. “Kate, ascoltami, va tutto bene. Sei al sicuro.”
“Il fianco!!” esclamò all’improvviso Beckett, portandosi in automatico una mano nel punto in cui Castle sapeva essere già stata ferita. “Una bomba!! C’è solo cenere! Non riesco a respirare!!” aggiunse terrorizzata. Nonostante i commenti ironici con cui aveva accolto il colonnello quando l’aveva salvata, evidentemente quel primo attacco aveva lasciato Kate più traumatizzata di quanto non avesse pensato. Non era ferita, ma in quel momento confondeva passato con presente.
“Kate, va tutto bene.” ripeté di nuovo, e se necessario all’infinito, in un sussurro Rick. “Sei al sicuro, Kate, ci sono io con te. Non permetterò che ti facciano ancora del male, ok? Non lo permetterò…” Il colonnello andò avanti in quel modo per diversi minuti e alla fine, con suo gran sollievo, Beckett iniziò a calmarsi.
“Rick…” mormorò a un certo punto, ancora con voce un po’ rotta, ma soprattutto stanca. Castle sussultò a quella parola. Non lo chiamava mai con il suo nome. “Non andartene…” continuò piano. “Ti prego…” Si aggrappò di nuovo alla sua maglietta,  ma stavolta si accucciò anche sotto di lui il più possibile vicino, il viso nascosto contro la sua spalla, come se avesse un bisogno fisico di un contatto umano.
Rick fece un mezzo sorriso e le carezzò di nuovo i capelli. La strinse a sé e le lasciò un bacio sulla testa.
“Sono qui.” sussurrò di rimando tra i suoi capelli. “Sono qui.” Poteva sentire contro il suo corpo ogni curva di Beckett, ma si costrinse a tenere a freno qualsiasi fantasia per concentrarsi solo sulla realtà. Kate aveva bisogno di lui. I rumori fortunatamente erano di molto attutiti dentro la cantina e Castle immaginò che il bombardamento vero e proprio si fosse spostato più al centro della città perché ora le esplosioni erano più rare. Di tanto in tanto erano solo più udibili i colpi bassi dei cannoni della contraerea.
Rimasero abbracciati per diverso tempo senza muovere un muscolo, semplicemente tranquillizzandosi grazie alla presenza dell’altro. Rick però a un certo punto iniziò a essere inquieto. Avrebbe voluto restare in quella posizione per sempre, ma altri luoghi richiedevano la sua presenza e in più voleva sincerarsi che Ryan e gli altri stessero bene. Stava già pensando a come dirlo a Beckett, quando lei sollevò la testa dalla sua spalla e per la prima volta si guardò intorno, confusa.
“Dove…?” mormorò perplessa. Poi alzò gli occhi e trovò il viso di lui a soli pochi centimetri dal suo. Sgranò gli occhi e la bocca le rimase semiaperta. Dopo un attimo però riabbassò lo sguardo, rossa in volto. “Scusa.” sussurrò.
“Per cosa?” replicò Castle un po’ confuso. Kate si mosse a disagio sotto di lui.
“Io non so… non so davvero cosa mi sia preso…” mormorò in risposta, agitata. “Non… non mi era mai successo è stata…” Prima che Beckett potesse continuare, il colonnello la zittì posandole una mano sulla guancia e bloccandole le labbra con il pollice.
“Ehi, calmati, ok?” le disse con un piccolo sorriso dolce. “Hai avuto una crisi di panico.” le spiegò Rick. Kate spalancò gli occhi. “E’ normale in queste situazioni.” continuò per tranquillizzarla. “Capita. E il fatto che tu abbia subito ferite, ha contribuito allo shock. Ma ora è passata e…”
“E se ricapitasse?” domandò Kate in un sussurro spaventato. Castle le sorrise di nuovo e le lasciò un bacio sulla fronte.
“Allora sarò di nuovo vicino a te ad aspettare che passi.” le rispose sereno. Kate rialzò lo sguardo su di lui. Erano così  vicini che potevano sentire il calore dei rispettivi respiri. La voglia di Rick di saltare quegli ultimi centimetri era quasi dolorosa, ma si costrinse a rimanere immobile per non sembrare di voler approfittare della sua fragilità. Perché in quel momento Beckett sembrava così, debole e tranquilla, ma ora che la conosceva un poco, Castle sapeva che una volta che si fosse ripresa gli avrebbe rinfacciato quel gesto come un abuso delle sue condizioni non lucide.
Alla fine il colonnello fu il primo a indietreggiare e a spostare lo sguardo. Fu in quel momento che la donna si accorse che le loro gambe erano intrecciate e che lui era per metà su di lei. Arrossì violentemente e abbassò gli occhi.
“Ehm… ti dispiace?” disse imbarazzata, indicando con un cenno della testa i loro corpi.
“Oh, scusami!” esclamò subito Rick di rimando, scostandosi da lei. Gli mancava già il suo calore. Si costrinse a mettersi seduto per lasciarle il suo spazio. “Senti, Beckett, mi spiace, ma ora dovrei andare…” iniziò poi cauto per paura di un qualche nuovo crollo della donna. Si voltò a guardarla mentre lei lo osservava preoccupata. “Devo andare in centrale a controllare che tutti facciano il proprio lavoro. E voglio anche sapere se Ryan e gli altri stanno bene.” Kate annuì piano. Castle notò che aveva gli occhi un po’ rossi dal pianto. Sembrava stanca e spossata. Inoltre aveva i capelli in disordine e il vestito sporco di polvere. Ma a lui sembrava comunque bellissima. “Qui sei al sicuro.” continuò. “Perché non riposi un po’ nel frattempo? Io tornerò il prima possibile, te lo prometto.” Lei lo osservò ancora per qualche attimo e alla fine annuì ancora.
“Vai.” mormorò stanca, ma decisa. Rick le sorrise, quindi si abbassò per darle un altro bacio sulla fronte, indugiando stavolta più tempo del dovuto, e si alzò poi in piedi.
“Torno presto.” le promise. Quindi si voltò e salì le scale della cantina per poi correre alla finestra del salone, uscendo dal suo bozzolo sicuro ed entrando nella guerra.

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Xiao! :D
Io e i miei orari improponibili di pubblicazione... -.- va beh... XD
Anyway, sto poco perché sto realmente dormendo in piedi! XD Spero vi sia piaciuto il capitolo! ;) Il colonnello Dreixk (simpaticone proprio) era spuntato nel primo capitolo per chi non lo ricordasse (non vi biasimerei)! :) Per quelli che sono andati a cercare qualche info sulla battaglia aerea di Berlino, questo è l'inizio dell'attacco avvenuto la notte tra il 22-23 novembre 1943...
Anyway, per il prossimo capitolo purtroppo non posso farvi garanzie perché lo sto scrivendo, ma giovedì prossimo ho un esame da spararsi quindi...
A presto! :D 
Lanie
ps: qualche ringraziamento, come sempre, alle mie due compagne di cazzate Katia e Sofia (tanto love <3) ma vorrei ringraziare anche chi sta leggendo questa storia e chi ha commentato e/o messo tra seguite/ricordate/preferite la storia... non l'avevo ancora fatto e mi sembrava il minimo! :)
tanto love anche a voi! <3

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Capitolo 8
*** Una magia per dimenticare ***


Cap.8 Una magia per dimenticare
 

“Vai.” mormorò stanca, ma decisa. Rick le sorrise, quindi si abbassò per darle un altro bacio sulla fronte, indugiando stavolta più tempo del dovuto, e si alzò poi in piedi.
“Torno presto.” le promise. Quindi si voltò e salì le scale della cantina per poi correre alla finestra del salone, uscendo dal suo bozzolo sicuro ed entrando nella guerra.


“Beckett!” chiamò Castle rientrando dalla stessa portafinestra di casa dalla quale era uscito quasi tre ore prima. Sarebbe voluto tornare prima, ma l’attacco era andato in avanti ad oltranza e aveva quasi rischiato di rimanere bloccato alla centrale. Inoltre aveva incontrato Ryan, che l’aveva rassicurato sul fatto che sua moglie, gli Esposito e la Gates fossero tutti al sicuro, ed era anche passato velocemente da casa dell’amico per controllare che niente avesse subito danni. Quando era tornato al suo appartamento invece, Rick si era reso conto del perché non era riuscito ad uscire durante l’attacco. Metà del tetto della palazzina del suo vicino era saltata in aria e si era conficcata in buona parte nel suo ingresso, bloccandolo. “Beckett!” la chiamò ancora, dando un’occhiata veloce in giro per il salone. La casa per fortuna, a parte la porta d’entrata, il muro un po’ spaccato al piano superiore, qualche crepa e alcuni vetri rotti, sembrava non aver subito grossi danni. La stessa cosa non si poteva dire per Berlino. Questa volta il bombardamento era stato devastante. Anche solo per andare dalla centrale al suo appartamento, Rick aveva visto una quantità impressionante di crateri a terra ed edifici distrutti. E corpi. Molti corpi umani di chi non aveva fatto in tempo a nascondersi da qualche parte. Uomini, donne e bambini dilaniati, sanguinanti, in pezzi, bruciati. Un moto di orrore salì istantaneo in Castle, ripensando a quelle immagini, tanto da costringerlo a fermarsi davanti alla cucina. Si sentiva mancare l’aria. Respirò pesantemente, quasi piegato in due, le mani strette sulle ginocchia. Sentiva il sudore freddo colargli lungo la fronte e la guancia. Una piccola goccia solitaria si staccò dal suo naso e cadde a terra, nerastra per la polvere che aveva recuperato lungo il suo viso. Polvere e cenere. Un brivido gli passò lungo la schiena e dovette impedirsi di vomitare. “Beckett!!” chiamò con voce più acuta di prima, quasi con una nota di panico nella voce. Doveva vederla, sentirla, sapere che stava bene. Perché l’aveva lasciata?? Perché era stato così idiota da pensare prima all’esercito di un paese, che nemmeno era il suo, e solo poi a lei?? E se avesse avuto un’altra crisi?? Se avesse avuto bisogno di aiuto?? Se le fosse capitato qualcosa mentre lui era via?? Perché l’aveva lasciata?? Ora sentiva il bisogno di lei, del suo calore, della sua vita che fluiva nelle sue vene. Doveva sentirla viva. “KATE!!”
“Castle!” rispose finalmente la donna, aprendo la porta della cantina e uscendo fuori. Pareva stanca e provata, i vestiti polverosi, ma era incolume.
“Dio, Kate…” riuscì solo a mormorare Rick, prima di avvicinarsi ulteriormente a lei e di abbracciarla forte. Beckett rimase per un attimo immobile tra le sue braccia, rigida e stupita, ma poi si rilassò e lo abbracciò anche lei, le sua mani calde sulla sua schiena fredda.
“Va tutto bene…” sussurrò Kate, carezzandogli piano il dorso. “E’ finita.” Senza pensarci, Rick si fece cullare da lei. Abbassò il capo e affondò la faccia tra i suoi capelli sciolti e scompigliati, aspirando come una droga il suo profumo per imprimerselo in testa. Nonostante tutto quello che aveva passato, sapeva ancora di buono, di confortevole. Castle si diede mentalmente dell’idiota, nonostante non riuscisse a staccarsi da lei. Avrebbe dovuto essere lui quello forte. E invece era bastato vederla sana e salva per crollare. Ma tutte quelle vite che aveva visto spezzate quel giorno gli avevano ricordato Alwara ed Edzard, suo padre e l’immagine di Kate a terra sanguinante… Era un soldato. Ma non era senza cuore.  
Rimasero in quella posizione a lungo. Beckett continuava a carezzargli dolcemente la schiena, le spalle, il collo, i capelli. Per Castle quelle carezze sarebbero state in grado di calmare anche un leone. C’era una tenerezza tale nei suoi gesti che lo stupì. Per tutto il tempo Rick rimase semplicemente abbracciato a lei, come se fosse un’ancora di salvezza, il naso tra i suoi capelli e le braccia strette intorno alla sua vita sottile. Solo più tardi si era ricordato che Kate era stata ferita al fianco e aveva allentato un po’ la presa, senza comunque lasciarla. Si sentiva come un bambino che è corso dalla madre durante una notte di tempesta, spaventato e bisognoso di conforto. E quella straordinaria donna non glielo aveva negato. Lui non aveva pianto come un bambino ovviamente, né aveva parlato, ma semplicemente aveva sentito il bisogno di rimanere a contatto con lei il più a lungo possibile.
“Rick…” mormorò a un certo punto Kate piano. Castle mosse appena la testa a indicarle che stava sentendo. “Gli altri… stanno bene?” chiese cauta, preoccupata.
“Sì.” replicò solo il colonnello in un sussurro. Beckett sospirò sollevata, carezzandogli di nuovo il retro del collo. Rick poté sentire per un momento, al suo respiro, il petto di lei schiacciarsi morbido contro il suo. Represse a stento l’istinto di tirarla ancora di più vicina a sé.
“Cosa è successo?” domandò poi Kate piano. Ovviamente sapeva cosa era accaduto, ma Castle capì che si stava riferendo al suo crollo. Non se la sentiva però ancora di parlarne. Non ora che stava così bene stretto a lei.
“Possiamo… possiamo parlarne più tardi?” replicò in tono quasi timido. Beckett annuì e Rick le lasciò un leggero bacio sul collo che la fece rabbrividire tra le sue braccia. “Grazie.” sussurrò, affondando poi di nuovo la faccia tra i suoi capelli. Era già buio inoltrato e avrebbe preferito parlare di quelle immagini terribili nella sua testa con il sole. Il buio distorce ogni contorno e lo rende inquietante. La luce invece scaccia le ombre.
“Vogliamo andare a dormire?” chiese qualche secondo dopo Kate, sempre con tono basso. Era come se avessero paura che il mondo irrompesse nel loro piccolo universo se solo avessero parlato un poco più forte.
A quelle parole, la stretta di Rick aumentò intorno al corpo di lei e si irrigidì.
“Dormi con me.” disse il colonnello in un sussurro senza fiato. Il tono sembrava avesse una nota di implorazione nella voce, ma non gli importava. Questa volta toccò a Beckett irrigidirsi tra le sue braccia. “Ti prego.” continuò Castle. “Se vorrai, potrai legarmi per non toccarti, ma per favore, ho… ho bisogno di te.” Ci furono diversi secondi di silenzio e immobilità. Quindi un sospiro di Kate.
“Va bene.” rispose, carezzandogli di nuovo il retro del collo. Rick prese un ultimo respiro sul collo di lei, sollevato, aspirandone un’ultima volta il profumo, prima di tirare finalmente su la testa. La prima cosa che vide furono gli occhi di lei. Sembravano preoccupati e insieme così… sicuri. Castle si chiese come potessero esserlo, quando i suoi occhi blu probabilmente parevano un pozzo di malinconia con lei come unico raggio di sole. Lo sguardo di Kate lo attraeva. Avvicinò lentamente il viso al suo, ma, invece di baciarla come avrebbe voluto, poggiò semplicemente la fronte contro la sua e chiuse gli occhi. A un certo punto, sentì una cosa calda sulla sua guancia e solo in un secondo momento capì che era una delle mani di Beckett. Riaprì gli occhi e si trovò davanti un piccolo sorriso stanco. La osservò per un momento, ammaliato dal calore che quel semplice gesto portava con sé e dalla bellezza di lei. Quindi le fece un mezzo sorriso di rimando e si staccò. Prese Kate per mano e la condusse in camera sua. Salire al piano superiore non sarebbe stato comunque fattibile, perché Castle aveva già notato in precedenza che era stato in parte danneggiato dalla stessa granata che aveva fatto esplodere il tetto del vicino.
Una volta arrivati nella camera buia, Rick si stese così com’era sul letto, levandosi solo le scarpe, per non farla sentire ulteriormente a disagio e attese che Kate lo raggiungesse. Dopo un attimo di esitazione, lo fece. Gli si stese accanto lentamente e Castle voltò la testa per osservare il suo profilo. L’unica luce che penetrava nella camera era quella della Luna e Kate sembrava uno di quei sogni che aveva avuto spesso nelle ultime notti. Solo che stavolta era la realtà.
Non fidandosi di sé stesso e per paura che Beckett reagisse male, Rick si accontentò di allungare solo una mano per stringerla su quella di lei mentre tirava su il lenzuolo sfatto dal fondo del letto. Non voleva farla scappare, voleva anzi andarci cauto. Un sorriso però gli spuntò sulle labbra e si tranquillizzò quando lei strinse di rimando la presa sulla sua mano. Dal respiro di lei e dal profilo tenue disegnato dalla poca luce, Castle capì che Kate era voltata su un fianco verso di lui. Lui rimase a pancia in su, immobile, la testa girata verso di lei, meravigliato che qualcosa di così piccolo e bello potesse ancora succedere dopo quelle ore di sangue.
“Buonanotte Castle…” sussurrò Kate con un piccolo sbadiglio. Il colonnello volle credere che quel tono così sereno provenisse dal fatto che ora erano insieme.
“Notte Beckett.” mormorò in risposta. Rick rimase per qualche momento ad ascoltare il respiro di lei che si regolarizzava e a godere del calore che proveniva dalle loro mani intrecciate con un piccolo sorriso sulle labbra. Quindi la stanchezza ebbe la meglio e si addormentò anche lui.
 
Quando Castle si svegliò era già mattina inoltrata. Lo capì dai raggi di sole che illuminavano in parte la stanza e che sentiva arrivare sulla sua nuca e sul suo collo. Durante la notte doveva aver cambiato posizione inconsciamente. E anche Kate. Perché man mano che riprendeva contatto con la realtà, si accorgeva che lui ora era steso su un fianco con un braccio avvolto alla vita della donna, il suo petto contro la schiena di lei, le gambe semi intrecciate, il naso tra i suoi capelli. Quando quella nuova posizione prese finalmente strada nella sua coscienza, Rick si irrigidì e rimase immobile, quasi senza respirare. Come erano finiti a dormire così?? Non che avesse qualcosa di cui lamentarsi, ovvio, ma aveva più o meno promesso a Beckett che avrebbe tenuto le mani a posto durante la notte. Decise di spostarsi prima che la donna si svegliasse. Mentre pensava a come fare, rimase per un momento ipnotizzato dal lieve alzarsi e abbassarsi della figura di lei e dal calore che emanava la sua vicinanza. Sbatté le palpebre per mantenere un minimo di lucidità, nonostante si fosse appena svegliato e l’unica cosa che avrebbe voluto fare fosse rimanere lì abbracciato a Kate.
Lentamente, levò il braccio dalla sua vita, pronto a bloccarsi al minimo movimento di Beckett. Quindi, sempre con attenzione, disincastrò le loro gambe, spostò la coperta che copriva entrambi e sgusciò fuori da essa. Risistemò poi il lenzuolo su di lei e si sedette sul bordo del letto, passandosi le mani sulla faccia. Il pensiero di quello che avrebbe dovuto fare quel giorno lo bloccò quasi sul posto e dovette costringere sé stesso ad alzarsi invece di ributtarsi nel letto con Kate.
Senza fare rumore, Rick recuperò un paio di boxer e calze da un cassetto e una divisa pulita dall’armadio. Quindi andò in bagno per darsi una lavata veloce, radersi e cambiarsi. Prima che Kate si svegliasse, iniziò a fare un giro della casa per fare la conta dei danni che prima aveva controllato solo superficialmente. Tutto sommato erano stati fortunati. C’era molta polvere, diverse crepe e un paio di vetri rotti, di cui uno nella camera dove dormiva Beckett, ma i danni gravi erano solo la porta sfondata e il solaio e il bagno del piano di sopra con dei buchi alle pareti. Niente però che un buon carpentiere non avrebbe potuto risistemare in qualche ora. Il colonnello fece un sospiro. Gli sarebbe piaciuto poter chiamare Esposito a fare il lavoro, ma ovviamente non potevano farlo uscire da casa di Ryan.
Terminato il giro, Castle andò in cucina. Lavò la caffettiera dalla polvere che le era caduta sopra e recuperò il sacchetto del caffè da un armadietto. Ringraziò silenziosamente il fatto che gas e acqua ancora funzionassero. Aveva notato che invece l’elettricità era staccata.
Rick mise su il caffè e, nell’attesa che iniziasse a brontolare, tirò fuori del pane, chiuso al sicuro nel portapane, e il barattolo di miele per la colazione preferita di Kate. A quel punto lanciò un’occhiata all’ora e si accorse che era davvero tardi. Affondò un coltello nel miele, lo spalmò in fretta su una fetta di pane e mangiò il tutto velocemente, mentre con l’altra tirava giù il caffè e lo versava in due tazze. Prese il latte e lo aggiunse a entrambe le tazze insieme allo zucchero, quindi apparecchiò per Kate il tavolo della cucina. Avrebbe voluto portarle tutto personalmente a letto, ma non sapeva come avrebbe reagito dopo la notte… particolare che avevano avuto. Inoltre era in ritardo.
Quando fu tutto pronto, tornò in camera sua. Beckett ancora dormiva serena. Rimase per un momento a guardarla con un lieve sorriso in volto dalla soglia, quindi si avvicinò silenziosamente, per non spaventarla, e si sedette sul bordo del letto accanto a lei.
“Beckett?” la chiamò piano, carezzandole lentamente un braccio lasciato scoperto dal lenzuolo. “Beckett?” Lei fece una piccola smorfia e un versetto adorabile che lo fecero ridacchiare. “Beckett, svegliati.” la chiamò ancora una volta. Finalmente Kate aprì un occhio. “Buongiorno.” le sussurrò divertito.
“Che ci fai già sveglio?” borbottò lei richiudendo l’occhio e cacciando la faccia nel cuscino. Castle scoppiò a ridere.
“E io che pensavo fossi una mattiniera!” rispose ancora ridacchiando. “Comunque ti sembrerà strano, ma di tanto in tanto mi sveglio presto anche io. E a ben vedere non è neanche tanto presto, visto che sono già le dieci passate.” A quelle parole, Kate si voltò di nuovo verso di lui, gli occhi spalancati.
“Le dieci??” ripeté stupita. Poi lo osservò. “Ma tu sei già pronto! Perché non mi hai svegliata?” domandò poi con tono offeso e un po’ imbarazzato, alzandosi su un gomito e tirando su automaticamente il lenzuolo sopra il seno, come se non fosse vestita al di sotto. Rick sorrise dolcemente.
“Sembravi dormire così bene che non ho voluto svegliarti.” rispose con quella mezza verità. Non aveva propriamente voglia di rischiare la vita dicendole che si era risvegliato completamente appiccicato a lei. “Ora però devo andare.” disse cambiando argomento. “Devo tornare in centrale e iniziare a cercare qualcuno che mi rimetta a posto la casa.”
“E’ conciata molto male?” chiese preoccupata. Castle scosse la testa.
“Ha solo bisogno di qualche rattoppo.” replicò. “In ogni caso, se per te va bene, pensavo di passare più tardi per portarti dai Ryan. Lanie mi ha fatto una testa così ieri perché vuole controllarti la ferita…” aggiunse divertito, allargando le braccia davanti a lei per farle capire quanto lo aveva stressato. “E poi mi sentirei più tranquillo se tu fossi da loro, mentre io non ci sono, quando arriverà gente a sistemare. Va bene per te?” Kate si passò una mano tra i capelli scompigliati e annuì.
“Ok.” rispose passandosi poi una mano sulla faccia per tentare di svegliarsi del tutto. Fu in quel momento che iniziò a guardarsi intorno e a ricordare che non era nella sua stanza. Rick la vide iniziare ad arrossire e decise che era arrivato il momento di andare, nel caso fosse troppo imbarazzante per lei.
“Ti ho lasciato la colazione in cucina.” concluse il colonnello alzandosi. “Passo a prenderti tra un’ora. A più tardi.” le disse. Quindi lanciò un’ultima occhiata di sfuggita alle forme del corpo di Kate sotto la coperta e uscì dalla camera per tornare a scavalcare il muretto sul retro.
 
Come promesso, un’ora più tardi Castle tornò a prenderla. La scortò in auto fino dai Ryan e la lasciò nelle loro mani. Nessuno pareva aver notato i loro movimenti guardinghi per strada, ma con una città appena bombardata, chi davvero si sarebbe interessato a un soldato e una donna?
Rick e Kevin passarono la giornata in centrale, il colonnello alternando brevi visite a casa sua per controllare che i manovali che aveva trovato facessero un buon lavoro. Era gente che aveva perso tutto o quasi e che aveva bisogno di lavorare. Molti si erano fatti assumere come trasportatori di morti e feriti, altri avevano optato per aiutare nelle ricostruzioni. Qualcuno era riuscito a farsi prendere anche come cuoco o infermiere. Pur di guadagnare qualcosa, la gente faceva di tutto in quel momento. Almeno quelli che avevano deciso di rimanere in città o vi erano costretti, quelli il cui morale non era stato distrutto. Perché moltissimi erano anche i disperati e quelli che avevano deciso di fuggire da Berlino. La maggior parte a piedi, i più fortunati con biciclette, macchine o camioncini. Partivano con una valigia e la famiglia. Per chi aveva ancora qualcosa da mettere in una valigia. E, soprattutto, per chi ancora aveva una famiglia.
In centrale, il numero delle persone che erano arrivate a chiedere di figli, nipoti, mariti, mogli, zii, fratelli, amici era in poche ore decuplicato. Tutti volevano sapere che ne era stato degli altri. Ma Castle non avrebbe potuto aiutarli tutti. Le notizie sui morti erano ancora molto vaghe. Era iniziata la conta, certo, ma i nomi arrivavano alla spicciolata e inoltre continuavano ad aumentare. Dieci, cinquanta, cento, duecento, cinquecento. Sembravano non finire mai. Ogni soldato era stato richiamato in centrale, ma ovviamente la piccola stazione non poteva ospitare tutte le persone che chiedevano dei loro cari. Il colonnello dovette prendere la decisione di chiudere la casermetta. Fece uscire tutti i civili e poi fece appendere una bacheca più grande all’esterno. Man mano che arrivavano i nomi, questi venivano segnati su un registro e poi attaccati fuori in modo che chiunque potesse vederli. A fine giornata, c’erano più di settecento nomi sulla bacheca ormai stracolma. E continuavano ad arrivare. Rick si chiese se sarebbero mai finiti.
Castle e Ryan tornarono a casa del maggiore solo a sera inoltrata, stanchi, dopo aver fatto un ultimo giro a controllare che a casa del colonnello tutto fosse stato lasciato in ordine dai carpentieri già pagati. Avevano fatto un buon lavoro. I muri bucati erano stati ben chiusi e la porta era stata sostituita insieme ai vetri rotti delle finestre.
Fecero appena in tempo a mettere qualcosa sotto i denti, più per necessità che per vera fame, che iniziarono a suonare di nuovo le sirene antiaereo. Siccome né colonnello né maggiore erano di servizio quella sera, avendo contribuito già tutta la giornata precedente e parte della notte, si nascosero velocemente tutti in cantina. Pochi minuti dopo iniziarono le esplosioni. Là sotto ogni rumore sembrava ovattato, ma Castle poté intuire che quell’attacco non aveva niente a che vedere con quello della sera precedente. La notte prima era stato un bombardamento a tappeto della città. Questo sembrava più un tiro a segno di quello che era rimasto in piedi e che aveva una qualche valenza strategica. Gli scoppi delle granate infatti erano più rari, mentre i cannoni della contraerea erano molto più presenti e costanti.
Rick si passò una mano tra i capelli e poggiò la testa al muro freddo dietro di sé. Era seduto a terra sopra uno dei materassi presenti. Continuava ad aprire e a chiudere a pugno una mano in un gesto automatico di nervosismo e impotenza. A differenza di Ryan, si era tolto la casacca della divisa e ora era in camicia, lasciata aperta sia al collo che ai polsi, rivoltati sulle braccia. I suoi occhi blu erano fissi sul soffitto, verso la piccola lampadina che illuminava a fiocamente l’ambiente, ma in realtà non vedeva nulla. Stava pensando a quanta altra gente sarebbe morta quella notte, quante altre foto e nomi sarebbe stato costretto ad appendere alla bacheca il giorno dopo, e intanto cercava di capire l’andamento della battaglia dai colpi che sentiva. Quelli più bassi e lunghi erano i cannoni che sparavano. Quelli che invece duravano solo un momento ed erano più acuti, erano le bombe che esplodevano al suolo.
Ad un colpo più vicino, sentì il corpo di Kate farsi un poco più vicino al suo. Lei era seduta accanto a lui sul materasso insieme anche a Jenny e Kevin. L’altro invece lo occupavano gli Esposito e la Gates. Al gesto di Beckett, Rick si spostò appena verso di lei per farle sentire che era lì, quindi si diede una rapida occhiata intorno. La signora Ryan era saldamente attaccata al marito e lui le cingeva la vita con fare protettivo, lo sguardo di entrambi perso verso il basso. Rick ipotizzò fosse rivolto alla pancia di Jenny, anche se non poteva esserne sicuro. Il piccolo Leandro era incassato tra i suoi genitori, il viso nascosto sul seno della madre. Javier abbracciava sia Lanie che il figlio, ma, come per il colonnello, anche i suoi occhi erano rivolti al soffitto. Aveva la mascella serrata e uno sguardo di odio. Sembrava stesse per scoppiare da un momento all’altro. Javier voleva uscire. Forse per dare il suo contributo o forse per far cessare tutto, ma non avrebbe resistito ancora per molto là sotto, con la paura di morire come un topo in trappola e l’impossibilità di fare qualcosa. Una volta aveva confidato a Castle di aver sempre vissuto all’aria aperta e che quel continuo nascondersi era come una tortura per lui, anche perché era una persona molto combattiva che non era mai fuggita a uno scontro. Continuava a farlo solo per proteggere sua moglie e il suo bambino, finché non avrebbero trovato un modo per fuggire.
L’unica persona che pareva strana rispetto al solito era la Gates. Aveva un’aria triste, rassegnata, e il suo sguardo era perso sul pavimento. Rick si chiese se fosse riuscita a vedere la sua famiglia quel giorno. Era uscita la mattina presto, approfittando del caos post attacco, ed era rientrata poco prima di loro, ma non aveva detto una parola a riguardo. Però era sempre stata molto silenziosa sui suoi familiari. Il colonnello sperò che stessero tutti bene.
Un altro colpo fece tremare leggermente le pareti, mettendo tutti sul chi vive.
“Wow, questo era vicino…” commentò Ryan, passando automaticamente una mano sulla schiena della moglie per tranquillizzarla. L’altra mano era volata alla piccola pancia di Jenny, come se riuscisse a proteggere la sua creatura ancora non nata da ogni male con solo quel gesto. Un piccolo versetto spaventato uscì all’improvviso dalla bocca di Leandro. Il bambino aveva tentato di essere forte e di non piangere, ma si vedeva che era terrorizzato. Si aggrappò con forza al collo della madre, nascondendo il visetto contro il suo collo, e iniziò a singhiozzare piano. Lanie e Javier cercarono subito di calmarlo e consolarlo con parole dolci e carezze, ma ogni sforzo sembrava vano. A Castle faceva male sentire quel piccolo pianto, ma non sapeva che fare per tranquillizzare il bambino che già non avessero provato i genitori. Poi gli venne un’idea.
“Kev.” chiamò il colonnello. Ryan si voltò a guardarlo, stanco e malinconico. “Non avevi detto una volta di aver messo un mazzo di carte qui dentro?” Il maggiore sgranò gli occhi a quella richiesta, stupito. Anche Jenny e Kate lo guardarono confuse. La Gates sembrò invece curiosa, mentre Lanie e Javier erano troppo impegnati con il bambino per ascoltarlo.
“Non credo che qualcuno abbia voglia di giocare a carte, Rick…” replicò Ryan con un sospiro. Castle scosse la testa.
“C’è o no?” chiese ancora, insistente. Kevin gli lanciò un’occhiata perplessa, le sopracciglia aggrottate, ma alla fine annuì e gli indicò con un cenno del capo uno degli scaffali davanti a loro con tutti i generi di prima necessità.
“Terzo a sinistra.” rispose solo, concentrando poi di nuovo la sua attenzione sulle esplosioni e sulla moglie. Rick si alzò e andò verso il ripiano indicato, cercando con gli occhi ciò che gli serviva. Dopo qualche secondo lo vide: un piccolo mazzo di carte con il dorso a quadri blu e bianchi in un angolo nascosto dietro un barattolo di carne in scatola. C’era un pezzo di spago a tenere insieme le carte. Castle lo slegò e diede un’occhiata al mazzo. Era nuovo e aperto, praticamente mai usato. Ryan gli aveva detto tempo prima di averlo messo in cantina in caso di lunghi periodi di reclusione là dentro. Le carte erano quelle classiche con i quattro semi di cuori, picche, fiori e quadri. Sarebbero andate bene per quello che il colonnello aveva in mente.
“Ehi, Leo!” esclamò Rick iniziando a mescolare le carte. Leandro alzò il visetto in lacrime dal collo della madre e lo guardò curioso, tirando intanto su con il naso. “Ti va di vedere una magia?” chiese con un sorrisetto. A quelle parole, il bambino drizzò le orecchie e lo guardò con lo bocca aperta.
“Fai… fai le magie, zio Rick?” chiese titubante Leandro, pulendosi il naso con una manica della maglia che aveva indosso.
“Certo!” rispose Castle con un sorriso, sedendosi sul pavimento davanti a lui senza smettere di mescolare le carte. “Allora vuoi vedere? Mi farai anche da assistente?” Il piccolo annuì subito, curioso. Nonostante avesse ancora gli occhi gonfi e rossi, ora non piangeva più. Rick smise di mescolare e allargò il mazzo. “Prendi una carta. Guardala tu, ma non farmela vedere, eh!” lo ammonì poi, chiudendo gli occhi e voltando la testa con fare teatrale. Il bambino ridacchiò e prese una carta.
“E ora?” chiese, pieno di aspettativa.
“Rimettila nel mazzo.” disse il colonnello. Ubbidiente, Leandro rimise la carta nel mazzo. A quel punto Castle riaprì gli occhi e mescolò le carte, facendo intanto buffe smorfie con la bocca, fingendo di concentrarsi, così da far ridere il piccolo. Alla fine mise il mazzo mescolato sul palmo della mano e si fece pensieroso. “Allora, la tua carta è…” disse con voce bassa per creare più suspense. “Otto di cuori!” dichiarò, prendendo la prima carta e mostrandogliela. Leandro arricciò il naso e scosse la testa. “Ma come no??” esclamò Rick con tono fin troppo stupito. “Ok, allora rifacciamo. E’ il…” Prese la seconda carta del mazzo. “Due di picche!”
“No, zio!” replicò Leandro ridacchiando.
“Ma no, dai, non è possibile!!” ribatté il colonnello con aria fintamente disperata. “Donna di fiori! Jack di quadri! Asso di cuori!” continuò, sparando una carta dietro l’altra come gli uscivano dal mazzo. Nessuna però era quella di Leandro, che ora rideva proprio della sua disperazione.
“Fai proprio pena, amico.” dichiarò Esposito, sorridendo divertito. Intanto però Lanie gli mimò con le labbra un ‘Grazie’ da parte di entrambi.
“Se vuoi posso farti vedere io qualche trucco di vera magia.” dichiarò all’improvviso Kate ridacchiando, avvicinandosi a Rick e sedendosi accanto a lui davanti a Leandro. Castle la guardò con gli occhi sgranati.
“Tu sai fare i trucchi di magia??” domandò stupito. Beckett gli lanciò un’occhiata maliziosa e divertita.
“Ne so fare uno anche con i cubetti di ghiaccio…” replicò lei a bassa voce con tono suadente. A Rick cadde la mascella. “E se fai il bravo, prima o poi lo insegno anche a te.” continuò poi, tornando a un tono normale e prendendogli il mazzo di carte dalle mani, incurante della faccia tramortita del colonnello. “Ma ora lascia fare ai professionisti, o farai perdere credibilità a tutti i maghi del mondo!”
 
Castle scoprì ben presto che Beckett sapeva davvero il fatto suo nella magia. Il gioco che lui stesso aveva tentato scherzosamente di fare, lei lo aveva replicato in maniera impeccabile, muovendo le mani come un vero prestigiatore e indovinando tutte le carte che Leandro pescava. Poi aveva fatto sparire il mazzo per farlo riapparire in una scarpa del piccolo e aveva mischiato le carte in venti modi differenti, tutti spettacolari e veloci, prima di tirare fuori altri giochi magici, sempre con le carte, di cui Castle non sapeva neppure l’esistenza.
Per Rick era stata una gioia vedere il bambino così allegro, come se non ci fosse stata alcuna bomba sopra di loro, e osservare inoltre Kate così spensierata e presa dal gioco. Lui un po’ aveva guardato e un po’ aveva fatto da cavia a Beckett per qualche magia. Poi era andato ad accasciarsi accanto alla Gates mentre Kate annunciava di voler far uscire un fiore da una delle carte di fiori del mazzo. Attesero tutti pazientemente e, dopo qualche rigiramento di mano, ecco spuntare un fiorellino di carta, lo stesso che aveva chiesto sottovoce al colonnello di creare qualche minuto prima. Castle sorrise divertito. Quella donna era incredibile. E un giorno avrebbe davvero dovuto insegnargli quel trucco con il ghiaccio…
“Si è trovato una donna davvero capace, signor Castle.” commentò a un certo punto la Gates, distraendolo dai suoi pensieri. “Complimenti. Le serviva qualcuno che la facesse rigare dritto.” Rick la guardò con un sopracciglio alzato e lei gli lanciò appena un’occhiata divertita, l’ombra di un piccolo sorriso sulle labbra.
“Beh, a dir la verità, lei ha trovato me.” replicò divertito il colonnello, tornando a guardare Kate che ora stava di nuovo indovinando una carta per Leandro. “Anche se non so ancora per quanto…” aggiunse poi un momento dopo con tono più triste, mentre i pensieri sulla madre di Beckett tornavano a tormentarlo.
“Dovrebbe dirle la verità.” dichiarò la Gates a bassa voce. Con Kate immersa nella magia, per fortuna tutti guardavano lei e nessuno prestava loro ascolto. Rick si voltò a guardare la domestica, le sopracciglia aggrottate.
“Come posso farlo?” replicò in un sussurro teso. “Mi odierebbe. E se ne andrebbe via subito.” Victoria lo guardò per qualche istante con i suoi profondi occhi neri.
“E lei di cosa ha paura, signor Castle?” chiese. “Che la odi o che se ne vada?”
“Ho paura che non mi rivolgerà più la parola!” ribatté Rick nervoso. La Gates scosse la testa e tornò a guardare Kate.
“Finché si è vivi, qualunque parola può essere detta.” commentò brevemente. “Signor Castle, non esiste un  momento buono per le cattive notizie.” aggiunse poi dopo qualche secondo di silenzio, interrotto solo dalla risata di Leandro. “Prima o poi dovrà dirle che sa cosa è successo alla madre. E allora cosa accadrà? Probabilmente la odierà all’inizio per averglielo tenuto nascosto, ma se c’è nell’aria quello che vedo, allora sono sicura che saprà farsi perdonare…”
“Cosa c’è nell’aria?” chiese perplesso Castle. La Gates fece un sorrisetto, ma non disse altro.
“Più tempo ci mette a dirglielo, più rischierà di perderla.” concluse la donna seria. Rick la guardò con le sopracciglia aggrottate, un po’ scocciato. Lo sapeva anche lui questo. Più tempo perdeva, peggio era. Ma non riusciva a decidersi a separarsi da lei. Perché sapeva anche che una volta che quel segreto fosse venuto a galla, nulla avrebbe più trattenuto Kate in Germania. Ma come avrebbe potuto poi farsi perdonare, una volta pronunciate quelle parole? La Gates si sbagliava. Non c’era niente nell’aria che avrebbe potuto far restare Kate con lui.
Rick sospirò malinconico e tornò a guardare Beckett, che ora stava mischiando le carte, facendole volare pure in un semicerchio verticale davanti a lei.
“La tua famiglia sta bene?” domandò Castle per cambiare argomento. “La casa è intera?” Victoria si irrigidì per un attimo, ma poi prese un respiro profondo.
“La casa è stata distrutta da una granata.” rispose alla fine. Rick balzò a sedere preoccupato. “Ma loro ora sono in un altro posto sicuro.” continuò la Gates, tranquillizzandolo.
“Non ti manca mai stare con loro?” chiese ad un tratto il colonnello, curioso, approfittando di quel momento di confidenze. La donna fece un mezzo sorriso malinconico.
“Sempre.” rispose. “Ma un giorno questa guerra finirà, signor Castle. A quel punto i miei servigi non saranno più richiesti e io potrò rivedere la mia famiglia…”
“Vorrei poter mettere al sicuro anche loro, come gli Esposito e tutti quelli che Ryan ha ospitato!” commentò con malcelata rabbia Rick.
“Lei vorrebbe salvare tutti, signor Castle.” replicò la domestica con un mezzo sorriso. “Anche se è impossibile.”
“Io…” Non riuscì però a completare la frase perché Leandro lo chiamò per partecipare a un altro gioco con Kate.
“Zio Rick, vieni??” insistette il bambino. Castle lanciò un’ultima occhiata alla Gates che però gli ricambiò il suo solito sguardo nero, profondo e indecifrabile.
 
“Voi non dovete andare di nuovo, vero?” domandò Jenny preoccupata quando uscirono dalla cantina a notte fonda. Bombe e cannoni avevano smesso di farsi sentire già da una buona mezz’ora, ma Castle e Ryan avevano voluto essere sicuri che fosse realmente così. Leandro era crollato da almeno dieci minuti e ora stava attaccato al collo del padre che lo teneva saldamente in braccio. Avevano continuato a giocare con le carte e la magia fino a quando i trucchi non erano finiti e a quel punto Rick aveva tirato di nuovo fuori il suo talento di narratore. Si era inventato infatti, con l’aiuto sempre del mazzo di carte, la storia del giovane e avventuroso Jack di Cuori, innamorato della bella Donna di Quadri, il cui cattivo padre però, il Re di Fiori, non voleva far sposare se prima Jack non avesse dimostrato quando coraggio aveva nella sua anima cartacea. Nonostante il poco materiale, era venuta fuori una storia niente male, con le peripezie del povero Jack, gli aiuti del magico e saggio Re di Picche e i baci rubati con Donna.
Una volta fuori, Esposito passò avanti agli altri per andare a portare il bambino nel suo letto nella stanzetta segreta, mentre la Gates iniziò a fare il giro della casa per controllare che non ci fossero danni.
“No, tranquilla, amore.” la rassicurò Kevin abbracciando per la vita la moglie e lasciandole un bacio sulla fronte. “Per stasera non è compito nostro. Non andremo da nessuna parte.” Jenny  sospirò sollevata e appoggiò la testa alla spalla del marito.
“Noi cosa facciamo?” chiese Kate a Rick mentre tutti si avviavano verso il salone e Javier tornava dal corridoio a mani vuote. “Rientriamo a casa tua?” Castle ci pensò su per qualche momento.
“Sinceramente non lo so.” rispose alla fine, passandosi una mano tra i capelli. “E’ notte fonda e c’è il coprifuoco,” spiegò. “Ma d’altronde qui non c’è posto e c’è appena stata una battaglia, il che potrebbe darci un vantaggio. Nonostante l’orario, sicuramente ci sarà molta gente in giro e nessuno noterà due persone in più…”
“Non potreste restare?” chiese Jenny nervosa, interrompendolo. “Credo saremmo tutti molto più tranquilli.” Rick sospirò e si grattò il mento, dubbioso.
“Tu cosa preferisci fare?” chiese a Beckett. “Te la senti di arrivare a casa o preferisci restare per stanotte?” Lei alzò appena le spalle.
“Non ho paura di uscire se ci sei tu con me.” rispose semplicemente.
“Io dormirei di nuovo per terra, se è per questo.” replicò Rick con un mezzo sorriso.
“Ma guardali come sono teneri...” commentò ironica Lanie, scambiando un’occhiata maliziosa con Jenny che ridacchiò. Kate arrossì un poco e abbassò lo sguardo, mentre Castle si schiarì la gola.
“Quindi ti andrebbe bene tornare?” domandò alla fine il colonnello a Beckett. Avrebbe sul serio di nuovo dormito sul pavimento, se lei gli avesse chiesto di restare, ma se avessero potuto evitare la sua schiena avrebbe gradito molto. E poi era solo un breve tragitto nascosto dalle ombre della notte. “Sono solo pochi minuti, se ci muoviamo in fretta.”
“Ok.” rispose lei.
“Ragazzi, per favore però domattina tornate qui.” gli disse Lanie. “Devo cambiare la fasciatura di Kate e magari do anche un’occhiata alla tua mano Castle…”
“La mia mano è a posto.” replicò Rick osservandosi il dorso della mano. Si era formata una sottile crosta lungo il taglio, dal mignolo al pollice, ma sembrava a posto. Lanie sbuffò.
“Non importa. Vi rivoglio qui domattina, chiaro?” tagliò corto, lanciando un’occhiataccia al colonnello. Lui alzò subito le mani in segno di resa.
“Ok, ok, verremo domani, non c’è bisogno di agitarsi!” replicò, un po’ preoccupato e un po’ divertito.
A quel punto salutarono e, con la promessa di fare attenzione, Castle e Beckett uscirono nella notte. Il colonnello aveva avuto ragione: nonostante il buio, molta gente era fuori per controllare i danni o cercare parenti e amici dispersi. Fecero tutta la strada verso l’appartamento di Rick indisturbati e veloci, così che vi arrivarono in soli dieci minuti.
Una volta al sicuro, Castle chiuse per bene la porta e si guardò attorno. Stavolta non era stato distrutto nulla, ogni cosa era al suo posto. Nessuna granata per fortuna doveva essere stata lanciata troppo nelle vicinanze.
“Hai fame?” chiese Rick, andando verso la cucina. Lui non aveva mangiato molto dal giorno prima, ma quella costante preoccupazione gli aveva fatto passare parte della fame. Però aveva sete, quindi aveva optato per un bicchiere d’acqua. Si sarebbe fatto volentieri un bel bicchiere di whiskey, ma a stomaco praticamente vuoto non sarebbe stata una cosa molto saggia. Inoltre c’era Beckett. E poi avrebbero potuto richiamarlo in qualsiasi momento, nonostante sia lui che Ryan avessero detto di non essere in servizio.
“No, sono a posto, grazie.” rispose Kate con un sospiro stanco, appoggiandosi allo stipite della porta, le braccia incrociate, e guardandolo mentre riempiva un bicchiere con l’acqua di una bottiglia presa dal frigo. “Sinceramente ho solo voglia di andare a dormire.” Castle annuì e, dopo aver buttato giù un bel po’ d’acqua tutta d’un fiato, lasciò il bicchiere vuoto nel lavandino. Quando uscirono dalla cucina, Rick vide Kate cambiare direzione e dirigersi verso le scale. Per un momento la guardò confuso.
“Dove vai?” Lei si voltò e lo guardò altrettanto perplessa, le sopracciglia aggrottate.
“Uhm… in camera mia?” rispose retorica. Un lampo di comprensione passò sulla faccia di Castle.
“Ah, giusto.” borbottò a bassa voce. In qualche modo si era convinto che siccome avevano dormito insieme la sera prima, avrebbero potuto benissimo farlo anche quella notte. Forse perché aveva dormito senza un solo incubo o pensiero con lei accanto. “Quindi non… insomma…” balbettò indicando con un cenno il corridoio dall’altra parte del salone, dove c’era la sua camera. “Speravo che… ecco…” Cacciò uno sbuffo scocciato perché non riusciva a trovare le parole. “Insomma speravo che tu dormissi di nuovo… con me, ecco…” riuscì a dire alla fine, prima con tono spedito e poi abbassando sempre di più la voce, finendo in un sussurro quasi imbarazzato. Kate sgranò gli occhi stupita, la bocca semiaperta per la sua richiesta. Poi gli fece un piccolo sorriso timido, le guance un po’ rosse.
“Non pensavo fossi così bambino da non riuscire a dormire da solo di notte.” scherzò un po’ imbarazzata e un po’ divertita. Rick però la guardò serio.
“Come fai a preferire una stanza vuota dopo tutto quello che è successo?” domandò piano, quasi stupito. Kate sospirò e abbassò lo sguardo, passandosi intanto una mano tra i capelli.
“E’ complicato, Castle.” rispose al pavimento con tono mesto.
“Non deve esserlo per forza.” ribatté Rick con una nota più dolce nel tono, facendo alzare di nuovo lo sguardo alla donna. “Senti io…” Nel cercare le parole, si avvicinò di un passo a lei. Per un attimo Kate si irrigidì appena vedendolo avvicinarsi, ma rimase immobile. “Non ti toccherei con un dito, lo sai.” disse Castle con tono basso e sincero, avendo notato la sua rigidità, senza staccare i suoi occhi blu da quelli verde-nocciola di lei. “Sai che senza il tuo permesso non farei niente. Ma non senti il bisogno anche tu di un po’ di compagnia? Non quel tipo di compagnia…” aggiunse velocemente, visto che già lo stava guardando male con un sopracciglio alzato. “Solo… vicini, ecco. Senza complicazioni.” continuò. “Insomma potrebbe caderci una bomba in testa stanotte o domani o fra una settimana! Non vorresti aver passato il tuo tempo con qualcuno per semplice calore umano, invece che sola in una stanza fredda?” Kate si mosse a disagio sul posto, chiaramente indecisa, il labbro inferiore stretto tra i denti. “Ti prego…” sussurrò alla fine Rick, avvicinandosi ancora un poco a lei e trovandosi così a poco più di venti centimetri da lei. Beckett si agitò di nuovo sul posto, passando il peso del corpo da un piede all’altro senza sosta. Dopo qualche secondo però si fermò e sospirò.
“Va bene.” disse solo. “Ma ricordati…”
“Che dormi con un coltello.” finì per lei Rick, ora con tono più sereno, sorridendole. “Sì, me lo ricordo. Sai, volevo insegnarti a usare anche la pistola in caso di necessità, ma forse la mia salute sarebbe più tranquilla se non lo facessi…” aggiunse ridacchiando. A quelle parole gli occhi di Kate luccicarono per un attimo.
“Davvero mi insegneresti?” chiese eccitata. “Ho sempre voluto saper sparare!”
“Se lo vuoi, sì.” replicò Castle divertito. “Però ne parliamo domani. Ora è il caso di andare a nanna!”
“Com’è che ora che ho detto di sì hai tutta questa voglia di metterti a letto?” chiese Kate con un sopracciglio alzato e un sorrisetto in volto.
“Non farmi rispondere a questa provocazione perché potrei essere molto sporco e allora non saprei se avresti ancora voglia di dormire con me!” rispose Rick ghignando. Beckett roteò gli occhi fintamente esasperata, il sorriso ancora ben presente sul suo volto. “Quindi ora vai a cambiarti e fai con calma. Io ti aspetto in camera.” concluse il colonnello. La donna gli fece una mezza linguaccia e poi si voltò per andarsene verso le scale. Un attimo dopo però, Rick la trattenne di nuovo per un braccio. “Aspetta…” disse, quindi le si avvicinò, fino a portare il suo viso a pochi centimetri da quello di lei, e le sussurrò un “Grazie” all’orecchio prima di lasciarle un piccolo bacio sulla guancia. Poi Castle si allontanò e se ne andò verso la sua camera, non prima di aver visto con la coda dell’occhio Kate toccarsi leggermente con le dita il punto in cui l’aveva baciata e mordersi il labbro inferiore.

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Xiao!! :D
Lo so, sono in ritardo, ma avevo avvertito! XD E purtroppo vi dico già che avrò un altro paio di settimanine del cavolo a studiare per 2 esami in contemporanea, quindi abbiate pietà di me... :)
Anyway, passando a qualcosa di più interessante della mia vita, torniamo alla vita nel 1943! XD Qualcosa mi dice che Castle e Beckett si stanno avvicinando... ma quanto durerà? XD (quando sono bastarda *risata malefica*)
Ok non dico altro perché non so che altro dire! XD Spero solo vi sia piaciuto! :) Grazie come sempre alle mie consulenti Katia e Sofia (tanto love <3) e grazie a chi continua a recensire e/o a mettere tra seguite/ricordate/preferite questa storia! <3<3
A presto!! (spero) :D
Lanie

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Capitolo 9
*** Solo un uomo ***


Cap.9 Solo un uomo
 


Il mattino dopo Rick si svegliò di nuovo prima di Kate. Aveva dormito benissimo, senza uno straccio di incubo. Solo a un certo punto, poco prima di addormentarsi, gli erano tornate alla mente le immagini della giornata di combattimenti e il segreto che ancora custodiva con la donna accanto a lui. Poi però si era messo a osservare Beckett dormire, la linea che il suo corpo formava sotto le coperte, il lieve alzarsi ed abbassarsi del suo petto a ogni respiro. Inoltre aveva sentito il suo odore e il suo calore così vicini a lui, che non aveva potuto fare altro che essere confortato da questi, scacciando così inconsciamente dalla mente quei pensieri oscuri e cedendo al sonno. Per di più al risveglio, il colonnello aveva avuto un’altra bella sorpresa. Evidentemente lui non era l’unico che cambiava spesso posizione di notte. Altrimenti come avrebbe spiegato il fatto di ritrovarsi Kate che dormiva beatamente con la testa appoggiata sulla sua spalla, una mano sul suo petto, mentre lui le cingeva la vita con un braccio?
Castle la osservò respirare piano con un piccolo sorriso sulle labbra. La notte, con la luce fioca, lei gli sembrava un angelo. Ma era con la luce del giorno che Kate diventava una realtà straordinaria. Il colonnello sospirò e si passò una mano sulla faccia, cercando di svegliarsi e convincersi a uscire da quel letto comodo con quella donna bellissima. La sua ragione gli diceva di alzare il culo prima che Beckett si accorgesse di come erano abbracciati e tirasse fuori un coltello o decidesse di non parlargli più. Il suo corpo diceva l’esatto contrario, ovvero di non azzardarsi a muovere un muscolo, per non svegliarla e per non perdere un attimo di lei. O magari invece di svegliarla e vedere la sua reazione a quella nuova ‘posizione’ presa dal corpo stesso della donna su di lui. Forse avrebbe potuto anche essere positiva. Forse. Decise di alzarsi, anche se di malavoglia, prima che il suo corpo iniziasse a dare segni fin troppo evidenti del suo parere personale.
Con attenzione spostò Kate leggermente di lato, quel tanto che bastava a sfilare il suo braccio da sotto di lei. Quindi si mise seduto sul bordo del letto e la coprì di nuovo con il lenzuolo, che si era spostato nel movimento, perché non prendesse freddo. La casa era piuttosto calda, ma erano comunque già al 24 novembre. Castle si alzò e andò a darsi una sciacquata in bagno, prima di dirigersi in cucina per preparare qualcosa. Passando, lanciò un’occhiata all’orologio del salone e notò sorpreso che erano quasi le otto. Non aveva dormito molto, ma non era stanco. Il fatto di aver avuto un buon sonno aveva giovato anche alla sua spossatezza.
Fece altri due passi, ma si bloccò prima di arrivare in cucina, lo sguardo catturato dalla grande radio color legno scuro dimenticata in un angolo del salone. Non essendo quasi mai a casa, Rick non aveva spesso occasione di sentire la radio. Inoltre il fatto di essere un ufficiale dell’esercito gli dava diritto di conoscere certe notizie molto prima dei giornalisti. Si chiese però se avrebbero detto qualcosa riguardo agli attacchi delle due notti precedenti o se fosse successo nel frattempo qualcosa che, visto il caos, non era riuscito a conoscere. Decise di accendere l’apparecchio. Lo spostò dall’angolo fino a portarlo vicino all’unico divano del salone, quindi girò una manopola per attivarlo e abbassò il volume così che non disturbasse Kate. Le notizie le avrebbero date nel giro di qualche minuto, e non aveva voglia di sentire i due giornalisti che in quel momento stavano dibattevano su chissà cosa, così ne approfittò per andare in cucina per iniziare a mettere su il caffè e tirare insieme fuori pane e miele. Appena la caffettiera iniziò a rumoreggiare, la spense e mise il liquido nero e fumante in due tazze, aggiungendo poi latte e zucchero. Stava per appoggiare tutto sul tavolo quando sentì in sottofondo la musichetta di apertura che annunciava le notizie. Si pulì le mani nei pantaloni comodi che usava per dormire e tornò in salone. Quindi si sedette sul divano davanti alla radio e alzò appena il volume in modo da capire il serio e gracchiante tedesco dall’altra parte dell’apparecchio.
“…notizie sul bombardamento avvenuto a Berlino nella notte tra il 22 e il 23. Sembra che l’attacco sia stato organizzato e messo in atto dall’aviazione inglese, altrimenti detta RAF. Alcune voci confermerebbero che le gli aerei siano partiti dalle coste dell’Inghilterra per giungere sopra Berlino a compiere questo devastante gesto contro la popolazione tedesca. Alti ufficiali hanno giurato vendetta contro queste atrocità, ma molti sono quelli che iniziano a chiedersi dove la guerra del nostro Fuhrer Hitler stia portando la Germania. L’Italia di Mussolini è persa dall’Armistizio dell’8 settembre, il fronte africano è un lontano ricordo dall’entrata a Tripoli degli inglesi del 23 gennaio e la Russia di Stalin sta riprendendo possesso in questi ultimi giorni di tutti i territori prima occupati. Il Fuhrer continua a dare incoraggiamenti e rassicurazioni, ma, a giudicare dall’attuale stato delle cose, sembra che la situazione stia sempre più sfuggendo di mano. Tornando alla battaglia che ha avuto luogo meno di due giorni fa a Berlino, sembra che l’attuale bilancio delle vittime sia di circa milleseicento persone, ma si stima che potrà arrivare fino a duemila. I feriti sono ancora in numero sconosciuto, visto che molti sono quelli rimasti intrappolati dalle macerie. Gli sfollati invece sono arrivati a raggiungere la soglia delle centosettantacinque mila persone e molti cittadini hanno deciso di abbandonare definitivamente la capitale. Diversi luoghi, civili e militari, che avrebbero potuto ospitare questo elevato numero di senzatetto sono stati distrutti nel corso dell’attacco e molti sono anche gli incendi creati da un nuovo tipo di bomba al fosforo in grado di generare parziali tempeste di fuoco. L’attacco avvenuto ieri sera invece ha avuto relativamente poco impatto in termini di crolli e deceduti. Si stima per il momento tra le cento e le trecento pers…”
Castle spense la radio con un gesto secco, disgustato, un conato di vomito bloccato in gola. Aveva voluto sentire le ultime notizie: era stato accontentato. Il numero di morti, feriti e disperati in circolazione ora lo avrebbe fatto stare sicuramente meglio. Ma che gli era passato per la testa?? Lui aveva visto quelle stesse cose che il radiocronista aveva raccontato. Che bisogno aveva avuto di riportare quelle immagini alla mente?? Per poi anche sentir dire che l’attacco della sera prima aveva avuto ‘relativamente poco impatto’… Ma chi era quello per decidere quanto impatto aveva avuto?? Forse non su di lui, ma magari su un uomo che aveva perso tutta la sua famiglia o la sua casa aveva avuto un impatto enorme!! Come cazzo si permetteva di…
“Che numero ha detto?” La voce di Kate, dietro le spalle, fece fare un balzo sul divano a Rick. Si voltò e la vide ferma all’entrata del corridoio con solo la leggera veste di cotone lunga che usava per dormire.
“Scusa,” borbottò il colonnello, passandosi una mano sulla faccia. “Non volevo svegliarti.”
“Mi sono svegliata quando ti sei alzato.” replicò in risposta Beckett, alzando appena le spalle. Poi si morse il labbro inferiore e fece qualche passo incerto nella sua direzione. “Allora che… che numero ha detto?” ripeté la donna quasi timidamente. “Ho capito di cosa parlava, ma mi sono persa i numeri che elencava…” Castle la guardò per un momento perplesso, poi si ricordò che aveva ascoltato la radio in tedesco e che Kate quindi doveva aver fatto parecchia fatica a capire. Sospirò e si passò una mano tra i capelli, lasciando poi poggiare la fronte sul palmo, il gomito sul ginocchio.
“Nell’attacco di due giorni fa, circa duemila persone morte.” ripeté brevemente. Sentì Beckett trattenere il respiro. Poteva capirla. Rinchiusi dentro una cantina si fatica a prendere contatto con quei numeri. “Centosettantacinquemila sfollati. Non si sa quanti feriti. Nell’attacco di ieri invece sembra che ci siano stati solo qualche centinaio di morti…” Disse quel ‘solo’ in tono amaro e sarcastico.
“E’… orribile…” mormorò Kate, una mano davanti alla bocca, gli occhi sgranati. E quelli non erano neanche i numeri peggiori, pensò Rick. A voler ben vedere, per una città grande come Berlino era andata ancora piuttosto bene. Altre città, magari più piccole della capitale o meno significative dal punto di vista militare come Essen, Norimberga, Wuppertale, Colonia o Amburgo, erano state colpite molto più duramente in termini di vittime. Ma bastava passare dal pensare un numero al pensare la persona. E allora si può notare che anche la morte di un singolo può fare la differenza.
Rick annuì appena da sopra il palmo. Poi un momento dopo sentì una mano calda appoggiarsi sulla sua schiena curva.
“Tu hai anche visto…” sussurrò Kate con tono quasi di compassione. Castle si raddrizzò e si voltò verso di lei, dietro il divano. Dalla faccia di Beckett, capì che doveva avere un’aria davvero disperata. Lentamente la donna fece il giro del divano e si sedette accanto a lui. Il colonnello non la perse di vista un secondo, come se la figura di lei fosse l’unica cosa che gli desse la speranza per credere che prima o poi il mondo avrebbe finalmente iniziato a girare nel verso giusto. “Cosa è successo là fuori?” chiese Beckett dopo qualche secondo con tono basso e dolce. “Ne vuoi parlare? Di quello che hai visto?” Rick continuò a guardarla senza dire nulla. Quella prima domanda gliela aveva già fatta, quando era tornato dopo l’attacco e l’aveva abbracciata all’istante. “Rick?” lo richiamò lei con tono leggermente preoccupato, posandogli una mano sulla gamba. Il colonnello abbassò lo sguardo per osservarla. Aveva una mano piccola e sottile, un po’ pallida, ma estremamente calda e confortante.
Rick sospirò piano. Forse era il momento di spiegarsi.
“Mi chiedi cosa ho visto…” rispose alla fine con un mezzo sorriso triste e ironico, posando la sua mano su quella di lei e stringendola appena. “La guerra. Ecco cosa ho visto.” continuò. “Ho visto una donna bruciare viva davanti a me a causa di una di quelle bombe al fosforo di cui parlava la radio. Chiedeva aiuto, ma… come potevo…?” Kate gli strinse appena la gamba e lui si riprese un poco. Alzò lo sguardo e incrociò i suoi occhi sgranati, ma rassicuranti. “Ho visto un bambino con un braccio dilaniato da una bomba. Ho visto un uomo, in cerca della sua famiglia, spararsi un colpo da una pistola presa da un soldato morto dopo aver visto la casa in cui si erano rifugiati sua moglie e i suoi figli saltargli per aria davanti agli occhi. Ho visto persone impazzire. Ho visto corpi schiacciati dalle macerie. Ho visto case e palazzi crollare come castelli di carta e chiese bruciare quasi anche nelle pietre. Ho visto aerei sorvolare la città e prendere di mira bersagli che non sarei mai riuscito a raggiungere. Ho visto vampate di fuoco e fumo salire dopo che una bomba incendiaria era stata schiantata al suolo, sentendone quasi il calore in faccia… Mi hai chiesto cosa è successo, cosa ho visto. Questo è quello che ho visto.” concluse alla fine con tono fermo e terribilmente dolorante. Ci fu qualche attimo di silenzio pesante. Castle finalmente si sentiva un po’ più sollevato, ma allo stesso tempo aveva paura di aver fatto male a raccontare quelle cose a Kate. Non voleva che lei avesse i suoi stessi incubi.
Si passò una mano tra i capelli e con l’altra lasciò la mano di Beckett, che fino a quel momento aveva sempre tenuto sotto la sua. Chiuse gli occhi e si allontanò leggermente da lei, la testa bassa, le spalle curve. Un momento dopo però qualcosa di caldo e liscio gli sfiorò al guancia. Riaprì gli occhi e vide Kate carezzargli lentamente il volto.
“Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere tutto questo.” sussurrò lei piano, gli occhi lucidi.
“Sono un soldato.” rispose con tono tetro, riabbassando lo sguardo al pavimento. “La guerra è il mio mestiere.” Beckett scosse la testa.
“Nessuno dovrebbe vedere una cosa del genere. Non dovrebbero capitare.” replicò a bassa voce.
“Non dovrebbero,” concordò lui. “Ma a questo punto dovrei esserci abituato.”
“No!” ribatté Kate, in tono così secco da fargli alzare la testa per guardarla stupito. Lei prese un respiro profondo per calmarsi prima di continuare. “Abituarsi a quello che hai visto tu, non provare niente davanti al dolore fisico e morale di quelle persone, vuol dire… vuol dire essere una macchina o essere un mostro!” disse in tono duro. “Perché solo un pezzo di ferro non può comprendere le emozioni e un mostro si nutre del sangue stesso del dolore. E, Rick…” aggiunse poi con tono più dolce, facendogli una carezza lenta, tracciando il contorno della sua guancia e del mento, leggermente ispido per la barba non fatta. “Tu non sei né una macchina, né un mostro. Sei solo un uomo.”
Castle la guardò per un momento con la bocca semiaperta, mentre assimilava le sue parole. Quindi le fece un mezzo sorriso di ringraziamento e si appoggiò di più alla mano di Kate accanto al suo viso, chiudendo gli occhi per godersi quelle piccole e inaspettate coccole. Aveva ragione lei in fondo, lo sapeva. Era crollato perché era solo un uomo. Per quanto soldato e colonnello. Nessuno, neanche i militari, erano mai stati preparati a quello che sarebbe successo durante quella guerra. In caserma gli avevano insegnato come sparare e accoltellare, come uccidere e difendersi, e i racconti della Grande Guerra erano presi solo come storie per spaventare i cadetti. Ora tutti sapevano, in un modo o nell’altro, cosa fosse realmente la Guerra. Non un gioco o una scommessa. Ma un sottile filo tra la vita e la morte. Tra il restare uomo e diventare mostro.
“Grazie.” mormorò Rick girando la testa e lasciando un leggero bacio sulla mano di Kate. Lei gli sorrise dolcemente. “Avevo bisogno di sentirmi dire che non ero diventato un mostro.” continuò poi con tono più leggero e scherzoso. “Infatti mi stavo giusto preoccupando per questi peli che mi stanno crescendo in faccia.” disse, indicandosi la barbetta sul suo mento. “Avevo paura che la invadessero del tutto, ma, ora che hai fugato ogni mio dubbio, evidentemente è solo la dimostrazione che sto invecchiando e ho dimenticato di farmi la barba!” Beckett roteò gli occhi divertita.
“Tranquillo, se mai diventerai un mostro ti avvertirò.” replicò lei, smuovendogli con fare giocoso il ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte. Rick scosse la testa, come un cane, per risistemarlo e quando rialzò gli occhi su Kate la trovò in piedi.
“Dove vai?” le chiese curioso e un po’ risentito. “E’ già finita l’ora delle coccole?” Beckett alzò gli occhi al cielo.
“Dobbiamo andare dai Ryan, ricordi?” domandò retorica. “O preferisci che Lanie ti sezioni vivo perché non mi hai portato da lei?” Il colonnello scattò in piedi.
“No, preferisco tenermi interi tutti i miei pezzi, grazie!” replicò leggermente preoccupato. “Non si sa mai, potrebbero tornarmi utili…” aggiunse poi con un sorrisetto furbo che lasciava bene intendere quale parte del corpo gli sarebbe tornata utile. Kate scosse la testa esasperata e si voltò per andare in cucina, piantandolo nel salone.
“Ah, e comunque…” commentò la donna, voltandosi a metà verso di lui un attimo prima di sparire in cucina. “Quella barbetta non ti sta per niente male.” disse, mordendosi il labbro inferiore. Quel gesto fece venire uno strano caldo al colonnello. Scosse la testa per concentrarsi e si tocco il mento con la mano mentre Kate spariva in cucina. Quindi un sorriso gli si aprì involontario in volto.
 
Un’ora più tardi Castle e Beckett suonarono alla porta di casa Ryan.
“Ehi, bentornati!” li accolse allegro Kevin, invitandoli con un ampio gesto del braccio ad entrare. “Allora siete riusciti a tornare a casa interi ieri sera.”
“Sì, è stato come immaginavamo.” replicò Rick, aiutando intanto Kate a togliersi il cappotto. “Abbastanza gente in giro da nascondere due persone in più. Nessuno si è accorto di noi.”
“Ottimo!” esclamò Ryan con un sorriso, prendendo i soprabiti di entrambi per appenderli.
“Zio Rick!!” La vocetta squillante di Leandro si fece seguire immediatamente dopo dal bambino stesso. Spuntò fuori dal salotto e corse loro incontro. Castle lo prese al volo, nonostante il certo peso che aveva ormai il ‘piccolo’.
“Ciao, Leo!” lo salutò felice, baciandogli una guancia prima che si attaccasse al suo collo in una stretta quasi soffocante. “Ehi, vacci piano, campione, o mi spezzi il collo!” esclamò divertito Rick. Leandro rilasciò subito la presa, ma rimase in braccio al colonnello. Poi si girò verso Beckett.
“Ciao anche a te, zia Kate!” La donna rimase per un attimo sorpresa da quell’appellativo.
“Oh, non farci caso.” la rassicurò Rick con un sorriso mentre si avviavano verso il salone. “Leandro chiama ‘zio’ o ‘zia’ praticamente chiunque gli stia simpatico. Ma se preferisci che non ti chiami così…”
“No, no, figurati, non mi dispiace.” lo bloccò Beckett, sorridendo dolcemente al bambino. “E’ solo che non me lo aspettavo…”
“Credo che sia stato conquistato dai tuoi trucchi di magia.” spiegò Castle ridacchiando. “Vero, piccolo?” disse poi al bambino. Lui annuì deciso.
“Dopo mi faresti vedere di nuovo come indovini le carte?” domandò, un po’ timidamente, Leandro.
“Se me lo chiedi così, come posso dirti di no?” rispose Kate sorridendo.
“Grazie!!” replicò allegro il piccolo, lanciandosi praticamente dalle braccia di Castle a quelle di Beckett.
“Ehi!! Piano!!” lo richiamò il colonnello, che ormai teneva il bambino, completamente proteso verso di lei e con le braccia intorno al collo di Kate, quasi solo per le gambe. “Riesci a tenerlo?” domandò alla donna. “Non è esattamente una piuma…”
“Leandro scendi!!” lo richiamò Lanie dal divano del salotto dove era seduta insieme a Javier e Jenny. Al sentire la madre, il bambino si staccò subito dal collo di Kate e Rick poté recuperarlo prima che cadesse.
“Tutto ok, l’ho preso.” dichiarò Castle, mettendosi per bene il piccolo in braccio. “Salve a tutti!” esclamò quindi rivolto ai presenti nel salone che li salutarono, sorridendo, con cenni della mano o della testa.
“Facciamo un patto?” chiese poi Kate a Leandro con tono da cospiratori che fece subito incuriosire il piccolo. “Tu mi dai un bacetto.” disse indicandosi la guancia. “E io dopo faccio tutti i giochi di magia che vuoi.” Gli occhi del bambino si spalancarono.
“Tutti tutti??” chiese stupito ed eccitato.
“Tutti tutti.” rispose Beckett divertita. “Allora accetti?”
“Sì!” esclamò subito Leandro, sporgendosi poi immediatamente verso di lei, questa volta senza buttarsi, per stamparle un bacio sulla guancia.
“Leo, sono tua!” dichiarò un momento dopo Kate sorridendo allegra.
“Ehi, e da me baci non ne vuoi??” esclamò Rick con tono offeso. “Così puoi essere anche mia!” Beckett lo guardò con un sopracciglio alzato.
“No, zio Rick.” lo riprese Leandro scuotendo la testa. “Ora zia Kate è mia. Abbiamo fatto un patto. Se anche le dai un bacio ora, potrai giocare con lei solo dopo di me.”
“E chissà che giochi faranno…” commentò Ryan divertito, facendo ridacchiare i presenti, mentre passava loro accanto. Il maggiore girò attorno ai tre in piedi, così da andare a sedersi accanto a sua moglie sul divano, mentre Castle gli lanciava un’occhiataccia e Beckett arrossiva vistosamente.
“Quindi non posso neanche avere io un bacio??” mugugnò il colonnello qualche secondo dopo come se Kevin non avesse parlato.
“Questo non lo so, zio Rick. Non cambia il nostro patto.” gli rispose Leandro pensieroso. “Devi chiederlo a zia Kate.” aggiunse semplicemente, alzando appena le piccole spalle. Beckett guardò il bambino con occhi sgranati mentre Castle si faceva all’improvviso baldanzoso, un sorrisetto stampato in faccia.
“Zia Kate, mi daresti un bacetto?” chiese il colonnello, decisamente divertito dalla situazione. Lei lo guardò male.
“Solo Leandro può chiamarmi ‘zia Kate’…” replicò Beckett con un vago tono di minaccia nella voce. Rick però fece finta di non sentirla.
“Ok, allora smetterò di chiamarti ‘zia Kate’ se mi darai un bacetto!” ribatté sorridente. Ci fu qualche momento di silenzio, mentre entrambi si squadravano. Rick era decisamente divertito e la stava sfidando. Kate al contrario sembrava volerlo strozzare con lo sguardo. Era solo da decidere se avrebbe accettato la sfida o meno. Ma se Castle aveva imparato a conoscerla almeno un poco, era certo che lei non avrebbe saputo resistere. E infatti ebbe ragione.
Kate sbuffò contrariata, ma alla fine, un po’ rossa in volto, si alzò sulle punte e gli lasciò un bacio veloce sulla guancia rasata di fresco.
“Ma come siete teneri!” esclamò Lanie dal divano in un tono divertito e malizioso. Poi si alzò. “Quasi quasi mi spiace rubarti la tua bella, Castle, ma devo cambiarle prima la fasciatura.”
“Tranquilla Lanie, basta che poi me la riporti.” replicò Rick, ancora gongolante. Kate gli lanciò uno sguardo omicida, ma poi sospirò e precedette Lanie e Jenny verso la stanzetta segreta che la donna gli stava indicando.
“Mamma, ci metti poco vero?” domandò Leandro con tono preoccupato. “Altrimenti non facciamo in tempo a giocare prima del pranzo…”
“Ci metterò pochissimo, tesoro.” lo rassicurò Lanie, lasciando un bacetto sulla guancia del figlio ancora in braccio a Rick. “Lo sai che sono la migliore!” disse poi facendogli l’occhiolino. Il bambino annuì ridacchiando e la madre si avviò nella stanzetta segreta e si chiuse la porta alle spalle.
“E ora che facciamo?” chiese Castle al piccolo.
“Noi stavamo giocando a Monopoly.” gli rispose Leandro, indicando il divano con suo padre e Ryan. Castle si avvicinò alla postazione dei due e vide il grande tabellone quadrato, caratteristico del gioco, poggiato su un tavolino che avevano spostato da un angolo del salone.
“Avevamo appena iniziato, se vuoi unirti.” disse Esposito.
“Perché no?” replicò Rick, sedendosi accanto a Javier sul divano e mettendo giù Leandro. “Che pedine sono rimaste?”
“La pianta e la zucca.” rispose Ryan.
“Per la tua zucca vuota sarebbe perfetta la seconda!” esclamò Esposito ridacchiando. Castle lo guardò offeso.
“E perché sarei una zucca vuota??” si lamentò.
“Ti sei dato da fare con quello schianto di donna?” domandò sarcastico Javier, indicando con un cenno la stanza in cui si erano nascoste Kate, Lanie e Jenny. “E allora sei una zucca vuota!” Rick sbuffò mentre Ryan scoppiava a ridere e Leandro sorrideva divertito per la faccia dello ‘zio’.
 
“Allora…” iniziò Lanie, indicando a Kate di sedersi sul letto matrimoniale della stanzetta, accendendo insieme la luce. Appena la piccola lampadina illuminò la camera, Beckett si sentì all’improvviso come un sospettato in una centrale di polizia. La luce infatti era posizionata esattamente sopra di lei e la investiva completamente nel piccolo angolo di letto su cui aveva preso posto. “Come vanno le cose tra te e il nostro colonnello preferito?” continuò la signora Esposito con tono malizioso, facendo intanto cenno a Kate di levarsi il vestito. Lei eseguì, tirandosi su l’abito dalla testa e prendendo intanto tempo prima di dare una risposta.
“Uhm, bene direi.” disse alla fine, poggiando il vestito di lato e rimanendo solo con l’intimo e la fasciatura. Lanie, già accanto a lei per togliere il bendaggio, la guardò male.
“Che vuol dire ‘bene’?” domandò seccata. “Specifica.” Beckett mugugnò.
“Significa quello che ho detto.” replicò in uno sbuffo.
“Andiamo, Lanie, lasciala in pace.” intervenne Jenny per tranquillizzare gli animi. Lei era rimasta in piedi un po’ scostata dal letto per lasciare che Lanie fosse libera di muoversi, ma comunque pronta ad aiutarla. “E’ chiaro che non vuole dirci cosa fanno insieme…” aggiunse poi divertita.
“Non facciamo niente!!” esclamò subito Kate. Le guance però le si tinsero leggermente di rosso, tradendola. “Dico sul serio!!” borbottò poi irritata mentre Lanie ridacchiava, inginocchiandosi intanto accanto a lei per arrivare alla stessa altezza della ferita. Beckett sbuffò contrariata. In realtà davvero non aveva mai fatto niente di particolare con Castle. Se non si volevano contare quei piccoli baci che volavano di tanto in tanto tra di loro. O del fatto che dormivano insieme da due notti. Quel pensiero la fece arrossire ancora di più.
“Sai, forse sto rinchiusa qui dentro da un po’ troppo tempo,” dichiarò Lanie, terminando intanto di togliere l’ultima parte di fasciatura e inclinando leggermente di lato Kate in modo da avere una visuale migliore del taglio sul suo fianco. “Ma non per questo sono diventata idiota. Gli occhi li ho anch’io.” concluse alla fine, iniziando ad ispezionare la ferita.
“E questo che vorrebbe dire?” domandò Beckett perplessa e un po’ seccata. Stavolta rispose Jenny.
“Vuol dire che tu e Rick vi conoscete da poco, ma avete già un rapporto… particolare, ecco.” Kate guardò la signora Ryan confusa.
“Particolare?” ripeté. “Cosa avrebbe di particolare?”
“Per esempio non riuscite a smettere di stuzzicarvi.” replicò Lanie divertita, prima di fare un cenno soddisfatto alla ferita. “E’ pulita e si sta rimarginando bene. Ottimo!” esclamò. “La fasciamo di nuovo per precauzione, ma la prossima volta potremmo anche metterci solo un pezzo di garza sopra.” Kate annuì e le fece un mezzo sorriso. Quella era una buona notizia. Odiava la fasciatura completa intorno ai suoi fianchi. La infastidiva e la faceva sentire debole. “E poi avete uno sguardo che… diavolo, tesoro, se fosse stato Javier a farmelo, gli sarei saltata addosso a prima vista!” continuò poi Lanie, tornando al discorso precedente come se nulla fosse e alzandosi dal pavimento per avviarsi alla borsa dei medicinali poco lontano.
“Sembrate due calamite.” le diede man forte Jenny con tono dolce. “Dove va Rick, tu sei con lui e viceversa. E non è solo questione che vuole proteggerti dal mondo esterno e che tu non hai altri posti dove andare. Anche quando siete nella stessa stanza infatti non potete fare a meno di stare vicini, senza comunque toccarvi. Vi girate intorno senza neanche pensarci secondo me.” aggiunse poi pensierosa. “E in qualche modo vi basta uno’occhiata per capire l’umore dell’altro. Insomma non è una cosa che si comprende in così poco tempo, eppure per voi sembra quasi naturale.” Kate a quelle parole arrossì di nuovo. Sapeva che erano in buona parte vere. Se non del tutto.
“Non so di cosa parliate.” disse comunque, voltando lo sguardo imbarazzato al pavimento.
“Andiamo!” ribatté Lanie, divertita e maliziosa, riavvicinandosi dopo aver preso un rotolino di garza nuovo. Kate le lanciò un’occhiataccia. “Aspetta…” continuò poi la signora Esposito con tono quasi stupito. “Vuoi dirmi che ora che abitate nella stessa casa non c’è stato alcun avvicinamento?? Stai scherzando??”
“NO!” rispose subito Beckett, rossa in volto, con voce appena stridula nonostante nelle sue intenzioni il tono dovesse essere secco. Vide Lanie e Jenny scambiarsi un’occhiata divertita, prima che si inginocchiassero entrambi accanto a lei per rifasciarla. Kate strinse i pugni e si impose di calmarsi. Prese un respiro profondo e chiuse per un attimo gli occhi, nonostante sentisse ancora le sue guance calde. “Anche se ci fosse qualcosa, e non dico che c’è…” iniziò Kate, ora più controllata. Lanie sbuffò sonoramente mentre passava il rotolo a Jenny dalla parte opposta della donna, che intanto gli lanciò un’occhiataccia. “SE ci fosse…” continuò Beckett rimarcando il ‘se’. “Non potrebbe andare avanti comunque.” concluse con un tono inaspettatamente più triste, anche per la stessa Kate. Le due donne sposate, ancora inginocchiate accanto a lei, lasciarono il lavoro di fasciatura a metà e alzarono lo sguardo, curiose e confuse.
“Perché dici così?” domandò Jenny perplessa. “Non ti fidi di lui? So che è un po’ strano a volte, ma Rick è una bravissima persona e…”
“No, no, questo lo so.” la bloccò Kate con un sorriso. “Mi fido di lui. Molto più di quanto io stessa avrei mai pensato. Ma, anche volendo, che futuro potremmo mai avere? Una volta che avrò trovato mia madre me ne andrò…” Lanie e Jenny si scambiarono un’occhiata seria a quelle parole, che però per fortuna sfuggì allo sguardo di Beckett, troppo concentrata sul pavimento. “…e allora cosa faremmo? Lui in Germania e io in America? Non potrebbe mai funzionare.” concluse con tono malinconico.
“Una soluzione si troverà, vedrai.” disse dolcemente Lanie, posando una mano su quella di Kate. “Non dovete fare altro che…” Un rumore di qualcosa che cadeva rovinosamente fuori dalla porta, fece voltare la testa a tutte e tre le donne, allarmate. La signora Esposito si alzò subito, andò a passo di carica all’entrata della stanzetta e aprì la porta di scatto. Dall’altra parte trovò una figura maschile stesa per terra, con una mano sul naso e un vaso nell’altra. “Castle, che diavolo ci fai qui??” esclamò Lanie, sorpresa e irritata.
“Io… io stavo solo…” balbettò il colonnello, alzandosi velocemente in piedi senza smettere di tenersi il naso e appoggiando il vaso che aveva in mano al piccolo tavolino decorativo accanto alla porta. “Volevo… ecco…”
“Spiarci.” finì per lui Lanie, gli occhi ridotti a fessure. Castle sbiancò.
“Cosa?? No, no, non è come credete!!” esclamò subito, portando le mani davanti a sé. A quel punto fu visibile il suo naso. Era diventato leggermente rosso a causa della botta che aveva preso. Kate in qualche modo trovò adorabile quel suo farfugliare spaventato. Si morse il labbro inferiore per non sorridere. “Io sono solo andato in bagno un momento!” si spiegò immediatamente Rick, riportando una mano sul naso dolorante con una smorfia. “Tornando in salone sono inciampato sul tappeto e ho urtato il tavolino! E per prendere il vaso al volo sono caduto a terra e ho sbattuto il naso!” Beckett lo osservò bene. Aveva come l’impressione che non stesse dicendo tutta la verità. O meglio, era certa che fosse capace di essere tanto imbranato a volte, ma era quasi del tutto convinta che avesse approfittato della passeggiata al bagno per cercare di recepire qualche parola dei loro discorsi.
“Sei fortunato che non ho un bisturi in mano, Castle!” lo minacciò Lanie, puntandogli un dito sul torace. Rick deglutì preoccupato. “Ora tornatene in salone e metti del ghiaccio sul naso.” Il colonnello annuì subito, un poco sollevato. Quindi fece un passo indietro e alzò gli occhi verso l’interno della stanza per scusarsi.
“Mi dispiace, ragazze, non volevo disturb…” All’improvviso la bocca del colonnello rimase aperta e i suoi occhi si spalancarono. Kate lo guardò confusa. Perché faceva quella facc… Cazzo!! pensò Beckett, coprendosi immediatamente con il lenzuolo del letto su cui era ancora seduta. Aveva dimenticato il piccolo particolare di essere mezza nuda, con solo l’intimo e una fasciatura parziale addosso.
“CASTLE VATTENE!!” gli urlò dietro, completamente rossa in volto. Lanie sembrò pure ricordarsi all’improvviso dell’abbigliamento di Kate, perché spalancò gli occhi e spinse subito Rick lungo il corridoio verso il salotto. Leandro, Esposito e Ryan li guardarono arrivare perplessi.
“Che hai combinato?” chiese Kevin, quasi con tono rassegnato. “Che hai fatto al naso?” aggiunse poi sorpreso, vedendo il naso rosso di Castle.
“Se si azzarda ancora a mettere un piede fuori da questo salone, sparategli!” esclamò Lanie rivolta ai due uomini seduti con tono furioso. Quindi lanciò un’ultima occhiata omicida al colonnello, che deglutì preoccupato, e se ne tornò nella stanzetta, sbattendo violentemente la porta dietro di sé.
“Che faccia tosta!” esclamò Jenny esasperata, scuotendo la testa.
“Se lo ripesco a origliare,” dichiarò Lanie irritata. “Mi spiacerà molto per te, Kate, ma lo priverò di una parte fondamentale del suo armamentario!”
“Perché dovrebbe dispiacere a me??” ribatté Beckett ancora parecchio rossa in volto. Non riusciva a credere che Rick l’avesse vista in quello stato. Non che fosse mai stata particolarmente timida, ma lui era… Castle! Insomma era diverso!
Alle parole di Kate, Lanie sbuffò sonoramente e tornò a inginocchiarsi per completarle la fasciatura.
“Uhm… abbiamo un problema.” disse però poi, osservando alternativamente il rotolino di garza che aveva in mano e il fianco della donna.
“Che succede?” chiese Jenny avvicinandosi. Beckett abbassò subito lo sguardo, preoccupata che ci fosse qualcosa di sbagliato nel taglio.
“Questa garza non basta per coprire la ferita.” rispose Lanie, tranquillizzando Kate. “O meglio, basta a mala pena per rivestirla, ma ancora per questa volta volevo farla più spessa. Il taglio non si è ancora cicatrizzato del tutto e se non è abbastanza coperto ho paura che possa sporcarsi.”
“Beh, qual è il problema?” domandò Beckett confusa. “Basta prendere un altro rotolo di garza, no?”
“Li abbiamo finiti.” rispose Jenny dispiaciuta. “E dopo il bombardamento è una fortuna che abbiamo ancora questi medicinali, perché le riserve stanno scarseggiando e la maggior parte va agli ospedali.”
“Non si può proprio lasciare così?” chiese Kate rivolta a Lanie, ma la trovò che fissava il suo abito abbandonato sul letto. “Lanie?” Beckett si preoccupò quando un piccolo sorrisetto malefico spuntò sul volto della signora Esposito.
“Forse so come coprire del tutto la ferita senza garza e come far pagare a Castle del suo scherzetto di poco fa…” mormorò Lanie. “Jenny hai delle forbici?”
 
Rick ancora non ci poteva credere. Aveva visto Kate… nuda!! Ok, forse non del tutto nuda, ma fasciatura, reggiseno e mutande non poteva essere certo definito un abbigliamento! Era vero anche che l’aveva già intravista dalla sua camera qualche giorno prima mentre si cambiava, ma quella volta non c’era quasi luce, mentre stavolta…
Castle scosse la testa violentemente per nascondere quelle immagini in qualche parte del suo cervello. Non poteva certo far vedere la sua eccitazione ai suoi amici e al piccolo Leandro! Che razza di esempio sarebbe stato per lui??
“Amico, tutto bene?” gli chiese Esposito divertito. “Vuoi andare a bagnarti con un po’ di acqua fredda per caso? Magari potresti utilizzare il ghiaccio da qualche altra parte invece che il naso.” Rick gli lanciò un’occhiataccia da sotto la pezza con i pezzi di ghiaccio che aveva appoggiata in faccia, mentre Ryan ridacchiava. Il colonnello si diede mentalmente dello stupido. Il mezzo infarto che aveva provato nel vedere Kate in quello stato gli aveva fatto scollegare la bocca dal cervello. Così poco prima aveva raccontato ai due amici cosa era successo e perché Lanie lo aveva cacciato in quel modo.
“Magari preferisce chiudersi in bagno direttamente…” commentò Kevin ghignando, scambiando un mezzo pugno d’intesa con Javier.
“La volete piantare??” replicò Rick sbuffando e togliendosi il ghiaccio dal naso. “Non l’ho fatto apposta. E non ho quindici anni! So controllarmi!”
“Ah, davvero?” ribatté Esposito divertito, indicandogli di guardare in basso. A quel gesto, Castle sbiancò e si guardò il cavallo dei pantaloni. Nulla. Rialzò la testa rosso in volto, mentre Kevin e Javier scoppiavano a ridere.
“Cosa controlli, zio Rick?” chiese Leandro, curioso dell’improvvisa ilarità degli adulti. Se possibile, il colonnello divenne ancora più rosso.
“Nulla, Leo.” rispose tra l’imbarazzato e il seccato, rimettendosi il ghiaccio sul naso, in parte per nascondersi la faccia. “Quando sarai grande te lo farai spiegare da tuo padre.”
“E’ un ragazzo intelligente, imparerà da solo!” esclamò subito Javier, agitato al solo pensiero di dover spiegare certe cose, come il sesso, a suo figlio. Fu il turno di Rick ridacchiare questa volta.
“Spero che almeno sappiate di che state parlando, signori.” commentò ironica la Gates, uscendo in quel momento dalla cucina.
“Beh, io ne ho la prova davanti!” replicò subito Esposito, indicando Leandro.
“Mia moglie ha una pancia che dice chiaramente che me ne intendo.” aggiunse Ryan con un sorriso.
“Già, qui l’unico che manca è Castle!” ribatté Javier ghignando. “Non è che hai bisogno di lezioni?” Rick tolse il ghiaccio dalla faccia e gli lanciò un’occhiata omicida, arrossendo ancora una volta. Non gli era mai capitato di imbarazzarsi così tanto nel giro di pochi minuti.
“Ma quanto siete spiritosi…” borbottò il colonnello con tono irritato.
“Cosa ti serviva, Victoria?” chiese poi gentilmente Ryan alla cameriera, finendo di ridacchiare e lasciando Castle a borbottare contro la pezza con il ghiaccio che si rigirava tra le mani.
“Volevo sapere per che ora pensavate di mangiare.” disse. “Dovete tornare in centrale più tardi mi sembra.” aggiunse, indicando con un cenno il fatto che sia colonnello che maggiore indossassero le divise.
“Sì, infatti.” rispose Kevin con un sospiro. “Penso che per mezzogiorno possa andare.” La Gates annuì e se ne tornò in cucina.
“Papà, finiamo la partita?” chiese Leandro a Javier. Lui sorrise dolcemente al bambino e gli scompigliò i capelli.
“Certo, piccolo.” rispose. “Allora,” disse poi divertito rivolto agli altri due. “Se Castle ha finito di controllarsi i pantaloni e di sbavare come se non avesse mai visto una donna, direi che possiamo continuare.”
“Pensate di andare avanti ancora per molto??” domandò Rick seccato e ironico, lasciando la pezza con il ghiaccio in una ciotola accanto a lui presa apposta per non bagnare in giro.
“Fino alla tua prossima cavolata, Colonnello.” rispose Ryan con un ghigno.
Continuarono la partita di Monopoly lasciata interrotta per un altro quarto d’ora, finché non sentirono la porta della stanzetta segreta aprirsi.
“Ce l’avete fatta a uscire.” commentò Esposito, il tono un po’ irritato per aver appena dovuto sborsare dei soldi a Castle dopo essere passato sul suo territorio. “Leandro iniziava a chiedersi se sua madre le avrebbe riportato Kate per giocare e…” Javier alzò la testa e rimase senza parole, la bocca semiaperta, stupito. Poi in un attimo lo stupore si trasformò in un sorrisetto divertito. Richiamò l’attenzione di Ryan con un gesto e gli fece cenno di guardare nella direzione del corridoio. Castle, troppo impegnato a risistemare i soldi in ordine davanti a sé, non si era ancora accorto di nulla. Kevin aggrottò le sopracciglia confuso, quindi si voltò nella direzione indicatagli da Esposito e capì perché l’amico l’aveva avvertito. Si girò di nuovo verso Javier e i due si scambiarono un ghigno d’intesa, prima di voltarsi verso Castle con due sorrisi stampati in faccia. Fu solo a quel punto che Rick si sentì osservato e alzò la testa.
“Perché avete quelle facce?” domandò perplesso, passando lo sguardo dall’uno all’altro.
“Che state facendo?” chiese Kate curiosa, avvicinandosi a loro.
Monopoly.” rispose Castle distratto. “Volevamo aspettare che finiste la fasciatura prima di trovare qualcosa da fare tutt…” Rimase senza fiato non appena alzò gli occhi su Beckett. Sbagliava o quel vestito era decisamente più corto di quando glielo aveva visto indosso l’ultima volta?? Perché lui era certo che le arrivasse poco sotto il ginocchio. Questo invece non si poteva neanche dire che le arrivasse a metà coscia!
Rick rimase ipnotizzato dalle gambe di lei, così lunghe, toniche e terribilmente sexy…
“Castle!” lo richiamò Kate, schioccandogli le dita davanti alla faccia.
“Cosa??” chiese lui d’istinto, alzando finalmente gli occhi sul viso di lei.
“Chiudi la bocca o ci entreranno le mosche.” gli disse ridacchiando. Rick chiuse la bocca. Neanche si era accorto di averla dimenticata aperta. Cercò di rimanere con lo sguardo sugli occhi di Kate, ma quelle gambe lo attiravano troppo. Ci buttò un’altra occhiata.
“Qualcosa mi dice che prima non l’aveva vista del tutto…” commentò ghignando Esposito rivolto a Ryan. Quella battuta gli valse uno scappellotto inaspettato di Lanie dietro la nuca.
“Zia Kate, ora giochiamo con la magia??” chiese eccitato Leandro, alzandosi veloce in piedi per avvicinarsi alla donna. Beckett gli sorrise.
“Prendi un mazzo di carte.” gli disse facendogli l’occhiolino. Il piccolo urlò allegro e corse verso il ripostiglio.
“Non è che ti serve di nuovo un partner magico, vero?” chiese Castle con voce un po’ rauca. Gli si era seccata la bocca alla visione delle gambe di Kate e il cuore gli aveva saltato uno o due battiti. Se poi a quello si aggiungevano i ricordi di lei mezza nuda… beh, addio cuore, benvenuto infarto!
“Tanto interesse per la magia all’improvviso, Rick?” domandò ironico Kevin. Questa volta fu lui a prendersi un piccolo scappellotto di Jenny sul braccio.
“Se vuoi unirti, potrebbe farmi comodo un partner.” rispose Kate con un mezzo sorriso. In quel momento tornò Leandro con le carte. Beckett le prese dalle sue mani ed entrambi si avviarono dalla parte opposta del salone, verso il grande tavolo da pranzo ora vuoto. “Castle, non vieni?” lo chiamò lei senza voltarsi. Rick, che era rimasto completamente incantato dalla visione delle gambe nude e del fondoschiena di Kate, scosse la testa per riprendersi. Quindi si alzò di scatto e li raggiunse, sotto lo sguardo dei ridacchianti Esposito e Ryan.
 
Dopo pranzo, Castle andò in centrale insieme a Ryan, lasciando Kate con Jenny e gli altri. Rimasero a compilare scartoffie, dare ordini e appendere nomi alla bacheca appena all’esterno della casermetta per quasi tutto il pomeriggio. Molti nominativi arrivavano dall’ospedale, ma ce n’erano parecchi che arrivavano anche dagli obitori e da qualunque altra parte avessero accatastato i cadaveri. A volte giungeva solo la foto del morto, poiché non tutti erano stati riconosciuti, mentre altre volte capitava di avere solo qualche effetto personale particolare che forse qualcuno avrebbe potuto riconoscere. Quelli erano i casi peggiori. Spesso significava infatti che la vittima doveva essere talmente irriconoscibile che una fotografia sarebbe stata del tutto inutile per un’identificazione. A fine pomeriggio avevano segnato più di quattrocento nomi, tra i morti del bombardamento massiccio di due giorni prima e quello più leggero della notte precedente.
Castle diede ordine di mandare qualcuno in sede centrale a consegnare i documenti sui decessi accertati, quindi, quando ormai il sole cominciava a sparire, decise che era il momento di andarsene. Con Ryan, tornò a casa dell’amico a recuperare Kate, quindi lui e la donna salutarono tutti e si avviarono al loro appartamento. Passeggiavano uno vicino all’altro senza alcun contatto, con calma, per non destare sospetti inutili. A un certo punto un rumore attirò l’attenzione di Rick, che alzò subito lo sguardo in alto verso il cielo pulito, teso e pronto a portare Beckett al sicuro. Ma, osservando meglio, notò che era solo un piccolo aereo che girava in tondo sopra Berlino. Doveva essere uno di quegli aeroplani leggeri usati per le fotografie. Probabilmente era stato richiesto lo stato di danneggiamento della città e quale migliore prova si poteva portare delle immagini?
Appurato che non c’era pericolo imminente dall’alto, Castle si rilassò un poco. Poi si mise a fissare pensieroso il marciapiede grigio e crepato in diversi punti. Non aveva ancora trovato un modo per dire a Kate che sua madre era morta. Erano giorni che ci pensava, ma non riusciva a trovare un momento o un sistema per rendere la cosa meno dolorosa. Eppure lui aveva a che fare con notizie del genere tutti i giorni. Avrebbe dovuto ormai conoscere quale fosse l’approccio migliore. Invece ogni volta era come la prima. E stavolta si trattava pure di Beckett, una sua connazionale e … e cos’altro? Un’amica? O la donna che aveva riposto in lui la sua fiducia? Perché per quanto avesse detto di non aver udito parola prima, prima di cadere davanti alla stanza segreta e vedere Beckett seminuda, lui in realtà qualcosa aveva sentito. Per l’esattezza, aveva sentito dire da Kate che si fidava di lui. Poi però aveva iniziato a bisticciare con il tappeto e aveva perso il resto della conversazione. Rick strinse i pugni e la mascella, una sola domanda in testa: come sarebbe riuscito a dirle quella verità che avrebbe distrutto ogni cosa tra di loro?
“Castle, tutto bene?” domandò piano Kate in tedesco. A casa Ryan le stavano insegnando un po’ della lingua locale per tentare di diminuire l’accento e infatti, nonostante le poche lezioni, ora Beckett parlava un poco meglio, ma sempre con gran fatica. In ogni caso avevano concordato che in strada sarebbe stato meglio parlare in tedesco e a bassa voce, anche se con accento, piuttosto che rischiare con l’inglese.
“Uhm?” mugugnò distratto Rick, distogliendo lo sguardo dal marciapiede sotto di lui per portarlo su di lei e rilassando i muscoli tesi.
“Stai bene?” chiese ancora Beckett con tono un po’ preoccupato. Lui annuì.
“Sì, sto bene.” rispose con un mezzo sorriso. “Scusa, mi sa che ho la testa un po’ altrove al momento.” aggiunse passandosi una mano sul collo, imbarazzato.
“Spero non a quello che è successo stamattina.” replicò lei divertita, anche se le guance le si tinsero lievemente di rosso. Il colonnello ridacchiò e diede un’occhiata veloce al corpo di Kate. Sì, le immagini di lei seminuda prima e con le gambe in bella mostra poi, erano ben radicate nella sua mente. Per fortuna il cappotto che indossava in quel momento Beckett era lungo, altrimenti le sue gambe sarebbero state visibili a tutti grazie all’accorciamento operato da Lanie. Ma lui non l’avrebbe permesso. Piuttosto sarebbe passato dal suo appartamento a prenderle un altro vestito. Ovviamente lo avrebbe fatto perché era preoccupato che qualcuno la notasse per farle del male, non perché fosse geloso. Ovviamente.
“No.” replicò ghignando. “Ma ora che mi ci fai pensare…” Kate roteò gli occhi e gli diede uno scappellotto sul braccio. “Ehi, sei tu che me lo hai ricordato!” le disse Rick divertito.
“Non avresti dovuto origliare…” borbottò lei.
“Non ho origliato!” ribatté lui offeso. “Ero solo andato in bagno e sono inciampato!” continuò. Non avrebbe mai confessato di aver effettivamente cercato di cogliere qualche parola. Beckett sbuffò, ma non disse nulla. “Comunque hai davvero un gran bel corpo.” aggiunse dopo qualche secondo Rick a mezza voce. Kate arrossì istantaneamente.
“Castle!!” lo richiamò imbarazzata, cercando di tenere bassa la voce.
“Cosa?” disse lui con un sorriso stavolta dolce. La fermò, tenendola leggermente per un braccio, in modo da poterla guardare negli occhi. “Guarda che è vero. E so che sei imbarazzata, ma è un complimento il mio.” sussurrò. Lei lo osservò per qualche attimo, quasi stupita. Quindi mugugnò qualcosa di simile a un ‘Grazie’ con gli occhi incollati al marciapiede e le guance completamente rosse.
Continuarono a camminare fianco a fianco, ognuno immerso nei propri pensieri, fino a quando, in un angolo nascosto tra il marciapiede e il muro, Rick vide qualcosa di colorato spiccare sul grigio. Aggrottò le sopracciglia, confuso e curioso, e si avvicinò. Guardò meglio e vide che c’era un piccolo fiore, sopravvissuto in qualche modo al freddo di novembre e alle bombe dei giorni precedenti. Lo osservò affascinato. Aveva sei petali a punta di lancia di un colore viola chiaro, più scuro alle estremità e man mano più chiaro fino a diventare bianco nel centro. Proprio alla base, si sviluppava su ogni petalo una striscia dorata e nel mezzo del fiore si allungavano cinque piccoli prolungamenti, tre gialli e due rossi. Sembrava la figura di un libro, tanto era bello e stonava con l’ambiente circostante. Rick si chinò e lo staccò.
“Castle, che stai facendo?” gli domandò Kate, vedendolo abbassarsi all’improvviso e senza una ragione. Quando il colonnello si voltò di nuovo verso di lei però, vide il fiore tra le sue mani e rimase a bocca aperta, stupita anche lei di quel ritrovamento.
“Buffo come qualcosa di così stupendo possa trovarsi in un posto così orribile, vero?” domandò Rick con un mezzo sorriso, guardando però Kate invece del fiore. Lei alzò gli occhi e notò che la stava osservando. A quel punto lui le allungò la piccola pianta. “‘Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti.’” disse quando lei lo prese in mano. “Antico proverbio cinese.” aggiunse poi con tono un po’ imbarazzato. Beckett guardò alternativamente il fiore e Castle con aria insieme confusa, sorpresa e imbarazzata. Sembrava non sapere che dire né che fare.
“E’ bellissimo…” mormorò alla fine, abbassando lo sguardo sul fiore. “Grazie.” Il colonnello fece un piccolo sorriso e alzò appena le spalle, come se fosse stata una cosa di poco conto. Quindi prese un respiro profondo e fece un cenno con la mano verso la strada.
“Vogliamo andar…” La sua domanda fu bloccata da Beckett. Castle non se ne era accorto, ma mentre lui stava guardando la strada che dovevano percorrere, Kate si era alzata sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia. Solo che nel fare quella stessa domanda, il colonnello si era voltato di nuovo verso di lei. Così le labbra della donna erano finite a sfiorare l’angolo della sua bocca.
Il cuore di Rick perse un battito. Rimase paralizzato, la bocca semiaperta, gli occhi sorpresi puntati su di lei, mentre la sensazione di calore e morbidezza che aveva provato per un solo attimo spariva. Si accorse di respirare pesantemente, mentre Kate, altrettanto sorpresa e rossa in volto, si riabbassava sui piedi. Cercò di riprendere lucidità, ma il suo stesso corpo gli impediva di farlo. Non riusciva a muoversi, era capace solo di continuare a fissarla, desideroso che quel contatto in qualche modo riprendesse. Per un secondo ebbe l’impulso di mandare ogni cosa al diavolo, di prenderla per il viso e baciarla finché avesse avuto fiato. Fu un secondo che gli parve un’ora, tanto era forte la tentazione. Poi però Kate abbassò gli occhi sul fiore e l’incanto scomparve.
“Scusa.” sussurrò Beckett con voce appena udibile. Castle finalmente richiuse la bocca, deglutì e prese un respiro profondo per tentare di calmare l’accelerazione del suo cuore. Non replicò nulla, semplicemente si schiarì un poco la gola, imbarazzato. “Allora, uhm… andiamo?” chiese poi Kate con tono un poco più forte, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
“Certo!” rispose Rick con voce appena stridula e un po’ soffocata dalla mancanza di ossigeno. Da quando aveva dimenticato come si respirava?
Ricominciarono a camminare fianco a fianco, silenziosi e un po’ nervosi. Castle si stava dando dello stupido per non essere riuscito a spiccare parola dopo quel quasi bacio. Non era mai stato così imbranato con una donna come con Kate. Si chiese se lei già lo considerasse un idiota. Probabile, visto che era sempre pronto alle battute maliziose per poi impiantarsi come un ragazzino davanti al minimo sfioramento di labbra!
“Allora, ehm… pensi di metterlo in acqua quel fiore?” domandò un po’ agitato, quando il silenzio iniziò a diventare troppo pesante. Kate alzò appena le spalle, gli occhi fissi sulla piccola pianta, le guance ancora un po’ rosse. Sembrava malinconica. “Perché altrimenti, ecco, pensavo potresti metterlo in un libro.” A quelle parole, Beckett alzò gli occhi e lo guardò confusa.
“In un libro?” chiese. Castle annuì.
“Così si secca all’interno, non si sciupa e resta per sempre.” spiegò il colonnello. Kate osservò per un momento il fiore, quindi tornò a guardare lui, facendogli un piccolo sorriso.
“Mi piace questa soluzione.” disse con tono leggero.
“Vedrai come verrà bene!” continuò Rick più tranquillo. “Troveremo un bel librone grosso in cui metterlo e…” Castle continuò a spiegare cosa avrebbero fatto con il fiore per la restante parte di strada fino al suo appartamento. Kate gli sorrise per tutto il tempo, a volte dolcemente per le sue premure, altre volte divertita per le sue stupidaggini. Quando rientrarono a casa, era come se quel semi-bacio non ci fosse mai stato. Avevano ripreso a parlare tranquillamente, a scherzare e a prendersi in giro. E dopo aver messo il fiore in uno dei libri più grossi che Rick ebbe trovato, un atlante, cenarono e andarono a dormire di nuovo insieme nella camera del colonnello. Prima di penetrare nella stanza, Kate tentennò per un momento, indecisa, ma poi entrò lo stesso anche se lui non le aveva chiesto niente. Quando Castle uscì dal bagno e se la ritrovò già sotto le coperte del suo letto, non poté fare altro che sorridere felice.
 
La mattina successiva, Rick scoprì Kate che dormiva tranquilla su un fianco rivolta verso di lui. Stavolta non c’erano stati contatti. Lui era disteso a pancia in su, la testa voltata verso di lei a osservarla dormire quieta. Questa volta non aveva voglia di alzarsi prima che lei si svegliasse per non farla sentire a disagio. In fondo Beckett stessa si era infilata nel suo letto la sera prima senza che lo avessero pianificato. Castle rimase semplicemente immobile a guardarla. Era bellissima e adorabile con i capelli un po’ scompigliati lasciati sciolti su una spalla. Si morse il labbro inferiore. Aveva una voglia matta di carezzare la pelle di lei, quasi fosse un contatto di cui non poteva essere privato. In un moto di coraggio, dato probabilmente dal leggero dormiveglia mattutino, allungò una mano per sfiorarle una guancia. Aveva quasi raggiunto il suo obbiettivo quando Kate si mosse leggermente e sospirò piano. Rick fece appena in tempo a ritirare la mano che Beckett aprì gli occhi.
“Buongiorno.” le disse con un sorriso divertito per la sua faccia assonnata. In risposta, lei cacciò la faccia nel cuscino e mugugnò qualcosa.
“Mi stavi guardando dormire?” si sentì appena. “Sei inquietante, lo sai?” Castle scoppiò a ridere.
“Queste parole le ho già sentite!” replicò. Erano le stesse infatti che lui le aveva detto quando, giorni prima, l’aveva trovato a dormire ai piedi del divano dei Ryan sul pavimento sotto di lei.
“Non so di che parli.” si sentì ancora mugugnare dall’interno del cuscino con un chiaro tono divertito.
“Ah, no?” ribatté il colonnello ridacchiando. Kate non poté vedere il sorrisetto furbo che il colonnello aveva stampato in faccia. “Quindi non sai di che parlo neanche se faccio… così??” disse iniziando a farle il solletico al fianco.
“CASTLE!!” urlò lei ridendo e rannicchiandosi su sé stessa per evitare le sue mani.
“Ora ancora non sai di che parlo?” ripeté Rick, fermandosi e osservandola riprendere il fiato, rimanendo ipnotizzato dal petto di lei che si alzava e abbassava veloce. Poi Kate disse qualcosa che lui non capì. “Cosa?” chiese confuso. Lei lo ripeté, ma di nuovo non riuscì a comprenderla. Parlava una lingua straniera che con la sua voce era davvero… sensuale.
A vedere la sua faccia da stupita, Beckett ridacchiò e lo aiutò a capire.
“Ti ho detto ‘Non so di che parli perché non so la tua lingua’ in russo.” spiegò divertita. Castle sentì un’ondata di caldo percorrerlo mentre rimaneva con la bocca semiaperta.
“Ripetilo.” disse con voce un po’ roca, avvicinandosi a lei tanto che i loro volti rimasero a solo una decina di centimetri. “In russo.” Kate gli sorrise maliziosa e si morse il labbro inferiore, mentre i suoi occhi volavano per un secondo alla sua bocca. A quel piccolo gesto, Rick sentì il sangue pulsargli nelle orecchie e fluirgli in una parte più bassa del corpo.
“Vuoi sentirmi ancora parlare russo, Castle?” gli domandò lei maliziosa e divertita.
“Assolutamente…” mormorò lui in risposta, avvicinandosi ancora leggermente al viso di Beckett. La donna rimase per qualche attimo immobile a osservarlo mentre si accostava, la bocca semiaperta. Poi però fece una smorfia e si allontanò.
“No, per oggi basta o rischi l’infarto!” dichiarò ridacchiando e voltandosi sull’altro fianco per alzarsi. Castle rimase a bocca aperta.
“Cosa??” esclamò risentito. “E vuoi lasciarmi così??” aggiunse senza pensarci. Kate girò la testa e lo guardò con un sopracciglio alzato. “Non… non mi parli più in russo?” continuò, cercando di salvarsi. Non poteva certo dirle che stava avendo un certo problema all’altezza dei pantaloni.
“Se farai bravo…” rispose lei con un sorriso malefico, parlandogli con spiccato accento russo per prenderlo in giro, mentre si alzava in piedi.
Rick represse a stento la tentazione di tirarla di nuovo sul letto. Sarebbe stato fin troppo evidente in suo stato eccitato se l’avesse avvicinata. Quindi si impose di restare immobile, sdraiato su un fianco, con un broncio in faccia. Kate gli lanciò un bacio volante e poi, ancora ghignando, se ne andò in bagno, permettendo così a Castle di riprendere a respirare. Neanche si era accorto di aver trattenuto il fiato.
Il colonnello approfittò dell’assenza di Beckett dalla camera per uscire dal letto e correre al bagno del piano di sopra. Aprì la doccia fredda e, denudatosi, ci si infilò dentro. Quando uscì dal bagno mezz’ora dopo era lavato e, soprattutto, con la situazione di nuovo sotto controllo nelle zone basse.
Fecero colazione come al solito, chiacchierando e stuzzicandosi giusto un po’ più del normale. Poi Castle si cambiò, infilandosi una divisa pulita, e, pronto ad uscire, salutò Beckett.
“Dovrei tornare nel primo pomeriggio.” disse infilandosi il cappotto. “Spero solo che non mi facciano tardare.”
“Mangi qualcosa in centrale o torni per pranzo?” chiese Kate passandogli il cappello. Lui alzò le spalle.
“Non so, dipende dal casino.” rispose. “Spero di tornare, ma è più facile che rimanga bloccato alla scrivania fino a fine turno.” Beckett arricciò il naso.
“Buon divertimento, allora.” disse ironica. Castle sbuffò. “Ti lascio comunque qualcosa da mangiare per quando torni.” aggiunse poi lei, mentre lui apriva la porta d’ingresso per uscire. “Almeno se non hai messo niente nello stomaco, qui puoi.” Rick le sorrise riconoscente.
“Grazie.” replicò. “A più tardi allora, mia lady russa!” la salutò divertito. Kate alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, ma stava sorridendo. Gli chiuse la porta alle spalle e sparì dalla sua vista. Castle ridacchiò divertito e si incamminò verso la sua auto parcheggiata poco lontano. Il suo spirito quel giorno era piuttosto ottimista. In qualche modo quel particolare risveglio lo aveva messo di buon umore. Era anche convinto che sarebbe riuscito finalmente a dire la verità a Kate. Lei forse lo avrebbe perdonato e non la avrebbe persa. Forse avrebbe anche ripreso a fidarsi di lui prima o poi. Magari inoltre aveva ragione pure Ryan: in fondo lui prima aveva cercato di salvare Johanna, non di ucciderla. Le sue intenzioni erano buone. Sì, poteva darsi che Beckett avrebbe capito e non lo avrebbe odiato. Forse. Ma al diavolo i forse! pensò il colonnello con un sorriso. Andrà bene, me lo sento! Magari glielo dico stasera. In fondo Kevin e gli altri hanno ragione, più tempo perdo, peggio sarà quando glielo dirò. Basta stasera glielo dico! Oggi niente potrà andare storto!
Rick arrivò alla macchina e infilò una mano in tasca per prendere le chiavi. Quando non le trovò, aggrottò le sopracciglia confuso. Cercò in tutte le tasche senza risultato e alla fine dovette cedere all’evidenza. Sbuffò scocciato. Meno male che sarebbe dovuto andare tutto bene quel giorno. Aveva lasciato le chiavi sul tavolinetto dell’entrata. Di nuovo.
Castle sbuffò ancora e fece dietrofront per tornare al suo appartamento.
 
Kate sentì suonare il campanello. Sorpresa, guardò l’ora. Non erano passati neanche dieci minuti da quando Castle era uscito. Curiosa e guardinga, lasciò il libro che aveva appena preso e si alzò dal divano, su cui era sdraiata, in punta di piedi. Poi le venne un dubbio. Arrivò nel piccolo corridoio d’entrata e guardò il tavolinetto poco lontano. Scosse la testa. Rick aveva lasciato di nuovo le chiavi a casa. Per fortuna almeno stavolta se ne era ricordato subito.
“Castle, tu ha testa altrove!” dichiarò divertita con un forte accento russo, prendendo le chiavi e aprendo la porta. Non appena fu spalancata però, gelò sul posto. Si diede dell’idiota mille volte nella sua testa nell’arco di un secondo. Perché diavolo non aveva controllato prima di aprire?? Perché quello davanti a lei decisamente non era Castle.
“Buongiorno, Fraulein.” disse  in tedesco l’uomo, toccandosi appena il cappello in un cenno di saluto. Aveva un sorriso che sapeva di pericoloso. I suoi occhi neri come la pece volavano sul corpo di Kate, facendola sentire a disagio. “Cercavo il Colonnello Castle. Ah, mi scusi, non mi sono presentato. Sono il Colonnello Michael Dreixk.”

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Xiao!! :D 
Scusate il ritardo, ma avevo avvertito che sarei stata un po' piena... XD Ora do vrei avere più tempo per scrivere quindi potrei anche ricominciare a pubblicare più o meno settimanalmente... Non posso fare promesse purtroppo, ma prometto che ci proverò! ;D Comunque questo capitolo è un po' più lungo del solito quindi spero che per stavolta mi perdoniate... *me fa occhioni*
Allora... la cosa si complica eh? XD Il simpaticone è tornato... XD Anyway, se poi vi va di dirmi che ne pensate sarei felice, altrimenti pace! XD Comunque grazie a chi ha recensito finora, a chi lo farà, a chi ha insierito questa storia tra le seguite/ricordate/preferite e a chi addirittura in questi ultimi tempi mi ha messo tra le autrici preferite!! *-* Ma sopratutto grazie come sempre alle mie due "compagne di stanza" Katia e Sofia! <3<3 Tanto love a tutti!! <3
Ok vado, ho già perso troppo tempo a scrivere qui invece di pubblicare! XD
A presto!! :D
Lanie
ps: se vi chiedete che fiore è quello descritto prima, è questo: 

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Capitolo 10
*** Roy Montgomery ***


Cap.10 Roy Montgomery


“Buongiorno, Fraulein.” disse  in tedesco l’uomo, toccandosi appena il cappello in un cenno di saluto. Aveva un sorriso che sapeva di pericoloso. I suoi occhi neri come la pece volavano sul corpo di Kate, facendola sentire a disagio. “Cercavo il Colonnello Castle. Ah, mi scusi, non mi sono presentato. Sono il Colonnello Michael Dreixk.”
Beckett rimase immobile davanti all’apparizione di Dreixk. Castle le aveva accennato una volta sola di quell’uomo, ma era stato abbastanza per capire di non potersi fidare.
“Posso entrare?” domandò il colonnello con un sorriso storto che fece inquietare Kate. “Non mi sembra buna cosa lasciare un ospite fuori dalla porta in questo modo.” aggiunse. Quindi, senza altre parole, si fece avanti, entrando in casa senza essere invitato e mettendosi il cappello sottobraccio. Beckett al contrario indietreggiò d’istinto, quasi dietro la porta. Il suo cuore batteva furioso. Doveva mandarlo via. La spaventava il fatto che fosse così tranquillo della sua presenza in casa di Rick. Il suo istinto inoltre le stava dicendo, con preoccupante consapevolezza, che Dreixk doveva aver saputo con precisione che lei era in casa senza Castle.
Kate prese un respiro profondo per tentare di calmarsi e fece un passo verso il colonnello, fermo all’entrata del salone. Decise di non chiudere la porta d’ingresso, in modo da poter fuggire se le cose si fossero messe male. Memore inoltre delle raccomandazioni di Rick, Beckett si impose non solo di parlare in tedesco all’uomo, ma anche di farlo con accento russo, in modo da mascherare la sua vera origine.
“Castle non qui.” gli disse con un tono che tentava di essere sicuro. A quella strana cadenza, Dreixk si voltò e la guardò per un attimo stupito. Kate represse un sorriso. Almeno questo non se lo aspettava. Per fortuna sapeva così bene il russo da poter nascondere quasi del tutto l’accento americano. “Può venire più tardi, quando lui torna.” La sorpresa del colonnello durò solo per un secondo, poi sulla sua faccia spuntò un sorriso mellifluo che sembrava calzare perfettamente su di lui.
“Sa, Fraulein, non mi dispiacerebbe aspettarlo qui.” disse con tono cordiale, ma che non accettava repliche. Beckett poté sentire la minaccia sotto le sue parole. “E’ davvero una bella casa questa.” aggiunse poi Dreixk osservando il salone. “Mi spiace non essere venuto più spesso a trovare il Colonnello.” Kate si agitò sul posto, nervosa. Se quell’uomo avesse deciso seriamente di restare, non avrebbe potuto far molto per impedirlo. Conosceva qualche tecnica di difesa che le aveva insegnato suo padre, ma Dreixk era il doppio di lei e alto più o meno quanto Castle. Non sarebbe mai riuscita a sopraffarlo o a cacciarlo. Inoltre aveva lasciato il coltello in camera, quindi neanche quello avrebbe potuto esserle d’aiuto.
“Non può stare qui.” riprovò Beckett, cercando di tenere la voce più ferma possibile. “Colonnello torna tardi, inutile aspettare. Cerca lui in centrale. Trova sicuro lui lì.” A quelle parole, Dreixk sospirò e scosse la testa.
“No, grazie, preferisco aspettare qui.” dichiarò con un mezzo sorriso, andando poi a sedersi comodamente sul divano del salone come se fosse stato lui il padrone del posto. Kate rimase immobile dov’era, all’entrata della sala con alle spalle il corridoio d’ingresso con la porta aperta. Non aveva alcuna intenzione di avvicinarsi a quel serpente. “Allora,” continuò poi Dreixk. “Mentre aspettiamo il nostro caro Colonnello Castle, non vuole offrirmi niente Fraulein… oh, ma mi accorgo solo ora che non so ancora il suo nome.” disse sorridendo, come a volersi scusare di quella mancanza. Solo che quel sorriso la fece rabbrividire piuttosto che tranquillizzare.
“Kate.” rispose solo Beckett. Nella fretta e presa dall’ansia, non era riuscita a pensare a niente di meglio. Ma in fondo Kate poteva benissimo essere un diminutivo di Katerina, molto comune in Russia.
Dreixk alzò un sopracciglio.
“Solo Kate?” chiese ironico. Lei non rispose, così lui annuì lentamente e sospirò di nuovo.
“Sai, Kate,” iniziò, rimarcando sarcasticamente sul suo nome. “Sembra che avere una conversazione con te sia molto difficile. Ma devo ammettere che ogni tua parola può essere tranquillamente superata dalla tua bellezza. Posso capire perché Castle abbia deciso di tenerti in casa…” aggiunse, lanciando un’occhiata ben più che approfondita al corpo di lei e osservando ogni curva con particolare interesse con i suoi occhi neri. Beckett deglutì e si mosse a disagio sul posto. Si strinse le mani intorno alla vita senza pensarci, come a volersi proteggere.
“Castle torna tardi.” ripeté come una automa. “Se tu vuole parlare con lui ora, tu deve andare in centrale. Qui non trova lui.” Dreixk scoppiò in una risata senza gioia che le fece rizzare i capelli.
“Questo l’ho capito, Kate.” rispose, sottolineando ancora una volta il suo nome e alzandosi in piedi. Si avvicinò a lei lentamente, come a voler studiare le sue reazioni. Beckett rimase immobile, ma si sentì come presa in trappola da un animale feroce. Uno di quelli che poteva scattare se solo facevi un passo. Dreixk si fermò esattamente davanti a lei. Kate poté sentire il suo respiro sulla fronte e il calore emesso dal suo corpo, tanto era vicino. Tremò, mentre il cuore le accelerava per la paura. Voleva Castle. Aveva bisogno di lui. “Tu mi comprendi quando parlo, vero?” domandò il colonnello a bassa voce. Il timbro avrebbe voluto essere suadente, ma risultò più che altro minaccioso. Beckett annuì appena. “Ottimo.” continuò lui sempre con lo stesso tono. “Voglio aspettarlo qui. E tu potresti aiutarmi a… passare il tempo, per così dire.”dichiarò con un mezzo sorriso, come se fosse una cosa divertente, iniziando a sfiorare lentamente il viso di lei con le dita. Appena le sue mani la carezzarono, Kate rabbrividì. “Capisci cosa intendo?” domandò ancora, passando lievemente le dita tra i suoi capelli sciolti. Beckett rimase paralizzata, terrorizzata. Era sbiancata e non riusciva neanche a respirare. Sobbalzò quando una mano di Dreixk si posò sul suo fianco. Cercò di tirarsi indietro, ma il Colonnello al contrario la trascinò più vicina a sé con forza per la vita, facendo cozzare i loro corpi. “Dove vorresti andare, Kate?” le sussurrò divertito all’orecchio, facendola rabbrividire di nuovo. “Sapevo che tu eri qui,” le confessò con tono eccitato. “E so anche che non mi hai detto la verità su di te…” Beckett stava tremando ormai tra le sue braccia, mentre il naso di lui si infilava prepotente tra i suoi capelli. Cercò di aggrapparsi alla sua giacca per spingerlo via, ma sembrava che tutte le forze l’avessero abbandonata. Gli occhi le divennero lucidi mentre lui le lasciava un bacio sul collo. “Ma non avevo idea che tu fossi così bella.” continuò poi Dreixk con tono basso e appena roco. “Io cercavo un modo per sbarazzarmi una volta per tutte di Castle, ma tu… tu mi permetti di fare molto di più, Kate...” Aveva un suono disgustoso il suo nome nella bocca di lui. “Per cui, credo che potrò anche non tener conto di questa tua piccola bugia, se tu…”
Ma Kate non seppe mai, per fortuna, cosa avrebbe potuto fare, perché all’improvviso Dreixk si spostò bruscamente da lei, finendo violentemente con la schiena contro la parete del corridoio. Poi Castle si parò tra di loro. Fu solo alla sua vista che Beckett ricominciò a respirare.
 
Rick rimase immobile, ansante, furioso, i pugni serrati e la mascella contratta, rivolto verso Dreixk. Era tornato per prendere le chiavi, ma quando aveva notato la porta di casa aperta si era preoccupato ed era corso all’interno. La visione di Dreixk praticamente addosso a Kate gli aveva fatto perdere ogni controllo. Non ci aveva visto più. In pochi attimi aveva attraversato l’ingresso, preso il colonnello per le braccia e tirato all’indietro con tanta forza da farlo sbattere contro il muro.
“Ah, ma guarda chi è arrivato.” disse Dreixk ironico con il suo sorrisetto mellifluo, mentre si chinava a raccogliere il cappello caduto. Fu una soddisfazione per Castle vederlo fare una smorfia di dolore nel piegarsi. Sperò solo di avergli fatto molto male. “E noi che pensavamo già di doverci intrattenere in tua assenza…”
“Fuori.” sibilò Rick. Nel suo tono si notava una furia controllata. Se non si fosse frenato, era certo che in quel momento avrebbe avuto abbastanza energia per prendere a pugni Dreixk fino a cancellargli quel viscido sorriso dalla faccia.
Dreixk ridacchiò.
“Ma come, Castle?” chiese divertito. “Stavo appena iniziando a fare conoscenza con questa bella donna.” continuò, lanciando un’occhiata a Kate. Rick si spostò subito di lato, sbarrandogli la visuale con il suo corpo. “Dì un po’, da quant’è che è nascosta in casa tua? Perché non ce l’hai presentata prima?” aggiunse poi Dreixk con tono quasi canzonatorio. C’era uno scintillio di trionfo in quegli occhi neri che non piacque per niente a Rick.
“Fuori.” ripeté lui senza rispondere alla sua provocazione, il tono gelido. “Fuori da casa mia.” Dreixk gli fece un mezzo sorriso, ma rimase per un momento in silenzio a studiarlo, come se cercasse di capire se valeva la pena stuzzicarlo ancora un po’. Alla fine si rimise il cappello in testa, fece un cenno a Kate e si incamminò verso l’uscita. Un momento prima di oltrepassare la soglia però, l’uomo si fermò e si voltò di nuovo verso di loro.
“Sai, Castle,” commentò con aria divertita. “Non dovresti tenere qualcuno in casa senza farlo sapere a nessuno. La gente mormora e non fatica a pensare male… Quanto pensi ci metteranno a chiedersi perché non hai mai parlato di lei?” Rick strinse ancora più forte i pugni, quasi a perforarsi la carne con le unghie.
“Fuori.”ripeté per l’ennesima volta, cercando di controllare la voce perché non tremasse dalla rabbia. Dreixk fece un ultimo ghigno, quindi afferrò la maniglia della porta e uscì chiudendosela alle spalle.
Per diversi secondi, dopo l’uscita del colonnello, nessuno si mosse. Castle era troppo furioso, Beckett troppo spaventata dall’implicita minaccia dell’uomo. Alla fine, Rick prese un respiro profondo e si voltò verso di lei.
“Stai bene?” le domandò. Si sentiva ancora la rabbia nascosta sotto quella finta calma, ma era ben udibile anche la preoccupazione. La donna lo guardò con gli occhi sgranati e lucidi, la bocca semiaperta, il respiro veloce, ancora pallida e paralizzata. “Kate?” la chiamò angosciato. Non avendo ancora nessuna reazione, Castle si fece lentamente avanti di un passo, come se avesse paura che lei potesse scappare da un momento all’altro, e le sfiorò le braccia nude con le mani. Le sentì gelide al tatto. Quel gesto però sembrò ridare vita a Beckett perché sobbalzò per un attimo, quindi mormorò il suo nome e si gettò praticamente contro il suo petto. Rick rimase spiazzato per un momento, quindi la abbracciò forte, sfregando intanto le sue mani contro la schiena e le braccia di lei per darle un po’ di calore. “Va tutto bene, Kate, tranquilla.” la rassicurò piano. “Se ne è andato. E non permetterò che ti si avvicini ancora, hai la mia parola.” aggiunse, lasciandole un bacio tra i capelli. Nonostante gli occhi lucidi di prima, Beckett non piangeva né singhiozzava, ma Rick poteva sentirla tremare tra le sue braccia.
Continuò a stringerla a sé a lungo, tranquillizzandola, e intanto pensando a come fare per proteggerla, finché non si fu calmata. L’unica soluzione che Castle trovò, sapeva già che non sarebbe piaciuta a nessuno dei due. Ma era la sola che aveva. “Kate,” la chiamò piano. “Devo fare una telefonata e poi andare in un posto. Appena te la senti ti porto da Jenny.” Beckett alzò la testa di scatto dal suo petto.
“Dove vai?” chiese, stringendo la presa sulla sua divisa, lo sguardo spaventato. Rick le prese il viso tra le mani e le baciò la fronte per calmarla.
“A trovare il modo di proteggerti.” le rispose con un piccolo sorriso. Kate lo osservò per un lungo momento senza dir nulla, indecisa se lasciarlo andare o tenerlo con lei. Quindi annuì.
“Ok…” mormorò, lasciando piano la presa sulla sua divisa. Castle la accompagnò a sedersi sul divano del salone, quindi chiamò Ryan a casa. Dopo aver dato con impazienza il numero del maggiore al centralino, finalmente la voce dell’amico uscì dall’apparecchio.
“Pronto?”
“Kev, sono io.” rispose Castle.
“Ehi, Rick, cosa…”
“Non ho tempo, ti spiegherò tutto dopo.” lo bloccò il colonnello nervoso. “Quanto ci metti ad arrivare da me?”
“Dammi venti minuti.” replicò subito Ryan serio.
“Ok, ti aspetto.” ribatté, quindi chiusero la comunicazione. Nell’attesa dell’arrivo di Kevin, Castle tornò da Kate. La trovò rannicchiata con le braccia intorno alle ginocchia in un angolo del divano, mentre squadrava con sguardo d’odio il punto opposto. Qualcosa gli disse Dreixk doveva essersi andato a sedere lì in qualche modo. Rick prese posto nello stesso punto osservato da Beckett perché lo guardasse. Quindi le sorrise, le appoggiò una mano sul piede rivolto verso di lui e le chiese di riferirgli esattamente cosa fosse successo con quel bastardo. Beckett gli raccontò ogni cosa, dall’aver aperto stupidamente la porta con il finto accento russo, fino al suo arrivo. Sfogarsi faceva bene, Rick lo sapeva, e inoltre così il colonnello poté farsi un’idea di cosa Dreixk sapesse già e di cosa no. Mentre lei raccontava, più volte gli venne voglia di spaccare qualcosa per la frustrazione. Ringraziò il fatto di aver dimenticato le chiavi o non sarebbe mai tornato in tempo per salvare Kate.
“Questo è tutto.” concluse Beckett con tono basso e malinconico, stringendo appena le spalle. Ora che la paura era passata, era comparsa la consapevolezza di aver fatto molti errori. Nonostante tutto, si era creduta al sicuro a casa di Castle, ma aveva scordato come andavano le cose nella vita reale.
“Troverò un modo.” disse Rick serio, guardandola negli occhi e stringendo appena la presa sul piede di lei. Gli faceva male vederla così in colpa con sé stessa, anche perché in parte erano anche causa sua quei guai. Non avrebbe dovuto lasciarla da sola. “Troverò un modo per tenerti al sicuro anche ora che quel serpente sa di te. Te lo prometto.” Kate gli fece un piccolo sorriso e un lieve cenno con il capo.
“Grazie.” replicò sincera. In quell’istante il campanello della porta suonò.
Castle strinse ancora leggermente il piede di Beckett, quindi si alzò e corse alla porta. Ryan lo stava aspettando con impazienza dietro di essa, le dita a battere incessantemente sul cappello della divisa che aveva in mano in un tic nervoso.
“Che è successo?” domandò Kevin entrando. Doveva aver capito dalla voce del colonnello al telefono che qualcosa di spiacevole doveva essere accaduto. Rick trattenne il maggiore per un braccio nel piccolo corridoio e gli fece segno di parlare a bassa voce.
“Dreixk è stato qui.” dichiarò Castle, chiudendo la porta.
“Cazzo.” sibilò Ryan, sorpreso e agitato. “Perché era qui? Che voleva?”
“Sapeva di Kate.” gli svelò il colonnello. Kevin rimase a bocca aperta.
“Ma come…??”
“Non lo so come!” lo fermò Rick nervoso a bassa voce, lanciando un’occhiata in direzione del salone. “Qualcuno forse si è ricordato di averla vista da qualche parte o l’ha notata uscire da qui, non lo so. Però, da quanto mi ha detto Kate stessa, lui sapeva che lei era qui e io non c’ero.”
“Figlio di…” sbottò Ryan, fermandosi comunque prima di concludere la frase. Prese un respiro profondo e cercò di calmarsi. “Ok di questo ce ne occuperemo dopo.” continuò con tono pensieroso. “Ora la priorità è capire come fare con Kate.”
“Dobbiamo andare da Montgomery.” dichiarò subito Rick. Kevin lo studiò per un momento con aria incerta e insieme con compassione.
“Sei sicuro?” gli chiese cauto. “Se Beckett va via ora, rischi di non rivederla più…”
“Lo so.” lo bloccò Castle, mentre sentiva un peso formarsi nel petto. “Ma è l’unico modo che ho per proteggerla in questo momento.” continuò serio, cercando di non far trasparire quanto la cosa lo addolorasse davvero. “Non posso nasconderla perché, visto come si è presentato quel bastardo in casa mia, sicuramente ha qualche galoppino che ci spia e ci seguirà ovunque andremo. Quindi l’unico modo che ho per aiutarla è farla andare via.”
“E questo lei lo sa?” domandò Ryan con un sopracciglio alzato. Rick non rispose, semplicemente deviò lo sguardo al pavimento.
“Lo saprà presto.” mormorò tetro.
“Rick, non puoi presentarle la cosa a fatto compiuto!” lo sgridò a bassa voce il maggiore. “Devi dirglielo!”
“E cosa dovrei dirle??” ribatté arrabbiato Castle. “Che la sto cacciando e obbligando ad andarsene, senza ancora averle detto nulla della madre, perché non sono stato in grado di tenerla al sicuro??”
“Sì, forse dovresti fare così!” lo riprese Kevin serio. “Se non facciamo qualcosa subito saremo tutti in pericolo, ma tu devi dirglielo!” continuò, rimarcando particolarmente sul ‘devi’. “Non puoi presentarle in faccia i documenti e mandarla via con il primo aereo. La conosci ormai, sai che non accetterà di andarsene così!”
“Non è detto che Roy ci dia subito i documenti.” borbottò il colonnello di rimando. “Lo sai che ci vuole qualche giorno e…”
“Rick, ti sto parlando da amico.” lo fermò Ryan, mettendogli le mani sulle spalle e obbligandolo a guardarlo in faccia. “So che non vuoi ammettere che stai per perderla.” A quelle parole, Castle sentì il peso che aveva nel petto aggravarsi. Strinse la mascella e deglutì. “Ma non possiamo fare altrimenti. E lo sai anche tu, perché proprio tu hai suggerito di andare da Roy. Hai ragione, ci vuole qualche giorno per avere un documento falso, ma a Kate devi dirlo ora, non quando la costringerai a imbarcarsi per l’Inghilterra.” Il colonnello abbassò lo sguardo al pavimento, colpevole, mentre Kevin indietreggiava di un paio di passi. “Diglielo, Rick.” ripeté il maggiore con tono più dolce. In quel momento la voce di Kate arrivò dal salone.
“Castle?” lo chiamò un po’ incerta. “E’ arrivato Ryan?”
“Sì.” le rispose il colonnello ad alta voce. “Arriviamo…” aggiunse poi in tono malinconico e più basso.
“Mentre aspettiamo il documento,” gli disse velocemente Ryan sottovoce, prima di incamminarsi verso il salone. “Possiamo sempre cercare una soluzione alternativa, ma per ora questo è tutto ciò che abbiamo e non possiamo discutere sul suo destino senza che lei ne sappia nulla. Non lo trovo giusto.” Rick osservò per un momento l’amico, quindi annuì piano. No, Kevin aveva ragione. Non era corretto nei confronti di Kate nasconderle cosa volevano fare. Ma dirglielo avrebbe reso reale il pensiero che presto l’avrebbe persa. ‘Buffo.’ pensò Castle cupamente, mentre i due soldati si avviavano nel salone. ‘Non ho avuto neanche bisogno di dirle di sua madre per perderla… Ci ha pensato Dreixk a risolvermi la situazione.’
“Ciao, Kate, come stai?” le chiese Ryan con tono preoccupato non appena la vide. Rick notò che la donna era rimasta nella stessa posizione in cui l’aveva lasciata, rannicchiata con le ginocchia al petto contro uno dei braccioli. Beckett fece un piccolo sorriso al maggiore.
“Ho avuto mattinate migliori.” rispose.
“Ti credo.” replicò Kevin stizzito, ripensando probabilmente all’audacia di Dreixk. “Immagino ti porteremo a casa mia…” aggiunse poi con tono più calmo, lanciando un’occhiata di conferma a Rick, che annuì. “Quindi sei pronta per uscire o devi cambiarti?” 
“No, sono pronta.” dichiarò Kate, senza comunque spostarsi dalla sua posizione rannicchiata. “Dobbiamo andare ora?”
“Sarebbe meglio.” le rispose Ryan con un piccolo sorriso dolce, anche se appena lei abbassò lo sguardo, lanciò un’occhiataccia a Castle che intendeva ‘Allora vuoi dirglielo??’. Rick sospirò, quindi bloccò la donna.
“Aspetta, Beckett…” disse non troppo convinto. “Io… devo prima dirti una cosa.” continuò mentre si avvicinava e si sedeva davanti a lei, nella stessa posizione che aveva occupato prima che arrivasse Ryan. “Uhm, ricordi che ti ho detto che avrei trovato il modo di proteggerti, vero?” Kate annuì piano, confusa, le sopracciglia aggrottate. “Ecco, ho un… un modo.” continuò schiarendosi la gola. “Non c’è ancora nulla di deciso ovviamente, ma… ma l’idea è di procurarti un passaporto falso e farti uscire dalla Germania con quello.” disse alla fine tutto d’un fiato. Beckett sgranò gli occhi, sorpresa. Quindi scattò in piedi, sotto lo sguardo stupito dei due uomini.
“Io non me ne vado.” disse sicura.
“Beckett…” cercò di calmarla Rick, ma lei lo fermò ancora prima che cominciasse.
“Niente ‘Beckett’, Castle!” dichiarò con tono alterato. “Non me ne vado.” Lui sbuffò contrariato.
“Cerca di ragionare!” la supplicò il colonnello, alzandosi a sua volta. “Qui non sei al sicuro! Non ora che Dreixk sa di te!”
“Mia madre è ancora qui da qualche parte, quindi no, non me ne vado!” ribatté Kate, incrociando le braccia al petto e voltandogli le spalle. Rick represse a stento l’istinto di mettersi ad urlare. Scambiò uno sguardo con Ryan, a disagio nella discussione in corso, i cui occhi sembravano dirgli: ‘Avresti dovuto informarla già prima della madre e ora la cosa si ritorce contro il tuo tentativo di metterla al sicuro. Quindi cosa intendi fare?’. O almeno, questo era quello che leggeva Castle. Forse erano solo i suoi sensi di colpa a suggerirgli quella frase.
“Kate, ascoltami.” disse alla fine il colonnello con tono basso e abbattuto. “So che vuoi ritrovare tua madre, ma al momento non so come posso proteggerti. L’unica soluzione che abbiamo al momento è questa.” le spiegò. Lei continuò a restare immobile, dandogli la schiena. “Non è qualcosa che succederà subito in ogni caso. Per avere un documento falso serve qualche giorno, quindi fino ad allora non andrai da nessuna parte. Intanto possiamo sempre cercare un piano alternativo per farti restare qui e non metterti in pericolo...”
“E se non ci fosse?” gli chiese lei dura. Rick rimase per un attimo in silenzio, pensieroso.
“Allora lo creerò io.” rispose alla fine, serio. A quelle parole, Kate iniziò a voltarsi verso di lui lentamente. “So che ti sto chiedendo molto,” continuò poi il colonnello. “Ma ti chiedo di fidarti di me.” Il silenzio era assoluto nel salone. Beckett perse diversi secondi a osservarlo con un’aria ancora rabbiosa. Alla fine però abbassò lo sguardo e sospirò.
“Io mi fido di te.” disse in tono più calmo. Quelle parole fecero fremere Castle. Sia per la felicità, sia per il dolore, perché sapeva che era da quando si conoscevano che le stava mentendo. “Ma non voglio andarmene lo stesso.” Rick fece un mezzo sorriso, nascondendo i suoi sentimenti contrastati in qualche punto del suo cervello.
“Allora metteremo insieme le nostre menti geniali e tireremo magicamente fuori dal cappello un piano.” Quella frase strappò un piccolo sorriso a Kate, che finalmente lasciò andare le braccia lungo i fianchi, più serena.
“Allora andiamo?” domandò a quel punto Ryan speranzoso. Beckett annuì.
“Vado a mettermi le scarpe.” disse solo, prima di passare davanti ai due uomini e sparire sulle scale per il piano di sopra.
“Beh, è andata bene…” commentò Castle alla fine. Ryan alzò gli occhi al cielo senza rispondere e si voltò per tornare alla porta d’ingresso.
 
“Kate, che è successo??” chiese Jenny preoccupata, facendo entrare in casa la donna e i due soldati. “Kevin non ci ha detto niente e…”
“Jen, lasciala respirare.” la calmò con un sorriso Ryan. “Sta bene, è solo un po’ scossa.”
“Scossa per cosa però??” chiese Lanie, spuntando dal salone non appena ebbe sentito la porta d’ingresso chiudersi.
“Vado a preparare del thé.” disse la Gates, sulla soglia della cucina, non appena vide la faccia di Beckett. “Mi sembra che ci sia un gran bisogno di qualcosa di caldo, magari corretto con un po’ di liquore…” commentò, sparendo all’interno della cucina. Jenny e Lanie accompagnarono Kate in salotto e la fecero accomodare sul divano.
“Leandro dov’è?” chiese Rick perplesso.
“Sta ancora dormendo.” gli rispose Esposito, avvicinandosi ai due soldati all’entrata del salone e lasciando tranquille le tre donne. “Dopo la tua chiamata, ci è sembrato meglio così invece che svegliarlo.” Castle annuì comprensivo. Non era il caso di far sapere quanto accaduto anche al bambino. “Allora, volete dirmi che diavolo è successo?” domandò poi stizzito, abbassando la voce.
“Ve lo racconterà Kate,” replicò Ryan. “Ma, per farla breve, Dreixk è stato a casa di Castle mentre lui non c’era.” Javier sgranò gli occhi preoccupato.
“E lui… lui sapeva…” mormorò incerto.
“Che io non c’ero?” lo precedette Rick ironico, intento a fissare la figura di Kate di nuovo rannicchiata sul divano con le ginocchia al petto dopo essersi tolta le scarpe. “Sì. Deve averci spiato e non me ne sono accorto…”
“Non è il momento di prendersi le colpe, Rick!” lo riprese subito Kevin a bassa voce. Esposito sospirò e si passo una mano sulla faccia stancamente.
“Ragazzi, vorrei…” Javier si interruppe per lasciar passare la Gates con un vassoio con sopra una teiera fumante, diverse tazze vuote e un piatto con dei biscotti. “Vorrei poter uscire da qui e darvi una mano.” continuò. “Ho buon occhio e riuscirei a scovare quel verme che ti ha spiato.”
“Grazie, Javi.” disse Castle con un mezzo sorriso. “Lo apprezzo, ma al momento eliminare la spia non aiuterebbe. Quel che è fatto, è fatto. Ora dobbiamo cercare di arginare il problema prima che ci sfugga di mano.”
“Ah, non ci è già sfuggito di mano?” chiese Kevin ironico. Rick lo fulminò con lo sguardo.
“Non se siamo più veloci e furbi di Dreixk.” rispose poi il colonnello, tornando a guardare Kate. “Lo siamo stati fin’ora. Dobbiamo solo continuare a esserlo.” Ryan sospirò e annuì.
“Allora è il caso di andare.” gli disse il maggiore. “Più tempo perdiamo, peggio sarà.”
“Ok, dammi un secondo.” replicò Castle. Lasciò i due uomini e si avvicinò a Kate, poggiandole poi una mano sulla spalla. Lei sobbalzò a quel contatto inaspettato e voltò la testa di scatto. “Scusami.” disse il colonnello. “Prima che vada, posso parlarti un secondo?” Beckett lo guardò confusa, quindi annuì e si alzò. Si avviarono insieme per pochi passi nel corridoio interno, sentendo gli sguardi curiosi degli altri sulle loro schiene, quindi si fermarono appena furono fuori vista. Castle a quel punto si abbassò, sotto lo sguardo stupito e perplesso di Kate, e tirò fuori una piccola pistola da un laccio legato poco sopra la caviglia. Beckett sgranò gli occhi sorpresa.
“Pensavo avessi una sola pistola!” esclamò a bassa voce, indicando il fodero chiuso sul suo fianco.
“E’ di riserva.” replicò Rick, controllando intanto che l’arma fosse carica. Quindi gliela tesa. “Prendila.” Kate lo guardò come se fosse impazzito.
“Cosa??”
“Prendila.” ripeté il colonnello paziente. “Nel caso arrivasse qualcuno che non conoscete.” Beckett pareva anche trattenere il respiro mentre fissava la pistola nella mano di lui, come se le stesse dando un qualche tipo di serpente velenoso.
“Rick, so di averti detto che mi sarebbe piaciuto saper usare una pistola,” cominciò lei nervosa. “Ma io non credo che…” Castle sbuffò, le prese una mano e le mise sopra l’arma, chiudendola poi nel pugno.
“Per ora nascondila. In caso ti serva, puntala e premi il grilletto.” disse serio, tenendo la sua piccola e fredda mano stretta tra le sue. “Quando torno, giuro che ti insegno a sparare, ma per il momento non posso fare di più.” Poi Ryan lo chiamò e il colonnello dovette congedarsi. “Resta con loro e non aprite a nessuno.” sussurrò veloce. “Ci vediamo tra poco.” concluse quindi Rick prima di lasciarle un bacio sulla fronte, abbandonare la sua mano con la pistola e tornare all’ingresso dell’appartamento.
 
Venti minuti dopo, Castle e Ryan parcheggiarono in una stradina stretta e un po’ nascosta, racchiusa tra due alte palazzine. Due macchine non sarebbero passate affiancate, ma per fortuna erano pochi quelli dotati di auto a transitare per quella via. Rick si diede un’occhiata veloce intorno. Quel posto diventava sempre più squallido ogni volta che ci tornavano. Nonostante fosse mattina inoltrata e il tempo fosse sereno, quel vicolo era talmente incassato da risultare in ombra e quasi al buio. C’era puzza di marcio, urina ed escrementi, di uomo o animale il colonnello non avrebbe saputo dirlo, mescolato anche a un lieve sentore di sangue. Castle non voleva neanche sapere da dove arrivasse, se dalle fogne sotto di loro o da uno dei mucchi di spazzatura abbandonati ai lati della strada. Alzò lo sguardo in alto. La maggior parte delle finestre era chiusa e coperta da persiane. Dal silenzio che regnava, sembrava che tutti gli appartamenti sopra di loro fossero vuoti. Ed effettivamente molti lo erano.
Prima della guerra, quel quartiere era famoso per la grande varietà etnica dei suoi occupanti. Si diceva pure che fosse il quartiere in qualche modo più liberale, dove nessuno teneva molto in conto chi eri, anche fossi una prostituta, un ladro o un omosessuale. Se non davi fastidio e pagavi l’affitto, eri ben accetto. I più fortunati erano scappati prima dei rastrellamenti. Molti erano stati portati via con la forza nei campi di lavoro. Chi si era ribellato, era stato ucciso all’istante. Alcuni erano riusciti in qualche modo, per lo più nascondendosi, pagando o offendo servizi ‘particolari’, a restare in salvo nelle loro case, ma c’era da chiedersi quanto ancora sarebbe durato. Roy Montgomery era uno di quelli che si era salvato.
Prima della guerra, Roy aveva messo su una piccola bottega di stampe per giornali. In una delle prime perlustrazioni dei nazisti, rischiò di vedersi bruciare la stamperia con sua moglie e i suoi tre figli all’interno, prima di essere internato in uno dei campi per sospetto lavoro contro il regime. Fu salvato per un pelo da Ryan, che arrivò appena in tempo per fermare la mano che teneva il fiammifero per appiccare il fuoco alla benzina che avevano cosparso sulla sua porta. Il maggiore cacciò quegli uomini, che non erano nemmeno soldati, minacciando di sparargli in testa all’istante se non lo avessero lasciato andare. Si inventò inoltre che Montgomery fosse uno degli stampatori ufficiali delle locandine pubblicitarie per il Fuhrer e che quindi, se gli avessero torto un solo capello, si sarebbero cacciati in grossi guai. Grazie a quel piccolo stratagemma, atto a salvare cinque vite, Ryan ebbe abbastanza tempo per organizzare un trasporto per Roy e la sua famiglia con dei documenti falsi, che lo stampatore stesso aveva creato nel giro di qualche giorno. Dopo averne parlato e discusso, Montgomery decise che sua moglie e i suoi figli sarebbero partiti, mentre lui sarebbe rimasto per aiutare il maggiore a far scappare altra gente nelle sue condizioni, spostando la stamperia in un luogo più sicuro e usandola per creare nuovi documenti contraffatti. Quello fu il suo modo di scontare il debito di vita contratto con Kevin, nonostante lui non gli avesse mai chiesto niente in cambio.
“Credi che i documenti per gli Esposito siano pronti?” domandò Castle, avviandosi con Ryan a una piccola porta seminascosta. Era impossibile da vedere fuori dalla via ed era talmente mimetizzata che anche dall’interno della strada ci si sarebbe dovuti fermare davanti per vederla. Una volta doveva essere stata la porta di accesso al magazzino di un negozio, ma nessuno ci aveva più messo piede dentro da anni e quasi tutti si erano dimenticati della sua esistenza.
“Li abbiamo ordinati più di un mese fa.” replicò Ryan, controllando che non ci fosse nessuno intorno a loro prima di bussare con tre colpi cadenzati. “Con tutto quello che è successo non siamo più riusciti a prenderli, ma direi che a questo punto saranno più che pronti.” Attesero impazienti per più di trenta secondi, prima che qualcuno venisse ad aprirgli. Finalmente sentirono due chiavistelli scorrere nei supporti e una chiave girare più volte nella toppa. Poi la porta si aprì di uno spiraglio e il viso di un ragazzino fu visibile da esso.
“Semir, siamo noi.” disse Castle riconoscendolo. Semir Gerkhan aveva circa sedici anni, di origini turche, ed era l’aiutante di Roy. I suoi genitori erano stati uccisi per essersi imposti contro il nazismo, ma erano riusciti a mettere al sicuro il figlio prima che lo trovassero, più di due anni prima. Da allora il ragazzo aveva vagabondato finché per caso, affamato e stremato, non era incappato in quella viuzza per nascondersi e ci aveva trovato Montgomery, che subito l’aveva aiutato. Per averlo salvato, Semir aveva deciso di restare con lui come garzone. Non aveva comunque altro luogo dove andare e Roy l’aveva preso, senza chiedergli nulla, sotto la sua ala, insegnandogli anche il mestiere nella speranza di migliori giorni futuri. Era stata una bella sorpresa per Rick e Kevin arrivare dal vecchio Montgomery e ritrovarsi un piccoletto mingherlino davanti.
“Un attimo!” esclamò subito Semir appena li riconobbe. Richiuse la porta, tolse l’ultima catena che la bloccava e finalmente la spalancò. “Bentornati! Pensavamo vi fosse capitato qualcosa!”
“Ehi, sei più alto?” domandò Ryan stupito, osservandolo mentre entravano. Semir fece una smorfia.
“Non credo.” commentò. “Ma se è così, meglio per me!” aggiunse ridacchiando. Semir era magro e piuttosto basso di statura, con corti capelli neri e una leggera peluria sul volto che voleva far passare per barba e baffi. “Ma sul serio, cosa vi è successo??” chiese il ragazzo.
“Semir, lascia tranquilli i nostri ospiti.” lo riprese affettuosamente Roy Montgomery, spuntato in quel momento da dietro la tenda dove riposava per andargli incontro con un sorriso. Roy era ormai sulla cinquantina passata e i radi capelli bianchi riccioluti, in contrasto con la sua pelle scura, lo rendevano ben evidente. “Rick, Kevin,” li salutò stringendo loro le mani. Castle notò che sembrava più vecchio e magro, con delle rughe di preoccupazione in più rispetto all’ultima volta che l’aveva visto. “Come state?” Poi Roy notò la lunga cicatrice chiara sul dorso della sua mano. “Rick, che hai fatto?” domandò preoccupato, aggrottando le sopracciglia.
“Stiamo bene, Roy.” lo rassicurò Ryan. “Anche se, se dovessimo raccontarti tutto quello che è successo nell’ultimo mese, ne rimarresti alquanto sorpreso…” aggiunse, lanciando un’occhiata a Castle.
“Sono un vecchio, mi piacciono le storie lunghe e sorprendenti!” replicò Montgomery divertito. Poi si rivolse a Semir. “Ragazzo, puoi prendere due sedie in più?” Quello annuì e corse subito a prendere le sedie in un angolo. “Oh, quasi dimenticavo,” continuò poi tornando a rivolgersi a due soldati. “I documenti per la famiglia Esposito sono pronti.”
“Grazie Roy.” disse Castle, mentre Semir tornava con le sedie e le poggiava accanto a un tavolo dove ce ne erano già altre due. Senza fermarsi, scattò poi di nuovo verso una cassettiera con cassetto a doppio fondo dove Roy teneva i documenti nuovi.
“Eccoli!” esclamò il ragazzo, dando i tre documenti color crema in mano a Ryan. Kevin in cambio tirò fuori un sacchetto con all’interno il compenso per il lavoro e lo diede a Semir, che subito volò a sistemarlo. Maggiore e colonnello osservarono i certificati per un controllo finale. Erano ben fatti come al solito, nuovi, ma preparati in modo che sembrassero piuttosto vecchi e usati. Davanti c’era lo stemma della nuova Germania nazista, l’aquila nera che spicca il volo con alle zampe la svastica racchiusa dentro una corona d’alloro circolare, e sopra la scritta Deutsches Reich. All’interno invece erano trascritte le poche informazioni principali riguardanti il proprietario e insieme era incollata una foto. Roy aveva persino apposto il timbro che rendeva autentico il documento, il cui stampo era stato sottratto da Ryan quando aveva iniziato a lavorare con lui.
“’Alejandro Domingo Lopez’?” lesse Castle divertito nel certificato con la foto di Javier. “Sai che faccia farà quando vedrà che si chiama Domingo?” Kevin ridacchiò.
“Moglie e figlio sono stati più fortunati.” commentò il maggiore, leggendo gli altri due nomi. “Nina Esperanza e Diego Estefan.”
“Non ho potuto dargli dei nomi tedeschi, visto che hanno la pelle nera quanto la mia.” disse Montgomery con un mezzo sorriso.
“Sono perfetti, Roy.” dichiarò Castle. “Grazie.” Roy annuì in risposta.
“Altre informazioni che dovranno conoscere?” chiese Ryan, nascondendo i documenti in una tasca interna della giacca. “Qual è il loro passato?”
“Marito e moglie entrambi nati in Colombia.” iniziò a dire Montgomery, sedendosi stancamente su una delle seggiole e facendo segno anche agli altri di prendere posto. “Cresciuti e sposati lì, si trasferiscono in Germania prima della guerra per cercare lavoro in un’azienda di allevatori di alcuni parenti già stabiliti fuori Dresda da tempo. Diventano cittadini tedeschi dopo due anni. Allo scoppio della guerra hanno continuato a servire le caserme e le città di carne dei loro animali finché una delle ultime bombe non ha distrutto l’azienda. A quel punto sono arrivati a Berlino nella speranza di prendere un aereo che li avrebbe fatti tornare in Colombia.”
“Non è una storia che li protegga molto…” commentò amaramente Ryan.
“Mi hai detto che conoscono il tedesco alla perfezione, giusto?” chiese Roy. Kevin annuì. “Sono neri, quindi l’unica storia che possono avere è una simile a questa. L’importante è che ricordino di essere degli allevatori. I nazisti li crederanno dei sempliciotti spaventati che vogliono correre alla gonna della loro terra per i recenti bombardamenti. Li derideranno, ma con un po’ di fortuna li faranno comunque passare in aeroporto. Con la loro idea di razza pura, molti di loro non riescono neanche a immaginare che ci sia qualcuno più furbo di loro. Più di così non potevo fare, mi spiace.”
“Hai già fatto tanto.” replicò Rick sincero. “Non potevano più girare dopo essere sfuggiti alla fucilazione perché Javier aveva preso a pugni un nazista per difendere la sua famiglia e la sua casa. Fortunatamente i loro documenti sequestrati avevano già foto poco recenti, quindi saranno più difficilmente riconoscibili se li maschereremo un poco al momento della fuga.” Kevin annuì, in accordo con le sue parole.
“Ora volete dirci che è successo là fuori??” domandò Semir impaziente dopo qualche secondo di silenzio. Si vedeva che tentava di stare fermo sulla sedia con scarso successo. Continuava a tamburellare un piede per terra, eccitato. La presenza di altre persone, oltre il vecchio Roy, lo rendeva euforico e bisognoso di notizie esterne. Non che non uscisse mai, visto che, avendo la pelle chiara, di solito era quello che comprava gli alimenti e faceva le commissioni per Montgomery. Solo che non aveva il permesso di parlare con nessuno per prevenire qualsiasi curioso. Se qualcuno glielo avesse chiesto, lui avrebbe dovuto dire di essere il garzone di un sarto.
Castle ridacchiò per l’impazienza di Semir e scambiò un’occhiata con Ryan. L’amico alzò le spalle con un mezzo sorriso.
“Guai tuoi, racconti tuoi.” gli disse il maggiore divertito. Così Rick sospirò e iniziò a raccontare brevemente gli avvenimenti delle ultime settimane. Gli disse che era diventato colonnello (“Ah, mi sembrava che le tue mostrine avessero qualcosa di differente!” aveva commentato Roy), della donna che aveva cercato di salvare, dell’apparizione della figlia di questa e dei bombardamenti. Parlò soprattutto di Kate, di come non avesse trovato un modo per dirle cosa era successo alla madre, di come l’aveva salvata dal Fidel Weltbummler distrutto, l’aveva portata a casa di Ryan e di come infine aveva dovuto ospitarla a casa sua, fino all’apparizione di Dreixk di quella mattina. Quando finì di raccontare, Rick si sentì in qualche modo più leggero. Narrare quei fatti a una terza persona l’aveva fatto sentire meglio.
“Questo è tutto.” concluse Castle, passandosi una mano tra i capelli. “Per proteggerla ora, ho bisogno di farla andare via, ma non può andare via senza documenti.” Montgomery annuì pensieroso.
“Lei non sa il tedesco, hai detto, giusto?” chiese l’uomo. Rick annuì.
“Però sa bene il russo.” replicò il colonnello. Roy si grattò il mento su cui era visibile una leggera peluria bianca.
“Potrei farla passare per russa…” commentò, più a sé stesso che agli altri. “Sempre meglio che americana comunque. Ma dimmi di nuovo...” aggiunse poi rivolto a Castle. “Non le hai ancora detto della madre quindi?” domandò con un lieve tono di rimprovero. Rick si sentì un verme.
“Andiamo, Roy, come potevo dirle di aver praticamente ammazzato sua madre??” chiese con una voce che suonava quasi disperata. Ryan alzò gli occhi al cielo a quelle parole, per niente convinto della cosa, ma Rick non gli badò. “Prometto che glielo dirò, solo… non ora. Devo… devo trovare il momento giusto, ecco.” Montgomery lo osservò per un momento, quindi scosse la testa rassegnato.
“La ragazza è la tua.” commentò.
“Non è la mia ragazza!” esclamò subito Rick.
“Però, da quello che mi hai detto, dormite insieme.” dichiarò Roy divertito. Prima che Castle riuscisse a ribattere, lo fermò alzando una mano. “Va bene, va bene, non voglio intromettermi, ma ora fammi pensare a cosa si può fare per Kate. Ci vorrà qualcosa di un po’ più solido degli altri perché dovrà restare qui un po’…”
“Cosa??” ribatté il colonnello sorpreso. “Perché non può andare via subito??”
“La macchina è rotta.” rispose Semir per il vecchio, indicando con un cenno la stampatrice nascosta sotto un telo bianco dietro di lui. “Un pezzo di soffitto gli è caduto addosso durante l’ultimo bombardamento. Ci vorrà un po’ a ripararla.”
“Un po’… quanto?” chiese, incerto di volerlo davvero sapere. Lui doveva proteggere Kate, una stupida stampatrice non poteva mandare a monte i suoi piani!!
“Almeno tre settimane.” rispose Roy con un sospiro. “Più un’altra settimana per il certificato. Diciamo che, se partiamo da ora, avrai quel documento per l’anno nuovo.” Castle sbiancò. Evidentemente la stampatrice poteva mandare tranquillamente all’aria i suoi piani.
“Cazzo!” si lasciò sfuggire il colonnello, passandosi una mano sulla faccia. “Come faccio a nascondere Kate per un mese da Dreixk?? E’ impossibile!!” Montgomery scosse la testa dispiaciuto.
“Uhm… forse la tua soluzione può essere non nasconderla…” borbottò però un attimo dopo pensieroso. “Ma metterla in bella vista.” Rick aggrottò le sopracciglio confuso.
“Che stai dicendo?” chiese brusco. “Non ho intenzione di piazzarla in mano a Dreixk e ai suoi sgherri!” Roy scosse la testa.
“Intendo dire che forse la tua unica possibilità è di mostrarla al mondo.” si spiegò il vecchio. “Magari come una parente o una fidanzata. Vi somigliate?”
“Per niente!” rispose per lui Ryan, ora divertito, mentre un sorrisetto gli spuntava in volto. Castle gli lanciò un’occhiataccia mentre Montgomery ridacchiò.
“Allora mi spiace, amico,” disse Roy. “Ma ho l’impressione che la tua unica possibilità sia dire in giro che è la tua fidanzata.”
“Ma non c’è un altro metodo??” chiese Rick quasi supplicante.
“Se c’è, al momento non mi viene in mente.” rispose seriamente desolato lo stampatore. “Se vuoi ospitarla a casa tua e non destare sospetti, allora dì che è la tua fidanzata e che siete prossimi a sposarvi.” aggiunse, mentre iniziava a tessere la storia di Kate nella sua mente. “Vi siete conosciuti recentemente e a causa della guerra avete deciso di affrettare le cose tra di voi. Mettici poi che la sua casa è stata distrutta e non ha altro posto dove andare. Inoltre spacciala per russa, così puoi giustificare il fatto che eri restio a farla conoscere in giro.” Castle si passò una mano sul collo poco convinto.
“Non mi sembra una buona idea…” commentò.
“A me invece sembra grandiosa!” esclamò Ryan eccitato. “Sai anche tu quanto siano pettegoli i tuoi vicini. Se sapranno di Kate, la terranno d’occhio loro per te e Dreixk non potrà più avvicinarsi senza che qualcuno di loro lo noti! Sono tutte mogli di ufficiali quelle che stanno alla finestra, quindi sai che scandalo vedere quel bastardo a casa tua dopo aver tagliato, meno di due mesi fa, il pene all’uomo che gli faceva le corna con sua moglie?? Perderà tutta la sua credibilità di uomo integerrimo e la sua fama!” aggiunse euforico. “Inoltre vuoi mettere il divertimento per noi ora che voi vi fidanzate?” concluse ghignando. Rick, che fino a quel momento lo aveva ascoltato pensieroso, divenne all’improvviso rosso per l’imbarazzo.
“Noi non ci fidanziamo!” sbottò scocciato. “Almeno, non sul serio. Sarà solo finzione!”
“Una finzione di cui tanto fate già parte…” commentò a mezza voce Kevin divertito.
“Che hai detto??” lo riprese Castle irritato.
“Nulla!” rispose subito Ryan con le mani alzate, come a volersi arrendere, ma con un ghigno divertito in faccia che sembrava non volerlo abbandonare. Il colonnello sbuffò.
“Rick rassegnati,” lo riprese ridacchiando Roy. “Se vuoi salvare Kate, allora devi fidanzarti con lei.” Kevin non riuscì più a resistere e scoppiò a ridere. Castle invece fece una smorfia preoccupata. Jenny e gli Esposito si sarebbero divertiti alla notizia tanto quanto il presente maggiore. Ma Beckett che ne avrebbe pensato? Ma la domanda peggiore era, perché aveva avuto la brillante idea di darle una pistola prima di uscire?

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Xiao!! :D
Per la gioia di chi sperava che Dreixk non violentasse Kate, eccovi servite! XD Il nostro caro Colonnello Castle è stato (per fortuna) veloce a tornare e a sbattere fuori quel lurido figlio di *cough* -guarda lì sta tosse che non mi passa...-
Anyway, abbiamo conosciuto Roy e il suo giovane aiutante (chi mi sa dire da che altra serie viene?? XD), ma, problema dei problemi, la macchina è rotta! Che sfiga eh? ù.ù Beh, ma what's the problem? Roy aggiustatutto ha la soluzione! :D Far fidanzare Castle e Beckett!! XD Dite che la prenderà bene Kate? Mah... di sicuro qualcuno si sta già facendo quattro risate.... XD
Ok ho scritto pure troppo qui! XD Sparisco ringraziando come sempre le mie "consulenti" Katia e Sofia! (vi voglio un mondo di bene!! <3) :)
Ah, spero di riuscire a pubblicare di nuovo domenica prossima... :)
A presto! <3
Lanie

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Capitolo 11
*** Sempre ***


Cap.11 Sempre
 
 


 
“Allora Rick, hai già pensato a come dichiararti?” domandò Ryan divertito una volta davanti alla porta del suo appartamento. Castle fece una smorfia.
“Non devo dichiararmi…” borbottò in risposta. “Solo convincerla che fidanzarsi con me è la cosa migliore da fare per proteggerla e…” Dovette bloccarsi perché Kevin stava per scoppiare a ridere. Per l’ennesima volta. Rick sbuffò risentito e incrociò le braccia al petto, mentre il maggiore suonava il campanello ghignando.
“Kevin, finalmente!” esclamò Jenny sollevata quando vide il marito. “Perché ci avete messo tanto?”
“Rick voleva scegliere degli anelli prima di venire, ma l’ho dissuaso…” commentò ridendo Ryan, scappando all’interno della casa prima che Castle potesse prenderlo e strangolarlo.
“Anelli?” domandò confusa Jenny, chiudendo la porta e osservando con stupore il colonnello correre con sguardo omicida dietro al marito per tutto il corridoio. Entrarono nel salone frenando bruscamente e quasi inciampando nei loro stessi piedi. Tutti gli occhi erano puntati su di loro. Rick notò Kate e Lanie sedute sul divano, Javier sulla poltrona e Leandro e la Gates su due sedie accanto a loro. Fantastico… pensò il colonnello sarcastico. Ora sarà esattamente come dirlo alla famiglia…
“Ragazzi, che sta succedendo?” chiese Lanie con un sopracciglio alzato.
“Niente!” rispose subito Castle sulla difensiva.
“E’ solo eccitato per l’imminente cerimonia…” commentò Kevin ridacchiando. Rick lo fulminò con lo sguardo.
“Cerimonia?” chiese Esposito confuso. “Di che diavolo state parlando??” Castle notò Kate aggrottare le sopracciglia perplessa a quelle parole. Rimase per un attimo spaesato, la bocca semiaperta, lo sguardo perso e il cuore in tumulto. Poi scosse la testa, prese un respiro profondo e si impose di calmarsi. Era il momento della verità.
“Non ti metti in ginocchio?” domandò Ryan ghignando.
“La prossima parola che uscirà dalla tua bocca renderà orfano il tuo futuro figlio, ti avverto!” replicò Rick in tono totalmente serio, lanciando un’occhiataccia all’amico. Kevin alzò le mani e fece il gesto di cucirsi la bocca. A quel punto scese il silenzio. Castle si passò una mano tra i capelli mente con l’altra stringeva convulsamente il cappello della divisa. Aprì la bocca un paio di volte senza riuscire a spiccicare parola. Alla fine si diede dell’idiota e si decise a parlare, sperando che Kate non avesse imparato a usare la pistola nel lasso di tempo in cui era stato via. “Beckett io… ecco… dovrei dirti una cosa…” cominciò balbettando. Lei alzò un sopracciglio, ma attese che lui continuasse. “Siamo stati da un nostro amico che… beh, crea documenti falsi. Ah, Espo, Kevin ha i vostri certificati.” Il volto di Javier si illuminò e ringraziò in colonnello con un cenno e un sorriso senza interromperlo. “Comunque dicevo, siamo stati da questo nostro amico anche per un documento per te, Beckett, ma ha avuto un problema. Gli si è rotta la stampatrice e non può rimetterla in funzione prima di tre settimane e ci vuole un’altra settimana prima del documento… E con Dreixk in giro è necessario che tu abbia un certificato o qualcosa…”
“E allora come si può fare con lui?” domandò Kate allarmata.
“Ecco…” continuò Rick nervoso, passando il peso da un piede all’altro e torcendo il cappello tra le mani. “Diciamo che tu dovresti… dovresti fidanzarti!” sputò fuori tutto d’un fiato. “Così da non permettere a Dreixk di avvicinarti e…”
“No, un momento.” lo bloccò Beckett con aria truce. “Con chi dovrei fidanzarmi, di grazia?” Rick aprì la bocca, ma non ne uscì suono, così Ryan venne in suo soccorso. Poggiò una mano sulla spalla del colonnello e si rivolse a Kate.
“Ti presento Richard Castle, aspirante marito!” esclamò con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
Ci fu un momento di silenzio. Un attimo di panico che a Rick sembrò durare un’ora mentre osservava Beckett, fregandosene delle facce attonite degli altri. Lei si era immobilizzata, la bocca semiaperta e le sopracciglia aggrottate. Pareva quasi non respirasse tanto era paralizzata.
Castle deglutì e continuò ad attendere. Il silenzio era tale che poteva sentire distintamente il suo cuore pulsare veloce nelle orecchie. Si accorse di sudare quando una gocciolina gli traverso la fronte e cadde sulla sua guancia dal sopracciglio, passando davanti l’occhio. Poi finalmente Beckett si mosse. O meglio la prima cosa che il colonnello notò furono le guance della donna diventare quasi di botto rosse mentre rimaneva ancora immobile.
“No!” dichiarò Kate in tono categorico, alzandosi in piedi e incrociando le braccia davanti al petto, come per sfidarlo a dire il contrario. Rick sospirò. Se l’era aspettato un atteggiamento del genere.
“Kate, ti prego, ragiona.” iniziò cauto. “Questa è…”
“Non chiamarmi ‘Kate’!” lo bloccò subito lei rabbiosa, le guance ancora completamente rosse. “E no, non ragiono! Come può essere una soluzione… sposarti??”
“Non dobbiamo farlo per forza!” disse subito Rick, alzando le mani davanti a sé come per proteggersi dalla sua furia. “Ci basta fingere di essere fidanzati! Almeno finché non sarà pronto il tuo documento e allora potrai andart…”
“Prima cosa: io non me ne vado senza prima sapere di mia madre!” lo fermò di nuovo Kate, alzando un indice per far comprendere meglio il concetto. A quelle parole, tutti gli sguardi si puntarono su Castle. Lui deglutì e si morse l’interno della guancia, ma non disse nulla. “Secondo:” continuò la donna seccata, alzando un altro dito, non essendosi accorta dell’improvvisa strana atmosfera. “Come può essere che fingerci fidanzati posso aiutarmi?? Quell’uomo non mi sembrava tipo da fermarsi davanti a così poco!”
“Invece si fermerà proprio grazie a questo.” disse Ryan in tono calmo, venendo in aiuto al colonnello. Le spiegò brevemente della recente prodezza di Dreixk con l’amante della moglie e le espose come i vicini lo avrebbero tenuto alla larga se avesse voluto mantenere la sua fama. “L’ambizione è nel DNA di quell’uomo.” chiarì Kevin. “Non può rischiare di perdere la faccia se vuole andare avanti di carriera.”
Dopo quella spiegazione, Kate rimase per qualche momento in silenzio. Aveva ancora un atteggiamento difensivo, con le braccia incrociate, e la sua faccia diceva chiaramente che era poco convinta della cosa, ma pareva stesse pensando seriamente a quella possibilità. In ogni caso il rossore era ancora ben presente sul suo viso. Rick rimase in attesa, mordendosi quasi a sangue il labbro inferiore per l’ansia. Poi Beckett si rivolse di nuovo a lui.
“Non ho intenzione di sposarti.” dichiarò con tono categorico, ma meno ostile di prima. “Ma se questa è l’unica alternativa per restare… allora va bene, mi… mi fidanzerò con te.” Castle sospirò sollevato.
“Grazie…” disse, mentre il suo cuore iniziava lentamente a diminuire i battiti.
“Questa cosa mi piace.” commentò Esposito ghignando.
“Sta zitto, Espo.” lo ripresero Kate e Rick insieme. Si guardarono stupiti e un po’ imbarazzati.
“Ma che carini!” dichiarò Lanie divertita. “Vi siete appena fidanzati e già dite le frasi insieme! Siete davvero adorabili!” Beckett la fulminò con lo sguardo.
“Comunque,” disse Castle, ora decisamente più tranquillo e allegro. “Se mai decidessi che stiamo bene insieme e volessi sposarmi sul serio, non avrai che da chiedere!” concluse in tono malizioso. Kate socchiuse gli occhi con aria minacciosa.
“Ti ricordo che ho la tua pistola al momento.” replicò. Poi però fece un mezzo sorriso. “E inoltre sono gli uomini a dichiararsi, non le donne. Non te l’hanno insegnato in accademia, Castle?”
“Se deve dichiararsi lui, buonanotte!” commentò a mezza voce Ryan, alzando gli occhi al cielo.
 
Dopo l’avvenuta dichiarazione e le ulteriori informazioni per Kate da ricordare che gli aveva fornito Montgomery, Castle e Ryan scapparono in centrale. Sarebbero dovuti arrivare più di due ore prima, ma dopo l’incontro poco piacevole con Dreixk, nessuno dei due aveva pensato ad avvertire. Appena misero piede alla casermetta, si ritrovarono un folto gruppi dei loro soldati fermi davanti al bancone dell’accettazione.
Castle sbuffò contrariato. Ok che al momento non c’era molto lavoro da fare, ma non gli pareva il caso che i suoi uomini si mettessero a fare salotto durante il turno di lavoro.
“Beh, che fate tutti qui? Prendete il thé?” esclamò duro verso i soldati. Quelli si voltarono tutti verso di lui e Ryan, entrati a passo di marcia dalla portone d’ingresso. “Volete anche dei biscotti per caso?” Non appena li riconobbero, si misero subito sull’attenti con facce preoccupate. Rick li guardò e si corresse mentalmente: solo alcuni avevano un’espressione di preoccupazione. Altri sembravano ansiosi, eccitati o con sguardi riprovevoli. Il colonnello si bloccò perplesso, le sopracciglia aggrottate. “Che avete da guardare?? A lavoro, muoversi!” A quelle parole il gruppo si sparpagliò. Sul posto rimasero solo i due uomini al banco e un altro soldato, appoggiato comodamente al bancone con un gomito e con un sorrisetto beffardo stampato in faccia. Castle e Ryan lo riconobbero subito con un moto di odio. Dreixk.
“Riposo, Colonnello!” esclamò Dreixk divertito, drizzandosi con calma dal bancone e recuperando il cappello abbandonato su di esso. “Stavo solo facendo quattro chiacchiere con i tuoi uomini…”
“Credevo che il suo ufficio fosse in un’altra parte della città, Colonnello.” replicò Ryan ironico. “Si è perso per caso? Dobbiamo fornirle una cartina?”
“Castle, andiamo.” ribatté Dreixk malefico. “Non riesci neanche a tenere a bada i tuoi sottoposti?” disse ironico, facendo un cenno verso Kevin. Il maggiore si mosse nervoso sul posto, ma Rick lo fermò con un’occhiata. Non era il caso che l’amico si mettesse nei guai.
“La domanda del mio sottoposto non è priva di fondamento.” dichiarò Castle, tornando a parlare all’altro colonnello. “Che cosa fai qui?” Quello fece un gesto di noncuranza con la mano.
“Cercavo te.” disse. “Ma non essendoci, ho fatto due chiacchiere con i tuoi uomini per ingannare l’attesa. Vuoi sapere di cosa abbiamo parlato?” Rick sbuffò scocciato. Non era difficile indovinare di cosa avevano discusso. Come minimo in quel momento tutti in centrale sapevano che lui nascondeva una donna di dubbie origini in casa. Beh, era arrivato il momento di ribaltare la situazione.
“Probabilmente della mia fidanzata.” replicò Castle con un sorriso angelico. “O sbaglio?” La faccia di Dreixk fu impagabile. Il sorrisino che aveva avuto fino a quel momento scomparve d’un colpo, poi gli si aprì la bocca per lo stupore mentre aggrottava le sopracciglia.
“Tu non sei fidanzato.” ribatté sicuro Dreixk. Rick poté sentire dal tono che era nervoso.
“Come no??” rispose, come se fosse stupito della cosa. “Ma se hai conosciuto la mia fidanzata Kate stamattina!” Castle era sicuro che i due al bancone, nonostante avessero la testa china su chissà quali carte, non si stessero perdendo una parola della discussione. Meglio così, gli avrebbero risparmiato la fatica di mettere in giro la voce lui stesso. A quel punto mise su la sua migliore espressione contrita, cercando intanto di non scoppiare a ridere. “Però hai ragione, sai, Dreixk? Non avrei dovuto tenerlo nascosto, ma vedi… Kate è russa. I suoi genitori si sono trasferiti qui in Germania per stare sotto l’ala benefica del nostro Fuhrer, ma non molti capirebbero il loro gesto dopo gli ultimi avvenimenti in Russia. Io l’ho conosciuta poco prima che la sua casa saltasse in aria con i suoi genitori dentro. Poi a quel punto l’ho invitata a restare da me. Che posso farci se ci siamo innamorati e fidanzati? Non volevo ancora che la cosa fosse ufficiale, ma, dato che ora lo sai, l’hai resa tale.” concluse con un sorriso da innamorato perso per cui sua madre gli avrebbe dato un Oscar. “Anzi, presto daremo anche un ricevimento per festeggiare il fidanzamento. E sai che ti dico? Al bando i vecchi rancori, sei invitato!” esclamò allegro, avvicinandosi al colonnello e dandogli anche una pacca sulla spalla, come se fossero vecchi amici che si erano solo un po’ allontanati. Se gli sguardi avessero potuto assassinare, Castle sarebbe morto a metà del suo discorso.
Con rabbia controllata, Dreixk si mise il cappello in testa e alzò di nuovo lo sguardo verso Rick.
“Non mi perderei la festa del tuo fidanzamento per nulla al mondo.” dichiarò con tono gelido. Poi si avvicinò di un passo e abbassò la voce, così che solo il colonnello potesse sentire. “Sappiamo tutti e due che è solo una buffonata questa.” sussurrò con odio. “E presto lo saprà anche il mondo. Non potrai proteggere la tua bella per sempre. Non da me. Scoprirò chi è veramente e perché la stai nascondendo in casa tua. Non ti darò tregua, Castle…” sibilò infine. “Sarò la tua ombra finché non potrò mostrare al mondo chi sei e cosa fai davvero. Guarda le spalle a te e ai tuoi amichetti, perché verrà un giorno in cui non avrete più la battuta pronta a pararvi il culo e allora io sarò lì…” Rick represse a stento l’impulso di prenderlo a pugni. Minacciare lui era un conto. Minacciare le persone a lui care era tutta un’altra storia.
“Azzardati ad avvicinarti più di venti metri a uno solo di loro…” replicò Castle sempre sottovoce e con rabbia trattenuta. “E giuro che ti ritroverai con un altro buco per respirare.” I due colonnelli si squadrarono ancora per qualche secondo, occhi blu e neri a confronto con un sentimento comune di odio reciproco, le mascelle serrate, i pugni contratti. Poi Dreixk si voltò e si incamminò senza dire altro verso il portone d’ingresso della centrale. Castle non si mosse, gli occhi fissi con odio e rabbia davanti a sé, finché Ryan non gli assicurò che lo stronzo era sparito dalla loro caserma.
 
Come Rick aveva previsto, nel giro di due ore tutta la centrale sapeva che si era fidanzato con una donna russa che teneva in casa sua. Qualcuno si limitò ad affacciarsi nel suo ufficio per fargli le congratulazioni, altri si azzardarono anche a fare qualche domanda sulla sua futura sposa. I più audaci spararono pure qualche battuta. Quelli furono soprattutto i suoi uomini più stretti, come il Tenente Durren. Lui si presentò nel suo ufficio tutto allegro e con alcune carte da fargli firmare, domandandogli poi ironicamente se avesse già avuto un assaggio del suo futuro ruolo di marito. Rick, ancora nervoso per le minacce di Dreixk, si limitò ad alzare la testa dai documenti e lanciargli un’occhiata omicida. Con quello, Durren si zittì. Quando il tenente se ne fu andato dal suo ufficio, Castle si passò una mano tra i capelli preoccupato. Gli era venuto in mente solo in quel momento che Durren, e non solo lui, aveva visto Kate in centrale il giorno in cui l’aveva conosciuta. Ovviamente non potevano sapere che la sua ‘fidanzata’ e quella donna erano la stessa persona, ma si annotò mentalmente di inventarsi presto una soluzione anche a quel problema. Magari avrebbe potuto dire ai suoi sottoposti che in realtà avevano sbagliato accento quel giorno, che appunto non era americano, ma russo. Oppure che si somigliavano solo. Un’altra soluzione altrimenti avrebbe potuto essere fargli giurare di non dire niente. In fondo i suoi soldati gli erano fedeli. Non avrebbero fatto niente che avrebbe potuto arrecargli danno.
Castle ci stava ancora pensando al primo scurirsi della sera, quando il fragore di uno scoppio lontano lo fece drizzare immediatamente sulla sedia. Altre esplosioni seguirono la prima e il colonnello capì che erano di nuovo sotto attacco. Corse a dare ordini ai suoi uomini, incontrando Ryan appena fuori dalla porta, sperando insieme che Kate e gli altri si stessero già infilando in cantina.
 
Il bombardamento per fortuna durò solo qualche ora e fu concentrato più che altro in altre zone della città. A metà serata infatti, Castle e Ryan stavano già tornando a casa di quest’ultimo.
“Sicuri che non volete restare?” domandò Jenny a Rick e Kate. Il colonnello scosse la testa, mentre aiutava la donna a indossare il cappotto. Ne aveva discusso già con lei e avevano deciso di nuovo di tornare da lui. I Ryan erano molto ospitali, ma, obbiettivamente, non c’era posto. E poi non dispiaceva più di tanto a Castle provare ad avere quattro chiacchiere da solo con Beckett.
“Grazie, ma preferiamo rientrare.” replicò infatti il colonnello.
“Jenny, lasciali andare.” disse Lanie, trattenendo a stento un sorrisetto malizioso. “Vorranno passare tra di loro la prima notte da fidanzati.” Kate alzò gli occhi al cielo, arrossendo.
“Credo che tutti e due per oggi abbiamo vissuto abbastanza esperienze.” rispose Rick, passando una mano sulla schiena di Beckett in automatico come conforto. “Le notti di fuoco sono rimandate.” aggiunse poi facendo l’occhiolino alla donna, che scosse la testa divertita. “Per stasera ci serve solo una buona dormita.”
“E noi dovremmo crederci?” domandò Esposito ironico, nascondendosi poi subito dalle occhiatacce di entrambi dietro Leandro che teneva in braccio.
“Venite almeno per pranzo domani.” disse Jenny a quel punto, cercando di nascondere un certo divertimento per la faccenda. Kate e Rick si guardarono. Lui alzò le spalle e lei annuì.
“Ok.” rispose Castle per entrambi. “Ora dobbiamo andare. A domani allora.” li salutò, prima di uscire con Beckett in strada nel freddo della sera.
Stavolta non tornarono a casa distaccati come al solito, ma con Kate sottobraccio al colonnello. Era una cosa che avevano concordato in precedenza. Sarebbero dovuti apparire come fidanzati, quindi, in presenta di chiunque altro che non fossero i loro amici, avrebbero dovuto agire come tali. Non potevano rischiare che qualcuno li vedesse anche solo passeggiare per strada distanziati. Sarebbe crollata tutta la farsa.
Non appena rientrarono in casa, Castle accolse con un sorriso sollevato il calore dell’abitazione. Il cielo era stato limpido per tutto il giorno e aveva portato una ventata di freddo gelido, oltre che l’ultimo bombardamento.
“Vuoi che prepari qualcosa di caldo?” domandò il colonnello, aiutando Kate a togliersi il giaccone e vedendola tremare leggermente. Lei scosse la testa.
“No, grazie, sono a posto.” replicò, portandosi però le mani sulle braccia. Rick notò che non sembrava tanto infreddolita quanto aveva creduto a causa del lieve rossore sulle sue guance, ma piuttosto gli pareva a disagio.
“Un bicchiere di whiskey, allora?” chiese quindi con un mezzo sorriso, attaccando il cappello all’attaccapanni. “Direi che ce lo meritiamo dopo questa giornata…”
“Stai cercando di farmi ubriacare per portarmi a letto con te, fidanzato?” ribatté Kate divertita con un sopracciglio alzato, rimarcando sulla parola ‘fidanzato’ in tono ironico.
“Beh, a onor del vero, finora sei stata a letto con me.” replicò Castle, ridacchiando e togliendosi intanto il suo cappotto, ripensando alle notti che fino a quel momento avevano passato dormendo insieme. “E senza che abbia dovuto ubriacarti, oserei aggiungere.” Beckett fece una smorfia che lui trovò adorabile.
“Come posso sapere che ingredienti hai usato per preparare le ultime cene?” domandò con un tono semi-sospettoso.
“Perché dovrei avvelenare i miei fantastici manicaretti per portarti a letto con me?” chiese di rimando Rick con finto tono stupito. “Il mio fascino magnetico basta e avanza!” Kate scoppiò a ridere a quella uscita, cosa che fece imbronciare offeso, stavolta per davvero, il colonnello.
“Dai, grande affascinatore!” scherzò lei divertita dalla sua faccia. “Tira fuori il liquore, perché ho deciso di accettare quel bicchiere di whiskey.”
Castle tirò fuori l’alcool da un armadietto del salone. Si potevano notare diverse bottiglie dentro, di cui molte piene solo a metà. Il colonnello prese velocemente il whiskey, due bicchieri e richiuse subito. Aveva sempre avuto un problema. Quando c’era qualcosa che non andava nella sua vita, lui beveva. Aveva bevuto quando si era trasferito in Germania con la sua famiglia. Aveva bevuto fino a star male quando suo padre era morto. Quando aveva lasciato Meredith. Quando era morta Johanna. E in qualche altra occasione. Per qualche tempo lui si chiudeva in casa e beveva. Un bicchiere ogni tanto se lo faceva comunque, ne sentiva il bisogno per sciogliere lo stress, ma certi momenti… certi momenti avevano lasciato segni indelebili nella sua testa e nel suo cuore. Per fortuna sua madre o Ryan erano sempre riusciti a tirarlo fuori dall’alcool e a farlo tornare al mondo, in un modo o nell’altro, in più o meno tempo.
Nel momento in cui Rick richiuse l’armadietto, si accorse che era da quando conosceva Kate che non aveva più sentito il bisogno di bere. Nonostante i problemi, i bombardamenti e tutto, era riuscito a trattenersi.
Mise bottiglia e bicchieri su un piccolo vassoio e andò in cucina a prendere del ghiaccio. Quindi si avvicinò al divano dove Kate si era accomodata. Notò che sembrava pensierosa. Si stava mordendo leggermente un pollice e si era di nuovo raggomitolata in uno degli angoli del divano, lo sguardo perso chissà dove.
“Ghiaccio?” chiese Rick mentre versava un po’ di whiskey nei due bicchieri. Beckett sembrò riprendersi in quel momento. Scosse la testa in segno di diniego e abbassò le ginocchia dal petto, fino a sedersi girata lateralmente in modo da fronteggiarlo, mentre le passava il bicchiere basso e tozzo con due dita di liquido ambrato dentro. Castle mise due pezzi di ghiaccio nel suo, quindi si sedette anche lui sul divano. Ci fu un momento di silenzio, nel quale entrambi sorseggiarono i loro whiskey con la mente altrove.
“Quindi…” mormorò a un certo punto Kate. “Siamo fidanzati, giusto?” Rick fece un mezzo sorriso.
“Già.” rispose. “Ora che ci penso, Kevin aveva ragione. Come proposta non è stata un granché.” aggiunse come pensieroso, facendo sorridere la donna.
“In effetti non è stata delle migliori. Non hai neanche chiesto la mia mano a mio padre!” scherzò Beckett, prendendo un altro sorso dal bicchiere. Caste sgranò gli occhi come spaurito per fare un po’ di scena.
“Cavolo, hai ragione! Avrei dovuto chiamarlo!” esclamò. “Vedi, non ci arriveremo comunque al matrimonio, perché tuo padre mi farà fuori prima!” Lei scoppiò a ridere, mentre lui la guardava con un sorriso che non riusciva a togliersi dalla faccia. Era così bella quando rideva. “Senti, posso...” iniziò poi incerto, rigirandosi nervosamente il bicchiere tra le mani. “Posso chiederti una cosa?” Kate annuì mentre mandava giù con una mezza smorfia un altro po’ di whiskey. “Tu hai mai… insomma… hai mai pensato di sposarti sul serio?” La donna rimase per un momento immobile a fissarlo, la bocca semiaperta, stupita dalla sua domanda. Poi si morse il labbro inferiore, leggermente rossa sulle guance, e abbassò lo sguardo.
“Una volta.” rispose, mentre osserva il liquido nel suo bicchiere. Il tono era un po’ triste, ma non nostalgico. Ci fu qualche secondo di silenzio, in cui Rick aspettò pazientemente che lei continuasse. “Credo di non avertelo mai detto, ma in America io volevo diventare una giornalista come mia madre.” continuò alla fine con un mezzo sorriso. Il colonnello abbassò lo sguardo e prese un sorso dal suo bicchiere. Non riusciva a sentirla parlare della madre e guardarla negli occhi. Faceva troppo male. “Mentre studiavo c’era un ragazzo, un altro aspirante giornalista. Si chiamava William. Era… beh, era fantastico. Aveva un talento innato per quel lavoro. Sembrava che la notizia sbucasse fuori dal nulla con lui nelle vicinanze. Il suo sogno era diventare giornalista investigativo. Seguire i casi di omicidio era la sua ossessione. Voleva sempre sapere, sempre andare più a fondo nel perché c’era stato questo o quell’omicidio, cosa l’avesse scatenato e così via.” A quel punto Kate si fermò e osservò per un momento il suo bicchiere. “Mi conquistò subito. Era carismatico, attraente e mi amava. Sognavamo una casa tutta per noi a New York e una volta sposati volevamo aprire un giornale tutto nostro, dove avremmo scritto dei casi di omicidio e della crescente delinquenza e decadenza del nostro paese…” La voce di Beckett si incrinò appena.
“Immagino non sia andata così.” disse Rick dispiaciuto per il sogno spezzato bruscamente che vedeva negli occhi di Kate. Lei annuì con un mezzo sorriso triste.
“Infatti.” rispose sospirando. “Era talmente bravo che lo chiamarono da un giornale di Washington, un incarico importante. Mi tenne nascosto tutto fino a due giorni prima della sua partenza, quando si inginocchiò davanti a me. Mi chiese di sposarmi e andare con lui.” Kate prese un respiro profondo prima di continuare. “Rifiutai. Tutta la mia vita, la nostra vita, era a New York, mi capisci?” domandò a Castle con un tono che chiedeva di essere compreso, quasi di preghiera, gli occhi lucidi. “Da un giorno all’altro voleva che rinunciassi a tutto e mi trasferissi con lui a Washington. Non gli era neppure passato per la testa di dirmi qualcosa. Per lui era stato scontato che accettassi perché era una grande opportunità. Peccato che lo fosse solo per lui. Io ero una donna in un mondo maschile, avrei dovuto sprecare tutto il mio lavoro fino a quel momento per seguirlo oppure fare altro…”
“Ma a te piaceva il tuo lavoro.” continuò per lei Rick. Kate annuì piano.
“Ma a me piaceva il mio lavoro.” ripeté come conferma con un piccolo sorriso stanco. “Lo amavo, ma… non abbastanza da lasciare tutto. So che è egoista da dire, ma gli chiesi di scegliere tra me e Washington. Non c’è bisogno di dire come sia andata…” concluse con un piccolo sbuffo ironico. Castle poté vedere chiaramente il dolore nelle sue parole.
“Che razza di idiota!” sbottò. Lei lo guardò confusa. “Insomma, come ha potuto farsi scappare una come te?” A quelle parole, Kate sorrise imbarazzata. “Io non avrei accettato quel lavoro.” dichiarò Rick sicuro, scuotendo la testa con forza.
“Io sì…” sussurrò Beckett quasi con vergogna. Castle la guardò sorpreso e lei abbassò lo sguardo. “Non ero pronta per il matrimonio. Avevo 23 anni all’epoca, mi sentivo in grado di fare qualunque cosa e senza l’ausilio di nessuno. Non che non mi importasse di lui, lo amavo, ma… non ero pronta. Avevo paura.” Rick le sorrise comprensivo. Aveva capito anche lui, che non conosceva da molto Kate, che forzarle la mano non era una buona idea. Quel William non aveva capito niente di lei e aveva rovinato tutto. No, lui era certo di quello che aveva detto. Non si sarebbe lasciato scappare una donna come lei, se avesse avuto il suo amore. “Pensi che io sia una paurosa idiota, vero?” domandò alla fine con uno sbuffo ironico Beckett, mandando giù un altro po’ di whiskey. Castle scosse la testa.
“No.” rispose semplicemente. “Penso solo che tu sia umana.” Kate alzò gli occhi verde-nocciola su di lui, perplessa e sorpresa. “Beckett, ormai ti conosco da un po’ e l’unica parola che mi viene in mente per definirti è… beh, è straordinaria. E non parlo solo del tuo fantastico corpo…” disse, lanciandole un’occhiata approfondita che la fece arrossire leggermente. “Parlo di te. Sei testarda, ma ti adatti a ogni situazione. Sei forte e insieme hai i tuoi lati deboli, come chiunque. L’altro giorno mi hai detto che sono solo un uomo. Beh, io ora ti dico che sei umana, Kate. Sei solo straordinariamente umana…” Lei sorrise imbarazzata e abbassò lo sguardo, mordendosi insieme il labbro inferiore e giocando con il bicchiere nelle sue mani. Castle si trattenne a stento dal saltare la distanza tra loro e baciarla. Fu quasi una violenza fisica doverlo fare, ma non poteva. Non poteva cedere.
“E tu?” domandò all’improvviso Beckett cambiando discorso. “Mai sposato?” Rick fu quasi grato di quell’interruzione. Le sorrise ironicamente e alzò la mano sinistra, indicandosi con l’altra mano l’anulare.
“Niente anello.” rispose. “Ma anche io ci sono andato molto vicino una volta.” continuò, prendendo un bel sorso dal suo bicchiere, tanto da andare quasi a finirlo, con una mezza smorfia per il bruciore provocato in gola dall’alcool.
“Racconta.” disse Kate curiosa. Rick sospirò. Beh, aveva raccontato prima lei. Ora era il suo turno.
“Si chiamava Meredith.” iniziò il colonnello, lo sguardo puntato sui pezzi di ghiaccio mezzi sciolti nel suo bicchiere, perso in ricordi lontani. “Era una bella donna, attraente e, devo ammetterlo, una che a letto ci sapeva fare.” Beckett roteò gli occhi con un mezzo sorriso, ma non disse nulla. “L’avevo incontrata poco dopo essere arrivato a Berlino ed essermi arruolato. Siamo stati insieme per molto e credo di averla anche amata…” continuò con amarezza. “Ero ancora Tenente quando decisi che volevo sposarla. Comprai l’anello e tornai a casa pregustando già la favolosa serata che avremmo avuto dopo che lei mi avrebbe detto di sì. Certo, ero nervoso per la possibile risposta, ma ero così sicuro di quello che stavo facendo che avevo accantonato l’idea di un rifiuto...”
“Lei ti disse di no?” domandò Kate, quasi incredula. Rick scosse la testa con un sorriso triste.
“Lei non disse proprio niente.” rispose. “Quando arrivai, la trovai a letto con un altro uomo.” A quelle parole, Beckett si portò di scatto una mano davanti alla bocca, gli occhi sgranati.
“Dio, mi dispiace…” sussurrò lei, seriamente il pena per il colonnello. Lui alzò appena le spalle.
“Forse è stato meglio così.” dichiarò. “Sono uscito dalla sua vita e mi sono concentrato sulla mia, sul salire di grado nell’esercito. Dopo di lei ho fatto carriera in fretta.” disse quasi atono, facendo tintinnare leggermente il ghiaccio contro il bicchiere. “Però, se quel giorno non l’avessi trovata a letto con il mio superiore, oggi non sarei qui con te, non ti sembra?” domandò poi retorico, sorridendole sinceramente. “Quindi non tutto il male viene per nuocere.” Beckett annuì appena, ma non disse nulla. Semplicemente rimase a guardarlo con un lieve e confortante sorriso. Castle la osservò rapito. Forse doveva davvero ringraziare Meredith. Senza di lei non sarebbe diventato Colonnello così in fretta e non avrebbe avuto l’opportunità di conoscere Kate. Un pensiero però oscurò tutti gli altri. Senza di lei, forse Johanna sarebbe ancora in vita.
Rick abbassò lo sguardo e buttò giù l’ultimo goccio di whiskey.
“Forse è il caso di andare a dormire.” mormorò stancamente.
“Sì…” replicò Beckett piano. Appoggiò il bicchiere, ancora in parte pieno, sul vassoio sul tavolino accanto a loro e si alzò. “Beh, buonanotte allora.” lo salutò un po’ imbarazzata.
“Buonanotte?” chiese stupito il colonnello. Rimase ancora più di sasso quando la vide andare verso le scale invece che verso la sua camera. “Mi raggiungi dopo?” tentò Rick, alzandosi in piedi a sua volta, sperando che Kate non volesse davvero lasciarlo solo. Lei però si voltò lentamente, lo sguardo basso, le guance rosse, e scosse la testa.
“Con tutta questa storia del fidanzamento… ecco, io… io credo di aver bisogno dei miei spazi.”disse piano, nervosa, spostando il peso da un piede all’altro e incrociando le braccia davanti a sé. “Inoltre sarebbe… voglio dire, sarebbe imbarazzante dividere il letto, ora… non credi?” Castle annuì. Eppure dentro si sentiva male. Si era abituato alla presenza di lei nel suo letto. Fin troppo. E ora se ne rendeva conto. Forse era meglio così, avrebbe complicato troppo le cose.
“Ok.” disse solo, cercando di nascondere la tristezza del tono con un mezzo sorriso. “Buonanotte.” Kate gli fece un piccolo sorriso imbarazzato e sparì verso le scale. Rick sospirò malinconico, quindi prese il vassoio per rimettere a posto tutto. Prima di farlo, si versò altre due dita di whiskey e le calò giù in un fiato, quindi se ne andò a dormire.
 
La mattina dopo quando Kate scese, ancora piuttosto assonnata, dal piano di sopra, si ritrovò Rick seduto sul divano.
“Castle?” esclamò confusa e sorpresa. Lui si voltò di scatto e le sorrise.
“Buongiorno, Beckett!” la salutò, tornando poi a voltarsi in avanti. “Se vuoi in cucina c’è la colazione.” La donna aggrottò le sopracciglia. Sbirciò in cucina e vide il tavolo apparecchiato con un tazza ancora fumante, un piatto con del pane a fette e un barattolo di miele.
“Da quanto sei sveglio?” gli domandò avvicinandosi a lui invece che alla colazione. Era troppo curiosa di sapere che stava facendo di tanto importante.
“Un’oretta, più o meno.” replicò Rick distrattamente. Finalmente arrivò a vedere che stava combinando. Si sorprese nel vedere diversi pezzi di metallo sparsi per il basso tavolino davanti a lui. Poi guardò lui e vide che stava pulendo con una piccola spazzola circolare l’interno di un tubo piuttosto corto e stretto. “Sto pulendo la pistola.” disse Castle con un mezzo sorriso, sentendo il suo sguardo curioso addosso. “Bisogna farlo di tanto in tanto. E poi devo insegnarti a sparare, giusto? Quindi voglio che non ci siano problemi.” Kate recepì più che altro le parole ‘insegnarti a sparare’ e un brivido di eccitazione le passò lungo il corpo.
“Mi insegnerai a sparare??” domandò esaltata. Rick voltò la testa verso di lei, fermandosi nel lavoro per osservarla divertito.
“Ti avevo detto che ti avrei insegnato, no?” replicò ridacchiando. “Ora vai a fare colazione e vestiti.” disse, come si direbbe a una bambina che deve prepararsi per andare a scuola. Ma per quella volta Kate non gli badò. Le avrebbe insegnato a sparare davvero!! Non stava più nella pelle!! Corse in cucina per trangugiare la colazione e nel giro di cinque minuti stava già filando verso il piano di sopra per lavarsi e cambiarsi. Mezz’ora dopo erano nell’auto di Castle, che per questa volta era senza divisa, e si dirigevano verso l’esterno di Berlino. Il loro quartiere era già in periferia, ma loro stavano proprio uscendo verso la campagna e i boschi.
“Dove mi stai portando?” domandò Kate a metà tra il curioso e lo scettico. Non che non si fidasse di lui, ma quanta strada stavano facendo??
“In un posto isolato.” rispose. Poi le lanciò un’occhiata e ridacchiò. “Non lo sto facendo per violentarti o cosa! Ti ricordo che sei la mia fidanzata…” Kate sbuffò leggermente, ma Rick andò avanti come se niente fosse. “…quindi se avessi voluto portarti a letto lo avrei fatto direttamente a casa! Ti sto solo portando in un posto in cui nessuno potrà sentire il rumore degli spari. Se l’avessimo fatto in giardino, non solo avremmo svegliato tutto il vicinato, ma avremmo anche fatto affacciare un sacco di gente dalle finestre.”
“E non era pubblicità al fidanzamento che volevamo?” chiese Beckett stupita. Rick scosse la testa con un sorriso divertito, continuando comunque a guardare la strada.
“Secondo te quanti fidanzati insegnano alle loro donne a sparare?” chiese ironico. Dopo quello, la donna sbuffò e si mise a guardare fuori dal finestrino. Era un paesaggio nuovo per lei. Quando era arrivata dall’aeroporto, aveva visto sì e no qualche albero attraverso i vetri lerci del pulmino che la stava portando a Berlino. Ora invece rimase affascinata dalle vaste campagne intorno alla città, quasi del tutto incolte, tra e intorno alle quali erano visibili ampi tratti di boschi oscuri e quasi magici, come quelli che venivano narrati nelle leggende tedesche.
Ci misero almeno venti minuti prima di fermarsi in una piccola cascina. La casa aveva un piano solo ed era piuttosto stretta. Dalle erbacce che erano cresciute e dai vetri rotti delle uniche due finestre presenti sul davanti della casa, si notava che era abbandonata da tempo.
“Che posto è?” chiese Kate curiosa.
“L’aveva comprata mio padre.” rispose Rick con un’alzata di spalle, come se gli importasse poco. Eppure lei vide la nostalgia e un po’ di malcelato dolore nei suoi occhi blu. “Sperava un giorno di poterci passare la vecchiaia. Evidentemente non è stato così.” dichiarò con un mezzo sorriso triste. “Io e Ryan l’abbiamo utilizzato per qualche tempo come rifugio per gente come gli Esposito, ma una delle inchieste di Dreixk ha tirato fuori questo posto a mio nome. Chiunque sarebbe potuto venire a controllare durante le indagini, perciò lo abbiamo chiuso e fatto sembrare abbandonato. Il tempo ha poi fatto il resto.” aggiunse, lanciando un’occhiata critica a un’erba verde con un grosso tronco e piena di foglioline che gli arrivava quasi alla vita. “Ora ci vengo di tanto in tanto, se ho bisogno di pensare o sfogarmi.” concluse, facendole un mezzo sorriso e invitandola a seguirlo con un cenno. Castle la portò nel retro della casa, dove Beckett trovò una piccola radura. Dall’altra parte di essa notò un’asse in legno appoggiata orizzontalmente su due sostegni. Tutt’attorno a quel punto c’erano pezzi di vetro, lattine più o meno accartocciate e pezzi di chissà che altra roba. Kate si chiese quanto spesso era venuto il colonnello in quel fazzoletto di terra.
Rick la fece attendere vicino alla casa mentre lui arrivò fino alla tavola in legno. Le girò attorno diverse volte, lo sguardo basso, raccogliendo di tanto in tanto qualcosa da terra. Alla fine posizionò quello che aveva preso sull’asse in una fila ordinata. Erano tre barattoli ancora abbastanza interi, con solo qualche foro, una bottiglia in vetro dal collo spezzato e quello che pareva un instabile ciocco di legno piuttosto lungo e largo un palmo. Compiuta l’opera, il colonnello tornò soddisfatto da lei e tirò fuori la sua pistola dal fodero. Nonostante non indossasse la divisa, Rick aveva comunque nascosto la cintura con l’arma sotto il giaccone.
“Ok, prendila.” disse porgendogliela. Kate si mosse per un momento sul posto, a disagio, mordendosi il labbro inferiore. Poi però allungò una mano e la prese. La sentì subito più pesante e grossa rispetto alla pistola che le aveva dato il giorno prima.
“Preferivo l’altra…” borbottò Beckett, cercando di abituarsi a quel nuovo peso. Castle ridacchiò.
“Quella che ti ho dato ieri era una Walther PPK.” rispose divertito. “Calibro 9mm a sei colpi. Ti piaceva perché era non solo più leggera, ma anche più bella da vedere, scommetto!” Il colonnello non aveva tutti i torti. La PPK le era sembrata in qualche modo più morbida e il colore marroncino del porta caricatore l’aveva resa meno inquietante. Quella che aveva in mano invece era completamente nera, aveva forme spigolose e una lunga canna che sembrava essere di troppo alla pistola in sé.  “Questa invece è una Walther P38.” continuò Rick, indicandole l’arma che aveva in mano. “Calibro 9mm Parabellum, otto colpi e abbastanza precisa anche su buone distanze. E’ la mia pistola d’ordinanza.”
“Sicuro che posso sparare con questa?” domandò Kate. “Non sarebbe meglio l’altra?”
“Perché ti piaceva di più?” replicò Rick con un sorrisetto.
“No, perché mi hai detto che è d’ordinanza.” ribatté lei con un sopracciglio alzato. Castle scosse la testa.
“Credimi, al momento è più facile spiegare perché ho bisogno di munizioni per quest’arma piuttosto che per l’altra. Siamo in guerra, è più facile che usi la P38 piuttosto che la PPK, che è personale.” Kate annuì, quindi lui continuò con un sorriso più dolce. “Coraggio, puntala.” Beckett prese un respiro profondo e allungò le braccia davanti a sé e verso i bersagli. “Mano sinistra sulla destra quando impugni l’arma.” iniziò a istruirla Rick con tono competente. “Le braccia devono essere in linea con le spalle. Distendi i gomiti. Quando sparerai, la pistola avrà il così detto rinculo, ovvero ti torna indietro. Se le tue braccia non saranno ben tese e pronte, ti arriverà in faccia non appena premerai il grilletto.” Iniziò a girarle intorno per osservarne la postura. “Allarga appena le gambe. Brava, così. Busto non troppo eretto. Devi essere dritta, ma devi anche vedere attraverso il mirino per sparare…” Quando Rick le passò davanti, istintivamente Kate abbassò le braccia, fino a puntare la pistola a terra. Lui la guardò confuso. “Che fai??” domandò stupito. “Non abbiamo neanche cominciato!”
“Non voglio rischiare di spararti!” ribatté seccata. Castle scoppiò a ridere, beccandosi così un’occhiataccia dalla donna.
“C’è la sicura!” spiegò, indicandole una piccola levetta laterale che non aveva notato. “Al momento puoi tentare di spararmi quanto vuoi, ma non uscirà nulla da quell’arma.” Kate diventò all’istante rossa e tornò a puntare le braccia davanti a sé senza aggiungere altro. Che imbarazzo. Certo che avrebbe anche potuto dirglielo che aveva la sicura la pistola!! E lei che si preoccupava pure per la sua incolumità!
“Ok, ora scegli un bersaglio, puntalo e prova a sparare.” disse Rick, mettendosi di lato a lei. Kate alzò un sopracciglio come a dire: ‘Ma se mi hai appena detto che non spara?!’. “Lo so che non spara,” rispose infatti il colonnello alla sua domanda inespressa. “Tu fallo comunque.” Lei sbuffò, ma fece come le aveva detto. Puntò la pistola davanti a sé. Scelse un bersaglio, il barattolo centrale. E premette il grilletto. Non appena lo fece si accorse che l’arma scendeva e si muoveva leggermente. “Hai visto?” le disse Rick con un sorriso. Non era ironico. Era più uno di quei sorrisi che fanno gli insegnanti ai loro allievi quando scoprono qualcosa. “La pistola si muove quando spari. Oltre il rinculo è un’altra cosa da tenere a mente e che molti dimenticano. Se imprimi troppa forza al grilletto, ne risentirà la precisione di tiro.” Kate annuì. “Ok.” disse a quel punto il colonnello. “Vediamo di sparare sul serio.” Lei annuì di nuovo e si preparò. Non si aspettò però assolutamente ciò che successe dopo. Infatti qualcosa di caldo le finì contro la schiena e un paio di braccia sorpassò le sue per andare a prenderle la pistola in mano da dietro le sue spalle. Ci mise due secondi prima di capire che Castle la stava abbracciando. Divenne all’improvviso rossa e il cuore iniziò a batterle furiosamente.
“Che… che stai…?” cercò di chiedere, ma lui la interruppe.
“Non voglio che al primo sparo tu ti faccia del male.” le sussurrò all’orecchio. Un brivido le passò lungo la schiena quando sentì il suo respiro sul collo. “Ti aiuterò a prendere la mira ed evitare il rinculo. Ah, aspettati il bossolo uscire fuori dalla pistola.” aggiunse, indicandole la parte superiore dell’arma. Kate cercò di calmarsi e di focalizzarsi sui bersagli davanti a lei, ma risultò ben più complicato del previsto. Il petto di Castle stretto contro la sua schiena irradiava un calore fin troppo confortevole e per non momento quasi cedette alla tentazione di appoggiarsi del tutto contro di lui. Le mani di lui stringevano le sue forti, ma insieme leggere. Il suo odore inoltre la stava intossicando. Poteva avere un uomo un profumo così coinvolgente? “Pronta?” le sussurrò ancora al suo orecchio. Kate sentì, più che vedere, il sorrisetto furbo che doveva avere stampato in faccia. Il suo respiro caldo scivolò ancora sul suo collo e lei si irrigidì d’istinto. Non ce l’avrebbe fatta. Come avrebbe fatta a tener fede ai suoi propositi e non saltargli addosso??
 
“Pronta?” le sussurrò all’orecchio Castle. Quella nuova posizione lo stava facendo impazzire. Ed era certo che anche lei non ne fosse del tutto spiacente, visto come prima aveva reagito alla sua vicinanza. Non solo era arrossita vistosamente, ma aveva pure tremato leggermente tra le sue braccia. Ora invece si era irrigidita. Leggermente preoccupato, allontanò appena il bacino dal suo fondoschiena. Non era ancora in condizioni critiche, ma non voleva che ci fosse qualche spiacevole inconveniente.
“Non ti divertire troppo là dietro…” mormorò Kate a un certo punto, quasi senza fiato, sentendo il suo movimento. Rick ridacchiò e strinse leggermente le braccia. Quindi prese un respiro profondo, aspirando così il suo intenso profumo, spostò la levetta della sicura sulla pistola e tirò il cane per caricarla.
“Non te lo posso promettere.” sussurrò di rimando, divertito. Beckett sbuffò appena, ma non rispose, ancora completamente rossa. “Ora scegli il bersaglio, prendi il tuo tempo e spara.” continuò Castle, stavolta più serio. Con la coda dell’occhio vide la donna concentrarsi su un bersaglio e cercare di osservarlo attraverso il mirino. Invece che alzare le braccia, istintivamente si abbassò leggermente, andando a sfiorare di nuovo il suo bacino con il fondoschiena. Appena si accorse della cosa, tornò subito eretta e, se possibile, ancora più rossa di prima. “Alza le braccia, non abbassarti.” le disse lui, con un tono di voce però più roco e basso di quanto avesse voluto. Si morse il labbro inferiore cercando di calmarsi e sperò che Kate non avesse sentito nulla dietro di lei, tranne gli strati di vestiti. Non poteva toglierli comunque, nonostante sentisse fin troppo caldo.
Beckett prese un respiro profondo e si concentrò di nuovo sul bersaglio. Rick si voltò appena verso di lei, cercando di trattenere il respiro per non disturbarla. Rimase con la bocca semiaperta. Era bellissima quando si concentrava. All’improvviso sparò.
Nonostante fosse distratto, per fortuna Castle aveva ancora le mani saldamente su quelle di Kate, perché le braccia le cedettero appena esplose il colpo. La donna emise un versetto spaventato e quasi ritrasse per istinto le mani. Era una reazione comune la prima volta, soprattutto se non avevi mai sentito sparare da così vicino. Il bossolo fece un volo davanti a loro e cadde poco più in là con un piccolo tonfo attutito dal terreno. Gli uccelli nella radura davanti a loro presero a starnazzare spaventati e partirono in volo quasi immediatamente.
Quando la situazione si fu calmata, Rick si spostò di lato a Kate per guardarla in faccia senza comunque lasciarla andare.
“Stai bene?” le chiese. Beckett era a bocca aperta e occhi sgranati.
“Wow…” mormorò solo. Castle ridacchiò, ma smise quando la vide osservare torva i bersagli. Si voltò e notò che erano ancora tutti in piedi. L’aveva mancato.
“Non riesce nessuno la prima volta, tranquilla.” la consolò con un sorriso. “Ti va di riprovare?” chiese poi. Gli occhi di lei stavolta si illuminarono e annuì subito. Il colonnello alzò un sopracciglio divertito. Solo quella donna poteva entusiasmarsi per un semplice tiro a segno. Scosse la testa e si riposizionò dietro di lei. Kate si mosse leggermente a disagio, ma stavolta non rabbrividì né si irrigidì. Rick si premurò comunque di mettersi sempre in modo che il suo bacino fosse ben distanziato dal suo fondoschiena. “Ok.” disse quindi con un sospiro. “Ormai la storia la sai. Scegli il tuo bersaglio e spara.”
 
La lezione andò avanti finché Kate non usò tutti gli otto colpi già presenti nell’arma e gli altri otto proiettili aggiuntivi che mise Castle cambiando il caricatore. Alla fine Beckett era raggiante. Con l’ultimo colpo aveva mandato in mille pezzi la bottiglia di vetro, unico bersaglio superstite dei cinque presenti. Ci aveva messo un po’ a capire come fare a smorzare il rinculo, ma, per essere la prima volta, Kate aveva superato la prova a pieni voti.
Rick era rimasto per buona metà del primo caricatore alle spalle della donna, finché lei non lo aveva cacciato, dicendogli che la distraeva. Da quel punto in poi, si era limitato a osservarla a qualche passo di distanza per non disturbarla e per evitare i bossoli dei proiettili che sparava. Aveva trovato un che di eccitante nel vederla sparare, tanto che a un certo punto si era dovuto costringere a smettere di osservare lei e le sue curve per fissare i bersagli.
In macchina, Beckett sembrò a Castle una bambina appena scesa da una giostra. Continuava a sorridere e a dire che avrebbe voluto riprovare presto a sparare. Partì anche nella descrizione di cosa aveva provato durante uno dei suoi colpi migliori, tirato al ciocco di legno. L’aveva preso esattamente in mezzo e ne era estremamente orgogliosa. Rick aveva voluto recuperarlo dalla boscaglia, dove Kate l’aveva fatto finire, per metterlo in casa. Secondo la donna era un’idea stupida, nonostante fosse arrossita quando glielo aveva proposto, perché era solo un pezzo di legno bucato. Ma lui non aveva voluto sentire ragioni. Lo aveva semplicemente preso e infilato in macchina.
“Senti, Castle, io…” iniziò Kate in auto, ma poi si fermò un po’ imbarazzata.
“Cosa?” domandò Rick curioso, senza spostare lo sguardo dalla strada. Sentì un piccolo sospiro, poi lei parlò ancora.
“Grazie.” disse piano. Castle si voltò per un momento a guardarla. Beckett si stava mordendo il labbro inferiore e lo osservava quasi temesse di aver fatto male a dirlo.
“Per cosa?” chiese stupito.
“Per avermi portato a sparare.” rispose con un piccolo sorriso. “Quasi nessuno avrebbe accettato di darmi un’arma in mano e farmi fare fuoco. Anzi, molti mi avrebbero pure presa per pazza per questa mia strana voglia. Invece tu non solo non hai fatto commento, ma mi hai anche seriamente insegnato a sparare.” continuò, sinceramente grata. “Perciò, grazie.” Rick le sorrise dolcemente.
“Sempre.”
 
Fecero appena in tempo ad andare a casa per cambiarsi e lasciare il pezzo di legno, che dovettero subito uscire per andare a pranzo dai Ryan.
“Ma guarda chi c’è!” esclamò Kevin ridacchiando e aprendo la porta. “I nostri fidanzatini preferiti sono arrivati!” Il maggiore si beccò un’occhiataccia dal colonnello, mentre Kate arrossiva e scuoteva la testa.
“Zio Rick!!” lo chiamò subito Leandro, spuntando dal salone e fiondandosi contro le gambe di Castle, prima ancora che avesse finito di togliersi il cappotto. Per fortuna Beckett gli diede una mano a levarlo e appenderlo, perché altrimenti con il piccolo saldamente ancorato alle gambe sarebbe stata un’impresa ardua.
“Ciao, Leo.” lo salutò Rick divertito, staccandosi il bambino di dosso e tirandoselo in braccio. “Anche io sono felice di vederti. E la zia Kate non la saluti?” aggiunse poi, indicando con un cenno la donna accanto a loro, che stava finendo di posare il giaccone.
“Ciao, zia Kate.” disse Leandro, quasi in tono di scuse. Lei gli sorrise dolcemente.
“Ciao anche a te, Leo. Non mi dai neanche un bacio?” Il piccolo subito si allungò dalle braccia di Castle e le schioccò un bacio sulla guancia.
“Io avrei preferito dei baci tra te e quel bell’uomo, non tra te e mio figlio!” esclamò Lanie ridendo, spuntando dal salotto e salutandoli con la mano. Kate arrossì di nuovo e le lanciò un’occhiataccia. Rick ridacchiò. Stava per ribattere, ma Leandro lo bloccò.
“Zio Rick, papà mi ha detto che siete fidia… fid… fidanpati!” Il colonnello scosse la testa.
“Fidanzati.” lo corresse con un sorriso. “Ma non è esattamente vero…”
“Allora non vi sposate??” replicò subito il bambino con tono stupito e ferito. Kate e Rick si guardarono confusi e un po’ imbarazzati, mentre si avviavano verso il salone.
“Ehm… no.” rispose Beckett. Nel sentirlo, Leo mise su un broncetto triste. “Ehi, perché quel faccino?” gli disse la donna con un piccolo sorriso.
“Perché non vi sposate!” ribatté subito il bambino. “Io avevo capito che ora siete fidanzati, quindi poi vi sposate!”
“Ma perché sei tanto triste se non ci sposiamo?” domandò Rick stupito.
“Perché mamma e papà sono sposati e hanno me.” replicò ovvio, indicandosi il petto con un dito. “Zia Jenny e zio Kevin hanno un bambino nascosto nella pancia della zia. Se vi sposavate anche voi, potevo giocare con ancora un altro bambino!” I due adulti si guardarono imbarazzati.
“Tesoro,” gli disse dolcemente Kate. “Se anche ci fossimo sposati e avessimo avuto dei bambini, loro sarebbero stati troppo piccoli per giocare con te.”
“Oh…” replicò Leandro abbattuto. “Però quando crescevano potevo giocarci con loro?” domandò poi con un tono di speranza.
“Certo, piccolo.” rispose Rick con un sorriso un po’ malinconico. Le parole di Leandro stavano pitturando nella sua testa uno scenario fin troppo vivido. Uno scenario che però non avrebbe mai potuto creare sul serio.
“Amore,” lo riprese Lanie, vedendo le espressioni strane, e fin troppo simili, di Castle e Beckett. “Lascia stare gli zii e vai a lavarti le mani che ora si mangia.” Il bambino annuì e scese dalle braccia di Rick.
“Dopo facciamo le magie?” chiese Leandro a Kate all’ultimo, prima di sparire nel corridoio. Lei gli sorrise divertita.
“Ti piacciono proprio, eh?” replicò ridacchiando. “Comunque va bene.” Il piccolo sorrise e corse a lavarsi le mani.
“Tutto bene voi due?” domandò Esposito, avvicinatosi a loro. “Avete delle facce…”
“Siamo solo stanchi.” rispose Rick per entrambi. “Prima siamo stati a sparare.” aggiunse poi con un sorriso, voltandosi verso Kate. Gli occhi della donna si illuminarono e un sorriso enorme le si aprì in volto.
“Sparare?” chiese Lanie stupita, come se non avesse capito bene.
“Sparare!” confermò Beckett, eccitata. La signora Esposito alzò gli occhi al cielo.
“E io che speravo iniziaste a fare cose da fidanzati…” dichiarò esasperata. Kate le lanciò un’occhiataccia, ma prima che potesse risponderle Jenny arrivò in quel momento a salvarla.
“Ehm… Kate, perché non ci racconti di quello che avete fatto?” domandò, lanciando una mezza occhiata a Lanie e scuotendo insieme la testa come a dire ‘Lasciali in pace’. Rick notò che la signora Ryan aveva una mano sulla pancia e solo in quel momento si accorse che era cresciuta rispetto a come la ricordava. Sì, si erano visti il giorno prima e i giorni precedenti, ma non l’aveva proprio notato con i vestiti larghi che aveva indossato fino a quel momento. Il vestito leggermente più stretto le modellava la non più tanto piccola pancia tonda. “Sbaglio o ho sentito che hai sparato?” chiese ancora Jenny.
“Sì!” esclamò fiera Kate. “Siamo andati in una zona di campagna e…”
“La casa di tuo padre?” chiese Ryan a Castle sorpreso, interrompendo Beckett. Il colonnello annuì.
“Era l’unico luogo in cui potessi farla giocare con la pistola.” spiegò Rick con un sorriso divertito, alzando appena le spalle.
“Visto com’è isolato il posto, avrebbe potuto giocare con un altro tipo di pistola…” borbottò Lanie a mezza voce.
“Lanie!!” la richiamò Kate, completamente rossa in volta, mentre gli altri, a parte Castle, ghignavano. Il colonnello si limitò a trattenere un mezzo sorriso, ripensando a quando abbracciava la donna in quel pezzetto di terra.
In quel momento arrivò la Gates dalla cucina con un enorme pollo, caldo e dall’aria succosa, sopra un vassoio. Nello stesso attimo tornò anche Leandro dal bagno e tutti iniziarono a sedersi alla tavola già apparecchiata.
“Comunque in effetti avresti potuto scegliere un’attività un po’ più consona tra fidanzati, Rick.” disse in parte serio e in parte divertito Ryan, facendo sedere la moglie e accomodandosi a sua volta a tavola.
“Secondo me una donna deve imparare a difendersi.” commentò la Gates, tagliando intanto il pollo. “Con qualunque arma disponga, che sia il suo corpo, la pistola o il coltello...” Concluse l’ultima frase piantando proprio il coltello che aveva in mano all’interno della povera bestia cotta. Rick trovò la domestica alquanto inquietante e minacciosa. Si appunto mentalmente di non farla mai arrabbiare mentre aveva un qualsiasi oggetto in mano. Anzi, meglio non farla arrabbiare per niente.
“Concordo con lei.” disse Kate con un sorriso mentre si metteva un po’ di insalata nel piatto, passandola poi al colonnello.
“Tanto la pelle è la mia…” scherzò Rick, ignorando l’insalata e prendendo invece la ciotola delle patate bollite. I due erano seduti vicini sul lato lungo del tavolo, davanti a Esposito e Lanie. Accanto a Javier c’era Jenny e a capotavola Ryan. All’altro capotavola era seduto Leandro. La Gates invece non mangiava mai a tavola con loro.
“Oh, andiamo, lo sai che non ti farei del male!” replicò Beckett divertita. “Mi servi vivo al momento. Altrimenti chi mi insegna a sparare??”
“Beh, non eri tanto male…” dichiarò il colonnello, cercando di trattenere un sorriso con scarso successo. “…quando toglievi la sicura!” Lei arrossì un poco e sbuffò.
“E’ successo solo la prima volta!” dichiarò subito lei offesa. “E solo perché tu non mi hai detto che c’era!”
“E io ti avrei armata e ti sarei passato davanti così come se fosse niente?” domandò Rick divertito, tagliando intanto un pezzo di pollo e infilandoselo in bocca. Beckett lo guardò male.
“Tranquillo, la prossima volta che ti punterò un’arma addosso, controllerò prima che la sicura non ci sia!” ribatté lei, puntandogli la forchetta contro.
“Ma io non ti servivo?”
“Ho cambiato idea.”
“Ragazzi!” li fermò Jenny divertita. “So che andreste avanti per ore a stuzzicarvi, ma…”
“Non ci stiamo stuzzicando!!” esclamarono insieme i due. Si guardarono per un momento imbarazzati.
“Niente, non ce la fate a non essere terribilmente adorabili!” esclamò Lanie, ridacchiando mentre tagliava il pollo a Leandro. Kate e Rick la guardarono male intanto che gli altri ridevano.
“Dai, buoni, prima che ci uccidano con lo sguardo!” disse Javier ancora divertito. “Allora Kate ci racconti come è stato sparare?” Castle aveva notato già in precedenza che Esposito sembrava piuttosto competente di armi e interessato all’argomento.
“Fantastico!” replicò lei riprendendo un po’ di buonumore. “All’inizio Castle mi ha aiutato a tenere la pistola per evitare il rinculo, ma poi…”
“Aspetta,” la fermò Kevin con un sorrisetto. “Ti ha aiutato a tenere la pistola? Da dietro? Quindi abbracciandoti?” Kate diventò rossa mentre Lanie e Jenny lanciavano un gridolino eccitato. Rick si passò una mano sulla faccia, rassegnato. Sarebbe stato un pranzo davvero lungo.
 
Per il servizio reso la notte precedente durante il bombardamento, Castle e Ryan avevano ottenuto la giornata libera, quindi per una volta non si preoccuparono per niente dell’orario. Tutti pranzarono tranquilli, tra risate e battute, soprattutto a scapito di Rick e Kate, poi fecero magie e giocarono a Monopoly. I due novelli ‘fidanzati’ riuscirono a tornare a casa solo a pomeriggio inoltrato, quando ormai erano rimaste in cielo solo le ultime luci del tramonto. Stanca per la giornata, Kate si dileguò a leggere nella stanzetta dei libri. Rick approfittò dell’assenza di lei invece per tirare fuori il ciocco di legno centrato in pieno dalla donna al mattino. Avrebbe voluto farci qualcosa di speciale, ma non gli vennero molto idee. Prese una pialla, un cacciavite piatto e un martello dallo sgabuzzino e si nascose in cantina. Non sapeva ancora bene che farci, ma forse qualcosa gli sarebbe venuto in mente. Tanto per cominciare, iniziò ad appiattire e lisciare la parte sottostante del ciocco, in modo che rimanesse in un equilibrio stabile. Poi si mise a uniformare il bordo laterale. Rick pensò che una volta doveva essere stato una parte di un ramo di un albero perché c’era ancora tutta la corteccia scura intorno. Decise di non toglierla, ma solo di livellarla un po’. Gli piacevano i disegni naturali che la corteccia stessa creava.
Mentre lavorava, gli passò per la mente di scrivere una frase o altro dietro il pezzo di legno, qualcosa che fosse solo per Kate. Ci mise un po’ a trovare quella più adatta. Alla fine scelse una parola: Sempre.
Con attenzione, prese il cacciavite e iniziò a scalpellare con l’aiuto del martello la parola ‘Sempre’ in inglese, ovvero ‘Always’. Essendo lui americano di origine, nessuno si sarebbe stupito se si fosse visto qualcosa in lingua inglese in casa sua. Di certo non lo avrebbe scritto in tedesco per Kate.
Appena ebbe concluso l’opera, si allontanò di un passo per osservarla soddisfatto. In qualche modo era riuscito a scrivere Always in un sottile corsivo. Le lettere si stagliavano chiare contro la corteccia scura, quasi prendessero vita dal legno sotto di essa. A quel punto risalì la cantina e tornò al pianterreno. Rimise a posto gli attrezzi da lavoro e si spostò in salone con il ciocco. Mentre passava, Rick intravide Kate leggere assorta su una delle poltrone della piccola biblioteca attraverso la porta semiaperta. Sorrise leggermente, osservandola mordersi il labbro inferiore mentre la piccola rughetta di concentrazione le si formava tra le sopracciglia per un passo particolare del libro.
Arrivato in salone gli venne un dubbio: dove mettere il legno? Girò su sé stesso più volte e alla fine lo sguardo gli cadde su una delle mensole della parete. Era più o meno all’altezza della sua testa ed era ben visibile entrando nel salone dal corridoio d’ingresso. C’erano solo pochi altri cimeli che la occupavano: una piccola Torre Eiffel in ferro, portata da sua madre da un tour a Parigi, una medaglia del padre e una targa. Rick osservò la medaglia dorata malinconico. Era grande quanto il palmo della sua mano e rappresentava una stella a cinque punte, con all’interno il volto di un soldato con elmo, contornata da una corona d’alloro verde, agganciata a una targhetta con la scritta VALOR e sorretta da un’aquila con le ali spiegate. Il pezzo di stoffa a cui era attaccato era color azzurro intenso e aveva diverse stellette bianche ricamate sopra.
Castle scosse la testa come per cacciare alcuni pensieri e passò lo sguardo sulla targa dorata appena accanto alla medaglia. Quella era un semplice rettangolo inciso, ma per lui valeva molto più che una qualsiasi medaglia. Sorrise appena. Quindi spostò leggermente di lato tutti quegli oggetti e appoggiò, nello spazio creatosi, il ciocco di legno. Lo sistemò in modo che il foro fosse ben visibile e la scritta invece, sul retro, invisibile.
Alla fine osservò il suo lavoro con un mezzo sorriso. Sì, quella sistemazione gli piaceva. A quel punto andò a ripulirsi in bagno, quindi controllò l’ora e vide che era già momento di cenare. Andò da Kate e bussò alla porta.
“Ehi.” la salutò quando lei alzò lo sguardo.
“Ehi!” gli rispose con un sorriso. Poi notò che la finestra dietro di lei era completamente buia. “Scusa, questo libro mi ha preso. Che ore sono?”
“Ora di cena!” esclamò ridacchiando Castle. “Vuoi qualcosa in particolare?” Beckett scosse la testa.
“No, stupiscimi.” replicò con un sorrisetto.
“Sarà fatto.” dichiarò il colonnello con un mezzo inchino ironico. Quindi si avviò in cucina.
“Ehi, ma tu cosa hai fatto fino adesso??” gli chiese Kate curiosa, correndogli dietro. Lui alzò le spalle.
“Qualche lavoretto…” rispose divertito, ma insieme un po’ nervoso. “Dai un’occhiata al salone mentre passi.” le disse poi, prima di infilarsi in cucina. Iniziò a tirare fuori una pentola per fare un po’ di pasta mentre intanto stava con l’orecchio teso al salone. Ormai Kate doveva averlo visto. Mise l’acqua nella pentola e la poggiò sul fornello, aggiungendo poi il sale. Quindi si sporse leggermente all’indietro per riuscire a vedere la sala dalla porta della cucina. E in quel momento vide Kate in piedi proprio davanti alla mensola. Stava osservando i vari oggetti. Rimase a fissarla, fino a quando non la vide allungare cautamente un braccio verso il pezzo di legno. A quel punto tornò a darsi da fare con la pasta prima che lo beccasse a spiarla.
Meno di un minuto dopo, mentre controllava se l’acqua iniziava a bollire, sentì Beckett entrare in cucina. Si voltò e notò che era un po’ rossa in volto.
“Sei… sei stato tu a scrivere sul legno?” chiese un po’ incerta. Rick annuì, un po’ imbarazzato.
“Già.” rispose. “Ti piace?” chiese agitato.
“E’ davvero molto bello.”replicò, mordendosi poi appena il labbro inferiore. “Sei bravo con il legno.” continuò. Castle sorrise e alzò le spalle, ora più tranquillo.
“Diciamo che sono bravo con le mani…” dichiarò con un tono malizioso. Kate roteò gli occhi, ma sorrise divertita.
“Posso chiederti una cosa?” domandò poi lei cambiando argomento. “Gli altri oggetti… cosa sono?” A quella domanda, il colonnello tornò a guardare la pentola, un poco più cupo. Vedendo che l’acqua bolliva, prese la pasta accanto a lui e la buttò dentro, ripensando intanto a quando lui stesso aveva rimesso gli occhi su quegli oggetti sulla mensola poco prima.
“Ricordi.” rispose alla fine con un piccolo sospiro, chiudendo la pentola con un coperchio.
“Buoni o cattivi?” chiese cauta Beckett. Rick fece un mezzo sorriso.
“Né buoni né cattivi.” replicò, girandosi verso di lei. “Solo ricordi.” Lei annuì piano, un po’ a disagio.
“Scusa, non volevo ficcanasare, ma..”
“E’ tutto a posto.” la bloccò lui dolcemente. “Se non avessi voluto che li vedessi, li avrei tolti. Solo che… beh, diciamo che stasera non sono in vena di raccontare storie.” si scusò con un piccolo sorriso. Kate annuì di nuovo, quindi ci fu qualche momento di silenzio mentre Rick controllava la pasta.
“Uhm… tu credi,” iniziò Kate insicura e arrossendo vistosamente. “Credi che dovremmo fare delle prove di baci prima della festa di fidanzamento?” Castle quasi si strozzò con la saliva e rischiò di far cadere il coperchio che aveva in mano. Lo rimise sulla pentola tossendo furiosamente. Beckett lo raggiunse subito e iniziò a dargli leggere pacche sulle spalle. “Tutto bene?” chiese allarmata.
“Credo… credo di aver capito male…” mormorò Rick. “Tu vuoi… vuoi fare delle prove…”
“Lo so era un’idea stupida.” lo bloccò lei, completamente rossa in volto. “Non dovevo proprio…”
“No.” la fermò lui, prendendola anche istintivamente per un polso prima che scappasse. Solo in quel momento si accorse di quanto erano vicini. Poteva sentire il respiro di lei sul suo collo. La mano che lui non bloccava era appoggiata sul suo petto, sul quale si era stabilizzata dopo che lui l’aveva quasi tirata a sé. Il sui occhi, le sue labbra, il suo profumo, tutto lo attirava di lei. Rick fu sul punto di mandare tutto all’aria. Di fregarsene di ogni cosa e baciarla. Al diavolo il suo grado, al diavolo la paura di perderla, al diavolo tutto. Si avvicinò quasi a sfiorarle il naso con il suo quando il campanello trillò.
Castle serrò la mascella e mandò a quel paese chiunque ci fosse dall’altra parte della porta.
“Vado io!” esclamò subito Kate, con voce appena stridula, sfilando il polso dalla sua stretta e correndo alla porta. Il colonnello chiuse per un momento i pugni e gli occhi e contò fino a cinque per calmarsi. Quindi si voltò e diede una girata alla pasta nella pentola con forza, quasi fosse colpa sua l’interruzione. “Ehm… Rick?” lo chiamò Kate dall’ingresso.
“Arrivo.” le rispose con tono ancora un poco scocciato, lasciando il tutto e affacciandosi dalla cucina per vedere chi fosse. Sulla porta c’era una donna magra e piuttosto anziana, di media statura, con folti capelli rossi e due occhi azzurro chiaro. Quando capì chi era, sgranò gli occhi. “Mamma??”

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Xiao! :D
Allora... beh, diciamo che Kate alla fine non l'ha poi presa tanto male sta storia... XD Forse quello che l'ha presa peggio è stato proprio Dreixk! XD Come la prenderà invece la madre di Castle? Perché è lì? Boh? XD Però almeno ora Kate sa sparacchiare e il nostro colonnello ha voluto mettere un segno tangibile di quello che sa fare in bella vista vicino ad altri cimeli... cosa sono quei cimeli? Mah! XD
Ok smetto di fare la pirla... (lo so che la vostra faccia è scettica XD) Spero solo che alla fine vi sia piaciuto il capitolo! :) E' un po' più lungo, ma alla fine s'è deciso di farlo arrivare fino a qui... X) Spero di pubblicare di nuovo domenica prossima, ma non do garanzie...
Grazie come sempre a Katia e Sofia per l'aiuto/supporto/tolleranza alle mie cazzate! <3<3
A presto! :D
Lanie
ps: nell'ordine, le foto della Walther PPK (arma di scorta di Rick), Walther P38 (arma d'ordinanza) e medaglia del padre sulla mensola:
     

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Capitolo 12
*** Storie da raccontare ***


Cap.12 Storie da raccontare
 

“Mamma??”
Castle non poteva crederci. Con tutti i problemi che già avevano, doveva entrarci pure sua madre??
“Richard!” esclamò a lei con tono di rimprovero ancora sulla porta, le mani sui fianchi, facendolo deglutire preoccupato come quando era bambino. “Sapevo che sei uno che fa di testa tua, ma fidanzarti senza neanche avvertirmi??” Kate e Rick si scambiarono uno sguardo agitato.
“Mamma, posso spiegarti…” iniziò il colonnello, schiarendosi la gola nervoso.
“Sarà meglio per te!” lo minacciò, socchiudendo gli occhi. “Nascondere una cosa del genere a tua madre!” aggiunse poi, portandosi una mano alla tempia con fare teatrale. Rick sbuffò, irritato dall’apparizione, ma decisamente più tranquillo. Martha Castle non faceva mai gesti teatrali quando parlava seriamente.
“Ok, ok, ma adesso entra, mamma.” la invitò il colonnello, alzando gli occhi al cielo, prima che la donna facesse qualche scena da grande attrice sulla porta di casa. Martha entrò in casa ridacchiando per la faccia del figlio. Come Rick aveva immaginato, non era davvero arrabbiata. Probabilmente c’era rimasta un po’ male per aver saputo del fidanzamento del suo unico figlio in quel modo, ma di certo non era arrabbiata con lui per il tentativo di accasamento.
“Tu sei la famosa ragazza, allora?” domandò a Kate, squadrandola curiosa mentre Rick chiudeva la porta alle loro spalle.
“Mamma,” si intromise Rick prima che qualcuno dicesse qualche parola di troppo. “Lei è Kate Belyaeva.” Quello era il nome che avevano concordato con Montgomery per il passaporto di Beckett. “Kate, lei è mia madre, Martha Castle.” Poi si rivolse di nuovo all’attrice. “Mamma, Kate è russa…” disse calcando il ‘russa’ per Kate, così che si ricordasse di contaminare il suo inglese con l’altra lingua. Non sapeva ancora se dirlo a Martha. Non voleva metterla in pericolo. “Quindi… ehm… scandisci bene.” concluse un po’ incerto e un po’ divertito. Beckett gli lanciò un’occhiataccia, come se lui le stesse dando dell’idiota che non sapeva la lingua. Comunque tirò fuori un sorriso tirato per Martha, allungandole una mano.
“Piacere conoscere te.” disse marcando l’accento russo e insieme lanciando un’altra occhiata storta al colonnello. “Mi spiace che Cas… Rick detto niente.” Distratta dal guardare male l’uomo, stava per tradirsi chiamandolo per cognome, ma si era ripresa appena in tempo.
“Dispiace anche a me.” replicò Martha, osservandola curiosa. Rick notò che lo sguardo indagatore della madre stava mettendo in agitazione Kate, per cui si intromise ancora una volta.
“Mamma, perché non vai a sederti in salone?” domandò con un sorriso forzato, indicandole la sala. “Kate e io finiamo di preparare la cena e arriviamo, ok?” Quindi prese Beckett per mano e se la tirò in cucina. Attesero che Martha si fosse seduta in salone, quindi si guardarono preoccupati.
“Che facciamo??” chiese Kate sottovoce, ansiosa.
“Mandiamo avanti la recita?” rispose Rick ovvio, ma insieme titubante, con lo stesso basso tono di voce.
“Cosa??” replicò lei scandalizzata. “Io non voglio mentire a tua madre!!”
“Non voglio coinvolgerla…” cercò di spiegarsi il colonnello, ma Beckett lo interruppe di nuovo.
“Castle è tua madre!” ribatté con un sopracciglio alzato e le braccia incrociate davanti al petto. “Ti ha cresciuto! Quanto pensi ci metterà a capire che le stai dicendo una balla?” Il colonnello si mosse a disagio sul posto.
“Non lo so, io…” iniziò Rick, ma si bloccò quando vide la madre arrivare dal salone attraverso la porta della cucina. “Cazzo!” sibilò. “Sta arrivando!” comunicò subito a Kate. Si guardarono in panico. Come diavolo avrebbero potuto convincere la madre che stavano insieme? Poi gli venne un’idea. “Baciami!” sussurrò veloce, lanciando uno sguardo al salone e vedendo Martha sempre più vicina.
“Cosa??” replicò Kate stupita, la bocca semiaperte e le guance all’improvviso rosse.
“Baciami!” ripeté Rick subito, insistente. Vedendo però la donna ancora scioccata, prese l’iniziativa. Si avvicinò rapidamente a lei, la bloccò contro il piano da lavoro della cucina e la baciò. In un attimo dimenticò tutto. Sua madre, Dreixk, Johanna, tutto. Per un attimo il suo mondo si ridusse a Kate, alle sue labbra, al suo corpo bloccato contro il proprio… Non esisteva altro.
Beckett rimase per un attimo immobile, stupita. Rick la sentì irrigidirsi contro di lui, anche se non aveva fatto altro che appoggiare le sue labbra su quelle di lei. Le trovò così morbide, calde, invitanti e… schiuse. Con un secondo di ritardo, Castle capì che Kate aveva schiuso la bocca, permettendogli l’accesso. Percepì il corpo di lei farsi più vicino al suo (o era lui che la attirava a sé?), il seno di lei premere contro il suo petto, e represse a stento un gemito quando i loro bacini si scontrarono. Senza esitazione, Rick infilò la lingua nella bocca di Kate e sentì il suo sapore unico. Le sue mani iniziarono a vagare per il corpo di lei senza meta, provando un certo orgoglio quando la sentì fremere tra le sue braccia. Represse un altro gemito quando lei gli morse leggermente il labbro inferiore, allacciando intanto le braccia al suo collo e tirandolo un poco verso il basso.
Castle l’avrebbe presa lì in cucina, se un lieve tossicchiare non li avesse fatti ritornare bruscamente dal loro personale mondo. Si osservarono per un attimo, stupefatti da quello che era appena accaduto. Quindi Rick si staccò da Kate quasi ne fosse bruciato. Cercò di riprendere a respirare normalmente, ma pareva che il suo corpo non la pensasse allo stesso modo. Il cuore gli pulsava forte più che mai nelle orecchie e, se non si fosse dato una calmata in fretta, anche un’altra parte del suo corpo, più in basso, avrebbe iniziato a pulsare dolorosamente. Alzò gli occhi su Beckett e la vide con il viso completamente rosso mentre anche lei, con la bocca socchiusa, tentava di riprendere una più regolare respirazione. Notò inoltre che era attaccata con forza al banco da lavoro dietro di lei, tanto che aveva le nocche bianche.
“Devo ammetterlo…” commentò Martha all’improvviso, facendo voltare entrambi con un sussulto verso la porta della cucina dove si era fermata. “Con questo bacio stavo quasi per cadere nella vostra recita. Ma la vostra pessima perfomance alla porta e le vostre facce ora, mi dicono chiaramente che mi avete mentito. Allora,” disse poi con un mezzo sorriso e le mani appoggiate sui fianchi. “Chi vuole cominciare a raccontarmi che sta succedendo?”
 
Dopo essere stati beccati così platealmente (e in un tempo così breve da risultare imbarazzante), Castle e Beckett si decisero a dire la verità. All’inizio un po’ titubanti e poi più sicuri, i due, dopo una reale presentazione tra Kate e Martha, passarono la cena a raccontare all’attrice come si erano conosciuti e come erano finiti in quella situazione.
Kate aveva avuto ragione: Rick non poteva mentire a sua madre. Lo conosceva troppo bene. Per sua fortuna non ebbe bisogno di spiegare niente su Johanna perché se ne occupò Beckett. Se avesse dovuto farlo lui, non sarebbe riuscita a guardarla negli occhi e dirle che ancora la stava cercando. Avrebbe capito subito che stava mentendo.
“Però…” mormorò Martha stupita, quando ebbero finito di raccontare. “Ragazzo, sapevo che nascondevi qualcosa, ma non avrei mai immaginato nulla del genere…” disse poi rivolta al figlio. Lui e Kate erano seduti sul divano del salone, mentre Martha si era accomodata sulla poltrona accanto a loro.
“Mi spiace aver cercato di non dirti nulla.” si scusò Rick. “Non volevo che tu finissi nei guai a causa dei nostri problemi…”
“Non dire sciocchezze, Richard!” lo bloccò la madre con un gesto secco della mano. “So quello che fai realmente e non me lo hai mai tenuto segreto. Perché ora avrebbe dovuto essere diverso?” Perché ora riguarda Kate... avrebbe voluto rispondere Castle, ma lo pensò solamente. Si limitò ad alzare le spalle, come se non sapesse cosa lo avesse spinto a mentire in quel modo.
“Prendo qualcosa da bere?” chiese poi per cambiare argomento e scappare dallo sguardo sospettoso della madre. Appena le due donne annuirono, Rick si alzò. “Uhm, Kate, ti va bene un po’ di vino rosso o preferisci qualcos’altro?” chiese. Sapeva che sua madre adorava il vino rosso e quello infatti stava andando a stappare. Però non sapeva se sarebbe piaciuto anche a lei.
“No, va benissimo.” gli rispose con un sorriso. Lui annuì e si diresse in cucina.
 
“Kate, posso farti una domanda?” domandò all’improvviso Martha appena Rick fu sparito in cucina. Beckett si agitò alquanto. Insomma conoscere la madre del proprio… proprio cosa? Amico? ‘Fidanzato’? Beh, qualunque cosa fosse, non era avvenuta in circostante normali e la cosa la stava mettendo a disagio. Ma rispondere a delle sue domande in assenza di Rick sarebbe stato anche peggio. “Quel pezzo di legno è tuo?” continuò poi l’attrice, indicando la mensola sulla parete davanti a lei. Kate respirò sollevata. A quello poteva rispondere.
“Sì.” replicò con un piccolo sorriso. “Stamattina Castle mi ha insegnato a sparare e…” Fu a quel punto che si accorse della curiosità della domanda. Aggrottò le sopracciglia perplessa. Come aveva fatto Martha a capire che era suo? “…e ho centrato in pieno quel pezzo di legno.” continuò lentamente, guardandola stupita. “Ma lei come…”
“Cara, sono vecchia,” la interruppe la donna con un sorriso. “Ma anche se per il momento non sei la mia futura nuora, dammi del tu per favore.” Kate tralasciò il fatto che avesse detto ‘per il momento’ e si limitò ad annuire.
“Ok allora, Martha.” rispose un po’ in ansia. “Tu come facevi a saperlo?” La signora Castle fece un sorriso strano, un misto di comprensione e divertimento.
“Come faceva a sapere cosa?” chiese Rick, entrando in quel momento con in mano un vassoio con tre calici di vino pieni del liquido rosso scuro. Lo poggiò sul tavolino davanti a loro e porse i bicchieri alle due donne.
“Del ciocco di legno.” rispose Kate, facendogli segno verso il pezzo incriminato sulla mensola. Lui si voltò a guardarlo curioso. “Ha capito subito che era opera mia.” gli spiegò, ancora stupita. Castle, invece di trovarlo strano come lei, fece un mezzo sorriso e si sedette di nuovo sul divano con il suo calice in mano, sorseggiando lentamente un po’ di vino. Pareva all’improvviso malinconico e un po’ a disagio. Beckett aggrottò le sopracciglia. “E’ per via degli altri oggetti sulla mensola, vero?” domandò poi, un po’ curiosa e un po’ imbarazzata. Se Martha aveva capito subito che il legno aveva a che fare con lei solo perché stava su una mensola con pochi altri oggetti, allora voleva dire che quegli oggetti dovevano avere una certa importanza o significato per Castle.
Come sospettava, Rick annuì al pavimento, senza guardarla negli occhi. Stava rigirando nervosamente il bicchiere in mano e aveva lo sguardo perso a qualche ricordo lontano.
“Conosci le storie di quegli oggetti, cara?” le chiese Martha. Prima che potesse rispondere, il colonnello la precedette.
“Mamma, magari non le interessa…” disse con un tono che sembrava insieme seccato e speranzoso, come se quelle parole potessero convincere Kate che quei soprammobili non le interessavano davvero, che erano solo cose di poco valore. Lei però non lo ascoltò. Già prima l’aveva chiesto, ma Rick le aveva detto di non essere dell’umore di raccontare storie. Sua madre però sembrava ben propensa alle chiacchiere, soprattutto se con un bicchiere di vino davanti.
“Mi piacerebbe molto conoscerle.” dichiarò infatti, beccandosi un’occhiataccia di Castle.
“Richard, pensi di esporle tu o devo iniziare io?” chiese poi Martha con tono divertito, ma insieme con un vago accento di minaccia, vedendo il figlio piuttosto restio a cominciare. A quelle parole, Rick fece una smorfia, calò in gola un po’ di vino e si alzò di nuovo in piedi. Kate si chiese cosa dovesse sapere Martha di così scabroso da far saltare su quasi immediatamente il colonnello per paura che rivelasse troppo. “La Torre Eiffel è mia!” dichiarò poi comunque Martha, non riuscendo a trattenersi. Castle la guardò storto, voltandosi a metà strada dalla mensola. “Che c’è? In fondo è un regalo mio e tu mi parevi piuttosto lento a partire.” aggiunse rivolta al figlio che sbuffò.
“Allora,” cominciò Rick irritato, fermandosi vicino alla mensola e indicando la piccola Torre Eiffel in metallo. “Questa è un regalo di mia madre, come lei stessa ti ha confermato.” aggiunse in tono sarcastico. L’attrice fece un mezzo inchino con la testa in risposta. “Era… beh…” continuò poi il colonnello, ora un poco imbarazzato mentre un piccolo sorriso gli si formava in volto. “Era una ‘buca delle lettere’ se vogliamo.” Kate aggrottò le sopracciglia confusa.
“Buca delle lettere?” ripeté, non capendo il senso.
“Posso?” chiese Martha al figlio. Evidentemente, nonostante i battibecchi di prima, quella era la sua storia. L’uomo annuì e lei si girò un po’ più verso Beckett. “Ho avuto Richard che la mia carriera era appena iniziata.” iniziò a raccontare. “Amavo fare teatro, ma amavo anche la mia famiglia. Diverse volte mi erano stati offerti lavori lontano da casa per uno spettacolo che mi avrebbe preso un paio di giorni, massimo tre o quattro. Una volta però, Richard aveva da poco compiuto cinque anni, mi chiesero di partecipare a una tournee in Francia. Più precisamente avrei dovuto recitare per due settimane a Parigi.” Martha si fermò un momento e prese un respiro profondo, lo sguardo puntato nel vino rosso nel suo bicchiere, ma in realtà perso nei ricordi di quei giorni. “Non ero mai stata così tanto a lungo e lontano da mio figlio. Ci pensai per giorni, ma alla fine decisi di accettare. Nicholas, mio marito e padre di Richard…” A quelle parole Castle fece uno sbuffo strano che tentò di nascondere dietro una sorsata di vino dal suo calice. Martha comunque non ci fece caso e continuò il suo racconto. “…Nicholas mi incoraggiò molto ad andare. Sarebbe stato un ottimo salto per la mia carriera, ma quello che mi preoccupava di più era proprio Richard. Era il 1910 e telefonare dall’altra parte dell’Atlantico era ancora una cosa impossibile. Inoltre, se anche gli avessi spedito delle lettere, avrebbero rischiato di arrivare comunque dopo il mio ritorno a casa. Per cui escogitai un piano: invece di scrivergli le lettere e spedirgliele, le scrissi e le infilai all’interno di quella piccola Torre Eiffel che comprai appena sbarcata a Parigi.” disse indicando l’oggetto. Kate notò che Martha aveva gli occhi lievemente lucidi e un piccolo sorriso in volto. “Ogni giorno scrivevo una lettera e la mettevo lì, al sicuro. Quando tornai a casa, gli consegnai la Torre Eiffel con le mie lettere dentro. Non avrei mai pensato che quella piccola statuina sarebbe arrivata fino a oggi…” aggiunse poi, come in un secondo pensiero.
“Non avrebbe potuto fare altrimenti.” commentò Rick con un mezzo sorriso, scuotendo appena la testa. “Questa ‘piccola statuina’, come la chiami tu, aveva tenuto al sicuro le lettere che mi avevi scritto e insieme la mia speranza. All’epoca avevo cinque anni,” spiegò poi rivolto a Kate. “Non sapevo cosa fosse una tournee e avevo paura che mia madre mi avesse lasciato.” continuò, alzando appena le spalle come se avesse ben capito quanto fosse stato un pensiero da bambino. “Quando però lei tornò e io vidi che ogni giorno mi aveva pensato e scritto una lettera nonostante il lavoro… beh, diciamo che capii che non me la sarei tolta di torno per un bel pezzo!” concluse ridacchiando. Martha fece un gesto scocciato con la mano libera, ma Kate notò il sorrisetto sulle sue labbra. Era proprio strano il loro rapporto. Sembrava non potessero fare a meno di alzare gli occhi al cielo uno in presenza dell’altra, ma, allo stesso tempo, Beckett era certa che il loro fosse un tipo di legame che difficilmente si sarebbe potuto spezzare.
“Tua madre è mai stata molto tempo lontana da te, Kate?” chiese poi Martha curiosa. Rick si mosse a disagio sul posto, ma Beckett pensò solo che il fatto che non avesse ancora trovato Johanna lo rendesse nervoso.
“In realtà, no.” rispose piano, pensandoci su. “Lavorava fuori casa, ma la sera era sempre con me e mio padre. Venire qui è stata la sua grande opportunità per aprire gli occhi al mondo sul nazismo e per fare il grande salto di carriera. Non sapeva quanto sarebbe rimasta, ma scriveva spesso lettere e quando poteva chiamava a casa per dire che stava bene…” Kate fece un sospiro triste. “Per questo quando non l’ho più sentita sono venuta qui. Avevo paura le fosse successo qualcosa.”
“Beh, se Richard ha detto che la troverà, sono sicura che lo farà.” disse Martha con un sorriso caldo e rassicurante. Beckett annuì, ricambiando con un piccolo sorriso.
“Lo penso anche io.” mormorò fiduciosa, voltandosi a guardare Castle. Lui però non la stava guardando. Alzò per un momento gli occhi e le fece un mezzo sorriso tirato, ma poi tornò a osservare il vino scuro nel suo bicchiere. Kate aggrottò per un momento le sopracciglia. C’era qualcosa di strano in lui. Sembrava… assorto, pensieroso. Spento, avrebbe detto. Non ebbe però il tempo di scoprire cosa non andasse perché Martha interruppe i suoi pensieri.
“Andiamo avanti con la medaglia?” chiese, prendendo un sorso dal suo bicchiere. Rick annuì e si voltò di nuovo verso la mensola, indicando a Beckett la medaglia dorata a cinque punte con sopra un’aquila e la scritta VALOR.
“Questa era di mio padre.” cominciò il colonnello atono. “E’ una Medaglia d’Onore conferita dal Congresso americano per l’esercito. Viene concessa per ‘atto di coraggio e ardimento a rischio della propria vita sopra e al di là del richiamo al dovere mentre impegnato in uno scontro con un nemico degli Stati Uniti’.” citò a memoria Castle. C’era una nota di orgoglio nelle sue parole, la prima che Kate gli avesse mai sentito usare in rapporto a suo padre. “Non so per cosa la conquistò, ma, almeno all’epoca, qualcosa di buono doveva aver fatto…” continuò però poi in tono sarcastico.
“Richard!” lo richiamò la madre stupita. “Tuo padre era un eroe americano! Uno dei pochi ancora vivi a ricevere quella medaglia e…”
“E guarda dove ci ha portato!” la interruppe rabbioso e ironico, indicando con un ampio cenno della mano la casa intorno a sé. “In un paese che fremeva per giocare alla guerra!” continuò iroso, all’improvviso incapace di controllarsi. Kate indietreggiò un poco sul divano, a disagio e un po’ intimorita per quell’improvvisa esplosione. Non lo aveva mai visto così fuori di sé. “Un paese dove nessuno è al sicuro e tutti hanno inculcata la stessa cazzo di ideologia! Un paese dove si bruciano i libri e dove credere in qualcosa di diverso ti porta alla morte! Un paese dove perseguitano anche i bambini, mamma! Che razza di paese è quello in cui ci ha portati??” Castle sbatté sul tavolino davanti a loro il suo bicchiere, che miracolosamente non si ruppe, quindi si voltò e se ne andò a passo di marcia verso la sua camera, sbattendo poi violentemente la porta dietro di sé.
Le due donne rimasero per qualche momento in silenzio, troppo sconcertate per parlare. Dalla faccia di Martha, Beckett capì che un po’ se l’era aspettato quell’improvviso scoppio, ma per lei era una cosa completamente nuova. Anche nei momenti peggiori aveva visto Castle reagire sempre lucidamente. Si arrabbiava certo, ma mai fino a trasformarsi in quel modo. Perfino con Dreixk si era controllato, anche se a stento.
“Mi dispiace…” mormorò a un certo punto Martha con tono stanco, poggiando il suo stesso bicchiere, delicatamente, sul tavolino. Kate la guardò confusa. “Non avrei dovuto fargli raccontare niente su suo padre.” spiegò con tono addolorato, lo sguardo basso. “Nonostante sia passato tanto tempo, lui è ancora ferito dentro…”
“Cosa è successo con suo padre?” si azzardò a chiedere Beckett piano, unendo il suo bicchiere agli altri due sul tavolino. Martha le fece un sorriso triste.
“Lo ha abbandonato.” rispose semplicemente. “O almeno, Richard lo accusa di questo.” Kate aggrottò le sopracciglia.
“Io… io pensavo fosse morto.” disse perplessa.
“Lo è, infatti.” replicò la signora Castle con un sospiro stanco. “Da più di otto anni ormai.” Beckett rimase in silenzio ad attendere che Martha continuasse. “Ci siamo trasferiti qui nel 1933, poco dopo la presa al potere di Hitler.” iniziò a raccontare dopo qualche momento. “Nicholas è quello che volle il spostarsi. Io avevo la mia carriera in America e Richard allo stesso modo aveva iniziato a farsi strada nell’esercito, come suo padre. Quando mio marito però ci disse che voleva andare in Germania per seguire l’ideologia di Hitler… beh… ammetto che ci siamo sentiti entrambi un po’ traditi da lui, ma allo stesso modo entrambi decidemmo di seguirlo. Io avevo studiato un po’ di tedesco e avevo già fatto un viaggio a Berlino. Avevo qualche conoscenza qui e avrei potuto anche continuare a recitare. Sarebbe stato un drastico cambiamento, ma mi sarei potuta adattare. Richard invece la prese peggio. Aveva 28 anni, poteva decidere quello che voleva, ma non aveva molti amici in America, perciò decise di seguirci, nonostante non conoscesse una parola di tedesco. Imparò in fretta, bisogna dargliene atto, e combatté duramente per fare carriera nell’esercito per via delle sue origini americane. Suo padre al contrario salì la scala gerarchica molto rapidamente perché si era iscritto al partito. Richard non volle farlo. Litigò più volte con Nicholas, dicendogli che aveva fatto il più grosso sbaglio della sua vita, trascinando dentro quella macchina impazzita anche me.” Martha si fermò per un momento, come soffocata da quei ricordi, la voce leggermente incerta. Poi prese un respiro profondo. “Quando Nicholas morì in un’imboscata degli anti-nazisti, Richard ne rimase distrutto.” continuò con dolore nella voce. “Odiava le scelte che il padre aveva fatto, odiava l’ideologia a cui si era alleato, odiava il fatto che avesse tradito quegli stessi valori che aveva contribuito a proteggere durante la Grande Guerra. Aveva iniziato ad odiare tutto di lui. Ma allo stesso tempo lo aveva amato come un figlio può amare un padre. Credo che Richard, per questa sua ‘debolezza’, si sia anche odiato da solo per un certo periodo perché voleva dimenticarlo e non provare dolore, ma non poteva.”
“Se lo faceva stare così male,” chiese Kate titubante. “Allora perché ha tenuto la sua medaglia?” Martha le fece un piccolo sorriso triste.
“Come avrai notato, Richard ha pochi oggetti sparsi per la casa.” replicò la donna. Kate annuì. “Di questi, quella medaglia è l’unico ricordo che si è permesso di tenere su suo padre. E, come ora sai, appartiene al periodo precedente la nostra venuta in Germania. Appartiene al tempo in cui Richard lo credeva ancora davvero suo padre. Non tanto l’americano, quanto l’uomo che ha contribuito a salvare vite e si è guadagnato il diritto di ricevere quella medaglia. Il convertirsi al nazismo di Nicholas è stato come un colpo dritto al petto per mio figlio. Si è sentito talmente tradito da lui da non averlo perdonato neanche a più otto anni dalla sua morte poiché era passato a quell’ideologia che sconvolgeva tutti i valori in cui lui gli aveva insegnato a credere e in cui aveva creduto fino a quel momento.”
“Mi dispiace.” mormorò Beckett dopo qualche momento. “Se avessi saputo non avrei mai chiesto…”
“Ma non potevi sapere.” la rassicurò Martha con un piccolo sorriso dolce. I suoi occhi azzurri, più chiari di quelli di Rick, erano leggermente lucidi. “E, arrivati a questo punto, direi che avevi il diritto di sapere.” Kate non seppe cosa rispondere a quell’affermazione. Si mosse un po’ a disagio sul divano, quindi indicò la mensola.
“E la targa?” domandò per curiosità, ma anche per cambiare argomento. “Ho notato che è una specie di gratifica per aver salvato una famiglia… è anche quella di suo padre?”
“No, quella è mia.” rispose una voce poco più in là. Martha e Kate si girarono di scatto. Non avevano sentito Castle tornare dalla sua camera. Rick stava appoggiato al muro all’angolo dell’inizio del corridoio ad osservarle. Sembrava più tranquillo rispetto a quando era scappato dal salone. La sua postura e il suo viso erano più rilassati, anche se Beckett poteva scorgere ancora un po’ di tristezza e di amarezza nel suo sguardo. Però almeno c’era un piccolo sorriso sincero sul suo volto. “E’ della prima famiglia che sono riuscito a portare in salvo fuori dalla Germania insieme a Ryan.” continuò, avvicinandosi di nuovo alle due donne e fermandosi in piedi vicino alla targa. Era sottile e dorata con una incisione in tedesco in caratteri corsivi che diceva ‘Targa al valor civile e morale. Grazie. Che Dio sia sempre con voi. Fam. Lorenz.’ “Ovviamente Lorenz non è il loro vero nome.” continuò Rick. “Erano una famiglia di ebrei orefici, padre, madre e due figli. Li abbiamo fatti uscire dalla Germania con passaporti falsi dopo averli nascosti per qualche giorno, imbarcandoli poi su una nave per l’Inghilterra. Tre settimane dopo averli fatti scappare, io e Ryan ricevemmo due targhe identiche grazie a un passaggio ‘da amico ad amico’ dalla cittadina inglese dove si erano rifugiati. Era un modo simpatico e originale per ringraziarci di averli aiutati.” concluse Castle con un mezzo sorriso per i ricordi lontani. Quando il colonnello si girò di nuovo verso le due donne, si passò una mano sul collo, imbarazzato. “Mi spiace per la scenata di prima… Avrei potuto evitarla.” disse incerto. Kate subito scosse il capo.
“Avevi solo bisogno di sfogarti e rimanere un po’ da solo.” dichiarò semplicemente con un sorriso rassicurante. Rick annuì grato.
“Beh, ora sai la storia di questi oggetti.” disse alla fine Castle, indicando la mensola. Kate annuì.
“Sì.” rispose piano. “Anche se a questo punto mi chiedo perché il mio pezzo legno è lassù visto che quegli oggetti sono così importanti per te…” Rick fece un sorrisetto.
“Questa decisamente è una storia per un altro giorno!” esclamò. Beckett lo vide imbarazzato, ma molto più allegro di prima. “Sapete che è l’una passata? Mi sembra sia il caso di andare a dormire.”
“Martha, tu resti, vero?” chiese Kate preoccupata. “Non vorrai uscire a quest’ora!” La signora Castle alzò appena le spalle.
“Se c’è la camera degli ospiti libera, la prendo volentieri.” rispose. A quelle parole, Kate e Rick si scambiarono un’occhiata. Lei arrossì e si morse il labbro inferiore. Avrebbe dovuto dormire di nuovo con Castle. Ma dopo tutto quello che era successo… No, comunque non avrebbe potuto lasciare fuori Martha o farla dormire sul divano. In fondo una notte in più nel letto di Rick che differenza avrebbe fatto? Avevano già dormito insieme. Anche se non si erano ancora baciati…
Beckett sospirò rassegnata. Sarebbe stata un’impresa non sfiorarlo né avvicinarsi a lui nel sonno, ma ce l’avrebbe fatta. Anche a costo di legarsi da una parte del letto. O legare lui. O forse era meglio una barriera in mezzo.
Quando alzò di nuovo lo sguardo su Rick, lo vide ghignare. Aveva l’aria di uno che si stava divertendo un mondo, osservandola cercare di venire fuori dalle sue pare mentali.
“Sì, è libera.” sbottò alla fine Beckett, ancora rossa in volto.
“Beh, in fondo siamo fidanzati…” commentò Rick ridacchiando. Tutta la rabbia e il dolore di prima sembravano essere solo un ricordo lontano.
“Taci, Castle.” lo bloccò lei, sbuffando. Lui alzò le mani in segno di resa mentre Kate gli passava accanto lanciandogli un’occhiataccia.
“Richard, posso parlarti un momento?” lo fermò Martha prima che scomparisse insieme a Beckett in camera.
“Certo.” rispose Rick. Poi tornò a rivolgersi a Kate. “A quanto pare puoi usare il bagno per prima, tesoro…” disse ironico. La donna lo fulminò con lo sguardo, quindi diede la buonanotte a Martha e andò a infilarsi in camera di Castle. Una volta entrata chiuse la porta dietro di sé e ci si appoggiò per un momento contro con la schiena. Solo una parte del suo cervello registrò i cuscini sgualciti in giro per la stanza, come se qualcuno li avesse tirati contro le pareti. Prese un respiro profondo. Poteva farcela. Si trattava solo di una notte, poi Martha sarebbe andata via e lei avrebbe potuto riprendere la sua stanza al piano di sopra. Sarebbe riuscita a non saltare addosso a Rick nel corso della notte. Anche se l’idea di un nuovo bacio come quello di qualche ora prima… Scosse la testa con forza. No, doveva trattenersi. Doveva farcela. Almeno per quella notte.
 
“Allora, mamma, che volevi dirmi?” chiese Rick, ancora con un sorriso divertito in volto, non appena sentì la porta della sua camera chiudersi.
“Cosa le stai nascondendo?” domandò in risposta Martha con uno sguardo sospettoso. Castle la guardo sorpreso e lievemente a disagio, il sorriso che pian piano spariva.
“Niente.” replicò atono, voltandole le spalle e andando a sedersi sul divano.
“Non prendermi in giro, Richard.” lo riprese la donna seria, seguendolo sul divano e accomodandosi accanto a lui. “Quando Kate ha parlato di Johanna hai fatto una faccia strana e in più non hai detto niente. A quanto ho capito, tu la stai cercando e allora perché non hai parlato quando quella povera ragazza ha detto che non c’erano notizie?”
“Non ho parlato perché, appunto, non c’era niente di nuovo.” rispose Rick, irrequieto, con lo stesso tono di uno che cerca di spiegare un concetto semplice ma non viene capito. I suoi occhi però lo tradirono, non riuscendo a guardare quelli della madre. Inoltre strinse le mani a pugno in un tic nervoso involontario. “E mi ero affogato con il vino.” mentì poi spudoratamente per spiegare la sua ‘faccia strana’ di prima.
“Non raccontarmi balle, Richard Castle!” lo rimproverò Martha con tono basso, così che Beckett non sentisse nulla. “Te lo chiedo di nuovo, cosa stai nascondendo a Kate?” Rick rimase immobile per un momento, lo sguardo basso, la mascella contratta e i pugni stretti. Poi chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. In un secondo si sentì stanco e in qualche modo invecchiato. Rilasciò i pugni e rilassò i muscoli, appoggiandosi poi contro lo schienale del divano.
“Sua madre è morta.” mormorò atono, riaprendo gli occhi al soffitto, non riuscendo a guardare in faccia Martha. Sentì un respiro trattenuto dell’attrice accanto a lui. “Prima che io e Beckett ci incontrassimo.” precisò senza pensarci.
“Richard, perché non glielo hai detto?” sussurrò in risposta la madre, scioccata dalla notizia. Lui alzò appena le spalle, come se non lo sapesse.
“Non volevo… non volevo farla soffrire.” replicò dopo qualche secondo, il tono tanto incerto da sembrare quasi una domanda.
“Perché no?” domandò Martha dolcemente. Fu a quel punto che Rick si voltò a guardarla confuso. “E’ il tuo lavoro dire alle persone della morte dei loro cari.” continuò lei piano. “Li fai soffrire all’inizio magari, ma poi con il tempo il dolore si placa, anche se non scompare mai del tutto. In ogni caso, come dicevo, è il tuo lavoro. Quindi perché non glielo hai detto subito?” Ci fu qualche attimo di silenzio, rotto solo da un sospiro di Castle.
“Come potevo dirle di aver ucciso sua madre?” sussurrò alla fine il colonnello, passandosi una mano tra i capelli.
“Ucciso sua…” ripeté confusa e stupita Martha. “Richard che stai dicendo??” Rick sospirò di nuovo. Le aveva raccontato del giorno in cui la madre di Kate era morta, solo che all’epoca né lui né lei sapevano che fosse Johanna Beckett.
“Ti ricordi della donna di cui ti avevo parlato più di un mese fa?” spiegò. “Quella nell’appartamento vuoto con il soldato che stava per violentarla…”
“Quello che hai tentato di fermare?” chiese per conferma l’attrice. “Sì, mi ricordo. Allora quella donna era la madre di…”
“Di Kate.” finì per lei Castle. “Sì, era la madre di Kate. Quando mi ha mostrato la sua foto, non sono riuscito a dirle cosa era successo…” aggiunse, passandosi stancamente una mano sugli occhi. “Lei era lì, che mi chiedeva notizie sulla madre, mi supplicava di cercarla e io… io non sono riuscito a dirle la verità.”
“E per tutto questo tempo glielo hai tenuto nascosto?” chiese ancora la madre. Castle annuì lentamente.
“Sono successe molte cose.” tentò di spiegarsi, cercando di essere convincente anche alle sue orecchie. “Non ho più avuto modo di dirglielo…”
“Sicuro che sia solo quello?” domandò poi Martha, guardandolo con uno sguardo strano. Rick aggrottò le sopracciglia.
“Che intendi dire?”
“Intendo dire che un conto è nascondere un fatto per non far soffrire una persona,” rispose lei. “Un altro è prima aiutare quella persona a celarsi al mondo, poi accoglierla in casa e infine arrivare anche a creare un finto fidanzamento per proteggerla.” Il colonnello deglutì. Sua madre aveva la straordinaria capacità di centrare il punto ogni volta.
“Forse non è più solo per proteggerla…” mormorò con gli occhi bassi. Martha annuì leggermente.
“Allora forse è il caso che tu ti decida a dirle la verità, Richard.” gli disse dolcemente, posando una mano sul suo ginocchio e stringendo leggermente. Rick la sentì calda e confortante, come quando era bambino e aveva bisogno di rassicurazioni. “Se vuoi che resti con te, deve essere libera di decidere da sola se vuole farlo.” A quelle parole, Rick si voltò a guardare la madre, turbato, le sopracciglia aggottate. Martha gli regalò un piccolo sorriso, quindi si alzò e gli lasciò un bacio sulla fronte. “Vai a dormire ora.” disse poi senza tono di scerno, ma con un lieve sorriso. “Kate si starà chiedendo dove sei finito.” Quindi la madre si voltò e si avviò alle scale, lasciandolo lì, ancora immobile, solo con i suoi pensieri.
 
Quella notte Castle e Beckett riposarono nello stesso letto, ma separati come mai fino a quel momento. Non ci furono avvicinamenti, ognuno rimase nella propria parte di materasso, voltati dal lato della parete. Rick sentiva Kate respirare piano dietro di lui, cullandolo dolcemente verso una specie di dormiveglia continuamente spezzato da incubi in cui lei si allontanava senza che potesse raggiungerla. Le parole della madre continuavano a vorticargli in testa insieme a quelle di Ryan, Jenny, Esposito, Lanie e Gates. Tutti gli dicevano di non aspettare ancora a dire la verità. Quello che faceva più male però, tra le loro parole, era il ricordo del tono speranzoso nella voce di Kate. Era una morsa al petto che non riusciva ad allentare.
Quando i primi raggi di luce passarono attraverso la tenda della finestra, Rick si ritrovò sveglio e stanco, senza alcuna possibilità di poter fare qualche ora di sonno decente. Nervoso per la notte semi-insonne, si alzò e andò in bagno a sciacquarsi la faccia. Sollevando gli occhi sullo specchio, vide una versione di sé stesso più pallida del solito e con delle occhiaie più marcate. Non poteva continuare in quel modo. Quel segreto lo stava lentamente divorando dentro come mai avrebbe pensato. Non tanto per il segreto in sé, quanto per il fatto che dovesse nasconderlo a Kate. Non era ancora pronto a lasciarla andare. Con lei stava bene. Allo stesso modo però, più stava con lei più si accorgeva di stare male perché lo stava facendo sotto inganno.
Rick si passò una mano tra i capelli irrimediabilmente scompigliati con un lieve sospiro. Doveva trovare il coraggio di dirglielo. Sua madre aveva ragione. Non poteva obbligarla, seppure inconsapevolmente, a restare ancora con lui. Solo quando le avesse detto di Johanna, Kate sarebbe stata in grado di decidere per la sua vita.
Con questa nuova consapevolezza, Castle uscì dal bagno e tornò in camera. Facendo il più piano possibile, tornò a stendersi sul letto e si tirò su le coperte, rimanendo sdraiato sulla schiena con lo sguardo al soffitto. Pensava di essere stato abbastanza silenzioso, ma evidentemente non abbastanza per Kate. La sentì muoversi e la osservò girarsi su sé stessa fino a trovarsi sul fianco rivolto verso di lui.
“Dov’eri?” mugugnò assonnata, gli occhi chiusi. Il colonnello sorrise leggermente. A quanto pareva non sarebbe mai stato abbastanza silenzioso per i sensi di Kate.
“In bagno.” sussurrò in risposta. “Sono andato a sciacquarmi la faccia.”
“Non riesci a dormire?” continuò Beckett con lo stesso tono. Sembrava una bambina. Un’adorabile e bellissima bambina.
“Non tanto.” rispose sinceramente. Fu a quel punto che Beckett aprì un occhio.
“Troppi pensieri?” borbottò con un piccolo sorriso. “Guarda che potrebbero iniziare a fumarti le orecchie…” Castle ridacchiò e scosse la testa.
“Pochi pensieri, ma troppo rumorosi per farmi dormire.” replicò con un tono a metà tra il serio e il divertito. Ci fu un momento di silenzio.
“Vuoi parlarne?” chiese infine Kate, sbattendo le palpebre per tentare si svegliarsi un poco. Rick le sorrise dolcemente. Quella donna stava crollando dal sonno eppure, se avesse voluto davvero parlare, si sarebbe svegliata solo per lui. Nonostante l’imbarazzo della sera prima e tutti i problemi che avevano in quel momento.
Il colonnello si sporse verso di lei, girandosi a metà sul fianco, allungò una mano e delicatamente le spostò una ciocca di capelli da davanti il viso, carezzandole insieme leggermente la guancia.
“Non ora.” rispose dolcemente. Non era quello il momento. “Torna a dormire, cecchino.” aggiunse poi divertito. Kate fece una mezza smorfia, ma aveva già di nuovo gli occhi chiusi.
“Sicuro?” mugugnò dopo qualche secondo nel dormiveglia.
“Dormi!” le ordinò scherzoso Castle. Lei tirò fuori un poco la lingua, in quello che probabilmente avrebbe voluto essere una linguaccia, e in pochi minuti si riaddormentò. Il colonnello la osservò a lungo, immobile. Doveva dirglielo.
 
“Ehi, Castle, guarda che ho trovato!” esclamò Kate con tono strano, a metà tra il divertito e lo stupito, uscendo a grandi passi dalla piccola biblioteca per andare incontro a Rick, fermo a fare colazione in cucina. Erano le undici passate, ma si era preso la mattinata libera. Dopo la breve conversazione con Beckett a letto, si era alzato per chiamare la centrale e dire che si sarebbe preso un giorno di permesso. Ne aveva molti in arretrato, dopo anni passati ad accumularli perché non aveva motivo di servirsene, quindi, se non ci fossero stati attacchi, avrebbe potuto tranquillamente stare a casa tutto il giorno. Dopo aver fatto la chiamata era tornato a letto, si era sdraiato a osservare Kate e in pochi minuti alla fine si era addormentato. Quando poi lei si era svegliata, lo aveva lasciato dormire e aveva preparato la colazione per loro e per Martha. La madre di Rick poi se ne era uscita per andare a delle prove a teatro, senza che lui si fosse alzato. Quando Castle si era poi finalmente svegliato, si era ritrovato il letto freddo e uno strano silenzio per casa. Solo alzandosi aveva scoperto Kate acciambellata su una delle poltrone della piccola biblioteca con in mano un libro appena iniziato.
“Trovato cosa?” chiese curioso Rick, sorseggiando il suo caffè e ascoltando le notizie alla radio. Beckett lo raggiunse e gli mise davanti un libro rilegato. Quando lesse il titolo, il colonnello quasi si strozzò con il caffè.
“Dove lo hai preso??” esclamò tra un colpo di tosse e un altro, rosso in volto.
“In biblioteca dove lo avevi lasciato.” rispose Kate, un po’ allarmata dal suo soffocamento. “Dove altrimenti?” Rick diede un’altra occhiata al libro mentre finalmente riprendeva a respirare regolarmente. Il titolo sulla copertina era ‘La spia americana’. Rick pensava di averlo messo al sicuro in quel piccolo santuario dei libri che visitava solo lui, ma era da talmente tanto tempo che l’aveva lasciato lì ad ammuffire che si era completamente dimenticato di toglierlo con Kate.
Castle sospirò leggermente e aprì la prima pagina. Conosceva la storia del libro ovviamente. Un soldato americano che si ritrova in Germania per spiare i nemici durante la Grande Guerra e usava un sacco di gadget assurdi per comunicare con l’America. La storia comunque era lasciata a metà. Iniziata e mai continuata. Perché quella storia era sua. Aveva cominciato a scriverla lui qualche anno prima. E la scrittura ordinata che lo accoglieva già dalla prima pagina ne era la prova.
“Lo hai scritto tu, vero??” chiese alla fine Kate, non riuscendo a contenere l’eccitazione. Rick alzò gli occhi su di lei.
“Se anche fosse?” domandò in risposta, cercando di impedire alle sue guance di arrossire. Insomma, alla fine era solo un libro. Nulla di cui vergognarsi, no? “Ma perché lo hai preso? Non hai notato il fatto che fosse scritto a mano? E se fosse stato un diario personale?”
“Perché non lo continui?” lo fermò la donna curiosa, cambiando argomento. “Era bello… Mi stava prendendo, ma mi hai lasciato a metà!” Rick sgranò gli occhi.
“Sul serio?” chiese quasi timoroso. Beckett annuì subito con un sorriso.
“Sul serio!” rispose. “Davvero perché non lo continui?” Castle rimase per un momento immobile, quindi alzò appena le spalle.
“Non ho tempo…” borbottò, riprendendo la sua tazza e sorseggiando un altro po’ di caffè. “Se non facessi niente tutto il giorno forse, ma con l’esercito non ci sono molte possibilità di nullafacenza. Di tanto in tanto continuo, se ho tempo e voglia.”
“Oh.” replicò Kate un po’ abbattuta. “Speravo di sapere come andava a finire.” Rick la osservò per un momento da sopra la tazza. Sembrava dire sul serio.
“Non appena lo completerò, giuro che sarai la prima a cui lo farò leggere.” dichiarò poggiando la tazza e facendole un mezzo sorriso. Lei in risposta gli fece un sorriso enorme, di quelli che abbagliano il mondo, e gli occhi le divennero appena lucidi.
“Davvero??” Rick ridacchiò.
“Davvero.” Beh, se voleva sapere come ci si sentiva ad avere dei fan, eccolo servito.
“Oh, ehi, senti,” disse poi Kate, schioccando le dita, come se l’avesse colpita in quel momento un altro pensiero. “L’altro giorno mi sono messa a curiosare nel solaio… mi avevi detto che potevo, giusto?” aggiunse poi subito preoccupata. Lui annuì, anche se ancora non capiva cosa ci fosse di così interessante nel solaio. “Ecco, sono stata nel solaio e dopo ieri sera mi è venuta in mente una cosa che avevo visto. C’era tipo un baule con dentro diverse cose e quello che sembrava un diar…”
In quel momento suonò il telefono. Castle si scusò e si alzò. Quindi spense la radio, ingoiando intanto l’ultimo boccone di pane con il miele, e andò a rispondere.
“Pronto?”
“Castle? Sono Ryan.” gli rispose la voce dell’amico. Sembrava leggermente preoccupato.
“Ehi, Kev, tutto ok?”
“Io?” domandò quello. “Guarda che sei tu che ti sei preso un giorno di permesso oggi!”
“Sì, scusa, è che ieri sera è venuta mia madre e abbiamo fatto tardi perdendoci in chiacchiere con Kate.” rispose, ripensando alla sera prima. “Avevo solo bisogno di una buona dormita.”
“Capito.” rispose Kevin più tranquillo. “Ok, non ti disturbo oltre con la tua fidanzata…” aggiunse ghignando.
“Ryan…” lo richiamò con un tono di voce che gli diceva di prestare attenzione alle parole.
“Sì, sì.” commentò il maggiore divertito. “In ogni caso,” continuò poi tornando più serio. “Ho ricevuto la chiamata che aspettavamo.” disse criptico. “I voli per l’estero sono ripresi, quindi tra qualche giorno mi toccherà salutare la mia famiglia. Tornano a casa.” Rick drizzò le orecchie e si concesse un sorriso sollevato.
“Ottimo.” dichiarò più allegro. “Salutami tutti. Ci vediamo domani in centrale.”
“Va bene.” replicò Ryan. “Ma guarda che Jenny non vede l’ora di riavere Kate a cena!” aggiunse divertito. “Buona giornata, Colonnello!”
“Altrettanto, Maggiore.” rispose Castle, scuotendo la testa e riagganciando.
“Problemi?” domandò Kate a quel punto, avendo sentito chi era al telefono.
“No, anzi!” replicò Rick mentre un sorriso gli si allargava in volto. “Ryan è riuscito a sentire il nostro contatto in aeroporto. Tra qualche giorno potremo finalmente trasferire gli Esposito fuori da questo inferno.” Quello infatti era il messaggio che aveva sottilmente fatto capire Ryan a Castle. Non parlavano mai apertamente di quelle questioni se non di persona, poiché si diceva che anche i centralinisti fossero usati per spiare le conversazioni telefoniche.
“Ma è fantastico!” esclamò Kate felice, buttandogli, senza pensarci, le braccia al collo, abbracciandolo. Rick la prese al volo e la strinse automaticamente, facendole fare anche un mezzo giro in aria mentre entrambi ridevano come ragazzini. Il piccolo Leandro e la sua famiglia presto sarebbero stati in salvo. Sì, forse non li avrebbero più visti, ma quel che più contava era che sarebbero stati finalmente bene e all’aperto. Al sicuro.
Quando Castle la rimise a terra, stavano ancora ridacchiando. Solo a quel punto si accorse di quanto fossero vicini. Sentiva il respiro di lei sul mento, il suo profumo forte nelle narici, il calore del suo corpo ancora contro il proprio, visto che le sue mani avevano automaticamente deciso di ancorarsi ai fianchi di lei per stringerla a sé. Il suo battito cardiaco accelerò improvvisamente, tanto che lo sentì pulsargli con forza nelle orecchie nel silenzio che si era appena creato. Il sorriso cadde dalla faccia di entrambi. Rick deglutì, la bocca semiaperta, mentre Kate lo guardava con gli occhi sgranati, le guance arrossate, le mani leggermente strette ai suoi avambracci. A un certo punto, gli occhi di lei volarono sulle sue labbra per poi tornare su. Quel piccolo gesto non fece altro che far aumentare il calore che Castle già sentiva crescere dentro di sé. Ma non poteva lasciarsi andare. Non poteva. Non ancora. Non… Oh, al diavolo!!
Mandandosi a quel paese da solo, Rick superò gli ultimi centimetri di distanza e premette le sue labbra su quelle di lei. Ci fu un attimo di panico, in cui lui stesso si meravigliò del suo gesto. Poi però prese coraggio e le morse leggermente il labbro inferiore. Fu a quel punto che le labbra di Kate iniziarono a muoversi insieme alle sue. Una scarica di adrenalina passò lungo il corpo del colonnello. Strinse con maggiore forza a sé Beckett e iniziò a baciarla con più foga e più a fondo. Un gemito scappò dalle labbra di Kate e lui ne approfittò per far scivolare la lingua all’interno della sua bocca. Aveva assaggiato quello stesso sapore la sera prima, ma sembrava non potesse più farne a meno.
Scivolarono leggermente all’indietro finché Beckett non finì contro il tavolo con la schiena. Le mani di lei erano tra i suoi capelli e lo costringevano ad abbassarsi, le sue invece erano ovunque potesse raggiungere le sue forme morbide. Quando Kate gli morse appena il labbro inferiore, toccò a lui gemere nel bacio. Entrambi lottavano per il predominio, ma Rick non era tanto intenzionato a lasciarglielo. All’improvviso lasciò la bocca di lei per fiondarsi sul suo collo. Quel morbido e liscio collo su cui aveva fantasticato di appoggiare le labbra più di una volta. Le morse appena sotto l’orecchio e la sentì cedere leggermente tra le sue braccia. Non se l’era aspettato quel tipo di attacco. Un gemito le scappò dalle labbra prima che potesse fermarlo, quando lui la morse piano di nuovo sotto l’orecchio, e fu costretta ad aggrapparsi con forza alle sue spalle. Rick le sorrise sul collo. Aveva trovato un suo punto debole. Le baciò e morse leggermente lungo tutto il suo collo finché non fu soddisfatto, finché in pratica non la sentì rabbrividire tra le sue braccia, quindi tornò sulla sua bocca. Kate non si fece attendere. In un attimo era lei che lo stava divorando. La sentiva aggrappata alla sua camicia e doveva essere sulle punte perché la percepiva protendersi verso di lui.
Continuarono quella estenuante lotta per qualche minuto finché non iniziarono a diminuire il ritmo. Alla fine, Rick le lasciò un piccolo bacio sulle labbra e appoggiò la fronte a quella di lei, mentre entrambi cercavano di riprendere fiato. Il colonnello sorrise dentro di sé, compiaciuto, quando vide le labbra rosso scuro e leggermente gonfie di Kate a causa sua.
“Castle…” mormorò lei a un certo punto, ancora un po’ ansante. “Cosa…?”
“Scusa l’irruenza.” sussurrò Rick, fermandola. “Ma non ce la facevo più a trattenermi…” Beckett sorrise appena e si morse il labbro inferiore per non darlo a vedere. Poi alzò lo sguardo su di lui.
“Ti stavi trattenendo?” chiese in un misto di imbarazzo, malizia, insicurezza ed eccitazione. Un basso verso scappò dalla gola di Castle, che si sporse per afferrarle il labbro inferiore tra i denti, dandole un piccolo morso giocoso, quindi si spostò sul suo orecchio.
“Non hai idea di quanto…” soffiò dentro con voce bassa e leggermente roca, facendola rabbrividire contro di lui. All’improvviso però Kate si irrigidì.
“No, Castle, aspetta...” mormorò, posandogli le mani sul petto e allontanandolo leggermente da sé, quanto bastava per guardarlo negli occhi. I suoi occhi verde-nocciola, leggermente scuritisi per l’eccitazione, stregarono Rick in un attimo, tanto che dovette costringersi a non riprendere a baciarla immediatamente. “Non possiamo.” dichiarò lei riluttante, come se non credesse davvero nelle sue parole. Il colonnello aggrottò le sopracciglia, confuso. “Tu devi cercare mia madre.” continuò Kate piano. Castle all’improvviso ricordò perché si era trattenuto tutto quel tempo. Con un lieve sospiro fece cadere le braccia dal corpo di Beckett e si allontanò di un passo, lo sguardo basso al pavimento. Lei lo osservò confusa. “No, non intendevo…” cercò di dire subito, ansiosa, come se fosse colpa sua l’improvviso allontanamento dell’uomo. “Insomma, sei vicino a trovare mia madre! Non puoi distrarti proprio ora e…”
“Kate, ascoltami.” la fermò, mentre un sentiva un macigno premergli nel petto. Non riuscì ad alzare gli occhi su di lei. Non sarebbe riuscito a dirglielo se l’avesse guardata in quegli splendidi occhi così bisognosi di speranza. “Io… io non posso cercare tua madre.”
“Cosa?” chiese lei confusa e ferita. “Ma… perché?? Perché no??” continuò sempre più agitata. Quando lui non rispose, lei si innervosì. “Spiegati per favore!! Io devo sapere cosa le è successo!! Perché non puoi…??”
“Kate, ti prego.” la interruppe di nuovo lui, gli occhi ancora bassi. Non riuscì a nascondere il dolore nella sua voce. Sia per quello che avrebbe detto, sia per quello che ne sarebbe conseguito. “Io… io non posso cercarla perché so già cosa le è successo.” Il silenzio che seguì quella frase fu terribile.
“Rick…” Il tono con cui disse il suo nome, supplicante, sofferente, con la consapevolezza che si faceva strada in lei, fu più doloroso di un coltello nel petto. “Cosa stai… Rick…” Non riuscì a concludere la frase perché le parole le erano morte in gola. Fu solo a quel punto che Castle riuscì ad alzare lo sguardo su di lei. I suoi occhi, lucidi e prossimi al pianto, terribilmente consapevoli di quello che stava per dirle, insieme increduli e accusatori, lo ferirono più di ogni altra cosa.
“Kate, io…” Rick alzò una mano come per confortarla, ma poi la strinse a pugno a mezz’aria e la riportò al fianco quando lei si spostò di scatto leggermente indietro. Deglutì. “Mi dispiace…” sussurrò poi, la voce quasi bloccata in gola. Avrebbe voluto piangere e urlare come un bambino, scappare, per non doverle dire le ultime parole che aveva strozzate in gola dal primo momento in cui l’aveva vista e che avrebbero cambiato la sua vita per sempre. Ma non poteva. Così prese un respiro profondo e si costrinse a guardarla negli occhi. “Kate, tua… tua madre è morta.”

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Xiao! :D
Beh, che dire, a occhio, per motivi vari ed eventuali, questo era un capitolo che in molte stavate aspettando... X) Spero solo di essere stata all'altezza delle vostre aspettative, anche se immagino che la prossima domanda sarà: come la prenderà ora Kate? Eh, sapiddu! ù.ù XD
Mi scuso per il ritardo di 2 giorni, ma ho ricominciato a studiare e la scrittura purtroppo richiede tempo... anyway, ce l'ho fatta! XD Hopefully in una settimana (o poco più) ci sarà il prossimo capitolo! ;)
Scappo, prima di scrivere i miei soliti poemi! XD Thanks to Katia and Sofia as usual, you know why ù.ù <3<3
A presto! ;D
Lanie
ps: piccola nota storica: non ho idea se ci fossero davvero centralinisti spioni, ma all'epoca i tedeschi credevano che tutti fossero spiati da qualunque cosa, quindi... XD Portatemi pazienza e se vedete errori avvertitemi! ;)

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Capitolo 13
*** L'ora della verità ***


Cap.13 L’ora della verità
 

“Kate, tua… tua madre è morta.”
Il silenzio che seguì quell’affermazione sembrò assordante. L’unica cosa che lo spezzava era il respiro affannoso di Beckett. Lei era immobile. Pareva quasi una statua, non fosse stato per il lieve abbassarsi e alzarsi del suo petto. Era impallidita e aveva gli occhi lucidi. Il suo sguardo era quasi agonizzante.
“Kate…” mormorò Castle piano, dopo qualche minuto, per far cessare quel silenzio terribile. Fu solo in quell’istante che Beckett sembrò riprendersi. Sbatté le palpebre più volte e prese un respiro profondo, chiudendo poi gli occhi. Quando li riaprì, puntò lo sguardo su di lui.
“Da quanto lo sai?” domandò completamente atona. Rick si mosse a disagio sul posto.
“Kate, ascolta…” cercò di dire, ma lei lo interruppe subito.
“Da quanto, Castle?” ripeté a voce più alta e stridula, il respiro di nuovo più affannoso. Il colonnello deglutì. “CASTLE??” gridò Kate in un misto improvviso di rabbia, supplica e dolore, facendolo sussultare. Lui sospirò rassegnato.
“Una settimana prima che ti conoscessi.” rispose alla fine con tono basso. Beckett trattenne il respiro rumorosamente. “Ma all’epoca non sapevo che fosse tua madr…”
“Ma lo hai saputo dopo!!” lo fermò lei con tono d’accusa, la voce un po’ rotta dalle lacrime trattenute. Quando Rick la guardò negli occhi, vide la rabbia contro di lui, contro il suo segreto. E dire che non aveva ancora finito… “Avresti potuto dirmelo quando ci siamo conosciuti!” lo riproverò lei a voce più bassa, ancora incredula e scossa per quella scoperta. “Perché non lo hai fatto allora?” Ecco, ora sarebbe venuto il peggio.
Il colonnello si passò una mano tra i capelli, rassegnato. Non voleva più avere segreti con lei, nonostante quello che sapeva ne sarebbe seguito.
“Perché è morta per colpa mia.” rispose alla fine quasi in un sussurro. Kate rimase immobile, senza dire nulla. Quando la guardò, la vide con la bocca semiaperta, gli occhi lucidi, le sopracciglia aggrottate, in un’espressione di pura incredulità. “Non volevo,” aggiunse qualche momento dopo, vedendo ancora l’assenza di una qualsiasi reazione da parte di Beckett. “Ti giuro che non avrei mai voluto, ma… è accaduto per colpa mia. E mi dispiace di non averti detto niente, ma…”
“Basta.” lo bloccò Kate all’improvviso. Aveva parlato con voce quasi normale, stabile. Se non fosse stato per il tono completamente ghiacciato con cui l’aveva pronunciato. Per Rick fu un colpo al petto, affondato con un coltello che continuava a girargli nella ferita. Avrebbe potuto forse interagire con la rabbia di Kate. Ma quel gelo… come avrebbe potuto combattere contro quell’improvviso e gelido odio? “Non voglio più sentirti. Non voglio più sentire niente da te.” continuò lei con lo stesso tono, facendo vacillare il colonnello, come se lo avesse colpito fisicamente. “Non solo mi hai tenuto nascosto della morte di mia madre. Ne sei stato anche l’artefice. E in tutto questo tempo, tu non solo non hai detto nulla…”
“Kate…” cercò di supplicarla, ma lei andò avanti come se non avesse parlato.
“Ma mi hai anche illuso con false speranze.” riprese. “Mi hai detto che avresti cercato mia madre, che mi avresti aiutato… e invece a quanto pareva questo era solo un tuo gioco perverso per farmi finire in casa tua.”
“No, Kate, ti prego…”
“Complimenti, Castle.” continuò gelida, senza fermarsi. “Hai vinto. Ma ora il gioco è finito. E io torno a casa.” Rick la osservò voltarsi rigidamente verso le scale e incamminarsi verso di esse. Poi però la vide fermarsi a metà strada e girarsi a metà verso di lui, senza guardarlo. “Hai detto che gli Esposito partiranno tra qualche giorno. Se non posso fare prima, andrò con loro.”
“Kate, non puoi! Non sei al sicuro e non hai…”
“SMETTILA DI CHIAMARMI KATE, CASTLE!!” gli urlò contro all’improvviso, furiosa. Diverse lacrime, che aveva trattenuto fino a quel momento, iniziarono a scenderle lungo il viso. “SMETTILA!! HAI GIOCATO PER TUTTO QUESTO TEMPO CON ME!! IO MI FIDAVO DI TE!! E TU NON HAI FATTO ALTRO CHE MENTIRMI!! COME HAI POTUTO NASCONDERMI DELLA MORTE DI MIA MADRE PER TUTTO QUESTO TEMPO?? COME HAI… HAI POTUTO??” Alle ultime parole, la voce di Beckett si spezzò completamente per le lacrime. Quindi si voltò e corse via al piano di sopra, prima che Rick avesse anche solo il tempo di realizzare la cosa. Rimase spiazzato, immobile, il pianto e i singhiozzi di Kate ancora vividi nelle orecchie.
“Perché ho avuto la meravigliosa sfortuna di innamorarmi di te…” mormorò alla fine a sé stesso.
 
“Beckett?” la chiamò piano Rick, bussando alla porta della stanza dove si era rifugiata. Doveva essere passato diverso tempo (minuti o ore, non avrebbe saputo dirlo) da quando Kate era sparita al piano di sopra, ma lui non ce l’aveva fatta a seguirla subito. Dopo essersi ripreso dalle urla di lei, era rimasto a lungo a pensare a cosa fare. Avrebbe potuto aspettare che uscisse oppure provare a parlarle. Per lui in ogni caso non ne sarebbe venuto fuori nulla di buono, ma non poteva lasciarla in quello stato. Era stata colpa sua. Avrebbe dovuto dirglielo immediatamente come stavano le cose. Magari sarebbe tornata subito a casa e lui non si sarebbe fatto coinvolgere da lei. Perché quando Kate era scappata, distrutta, da lui, Rick aveva capito due cose: la prima, che era stato un idiota; la seconda, che si era innamorato di lei.
Castle bussò ancora leggermente alla porta, ma l’unico suono che ne venne fuori fu un singhiozzo strozzato di Kate. Sentì il petto diventargli di piombo. Avrebbe voluto stringerla a sé per confortarla e consolarla. Ma ovviamente, dopo quello che le aveva rivelato, il colonnello dubitava fortemente che l’avrebbe più anche solo fatto avvicinare.
“Beckett, ti prego…” provò ancora. La voce gli si incrinò quando la sentì singhiozzare di nuovo. Provò a girare la maniglia della porta, ma era chiusa a chiave. “Kate…” riprovò con un mezzo sospiro rassegnato, appoggiando la fronte al legno freddo della porta e chiudendo gli occhi. “Mi dispiace…” sussurrò qualche momento dopo, la voce rotta. Castle capì che aveva iniziato a piangere quando sentì il sapore delle lacrime salate in bocca. “Mi dispiace, Kate… sul serio…” continuò piano. Nonostante il suo tono fosse basso, sapeva che lei lo stava ascoltando. “Non avrei mai voluto farti del male… Dio, se potessi… se potessi tornare indietro e cambiare le cose…” Le parole gli si mozzarono in gola e fu costretto a fermarsi con un groppo il gola troppo doloroso da mandare giù. “Perdonami, Kate.” concluse qualche secondo più tardi, dopo aver preso un respiro profondo. “Ti lascio in pace.”
Castle si scostò dalla porta e si asciugò le lacrime sulla manica della camicia. Quindi, a passi lenti e pesanti, tornò al piano di sotto. Prima di qualsiasi altra cosa, tirò fuori la bottiglia di whiskey dall’armadietto dove stava, insieme a un bicchiere basso. Se ne versò una generosa dose e la bevve l’attimo dopo tutto d’un fiato, facendo una smorfia per il bruciore che portava con sé. Un bruciore più che ben accetto in quel momento. Tutto pur di non pensare al dolore che aveva dentro in quel momento. Riempì di nuovo il bicchiere. Poi gli venne in mente che doveva chiamare con qualcuno. Non poteva lasciare Kate da sola in camera a piangere. Aveva bisogno di qualcuno che andasse a confortarla.
Prese un mezzo sorso dal bicchiere con un’altra smorfia e si avvicinò a grandi passi al telefono. Solo due persone gli vennero in mente in quel momento. Sua madre e Ryan. Pensò per un secondo a chi chiamare per primo, quindi alzò la cornetta e dal centralino si fece passare il teatro dove stava provando Martha.
 
Il primo ad arrivare dei due fu comunque Kevin. Sua madre stava provando dall’altra parte della città e il maggiore era decisamente più vicino in centrale. Nell’arco di venti minuti dalla chiamata era già arrivato.
“Ti sei deciso a dirglielo, quindi.” furono le sue prime parole di saluto quando Rick gli aprì la porta d’ingresso. “Sono contento che almeno Martha riesca a infilarti ancora del sale in zucca.” continuò entrando in casa.
“Non potevo più continuare a mentirle…” mormorò il colonnello, chiudendo la porta con una mano e bevendo un sorso di whiskey con l’altra. Ryan si fermò a squadrarlo, sospettoso, quindi i suoi occhi si fermarono sul bicchiere.
“Quanti ne hai già bevuti?” domandò esasperato. Castle osservò il bicchiere nella sua mano, quindi alzò le spalle. L’amico scosse la testa e gli tolse il whiskey dalle mani.
“Ehi!!” esclamò Rick contrariato. Provò a riprendersi il liquore, ma i suoi movimenti si rivelarono già piuttosto lenti e goffi.
“Ora ascoltami bene.” disse Kevin serio, andando veloce in cucina a vuotare il bicchiere nel lavello per poi fermarsi davanti a lui con le braccia incrociate al petto. “Tu ora stai qui mentre io vado a cercare di rimediare al tuo casino. Perché immagino che tu non le abbia detto come sono andate davvero le cose con Johanna…”
“Le ho detto quello che doveva sapere.” borbottò Rick. “La verità.”
“La tua verità!” lo riprese Ryan seccato. “Quella che ti ostini a considerare realtà, dandoti così la colpa per qualcosa che non hai fatto!” Il colonnello scosse la testa con forza e tornò in salone borbottando, visto che il maggiore continuava a bloccargli il passaggio alla cucina. “Castle, dove stai andando?”
“A prendere un altro bicchiere per il whiskey.” replicò atono.
“Smettila di ubriacarti!” ribatté Kevin, cercando di fermarlo per un braccio, ma Rick si scostò bruscamente.
“Lasciami in pace, Ryan.” sbottò. “Piuttosto, prova a consolare tu, Kate. Io non posso avvicinarmi…” Con quelle parole, tutta l’ostilità provata fino a quel momento scemò da Castle fino a lasciarlo vuoto. Si accasciò sul divano e nascose la faccia tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. “Non vuole più vedermi, Kev…” mormorò con tono rotto. “Non vuole parlarmi né altro. Se ne andrà con gli Esposito tra qualche giorno e io… io non so che fare…” Ryan sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“Vado a parlare con lei.” disse alla fine. “Proverò a mettere a posto i tuo pasticci come al solito.” aggiunse poi con un tono a metà tra il dolce e lo scherzoso. Sperava evidentemente di tirargli un poco su il morale, ma non gli riuscì più di tanto.
“Anche se non riesci…” mormorò Rick, alzando la testa verso l’amico. “Ti prego, non lasciarla da sola. Ha bisogno di qualcuno con lei.” Dallo sguardo dell’amico, il colonnello capì di essere in uno stato pietoso, ma se ne fregò. Lui aveva fatto il danno. Il minimo che poteva fare era assicurarsi che Beckett non restasse da sola a logorarsi nel suo dolore. Ryan rimase per qualche momento a osservarlo con uno sguardo di compassione, quindi annuì piano. “Grazie…” sussurrò Castle, nascondendo di nuovo la faccia tra le mani. Sentì i passi di Kevin allontanarsi da lui per poi fermarsi di nuovo.
“Sai, credo che se le dicessi che provi qualcosa per lei, riguadagneresti qualche punto.” tentò, ma Rick sbuffò.
“In questo momento non riguadagnerei punti nemmeno se le portassi giù un pezzo di luna.” borbottò stancamente. “Ti prego, vai da lei…” Quindi i passi del maggiore si fecero più lontani.
 
Kate singhiozzò piano. Non sapeva da quanto tempo fosse in quella posizione, seduta sul pavimento con un cuscino stretto al petto e la schiena appoggiata alla porta della camera. Appena era scappata da Castle, incredula, ferita, piena di rabbia e odio, si era infilata in camera, aveva chiuso la porta dietro di sé e si era buttata sul letto a piangere. Il dolore improvviso, dato dalla solitudine, dal non avere più qualcuno con cui sfogare la propria rabbia, si era fatto così acuto da mozzarle il respiro nei polmoni. Si era sentita soffocare. Aveva annaspato in cerca di aria, volendo urlare tutto quello che aveva dentro, mentre tutto quello che era riuscita a buttare fuori erano state lacrime e gemiti strozzati. Sua madre era morta. Non l’avrebbe più rivista. E accanto al dolore per la perdita si era aggiunto quello per il tradimento. Castle, di cui aveva imparato a fidarsi, ad aprirsi, a lasciarsi andare, l’aveva tenuta all’oscuro di quel fatto per tutto il tempo. Era passato più di un mese e lui non aveva aperto bocca. Non le aveva detto una sola parola. In più le aveva lasciato credere che avrebbe ritrovato sua madre sana e salva. Un dolore lancinante al petto l’aveva portata a singhiozzare con forza contro il cuscino per non farsi sentire da lui. Sua madre era morta e lui glielo aveva tenuto nascosto.
Quando poi aveva sentito Castle salire le scale e chiamarla, per un attimo aveva pensato di non muoversi minimamente. Una qualche forza però l’aveva costretta ad alzarsi e ad accucciarsi a terra con la schiena appoggiata alla porta e il cuscino incastrato tra le braccia. Aveva continuato a singhiozzare, smorzando i suoni con il cuscino, mentre lui parlava. Non poteva credergli. Ogni sua parola era una bugia. Un coltello infilato nel petto con una forza spaventosa. Eppure lei era lì ad ascoltarlo. E non sarebbe successo se lui non l’avesse illusa. Se lui non l’avesse fatta innamorare. Perché nonostante il dolore e la rabbia, in quel momento avrebbe voluto più di qualsiasi altra cosa che lui aprisse quella porta e la prendesse fra le braccia. Avrebbe voluto poter di nuovo sentire la sua forza e il suo calore contro il suo corpo.
Aveva dovuto costringersi a ricordarsi che probabilmente tutto quello che avevano passato insieme era stata una farsa. Per cosa poi? Portarla a letto per poi dirle di sua madre, così che se ne andasse per sempre? Giusto per avere una botta e via? Eppure quel bacio le era sembrato così… reale. Così sentito. Così vero. Non poteva credere che le avesse fatto quello, che si potesse arrivare a un tale livello di crudeltà. Alla fine però, forse, se fosse stato solo quello, avrebbe anche potuto perdonarlo. Ma aveva detto anche che era colpa sua. Lui aveva ucciso sua madre… E su quello non sarebbe potuta passare. No, anche volendo non avrebbe potuto perdonarlo. L’unica cosa che poteva fare ora, o meglio, l’unica cosa che voleva, era tornare a casa, il più lontano possibile da quel luogo pieno di morte, lontano da lui, per ricominciare. Dio, avrebbe anche dovuto dirlo a suo padre… Come avrebbe trovato la forza di farlo? Ne sarebbe rimasto distrutto.
A un certo punto sentì di nuovo dei passi sulle scale. Capì che non erano di Castle dall’andatura più leggera e veloce. Avanzarono fino alla porta, quindi si bloccarono. Due secondi più tardi ci fu un lieve bussare.
“Kate?” Riconobbe la voce di Ryan. “Kate, io… mi dispiace per come sono andate le cose.” continuò a voce leggermente più alta del normale, temendo forse che lei non potesse sentirlo. Non sapeva ovviamente che Kate era rannicchiata appena dietro la porta. “E mi dispiace per tua madre. Rick, ha sbagliato, lo so, avrebbe dovuto dirtelo subito, ma…”
“Che cosa vuoi Ryan?” domandò con voce rotta, stanca.
“Solo dirti cosa è successo davvero il giorno in cui è morta tua madre.” Beckett, nonostante il dolore, drizzò le orecchie. Poi però scosse la testa.
“So già cosa è successo…” mormorò con voce appena udibile dall’altra parte della porta. “Castle ha ucciso mia madre e me lo ha tenuto nascosto fino a oggi. Non ho altro da sapere.” concluse glaciale, mentre altre lacrime continuavano a rigarle il viso. Castle aveva ucciso sua madre. Era un pensiero che non riusciva a togliersi dalla testa.
Sentì uno sbuffo dall’altra parte della porta.
“Non è andata così.” disse Ryan in tono serio. Kate aggrottò le sopracciglia. Poi all’improvviso arrivò alla conclusione a cui prima non aveva pensato.
“Lo sapevi anche tu…” sussurrò con gli occhi sbarrati. “Lo sapevi anche tu!” ripeté poi a voce più alta, ancora più ferita di prima, mentre i polmoni sembravano minacciare di comprimerle il petto in una morsa. Se Ryan sapeva, allora anche Jenny e Lanie e Esposito… Tutti sapevano e nessuno aveva avuto il coraggio di dirle niente. Si portò le mani tra i capelli e cominciò a singhiozzare forte.
“Kate...?” la chiamò Kevin, preoccupato e dispiaciuto, dall’esterno.
“Vattene!!” gli urlò Beckett, mentre cercava di incamerare aria attraverso la gola chiusa. Strinse più che mai il cuscino, spingendoci all’interno la faccia.
“Non finché non avrai saputo la verità!” ribatté Ryan risoluto. “Non è andata come ti ha detto Castle. Io c’ero quel giorno. Lui non ha ucciso tua madre.” Quell’ultima frase, per qualche ragione, fece perdere un battito al cuore di Kate. Poi però scosse la testa. Non poteva crederci. “Se mi fai entrare, posso spieg…”
“No!!” esclamò subito lei con voce rotta.
“Ok, ok, tranquilla, nessuno entra.” replicò subito Kevin allarmato. “Allora senti, ora mi siedo qui fuori e ti racconto cosa è successo. Va bene?” Beckett ci pensò su un momento. Poi la curiosità sul sapere come era morta sua madre e sul fatto che Rick forse non era davvero il suo assassino vinsero sulla rabbia e il dolore.
“Ok.” rispose solo. Sentì Ryan muoversi dall’altra parte, poggiandosi, forse come lei, a terra nel corridoio e con la schiena alla porta. “Allora?” sbottò Kate quando udì solo il silenzio. Non aveva smesso di piangere, sentiva gli occhi bruciarle e le facevano male la gola e i polmoni.
“E’ successo la settimana precedente che Rick ti conoscesse.” iniziò alla fine il maggiore. “Qualche giorno prima, alla festa per il raggiungimento del suo grado di Colonnello, ci eravamo ubriacati tutti e due per una sfida e così il nostro superiore ci aveva spedito a fare la ronda per strada.” Il tono di Kevin era tranquillo e in qualche modo rassicurante, anche se si sentiva il dispiacere nelle sue parole. “A un certo punto abbiamo incontrato una camionetta di soldati. Stavano facendo una perlustrazione delle abitazioni nei dintorni perché gli era stata segnalata la presenza di una donna straniera nell’isolato…” Kate trattenne il respiro. Non faticò a capire di chi stava parlando. “Sembrava tutto tranquillo. Abbiamo detto al soldato a capo di richiamare il suo uomo all’interno della palazzina davanti a noi e tornare a casa. Avevano l’aria stanca. C’era anche da capirli, quegli uomini erano sotto la pioggia da ore ed erano gelati e sfiniti. Inoltre questo dava a me e Rick il pretesto di provare a cercare quella donna prima che la trovassero loro. All’improvviso però sentimmo un urlo.” La voce di Ryan si fece tesa e Kate deglutì, stringendo ancora più forte a sé il cuscino bagnato. “Veniva da uno dei piani sopra di noi, proprio da quella stessa palazzina dentro cui era il soldato. Non era difficile capire la situazione, anzi era purtroppo piuttosto comune: un uomo nervoso, frustrato dalla ricerca infruttuosa, trova finalmente la preda e decide di utilizzarla un po’ a suo piacimento prima di portarla via. Ovviamente, senza pensarci due volte, Rick si fiondò all’interno.” Beckett aggrottò le sopracciglia sugli occhi arrossati a quella notizia. Provata dalle ultime vicende, non capì esattamente cosa volesse dire Ryan, ma quell’Ovviamente detto così come se fosse la cosa più normale del mondo la lasciò interdetta.
“Perché?” chiese piano, in automatico. Sentì un mezzo sbuffo divertito provenire dall’altra parte della porta.
“Perché il Colonnello Castle ha un suo codice morale.” rispose Kevin, non senza una certa nota d’orgoglio per il suo amico e superiore. “Non hai idea di quello che certi ufficiali permettono di fare ai propri soldati con i prigionieri…” aggiunse poi a voce più bassa e dura. Fece un sospiro. “Beh, hai conosciuto Rick.” disse poi di nuovo con un tono più tranquillo. “In ogni caso è un buon soldato e i suoi uomini gli sono fedeli. Conoscono le sue regole e le rispettano. Una è quella di non azzardarsi a toccare una donna in arresto contro la sua volontà.” Fu in quell’esatto momento in cui Kate capì. Sua madre aveva urlato perché stava per essere violentata. E Castle era corso all’interno per salvarla. Le si bloccò il fiato in gola a quella consapevolezza, mentre Ryan continuava a parlare. “Non può controllare i soldati fuori dalla caserma, ma all’interno quelle sono le sue regole. E Rick non è uno che parla e poi chiude un occhio se non viene ascoltato, come fanno molti ufficiali. E’ ferreo su queste cose.” Ryan fece un sospiro. “Comunque stavo dicendo… Abbiamo sentito una donna urlare e Rick è corso nella palazzina. Ho dovuto filare per riuscire a raggiungerlo, credimi. Quando arrivai al piano, trovai una porta sfondata ed entrai. Ingenuamente mi sentii un po’ sollevato, perché non sentivo più le urla provenire dall’appartamento. Ero convinto che Rick fosse arrivato e avesse fermato la violenza che stava per compiersi. Non avevo tutti i torti, ma non era esattamente come credevo…” La voce di Kevin si affievolì un po’, come se si fosse perso nei propri pensieri. Un momento dopo però riprese il racconto. “Sentivo dei rumori strani, come di lotta, gemiti e oggetti sbattuti. Mi affrettai verso la stanza dalla quale provenivano e vidi Rick lottare contro un soldato con i pantaloni mezzi calati. Fu in quel momento che, all’improvviso, sbucò fuori una pistola.” Beckett strinse con forza il cuscino, tanto che le nocche le diventarono bianche, e si morse quasi a sangue il labbro inferiore. Era come ipnotizzata da quella storia. Voleva conoscerla e allo stesso tempo non voleva. Kevin continuò a raccontare, inconsapevole della reazione della donna. “Non era quella di Rick, perché la sua era ancora ben chiusa nel fodero. Era stato talmente preso dal fermare quell’uomo, da non aver pensato neanche per un momento di estrarla.” commentò con un piccolo sospiro esasperato. Non doveva essere la prima volta che Castle partiva in quarta senza pensare. “Il soldato puntò la pistola contro Rick, ma lui gli bloccò la mano e gli tirò un pugno allo stomaco perché lasciasse l’arma. Solo che non lo fece. Al contrario, il soldato strinse di più la presa sulla pistola e partì un colpo.” Beckett trattenne un gemito di dolore, sapendo già il finale di quella storia. “In quel momento vidi tua madre crollare a terra, colpita.” continuò Kevin atono. “Il combattimento tra Rick e il soldato durò qualche altro momento, finché non lo mise del tutto fuori combattimento, ma ormai per lei era già troppo tardi…” Il maggiore sospirò di nuovo. “Non fu colpa di Rick, Kate.” disse infine. “Lui ha tentato di salvare tua madre. Si da la colpa per la sua morte perché è convinto che, invece di farsi prendere dalla rabbia, avrebbe dovuto far allontanare il soldato grazie alla sua pistola e al suo grado. Il dito sul grilletto non era il suo…” Beckett respirò con difficoltà mentre cercava di immagazzinare quelle informazioni, il blocco in gola sempre presente, ma ora diverso. Se davvero era andata in quel modo, allora Castle non aveva ucciso sua madre a sangue freddo come aveva pensato. Non l’aveva ammazzata per un ordine che gli era arrivato. Era stato un incidente. Lui aveva cercato di salvarla. Dio, Castle aveva cercato di salvare sua madre…
Quel pensiero confortò Kate più di quanto volesse ammettere. Ma dopo che glielo avevano nascosto per così tanto tempo, avrebbe potuto crederci davvero?
“Come… come faccio a sapere che è la verità?” chiese alla fine con voce incrinata. Ci fu qualche secondo di silenzio.
“Non lo puoi sapere.” rispose alla fine Kevin. “Puoi solo fidarti di me. E se non ti fidi di me, allora pensa a come è davvero Rick, a come lo hai conosciuto. So che ora ti senti tradita da lui, ma il suo unico sbaglio è stato non dirti tutto all’inizio. E’ stato un errore, e non voglio difenderlo, ma tieni conto che lui lo ha fatto per non farti soffrire e per avere l’opportunità di conoscerti…”
“Conoscermi?” mormorò incredula Kate, strappata all’improvviso dai suoi pensieri da quella semplice constatazione. Sentì una lieve risata dall’altra parte della porta.
“Perché non dirtelo altrimenti?” chiese retorico il maggiore. Beckett rimase in silenzio. Non aveva risposte per quella domanda che suonava così ovvia. “Beh, ora sai la verità.” disse alla fine Ryan, tornando serio. Lo sentì alzarsi da dietro la porta. “Pensaci, ok?” Non ricevendo risposta, Kevin si allontanò lungo il corridoio e scese le scale. Kate appoggiò la testa all’indietro sulla porta. Aveva la vista annebbiata dalle lacrime e ne sentì altre scorrerle lungo le guance. Singhiozzò piano mentre le parole di Ryan continuavano a vorticarle in testa. Avrebbe tanto voluto credere che Castle non fosse l’assassino di sua madre, che lui avesse cercato davvero di proteggerla. Voleva credergli disperatamente. Avrebbe voluto farlo più di ogni altra cosa al mondo.
 
“Le hai parlato?” chiese Rick preoccupato non appena sentì Kevin scendere le scale. Il maggiore annuì mentre gli andava incontro. “Come sta?”
“E’ sconvolta.” spiegò Ryan. “Ma le ho detto quello che tu hai omesso, ovvero che hai cercato di salvare sua madre da quello stronzo che voleva violentarla.” Castle scosse la testa e tornò ad accasciarsi sul divano.
“Non importa, cosa è successo.” disse atono, lo sguardo rivolto al soffitto. “Il bilancio finale è sempre lo stesso: Johanna Beckett è morta perché non ho saputo ragionare lucidamente.” Era per quello che tentava in ogni situazione di rimanere concentrato, perché si conosceva. Non era la prima volta che i suoi sentimenti prendevano il sopravvento. Aveva agito più volte per istinto. A volte era andata bene, ma mai le conseguenze erano state fino a quel punto disastrose.
“Dovresti smetterla di darti la colpa per qualcosa che non avresti mai potuto controllare.” replicò Ryan scuotendo la testa. Rick sbuffò, come se le sue parole non avessero senso. Si sarebbe sempre sentito in colpa per Johanna e Kate non lo avrebbe mai perdonato.
In quel momento sentirono bussare alla porta e Kevin andò ad aprire. Castle rimase con lo sguardo rivolto al soffitto, i pensieri persi a quel giorno, alla pozza di sangue sotto il corpo della madre di Kate, ai suoi occhi sbarrati e così simili a quelli della figlia…
“Richard, come stai?” domandò sua madre ansiosa non appena entrò in salone e lo vide. Il colonnello sbatté le palpebre e si sottrasse alla sua visione per tornare alla realtà.
“Come uno odiato a morte.” rispose senza entusiasmo. Martha sospirò piano.
“E Katherine?” chiese poi. Castle non rispose, semplicemente voltò la testa di nuovo in alto in modo da non doverla guardare.
“E’ sconvolta.” ripose per lui Kevin. “L’ho sentita piangere da dietro la porta. Si è chiusa nella camera degli ospiti al piano di sopra. Non mi ha lasciato entrare, ma magari tu avrai più fortuna.”
“Spero di poter fare qualcosa,” ribatté la signora Castle. “Ma la conosco da poco. Non posso garantire che mi ascolterà. Magari Jenny sarebbe la scelta più indicata.” suggerì poi al maggiore. “Mi era sembrata felice di stare con voi.”
“Proverò a chiamarla.” dichiarò Ryan. Quindi Rick sentì i bassi tacchi di sua madre avviarsi al piano di sopra. “Tu pensi di stare lì per sempre?” gli domandò poi Kevin con tono irritato.
“Se mi alzo, vado diretto a prendermi altro whiskey, non importa quanto tu cercherai di fermarmi.” rispose Rick atono. Ryan sospirò esasperato.
“Resta dove sei.” ribatté, quindi andò al telefono per chiamare Jenny.
 
Quando bussarono alla sua porta, Kate sussultò. Era ancora immobile a terra, con il cuscino stretto al petto e le lacrime che continuavano a scendere, silenziose e impossibili da fermare, lungo le guance. Non aveva sentito i passi salire le scale, troppo persa nei suoi pensieri.
“Kate?” Sentire la voce di Martha la stupì. “Katherine, cara, come stai?” Non ci fu bisogno di rispondere. Il singhiozzo che uscì dalla sua bocca fu abbastanza eloquente senza che dovesse aggiungere altro. “Oh, tesoro…” la sentì mormorare dall’altra parte della porta con tono addolorato. “Mi dispiace per quello che è successo con Richard. Devi credermi, non sapevo niente di tutto questo finché non gli ho parlato ieri sera e mi ha promesso che te lo avrebbe rivelato oggi…” Beckett spalancò gli occhi sorpresa. Ora capiva perché Castle aveva preso un giorno di permesso. Voleva dirglielo. “Posso entrare?” chiese poi l’attrice dopo qualche momento con voce un po’ titubante. Per istinto Kate si fidava delle parole di Martha, ma allo stesso tempo non voleva vedere nessuno. Rimase immobile per un momento. Quindi si mosse, quasi in automatico, come se non fosse realmente lei a guidare le sue azioni. Si alzò piano, sempre tenendo il cuscino ben bloccato contro il suo corpo, e aprì la porta. Lo schiocco secco della chiave nella serratura le fece venire in mente lo sparo che aveva ucciso sua madre.
Dall’espressione che le rivolse Martha, la sua faccia non doveva essere nel suo stato migliore. Kate poteva quasi immaginarsi: pallida, con i segni di lacrime sulle guance e sul naso, gli occhi rossi, le borse nere sotto di essi e i capelli totalmente in disordine. Non le importava comunque. Cosa poteva importarle il suo aspetto quando sua madre era morta?
Dopo un momento di esitazione, Martha fece un passo avanti, entrando nella camera, e l’abbracciò. Kate non si rese davvero conto di aver bisogno di quel calore confortante finché non lo ricevette. Nonostante conoscesse appena la signora Castle, era diventata momentaneamente la sua ancora di salvezza. Si aggrappò a lei con forza, ricominciando a piangere con rinnovata energia e affondando il naso nei suoi capelli rossi. Sentì il profumo forte, ma allo stesso tempo buono, della donna che le ricordò vagamente quello della madre. Martha la tenne stretta a lungo, massaggiandole piano la schiena, finché a un certo punto non la staccò dolcemente da sé, chiuse la porta e la accompagnò a stendersi sul letto. L’attrice si sedette di lato, mentre Beckett si rannicchiò al centro del materasso con la testa appoggiata alle gambe di lei. La signora Castle iniziò a carezzarle i capelli con dolcezza, mentre Kate riversava tutte le lacrime che ancora aveva, singhiozzando piano sulle sue ginocchia. Cercava di trattenersi, ma con lei accanto non poteva non pensare al vero calore materno che non avrebbe più avuto.
“Va tutto bene, Kate…” mormorò Martha piano. “Sfogati, se ti fa sentire meglio. Non reprimere niente…”
“Mi ha mentito…” sussurrò a un certo punto Kate, la voce roca per il lungo pianto. “Castle… mi ha mentito…” L’attrice sospirò piano.
“Lo so.” rispose mesta, senza comunque aggiungere altro, continuando semplicemente a carezzarle lentamente i capelli per calmarla.
“Ryan dice che ha tentato di salvarla…” aggiunse poi Beckett, tirando su con il naso.
“Non credi a Ryan?” chiese Martha. Kate rimase in silenzio per qualche attimo, osservando una lacrima che le era caduta sulla mano scivolare lungo il pugno chiuso davanti a lei.
“Non lo so…” mormorò poi. “Castle dice che è colpa sua…”
“Ma Richard ti ha già mentito, se non ricordo male.” la fermò Martha con tono dolce. “Ti ha detto di non sapere nulla su tua madre.” Kate annuì piano, non capendo dove volesse arrivare la donna. “Conosco mio figlio, tesoro. Vorrebbe essere in grado di salvare il mondo e se non ci riesce se ne da la colpa…” spiegò la signora Castle con un piccolo sospiro. “Il fatto di non essere riuscito a salvare una donna, che sul momento aveva deciso di proteggere, lo ha fatto sentire colpevole, come se lui avesse sparato volutamente a Johanna. Ma lui non sparerebbe mai nessuno a sangue freddo. E’ un soldato, ma non è un assassino.” concluse, carezzandole una guancia per rimuovere parte delle lacrime e scostarle i capelli. Kate aggrottò le sopracciglia pensierosa. Forse avrebbe potuto davvero credere a Ryan. Credere che Rick non avesse ucciso sua madre, ma al contrario avesse tentato di proteggerla. Avrebbe potuto farlo. Ma non in quel momento. In quel momento voleva solo non pensare a niente, solo sperare di riversare tutto il suo dolore fuori dal suo corpo attraverso le lacrime che continuavano a scenderle copiose lungo il viso. I ricordi di sua madre tornarono a colpirla violentemente e Kate si rannicchiò ancora di più contro le gambe di Martha. Rimase immobile a farsi coccolare, chiudendo gli occhi, immaginandosi per un momento che fosse sua madre a compiere quei piccoli gesti così materni. Ma sapeva che non era così. Il vuoto enorme che aveva nel petto le ricordava dolorosamente che non era così.
 
A un certo punto qualcuno bussò alla porta. Beckett sussultò. Non aveva minimamente sentito i passi salire le scale. Si irrigidì e trattenne il respiro, non volendo che Ryan o Castle la vedessero in quello stato pietoso in cui sapeva essere. Ma Martha si scostò piano da lei e andò ad aprire, facendo in modo di lasciare solo uno spiraglio attraverso cui parlare per non far vedere l’interno.
“Ho chiamato Jenny.” disse la voce di Ryan, nascosto dalla porta. “Sarà qui a momenti. Puoi chiedere a Kate se le va bene vederla?”
“Posso dormire da voi stanotte?” domandò all’improvviso Kate con voce rauca. Le era venuto il pensiero al momento, non appena il maggiore aveva nominato Jenny. Per quanto fosse riconoscente a Martha, aveva bisogno di una faccia amica e dai Ryan c’erano sia lei che Lanie.
Ci fu un momento di silenzio.
“Uhm, certo.” rispose alla fine Kevin, anche se un po’ incerto. “Dobbiamo solo vedere dove sistemarti...”
“Il divano andrà benissimo.” mormorò Beckett, rannicchiandosi un po’ più su sé stessa. “Ho solo… ho solo bisogno di stare lontana da qui.” aggiunse poi, anche se le fece male dirlo. Quella casa le era sembrata il posto più sicuro in cui stare insieme a Castle. Una piccola parte del suo cuore le diceva chiaramente che le sarebbe mancato, ma in quel momento aveva bisogno di stargli lontana per un po’. Aveva bisogno di pensare e cercare di rimettere in piedi la sua vita, all’improvviso mandata in frantumi, lontano da lui. Aveva bisogno di scegliere cosa credere prima di rivederlo.
“Ok.” disse solo Ryan con un mezzo sospiro. “Allora quando Jenny arriva te la mando su e scegliete quando andare.” Quindi il maggiore scambiò un altro paio di parole con Martha a bassa voce, che Kate non riuscì a cogliere, e sparì di nuovo al piano di sotto.
 
Quanto Jenny finalmente arrivò, quasi subito uscì di nuovo insieme a Kate e Ryan. Beckett non volle vedere Castle neanche di sfuggita. Scese le scale con gli occhi ancorati ai gradini e poi fissò solo il pavimento finché non fu uscita. Rick la osservò andare via dall’entrata del salone. Si sentì male solo a guardarla. Sembrava così piccola e fragile mentre si muoveva. E nonostante lei tenesse gli occhi bassi, il colonnello poté vedere che erano rossi e con evidenti occhiaie.
Guardò Kate uscire, quindi si passò una mano tra i capelli e tornò in salone, recuperando un altro bicchiere di whiskey mentre sua madre chiudeva la porta. Ovviamente non poteva biasimare Beckett nel non volerlo vedere. Aveva sbagliato e meritava quella punizione. Non avrebbe dovuto nasconderle una cosa del genere. Aveva sperato però di poter vedere gli occhi di Kate almeno un’ultima volta prima di perderla per sempre. Sapeva che sarebbe rimasta dai Ryan fino al 3 dicembre, giorno in cui sarebbe andata all’aeroporto per partire con gli Esposito, ma sapeva altrettanto bene che, una volta uscita da casa sua, lei non lo avrebbe più voluto vedere.
Fu il tintinnio dei due cubetti di ghiaccio, che aveva messo nel bicchiere senza pensarci, che lo fece destare dai suoi pensieri. Scosse la testa e prese un sorso di liquore. Quindi andò a buttarsi sul divano, la testa poggiata allo schienale in modo da osservare il soffitto bianco e leggermente crepato dai passati bombardamenti, il whiskey ben saldo in una mano.
“Richard…” iniziò a dire Martha, allarmata, quando entrò in salone, ma Castle la fermò prima.
“Va tutto bene, mamma.” disse solo, la voce spenta più che mai. “Ho solo bisogno di rilassarmi un po’.” aggiunse poi, sapendo quale fosse la reale preoccupazione della madre vedendolo con il bicchiere in mano. Prima che lo fermasse Ryan, preso dal dolore e dal panico, aveva mandato giù in poco tempo più di un paio di bicchieri di whiskey. Puzzava già un po’ di alcool, se ne accorgeva lui stesso, ma per quel giorno non avrebbe bevuto più oltre quell’unico bicchiere che aveva in mano. Non perché glielo avesse proibito Kevin o perché in quel momento c’era sua madre. Gli sarebbe piaciuto affogare il dolore nel liquore e dimenticare quel giorno, quello sguardo rabbioso e ferito di Kate contro di lui. Allo stesso tempo però non voleva rischiare di dimenticare niente di lei. Soprattutto quel bacio scambiato solo qualche ora prima. Sospirò leggermente e chiuse gli occhi mentre sentiva ancora le labbra morbide di lei sulle sue. Sembrava passata un’eternità da allora.
All’improvviso una mano passò delicatamente tra i suoi capelli. Aprì gli occhi e vide sopra di sé lo sguardo amorevole di Martha, in piedi dietro il divano.
“Hai fatto la cosa giusta.” sussurrò lei dolcemente. “Per quanto dolore possa portare, hai fatto la cosa giusta a dirglielo.” Rick richiuse gli occhi e sospirò.
“Lo so.” rispose atono. Ma quella constatazione non servì a renderlo meno malinconico o a fare meno male.
 
Castle passò il resto della giornata a vegetare sul divano, fissando il soffitto come con la speranza di veder apparire la soluzione ai suoi problemi magicamente tra le crepe. Come si era ripromesso, vuotò il bicchiere di whiskey, ma non ne prese altri. Martha rimase con lui per tutto il tempo, coccolandolo di tanto in tanto o cercando, al contrario, di farlo reagire a quell’improvvisa fiacchezza. Nulla funzionò. Tutto quello che ottenne da Rick furono poche parole meste e molto doloroso silenzio.
A sera Martha preparò la cena, ma lui non toccò cibo. A un certo punto semplicemente si alzò, baciò in automatico la madre sulla fronte, per ringraziarla e darle la buonanotte, e si chiuse in camera. Si svestì sempre come un automa, senza quasi accorgersi dei suoi gesti. Sembrò per un momento tornare alla realtà quando si sdraiò nel letto e sentì l’odore di Kate ancora sparso per il suo cuscino. Senza riuscire a trattenersi, vi affondò la faccia dentro e aspirò profondamente. Quindi si addormentò, dopo parecchio tempo, nel lato del letto che solo la sera prima aveva occupato Beckett.
 
La mattina dopo Castle si alzò e si preparò come al solito, come se fosse una normale giornata in centrale. Si lavò, si rase, si vestì e fece una leggera colazione insieme a Martha. La donna lo osservò preoccupata per tutto il tempo, ma lui non ci fece caso. Era calmo, molto più calmo del solito. Ma calmo non era l’aggettivo migliore forse: avrebbe dovuto dire spento.
“Sicuro che vuoi andare stamattina?” gli chiese l’attrice, come quando era piccolo e voleva andare a scuola perché voleva vedere i suoi amichetti anche se non stava bene. “Puoi chiedere un altro giorno di permesso e…”
“Va tutto bene, mamma.” le ripeté Rick per l’ennesima volta con un mezzo sorriso rassicurante che non aveva nessuna gioia. L’occhiata allarmata e scettica che gli lanciò, lo spinse a continuare con un sospiro. “Starò bene, te lo prometto. Ho solo bisogno di distrarmi e la centrale è il posto migliore. Avrò la testa talmente occupata che niente altro potrà entrarci.” aggiunse come una battuta senza però riuscire a dare il solito umorismo alle sue parole. Martha lo osservò ancora per qualche istante, ansiosa e per nulla convinta a lasciarlo andare, ma d’altronde non poteva fermarlo. Era un uomo e sapeva cavarsela. Se pensava che lavorare fosse meglio, chi avrebbe potuto impedirglielo? La donna alla fine annuì con un sospiro rassegnato. Castle le lasciò un rapido bacio sulla guancia come saluto e uscì per andare in centrale.
Quella scenetta si svolse uguale o quasi per i giorni successivi, tranne per il fatto che Martha era presente un giorno sì e uno no a casa del colonnello. Rick usciva la mattina presto, restava alla casermetta tutto il giorno a dare ordini e compilare scartoffie, quindi tornava a casa tardi, stanco, in modo da avere giusto la forza di mandare giù qualcosa nello stomaco e crollare a letto. Non voleva pensare. Cercava di farlo il meno possibile. Perché se si fosse anche solo fermato a farlo, l’immagine di Kate si sarebbe fatta strada prepotentemente davanti ai suoi occhi, senza lasciargli scampo. Come quando arrivava la notte, calavano le ombre e tutto era silenzioso. Come quando era in dormiveglia e il suo cervello traditore gli mostrava ricordi di Kate in tutta la loro nitidezza e forza.
Ryan gli dava qualche notizia a proposito della salute di Beckett e degli altri. Era l’unico legame che aveva ancora con lei. Dal maggiore aveva saputo che, dopo il primo sfogo iniziale con Jenny e Lanie, Kate si era rinchiusa in sé stessa, piangendo in silenzio e non lasciando entrare nessuno nel suo dolore. L’unico che sembrava risollevarle leggermente il morale, anche se solo per brevi periodi, sembrava essere il piccolo Leandro. A quanto pareva, nella sua sconfinata ingenuità e bontà di bambino, gli bastava raggiungere Beckett e abbracciarla forte quando la andava a trovare. La notte infatti, la donna dormiva sul divano nel salone, mentre di giorno Lanie l’aveva costretta a stare sul letto della loro stanzetta segreta. Leandro la raggiungeva qualche volta, quando i genitori gli davano la possibilità di farlo per non disturbarla costantemente. Pareva essere l’unica cosa che confortasse almeno un poco Kate in quel momento.
In centrale all’inizio gli chiesero più volte di Beckett e del loro fidanzamento. Lui non tentò nemmeno di rispondere. Il suo sguardo lasciò intendere chiaramente che non voleva alcun tipo di domanda sull’argomento e i suoi uomini dopo un po’ smisero di parlargliene. Che qualcosa andava male però non ebbero bisogno di chiederlo a nessuno per saperlo. Come spiegare altrimenti il fatto che d’un colpo Castle avesse perso il sorriso e fosse diventato così taciturno e schivo? Partecipava attivamente alla vita nella centrale, ma tutta la vitalità che lo aveva sempre caratterizzato sembrava essere sparita. Rick non diede spiegazioni a nessuno riguardo al suo cambiamento e Kevin minacciò di sbattere qualcuno a fare la guardiola nel freddo della notte se solo si fossero azzardati a continuare a domandare.
Un dubbio che assillava Castle era quando si sarebbe fatto vedere Dreixk. Si aspettava il suo arrivo da un momento all’altro. Era certo che le sue spie da quattro soldi gli avessero già rivelato che qualcosa era accaduto tra lui e la sua ‘fidanzata’. Se non si era ancora mostrato era solo questione di tempo. Quella stronza canaglia forse semplicemente non aveva avuto ancora modo di assentarsi dalla sua postazione per venire a fargli una visita di cortesia. Poco male, lo avrebbe affrontato in ogni momento a testa alta. Magari sarebbe anche riuscito a tirarglielo un cazzotto in quella sua faccia da iena senz’anima che si ritrovava. E a fanculo ogni tipo di prudenza. Doveva solo provarci a fargli una delle sue battutine. Aveva giusto bisogno di sfogarsi.
 
Il 2 dicembre, a pomeriggio inoltrato, ci fu un nuovo attacco. Fortunatamente per Castle, avvenne più che altro nella zona nord della città e colpì relativamente poco il suo quartiere. Ripercorse mentalmente quegli attacchi e si accorse che ogni volta gli inglesi bombardavano senza precisione, ma abbattendo pian piano ogni zona della città. Molte abitazioni civili ormai non erano più nemmeno utilizzabili come stalla, talmente erano malridotte, e andando avanti di quel passo presto avrebbero reso inservibile una grossa parte della città. Nonostante fossero attacchi improvvisi però, l’aviazione inglese aveva evidentemente sottovalutato la possibilità di controffensiva berlinese. Rick stesso vide ben più di un apparecchio cadere in picchiata in un ammasso di lamiere fiammanti, abbattuti dalla contraerea.
Era mezzanotte passata quando Castle rientrò in casa, rabbrividendo per il freddo intenso che era sceso insieme alla notte. Con il cielo limpido, la temperatura negli ultimi giorni si era notevolmente abbassata. Il colonnello si tolse il cappello e i guanti, gettando poi tutto sul tavolinetto accanto all’entrata, prima di togliersi il pensante giaccone. Si passò una mano sulla faccia, stanco, e andò direttamente in salone. Non aveva cenato, ma non aveva neanche fame. Tirò fuori un bicchiere dall’armadietto degli alcolici e si verso mezzo bicchiere di whiskey per scaldarsi. Stava per buttarlo giù tutto d’un fiato, quando il telefono iniziò a squillare insistente, squarciando il silenzio del suo appartamento. Con uno sbuffo, Castle lasciò il bicchiere e andò a rispondere.
“Pronto?” disse un po’ seccato.
“Rick? Sono Kevin.” rispose la voce di Ryan dall’altra parte del telefono. Il colonnello drizzò le orecchie, la stanchezza che d’un tratto si volatilizzava. L’amico sembrava agitato e chiamarlo a quell’ora dopo il bombardamento che c’era appena stato di certo non era un buon segno.
“Kev, che succede?” domandò subito. Ci fu un momento di silenzio e poi un sospiro.
“Abbiamo un problema.”

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Xiao! :D
Beh, che dire Kate non l'ha presa propriamente bene eh? Però, dai, Ryan è stato utile... anche perché, diciamocelo, Castle si prende troppe colpe vero? ù.ù (io me la canto, io me la suono XD) Anyway, qualcuno vuole provare a indovinare quale sarà il problema uscito fuori ora? X) 
Boh, ok, scappo che è tardi, spero vi sia piaciuto come capitolo... era un po' pensante lo ammetto (pure da scrivere) però andava fatto...
Un mega abbraccio alle mie compagne di chat! Vi voglio un mondo di bene ragazze!! <3<3
Ok, finito vado davvero! XD
A presto! :) (spero XD)
Lanie

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Capitolo 14
*** Scegliere in cosa credere ***


Cap.14 Scegliere in cosa credere
 

“Kev, che succede?” domandò subito. Ci fu un momento di silenzio e poi un sospiro.
“Abbiamo un problema.”
Castle sbuffò irritato. Fantastico. Serviva proprio aggiungere un altro problema alla loro già rosea situazione.
“Quale problema?” chiese.
“Familiare.” rispose Ryan. “I miei non stanno bene. Non possono tornare a casa al momento.” Rick decodificò all’istante il suo codice: il problema riguardava gli Esposito. Sperò che nessuno stesse seriamente male. All’improvviso però gli venne in mente che il bombardamento di quel giorno era avvenuto particolarmente nella zona nord della città. E il piccolo aeroporto da cui sarebbero dovuti partire si trovava proprio da quelle parti. Rick ebbe un terribile sospetto.
“Cazzo…” mormorò. “Ok.” disse poi a voce più alta, passandosi intanto una mano sulla faccia. “Vuoi che venga subito?”
“Uhm, no, no, per stanotte staranno bene.” replicò Kevin con tono un po’ ansioso. “Volevo solo avvertirti. Però se potessi venire domattina ad aiutarmi con la nuova organizzazione te ne sarei grato.”
“Va bene, vengo appena posso.” ribatté Castle. Quindi si salutarono e riagganciò. Organizzare un nuovo viaggio non sarebbe stato uno scherzo. Se davvero era come pensava, ovvero che l’aeroporto era stato danneggiato, allora sarebbe stato molto più difficile far uscire gli Esposito e Beckett dalla Germania. In treno non era più fattibile, troppe guardie che giravano costantemente per i convogli, e in camionetta sarebbe stato lungo, con il rischio di incontrare numerosi posti di blocco. Anche andare a piedi fino al confine attraverso la foresta non sarebbe stato possibile con un bambino. Leandro era forte, ma erano in pieno inverno e la marcia era lunga. Sarebbe stata un’idea rischiosa anche per un adulto in buona salute. Inoltre, se non fossero stati attenti, i cani avrebbero sentito il loro odore in caso di perlustrazione. Rick sbuffò frustrato. No, doveva farsi venire in mente qualcos’altro. Però più ci pensava e più capiva che l’aereo era la loro unica risorsa. Sapevano come muoversi ed era il metodo più veloce e sicuro. L’unico inconveniente potevano essere i posti di blocco all’entrata dell’aeroporto, ma quelli erano un problema suo e di Ryan, di solito facilmente risolvibile con il loro grado. Una volta fuori dai cieli tedeschi, gli Esposito e Beckett sarebbero stati in salvo.
Rick si passò una mano sulla faccia, stanco, e si appuntò mentalmente di accertarsi, come prima cosa la mattina dopo, in che condizioni fosse l’aeroporto. Forse non aveva subito danni così ingenti da fermarlo. Magari sarebbero stati fortunati e si sarebbe trattato solo di un blocco di qualche giorno. Qualche ritardo lo mettevano sempre in conto. Erano ben poche le volte in cui le cose andavano per il verso giusto in quelle operazioni clandestine.
Con quella nuova, seppur debole, speranza, Castle tornò al bicchiere di whiskey che aveva abbandonato prima della telefonata. Buttò giù il liquore d’un fiato e andò a dormire. Appena si fu cambiato e steso a letto, un pensiero lo colpì: forse l’indomani avrebbe rivisto Kate. Anche solo l’idea di osservarla di sfuggita gli diede come un senso di pace che non sentiva più da giorni. Sospirò leggermente e chiuse gli occhi. Cullato dai pensieri di riconciliazione con Beckett, si addormentò molto più velocemente e tranquillamente che nelle ultime notti.
 
La mattina dopo Castle si alzò presto in modo da poter andare da Ryan e poi in centrale senza dover chiedere ore di permesso. Fece una veloce colazione e, prima ancora di vestirsi, chiamò il piccolo aeroporto a nord di Berlino. Dopo una breve conversazione con un agitato addetto ai voli, capì che era come aveva temuto: buona parte delle piste era stata bombardata e anche piuttosto pesantemente. Diversi aerei erano stati distrutti e i viaggi da quell’aerostazione probabilmente non sarebbero ripresi prima di un mese. Non appena chiuse la cornetta, Rick imprecò sottovoce e andò a cambiarsi velocemente. Doveva andare subito da Kevin.
Venti minuti dopo il colonnello stava bussando alla porta del suo amico.
“Ciao, Rick.” lo salutò veloce Ryan, facendosi da parte per farlo entrare. Nella sua voce non c’era nulla del tono scherzoso con cui lo accoglieva di solito. Era serio e, da come si mordeva costantemente l’interno della guancia, doveva essere anche nervoso.
“Ciao.” rispose Castle, togliendosi il cappello e avanzando di qualche passo nell’ingresso. Fece per parlare, ma Kevin gli fece cenno di tenere bassa la voce. “Gli altri dormono?” chiese il colonnello in un sussurro, levandosi intanto pure i guanti. Ryan annuì.
“Non mi sembrava il caso di svegliarli così presto.” rispose piano. “E poi volevo prima parlare con te.” Rick annuì e finì di togliersi il pesante giaccone. Quindi lo appese all’attaccapanni e poi lui e il maggiore si spostarono silenziosamente in cucina. La porta che dava sulla camera della Gates era chiusa, quindi erano sicuri che parlando a bassa voce non l’avrebbero disturbata. Sarebbero andati in salone, ma lì c’era Kate che dormiva sul divano. Kate… Il pensiero colpì d’improvviso Castle un attimo prima di entrare in cucina. Si lanciò un’occhiata dietro le spalle verso il salone, ma se anche la donna fosse stata sdraiata sul divano era completamente invisibile a causa dell’alto schienale, voltato dalla loro parte.
Ryan si sedette rigido su una delle sedie presenti attorno al tavolo in cucina e poggiò i gomiti sul banco, le mani strette l’una all’altra con forza.
“Rick, non so che fare.” sussurrò il maggiore ansioso, torcendosi le dita. “L’aeroporto è stato danneggiato e…”
“Non potrà riprendere i voli prima di un mese, lo so.” concluse per lui Castle con lo stesso tono di voce. Kevin lo guardò sorpreso. “Ho collegato la tua chiamata di ieri sera al bombardamento nel nord della città.” spiegò il colonnello. L’amico annuì con un sospiro.
“Non è più come agli inizi.” mormorò Ryan agitato, passandosi una mano tra i capelli. “Prima era molto più facile spedire qualcuno fuori da qui. Ora sta diventando sempre più difficile. Senza quel trasporto aereo, io non so come farli andare via!”
“I casi sono due.” sussurrò Rick di rimando, restando in piedi, ma appoggiandosi allo schienale di una delle sedie con gli avambracci. “O troviamo un altro modo oppure aspettiamo.”
“Aspettare ancora??” esclamò sottovoce Ryan esasperato. “Sai che dopo l’annuncio del tuo fidanzamento con Kate mi aspettavo Dreixk spuntare in ogni momento??” disse quasi in tono di rimprovero, anche se sapeva perfettamente che l’idea non era stata sua ed era stata la loro unica possibilità. “Sono tuo amico e quel bastardo è una vita che vuole affondarci. Prima ero tranquillo perché sapevo che nel giro di giorni gli Esposito sarebbero stati su quel maledetto aereo! Ora però come faccio?? Se quello stronzo arriva in casa mia non potrò proteggere né loro né mia moglie se vengono scoperti!”
“Faremo in modo che non accada!” replicò deciso Castle in un sussurro, fermando il discorso angosciato dell’amico. “Dreixk non è mai riuscito a metterci nel sacco finora. Non ci riuscirà neanche in futuro.” Kevin lo guardò con un sopracciglio alzato.
“Sai che c’è una prima volta per tutto, vero?” chiese scettico. Rick sbuffò e scosse la testa.
“Kev, da quando sei diventato così pessimista?” ribatté a metà tra il serio e l’ironico.
“Da quando Jenny è incinta!” sbottò alla fine Ryan secco. Sospirò e si passò poi stancamente una mano sul collo, gli occhi bassi, come se quell’unica confessione gli avesse tolto tutta l’energia che aveva in corpo. “Forse sono diventato più prudente o più vigliacco o più egoista, non lo so.” mormorò piano. “Ma io non voglio che succeda qualcosa a mia moglie o al mio bambino…” A quelle parole Rick gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla in segno di conforto.
“Troveremo una soluzione.” disse sottovoce, ma in modo chiaro e rassicurante. “Come abbiamo sempre fatto. Non è la prima volta che ci troviamo nei guai e non sarà neanche l’ultima. Però supereremo anche questo, vedrai. Fidati di me.” Kevin sospirò brevemente, quindi annuì. Rick gli fece un piccolo sorriso. “Ok, ora vediamo di trovare il modo di cacciare il culo di Javier fuori da casa tua.”
 
Castle e Ryan rimasero in cucina per quasi un’ora a vagliare ogni singola possibilità per portare via di nascosto gli Esposito e Beckett dalla Germania. Alla fine però, come il colonnello aveva già intuito in precedenza, la cosa più sicura che trovarono fu proprio quella di aspettare che l’aeroporto riprendesse a funzionare. Javier e la sua famiglia avrebbero dovuto avere ancora un po’ di pazienza. E Kate…
“Non c’è altra alternativa: Kate deve riprendere il suo ruolo di fidanzata.” sussurrò Kevin alla fine. Rick scosse la testa.
“Non vuole neanche vedermi.” mormorò in risposta con un tono insieme malinconico e rassegnato. “Figurarsi apparire al mio fianco come la mia fidanzata!”
“Beh, non può fare altro.” commentò il maggiore serio. “E’ la sua unica possibilità. Ora che molti sanno di lei non possiamo farla sparire. Attirerebbe troppo l’attenzione.” Castle sospirò e si passò una mano tra i capelli, nervoso. Non sarebbe stato facile convincere Kate. Per niente. E lui non avrebbe potuto biasimarla.
A un certo punto il colonnello sentì la mano di Kevin sulla sua spalla.
“Le parlerò io.” disse piano il maggiore. “Oppure dirò a Jenny di parlarle se non vorrà ascoltarmi. Ma, Rick…” lo chiamò poi. Non continuò finché Castle non si fu girato a guardarlo. “Capirà, vedrai.” Rick sospirò e annuì piano, anche se non avrebbe saputo dire se Kevin parlasse del loro piano o del fatto che le avesse nascosto della madre. Poi il maggiore guardò l’orologio. “Tra poco dobbiamo andare. Vado ad avvertire Jenny, così le spiego anche la nostra idea. Torno subito.” Il colonnello annuì di nuovo. Vide l’amico alzarsi e dirigersi fuori dalla cucina, quando all’improvviso lo colpì un pensiero.
“Kev?” lo chiamò piano un secondo prima che sparisse. Ryan si fermò e si girò, facendogli un cenno a dire che ascoltava. “Kate è riuscita a parlare con suo padre?” L’amico scosse la testa sconsolato.
“Abbiamo provato a chiamare, ma il centralino non ha voluto passare la chiamata in America.” mormorò in risposta. “Gli ho mandato un telegramma da parte di Kate. Non è il massimo, ma almeno ora conosce la sorte di sua moglie e sa che sua figlia sta bene.” Rick annuì piano, quindi Kevin si voltò e uscì dalla cucina.
Castle attese qualche secondo poi si alzò anche lui. Entrò in salone il più silenziosamente possibile e si avvicinò cauto al divano. Ricordava bene come Beckett fosse sensibile a ogni rumore. Arrivò allo schienale e si fermò. Quindi, lentamente, si affacciò oltre questo, mordendosi il labbro inferiore nervosamente. Finalmente riuscì a vederla. Kate era su un fianco con almeno tre coperte su di lei, rannicchiata in posizione fetale con le mani strette a pugno accanto al viso. I capelli, lasciati liberi, le nascondevano buona parte del volto. Rick si mosse a disagio sul posto. Avrebbe voluto vederla un’altra volta, ma allo stesso tempo non voleva che si svegliasse e lo cacciasse via. Alla fine però il desiderio fu più forte. Facendo molta attenzione, si appoggiò allo schienale del divano e si protese appena verso di lei, fino ad arrivare a scostarle lievemente i capelli dal viso. Sorrise senza neanche accorgersene. Kate era bellissima quando dormiva. Sembrava una bambina senza alcuna preoccupazione a offuscarle i sogni. Castle vide però che era più pallida di come la ricordava e con delle occhiaie scure piuttosto marcate, come se negli ultimi giorni non avesse dormito e fosse riuscita a prendere sonno solo poco prima che lui entrasse a casa Ryan. Strinse la mascella e sospirò silenziosamente, sapendo bene che era colpa sua se lei ora stava così male.
Rimase diversi minuti a osservarla, senza poterne fare a meno. Lei attirava il suo sguardo come il miele attira un’ape. Fu solo quando sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla che si ricordò che non erano soli al mondo.
“Dobbiamo andare.” sussurrò Kevin, quando voltò la testa per guardarlo. Vide che aveva uno sguardo comprensivo in volto che in qualche modo gli fece sentire di nuovo tutto il peso del suo silenzio con Beckett. Annuì solo in risposta. Si girò a dare un’ultima occhiata a Kate, quindi si spostò dal divano e seguì l’amico fuori di casa.
 
Non appena sentì la porta chiudersi, Kate aprì gli occhi. Si era svegliata quando aveva sentito Castle entrare dall’ingresso e parlare a bassa voce con Ryan. Avevano cercato di tenere il tono basso, ma qualcosa di tanto in tanto era riuscita a captarla anche lei. Avevano parlato di aeroporti, nascondigli, scappatoie e cose del genere. A un certo punto aveva sentito anche la parola fidanzamento. Era bastato quello a farle desiderare di potersi rannicchiare ancora di più sul divano, possibilmente fino a scomparire tra i cuscini. Le facevano male lo stomaco, il petto e la gola tanti erano stati i pianti e le volte che aveva rigettato il pranzo o la cena. Stava iniziando ad accettare solo in quelle ore cosa era davvero successo a sua madre e Castle che faceva? Si ripresentava in giro. Aveva bisogno ancora di tempo. Aveva bisogno di potersi alzare in piedi senza che il ricordo di sua madre le desse un pugno nello stomaco ogni volta. Aveva bisogno di ripensare a Rick come all’uomo che aveva conosciuto e non come quello che forse aveva fatto morire sua madre. Forse. Perché aveva ripensato al racconto di Ryan centinaia di volte nella sua testa negli ultimi giorni e aveva comparato il Castle che aveva conosciuto con quello che si era lanciato in un palazzo per salvare una donna. E aveva realizzato che forse, forse, era davvero come diceva Ryan. Rick non aveva ucciso sua madre. Si sentiva in colpa perché non era riuscito nella sua missione di salvare Johanna da quel soldato, certo, ma non l’aveva uccisa lui. Non era stata colpa sua.
Quando aveva sentito Castle avvicinarsi, Kate avrebbe voluto scappare, gridargli contro, mandarlo via lontano da lei. Eppure non era riuscita a muovere un muscolo. Qualcosa l’aveva trattenuta lì, immobile, ad ascoltare il suo respiro regolare sopra di lei, a sentire le sue mani calde muoversi delicate sul suo viso per scostarle i capelli, mentre il cuore le batteva a una velocità molto maggiore di quella che avrebbe dovuto avere. Quando Ryan arrivò a chiamare Castle, per un momento non seppe se ringraziarlo o maledirlo internamente. Non voleva Rick vicino, ma allo stesso tempo le mancava terribilmente, più di quanto avrebbe mai potuto ammettere.
 
Rick passò la giornata intera alla centrale, ma con la testa completamente altrove. Aspettava impaziente che arrivasse sera, in modo da poter andare a casa di Ryan e scoprire cosa ne pensavano gli altri della loro idea. Kevin gli aveva assicurato che Jenny avrebbe parlato sia con Javier e la sua famiglia, sia con Beckett, in modo che non dovessero aspettare loro per avere notizie. Non era preoccupato per gli Esposito, Castle sapeva che non sarebbero stati entusiasti delle nuove decisioni, ma si sarebbero adeguati. Quello che lo impensieriva e gli toglieva la concentrazione era Kate. Più le ore passavano e più era certo che quella sera la risposta di lei sarebbe stata di andare a quel paese. Non c’erano alternative però. Rick avrebbe lottato per farle capire che era la loro unica soluzione. Non voleva vederlo? Perfetto, sarebbe potuta rimanere in casa di Ryan oppure tornare da lui e fare come se non esistesse. A lui sarebbe andata bene qualsiasi cosa, purché lei accettasse quell’unica condizione di ‘rifidanzamento’.
Quando finalmente scese la sera e Kevin venne a recuperarlo dal suo ufficio, in cui aveva concluso poco o niente tutto il giorno, ormai il colonnello si era convinto che Beckett gli avrebbe tirato qualcosa addosso direttamente da una finestra, senza farlo neppure avvicinare alla casa. Rimase in silenzio per tutta la strada, chiuso nei suoi pensieri funesti mentre Ryan cercava invano di confortarlo con parole positive, e arrivato davanti all’appartamento del maggiore si guardò intorno nervoso, quasi temendo un attacco a sorpresa.
Una volta davanti alla porta, Kevin tirò fuori il suo mazzo di chiavi per aprire casa. Rick lo guardò perplesso, le sopracciglia aggrottate.
“Perché non suoni il campanello?” chiese, sfregandosi insieme le mani per combattere il freddo pungente che si infiltrava anche dentro i guanti. Ryan trovò la chiave e la infilò nella toppa.
“Non voglio far spaventare Jenny con una chiamata improvvisa.” rispose. Castle alzò un sopracciglio.
“Certo, perché piombare in casa senza annunciare il proprio arrivo la farà sicuramente stare più tranquilla…” commentò ironico. Il maggiore sbuffò e una nuvoletta chiara gli si formò subito davanti alla faccia.
“Voglio solo evitare di allarmarla o farle prendere dei colpi che potrebbero farle male.” replicò senza guardarlo, girando più volte la chiave finché non si sentì lo sblocco del meccanismo. Rick alzò gli occhi al cielo, ma non commentò. Era certo che la signora Ryan non avrebbe apprezzato quell’eccesso di preoccupazione del marito. “Jenny?” la chiamò Kevin, non appena ebbe aperto la porta. “Tesoro?” riprovò, mentre sia lui che il colonnello si infilavano in casa e chiudevano la porta dietro di loro.
“Ah, ma sei tu!” esclamò all’improvviso la voce di Jenny. Si voltarono, con le giacche tolte solo a metà, e videro la signora Ryan venirgli incontro dal salone a grandi passi e con uno sguardo torvo.
“Ciao, amor…” iniziò il maggiore, ma la moglie non lo fece finire.
“Non chiamarmi ‘amore’!” lo riprese lei irritata, puntandogli l’indice con forza contro petto. Rick notò che in qualche modo la gravidanza la faceva apparire più pericolosa. Kevin indietreggiò leggermente, preoccupato. “Quando hai girato la chiave nella toppa mi è preso un colpo!” esclamò ancora la donna seccata. “Si può sapere perché non hai suonato come fai sempre??” Rick si morse il labbro inferiore, cercando di non ridere, mentre intanto appendeva lentamente il giaccone all’attaccapanni.
“Ma… ehm… tesoro, non volevo…” balbettò Ryan, decisamente in difficoltà. Gettò un’occhiata a Castle in cerca di aiuto, ma, vedendolo sul punto di scoppiare a ridere e con un’aria da te l’avevo detto stampata in faccia, si limitò a lanciargli un’occhiataccia.
“Maggiore Kevin Ryan, guardami quando ti parlo!” sbottò Jenny furiosa, focalizzando di nuovo l’attenzione del marito su di lei. “Per tua informazione, ho dovuto far scappare nella loro stanza in fretta e furia Lanie, Javier e Leandro! Se tu avessi evitato di fare l’agente segreto, non avrei dovuto stancarmi per nulla del genere!! Una donna incinta non può permettersi certe emozioni, lo sai??” Ryan si fece piccolo davanti alla moglie, mentre Castle faceva finta di essere ancora impegnato a sistemare giaccone, guanti e cappello di lato, cercando insieme di non ridacchiare. Quando Jenny finì la sua tirata, si voltò irritata e se ne tornò verso il salone, sbottando che sarebbe stato il marito a spiegare ai tre Esposito la loro improvvisa e immotivata fuga.
Non appena la donna fu sparita dalla loro vista, Kevin sospirò brevemente.
“Salvate il soldato Ryan…” commentò Castle divertito, non riuscendo a trattenersi. L’amico gli lanciò un’occhiata omicida, quindi si voltò e seguì a testa bassa la moglie.
 
Quando Rick uscì dalla casa di Kevin, quella notte, era più tranquillo, ma insieme ancora nervoso. Da una parte infatti gli Esposito avevano avuto la reazione che sospettava, ovvero erano frustrati, ma propensi ad aspettare, e in più Kate non aveva detto di no alla loro proposta di rifidanzamento. Il problema però era che non aveva detto nemmeno di sì. Attraverso Lanie e Jenny, poiché lei non si era presentata, aveva risposto di aver bisogno di tempo per pensare di ritornare a essere la sua finta fidanzata. Castle aveva sperato di vederla o almeno di parlarle visto il suo non-rifiuto. Aveva auspicato di poterla convincere, ma le altre due donne gli avevano intimato di stare lontano da lei. Beckett non voleva vederlo e questo era tutto. Quando si sarebbe sentita pronta, lo avrebbe cercato lei.
Rick si strinse di più il giaccone sul collo con un lieve brivido e si calcò meglio il cappello sulla testa. Quindi si perse a osservare inquieto le piccole nuvolette di fumo bianco che gli si formavano davanti alla bocca e al naso mentre respirava. La voce che si era fidanzato era girata in fretta, più di quanto avesse pensato, e quel giorno il suo superiore lo aveva anche chiamato per fargli le congratulazioni. Per salvare le apparenze, aveva dovuto dire che la festa per il fidanzamento sarebbe stata a breve e che di certo sarebbe stato invitato. Non poteva più rimangiarsi quelle parole. Con Ryan avevano concordato di lasciar passare ancora qualche giorno, ma non di più, altrimenti sarebbe parso strano. Non potevano aspettare più di un mese o qualcuno si sarebbe insospettito e avrebbe iniziato a fare domande. E poi a quel punto, se non potevano rimandarlo, tanto valeva farlo subito e togliersi il pensiero. In fondo sarebbe stata solo una festa. Musica, balli, persone che si congraulavano… niente che non avessero già visto. Non c’era neanche da divertirsi davvero, solo intrattenere un po’ gli ospiti e fare in modo che il tutto fosse il più indolore e breve possibile. In sé sarebbe stato facile, ma era lì che nasceva il problema. Come convincere gli altri che lui e Kate erano fidanzati se la promessa sposa non si fosse presentata alla sua stessa festa?
 
“Kate, pensi di deciderti prima della fine dell’anno?” chiese Lanie ironica, entrando insieme a Jenny nella stanza segreta dove si era rifugiata la donna. Beckett si scostò dalla parete, dove c’era un minuscolo foro quasi invisibile che dava sul salone, e andò a buttarsi a peso morto sul letto a pancia in giù.
“Beh, in fondo a Capodanno manca ormai poco.” replicò Kate, borbottando contro il cuscino. Si accorse che profumava vagamente di Lanie. “Meno di un mese.” Sentì la signora Esposito fare uno sbuffo scocciato.
“Non sei spiritosa.” replicò. Beckett fece una risata sarcastica dentro il cuscino.
“Kate, so che quello che è successo è terribile,” si intromise Jenny per porre fine al battibecco tra le due. “Ma sappiamo tutte e tre che hai capito che Rick non è cattivo e che non ha davvero ucciso tua madre.” continuò decisa, ma insieme dolce. Ne avevano parlato a lungo e più ne parlavano, più anche Beckett si convinceva che l’unico capo d’accusa che restava sulla testa di Castle era averle mentito per tutto quel tempo. “So che sei ancora arrabbiata con lui, ma Rick per tutto questo tempo ha tentato, a suo modo, di proteggerti. E vuole farlo ancora. Anche se l’unica soluzione che hanno potuto trovare lui e Kevin è stata quella di recitare ancora per un po’ la parte della fidanzata…”
“Come se le venisse difficile!” commentò Lanie beffarda. Kate alzò la testa dal cuscino per guardarla male. “E’ inutile che fai quella faccia, mi ricordo benissimo come vi comportavate uno in presenza dell’altro!” continuò la signora Esposito senza minimamente scomporsi davanti alla sua occhiata omicida. “I sorrisi, le occhiate di nascosto, gli sfioramenti, la vicinanza, le battute, le prese in giro… Tutto il pacchetto completo dei perfetti innamorati era in mano vostra. E ci hai detto pure che vi siete baciati!” esclamò alla fine Lanie, felice della cosa, ma insieme quasi seccata di non aver potuto assistere all’evento. “Quindi puoi tentare di mentire a te stessa quanto vuoi, ma sai meglio di noi che riusciresti a recitare la parte della fidanzata di Castle meglio di come parli tedesco!” La donna finì la sua arringa e incrociò le braccia al petto, guardando Kate torva, come a volerla sfidare a controbattere. Su quel punto, Beckett dovette ammettere che Lanie non aveva tutti i torti. Sarebbe stato indubbiamente più difficile imparare il tedesco in un mese per tentare di andarsene da sola, piuttosto che restare fintamente fidanzata con Rick ancora per un po’ facendo la parte della russa. Non avrebbe smesso di essere arrabbiata con lui, quello no, ma di certo avrebbe avuto la vita più facile nel prossimo futuro se semplicemente avesse ripreso quella farsa. Eppure, nonostante tutto, ancora non riusciva a dire quel semplice ‘sì’ a Castle.
“Kate, tesoro, qual è il problema?” chiese Jenny amorevolmente, venendo a sedersi accanto a lei sul letto e carezzandole piano la schiena. Beckett voltò la testa per guardarla. Da quella posizione, stesa sulla pancia e abbracciata al cuscino, poteva vedere il profilo della signora Ryan perfettamente. La sua pancia era sempre più prominente e tesa. Pensò che Jenny sarebbe stata una bravissima madre.
“Non voglio vederlo.” mugugnò Kate, sapendo benissimo di sembrare quasi una bambina. “Non voglio stare di nuovo male per colpa sua. E poi non riuscirei a togliermi dalla mente la sua faccia e la sua voce quando mi ha detto che mia madre era morta. Continuo ad avere questo ricordo di lui e non sarei capace di…”
“Allora esci e crea un nuovo ricordo!” la bloccò Lanie, avvicinandosi anche lei al letto. “Se l’ultima cosa che hai in mente di Castle è quella, allora non riuscirai più a parlare con lui e lo vedrai sempre come l’uomo che ti ha nascosto di tua madre. Ma se tu ora esci e crei un nuovo ricordo di lui, allora non dico che la precedente immagine verrà spazzata via o cancellata, però potrà sbiadire fino a restare solo un qualcosa di lontano.” Kate la osservò per un momento, come spiazzata. Poi riabbassò lo sguardo e si appoggiò di nuovo al cuscino, affondando metà faccia all’interno con un sospiro smorzato. “La domanda giusta quindi ora sarebbe:” continuò poi Lanie dopo averla lasciata riflettere per qualche momento. “Vuoi andare e creare un nuovo ricordo con lui oppure vuoi rimanere qui e continuare a mantenere l’immagine negativa che hai senza nemmeno lasciarlo provare a cambiarla?”
 
Castle si mosse nervoso per il salone. Continuava costantemente a passeggiare avanti e indietro, lanciando occhiate preoccupate alla pendola ogni volta che gli passava davanti, come se questo potesse in qualche modo rallentare il tempo. Invece le lancette continuavano a scattare in avanti ogni secondo e ogni minuto, con ticchettio costante, inesorabili. Era il pomeriggio del 10 dicembre e mancava esattamente un’ora all’inizio della festa per il loro fidanzamento. Di Kate però nemmeno l’ombra.
Per giorni Kevin, Jenny, Lanie e Javier avevano provato alternativamente a convincere Beckett ad andare. Ci avevano provato perfino sua madre e la Gates. Lei però non era ancora riuscita a decidersi. Avrebbe voluto parlarle lui, ma sapeva che avrebbe solo peggiorato le cose. Ryan gli aveva assicurato che avrebbero provato a persuaderla fino all’ultimo secondo, ma l’aveva sentito meno di dieci minuti prima e ancora non avevano risolto nulla. Ormai le sue paure stavano prendendo vita. Kate doveva aver scelto di credere alle sue parole invece che a quelle di Kevin riguardo Johanna. Castle si era dato del cretino mille volte nei giorni precedenti per quella storia. Se solo non avesse detto esplicitamente ‘è colpa mia’, forse non sarebbero in quella situazione. Si sentiva in colpa per Johanna, ovvio, ma avrebbe dovuto spiegare a Kate il perché, ora lo capiva.
Rick sospirò e si passò una mano tra i capelli. Si era talmente agitato durante il giorno che, pur di non pensare a quella sera, aveva sistemato la casa e si era già preparato nella sua divisa tirata a lucido da almeno due ore. Con Ryan avevano concordato che se Kate non si fosse presentata, allora avrebbero detto che stava poco bene, ma non era quello a preoccuparlo. Era il fatto che se lei non fosse venuta, allora avrebbe voluto dire che lo odiava a un punto tale da non avere nemmeno la forza di guardarlo in faccia.
“Richard, calmati.” La voce di Martha lo fece sobbalzare. Non l’aveva sentita scendere le scale dalla sua camera al piano di sopra, dove si stava preparando. Si voltò e la vide con indosso un decorato vestito a maniche lunghe, lungo fino alle caviglie e color arancione acceso, accompagnato da una stola blu mare dall’aria piuttosto pesante che le copriva le spalle. Sorrise appena. Se c’era una donna che avrebbe saputo portare un vestito del genere con classe, quella era sua madre. “Stai consumando il pavimento a furia di camminarci sopra con tanta foga.” continuò poi Martha scuotendo la testa esasperata. Castle sbuffò, ma si fermò nella sua instancabile camminata. Non mancò comunque di lanciare un’occhiata all’orologio. Solo cinquanta minuti e gli ospiti avrebbero iniziato ad arrivare. “E smettila di guardare la pendola, ragazzo!” aggiunse l’attrice, mettendosi le mani sui fianchi come a volerlo rimproverare. “Kate arriverà, vedrai.”
“Come fai a esserne tanto sicura?” le chiese stupito e rassegnato insieme, le sopracciglia aggrottate. “Ci hai parlato meno di due giorni fa e ti ha detto lei stessa che non sa cosa decidere. E finora la cosa non è cambiata a quanto pare…” aggiunse con tono ferito. “Per cui cosa ti fa pensare che lei si presenterà stasera?”
“Perché quella ragazza prova qualcosa per te.” rispose Martha con una semplicità quasi disarmante. Rick rimase con la bocca semiaperta. “Che c’è?” chiese lei divertita. “Non dirmi che non te ne sei accorto!” Il colonnello non rispose. Ci aveva riflettuto sopra e più di una volta. Aveva ripensato agli unici due baci che si erano scambiati e non aveva potuto fare a meno di notare che lei lo aveva sempre ricambiato. E pure con una certa passione. Ma quello era avvenuto prima della sua confessione. Scosse la testa.
“Se mai avesse provato qualcosa per me, quel qualcosa è andato in fumo il giorno che le ho detto della morte di Johanna.” replicò Castle tetro. “In ogni caso,” continuò poi con tono più neutro, come se la cosa non lo riguardasse. “Ora la questione non è che cosa prova, ma quanto vuole sopravvivere a questo inferno senza farsi scoprire.”
“Ne sei certo?” domandò Martha. Rick la guardò confuso, ma la donna non spiegò la sua domanda. Anzi, all’improvviso distolse lo sguardo e si avvicinò alla mensola con sopra gli oggetti a lui più cari: la piccola Torre Eiffel della madre, la medaglia del padre, la sua targa e il ceppo di Kate. Martha li osservò uno a uno, mentre il figlio rimaneva immobile pochi passi dietro di lei, ancora perplesso. Poi l’attrice si fermò davanti alla lucida medaglia dorata e gliela indicò. “Ti sei mai chiesto perché alla fine io abbia deciso di seguire tuo padre qui?” Rick si irrigidì. Parlare del padre non era praticamente mai qualcosa di piacevole per lui.
“Sì.” rispose secco. “E più di una volta. Ma con questo dove vuoi arrivare?” chiese sbrigativo e scocciato. Aveva già abbastanza pensieri su Kate senza doversi agitare pure per il padre. Lanciò un’occhiata all’orologio: quaranta minuti e poco più ancora.
“La prima volta che mi disse che ci saremmo trasferiti qui pensai che scherzasse.” confessò Martha atona, gli occhi puntati sulla medaglia. “Venire a vivere in Germania mentre la follia e il fanatismo di Hitler crescevano non mi piaceva per niente. Soprattutto per te, perché sapevo che ci avresti seguito…” Prese un respiro profondo e allungò poi una mano per carezzare lievemente il freddo metallo. “Quando capii che Nicholas stava dicendo sul serio, per un momento lo odiai.” riprese con tono triste e lo sguardo perso a chissà quale ricordo. “Discutemmo, urlammo, minacciai di lasciarlo, cercai di essere categorica e impedirgli di fare questa assurdità. Nulla funzionò. Così alla fine gli diedi un ultimatum. O noi o il nazismo.” Castle la seguiva con la bocca semiaperta, stupito, scoprendo cose di cui lui non aveva mai saputo l’esistenza. O meglio, sapeva che i suoi avevano avuto qualche litigio, ma quello che sua madre stava descrivendo andava oltre la sua immaginazione. Dovevano aver approfittato dei momenti in cui lui non era in casa perché non si era accorto di nulla.
“Lui però scelse il nazismo.” disse qualche secondo dopo Rick, cauto e perplesso. “E tu sei rimasta con lui.” Martha fece un mezzo sorriso, lo sguardo ancora perso sulla medaglia.
“Prima di partire mi chiese di perdonarlo.” rivelò la donna piano, abbassando lo sguardo al pavimento. “Non potevo farlo con quello che stava per provocarci. Avrei dovuto odiarlo per aver deciso arbitrariamente di cambiare la nostra vita di punto in bianco. Eppure non riuscii a lasciarlo. E lo perdonai.” Ci fu un momento di silenzio, mentre entrambi erano persi nei propri pensieri.
“Perché?” domandò alla fine Castle in un sussurro. “Perché lo hai perdonato?” Finalmente Martha si voltò verso di lui. Rick notò che aveva gli occhi leggermente lucidi.
“Perché lo amavo.” rispose sicura. “Nonostante tutto, io lo amavo. Per questo lo perdonai e rimasi con lui.” Il colonnello sospirò appena e si passò una mano tra i capelli. Ovviamente sapeva che sua madre aveva amato suo padre. Non aveva mai pensato però che quella devozione avrebbe potuto portarla fino a quel punto. “Richard,” lo chiamò la madre. Lui alzò gli occhi e incrociò il suo sguardo. “Questa sera lei verrà.” disse, sorridendogli dolcemente mentre osservava la faccia sorpresa di Rick. “Fidati della tua vecchia madre.” Il colonnello si mosse a disagio sul posto, non sapendo bene cosa replicare. Martha ridacchiò appena, vedendolo così in difficoltà. “Ora però il tempo dei ricordi è finito.” aggiunse poi, tornando a un tono più vivace e schietto, molto più simile a come era di solito. “Tra meno di mezz’ora i tuoi invitati saranno qui, quindi vai a sistemarti quei capelli, Richard, o Katherine avrà un buon motivo per non presentarsi stasera!” Detto questo, sbuffò con aria teatrale e si allontanò verso la cucina, probabilmente per prendere qualcosa da bere, lasciando un attonito Castle in piedi in mezzo al salone.
 
Rick guardò nervoso la pendola del salone. Tre quarti d’ora. La festa era iniziata da tre quarti d’ora e di Kate nemmeno l’ombra. E neppure Kevin e Jenny si erano ancora fatti vivi! Sbuffò agitato e prese un bicchiere di spumante dal tavolo su cui avevano appoggiato gli alcolici. Dietro di esso sua madre la faceva da padrona. Distribuiva sorrisi scintillanti e bicchieri colmi a qualsiasi persona gli si avvicinasse. Ormai gli invitati erano quasi tutti presenti. C’erano alcuni dei suoi soldati più fidati di grado minore, ma anche diversi generali erano intervenuti. Si erano presentati anche il Colonnello Dreixk e il Generale Otto con sua moglie Meredith. In tutto erano una trentina di persone. E tutti, immancabilmente, gli avevano già chiesto almeno una volta dove fosse Kate. Perfino il suo superiore glielo aveva già domandato due volte. Tutti erano impazienti di vedere la sua fantomatica fidanzata.
Castle prese un sorso dal suo bicchiere e si guardò attorno. Il grammofono di sua madre spandeva una vivace musica che aveva portato diverse coppie a improvvisare qualche passo di danza nel salone. Per l’occasione, il colonnello aveva spostato tutti i mobili di lato in modo che ci fosse appunto uno spiazzo adatto proprio a quello. Nel resto della sala si erano formati dei piccoli gruppetti di persone, in piedi o seduti, che facevano da sottofondo alla musica con un costante chiacchiericcio, interrotto solo di tanto in tanto da qualche risata. Poteva riconoscere a colpo d’occhio gli amici di sua madre: erano i pochi uomini senza divisa. Nonostante tutto, sembravano essersi ambientati bene con gli ufficiali e i sottoufficiali, tanto che vide uno strano tipo con due baffi neri a manubrio e un frac rosso scuro parlare divertito con uno dei Generali presenti dai capelli brizzolati tagliati a spazzola, altrettanto sorridente.
Rick si passò una mano tra i capelli e lanciò un’altra occhiata all’orologio. Cinquanta minuti. Con Ryan avevano concordato che se entro un’ora dall’inizio della festa non si fossero presentati, allora avrebbero simulato una chiamata a casa per avvisare che Kate si era sentita male. Ormai mancava poco. Castle si stava già ripassando mentalmente le parole da dire, quando incrociò lo sguardo della madre. Lei gli lanciò un’occhiata come a dire ‘porta pazienza, sta arrivando’. Lui rispose scuotendo appena la testa. Non sarebbe venuta. Lo sapeva già. Non erano riusciti a convincerla. Kate doveva aver deciso di credere che lui era un assassino.
Il colonnello sospirò e bevve tutto d’un fiato il rimanente spumante. Sentì il suono del campanello della porta d’ingresso, ma Martha scattò subito per andare ad aprire, quindi non si diede pena di affrettarsi. Lasciò il bicchiere sul tavolo e si avvicinò al telefono appeso al muro. Tanto che senso avrebbe aspettare? pensò funereo. Chiamarli ora o tra cinque minuti non cambia niente. Lei non verrà, quindi meglio togliersi il pensiero subito…
Rick stava già per tirare su la cornetta del telefono, quando di colpo si accorse che qualcosa intorno a lui era cambiato. Si bloccò e tese le orecchie. Il chiacchiericcio. Che fine aveva fatto il chiacchiericcio? Si voltò e vide praticamente tutti i suoi ospiti voltati verso il corridoio d’ingresso. Si girò anche lui. E rimase senza fiato.

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Xiao! :D
Innanzitutto: BUONA PASQUA!!! :D:D Secondo: in questo giorno di tal gaiezza vogliate perdonare il mio siffatto ritardo per la consegna di codesto mio umile capitolo... (tradotto = a causa di un momento un po così non ero molto in grado di scrivere indi non sono riuscita a fare prima, sorry...)
Anyway, bando alle cavolate, spero che il capitolo vi piaccia! :) Qualcuno immagina per chi/come/cosa Rick è rimasto senza fiato? XD Lo sapremo vivendo temo... XD
Ah, prima che mi dimentichi (di nuovo), GRAZIE a chi ha messo finora questa storia tra le seguite/ricordate/preferite e che addirittura mi ha aggiunto tra gli autori da seguire e anche a chi ha recensito o anche solo letto e ancora a chi pure mi ha mandato messaggi preoccupati per sapere se e quando avrei pubblicato!! Davvero ho la stessa emozione che provo nel rivedere Always!! *____* (in pratica tanto fangirlamento e ajsnflsdkjnvlaskjfnvlaksfjvn per voi! :D (sto fuori, lo so...))
Ok la finisco e sparisco! XD Ah, un'ultima cosa: non vi piacerà molto, ma devo avvertirvi che la prossima settimana sono fuori per qualche giorno e non avrò pc, quindi prima di due settimane mi sa che purtroppo non riuscirò a publicare il nuovo capitolo... (non uccidetemi, please!!)
Al solito, tanto love per le mie due "compagne di stanza"! <3
Ok sparisco sul serio! XD
A presto e ancora buona pasqua!! :D
Lanie

ps: la piccola citazione cinematografica... era una vita che cercavo il momento buono per metterla!! XD L'avete trovata? ;)

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Capitolo 15
*** Night and Day ***


Cap.15 Night and Day
 

Rick stava già per tirare su la cornetta del telefono, quando di colpo si accorse che qualcosa intorno a lui era cambiato. Si bloccò e tese le orecchie. Il chiacchiericcio. Che fine aveva fatto il chiacchiericcio? Si voltò e vide praticamente tutti i suoi ospiti voltati verso il corridoio d’ingresso. Si girò anche lui. E rimase senza fiato.
Kate stava avanzando verso di lui. Bellissima. Era l’unica cosa che riusciva a pensare. Una qualche parte del suo cervello gli diceva di chiudere la bocca e smettere di sbavare, ma proprio non ci riusciva. Beckett indossava un lungo e aderente vestito argento a maniche lunghe, con uno scollo a V che probabilmente scendeva molto più in basso di quanto il suo cuore potesse reggere. I capelli, lasciati liberi e mossi sulle spalle, le contornavano il viso leggermente truccato. Rick si accorse che aveva dei riflessi più chiari nascosti nel castano scuro. Capì in quel momento come doveva essersi sentito quel pezzo di legno colpito dal proiettile di Kate sulla mensola: lei era la sua pallottola d’argento sparata in mezzo al petto.
All’improvviso si ricordò che non era solo in sala. Sbatté le palpebre e cercò di riprendere lucidità, mentre Beckett stava ancora avanzando verso di lui con passo sicuro. Il suo sguardo era solo per lui. Non si fermò minimamente a osservare il salone pieno. Pareva decisa. Con una strana luce negli occhi che lui non riuscì a decifrare.
Quando gli arrivò a meno di un passo, l’unico pensiero che venne in mente a Rick fu che lo avrebbe schiaffeggiato. Perché poi presentarsi a una festa per picchiarlo, era un mistero pure per lui. Anche perché Kate aveva avuto centinaia di opportunità di farlo a casa di Ryan.
Arrivata a pochi centimetri, Beckett stava ancora avanzando e non sembrava intenzionata a fermarsi. Poi, prima che Castle potesse capire che diavolo stesse succedendo, le labbra di lei furono sulle sue. Rimasero immobili per un lungo attimo. Rick ancora con gli occhi aperti, spalancati, per la sorpresa, il respiro bloccato in gola e il battito accelerato a un ritmo spropositato. Kate al contrario, da quello che lui poteva vedere, aveva gli occhi chiusi e le sopracciglia aggrottate. Il colonnello non riuscì a capire perché, ma non capiva neanche perché lei lo stesse baciando.
Dopo qualche secondo Beckett si staccò. Castle era ancora immobile, la bocca semiaperta. Kate deglutì e si morse il labbro inferiore. Aveva insieme uno sguardo preoccupato e frustrato. Però insieme c’era quella strana luce nei suoi occhi… Rick non riuscì a contenersi. Semplicemente agì d’istinto. Le passò una mano sul viso e la attirò a sé per baciarla di nuovo. Stavolta fu lei a rimanere immobile all’inizio, stupita. Mosse quasi famelico la bocca sulle sue labbra, finché lei non le schiuse con un piccolo gemito soffocato, lasciandogli la libertà di far incontrare le loro lingue. Le morse leggermente il labbro inferiore mentre sentiva le braccia di lei aggrapparsi con forza al suo collo. Poggiò la mano libera sul fianco di lei e la attirò più vicina a sé. Dire che Kate gli era mancata era un eufemismo. Aveva sperato di rivederla, magari arrivare perfino a sfiorarla o abbracciarla per far credere che erano fidanzati. Mai però avrebbe pensato di poterla di nuovo baciare e stringere in quel modo, mentre il suo profumo gli faceva perdere la testa.
Qualche secondo dopo il bacio diminuì di intensità, mentre Castle si sforzava di riprendere contatto con la realtà. All’improvviso i rumori della sala divennero forti nelle sue orecchie. Dove fino a un momento prima c’erano solo il battito furioso del suo cuore e i sospiri di Kate, ora c’erano applausi e fischi, risate, chiacchiere e musica. Con riluttanza, si staccò da Beckett, ma non la lasciò andare. Poggiò la fronte a quella di lei e strinse appena la presa sul suo fianco, mentre entrambi, poteva ben vederlo, cercavano di tornare a respirare normalmente.
“Sei venuta…” sussurrò dopo qualche secondo Rick, ancora un po’ ansante.
“Non ti ho perdonato.” mormorò lei di rimando con gli occhi ancora chiusi, in che quello che il colonnello immaginò avrebbe dovuto essere un tono duro, ma che le uscì quasi incerto per il respiro corto.
“Però sei qui.” replicò lui sempre con tono basso mentre un sorriso gli si allargava in volto. “Sei qui.” Kate riaprì gli occhi e li puntò nei suoi.
“Non…” iniziò, ma dovette prendere un respiro profondo prima di continuare. “Non credo che tu abbia ucciso mia madre.” disse poi tutto d’un fiato. “Ma ancora non ti ho perdonato per avermelo tenuto nascosto.” Rick annuì piano, mentre il sorriso si affievoliva leggermente sul suo volto.
“Grazie…” mormorò poi alla fine. Kate lo guardò interrogativa.
“Per cosa?” chiese perplessa. Lui le fece un mezzo sorriso divertito.
“Per non avermi creduto.” rispose, facendole l’occhiolino. Beckett rimase per un momento a bocca aperta. Poi però, involontario, un piccolo sorriso le spuntò prepotente sulle labbra. Castle sorrise di rimando mentre il suo cuore ricominciava a battere veloce. Quel sorriso era quanto mai di più bello avesse potuto sperare in quel momento.
 
Dopo la sorpresa iniziale, il resto della festa procedette piuttosto tranquillo. Tutti vennero a presentarsi a Kate per poi andare a congratularsi nuovamente con Rick per il gran colpo che aveva messo a segno. Lui non poté fare a meno di sorridere e annuire. Beckett era una ragazza favolosa, intelligente e dal corpo sexy. La maggior parte degli uomini in quella sala la guardava con occhio famelico, ma Castle rimase con il braccio ben saldo alla vita di lei. In quel momento almeno poteva farlo senza rischiare che Kate lo strangolasse. Non sarebbe durata per molto quella serata, e lui lo sapeva bene, quindi stava cercando di trarre il massimo conforto dalla vicinanza di lei in quelle poche ore che avevano a disposizione per la farsa. Perché in realtà non era altro che quello: una recita. Sua madre avrebbe detto che erano degli attori fantastici. Ma a lui tutto quello pareva tremendamente reale.
“Castle, finalmente ti sei deciso a mostrarci la tua bella dama!” esclamò all’improvviso una voce bassa e forte, ma anche amichevole, da dietro le sue spalle, facendolo sussultare. Una manata sulla schiena lo strappò definitivamente dai suoi pensieri. Si voltò, sempre tenendo un braccio attorno alla vita di Kate, e sorrise davanti al suo superiore, il General Maggiore Abo Zimmermann. Il soldato era almeno dieci centimetri più alto di Castle e aveva spalle enormi, tanto che molti l’avevano soprannominano ‘Il Carro Armato’ per la sua stazza e per come era solito tirare dritto nelle sue decisioni senza curarsi minimamente di nessuno. Non che qualcuno ci tenesse particolarmente a contraddirlo. Capelli con taglio militare leggermente brizzolati, braccia possenti che tiravano le cuciture di qualsiasi vestito, una gran quantità di medaglie sul suo petto: bastava la sua presenza per tenere in riga chiunque, perfino, si diceva, qualche Generale più alto in gradi di lui. Rick comunque sapeva che non c’era davvero da temere da lui. Sapeva essere severo, se la situazione lo richiedeva, ma era un uomo giusto e per questo lo rispettava.
“General Maggiore, è un piacere vederla.” dichiarò Castle con un sorriso. Poi gli indicò Kate con un cenno. “Come mi ha tanto chiesto, lei è la mia fidanzata, Katherine Ioanna Belyaeva.” Quello era il nome che Montgomery aveva scelto per lei e che avrebbe poi riportato sui suoi documenti. “Kate, lui è il mio superiore, il General Maggiore Abo Zimmermann.” Il soldato fece un sorriso enorme e le porse la mano.
“E’ un piacere conoscerla, Fraulein Belyaeva.” disse mentre stringeva saldamente la piccola mano di Beckett. Rick osservò la donna con la coda dell’occhio. Sembrava un po’ intimidita dall’enorme figura del Generale, ma era normale. Tutti rimanevano impressionati la prima volta che se lo trovavano di fronte.
“Chiami pure me Katherine, Generale.” rispose Kate con un sorriso nel suo marcato accento russo. Fino a quel momento pareva che quel piccolo stratagemma stesse funzionando. Tutti sentivano l’accento russo nella parlata tedesca, ma nessuno riusciva a scorgere quello americano nascosto sotto di esso.
“Castle, ti conviene tenerla stretta una donna del genere!” esclamò poi Zimmermann, ridacchiando allegro. “Una bellezza del genere non è cosa che si trovi tutti i giorni!” Rick sorrise e guardò Kate.
“No, ha ragione Generale.” rispose senza staccare gli occhi da quelli di lei. “Una tale bellezza non la si trova facilmente.” concluse dolcemente. Beckett lo guardò per un momento stupita, quindi arrossì appena e sorrise, abbassando lo sguardo.
Castle e Beckett scambiarono ancora qualche parola con ‘Il Carro Armato’, quindi si spostarono nella sala per continuare il giro degli ospiti. A Rick prese quasi un colpo quando uno degli invitati di sua madre iniziò a parlare russo con Kate. Stava per entrare in panico, perché non sapeva quanto in effetti lei conoscesse la lingua, ma per fortuna scoprì che le sue ansie erano vane. Senza scomporsi minimamente infatti, Beckett iniziò a chiacchierare con l’ospite in russo come se quella fosse davvero la sua lingua madre. Castle tirò un silenzioso sospiro di sollievo, quindi iniziò ad ascoltare la musicale voce di Kate in quella lingua a lui sconosciuta. Per tutta la durata della conversazione, anche se non furono più di pochi minuti, il colonnello rimase a guardarla con la bocca semiaperta e un mezzo sorriso. Cercò di non far trasparire quanto la cosa effettivamente lo inorgoglisse e lo eccitasse, come se le sue parole ignote fossero una formula magica per lui. Ma, alla fine, tutto in quella serata lo stava eccitando di lei: il suo bacio, la sua lingua russa, il suo vestito, la sua scollatura, il suo corpo da favola…
Rick scosse la testa, cercando di tornare al presente, non appena capì che Beckett e l’ospite si stavano congedando.
“Tutto bene?” gli chiese sottovoce Kate non appena furono soli, notandolo distratto.
“Sono con la donna più bella e intelligente della festa.” rispose Castle con un ghigno compiaciuto. “Come potrebbe non andare tutto bene?” La donna roteò gli occhi, ma non riuscì a nascondere il lieve rossore delle sue guance.
“Colonnello Castle!” esclamò la voce profonda di un ometto a pochi passi da loro. Rick riconobbe subito l’uomo che aveva trovato a letto con la sua ex-fidanzata anni prima. In quel momento però aveva solo voglia di abbracciarlo e ringraziarlo per avergli portato via Meredith. Il soldato si bloccò a pochi passi da loro e lanciò un’occhiata fin troppo prolungata a Kate. “Eh, ora almeno sono sicuro che non ce l’hai più con me per il nostro piccolo screzio da galli riguardo alla mia signora!” continuò divertito, ridacchiando sotto il paio di grossi baffi che gli coprivano quasi del tutto la bocca.
“Generale.” lo salutò con un cenno della testa e un mezzo sorriso Castle, facendo finta di non notare lo sguardo curioso di Kate su di lui. “Le presento la mia fidanzata, Katherine Ioanna Belyaeva.” Quindi si rivolse direttamente alla donna. “Kate, lui è il Generale Dolf Otto e…”
“E io sono sua moglie, Meredith.” si presentò all’improvviso la moglie del generale, spuntando dal nulla in mezzo a loro e passando un braccio attorno alle spalle del marito. Erano una coppia strana: lui basso e tarchiato, lei snella e alta almeno quanto Kate. Ma Castle sapeva benissimo cosa aveva portato la sua ex-fidanzata tra le braccia del generale e all’epoca di certo non era l’amore. “Abbiamo sentito molte cose su di te, Katherine...” continuò Meredith, osservando con occhio critico Kate. Se aveva mai avuto qualche speranza di riconquistare Rick, quella stava miseramente sfumando davanti ai suoi occhi.
“Ah, Meredith…” replicò Beckett cauta, sempre con il suo particolare accento. “Quindi sei tu ragazza che piantato Rick tempo fa.” aggiunse, squadrandola dalla testa ai piedi. Castle aveva raccontato a Kate qualcosa della sua storia con Meredith, ma ovviamente non poteva sapere che era la moglie di Otto finché lei non glielo aveva detto. Per questo prima non aveva capito lo scambio di battute tra colonnello e generale. “Beh, io devo ringraziare te.” continuò poi con un mezzo sorriso che a Castle parve vagamente di derisione. La sentì inoltre anche stringere la presa intorno alla sua vita. “Rick ora mio perché tu lasciato lui. Quindi grazie!”
“Non c’é di che…” replicò Meredith con un sorriso freddo. Il generale sembrò non accorgersi minimamente del repentino cambio di atteggiamento della moglie, troppo impegnato a lanciare occhiate di desiderio al banco degli alcolici da sotto gli occhialetti tondi. Salutò Castle e Beckett velocemente con un sorriso, facendogli ancora le congratulazioni, e si allontanò con una evidentemente seccata Meredith sottobraccio.
“Sbaglio o qualcuno è diventato un po’ possessivo negli ultimi minuti?” commentò Rick sottovoce all’orecchio di Kate, ridacchiando per lo sguardo sospettoso della donna verso Meredith. Beckett sbuffò e mosse la mano in un gesto che voleva dire ‘non ho idea di quello che stai parlando’.
“Non so cosa tu abbia visto, Castle.” mormorò lei in risposta con tono indifferente. “Cercavo solo di interpretare la mia parte.”
“Beh, se è così, allora posso interpretare anche io la mia parte…” replicò Rick piano con un mezzo sorriso, andando poi a lasciarle un piccolo bacio sulla guancia, non molto distante dalla bocca. Kate tenne lo sguardo basso, come se la cosa non le importasse perché era solo finzione, ma ancora una volta il rossore del suo viso la tradì. Castle sospirò piano contro i suoi capelli, aspirandone il profumo leggero. Come avrebbe fatto a stare lontano da lei una volta che la serata fosse finita?
“Davvero una bella festa, Castle.” disse all’improvviso una voce fin troppo conosciuta e odiata alle sue spalle. Rick si irrigidì, ma poi si voltò piano insieme a Kate fino a trovarsi davanti il Colonnello Dreixk con un mezzo sorriso di circostanza e un bicchiere di spumante in mano praticamente intatto. Sentì Beckett stringersi un poco di più a lui. Stavolta però non era un gesto di possessione. Era un gesto di ansia. “Devo ammetterlo, quando vuoi sai proprio come divertirti.” continuò Dreix in tono quasi sarcastico. Quindi sollevò per un momento il calice che aveva in mano verso di loro. “Un brindisi ai futuri sposi.” dichiarò, con un mezzo sorriso che sapeva più di minaccia che di congratulazioni. Portò il bicchiere alla bocca, bevendo però appena una goccia di spumante, ignorando completamente il fatto che entrambi i festeggiati non si fossero mossi di un muscolo. “Fraulein, deve perdonare la mia scortesia di qualche giorno fa…” aggiunse poi rivolto a Kate con un tono che non aveva nulla di dispiaciuto. In un gesto istintivo, Rick strinse di più il braccio attorno alla vita di Beckett e la mascella gli si contrasse al ricordo di quel bastardo a pochi centimetri dalla donna. “Ma la notizia del fidanzamento è giunta in ritardo e le voci, si sa, corrono. Siccome quindi nessuno ci aveva ancora presentati, volevo assicurarmi che tutto andasse bene dal nostro caro Colonnello Castle…” continuò con un sorriso mellifluo e sinistro. Palle! pensò Rick rabbioso, con i denti serrati e i pugni stretti. Sapevi benissimo cosa eri venuto a cercare a casa mia, figlio di puttana.
“Spero che ora sarai contento di notare che tutto va perfettamente.” si costrinse a rispondere Castle con tono piatto. Dreixk lo fissò per un momento, mentre un lampo d’odio passava da un colonnello all’altro.
“Avrò altre occasioni per aiutare un compagno d’armi...” replicò alla fine l’uomo con un mezzo sorriso per nulla rassicurante. “In ogni caso, Fraulein,” disse poi rivolto di nuovo a Kate. “Visto che nessuno vuole presentarci, io sono il Colonnello Michael Dreixk.” Si inchinò leggermente in avanti e prese una mano della donna, portandola poi vicino alla bocca per simulare un lento baciamano. Kate si mosse a disagio sul posto e Rick si irrigidì nervoso a quel gesto. Voleva quell’uomo ad almeno un miglio lontano da Beckett.
“Katherine Ioanna Belyaeva.” rispose la donna d’istinto, non sapendo che altro dire e non volendo prolungare oltre la conversazione. Dreixk a quel nome le lanciò uno sguardo strano, come un adulto che manda un’occhiata di bonario rimprovero a un bambino quando sa che sta mentendo. Solo che non c’era nulla di affettuoso nel suo sguardo. Il piccolo sorriso freddo che le rivolse diceva esattamente il contrario. Poi, con grande sollievo di Castle, Dreixk si voltò e tornò a mischiarsi agli altri invitati senza dire altro. Rick dovette costringersi a non prenderlo di peso e buttarlo fuori, ricordandosi che lo aveva invitato per salvare le apparenze con gli altri soldati presenti. Era stato in pratica un obbligo invitarlo, per pura formalità, come qualche altro colonnello e generale che, anche se li conosceva meno, aveva dovuto chiamare alla festa.
Un momento dopo essersi liberati di Dreixk, Castle e Beckett si imbatterono in uno dei soldati del colonnello, il Tenente Hans Durren. Rick lo guardò leggermente preoccupato mentre si presentava a Kate con un gran sorriso e un leggero inchino. Forse non lo ricordava, ma il giovane (poiché era di diversi anni più piccolo del colonnello) aveva già conosciuto Beckett. Anzi era stato proprio lui a portare Castle da lei il giorno in cui si erano incontrati in centrale. A Rick venne anche in mente la definizione che il tenente all’epoca aveva dato della donna: una visione. Beh, non si può dire che avesse torto, né allora né in quel momento. Kate era davvero una visione.
“Ma… noi non ci siamo già visti?” chiese all’improvviso Durren socchiudendo appena gli occhi e studiando Kate da sotto la zazzera di capelli biondi che gli ricadeva sulla fronte. Lei si mosse nervosa sul posto, deglutendo appena. Rick cercò di intervenire prima che il soldato dicesse qualcosa che avrebbe fatto saltare tutto. Anche perché ovviamente lui aveva già visto Kate: non solo l’aveva adocchiata il giorno del loro incontro, ma aveva anche fatto parte della scorta che l’aveva portata al Fidel Weltbummler, l’albergo, poi distrutto, di Alwara ed Edzard dove il colonnello aveva nascosto la donna.
“Durren, credo che tu ti stia sbagliando!” disse, cercando di assumere un tono divertito, come per canzonarlo un po’. In realtà dentro di lui fremeva. “So a che donna pensi che somigli, ma non è lei! Insomma Kate è russa, quando mai abbiamo incontrato russe noi??” aggiunse con una mezza risata. Il tenente lo guardò poco convinto. Poi i suoi occhi sgranarono appena, come se un ricordo improvviso lo avesse colpito, e tornò a guardare Kate. Rimase per un momento con la bocca semiaperta, lo sguardo fisso su di lei, stupito. Quindi aggrottò le sopracciglia e scosse la testa.
“Sicuramente è come dice lei, Colonnello.” rispose tranquillo a Castle. Insieme però gli lanciò anche un’occhiata strana, di intesa e avvertimento insieme. Dopo aver passato tanto tempo con lui, Rick capì cosa voleva dire: Durren si era ricordato dove aveva visto Kate e perché, ma avrebbe fatto finta di nulla, perché il suo superiore voleva così. Se fosse stato un altro uomo, forse Castle non si sarebbe fidato. Il tenente però era di uno dei suoi più fedeli sottoposti: era certo che avrebbe tenuto per sé la scoperta.
Rick gli fece un cenno con la testa in segno di gratitudine. Durren sorrise in risposta, un sorriso giovane e fiducioso, quindi si scusò e disse che sarebbe andato a prendere volentieri qualcosa per bagnarsi la gola dal banco degli alcolici. Il colonnello lo osservò allontanarsi, pensieroso. Era un ragazzo sveglio e buon lavoratore. Se non ci fosse stata la guerra di mezzo, sicuramente avrebbe fatto qualcosa diverso per il mondo.
Castle sentì lo sguardo ansioso di Beckett addosso.
“Non dirà nulla.” le sussurrò sicuro. Lei lo osservò ancora per un attimo, dubbiosa, quindi annuì.
“Se ti fidi, per me va bene.” replicò in risposta Kate, facendo passare uno sguardo assente al salone pieno di gente. All’improvviso ci fu un momento di silenzio nella musica che fino a quel momento aveva riempito la sala. Qualcuno si voltò attorno confuso da quella strana calma. Rick guardò verso il grammofono. Sua madre stava togliendo il disco per sostituirlo con un altro.
“Questo è un capolavoro!” la sentì dire nella quiete momentanea che si era creata. “Me lo sono fatto mandare da un’amica. Frank Sinatra in tutto il suo splendore!” Castle cercò di non alzare gli occhi al cielo. Solo Martha Castle avrebbe potuto pensare di mettere l’idolo americano del momento a una festa piena di tedeschi. Per fortuna quasi tutti gli ospiti conoscevano il particolare carattere di sua madre e probabilmente considerarono quella musica non come un’offesa al Fuhrer, al partito o alla Germania, ma solo come una sua stramberia.
Non appena il disco fu posizionato, subito una serie di trombe squillanti annunciarono l’inizio della prima canzone. Castle non la conosceva, ma, vedendo il lieve sorriso sulle labbra di Beckett, lei probabilmente invece l’aveva già sentita.
Night and Day” sussurrò Kate alla sua espressione interrogativa, mentre dopo la breve introduzione più vivace la musica rallentava leggermente e si raddolciva. “E’ uscita l’anno scorso e ha avuto molto successo. Sembra sia una delle canzoni d’amore più belle del momento…”
 
Night and day, you are the one
Only you ‘neath the moon or under the sun
 
Sentendo man mano le parole cantate dalla voce sicura di Sinatra, Rick non poté darle torto.
“Balliamo?” chiese all’improvviso, prima ancora che il suo cervello connettesse con la bocca. Kate lo guardò per un momento sorpresa. Quindi annuì, leggermente rossa in viso, e insieme si avviarono al centro del salone sgombro.
 
Whether near to me or far
It’s no matter darling, where you are
 
Il colonnello le circondò la vita con un braccio e la tirò a sé, lasciando poi la mano libera aperta, disponibile per lei. Kate la prese e l’altra la appoggiò alla sua spalla, avvicinandosi a lui. Si ritrovarono all’improvviso vicini, con il viso a pochi centimetri l’uno dall’altro mentre Frank Sinatra cantava:
 
I think of you day and night
 
 
“Secondo voi quanto di tutto questo è recitazione?” chiese Kevin a Jenny e Martha, appoggiate al bancone degli alcolici accanto a lui. Lui e l’attrice sorseggiavano spumante, la signora Ryan invece solo acqua, mentre osservavano Castle e Beckett ballare lentamente, a un ritmo tutto loro, sulle note di Sinatra.
“Cinque percento?” rispose l’attrice con un mezzo sorriso. “E solo perché effettivamente non sono fidanzati.” Parlavano in tedesco come tutti, ma a voce più bassa, in modo che nessuno degli altri ospiti li sentisse.
“Così tanto?” ribatté Jenny divertita. Martha e Kevin ridacchiarono.
“Sì forse è anche troppo.” disse la signora Castle, prendendo un piccolo sorso dal suo bicchiere. “Ma ditemi, come siete riusciti a convincerla a venire?” Ryan indicò la moglie.
“Tutto merito suo e di Lanie.” rispose con un sorriso rivolto a Jenny. “Io e Javi abbiamo provato ad avvicinarci un paio di volte, ma siamo riusciti a parlarle solo attraverso la porta. Loro invece erano con lei quando è accaduta la magia!” La signora Ryan scosse la testa con un piccolo sorriso.
“In realtà abbiamo fatto ben poco.” disse pensierosa, con gli occhi sulla mano, che neanche si era accorta di aver spostato, appoggiata al pancione. “Dopo il racconto di Kevin su come era morta sua madre, credo che in realtà avesse solo bisogno di elaborare l’accaduto. Senza contare la confessione di Rick sul fatto che fosse stata sua la colpa. Era parecchio scossa e tutt’ora penso non si ancora ripresa del tutto…” mormorò, alzando gli occhi su Beckett che ancora ballava lentamente abbracciata a Castle, nonostante il pezzo avesse preso un ritmo più energico. “Ammetto che la parte più dura, di vero e proprio scuotimento emotivo, diciamo, di Kate l’ha avuta Lanie.” continuò con un lieve sorriso. “Oh, quanto le sarebbe piaciuto vederli ora!” disse poi divertita. “Comunque,” aggiunse tornando più seria. “Le nostre parole non hanno fatto altro che accelerare la sua convinzione che Kevin diceva la verità e Rick mentiva su Johanna, almeno della parte che lo riguardava. Sono certa che Kate, ascoltando Kev, avesse già capito chi dei due aveva ragione. Era stata a lungo a contatto con Rick, sapeva com’era. Aveva solo bisogno che qualcuno glielo ricordasse.” Martha annuì e osservò anche lei suo figlio e Kate che ballavano.
“E dire che Richard sarebbe stato un consolatore perfetto in questo caso.” disse l’attrice sovrappensiero. Ryan e moglie la guardarono interrogativi. “Anche lui ha perso un genitore in modo brusco.” spiegò lentamente, la voce ferma nonostante si sentisse una nota di dolore tra le sue parole, gli occhi leggermente lucidi incollati ai due ballerini. Entrambi i coniugi notarono che la stretta sul suo calice era diventata più forte, le nocche leggermente sbiancate. “Sa come ci si sente.” Rimasero per un momento silenziosi, osservando Kate bisbigliare qualcosa a Rick, lasciando quel pensiero triste sospeso tra di loro, come sperando che la musica e il chiacchiericcio costante lo portassero via. Forse fu effettivamente così, perché quando Martha parlò di nuovo il suo tono era quello di sempre, pieno di vita. “Secondo voi cosa gli sta bisbigliando?” domandò divertita, il momento teso passato come se non fosse mai esistito.
“Se ci fosse Lanie ti risponderebbe: ‘Spero qualcosa di provocante e sexy’!” replicò Jenny, ridacchiando e portando il marito a lanciarle un’occhiata stupita. “Ma siccome sono io, ti dico che spero stiano parlando di far pace con loro stessi per lasciarsi finalmente andare l’uno con l’altra.” Martha le sorrise, mentre Kevin ancora la guardava con la bocca semiaperta, scioccato.
“Mi piaci molto, Jenny.” dichiarò all’improvviso l’attrice, sorseggiando un po’ di spumante. La donna incinta la guardò confusa. “Con tutto il male che c’è intorno a noi, tu riesci ancora a credere nel lieto fine.” spiegò dolcemente. Jenny arrossì appena e si voltò di nuovo a osservare Beckett e Castle, portandosi istintivamente una mano sul pancione.
“Sarà la gravidanza a rendermi così ottimista, forse.” rispose con un lieve sorriso. “Ma, nonostante tutto, sono certa che se c’è qualcuno che può sopravvivere a tutto il male che ci circonda, quelli sono proprio Kate e Rick.” Martha annuì lentamente e osservò il figlio bisbigliare qualcosa di rimando a Kate.
“‘Spero qualcosa di provocante e sexy’??” ripeté Ryan con gli occhi sgranati, ancora stupito delle parole della moglie. Bevve un lungo sorso di spumante per riprendersi mentre le due donne ridacchiavano, pensando che forse Jenny aveva passato un po’ troppo tempo con la signora Esposito.
 
 
Night and day, why is it so
That this longin’ for you follows wherever I go?


“Perché fanno così?” sussurrò a un certo punto Kate sul suo collo. Mentre ballavano, Rick l’aveva stretta di più a sé, contro il suo petto, e lei aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Tutto per salvare l’immagine di loro fidanzati, ovviamente.
 
In the roarin’ traffic’s boom
Silence of my lonely room
 
“Credo stiamo sparlando di noi.” mormorò di rimando il colonnello, vedendo con la coda dell’occhio Martha e i signori Ryan confabulare mentre li osservavano.
“Di chi parli?” chiese Beckett confusa.
“Di mia madre, Kevin e Jenny.” rispose piano, le labbra quasi a contatto con la fronte di lei. “Sono certo che stanno cospirando contro di noi…” continuò con un finto tono sospettoso. La sentì ridacchiare contro la sua spalla. “Tu di chi parli?” chiese poi, più serio e dolce.
 
I think of you day and night
 
“Dei soldati.” rispose con un sospiro. “Ma anche degli altri e di noi, volendo.” Castle aggrottò le sopracciglia, perplesso.
“Qual è il problema?” domandò, carezzandole lievemente con la mano la schiena. Kate rimase in silenzio e il colonnello abbassò lo sguardo per cercare di guardarla in volto. Si stava mordendo il labbro inferiore.
“Perché fanno tutti come se la guerra non esistesse?” confessò alla fine, alzando gli occhi su di lui. Erano di nuovo con il viso a pochi centimetri, ma stavolta Rick cercò di non farsi distrarre.
“In che senso?” chiese di rimando, perplesso.
“Ascolta.” rispose lei criptica. Mentre si muovevano piano intorno alla sala, Castle fece come Beckett gli aveva detto. Cercò di dimenticare la visione delle labbra di lei poco distanti dalle sue e il ritmo dolce e insieme vivace della canzone di Sinatra, per concentrarsi sulle chiacchiere intorno a loro. Un uomo, probabilmente un amico di sua madre, stava parlando di un incidente avvenuto in teatro. Un soldato si stava vantando, forse con una donna, di come l’accademia fosse dura e fatta solo per veri uomini. Riconobbe la voce di Meredith che commentava di un nuovo vestito. Qualcun altro stava discutendo di politica e di guerra, uno su come secondo lui avrebbero dovuto essere posizionate le difese intorno a Berlino per una protezione migliore, un altro sulle ultime notizie dal fronte italiano, russo e da altri paesi nel mondo. “Perché chiacchierano come se la guerra non fosse alla porta di casa?” domandò di nuovo Kate a bassa voce. “Come se non fosse altro che un gioco da bambini in cui muovere le truppe su un tavolo e dal quale ti puoi staccare quando vuoi. Moltissime persone muoiono fuori di qui ogni giorno e noi stiamo ballando e chiacchierando come se niente fosse!” sbottò Beckett, aumentando insieme la presa sulla mano di lui. Castle poteva vedere bene la rughetta di nervosismo che le si era formata in mezzo alla fronte. “Perfino ora ci sono Javier, Lanie e Leandro nascosti, e noi siamo qui a festeggiare una buffonata! Perché siamo così… così…” Sbuffò seccata perché non le veniva la parola.
“Cinici?” concluse per lei Rick, atono. Kate annuì, gli occhi puntati verso di lui come aspettando una risposta che risolvesse ogni cosa. Castle sospirò e la strinse di più a sé, tanto che la fronte di Beckett andò ad appoggiarsi alla guancia di lui.
“Da un altro paese, la guerra sembra una cosa lontana.” mormorò il colonnello con lo stesso tono piatto. Pareva quasi indifferente, ma Kate sapeva che non era così. O almeno così lui sperava. “Finché non senti gli aerei volarti sulla testa o le bombe scoppiare a solo qualche metro da te non ti preoccupi. Il dolore, le ferite, le urla, la morte stessa ti sembra una cosa talmente lontana che pensi che non ti raggiungerà mai. Però a un certo punto arriva. E tu ti ritrovi in una bolla scoppiata.” sussurrò piano, affondando il viso tra i capelli di lei. “Ti accorgi di essere rimasto a sognare ad occhi aperti per tutto quel tempo, ignorando volutamente la realtà che ti circondava. E la realtà che impari in guerra è una sola: la vita è breve quanto un lampo nella tempesta.” Sentì la mano di Kate stringersi sulla sua divisa. Il suo respiro arrivava caldo sull’orecchio di lei. “Non puoi scappare alla realtà, soprattutto quando ti viene sbattuta in faccia in modo tanto brutale. Così fai l’unica cosa possibile: ti nascondi. Ti nascondi dietro a un muro fatto di vita, dove la morte non ha spazio. Queste chiacchiere,” disse poi, volgendo lo sguardo alla sala per un momento, a indicare intorno a loro. “Questa festa, sono le uniche cose che ci tengono ancorati alla vita. A loro modo ci assicurano che tutto continua, che possiamo continuare a uscire di casa senza il timore che una bomba non ci faccia ritornare. Ci assicurano che potremo ancora ridere,” dichiarò, indicando con un cenno il General Maggiore Zimmermann che rideva di gusto con altri soldati. “Che potremo ancora avere figli,” continuò, voltandosi a osservare Kevin e Jenny, in quel momento entrambi con la mano sul pancione di lei. “Che potremo ancora innamorarci…” sussurrò poi, tornando a guardare Kate negli occhi. Rimasero per un momento a fissarsi, quindi lei abbassò lo sguardo, un po’ rossa in volto. Rick appoggiò la fronte a quella di lei e sospirò leggermente. “Quando sei in guerra, accetti qualunque cosa pur di sopravvivere.” mormorò alla fine, mentre il profumo di Beckett gli riempiva le narici. “Anche dimenticare la guerra stessa.”
Quando smisero di ballare, la canzone di Sinatra su cui avevano iniziato a muoversi era già finita da un pezzo e altre ne erano seguite senza che loro se ne accorgessero. Kate scostò il viso e rialzò gli occhi su di lui, le sopracciglia aggrottate. Pareva chiedere come fosse possibile dimenticare una cosa del genere. Rick le fece un mezzo sorriso e alzò una mano per carezzarle lievemente una guancia, lasciando che il suo pollice si muovesse piano sullo zigomo di lei.
“Ricordi quando giocavamo alle carte magiche con Leandro?” sussurrò, in modo che solo Kate sentisse. La donna annuì. “E’ la stessa cosa.” continuò dolcemente. “Giocavamo con le carte per dimenticare le bombe. Noi giochiamo con la vita per dimenticare la morte.” Beckett sospirò, ma annuì di nuovo, lasciando andare appena il capo sulla sua mano. Castle poteva sentire la pelle di lei calda e liscia sotto le dita. Quanto avrebbe voluto attirarla un poco di più a sé per confortarla e baciarla. Non si sarebbe mosso più di così però, se lei non avesse voluto.
Fu solo in quel momento che si accorsero del coro di voci intorno a loro. Si guardarono intorno come spaesati, quasi non riconoscendo per un momento i volti delle persone. Quando si ricordarono che una festa era in atto intorno a loro, la loro stessa festa, sentirono finalmente quello che quasi tutti chiedevano, anche tra i battiti di mani cadenzati che facevano da incitamento. In realtà era semplicemente una parola quella che urlavano: ‘Bacio’.
Come se la breve conversazione sussurrata che avevano avuto non ci fosse stata, Rick non poté fare a meno di ghignare allegro mentre Kate arrossiva per la richiesta.
“Posso?” mormorò con un sorriso enorme in faccia, la mano ancora fissa sul viso di lei. Beckett roteò gli occhi, ma non poté fare a meno di sorridere anche lei e annuire. Il colonnello allora portò anche l’altra mano sul viso di Kate e la attirò a sé, saltando in un attimo gli ultimi centimetri tra le loro bocche. Questa volta cercò di controllarsi e non approfondire più di tanto il bacio, poiché tutti li stavano guardando, applaudendo e fischiando attorno a loro. Non poté fare a meno però di succhiarle leggermente il labbro inferiore. Kate ricambiò il favore, mordicchiando leggermente il suo labbro e passandoci poi sopra la lingua con un lentezza tale da farlo sbuffare nel bacio. Erano quelle piccole azioni che rischiavano di fargli perdere il controllo.
 
Era mezzanotte passata quando l’ultimo ospite, il Tenente Durren, se ne andò da casa Castle. Rick lo salutò alla porta insieme a Kate, sempre accanto a lui, augurandogli la buonanotte, e poi chiuse l’ingresso con un sospiro sollevato. Ce l’avevano fatta. La loro finzione aveva retto. Un momento dopo però sentì il calore del corpo di Beckett allontanarsi dal suo fianco. Represse a stento un mugugno di delusione. Sapeva che la tregua con lei sarebbe durata solo il tempo della festa, non si era fatto illusioni. Solo che aveva sperato di avere un distacco più graduale da Kate, non un brusco allontanamento.
Beckett non disse nulla. Semplicemente si scostò da lui e tornò verso il salone, dove ancora c’erano Martha, Kevin e Jenny. Castle notò dall’andatura della donna che era stanca. In realtà l’aveva già vista trattenere un paio di sbadigli nell’ultima mezz’ora, ma in quel momento poteva vedere dal suo passo pesante e dalle spalle curve quanto effettivamente fosse provata dalla serata. Non che avesse perso bellezza, era sempre stupenda ai suoi occhi, solo che si notava molto che era spossata. La seguì e la osservò accasciarsi su una delle poltrone vicino a dove erano seduti gli altri. Martha era su un’altra poltrona mentre i coniugi Ryan si erano posizionati sul divano. Rick rimase in piedi accanto a loro.
“Beh, direi che è andata bene come festa.” disse Kevin con un sorriso, passando un braccio intorno alle spalle della moglie, rilassato.
“Mai visti due attori più reali di così, non c’è dubbio!” dichiarò Martha divertita, ammiccando ai Ryan e facendo un cenno di brindisi con il bicchiere che aveva ancora in mano a Castle e Beckett. Kate arrossì, ma non commentò, poggiando poi la testa allo schienale della poltrona, esausta. Rick si limitò a scuotere la testa con un mezzo sorriso tirato.
“Immagino che qualunque magia sia accaduta tra voi stasera sia finita…” commentò a un certo punto Jenny, con una nota triste nella voce, osservando i due falsi fidanzati.
“Non c’era nessuna magia.” sbottò Kate, gli occhi chiusi e le sopracciglia aggrottate. “Solo finzione.”
“Non mi sembrava molto finzione quella che ho visto stasera…” ghignò in risposta Ryan.
“Beh, ti sbagli!” replicò secca Beckett, alzandosi di scatto e andandosene dal salone, diretta al piano di sopra. Durante la festa, Kevin aveva detto a Castle che la donna sarebbe rimasta a dormire da lui per le notti successive. Era una mossa per salvare le apparenze con i vicini, che fino a qualche giorno prima l’avevano vista sempre presente da lui, ma anche perché oggettivamente dai Ryan non c’era posto. E l’unico altro luogo in cui poteva stare era proprio a casa del colonnello. Per questo Rick non si preoccupò quando la vide sparire di sopra, anche se avrebbe tanto voluto seguirla. Si passò una mano tra i capelli e sospirò stancamente.
“Tu zitto no, eh?” esclamò Jenny, le braccia conserte sopra la pancia sporgente, lanciando un’occhiataccia al marito.
“Ma io speravo…” cercò di dire Kevin, ma la moglie lo fermò subito alzando una mano.
“E’ troppo presto.” dichiarò categorica.  “Kate ha bisogno di più tempo.”
“Ma li hai visti anche tu questa sera…” provò di nuovo il maggiore in tono difensivo.
“Sì.” replicò Jenny pazientemente. “E ti dico che hanno bisogno di tempo! Kate e Rick hanno appena riscoperto cosa vuol dire per loro stare insieme e tu non puoi rinfacciarglielo così, quando lei pensava ancora di odiarlo!”
“Ma…”
“Ancora con questo ‘ma’??” sbottò la signora Ryan esasperata. “Kev, lo so cosa intendi,” disse poi in tono più dolce, vedendo la faccia abbattuta del marito per essere stato ripreso più volte. “Però non sono ancora pronti…”
“No, ma tranquilli.” borbottò all’improvviso Castle con un mezzo broncio e le braccia incrociate davanti al petto. “Continuate pure a parlare come se nemmeno io fossi qui.” Jenny si voltò verso di lui e lo guardò come se si fosse ricordata effettivamente solo in quel momento che Rick era presente. Scosse la testa e si alzò.
“Scusa, ma Kevin evidentemente è rimasto troppo a contatto con Javier…” commentò la donna, facendo alzare gli occhi al cielo al marito e sorridere il colonnello. Poi gli si avvicinò e si alzò sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia. “Si risolverà tutto, vedrai.” sussurrò dolcemente. Castle la guardò dubbioso, muovendosi a disagio sul posto.
“Lo pensi davvero?” chiese titubante. “Sembrava che non volesse più nemmeno avvicinarsi a me…”
“Come ho detto a Kevin, dalle tempo.” ripeté paziente Jenny. “Ora è ancora arrabbiata con te, nonostante la festa glielo abbia fatto dimenticare per un po’. Tu lascia che faccia pace con questa cosa e ricordale l’uomo che sei, quello che l’ha accolta in casa e l’ha aiutata. Non quello che le ha nascosto della madre…”
“Vedrà sempre solo quella parte di me, Jenny.” mormorò abbattuto il colonnello, abbassando lo guardo. “Non riuscirà a guardare oltre e per causa mia.”
“Rick,” lo chiamò lei dolcemente perché rialzasse gli occhi. “Kate non è cieca né stupida. Sa chi sei e ha capito perché hai fatto quello che hai fatto.” Quindi gli puntò un indice nel petto e scandì le ultime parole: “Dalle tempo.” Castle rimase pensieroso per un momento, ma alla fine annuì lentamente. Jenny gli sorrise e gli strinse appena un braccio in segno di conforto. Quindi si rivolse di nuovo a Kevin. “Passo un momento da Kate a controllare che vada tutto bene e poi andiamo, va bene?” Ryan annuì e la donna si avviò fuori dal salone.
“Uff…” sbuffò il maggiore, alzandosi a sua volta dal divano e passandosi una mano tra i capelli. “Che serata. Rimproverato da Jenny di somigliare a Javier quando lei ha decisamente avuto troppa influenza da Lanie…” borbottò, più a sé stesso che a Rick e sua madre, che ridacchiarono. “Piuttosto, Martha vuoi un passaggio a casa?”
“Non è troppo disturbo?” chiese la donna, mettendo finalmente giù il suo bicchiere appena svuotato. “Abito quasi dall’altra parte della città.”
“Non preoccuparti.” replicò con un sorriso Kevin. “Le strade sono sgombre a quest’ora per il coprifuoco, quindi non ci metteremo troppo.”
“Beh, allora grazie!” ribatté Martha grata, alzandosi in piedi anche lei. “Comunque, Richard,” disse poi rivolta al figlio. “Quella cara ragazza ha ragione.” continuò. Evidentemente aveva sentito la conversazione che aveva avuto con Jenny, nonostante fosse stata a bassa voce. “Se pensi che Kate ne valga la pena…”
“Lei ne va la pena.” disse subito Rick, senza la minima esitazione. Sua madre sorrise.
“Allora lascia che la rabbia faccia il suo corso, mostrale ancora una volta l’uomo che sei e tutto si aggiusterà.”
In quel momento tornò Jenny, assicurandogli che Kate stava bene e che aveva solo bisogno di riposare. Tutti e tre recuperarono i loro cappotti, salutarono il colonnello e uscirono. A quel punto Castle si ritrovò solo nel salone. Nonostante la stanchezza, non aveva ancora voglia di mettersi a letto, quindi iniziò a ripulire la sala: portò i bicchieri sporchi in cucina, ripose le bottiglie non finite di liquori nell’armadietto apposito e lo spumante in frigo. Decise che per mettere a posto tavoli, poltrone e divano avrebbe aspettato l’indomani, così da non disturbare Beckett.
A quel punto Castle si fermò in mezzo al salone e si diede un’occhiata in giro, soddisfatto dell’opera che aveva compiuto. Quindi sospirò e si passò una mano tra capelli mentre ripensava che il punto in cui stava in quel momento era lo stesso in cui solo qualche ora prima stava baciando Kate. All’improvviso gli sembrò che fossero passati giorni più che ore. Scosse la testa e si costrinse a relegare in un piccolo angolo della sua mente le labbra di Kate e il corpo caldo di lei contro il suo. Tempo. Aveva bisogno solo di tempo.

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Xiao! :D
Sono tornata! XD A chi voleva uccidermi nella casuale comparsa di Dreixk all'inizio posso dire di essermi salvata! XD Era proprio Kate quella che arrivava nel suo bel vestito d'argento! :) (per quello ho immaginato il vestito che Kate aveva in The Blue Butterfly, nel finale) Quello che accadrà dopo? Chi può dirlo? XD Il tempo a loro disposizione sarà sufficiente? Boh! XD
Ok, me ne vado prima che qualcuno mi tiri addosso qualcosa... XD Grazie come sempre a Katia e Sofia! <3
A presto! :D
Lanie
ps:per la canzone di Sinatra è da ringraziare Katia che mi ha fatto sentire una serie di musiche d'amore dell'epoca! :) Spero piaccia anche a voi come ha colpito me! ;)
http://www.youtube.com/watch?v=lCDXp2Zaoig

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Capitolo 16
*** Incontri inattesi ***


Cap.16 Incontri inattesi
 

Castle posò la penna e si stirò sulla sedia. Quindi lanciò un’occhiata all’orologio: ancora tre ore prima della fine del suo turno. Tre lunghe ore di noiose scartoffie chiuso nel suo ufficio. Sbuffò e si passò una mano tra i capelli. Compilare quelle carte era un lavoro che doveva fare almeno una volta a settimana, ma negli ultimi tempi, tra le continue sortite a casa Ryan per cercare di parlare con Kate e la loro festa di fidanzamento di due giorni prima, era una cosa che aveva completamente dimenticato. E ora gli veniva presentato il conto. C’erano qualcosa come due settimane di arretrati davanti a lui. Gli ci sarebbe voluta almeno anche la giornata di domani per completarle. L’unico fatto positivo era che dalla notte del 2 dicembre non c’erano stati altri bombardamenti in città, il che aveva permesso che le scartoffie degli ultimi giorni non aumentassero troppo.
Rick si alzò e si avviò alla sua caffettiera personale. Lentamente, prendendo tempo per rilassarsi qualche momento, si versò il caffè in una tazza e aggiunse latte e zucchero. Pensò che era già il terzo che prendeva, ma non gli importava molto. Era comunque certo che quella sera avrebbe dormito, a causa della stanchezza accumulata e delle notti insonne collezionate nei giorni precedenti. Ora che Kate era di nuovo nel suo appartamento, si era tranquillizzato. Sì, lei lo odiava ancora e praticamente quasi non gli parlava, ma il giorno precedente si era preso un giorno dalla centrale per restare a casa con lei. Si era svegliato presto, le aveva preparato la colazione e poi si era messo a leggere sul divano, aspettando che Beckett si svegliasse. Quando era scesa un’ora più tardi, già completamente vestita, sembrava un animale guardingo. Si era avvicinata alla colazione cautamente e non aveva visto Rick finché lui non si era alzato in piedi per salutarla. Lei allora si era mossa subito per tornare di sopra, lontano da lui, ma il colonnello era riuscito a fermarla e ad assicurarle che non si sarebbe mosso dal divano, così da lasciarla tranquilla. La stessa cosa si era ripetuta a pranzo e a cena, ma almeno la sera erano riusciti a scambiare due parole tirate prima di andare a dormire. Beh, più che altro lui aveva parlato e lei aveva ascoltato indifferente. Castle aveva capito che la donna era ancora arrabbiata con lui. Probabilmente pure imbarazzata per come si erano comportati alla festa, per aver ballato insieme, per essersi baciati come se fossero davvero fidanzati e quella fosse la cosa più normale del mondo…
Rick sospirò e lanciò un’occhiata al cortile della centrale su cui dava la finestra del suo ufficio. C’era un lieve strato di neve sul cemento. I passi nerastri di fanghiglia lasciati dai suoi uomini erano ben visibili nel bianco. Guardò il cielo: al momento era tranquillo, ma il tempo stava peggiorando. C’erano dei grandi nuvoloni grigi che parevano non attendere altro che buttare altra neve. Un lieve sorriso lo colse mentre osservava l’esterno, ripensando a quella mattina. Aveva trovato Beckett sveglia, lo sguardo puntato a una finestra, gli occhi spalancati, la bocca semiaperta in un piccolo e meravigliato sorriso. Quando lei lo aveva sorpreso a fissarla, aveva borbottato, come se avesse avuto bisogno di dare una spiegazione, che la neve le era sempre piaciuta. Castle soffiò piano sul caffè, pensieroso. Forse Jenny e sua madre avevano davvero ragione. Forse Kate aveva solo bisogno di tempo. Quella mattina infatti, lei aveva accettato di fare colazione insieme lui, anche se in silenzio.
Un movimento strano lo fece uscire dai suoi pensieri per concentrarsi sull’esterno. Aggrottò le sopracciglia, perplesso: alcuni degli uomini che stavano fumando in cortile, nonostante il freddo, erano appena rientrati frettolosamente all’interno dello stabile. Controllò i soldati ai posti di guardia e li osservò sistemarsi velocemente il giaccone o il cappello e mettersi sull’attenti. Li guardò sconcertato. Non si disponevano sull’attenti nemmeno quando passava lui! Non che non lo rispettassero o non volessero eseguire i suoi ordini, tutt’altro, ma se lo permettevano perché Rick era sempre stato piuttosto tollerante. Il colonnello sapeva bene cosa volesse dire stare per ore fermo di guardia a qualsiasi temperatura.
Castle continuò a osservare l’esterno, posando la tazza di caffè appena intaccata sulla scrivania, curioso. Non ci fu però nessun altro movimento. Anzi in quel momento tutto sembrava immobile. Stava per uscire a vedere che diavolo stesse succedendo quando bussarono alla porta.
“Avanti.” La testa di Durren fece capolino dalla porta.
“Colonnello, c’è una persona per lei.” lo informò il tenente con un accenno di nervosismo. Rick alzò le sopracciglia curioso, aspettando che il soldato continuasse. “Il General Maggiore Zimmermann.” Castle lo guardò stupito. Il suo superiore non era mai venuto a parlargli in centrale. Di solito, se doveva dirgli qualcosa, faceva andare lui nel suo ufficio nel centro di Berlino.
“Fallo passare.” disse subito. Ora capiva perché i suoi soldati si erano tanto premurati di sistemarsi. Un momento dopo, il ‘Carro Armato’ fece il suo ingresso nell’ufficio del colonnello, facendolo sembrare all’improvviso alquanto piccolo.
“General Maggiore Zimmermann.” esclamò il colonnello serio, utilizzando insieme il saluto militare. La sera della sua festa di fidanzamento non c’era stato alcun saluto che non fosse una stretta di mano, ma quella era vita privata. Fuori di essa, tutto era esercito e nell’esercito mostravi rispetto in quel modo.
“Castle.” lo salutò di rimando Zimmermann con un sorriso, facendo uno svogliato cenno con la mano per dirgli di tranquillizzarsi. “Riposo, colonnello.” aggiunse divertito. Rick sciolse la sua postura rigida e offrì una sedia al generale, ma lui la rifiutò con un cenno del capo. “Sono qui solo per una breve visita.” disse. Castle lo guardò curioso, stringendo le mano dietro la schiena e restando in piedi anche lui.
“Cosa posso fare per lei, Generale?” chiese.
“Sono passato per congratularmi ancora una volta con te, Castle, per la tua bella fidanzata!” iniziò l’uomo allegro. Rick annuì piano, cauto, non condividendo in quel momento lo stesso entusiasmo del Generale. Zimmermann non poteva essere venuto solo per quello. “Sai ho parlato con altri generali e sono rimasti tutti molo colpiti da Katherine. Gran corpo e mente brillante mi hanno detto. E’ stato un peccato riuscire a parlare con lei solo per pochi minuti.” continuò, osservando intanto la pila di fogli sulla scrivania davanti a lui. “Non parla bene, ma direi che le altre qualità ben compensano la mancanza della lingua. E poi immagino abbia anche un altro paio di qualità sotto gli strati di vestiti che conoscerai solo tu…” aggiunse malizioso, ridacchiando della sua stessa battuta. Castle si costrinse a sorridere. Non era la prima volta che il Carro Armato veniva fuori con argomenti del genere. E sembrava anche non farsi problemi nel tirarli fuori. “Ma non è per questo che sono qui.” disse alla fine, con sollievo del colonnello, prendendo una penna dalla scrivania e iniziando a rigirarsela tra le mani. “Sono qui perché vorrei invitarti insieme alla tua dama a un ricevimento.” Rick alzò le sopracciglia, sorpreso.
“Un ricevimento?” chiese stupito. Il generale annuì.
“Già, un ricevimento. Una festa insomma!” ribadì Zimmermann divertito. Quindi gli puntò la penna contro. “Una di quelle feste che possono far decidere l’andamento di una carriera, Colonnello…” aggiunse poi più serio, lanciandogli un’occhiata significativa. Castle sgranò gli occhi e rimase con la bocca semiaperta. Il suo superiore lo stava davvero invitando a uno di quei party pieni di Alti Ufficiali in cui bastavano due chiacchiere per assicurarsi un avanzamento di grado o una retrocessione?? “Vedo che ci mi hai capito, Castle.” continuò il generale divertito, vedendo la sua faccia. “So che a te non hanno mai attirato queste feste, ma dovrai fartele piacere per andare avanti…”
“Perché ora?” chiese d’impulso il colonnello, ancora sorpreso, dimenticando l’etichetta. Il generale per fortuna non ci fece caso. Semplicemente ricominciò a giocare con la penna, pensieroso.
“Diciamo che molti miei parigrado non erano convinti della tua lealtà fino a un paio di giorni fa…” dichiarò cauto. Rick aggrottò le sopracciglia confuso.
“Signore?”
“Andiamo, Castle, sai anche tu che molti dei nostri generali sono piuttosto di vecchia data!” sbottò Zimmermann all’improvviso, scuotendo la testa e sbattendo la penna di nuovo sulla scrivania. “Amano che le cose vadano in un’unica direzione. E non ha importanza quanto tu ti sia dato da fare per fare carriera. Finché non hai trovato la tua donna, Colonnello, e non ti sei accasato, per loro sei rimasto un ragazzino che gioca a fare la guerra. L’unica cosa che serve secondo loro per essere un uomo è sparare a qualcuno e prendere moglie...” Rick annuì piano. Non si era mai curato di quelle feste, non gli erano mai piaciute proprio perché piene di quei soldati arroganti e pieni di sé, per lo più vecchi che avevano già dato il loro corso nell’esercito con vecchie moglie petulanti al seguito oppure giovani gonfi di raccomandazioni e soldi, la testa piena di sogni di gloria, con al braccio invece una bella donna usata solo da sfoggiare. Castle sapeva ovviamente che prima o poi avrebbe dovuto farci i conti per passare ancora di grado, ma essendo stato nominato colonnello appena da qualche mese, di certo non si aspettava di doverci pensare così in fretta. “Beh, allora siamo d’accordo, Colonnello.” disse alla fine Zimmermann con un sorriso, come se quel suo breve scoppio non ci fosse mai stato e si fossero già accordati perfettamente. Rick annuì di nuovo. Che altro avrebbe potuto fare? “Tra due giorni a casa del General Tenente Lange. Il suo ragazzo diventa maggiorenne.”
“Certo, signore.” replicò il colonnello. “Mi premunirò di dirlo a Kate quando torno a casa. Ne sarà entusiasta.” Se solo Zimmermann fosse stato più attento, invece che auto-compiacersi per averlo invitato e avergli aperto la strada a un nuovo passaggio di grado, forse si sarebbe accorto che il tono con cui parlò Castle pareva dire esattamente il contrario delle sue parole.
“Molto bene!” esclamò allegro. “Ora è meglio che vada. Entrambi abbiamo del lavoro altamente avvincente da fare a quanto pare!” aggiunse ironico, indicando il plico di fogli ancora da compilare sulla scrivania di Castle. Neanche il Carro Armato amava le scartoffie.
“Ah, Generale, non le ho ancora chiesto come sta sua moglie.” si ricordò Rick mentre accompagnava Zimmermann fuori. La donna non era potuta venire alla sua festa di fidanzamento perché aveva appena partorito due gemelli. Erano rispettivamente il terzo e quarto figlio della coppia, a seguito di una bambina di otto anni e un altro piccolo di cinque.
“Sta bene.” replicò con un sorriso sincero Zimmermann. “Spera di venire almeno a questo ricevimento, quella testarda!” aggiunse poi ridacchiando. Rick sorrise con lui, anche se non completamente. Lo accompagnò fino al portone della centrale e lo salutò quando salì in auto. Appena la macchina di Zimmermann fu sparita, a Castle cadde completamente il sorriso. Si passò una mano tra i capelli e rimase in strada a pensare, incurante della neve e del freddo nonostante avesse indosso solo la divisa. Come diavolo avrebbe convinto Kate ad andare a un’altra festa con lui se neanche voleva parlargli?
 
Quando Castle tornò a casa, fuori si era già fatto buio nonostante fossero solo le otto di sera. Aveva voluto fermarsi un poco di più in centrale, ufficialmente per compilare scartoffie, meno ufficialmente per capire come intavolare il discorso con Beckett. Il colonnello si tolse il cappello e scrollò la testa e le spalle per togliere qualche residuo di neve. Un’ora prima erano ricominciati a scendere grossi fiocchi bianchi con un ritmo lento e costante che rapidamente aveva coperto le vecchie tracce di nevischio sporco. Mentre Rick si toglieva il giaccone, pensò che Berlino stava cominciando ad assomigliare a una cartolina natalizia. Si passò una mano tra i capelli umidi per togliere un ciuffo bagnato dalla fronte e in quel momento il suo sguardo venne attirato in basso. Guardò sorpreso le sue ciabatte poco lontano da lui. Aggrottò le sopracciglia, confuso. Era certo di averle lasciate sotto il letto come al solito. Poi capì: Kate doveva essersi accorta della neve e gli aveva preparato lì le ciabatte per evitare che bagnasse mezza casa. Sorrise senza neanche sapere perché.
Castle si cambiò le scarpe, lasciando gli scarponi umidi all’ingresso, e si avviò in salone. Trovò Beckett seduta a leggere sul divano, con una grossa coperta scura a tenerla al caldo. Quando le si avvicinò però, vide che non stava leggendo. Il libro che aveva in mano le era scivolato addosso e lei non se ne era nemmeno accorta. Si era addormentata. Rick la osservò per un momento, un lieve sorriso in volto. Questa volta non si avvicinò ulteriormente a lei. Non voleva rischiare che si svegliasse e il solo fatto di averla in casa rendeva meno prepotente il desiderio di sfiorarla. O almeno era quello che continuava a ripetersi. Dopo qualche momento si voltò e andò in cucina a preparare qualcosa. Trovò del riso e decise di farlo con un po’ di funghi e vino. Cercando di non fare rumore, tirò fuori la pentola, la riempì d’acqua e la mise a cuocere. Quindi recuperò i funghi dal frigo e iniziò a tagliuzzarli per rimpicciolirli.
Castle finì di cucinare e preparò la tavola in salone. Fece appena in tempo a mettere le ultime posate quando sentì Kate muoversi sul divano. La udì sbadigliare e qualche momento dopo i suoi passi leggeri lo raggiunsero. Solo a quel punto Rick alzò lo sguardo su di lei.
“Ben svegliata.” le disse con un sorriso dolce. Beckett lo guardò ancora un po’ assonnata. Indossava una gonna al ginocchio comoda e larga e una maglia piuttosto lunga, e altrettanto larga, che le lasciava una spalla completamente nuda. Rick si costrinse a distogliere lo sguardo prima che il suo cervello iniziasse a inviargli immagini di lui che baciava quella liscia e calda spalla. Kate si stropicciò gli occhi con una mano e finalmente sembrò riconnettersi del tutto alla realtà. “Ti conviene lavarti le mani.” affermò Castle, avviandosi in cucina per prendere la grossa ciotola in cui aveva scolato e condito il riso. Poi però si fermò, giunto ormai alla porta, e si girò di nuovo verso la donna. “A te… uhm… va bene se mangiamo insieme?” domandò quasi timoroso. Magari la colazione condivisa quel mattino era stata solo un momento di lieve perdono passeggero. Kate lo osservò per un momento, come se non capisse di che stava parlando, le sopracciglia aggrottate. Poi però sgranò gli occhi e abbassò lo sguardo sul tavolo. Annuì piano, soffocando un ultimo sbadiglio. Rick annuì di rimando ed entrò in cucina. ‘Bene,’ pensò sarcastico, prendendo la ciotola del riso. ‘Ora che stiamo facendo un passo in avanti, facciamone tre indietro!’
 
Mangiarono in silenzio, come quella mattina, solo che c’era un particolare differente: Castle sembrava non riuscire a stare fermo. Fino a un certo punto si era portato il riso alla bocca automaticamente, senza quasi neanche gustarlo, pensando a come iniziare il discorso con Beckett, mentre la sua gamba si muoveva veloce su e giù in un tic nervoso. Smise solo quando Kate gli lanciò un’occhiataccia perché stava facendo muovere tutto il tavolo. A quel punto però aveva iniziato a muovere le spalle, come a volerle sciogliere. Quindi aveva cominciato a stringere più forte la forchetta in mano di tanto in tanto. Alla fine era passato alle smorfie: senza riuscire trattenersi, aveva iniziato ad aprire la bocca più volte per parlare, richiudendola poi un momento dopo, e più di una volta aveva inspirato aria solo per gonfiare le guance, senza realmente poi dire nulla.
“Per l’amor del cielo, Castle!” esclamò a un certo punto Kate, esasperata. “Giuro che se ti muovi ancora o se fai un’altra smorfia ti uccido con la forchetta!” sbottò, minacciandolo con la suddetta posata. “Che diavolo mi devi dire??” Rick la guardò a bocca aperta.
“Come sai che devo dirti qualcosa??” chiese, stupito e insieme felice che lei gli stesse di nuovo parlando, anche se solo per avvertirlo di morte imminente. Beckett socchiuse gli occhi e gli rivolse uno sguardo omicida. “Ah, giusto…” borbottò il colonnello un momento dopo, lasciando andare finalmente la sua forchetta nel piatto e rilassando le spalle che non si era accorto di aver irrigidito. “Si notava molto?” domandò un momento dopo cauto. Un’altra occhiataccia gli fece propendere per una risposta affermativa. “Beh, ecco io…” sospirò e si passò una mano tra i capelli. “Oggi è venuto Zimmermann da me.” confessò, dopo un momento di silenzio. “Ti ricordi di lui? E’ il mio superiore, lo abbiamo incontrato l’altra sera…”
“Difficile dimenticarsi di un armadio come lui.” tagliò corto Kate. “Cosa voleva da te?” chiese poi, con una nota di curiosità e preoccupazione malamente nascoste dal tono brusco. Rick alzò le spalle e si passò una mano sul collo.
“Voleva congratularsi ancora con me per… beh, l’ottima scelta in fatto di donne.” rispose, rivolgendole un mezzo sorriso che però fu freddato all’instante da uno sbuffo seccato di Kate. “E poi voleva invitarci a un’altra festa.” ammise alla fine con un sospiro. Beckett lo guardò male, alzando un sopracciglio.
“Un’altra festa?” chiese sarcastica. “Mi sembrava fosse bastata l’ultima per provare che siamo una coppia.” disse, calcando particolarmente sull’ultima parola.
“Infatti questa non sarebbe per noi.” si affrettò a spiegare Castle. “Ci credono già alla nostra unione e l’altra sera appunto hanno avuto la prova definitiva che stiamo insieme…”
“Ma?” replicò lei in attesa.
“Ma… ecco… a me servirebbe.” confessò alla fine il colonnello, lo sguardo basso sugli ultimi chicchi di riso rimasti nel suo piatto. Ci fu un momento di silenzio.
“In che senso ti servirebbe?” domandò Beckett perplessa.
“Beh…” cominciò imbarazzato Rick, giocando con la forchetta e i chicchi di riso rimasi nel piatto. “Diciamo che fare la scalata nell’esercito non è facile.” dichiarò alla fine rassegnato. “Puoi arrivare a essere un ufficiale in breve tempo se sai distinguerti, ma per passare oltre, per diventare un Alto Ufficiale, un Generale in pratica, beh… servono le conoscenze.” Castle sospirò e mollò la forchetta nel piatto, che produsse un fastidioso rumore di metallo su ceramica.“So che detto in questo modo suona male, ma…”
“Ma per salire ancora di grado devi conoscere la gente giusta che possa mettere una buona parola, altrimenti puoi scordartelo.” riassunse sinteticamente Kate, interrompendolo. Rick annuì.
“Già.” disse con un sospiro, tornando a osservare i grani di riso che aveva accumulato in precedenza in un angolo del piatto senza accorgersene.
“Non sei appena diventato Colonnello?” domandò Beckett perplessa, le sopracciglia aggrottate. “Insomma, credevo che comunque servisse tempo per salire di grado…”
“Infatti è così.” replicò Castle. “Però devi capire che fino a quando non sei entrata nella mia vita, io non avevo mai partecipato a una di queste feste. Quindi…”
“Quindi devi recuperare il tempo perso.” lo fermò ancora una volta Kate, capendo il suo pensiero. Rick annuì di nuovo. Quindi riprese la forchetta e si rimise a giocare con il riso, guadando però la donna con la coda dell’occhio per cercare di capire quale sarebbe stato il suo responso. Dipendeva tutto da lei. “E se dicessi no?” chiese brusca Beckett senza guardarlo. Castle sentì un pugno nello stomaco. Prese un respiro profondo e si schiarì la gola.
“Niente.” rispose con tono un po’ spento. “ Resterò colonnello e continuerò a fare quello che faccio ora.” Kate annuì piano, alzando di nuovo gli occhi su di lui per osservarlo con uno sguardo strano. “Ci tieni tanto a diventare Generale?” domandò poi all’improvviso, spiazzandolo. Sembrava curiosa e non pareva avercela più di tanto con lui. Castle si concesse il lusso di tornare a respirare normalmente, senza però emettere ancora sospiri di sollievo.
“Beh,” rispose cauto. “L’esercito è stata tutta la mia vita fino a due mesi fa.” disse piano, sperando forse che lei cogliesse che il tempo rispecchiava esattamente il momento in cui si erano conosciuti. “Da quando sono in Germania ho dedicato la mia esistenza a proteggere chi non aveva la forza o la possibilità di farlo da solo. Salire ancora di grado mi aiuterebbe a fare ancora di più e con più libertà.” Un mezzo sorriso uscito dalle labbra di Kate lo sorprese.
“Non ti ho chiesto perché vuoi diventare Generale.” dichiarò con una nota di dolcezza. “Ti ho chiesto se è quello che vuoi.” Rick rimase per un momento senza parole. Avrebbe tanto voluto rispondere ‘L’unica cosa che voglio al momento sei tu’, ma non poteva. Così annuì, anche se con non troppa convinzione. Beckett sospirò e poggiò la faccia fra le mani, i gomiti sul tavolo.
“Va bene.” mugugnò alla fine tra le dita. Castle si accorse di non aver respirato fino a quel momento. Cercò di recuperare un po’ di aria per i polmoni. “Ti aiuterò. Ma le cose tra noi qui non cambiano!” aggiunse poi, tirando su la testa di scatto e guardandolo torvo. “Ti odio ancora per quello che mi hai fatto.”
“Lo sospettavo.” replicò Rick con un mezzo sorriso un po’ triste, ma sollevato.
“Bene.” ribatté lei con uno sbuffo. Quindi si alzò, sotto lo sguardo sorpreso del colonnello. “Visto che ora mi devi anche un favore enorme, io non solo ti lascio qui da solo a pulire, ma vado anche a chiamare Jenny per dirle che mi serve un altro vestito!” aggiunse seccata. “E ti avverto, se c’è da comprarlo userò i tuoi soldi!” lo minacciò alla fine, puntandogli un dito contro. Rick annuì subito, preoccupato, ma insieme divertito, e osservò Kate voltargli le spalle e dirigersi a passi decisi verso il salone. Quando fu sparita, si concesse un piccolo sorriso. Beckett gli parlava e aveva addirittura accettato di accompagnarlo a questo ricevimento come favore personale. Forse finalmente le cose sarebbero di nuovo cominciate a girare per il verso giusto.
 
“Kate, a che punto sei?” chiamò Rick dall’ingresso, lanciando un’occhiata all’orologio. Si era preparato da almeno dieci minuti e la macchina con autista che aveva noleggiato era già pronta a prelevarli davanti casa. Dopo il consenso della donna a venire alla festa con lui, Beckett si era subito messa d’accordo con Jenny per andare a prendere un vestito nuovo il giorno successivo. Secondo la signora Ryan infatti, Kate non avrebbe potuto usare lo stesso abito dell’ultima volta e lei non aveva niente da prestarle. Si erano quindi accordate per andare a cercare un abito con i soldi di Castle. Lanie c’era rimasta male quando era venuta a conoscenza della spedizione, sapendo che non avrebbe potuto parteciparvi. Quindi aveva implorato le due donne di tornare a casa Ryan con l’abito nuovo per farlo vedere anche a lei. In pratica quel vestito l’avevano già visto tutti, Gates, Kevin, Javier e Leandro compresi perché erano in casa, tranne Rick. Una volta tornata dal colonnello infatti, Beckett era stata categorica. Non gli aveva mostrato neanche il colore dell’abito, semplicemente era entrata in casa e l’aveva nascosto subito in camera sua.
Castle sbuffò annoiato, le braccia conserte al petto. Aveva ricontrollato che la divisa fosse in perfetto ordine già tre volte e aveva anche già indossato il giaccone, lasciando da infilare solo i guanti e il cappello. Kate di solito non era così lunga. Che stava facendo?
“Kate??” chiamò ancora.
“Arrivo!” rispose finalmente lei seccata. Rick sbuffò ancora e scosse la testa. Lui aspettava e lei aveva il tono seccato??
Un momento dopo i tacchi sulle scale annunciarono l’arrivo della donna. Castle alzò gli occhi, all’improvviso in fremito, curioso di vedere il vestito che aveva comprato per l’occasione. Ma quando Kate scese, vide che aveva già il cappotto, indosso e completamente abbottonato, completo di guanti e di un berretto nero e peloso che somigliava a un piccolo colbacco. Rick alzò un sopracciglio divertito al cappello. Beckett notò il suo sguardo e gli lanciò un’occhiataccia come a dire ‘Non fiatare’.
“Idea di tua madre.” borbottò lei passandogli davanti per uscire di casa. Castle alzò gli occhi al cielo. Avrebbe dovuto immaginarlo che Martha avrebbe dato un tocco personale alla loro messinscena quando le aveva detto per telefono che avrebbero partecipato a un’altra festa. All’improvviso capì chi diavolo fosse il ragazzino che era si era presentato la sera prima a casa con un pacco per Kate. Aveva pensato fosse un ultimo ritocco di Jenny, ma a quanto pareva era arrivato direttamente da sua madre.
Salirono in auto e lasciarono che l’autista guidasse per loro. La strada era abbastanza lunga dall’appartamento di Castle fino alla villa del Generale Lange e, tra la neve e il fatto che non conoscesse bene i sentieri, il colonnello aveva preferito noleggiare la macchina piuttosto che guidarla personalmente. Mentre attraversavano Berlino, Rick si ricordò che lui e Kate erano novelli fidanzati. Quindi allungò una mano e strinse leggermente quella piccola e guantata di Beckett. Lei si voltò per un momento sorpresa, ma poi un lampo di comprensione passò sul suo volto e semplicemente si avvicinò di più a Castle, quel tanto perché le loro spalle fossero completamente a contatto. A quel punto tornò a guardare fuori dal finestrino. Rick la guardò con le sopracciglia aggrottate: sembrava pensierosa e un po’ triste. Un momento dopo notò che aveva gli occhi lucidi.
“Tutto bene?” sussurrò il colonnello, stringendo appena la presa sulla mano di lei. Kate sospirò appena e annuì piano.
“Sì, è solo che…” Non completò la frase, ma non ebbe bisogno di farlo perché un’altra occhiata fuori dal finestrino gli fece capire cosa intendesse. Dove stavano passando in quel momento, la maggior parte degli edifici erano stati distrutti. Quelli ancora in piedi portavano i segni indelebili della guerra nei buchi alle pareti e nella cenere nera che sporcava la neve bianca sul terreno, trasformandola in una poltiglia scura grazie anche ai numerosi e visibili passi della gente del luogo. In quel quartiere comunque erano poche le persone che ancora giravano.
Rick si ricordò quando Beckett gli aveva chiesto come facessero a organizzare una festa anche in un momento del genere. Tornò a osservarla tristemente. Per quanto orribile potesse essere, non doveva pensarci, non doveva lasciare che quelle morti fossero un peso sul suo futuro.
Tirò leggermente la mano di Kate in modo da avvicinarla, mentre lei si voltava a guardarlo confusa. Quando fu abbastanza vicina, le accarezzò leggermente il viso con la mano libera e le lasciò un bacio sulla fronte.
“Vuoi tornare a casa?” le sussurrò piano, in modo che l’autista non sentisse. Kate alzò gli occhi lucidi su di lui, sorpresa. “Non sei costretta a venire se non te la senti.” aggiunse poi Rick dolcemente con un mezzo sorriso. “Questo spettacolo non è bello per nessuno e non posso, né voglio, chiederti di dimenticarlo. Quindi se vuoi che torniamo…”
“No.” mormorò lei in risposta, facendosi un poco più vicina, tanto che Castle sentì il suo respiro sul mento. “Questa festa ti serve e… Sì, non riesco a cancellare queste immagini dalla mia mente, ma avevi ragione tu. A volte si può solo cercare di nascondersi dalla morte dietro alla vita…” Rick sorrise e le lasciò un altro bacio sulla fronte, mentre lei si rilassava con la testa sulla sua spalla, il viso seminascosto nel suo collo.
“Va bene.” replicò piano. “Ma davvero, se qualunque cosa non ti andasse bene, tu devi solo dirmelo e torneremo subito…”
“Castle?” lo fermò lei in un sussurro.
“Sì?”
“Andrà tutto bene.” Rick sorrise e appoggiò la guancia sulla testa di lei. Non sapeva se Kate intendesse la festa, la guerra o in generale. Però volle crederle per qualunque cosa si trattasse. Sarebbe andato tutto bene. Con lei.
 
Quando arrivarono, Beckett rimase a bocca aperta. La casa del Generale era una villa enorme nella periferia Berlino. Alta due piani e con in più la mansarda ma non era quello che sbalordiva: era la lunghezza. Solo nella facciata principale al primo piano si potevano contare qualcosa come sedici finestre, che facevano parte di almeno otto grandi stanze, secondo quanto ne sapeva Castle. Molti soldati scherzavano su quella cosa, dicendo che si sarebbe potuta allestire una mostra di automobili se solo si fosse allargato un poco il corridoio.
La villa era di un bianco immacolato, con numerose finestre che nell’oscurità della sera si notavano già tutte illuminate. Intorno si estendeva un giardino perfettamente curato, coperto da un sottile strato di neve, con anche una grande piscina per pesci e diversi cespugli tagliati in modo che avessero forme particolari. Tutto il perimetro inoltre era contornato da una siepe alta quasi due metri. Pareva che la guerra lì nemmeno l’avessero mai sentita nominare. Tutto dava un’idea di benessere e prosperità. Ma Castle sapeva che tutti quei soldi spesi non derivavano interamente dallo stipendio di generale. Mentre l’autista si fermava davanti al portone, si chiese quanto di tutto quello fosse davvero sgorgato dalle tasche di Lange e quanto invece arrivasse da altrui tasche per chissà quali favori.
Il valletto all’ingresso, un ragazzino magro di nemmeno tredici anni imbacuccato in un giaccone che lo rendeva grosso il doppio del normale, aprì la portiera di Kate, mentre Rick stava già facendo il giro dell’auto per aiutarla a scendere. Notò perfettamente lo sguardo del valletto sulle gambe della sua donna, fuoriuscite per sbaglio dal cappotto lungo, ma si trattenne dal commentare o reagire, giusto perché non avrebbe saputo se tirare al ragazzino un pugno o una sculacciata. Con Beckett sottobraccio, il colonnello entrò dal grande portone in legno semiaperto in modo da fare entrare i continui ospiti e lasciare fuori il freddo. Subito all’entrata trovarono un altro valletto, questa volta un uomo più anziano, dai capelli brizzolati e il volto piuttosto rugoso, che prese in consegna i loro cappotti. Fu solo in quel momento che Rick finalmente poté vedere l’abito di Kate. E quasi rischiò di avere un infarto. Indossava un lungo vestito blu notte, più stretto in vita in modo da far risaltare le sue forme, le cui spalline si annodavano con un piccolo fiocco dietro il collo, lasciando la schiena praticamente nuda. Sul davanti si formava spontaneamente uno scollo allungato che le finiva tra i seni e sulla gonna era stato praticato uno spacco che partiva da metà coscia e faceva in modo che a ogni passo buona parte della gamba venisse fuori con naturalezza, quasi apposta per fargli perdere il respiro. Con i capelli raccolti in una crocchia sopra la testa, da cui una singola ciocca sfuggiva incorniciandole a metà il viso, e il leggero trucco che prima il colonnello non aveva notato, Beckett sembrava una di quelle donne da cinema, desiderate e impossibili da raggiungere. Ed era al suo fianco.
Rick dovette quasi farsi del male fisico per tornare alla realtà quando lei si voltò e attese il suo braccio per avanzare nel grande salone da ballo. Cercò di controllarsi, stringendo i denti e respirando a fondo. Anche perché ormai tutti sapevano che Kate era la sua fidanzata e viveva a casa sua, quindi sarebbe stato anche ovvio pensare che l’avesse già vista nuda, magari intento ad accarezzarla a letto. In pratica non doveva far trasparire che lo sfiorarla a letto sarebbe stata una cosa che avrebbe voluto fare. Doveva immaginare di averlo già fatto. Beh, se fingo che sia uno dei miei tanti sogni con Kate, pensò il colonnello deglutendo, sarà una passeggiata.
Castle le porse un braccio e i suoi occhi caddero traditori ancora una volta sul corpo di lei. Scosse la testa con forza e alzò lo sguardo al soffitto, come per ammirare le pareti color crema decorate da leggeri e sottili ghirigori più scuri lungo il contorno. Non fu sicuro, ma gli parve di sentire ridacchiare Kate accanto a lui. Un momento dopo gli fu chiesto da un altro valletto di avanzare dall’ingresso e portarsi in fila dietro ad altri soldati con relative accompagnatrici.
“Pronta?” sussurrò Rick quando furono ad meno di due persone dall’entrata al salone. “Puoi ancora tirarti indietro se vuoi…”
“Zitto e cammina, Ricky.” lo riprese lei divertita nel suo tedesco con marcato accento russo. Castle la guardò con la coda dell’occhio mentre avanzavano di un altro passo. Pareva davvero che non lo odiasse, che lo avesse perdonato per averle nascosto della madre, che non erano in quella situzione per pura necessità di sopravvivenza. Eppure sapeva che, una volta tornati nel suo appartamento, tutta quella illusione si sarebbe dissolta: Kate avrebbe ricominciato a evitarlo e a non parlargli di nuovo forse. Sarebbe diventato di nuovo evidente che lei era come una falsa-libera, una prigioniera nella sua abitazione e nel suo mondo di guerra, impossibilitata a tornare a casa. Rick sospirò e abbassò lo sguardo. Nella sua smania di proteggerla dalla verità, di non vederla soffrire, di avere la possibilità di conoscerla meglio, aveva completamente messo in secondo piano il fatto che Kate sarebbe stata costantemente in pericolo. L’aveva volontariamente messa a rischio. E se ne accorgeva davvero solo in quel momento.
Quel pensiero lo colpì come un pugno allo stomaco. Quasi non sentì Beckett che gli tirava leggermente il braccio per farlo avanzare. Alzò gli occhi su di lei e la vide scrutarlo con le sopracciglia aggrottate, una domanda nel suo sguardo: ‘Tutto bene?’ Castle si costrinse a sorriderle e annuì leggermente. Quindi prese un respiro profondo e avanzò di un altro passo. Era il loro turno di entrare in salone. Mentre un altro valletto pronunciava i loro nomi ad alta voce, il colonnello pensò che avrebbe dovuto iniziare a farsi mandare aggiornamenti dall’aeroporto. Doveva farla andare via il prima possibile. La loro copertura non avrebbe retto per sempre e comunque, con i bombardamenti casuali che si stavano verificando a opera degli inglesi, sarebbe stata sempre in pericolo. L’unica soluzione era mandarla a casa. Aveva già rimandato troppo a lungo, pensando solo a sé stesso e al suo benessere. Era tempo di pensare seriamente a quello di Kate.
 
“Castle, stai bene?” domandò all’improvviso Kate a bassa voce. Stavano ballando nel mezzo della grande sala dorata. I musicisti, che occupavano uno dei lati del salone, stavano suonando quello che pareva essere un pezzo di Mozart. Erano più di due ore che erano alla festa e Rick si sentiva sfinito. Da quando erano entrati, il suo superiore Zimmermann, già presente, aveva fatto in modo di presentarli a chiunque contasse qualcosa là dentro. Il miscuglio di persone, quasi un centinaio per quanto riguardava gli uomini, era divertente perché erano tutti soldati o del grado di Generale oppure Caporali o soldati semplici. Pochi erano quelli di grado intermedio come quello di Castle. I primi infatti erano stati invitati del padre del festeggiato, i secondi invece erano compagni di accademia del neo diciottenne o suoi diretti superiori. Rick e Kate avevano incontrato subito all’entrata il General Tenente Albwin Lange con sua moglie Rebekka e il figlio Fabian. Il Generale era un uomo alto, magro ma dall’aria forte e austera, con due sopracciglia e due baffi grigiarstri enormi a coprirgli il volto. I capelli radi e corti e la cicatrice lunga un dito orizzontale sulla sua guancia gli davano un’ulteriore aura di esperienza e severità. La moglie al contrario, alta quasi quanto il marito, era più robusta, aveva un sorriso gentile in volto e pareva abituata alle feste tanto quanto Martha Castle. Occhi neri e indifferenti lui, azzurro chiaro e curiosi lei, a vederli assieme pareva che il detto ‘gli opposti si attraggono’ avesse preso vita da loro. Il figlio sembrava una combinazione dei due: capelli neri e occhi azzurro chiaro, ben rasato, alto e slanciato, con un’aria sbruffone che gli dava un tocco affascinante e che sicuramente aveva fatto innamorare più di una donna di lui. Non appena Fabian aveva messo gli occhi su Beckett per salutarla, Castle si era ben premurato di cingerle il braccio intorno vita per tirarla contro di sé in un evidente gesto di possessione. Molto maschilista e immaturo forse, ma non avrebbe permesso che uno sbarbatello si azzardasse a guardare con quell’occhio da predatore la sua Kate.
“Sì, scusami.” rispose Rick sorridendole leggermente. “Ero sovrappensiero.” Dopo aver scambiato qualche parola con ogni generale e con tutti quelli che Zimmermann aveva ritenuto il dovere di presentargli, il colonnello aveva dovuto passare il resto della serata a tenersi incollato Beckett per evitare che uno di quei ragazzotti compagni del festeggiato, o il festeggiato stesso, si avvicinassero troppo a lei. Non che il tenersi a stretto contatto con la donna l’avesse particolarmente infastidito. Era altro a irritarlo. Ad esempio Lange Junior. Fabian infatti ci aveva provato almeno quattro volte a chiedere un ballo a Kate, ma per fortuna Castle era sempre riuscito all’ultimo ad evitare che il ragazzo finisse la frase e costringesse Beckett ad acconsentire. Alla fine, assolto ogni compito di cortesia verso i padroni di casa, aveva chiesto lui stesso alla donna di ballare per godersi semplicemente la serata solo con lei.
“Tu pensi troppo.” mormorò lei dolcemente, nascondendo il viso nel suo collo. “Qual è il problema? Fabian?” domandò, mentre il respiro caldo di lei gli solleticava il mento. Rick fece una smorfia.
“Ti prego non nominare quel ragazzino.” replicò in un sussurro disgustato. Lei ridacchiò e gli lasciò, forse involontariamente o forse solo per tenere su la loro copertura, un bacio sul collo.
“Va bene.” disse piano. “Allora a che pensi?” Castle sospirò.
“Solo che fra poco è Natale.” rispose atono. Kate alzò il viso per guardarlo perplessa.
“Non ti piace il Natale?” chiese stupita. Il colonnello negò subito la testa.
“No, no, mi piace il Natale!” ribatté con un mezzo sorriso. “Solo che…” Si fermò. Come poteva dirglielo? Solo che di avvicina la fine dell’anno e presto ti perderò? Solo che non voglio separarmi da te? Solo che devo fare tutto il possibile per farti andare via ed è l’ultima cosa che vorrei? Solo che non vorrei essermi innamorato di te così in fretta? “Solo che immagino festeggeremo tutti insieme e ci toccherà ospitare mia madre.” concluse alla fine. Kate scosse il capo divertita.
“E quale sarebbe il problema?” chiese. “Dove farla dormire? Potremmo…”
“No, non è quello che mi preoccupa.” la bloccò, anche se, pensando alle sue parole, in effetti quello sarebbe stato un altro problema. “E’ la festa.” Kate alzò un sopracciglio.
“La festa?” ripeté scettica e sarcastica. “Sarebbe questa la causa della tua inquietudine?”
“Lo dici perché non hai ancora provato le brezza di una festa con Martha Castle…” replicò il colonnello con una finta aria terrorizzata che fece ridacchiare la donna. In realtà le feste con sua madre non era così male, solo che erano sempre un po’… particolari?
“Mi sembrava che al fidanzamento fosse andata bene.” ribatté lei. Rick sospirò e affondò con fare melodrammatico il viso nel suo collo, parlandole poi all’orecchio.
“Credimi, non hai idea di quanti paletti ho messo perché tutto andasse bene… E come hai visto comunque Frank Sinatra è riuscita a infilarlo!” aggiunse con uno sbuffo contrariato. Kate rise e scosse la testa.
Ballarono ancora un po’ sul posto, ognuno immerso nei propri pensieri. Alla fine, Rick giunse una decisione. Prese un respiro profondo contro il collo di Beckett, aspirando il suo profumo, e le lasciò un bacio su di esso. La sentì rabbrividire leggermente tra le sue braccia a quel gesto.
“Questa sarà l’ultima volta.” sussurrò poi Castle.
“L’ultima volta di cosa?” chiese Kate confusa a bassa voce.
“L’ultima volta che prendiamo parte a uno di questi ricevimenti.” mormorò deciso. Beckett si staccò da lui e lo guardò perplessa, le sopracciglia aggrottate. “Sono stato un egoista a chiederti di partecipare.” continuò, guardandola negli occhi. “Dovrei tenerti al sicuro e tutto quello che ho fatto è stato metterti in bella mostra. Mi dispiace.” disse Rick alla fine, abbassando lo sguardo al pavimento. “Non ho più intenzione di metterti in pericolo a causa mia.”
“Castle, ma queste feste sono importanti per te!” sussurrò di rimando Kate in tono ansioso. “Mi hai detto tu stesso che serviranno per la tua carriera e non voglio…”
“Kate,” la bloccò Rick con un mezzo sorriso, avvicinandosi poi per lasciarle un bacio all’angolo della bocca. “Niente è più importante di te.” disse sinceramente, osservando la faccia stupita e leggermente rossa della donna. La strinse di nuovo a sé per sussurrarle all’orecchio. “Ci saranno altre feste a cui potrò andare quando tu sarai lontana da questa guerra…” A quelle parole sentì la presa di Kate stringersi sulla sua camicia. “Fino ad allora potrò farne a meno.” Zimmermann gli aveva parlato di almeno un altro paio di ricevimenti, che si sarebbero tenuti entro la fine di gennaio, con cui avrebbe potuto ampliare il suo giro di conoscenze, ma le avrebbe saltate. Dopo la partenza di Kate forse se ne sarebbe potuto riparlare. 
“Sei sicuro?” chiese Beckett dubbiosa sul suo collo. Castle sorrise e annuì.
“E poi,” aggiunse il colonnello divertito, dopo qualche secondo di silenzio. “In questo modo non rischio che un ragazzino ti porti via da me!” Kate ridacchiò e appoggiò la fronte contro la guancia di lui. Rick non ne fu tanto sicuro, ma gli sembrò di sentire la donna mormorare: ‘Ho qualche dubbio che possa accadere…
 
La mattina dopo la festa, Castle se la prese comoda ad arrivare in centrale. Buona parte della sera e della notte l’avevano persa a casa del Generale e non erano riusciti a scappare prima delle due, riuscendo a tornare al loro appartamento solo tre quarti d’ora più tardi. Il colonnello aveva ringraziato il fatto di aver assunto un autista: tra la stanchezza e l’alcool non sarebbe riuscito a tirarsi fuori da quelle stradine buie che si diramavano dalla villa dei Lange fino alla città.
Rick attraversò quasi senza farci caso la grande hall della casermetta fino al suo ufficio al piano di sopra. Vide solo di sfuggita le tre o quattro persone già pronte nel corridoio ad attenderlo. Le superò senza fermarsi, aprì la porta dell’ufficio e ci si chiuse dentro. Con calma si liberò dei guanti e del giaccone, buttando poi il cappello sulla scrivania. Quindi andò direttamente a prepararsi un caffè. Non aveva voluto svegliare Kate quella mattina, così era uscito, lasciandole in cucina un biglietto con su scritta la sua destinazione, senza fare colazione per non tardare. In fondo la serata non era andata male, non contando tutti quelli che ci avevano provato più o meno spudoratamente con Beckett. E poi una volta a casa, lei gli aveva addirittura dato la buonanotte. Non aveva fatto come negli ultimi giorni, non si era di nuovo trincerata dietro il mutismo non appena rimesso piede nell’appartamento. Forse era stata la stanchezza. Nonostante quel pensiero, Rick non riuscì a frenare un lieve sorriso.
Un bussare improvviso alla porta lo fece voltare, la tazza di caffè a metà strada dalla bocca. Diede il permesso di entrare e Durren spuntò da dietro la porta.
“Mi scusi, Colonnello.” disse il tenente. “Ci sono delle persone per lei. Chiedono quando è intenzionato a riceverli.” aggiunse con tono contrariato. Evidentemente quella mancanza di pazienza esasperava il suo stesso sottoposto. Castle sospirò stancamente e si passò la mano libera tra i capelli.
“Dammi un minuto e fai entrare il primo.” replicò. Durren annuì e sparì di nuovo dietro la porta. A quel punto Rick andò lentamente a sedersi alla sua scrivania, sorseggiando piano il caffè caldo. Lanciò un’occhiata all’orologio: le nove e mezza. Era il caso di cominciare.
Fece appena in tempo a passarsi una mano sugli occhi per togliere un po’ di stanchezza che di nuovo bussarono alla porta. Fece entrare e osservò curiosamente l’uomo che varcò la soglia del suo ufficio. Era alto e robusto, stranamente rigido nella postura e con un cappello grigio chiaro in testa dal bordo largo che oscurava buona parte del volto. Se lo tolse non appena chiuse la porta. Castle aggrottò le sopracciglia. L’uomo aveva i capelli neri non troppo corti, come se non li tagliasse da almeno un paio di mesi, e occhi altrettanto scuri. Doveva avere poco più di trent’anni, ma le rughe già piuttosto marcate intorno agli occhi lo facevano sembrare più vecchio.
Rick lo squadrò da capo a piedi: non pareva essere lì per chiedere di un parente o di un amico morto. Era serio, ma non di quel tipo di serietà dato dalla disperazione o dall’ansia. Conosceva bene quei sintomi e nessuno dei due calzava al nuovo venuto. Sembrava solo guardingo.
“Colonnello Richard Castle?” chiese l’uomo. Rick annuì piano, altrettanto prudente.
“In persona.” rispose quasi astioso. “Io però non credo di conoscerla…”
“Infatti non mi conosce.” replicò l’uomo, avvicinandosi poi alla scrivania e porgendogli la mano. “Tom Jones.” Castle alzò un sopracciglio. Un nome più comune, no? pensò sarcastico. Perché non John Smith a questo punto? Dopo un momento di indecisione, si alzò e gli strinse la mano. Si accorse in un secondo momento che, nonostante il nome inglese, l’uomo aveva parlato in un tedesco perfetto. Incuriosito, il colonnello gli fece cenno di prendere posto sulla sedia davanti alla scrivania.
“Tom Jones…” ripeté piano, ironico, studiandolo. Se anche l’uomo ebbe una qualche reazione, non la diede a vedere. “Cosa posso fare per lei?”
“Potrebbe ricordarsi da dove viene.” rispose quello criptico. Castle aggrottò le sopracciglia.
“So da dove vengo.” ribatté duro.
“Ne è sicuro?” chiese Jones con un sorrisetto divertito. Rick sbuffò contrariato.
“Le conviene dirmi che vuole oppure la farò sbattere fuori di qui all’istante.” rispose seccato. L’uomo annuì piano. Quindi prese un respiro profondo.
“Sono qui per conto del mio paese.” disse abbassando il tono di voce. “Il nostro paese.” Rick drizzò le orecchie e il cuore prese all’improvviso a martellargli più forte. Non poteva… non poteva essere… no, non era possibile.
“Non è più il mio paese, dovrebbe saperlo se è venuto a cercare me.” replicò alla fine, scostando lo sguardo e tentando di nascondere il tono scoraggiato. Da quanto suo padre aveva voltato le spalle all’America e si era schierato dalla parte della Germania, per lui e sua madre non c’era stato più spazio in quel paese.
Jones lo guardò socchiudendo gli occhi.
“Lei è il figlio di Nicholas Castle, giusto?” chiese. “Il Generale Castle dell’esercito americano che ha ricevuto una medaglia al valore nella Grande Guerra.” Rick lo osservò a lungo, indeciso se mandarlo a quel paese o assecondarlo.
“Sì.” rispose alla fine in tono duro. “Ma al vostro quartier generale forse è sfuggito che ha cambiato bandiera anni fa.” Jones lo guardò in modo strano, come se fosse curioso e insieme stesse cercando di capire se il colonnello lo stesse predendo in giro. Uno sguardo che stava facendo decisamente irritare Castle.
“Esattamente cosa sa di suo padre?” Rick lo guardò come fosse pazzo.
“Sta scherzando, vero?” domandò ironico e insieme furioso. Ma chi diavolo era quello per fargli domande su suo padre?? E che cavolo voleva da lui??
“Lei davvero non sa chi era il Generale Castle?” domandò ancora l’uomo sorpreso.
“La smetta di chiamarlo così!!” ribatté Rick furibondo, sbattendo le mani sul tavolo e alzandosi di scatto. “Io non so chi diavolo è lei…” aggiunse poi in un sussurro minaccioso. “Ma non ha alcun diritto a venire qui e chiedermi di mio padre per prendermi per il culo. Se ne vada ora o la sbatterò fuori a calci io stesso.” Jones si alzò lentamente, senza essere spaventato, ma cauto, come se si muovesse davanti a una belva feroce. Quindi, sempre con calma, tirò fuori un biglietto scarabocchiato da una tasca e lo poggiò davanti a lui sulla scrivania.
“Quando avrà voglia di ascoltarmi o sapere qualcosa in più su suo padre, questo è il numero al quale cercarmi.” disse. “Ci pensi.” Quindi si voltò, si rimise il cappello e uscì. Castle aveva ancora le mani poggiate con forza alla scrivania, la mascella serrata, il corpo un fascio di nervi. Respirò a fondo per calmarsi per almeno un paio di minuti, quindi si risedette con un tonfo secco. Nervoso, recuperò il foglietto lasciato da Jones con il solo intento di stracciarlo. Qualcosa però lo fermò dal compiere quel gesto. Sbuffò e si mandò al diavolo da solo. Ma si infilò il foglietto in tasca.

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Xiao! :)
Che dire, forse Rick e Kate si stanno finalmente riavvicinando... ma invece chi sarà questo Tom Jones? Cosa conosce del padre di Rick che nemmeno lui sa? Sono aperte le scommesse! XD
Oggi angolo corto che sono ancora sconvolta dalla season finale... seriamente sconvolta... ammetto che mi sono divertita a vedere i loro guai ma la fine... Dico solo che credo di avere abbastanza fantasia da progettare una morte lenta e dolorosa per tutti sti qui... -.-
Un'ultima cosa: alle fantastiche ragazze che ho incontrato un paio di giorni fa, so che avevo promesso di pubblicare ieri sera, ma la connessione ha deciso d abbandonarmi poco prima che lo facessi.... -.-
Ok sparisco! A presto!
Lanie

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Capitolo 17
*** Lettera dal passato ***


Cap.17 Lettera dal passato
 

Castle rientrò al suo appartamento verso metà pomeriggio. L’incontro con quel tale, Tom Jones, che aveva detto di sapere qualcosa su suo padre più di quanto non ne sapesse lui, l’aveva lasciato distratto e inquieto per tutti il giorno. Era riuscito a compilare meno della metà delle scartoffie che avrebbe dovuto e aveva parlato con tono irritato a tutti, nonostante soldati e visitatori non fossero in alcun modo partecipi di quello che lo stava sconvolgendo. Alla fine aveva abbandonato del tutto il suo lavoro, consapevole di non essere in grado di andare avanti oltre, e se ne era tornato a casa.
Rick si tolse il giaccone con gesti secchi e lo appese con altrettanta violenza all’attaccapanni, fregandosene del lieve nevischio che stava spargendo ovunque. Il cappello e i guanti furono solo fortunati a non essere lanciati dall’altra parte del corridoio. Voltandosi, ancora una volta il colonnello trovò le sue ciabatte ad attenderlo poco più in là dell’ingresso. Fu quel piccolo segno che riuscì a fare breccia nel suo malumore. Sospirò e si passò le mani sulla faccia e tra i capelli. Come era possibile che quel tipo sapesse più di lui su suo padre? Nicholas Castle era stato un eroe, sì, ma poi era diventato un nazista. Aveva voltato le spalle all’America e si era trascinato suo figlio e sua moglie in mezzo a una guerra, per poi morire come un cane in mezzo a una strada con una pallottola in corpo. Questo era tutto quello che c’era da sapere su suo padre. E Rick quelle cose le conosceva bene.
“Sei già tornato?” La voce sorpresa di Kate gli fece alzare gli occhi spaesato, come se per un attimo avesse dimenticato dove si trovava. Doveva avere una faccia strana perché lo sguardo della donna, dopo una breve occhiata, diventò subito preoccupato. “Castle, che hai?” chiese ansiosa, avvicinandosi di un passo a lui. La voce e la presenza di Beckett furono meglio di un qualsiasi calmante. Il colonnello iniziò a prendere respiri profondi e chiuse gli occhi, aggrottando le sopracciglia mentre cercava di mettere ordine nella sua stessa confusione mentale. “Castle?” tentò di nuovo Kate con tono più dolce, anche se ancora inquieto. Un momento dopo Rick sentì la piccola e calda mano di lei posarsi con cautela sul suo braccio. Alla fine riaprì gli occhi. Beckett era davanti a lui, il viso a non più di venti centimetri dal suo, con gli occhi verde-nocciola che lo scrutavano come in cerca di una qualsiasi ferita esteriore o interiore.
“Ti è mai capitato di essere convinta di qualcosa,” iniziò Castle in un sussurro. “Completamente convinta, e poi arriva qualcuno che mette in dubbio un particolare e ogni tua certezza crolla? Senza un motivo.” continuò, distogliendo lo sguardo dagli occhi di lei e spostandolo sui piccoli e quasi invisibili ghirigori della camicia che indossava. “Non sai nemmeno se il dubbio può essere legittimo. Però, per quanto cerchi di dimenticarlo o accantonarlo, quel piccolo e insignificante dubbio diventa un tarlo che rode tutto fino alle fondamenta. Riesci a sentire perfino lo scricchiolio del tuo mondo che sta per precipitare e non puoi fare nulla per fermarlo…”
“Rick.” lo chiamò Kate piano perché lui alzasse di nuovo lo sguardo. “Che è successo?” Castle rimase per un momento silenzioso, le sopracciglia aggrottate, le labbra socchiuse, mentre pensava a cosa risponderle.
“Stamattina è arrivato un uomo.” confessò alla fine con un lieve sospiro. “Credo fosse venuto a chiedermi aiuto, ma poi ha… ha iniziato a parlare di mio padre.” continuò, mentre all’improvviso sentiva iniziare a formarsi un groppo in gola. Kate sgranò gli occhi, ben consapevole dell’effetto che quell’argomento poteva creargli. Rick si passò una mano sulla faccia e prese un respiro profondo. “Diceva che mio padre non era l’uomo che avevo conosciuto.” riassunse in poche parole, tornando a guardarla ansioso, come alla ricerca di una risposta che lei non poteva dargli. Poi sbuffò e fece un mezzo sorriso ironico. “Ti rendi conto? Continuava a parlare del ‘Generale Castle’ come se non fosse mai cambiato e non avesse mai smesso di essere americano…” A quelle parole, Kate aggrottò le sopracciglia e spostò lo sguardo verso il pavimento. Pareva stesse cercando di riportare alla mente un ricordo. Lui la guardò confuso per quel repentino cambiamento.
“Forse so di che stava parlando…” mormorò alla fine la donna a bassa voce. Fu il turno del colonnello sgranare gli occhi.
“Che stai dicendo??” chiese quasi senza fiato, incredulo.
“Ricordi che ti avevo parlato di essere andata in soffitta tempo fa?” domandò Kate. “Prima di…” si fermò per un momento, incerta e all’improvviso con uno sguardo duro. “Prima che Kevin chiamasse qui per riferire che gli Esposito avrebbero avuto un passaggio in aereo.” concluse velocemente e con tono piatto. Rick annuì piano. Capì perché Beckett si era bloccata: quella telefonata era avvenuta giusto poco prima che lui le rivelasse di averle nascosto la sorte della madre.
Castle aggrottò le sopracciglia. Ora che glielo stava facendo notare, ricordava vagamente Kate che gli diceva di essere stata in soffitta e di aver trovato qualcosa. Proprio in quel momento la telefonata l’aveva interrotta.
“Sì.” rispose lentamente. “Mi avevi detto di aver ritrovato un baule, mi sembra, con dentro qualcosa...” ricordò. Beckett annuì.
“C’erano diverse cose.” replicò lei. “Diverse foto, qualche oggetto e quello che avevo scambiato per un libro. Quando l’ho preso in mano e l’ho aperto però, ho capito che non era un libro, ma un diario. Il diario di tuo padre.” Rick la osservò per un momento in un misto di eccitazione e ansia.
“Come fai a sapere che è proprio il suo diario?” chiese, cercando di trattenere il fremito della sua voce. Kate esitò per un secondo.
“C’è una lettera per te dentro.” rispose alla fine, lo sguardo un po’ triste. “Non l’ho letta tutta!” esclamò poi subito, preoccupata forse che lui si potesse arrabbiare per quella invasione nella vita sua e del padre. “Solo le prime righe. Quando ho capito che parlava a te, ho smesso. Poi ho sfogliato il diario e ho visto che la scrittura era la stessa, così ho capito che era suo.” spiegò piano. “Volevo dirtelo, ma poi…” Castle annuì prima ancora che finisse di parlare.
“Poi hai avuto altro da pensare.” concluse per lei, un sorriso triste e colpevole in volto. Ancora una volta però non riuscì a contenere l’eccitazione. Lasciò passare qualche secondo, spostando il peso da un piede all’altro senza sosta. “Non è che puoi dirmi dov’è?” le chiese quindi, cercando di trattenere quell’adrenalina che gli stava attraversando il corpo. Se non avesse avuto i pugni chiusi era certo che le sue mano avrebbero tremato. Una lettera per lui? Suo padre aveva lasciato una lettera per lui?? Non voleva leggerla, ma allo stesso tempo una forza interna gli premeva perché trovasse subito quel foglio e vedesse che c’era scritto.
Kate lo portò al piano di sopra e fece scendere la scaletta nascosta dalla botola del soffitto in modo da salire nel solaio. Una volta dentro, Castle si guardò intorno curioso, tenendo basso il capo per evitare di prendere una testata su qualche trave. Erano anni che non saliva lassù. La polvere accumulata e le ragnatele ne era un chiaro esempio. Cercò di fare attenzione a dove metteva i piedi visto che il solaio era piuttosto buio. L’unica luce proveniva da una finestrella installata nel tetto spiovente, completamente impolverata e con anche un sottile strato di neve alla base. Quando i suoi occhi si abituarono alla scarsa luce, Rick notò che la soffitta non era molto ingombra come la ricordava. C’erano un paio di mobili lasciati dal vecchio proprietario della casa e alcuni scatoloni che si era portato dietro dall’America o che gli aveva dato sua madre. Il grosso baule marrone scuro che Kate gli stava indicando glielo aveva appunto dato Martha. Era l’unica cosa che aveva in casa di suo padre, a parte la medaglia al piano di sotto, e non l’aveva mai aperto. Non ne aveva mai sentito la necessità. Fino a quel momento. Stavolta la voglia di avere risposte sul padre era troppa per essere sopita dalla rabbia verso Nicholas Castle.
Il colonnello poté sentire lo sguardo di Kate sulla nuca mentre si inginocchiava lentamente davanti al baule. Nella polvere accumulata, notò delle strisce quasi pulite, lasciate probabilmente dalle dita di Beckett, in corrispondenza delle due cinghie che fino a poco tempo prima avevano tenuto chiusa la valigia. Erano slacciate, ma dai segni si notava che lo erano solo da qualche giorno. Rick posò le mani sul coperchio, incurante dello sporco, ma per un momento non si mosse. Era nervoso ed eccitato insieme. Prese un respiro profondo, cercando di riprendere il controllo di sé e di non farsi illusioni. Forse quella lettera non gli avrebbe detto nulla che già non sapesse. Forse sarebbe stato solo l’ennesimo scherzo crudele di suo padre dopo averli portati in quel mondo di guerra.
Si fece coraggio e aprì il baule, trattenendo il respiro. Era pieno solo a metà, ma, dando una rapida occhiata, notò i diversi oggetti appartenuti a Nicholas. In un angolo riconobbe la divisa verdognola di quando prestava servizio nell’esercito americano insieme al suo cappello consumato e alla sua vecchia pistola. Vide le sue medaglie e alcuni piccoli trofei che aveva vinto da ragazzo in gare sportive. Quello che attirò di più la sua attenzione però furono un grosso album di fotografie color crema e, sopra di esso, quello che sembrava un libro dalla copertina blu scuro. Non aveva alcun titolo, se non le iniziali dorate NC nell’angolo in basso a destra. Doveva essere il diario di cui gli aveva parlato Kate. Rick sentì all’improvviso un nodo allo stomaco, quando un pensiero lo colpì: stava frugando tra le cose di suo padre. Gli scappò un mezzo sorriso. Quando era bambino gli era stato tassativamente ordinato di tenere il naso fuori dalle cose del genitore, perfino dal cassetto delle calze o delle cravatte.
Castle si passò un polso sulla fronte per spostare una ciocca di capelli e asciugare il lieve velo di sudore che si era formato per l’ansia. Quindi, sentendo caldo nonostante il sottotetto fosse piuttosto freddo, si tolse la casacca della divisa, rimanendo in camicia. Kate gliela prese di mano all’ultimo, con uno sguardo di rimprovero, prima che lui la buttasse senza pensarci sul pavimento sporco. A quel punto, con attenzione, come se fossero fatti di cristallo, Rick recuperò l’album di foto e il diario. Il solaio non offriva abbastanza luce per leggere qualcosa, quindi richiuse il baule e tornò al piano terra con Beckett. Rick poggiò tutto sul tavolinetto del salone e si sedette sul divano. Vide Kate andare a lasciare la sua giacca in camera e poi tornare, fermandosi però indecisa a pochi passi da lui.
“Puoi sederti e guardare anche tu se vuoi.” le disse con un piccolo sorriso, intuendo il suo pensiero.
“Sicuro?” chiese di rimando la donna. Lui annuì e Beckett, lentamente, andò a sedersi accanto a lui. Castle era tentato dal buttarsi subito sul diario, ma aveva ancora bisogno di qualche momento per elaborare la cosa. Quindi scelse di cominciare a sfogliare il pesante album di foto. Da un’occhiata iniziale si poteva già intuire che fosse quasi del tutto pieno. Il colonnello notò anche che era anche leggermente rovinato ai bordi, come se fosse stato aperto e riaperto più volte. Quando lo aprì, rimase con la bocca semiaperta. Fu come fare un viaggio indietro nel tempo nella vita di suo padre. Quell’album doveva essere stato completamente di Nicholas una volta, perché le prime foto in bianco e nero lo mostravano come un giovane ragazzo di neanche vent’anni, serio negli abiti e nella posa. In alcune era con i genitori, i suoi nonni, in altre aveva la divisa scolastica. Dopo qualche pagina però lo trovò già con quella militare dell’accademia.
“Gli somigli.” disse Kate a un certo punto, osservando con la testa inclinata una foto in cui suo padre, doveva avere circa venticinque anni, era stato ritratto in mezzobusto mentre guardava qualcosa al di là della macchina. Rick lo osservò bene. In effetti, sebbene lui fosse un poco più vecchio del ragazzo nell’immagine, poteva vedere tratti molto simili ai suoi nella linea del naso, delle sopracciglia e degli zigomi.
“Solo esteriormente.” replicò cupo Castle, mentre continuavano il loro personale viaggio nel tempo. Videro suo padre crescere e diventare a tutti gli effetti un soldato. Lo osservarono in posa insieme al suo gruppo di amici o al suo reggimento. E poi, a un certo punto, una giovane Martha spuntò da una delle foto.
“E’ bellissima…” mormorò Kate senza fiato, osservandola. La donna nell’immagine aveva dei lunghi capelli ondulati, che Rick sapeva essere stati rosso fuoco, e, a differenza di suo padre che la teneva sotto braccio, sorrideva radiosa. In effetti Beckett aveva ragione. Martha Castle, all’epoca ancora Rodgers, era stata una bellissima donna da giovane e nella vecchiaia aveva portato con sé le tracce di quella antica avvenenza.
Dopo quella prima immagine, il viso di sua madre ricomparve molte volte. In alcune era in posa a teatro mentre in altre era semplicemente in casa con suo padre. In certe foto il colonnello poté scorgere sullo sfondo la villetta nella periferia di New York in cui aveva vissuto da piccolo.
Verso metà album, il viso paffuto di un neonato spuntò all’improvviso tra le braccia di Martha e Nicholas.
“Sei tu?” chiese Kate sorridendo dolcemente e carezzando piano il bambino addormentato della foto.
“Credo proprio di sì.” replicò Castle un po’ imbarazzato. Datò le foto al 1905, l’anno in cui era nato. Dopo di quella, Rick si accorse sorpreso che la maggior parte delle immagini rappresentavano lui. Lui e sua madre, lui e suo padre, tutti e tre, lui da solo… Sembrava che all’improvviso il centro del mondo fosse diventato quel piccolo bambino con i capelli sparati in ogni direzione, il passo malfermo e un sorriso enorme a quattro denti. Ricordava vagamente le molte foto che gli aveva fatto suo padre negli anni. Più andavano avanti e più non riusciva a conciliare l’idea che aveva del genitore con l’uomo che Nicholas era quando lui era bambino. Lo ricordava spesso assente per lavoro, certo, ma quando era a casa passava tutto il tempo con la famiglia. Non era mai stato uno di quegli uomini che uscivano a bere o a farsi l’amante, mollando moglie e figli.
Rick aggrottò le sopracciglia. Quando aveva dimenticato quella parte di lui?
“Quanto eri adorabile da bambino??” esclamò Kate con un sorriso enorme, tirandolo via dai suoi pensieri, mentre osservava un mini-Castle ridere allegro sopra un cavalluccio a dondolo in legno. Rick mise il broncio, silenziosamente grato però che lei fosse lì con lui a rivivere quei ricordi.
“Stai dicendo che ora non sono più adorabile??” replicò con finto tono offeso. Beckett alzò gli occhi al cielo e scosse la testa, divertita.
Continuando a sfogliare, trovarono un altro piccolo Rick di circa dodici anni con gli occhioni tristi rivolti alla macchina e un sorriso fin troppo tirato per un bambino di quell’età.
“Coma mai questa faccia?” domandò Kate sorpresa. In tutte le altre foto aveva mostrato un visetto sorridente. Lì invece pareva che l’allegria fosse svanita d’un colpo.
“Mio padre mi aveva appena comunicato che sarebbe partito per un po’ di tempo.” rispose Castle atono, ricordando perfettamente quel giorno. “Era il 1917.” La donna sgranò gli occhi, capendo. Il 1917 era stato l’anno dell’entrata in conflitto degli Stati Uniti durante la Grande Guerra. “Ero un bambino, ma con un  padre soldato capivo benissimo i discorsi sulla guerra. Sapevamo entrambi che sarebbe rimasto via a lungo, così mi chiese di avere una mia foto prima di partire.” continuò Rick carezzando lievemente l’immagine. “Avrei voluto avesse qualcosa di felice di me, ma questo fu tutto ciò che mi uscì.” A quelle parole, Kate gli strinse leggermente il braccio in un gesto di conforto. “E’ stato in quel momento che ho deciso di diventare come lui.” aggiunse poi con un mezzo sorriso per tranquillizzarla. “Volevo diventare il migliore per poterlo riportare sempre a casa da me e mia madre.” Kate annuì comprensiva, un lieve sorriso in volto.
“Credo che sarebbe stato fiero di quello che sei diventato.” replicò piano la donna. Castle rimase per un momento immobile a osservare quel bambino con gli occhi tristi in bianco e nero nel suo miglior maglioncino infilato apposta per la foto.
“Non ha più importanza.” disse alla fine atono, girando pagina. Con la coda dell’occhio vide Beckett trattenersi dal replicare, mordendosi il labbro inferiore. Le foto seguenti lo rappresentavano di diversi anni più giovane appena diplomato all’accademia, in procinto di andare a una festa, in vacanza, al matrimonio di un compagno d’armi.
L’ultima immagine dell’album era un primo piano di Rick poco meno che trentenne, in divisa ma senza berretto, che guardava dritto alla fotocamera con un sorriso fiducioso. Quella era stata l’ultima foto scattata prima che suo padre gli dicesse che sarebbero partiti per la Germania. Dopo quella non ce ne erano state altre. Suo padre non ne aveva più fatte da allora.
Castle chiuse l’album lentamente, quindi lo carezzò piano sul dorso.
“Non sapevo ci fossero così tante fotografie di me…” mormorò senza pensarci, ancora scosso da quell’improvviso turbine di ricordi.
“Tuo padre ti voleva bene.” sussurrò di rimando Kate.
“Se mi avesse voluto bene non ci avrebbe portati qui.” replicò Rick duro. L’immagine di suo padre in abito nazista continuava a cozzare prepotentemente con l’uomo che era stato un tempo. Con l’uomo che aveva imparato ad amare e da cui era stato pugnalato al petto.
Si passò una mano tra i capelli, come se quel gesto potesse portare ordine tra i suoi pensieri confusi.
“Tutti facciamo scelte sbagliate…” mormorò dopo qualche secondo Beckett, spostandogli dolcemente una ciocca di capelli che gli era caduta sulla fronte. “Ma questo non vuol dire smettere di amare.” Rick si voltò a guardarla e lei gli fece un piccolo sorriso. Aveva uno sguardo strano, come di comprensione e di qualche altra cosa che lui non riuscì a decifrare. In ogni caso era sincera e sembrò portare un po’ di calma tra i suoi pensieri agitati.
Castle annuì piano, quindi riappoggiò l’album sul tavolino davanti a loro. Poi prese un respiro profondo. Era arrivato il momento del diario.
“Ti lascio tranquillo.” disse a quel punto Kate, alzandosi. Lui alzò di scatto gli occhi su di lei, guardandola spaesato per un momento. Poi però capì che voleva solo dargli il suo tempo per fare i conti con qualunque cosa gli avrebbero detto le parole di suo padre. La ringraziò con un sorriso. “Mi trovi in biblioteca.” aggiunse alla fine Beckett, lanciandogli un ultimo sorriso dolce, prima di avviarsi fuori dal salone. Ora erano solo Rick e suo padre.
Castle recuperò cautamente il diario dal tavolino, quasi fosse una bomba pronta a esplodere, e se lo appoggiò sulle ginocchia.
“Ok,” mormorò quindi. “Vediamo che mi hai lasciato…” Prese un respiro profondo e, ordinando silenziosamente alle sue mani di cessare il loro lieve tremolio, aprì la copertina. Trovò subito un foglio piegato in quattro che doveva essere la lettera di cui gli aveva parlato Kate. Prese il foglio e lo spiegò piano, quasi come se avesse paura che le pagine gli si sgretolassero davanti. La prima cosa che notò, quando la lettera fu finalmente aperta, fu la data, posta in bella calligrafia in alto a destra: 15 Ottobre 1935. Cinque giorni prima della morte di Nicholas. Con una breve occhiata vide che Kate aveva avuto ragione. Quella era la scrittura di suo padre. Rick deglutì e, in un lieve stato di eccitazione e paura, iniziò a leggere.
 
Caro Richard,
se stai leggendo queste righe vuol dire che sono morto.
Prima che ti spieghi il perché della certezza nella mia affermazione, devo dirti una cosa: mi dispiace. Mi dispiace aver trascinato te e tua madre in questo inferno. Mi dispiace non essere stato più il padre e l’uomo che ero un tempo. Non avrei mai immaginato che questa follia avrebbe davvero preso piede. Credevo che il mio compito sarebbe durato solo qualche tempo, un anno al massimo, non di più, e poi saremmo tornati a casa, in America. Ho peccato di orgoglio, ragazzo. Credevo che avrei potuto farcela da solo, invece sono stato sopraffatto da forze più grandi di me. Mi dispiace.
Andiamo con ordine però. Sono un soldato, sai quanto lo apprezzo. Alla conclusione della Grande Guerra, sono stato decorato con la Medaglia al Valor Militare e anche questo lo sai. Pazienta un poco, Richard, non te lo sto dicendo per vantarmi. E’ lì che comincia la mia storia. E la mia rovina. Ricordi quel giorno che andai a Washington prima del Ringraziamento? Vi dissi che mi avevano chiamato per delle precisazioni in un rapporto che avevo redatto durante la guerra. So che non mi hai mai creduto. Eri sveglio e io potevo leggere chiaramente il dubbio nei tuoi occhi. Mi hai sempre fatto dubitare di essere un buon bugiardo, lo ammetto. Anche se, posso giurartelo, non ti ho mai mentito su qualcosa di importante. Comunque ora posso dirtelo: avevi ragione. Non mi avevano convocato per un rapporto, ma per assegnarmi un compito, uno di quelli che non puoi rivelare a nessuno. Un compito delicato e pericoloso che mi avrebbe staccato completamente dalla mia vita. E che mi avrebbe fatto odiare da mia moglie e mio figlio. Sai cosa mi chiesero di fare? Di andare in Germania, di farmi credere uno favorevole a quel nuovo e crescente movimento estremista guidato da Adolf Hitler, di farmi accettare, di infiltrarmi quanto più in alto nella scala gerarchica riuscissi ad arrivare e di passare informazioni. Fu la prima volta, nella mia vita, che avrei voluto disubbidire a un ordine. Non avevo paura per me, avevo abbastanza conoscenze e qualità per farlo. Avevo paura per voi. Sapevo che mi avreste seguito e che sareste stati in estremo pericolo se mi avessero scoperto. Ho tentato di farvi restare a casa, ho sperato che quella mia improvvisata vi mettesse abbastanza sale in zucca da lasciarmi al mio destino. Ma ovviamente non avete voluto sentire ragioni. Tra te e tua madre non ho mai saputo chi fosse il più testardo. Così ho giurato a me stesso di fare quanto più possibile per tenervi lontano da ogni guaio o fastidio. Sono arrivato a farmi odiare da te, lo so, e giustamente. Potevo leggere nel tuo sguardo la rabbia che avevi contro di me. Martha invece… beh, ancora oggi non so come abbia fatto a meritarmi una donna come lei. Neanche adesso saprei dirti come sia riuscito uno come me, tutto preciso e ordinato, a conquistare una come lei, la magnifica e stravagante attrice che entrambi conosciamo. In ogni caso non ti do nessuna colpa per il tuo odio. Ti conosco, ragazzo, sono sempre tuo padre: so come ragioni. Tu però non potevi sapere il mio compito. Quindi, come ho detto, avevi tutte le ragioni per odiarmi.
Richard, devo fare in fretta e ora devi ascoltarmi attentamente: mi dispiace avervi tenuto nascosto che sono un informatore degli Stati Uniti per tutto questo tempo, ma non potevo assolutamente rivelarvelo. Voi dovevate restare al sicuro. Per un po’ sono riuscito a farmi un nome e passare informazioni, forse perché ero nuovo e stavo a un livello basso. Ora però sono sempre più in alto nella scala gerarchica e inizio a dare fastidio a molti. Ricordati sempre una cosa, ragazzo: l’invidia porta a fare ricerche per trovare un punto debole. Anche le cose più nascoste alla fine vengono a galla se uno scava abbastanza a fondo. Beh, ho paura che abbiano iniziato a indagare troppo a fondo su di me. Paura di aver lasciato tracce del mio operato. Paura che scoprano qualcosa che avrà ripercussioni anche su di voi. Per cui, appena leggerai questa lettera, VATTENE. Prendi tua madre e torna in America. C’è movimento qui. Troppo movimento. E’ un’onda inarrestabile che sta contagiando la Germania. Il partito di Hitler è sempre più una piaga che non riusciremo a contenere. Di questo passo ci sarà un’altra guerra e io voglio che voi siate il più lontano possibile da essa, se e quando scoppierà. So che sei un soldato quanto me e davanti al dovere non ti sei mai tirato indietro, ma ti prego torna in America. Te lo chiedo come ultimo favore a tuo padre. E, non bastasse, te lo ordino. Torna a casa.
Ora devo concludere, ragazzo. Spero solo che, nonostante l’odio che hai per me, tu abbia guardato tra le mie cose e abbia trovato questa lettera in tempo. So che Martha non lo farà, per cui confido in te.
Ti voglio bene, Richard. A te e a tua madre. Non dubitare mai su questo. Ve ne ho sempre voluto, più di quanto purtroppo sia stato in grado di mostrare.
 
Perdonami.
 
Tuo padre Nicholas
 
PS: un’ultima cosa. Quando sarà il momento, ragazzo, ricordati da dove vieni.
 
Quando Rick finì la lettera si accorse di non respirare bene. Poi capì: stava piangendo silenziosamente e aveva la gola bloccata. Neanche si era accorto delle lacrime che avevano iniziato a bagnargli il viso. Troppe informazioni gli giravano nella testa. Suo padre non aveva mai aderito agli ideali nazisti. Suo padre gli aveva voluto bene. Suo padre aveva voluto proteggere lui e sua madre. Suo padre era una spia.
Buttò la lettera sul tavolino, quasi avesse iniziato a bruciare all’improvviso, e si portò la faccia tra le mani, i gomiti sulle ginocchia. Cercò di riprendere a respirare normalmente, prendendo grosse boccate d’aria, ma sembrava impossibile. Aveva vissuto dieci anni, dieci, a odiare Nicholas, a pensare che avesse perso il senno, a credere che non avrebbe più riavuto il padre che era stato prima di Hitler e del nazionalsocialismo. E invece era sempre stato lì. A un passo da lui, eppure irraggiungibile. Nascosto da quel soldato dalla divisa grigia con il simbolo della svastica oltre cui non aveva mai voluto vedere. Non poteva ancora crederci. Dio, pensò. Mio padre era una spia…
Si alzò di scatto, automaticamente, ma si guardò intorno spaesato. Doveva andare, muoversi. Verso dove, non lo sapeva neppure lui. I suoi piedi iniziarono a camminare da soli, spinti da chissà quale forza. Invece della porta d’ingresso però, come aveva sospettato fosse la loro destinazione, lo portarono più all’interno della casa. La porta aperta davanti a cui si fermarono gli fece capire che lo avevano guidato nella direzione giusta.
Castle fece un passo all’interno della stanza e Beckett alzò gli occhi, sentendolo. Appena lo vide, il suo sguardo si fece preoccupato. Buttò da parte il libro che stava leggendo e gli andò subito incontro. Non appena Kate fu abbastanza vicina, Rick non riuscì a rimanere fermo. Si mosse di un altro passo e la abbracciò prima ancora che lei lo raggiungesse quasi. Per un attimo la donna, colta alla sprovvista, rimase un po’ rigida. Meno di un secondo dopo però, avvolse le braccia intorno al suo torace. Non chiese niente. Semplicemente rimase ferma ad abbracciarlo, mentre lui stringeva la presa e respirava forte e dolorosamente contro la sua spalla, lottando per non piangere ancora. La battaglia però fu vana. Grosse gocce iniziarono a scendergli lungo le guance e il naso. Tutto quello che negli ultimi dieci anni aveva creduto essere suo padre era una menzogna. Una parte di lui era contento che non fosse il nazista per cui si spacciava. Un’altra parte però si sentiva lacerata per la mancanza di fiducia che aveva avuto nei suoi confronti.
Quando lo sentì piangere contro il suo collo, Kate allungò una mano sulla sua schiena e raggiunse la base della nuca, iniziando a carezzarlo dolcemente per tranquillizzarlo. Quei piccoli gesti, la vicinanza di lei, il suo calore, il suo profumo, la sua dolcezza, riuscirono a calmare pian piano Castle.
“Mio padre…” mormorò diversi minuti dopo il colonnello, con voce roca, senza staccarsi dalla donna. “Mio padre era una spia.” Sentì la mano di Kate bloccarsi per la sorpresa sul suo collo, a metà di una carezza. “Mi ha scritto tutto.” continuò piano, mentre lei, lentamente, ricominciava a coccolarlo, attenta alle sue parole. “Ha scritto che gli è stato ordinato di infiltrarsi nel partito nazista e di passare informazioni. E per tenerci al sicuro non ci ha detto niente. Ha lasciato che credessimo che fosse improvvisamente cambiato piuttosto che raccontarci la verità…”
“Sai,” iniziò dopo qualche secondo di silenzio Beckett. “Se ho imparato una cosa stando qui, è che si farebbe di tutto per tenere al sicuro le persone che a cui si tiene. Anche mantenerle all’oscuro di una dolorosa verità per tutto il tempo possibile…” Rick strinse leggermente la presa su di lei, infilando di più la faccia nel suo collo, mentre sentiva una morsa nel petto. Lui aveva fatto la stessa cosa con Johanna. Non c’era però nessun tono di rimprovero nelle parole di Kate come si aspettava. Era solo una constatazione basata sull’esperienza.
Alla fine Castle sospirò un’ultima volta sul collo di lei e si staccò lentamente per guardarla negli occhi, senza comunque spostare le mani dai suoi fianchi. Vide Kate osservarlo curiosa mentre cercava di capire il motivo del suo allontanamento e se si era calmato.
“Mi dispiace.” disse Rick il più sinceramente possibile. Lei aggrottò le sopracciglia. “Mi dispiace non averti detto nulla di tua madre.” Beckett sgranò gli occhi e la bocca le rimase socchiusa. “Pensavo di fare la cosa migliore a nascondertelo. Speravo forse che rimandando sarebbe stato diverso. Più facile, forse. Ma mi sbagliavo.” continuò il colonnello, abbassando lo sguardo. “E ora lo capisco bene. Cercavo di proteggerti da qualcosa che non potevo cambiare, come mio padre fece con me e mia madre. Credevo di fare la cosa giusta e che forse avresti capito. Invece ora so che l’unica cosa che si prova è…”
“Tradimento.” concluse Kate per lui, atona. Castle rialzò gli occhi. Lei lo stava osservando con un mezzo sorriso dolce nonostante lo sguardo triste. “L’unica cosa che senti è un senso di tradimento.” Rick annuì piano.
“Mi dispiace.” mormorò di nuovo. Beckett scosse la testa e gli poggiò una mano sulla guancia perché la guardasse.
“So che ora è difficile da accettare…” sussurrò cauta. “Ma lo farai. Un giorno ti sveglierai e semplicemente ti accorgerai che non provi più la stessa morsa al petto del giorno precedente. Ti alzerai e pian piano ricomincerai ad aver fiducia nelle persone…” Rick la ascoltava rapito, la bocca semiaperta. Lei gli spostò il solito ciuffo dalla fronte con un piccolo sorriso. “Anche quelle che ti stanno più a cuore e che pensavi non saresti mai riuscito a perdonare.” Si guardarono negli occhi per un momento. Lui quasi incredulo per le sue parole. Lei calma e in attesa che quelle stesse parole gli si imprimessero nella testa.
Dopo qualche secondo Kate ruppe il contatto visivo. Quindi alzò anche l’altra mano al viso di lui e lo ripulì con delicatezza dei residui di lacrime. Alla fine tirò leggermente la sua testa verso il basso e si alzò sulle punte per lasciargli un bacio sulla fronte. Rick rimase attonito, la bocca aperta e gli occhi spalancati.
“Kate…” mormorò, ma lei non lo lasciò finire. Scosse la testa per zittirlo e si allontanò da lui, leggermente rossa in volta. Il colonnello rimase un po’ male per quel distacco.
“Vado a preparare qualcosa da mangiare.” disse Beckett con un piccolo sorriso. “Se quell’uomo è venuto stamattina, scommetto che non hai messo niente nello stomaco da allora.” Come se lo avesse risvegliato, la pancia di Rick decise proprio in quel momento di mandare un lieve brontolio. Arrossì imbarazzato mentre Kate ridacchiava. “Vai a sciacquarti la faccia.” gli ordinò poi dolcemente. “Quando ti sentirai pronto, raggiungimi. Se poi hai voglia, parleremo ancora della lettera e di tuo padre, altrimenti possiamo farlo domani.” Castle annuì piano. Un attimo prima che lei scomparisse dalla porta però, la richiamò.
“Beckett?” Si voltò curiosa. “Grazie.” disse solo Rick, gli occhi leggermente umidi. Non avrebbe pianto di nuovo però. Lei gli sorrise dolcemente un’ultima volta e se ne andò in cucina. Lui fece automaticamente come gli era stato detto: andò in bagno a sciacquarsi la faccia con abbondante acqua fredda. Allo specchio notò il contorno rosso acceso dell’iride blu e le occhiaie marcate, ma se ne curò poco. Nonostante tutto, si sentiva più leggero. Certo, suo padre era sempre morto portandosi un segreto enorme nella tomba e Rick si sentiva ancora in qualche modo tradito da lui. Eppure il sapere che non era davvero cambiato quanto pensava lo aveva sollevato. E l’aver parlato con Kate decisamente l’aveva fatto stare meglio. Inoltre c’era un’altra cosa che aveva migliorato un poco il suo umore. Da quello che aveva potuto intuire infatti, forse, forse, lei non lo odiava più.
Un lieve sorriso gli spuntò sulle labbra per la prima volta quel giorno. Poi un pensiero lo colpì: se lei lo aveva perdonato, allora ci sarebbe stata speranza anche per lui di perdonare suo padre?
 
Quando Castle entrò in cucina, trovò Beckett intenta ad armeggiare con un frustino da cucina dentro una ciotola mentre un pentolino bolliva sul fuoco. Non volendo disturbarla, ma allo stesso tempo desiderando essere utile, iniziò a recuperare piatti e posate per la tavola. Non appena Kate lo notò gli fece un piccolo sorriso per poi tornare al suo lavoro. Conclusa l’opera, Rick si sedette su una delle sedie presenti e attese che la donna finisse, osservandola nel frattempo. Sembrava a suo agio nella sua cucina. Inoltre sembrava a suo agio in anche in sua presenza, cosa che avrebbe detto impossibile fino a qualche giorno fa. Forse però quella di Kate era stata solo una reazione al suo comportamento scorretto. Rick ricordava come si erano trovati bene l’uno con l’altro prima che lui le rivelasse di Johanna. Ricordava anche quel bacio appena prima della confessione…
Scosse la testa e si costrinse a pensare ad altro. Ora che finalmente pareva stesse tornando tutto alla normalità tra loro, se normalità si poteva chiamare, non era il caso di rovinare tutto. Distogliendo i pensieri da quello però, la sua mente corse di nuovo a suo padre e alla sua lettera. Aggrottò le sopracciglia, lo sguardo perso al pavimento, mentre si faceva cullare dal ritmico cozzare del frustino contro la ciotola. Suo padre era stato una spia del governo americano. Era morto cercando ancora di preservare i valori in cui gli aveva insegnato a credere. Non era andato tutto alla malora quando aveva comunicato a lui e a Martha la sua intenzione di trasferirsi a Berlino. Non era impazzito. Aveva semplicemente continuato a fare il suo lavoro. Anche se quello aveva incluso l’allontanarsi moralmente da sua moglie e suo figlio. Un altro pensiero lo trafisse duramente, qualcosa che fino a quel momento aveva solo sfiorato la sua mente: suo padre aveva scritto che per la prima volta avrebbe voluto disubbidire a un ordine. Però non lo aveva fatto. Il che voleva dire che aveva preferito il suo lavoro alla sua famiglia. Sì, sapeva anche Rick che Nicholas prima di tutto era un soldato, ma avrebbe potuto rifiutarsi di compiere quell’incarico. Compiti del genere di solito lasciavano sempre la possibilità di tirarsi indietro prima che cominciassero. Ovviamente però suo padre non doveva averci pensato troppo. Prima doveva aver risposto di sì e solo dopo si era ricordato di avere una famiglia.
L’improvviso silenzio lo distolse dai suoi pensieri cupi. Osservò Kate appoggiare la ciotola sul banco cucina e spegnere i fornelli. Quindi capovolse il contenuto del pentolino nel lavandino aperto e Rick vide scivolare giù quattro uova dentro l’acqua fredda. Qualche secondo dopo, osservò i gesti rapidi della donna nella sbucciatura delle uova. Alla fine le mise nei due piatti puliti che aveva tirato fuori e vi aggiunse sopra la crema giallognola che aveva preparato.
“Cos’è?” chiese curioso mentre Kate prendeva il pane e tirava fuori dal frigo dell’insalata. Lo guardò con un sopracciglio alzato mentre si sedeva accanto a lui.
“Mai viste due uova?” rispose divertita. Rick sbuffò e lei ridacchiò.
“Intendevo la salsa.” si spiegò il colonnello, assaggiando cautamente la cremetta con la punta della forchetta.
“E’ solo maionese.” replicò Beckett, scuotendo la testa alla sua scena. “Spero vada bene, siamo rimasti di nuovo a corto di cibo.”
“Ok, domani ricordami di comprare qualcosa.” rispose, gustando la maionese. “Ehi, è buonissima!” esclamò qualche secondo dopo, stupito.
“Dubiti ancora delle mie doti culinarie?” replicò Kate offesa. Rick si affrettò a scuotere la testa.
“No, no.” si affrettò a dire, sentendo all’improvviso fame e buttandosi sulle uova. “E’ solo che mia madre ha provato a farla qualche volta, ma le è sempre impazzita.”
“Mia madre sapeva farla ancora meglio.” disse quasi casualmente Beckett. Il colonnello la osservò ansioso, ma vide che lei aveva un lieve, seppur nostalgico, sorriso sul volto. “Non ho mai capito cosa aggiungesse, ma c’era qualcosa che la rendeva unica.” continuò, infilandosi un pezzetto di uovo e salsa in bocca.
“Doveva essere una buona cuoca.” commentò Rick mentre attaccava l’altro uovo.
“Ottima.” rispose la donna sovrappensiero. “Quello che conosco sulla cucina me l’ha insegnato lei. Mio padre ha provato a combinare qualcosa quando lei è venuta qui, ma più di un piatto di pasta e una frittata non è che riuscisse a fare…” aggiunse poi divertita.
“Se ti consola, almeno il tuo ci ha provato.” ribatté Castle, fornendosi intanto di insalata. “Mio padre non ha mai voluto mettersi ai fornelli. Credo che in tutta la sua vita ci abbia provato una volta sola e abbia quasi dato fuoco alla casa... o almeno questo è quello che racconta mia madre!” aggiunse poi con un piccolo sorriso. “Mi ha detto che, tornando da teatro, ha trovato una colonna di fumo uscire dalla cucina. E’ successo appena sposati. Credo volesse farle qualcosa di carino cucinando qualcosa.” Kate ridacchiò.
“Beh, era un tentativo.” commentò con un sorriso.
“Già.” replicò Rick, mentre altre scene di suo padre in gesti così spontanei gli tornavano prepotenti alla mente. Il sorriso gli cadde leggermente al ricordo. Si accorse di aver nascosto quei ricordi in un angolo del cervello per dieci anni, come se non fossero mai esistiti. Eppure quante volte era successo che Nicholas lo prendesse da bambino e iniziasse a girare per fargli provare le brezza del volo mentre ridevano come matti? Quanti giocattoli di legno, che lui stesso aveva creato, gli aveva regalato? Quante gite al lago o in montagna o a vedere gli aerei che partivano all’aeroporto avevano condiviso, spesso anche senza sua madre?
Lasciò la forchetta nel piatto, improvvisamente senza più appetito. Si accorse che una singola decisione era bastata perché cancellasse ogni bel momento con suo padre. Non aveva neanche tentato di capire le sue ragioni. Eppure, nonostante i segreti, i segnali c’erano. Lettere spedite a chissà chi, misteriose uscite serali, strane frasi al telefono, sguardi sofferenti, silenzi pesanti… Tutte cose che non erano mai state nello stile di Nicholas Castle. Lui che aveva condiviso ogni decisione e turbamento con la moglie fino a quel fatidico giorno a Washington. Lui che aveva promesso di dire sempre la verità a suo figlio.
“Castle?” La voce preoccupata di Kate lo tirò bruscamente via dai suoi pensieri. “Tutto bene?” Lui mise su un sorriso tirato e annuì. Lei però continuò a osservarlo dubbiosa.
“Sono… sono solo stanco.” disse, passandosi una mano sulla faccia. “Ancora non riesco a capire se sto sognando o se sono sveglio.” confessò alla fine. Kate sospirò e si alzò per mettere via i piatti sporchi. Quindi tornò da lui.
“Vuoi parlarne?” chiese piano, carezzandogli il dorso della mano sul tavolo. Rick osservò per un momento il pollice di lei che faceva lievi giri sulla sua pelle, infondendogli insieme un senso di conforto e un lieve brivido eccitato. Quindi ruotò il polso, le prese con delicatezza la mano e si alzò, tirandosi Beckett piano dietro. La portò al divano in salone e la fece sedere. Poi si accomodò accanto a lei e le mise in mano la lettera.
“Leggila.” disse, rispondendo al suo sguardo interrogativo. Kate lo guardò per un momento stupita. “Ho bisogno che tu la legga per poterne parlare.” spiegò Rick con un lieve sorriso. La donna si morse il labbro inferiore, ma alla fine la curiosità ebbe la meglio e fece come le aveva chiesto.
Castle attese pazientemente che lei scorresse tutta la lettera, quindi la osservò posarla sul tavolino davanti a loro con espressione sconcertata.
“Wow…” fu il suo unico commento.
“Già.” replicò Castle con un mezzo sorriso. Poi Kate aggrottò le sopracciglia.
“Tuo padre non solo era una spia,” dichiarò piano. “Ha profetizzato la guerra!” Il colonnello annuì, quindi guardò il diario poco più in là che ancora non aveva aperto.
“Probabilmente c’è qualcosa di più là dentro.” disse pensieroso. “Forse qualche importante conversazione di qualche ufficiale riportata…”
“O forse qualcosa su di te.” azzardò cauta la donna, controllando la sua reazione. “In fondo è un diario personale.” Castle non replicò, semplicemente alzò le spalle. Non poté nascondere però il suo sguardo insieme duro e curioso.
“Lo leggerò.” borbottò alla fine sbrigativamente. Riprese la lettera e una frase lo colpì nel post scritto. “‘Ricordati da dove vieni’…” rilesse pensieroso.
“Che significa?” chiese Kate. Lui scosse la testa.
“Non lo so.” replicò incerto. “Ma il tipo che è venuto oggi da me, Tom Jones, mi ha detto la stessa cosa. Che dovevo ricordarmi da dove venivo.” La donna alzò un sopracciglio.
“Tom Jones?” chiese sarcastica. “Sul serio?”
“Non sembra anche a te un nome da cantante?” commentò in risposta Rick con una smorfia divertita. Beckett scosse la testa con un mezzo sorriso.
“Tornando al messaggio…” disse poi, osservando pensierosa la lettera. “Se anche questo Tom Jones fosse una spia come tuo padre, allora potrebbe essere un qualche messaggio in codice. Magari credeva che avessi già letto la lettera.” Castle annuì.
“Ci stavo pensando anche io.” rispose. Quindi sospirò e si accasciò sul divano, la testa inclinata all’indietro e gli occhi fissi al soffitto. “Immagino che quindi dovrò proprio chiamarlo questo tizio.” borbottò seccato. Sentì una mano calda di Kate posarsi sul suo ginocchio e rialzò il capo per guardarla.
“Sono sicura che l’incontro sarà positivo.” gli disse con un sorriso dolce. Rick rimase per un attimo in silenzio.
“Non sono certo di voler sapere altro su mio padre.” mormorò poi, gli occhi bassi.
“Perché?” chiese Beckett stupita. “Ora che sai che non è il…”
“Bastardo.” borbottò Castle con un ghigno senza gioia. Lei gli tirò un leggero schiaffo al ginocchio.
“Intendevo il soldato,” lo riprese lei. “Né l’uomo che immaginavi, pensavo volessi conoscere qualcosa di più su di lui.”
“E se non dovesse piacermi l’uomo che mi descriveranno?” replicò il colonnello, cercando di mantenere un tono neutro, ma non riuscendo comunque a nascondere il dolore e l’apprensione dietro quelle parole. “Se fosse peggio di come pensavo? O se dovessero dirmi qualcosa di lui che me lo farà odiare di nuovo? Kate, io non so se…”
“E se invece fosse meglio?” lo fermò lei in tono dolce con un lieve sorriso. “Ci hai pensato?” Poi si alzò e, sorprendendo ancora una volta Castle, gli lasciò un bacio sulla fronte. “Leggi il diario.” continuò, indicandoglielo. “E poi chiama il cantante. Ne varrà la pena.” Detto quello, stava per andarsene quando Rick riuscì ad afferrarle al volo una mano, così da bloccarla sul posto. Lei si voltò a guardarlo confusa e stupita di quel gesto.
“Quando tutto questo sarà finito.” disse lui con voce sicura, guardandola negli occhi con un’intensità tale da farla sentire quasi a disagio. “Quando tu sarai tornata in America e io ti avrò raggiunto… Perché ti raggiungerò.” aggiunse con un mezzo sorriso. Vide Kate arrossire leggermente. “Presto o tardi, ti raggiungerò. Che la guerra sia conclusa o meno. Sai cosa farò appena ti avrò ritrovata?” Lei mosse appena il capo in cenno di negazione. “Ti chiederò di sposarmi.” Vide Beckett smettere di respirare, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati e le guance sempre più rosse, man mano che il significato di quelle parole si radicava in lei.
“Sembra una minaccia…” cercò di dire lei, con voce più stridula del normale e una mezza risatina nervosa, tentando di allentare l’improvvisa tensione creatasi.
“E’ una promessa.” replicò lui calmo. Lei si irrigidì a quelle parole.
“Credevo avessi smesso di fare promesse che non sai se potrai mantenere…” sussurrò alla fine con tono basso, in un misto di paura ed eccitazione, abbassando lo sguardo e togliendo lentamente il polso dalla presa del colonnello.
“Tu aspetta solo che metta piede in America.” replicò serio e sicuro Rick. Kate rialzò lo sguardo e lo bloccò nei suoi occhi blu. Il dubbio era chiaramente visibile nei suoi occhi verde-nocciola, e Castle sapeva ci sarebbe stato, ma c’era anche altro. Un’altra piccola cosa che gli fece battere furiosamente il cuore. Una scintilla di speranza. Ora era certo più che mai di quelle parole che aveva pronunciato quasi di getto. “E vedrai.” continuò poi con rinnovata sicurezza. “Questa è una promessa che non ho alcuna intenzione di rompere.” Osservò Beckett deglutire mentre la piccola scintilla che aveva visto nel suo sguardo iniziava a crepitare un po’ più forte, a illuminare il buio dell’incertezza e della paura della delusione. Poi però lei strinse le palpebre e Castle poté quasi scorgere la sua lotta interna per ricacciare indietro quella piccola speranza. Per lui fu un colpo al petto, ma se lo aspettava dopo quello che le aveva nascosto. Avrebbe lottato per riguadagnarsi la sua fiducia, per poter rendere reale quella farsa che avevano messo in piedi per sopravvivere. Non era mai stato più sicuro di qualcosa. La voleva al suo fianco e, se lei glielo avesse permesso, per il resto della vita.
“Io… io vado a dormire.” mormorò qualche momento dopo Kate. La vide muoversi a disagio sul posto, ancora sconcertata dal suo discorso, e mordersi il labbro inferiore. “Buonanotte, Castle.” aggiunse, prima di incamminarsi velocemente alle scale.
“Notte, Beckett.” la salutò di rimando, piano. Quando fu sparita dalla sua vista, gli venne il dubbio di aver forzato troppo la mano. Ma aveva sentito il bisogno di dirglielo, non ce l’aveva fatta a restare zitto. Sperò solo di non averla fatta scappare.
Sospirò e si accasciò di nuovo sul divano, all’improvviso stanco come se avesse corso per dieci kilometri senza fermarsi. Chiuse per un momento gli occhi, sperando forse di sentire il sonno arrivare. I suoi pensieri però erano troppo accavallati uno all’altro perché potesse anche solo considerare un po’ di riposo. Così si rimise seduto, recuperò il diario e, con un respiro profondo, iniziò a leggerlo.

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Xiao! :D
Prima di tutto, so che è stata una bastardata il baule e la lettera... Avevo fatto nominare il baule a Kate diversi capitoli fa e non biasimo nessuno se mi dite "Cacchio stai dicendo?? Quando lo avrebbe detto Kate??" Beh, fidatevi l'ha detto, ma proprio così di passaggio... XD (sì potete mandarmi a quel paese)
Anyway tralascaiando questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto! :) Insomma tra papi Castle e l'ultima dichiarazione di RIck.... XD
Ok, sparisco! X) Spero di pubblicare di nuovo tra una settimana più o meno... XD
A presto! :D
Lanie

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Capitolo 18
*** Un semplice scambio ***


Cap.18 Un semplice scambio


 
“Zio Rick!!” urlò Leandro allegro, correndo incontro a Castle e Beckett appena entrati in casa Ryan.
“Ehi, Leo!” lo salutò di rimando lui con un sorriso, prendendo al volo il bambino prima ancora di togliersi il giaccone. “Come stai, piccolo?” gli domandò poi, sistemandoselo meglio tra le braccia mentre quello gli si attaccava al collo. “E’ un pezzo che non ci vediamo.”
“Tu non vieni a trovarmi.” replicò Leandro con un piccolo broncio. Rick sorrise per la sua faccia.
“Hai ragione.” rispose però dispiaciuto. “Prometto che non farò passare di nuovo tanti giorni prima di venire a trovarti.” Con tutto quello che era successo negli ultimi giorni, Castle non aveva trovato un momento libero per andare dai Ryan. Le ultime scoperte su suo padre del giorno precedente lo avevano lasciato piuttosto scosso, ma non appena aveva risentito la voce del bambino si era accorto che gli era mancato parecchio quel piccolo scricciolo. Era da prima della festa di fidanzamento che non lo vedeva.
Rick, con ancora Leo in braccio, si voltò verso Beckett, già spogliata del cappotto.
“E alla zia Kate niente saluti?” chiese con un sorriso caldo e dolce rivolto alla donna. Era stata proprio di Kate l’idea di andare a casa di Kevin quella mattina. Lo aveva visto abbattuto e svogliato e, nonostante la poca voglia di uscire di Rick, lo aveva costretto ad alzarsi e vestirsi, dichiarando che vedere i Ryan e gli Esposito lo avrebbe distratto almeno per un po’ dal pensiero del padre. Ancora una volta Beckett aveva avuto ragione. Già solo la presenza del piccolo Leandro lo aveva risollevato un po’ di morale.
“Ciao Leo!” lo salutò con un enorme sorriso Beckett, scoccandogli poi un bacio sulla guancia mentre lo prendeva dalle braccia del colonnello, così che anche lui si potesse alleggerire degli abiti pesanti.
“Oh, certo, salutate il bambino, ma non degnate di un’occhiata il padrone di casa!” esclamò con finto tono offeso Kevin da dietro le loro spalle, le braccia incrociate davanti al petto e un mezzo broncio stampato in faccia. In effetti Ryan aveva aperto loro la porta, ma neanche il tempo di salutarlo che Leandro era corso da loro, distraendoli.
Rick ridacchiò, mentre Kate nascondeva un sorriso divertito contro la guancia del piccolo Esposito.
“E’ un piacere vederti, Kev.” rispose alla fine Castle, appendendo il giaccone all’attaccapanni.
“Lo stesso.” rispose con un ghigno il maggiore, il tono offeso del tutto scomparso. “Allora, come è andata la festa??” chiese poi velocemente. “Non mi hai più detto niente e…”
“Stop!!” lo bloccò una voce conosciuta dal salotto. “Se parlano del ricevimento voglio sentire anche io!” continuò Lanie in tono quasi di rimprovero. Kate alzò gli occhi al cielo, ma Rick poté ben vedere il rossore sulle sue guance. Le riprese Leandro dalle braccia, in modo che non le pesasse addosso, e si avviarono con Ryan in salone. Castle notò subito Lanie e Jenny sedute sul divano, mentre Javier occupava una delle poltrone. Vide anche la Gates, seduta al tavolo che di solito usavano per pranzo, mentre lucidava un set di posate d’argento. Rick e Kate salutarono tutti e si avvicinarono ai coniugi Esposito e alla signora Ryan. Dopo un sorriso però, Lanie guardò male il figlio.
“Tesoro, non sei un po’ pesante per stare in braccio?” gli disse con un tono a metà tra l’amorevole e il rimprovero. A quelle parole il piccolo si aggrappò più stretto al collo del colonnello.
“Non è un peso, davvero.” intervenne in suo favore Rick. “Finché non mi soffoca, ovvio.” aggiunse poi divertito, mentre il bambino allargava subito la presa in modo da non strozzarlo. Ovviamente non lo avrebbe soffocato, viste le braccia minute che aveva, ma Leandro a quanto pareva la pensava diversamente.
“Allora??” chiese poi impaziente Javier, mentre Castle e Beckett ringraziavano la Gates per avergli portato, senza che fosse richiesto, due sedie dal tavolo dove era seduta. “Questa festa? Come è andata?”
“Era una semplice festa…” cercò di dire il colonnello, ma Esposito sbuffò e fece un gesto infastidito con la mano.
“Qui non abbiamo molto da fare, quindi vedi di tirare fuori qualcosa di interessante!” replicò per lui Lanie, minacciandolo divertita. Rick mise a terra Leandro e lo osservò correre a recuperare i suoi giocattoli per portarli accanto a dove erano seduti. Quindi prese un respiro profondo e si sedette. Rimase in silenzio per un momento, le sopracciglia aggrottate, mentre pensava a cosa dire. Lanciò un’occhiata a Kate seduta accanto a lui. Il suo sguardo doveva essere piuttosto spaesato ed esplicito perché lei gli sorrise leggermente e alzò appena le spalle come a dire ‘decidi tu quanto raccontare’. Il colonnello quindi si passò una mano tra i capelli con un sospiro, indeciso. Non sapeva se raccontare solo del ricevimento o aggiungere anche la nuova scoperta sul padre. In fondo non gli sarebbe dispiaciuto avere anche un loro parere sulla cosa, soprattutto sull’idea di richiamare quel misterioso Tom Jones o meno. Guardò di nuovo Kate e vide un sorriso di incoraggiamento sul suo volto. A quel punto si decise. E iniziò a raccontare.
Facendosi aiutare da Beckett, espose brevemente come si era svolta la festa, chi avevano conosciuto, se avevano ballato e cose del genere, rispondendo man mano alle domande curiose delle due coppie. Kevin e Javier parevano più interessati agli Alti Ufficiali che avevano incontrato, Lanie e Jenny invece avevano più interrogativi sulla villa e su quante persone avevano messo gli occhi addosso a Beckett.
“Praticamente tutti i maschi presenti in sala e pure quelli fuori dalla sala.” replicò seccato Rick, senza riuscire a trattenersi, al ricordo improvviso del ragazzo-valletto che si era messo a sbavare sulle gambe della donna mentre usciva dalla macchina. E se poi ripensava al giovane festeggiato Fabian Lange gli saliva una rabbia…
“A Castle non è andata già che Fabian mi abbia quasi chiesto di ballare per tre volte.” commentò a un certo punto ironica Kate, lanciandogli un’occhiata divertita. Il colonnello fece una smorfia schifata.
“Quasi?” domandò Lanie curiosa. Beckett ghignò.
“Non gliene ha dato l’occasione.” sussurrò ridacchiando, quasi fosse un segreto, e indicando Rick.
“Se gli avessi lasciato l’occasione, ti avrebbe passato quelle sue manine da ragazzino che puzza ancora di latte in tutto il corpo!” sbottò scocciato Rick, ancora una volta senza riuscire a frenarsi la lingua mentre gli altri ridacchiavano.
“Qui qualcuno mi pare geloso…” commentò Kevin, stuzzicandolo. Al contrario di quanto si sarebbe aspettato però, Castle voltò lo sguardo verso Kate e le fece un mezzo sorriso.
“Non immagini quanto…” replicò a bassa voce senza staccare gli occhi da lei, mentre la donna arrossiva leggermente alle sue parole e distoglieva lo sguardo. Gli altri quattro si guardarono stupiti.
“Uhm, credo di aver perso un passaggio.” mugugnò Esposito con le sopracciglia aggrottate, cercando di capire quando fosse accaduto che quei due avessero iniziato a comportarsi così tranquillamente alle loro frecciatine. Castle però non aveva nessuna intenzione, almeno per il momento, di spiegare la sua semi-proposta di matrimonio alla donna. Voleva che ancora per un po’ fosse una cosa soltanto loro.
“Beh, il passaggio te lo racconterò un’altra volta.” dichiarò Rick con un leggero tono divertito, tornando a voltarsi verso le due stupefatte coppie. “Ora volete sentire il resto? Perché non è ancora finita…”
Il colonnello a quel punto continuò a raccontare di come il tipo chiamato Tom Jones (“Chi sarebbe? Un cantante?” era stato l’ironico commento di Javier) era arrivato nel suo ufficio due giorni prima, chiedendo di lui e vociferando di misteriose notizie su suo padre.
“Ecco perché eri così strano, allora!” esclamò Ryan, sentendo il resoconto del colonnello. Rick annuì.
“Mi spiace non averti detto nulla, ma avevo bisogno di riflettere.” replicò in tono di scuse. “E di calmarmi, soprattutto.” continuò poi, osservando Leandro giocare sdraiato per terra con dei soldatini a pochi passi da loro. Si passò una mano tra i capelli. “Quando sono tornato a casa, Beckett mi ha aiutato… e in più di un senso.” aggiunse con un piccolo sorriso, voltandosi verso di lei. Kate gli sorrise di rimando.
“Immagino non parlino di un po’ di sana ginnastica a letto post-arrabbiatura purtroppo…” borbottò Lanie a mezza voce a Jenny che ridacchiò insieme a Kevin e Javier. Beckett lanciò alle due un’occhiataccia, arrossendo vistosamente. Castle scosse la testa semplicemente la testa, un mezzo sorriso rassegnato in volto. Quindi raccontò agli altri dell’album di foto e del diario con la lettera che Kate aveva ritrovato.
“Una lettera?” domandò Jenny sorpresa, gli occhi sgranati. “Una lettera di tuo padre… per te?” Rick annuì piano. Spiegò brevemente il contenuto dello scritto e quello che ricevette in cambio furono le facce attonite dei Ryan e degli Esposito.
“Tuo padre era una spia??” esclamò quindi Kevin con la bocca spalancata. “Una spia del governo americano??”
“Già.” replicò con un mezzo sorriso il colonnello. Il continuare a ripeterlo stava rendendo in qualche modo la cosa più reale e allo stesso tempo un po’ meno dolorosa. Stava iniziando ad accettare il lavoro di Nicholas come un fatto e non come un desiderio disperato per dare finalmente un senso al suo voltafaccia improvviso. E inoltre una certa parte di Rick, anche se non lo avrebbe mai ammesso, stava cominciando a trovare alquanto entusiasmante quella scoperta. Insomma quanti avrebbero potuto dire che il loro genitore era una spia?
“E il diario?” chiese Lanie curiosa, aggrottando le sopracciglia. “Quello cosa diceva?” Castle raccontò a grandi linee ciò che aveva letto. Come aveva sospettato, molti degli appunti che Nicholas aveva preso erano trascrizioni di pezzi di conversazione che aveva origliato, ma ce n’erano diversi in cui immaginava che lui stesso vi avesse partecipato. Suo padre aveva segnato nomi di ufficiali coinvolti in un dato affare, numeri di soldati proposti da impiegare in una certa operazione, persone che avrebbero dovuto intimidire o corrompere un tal uomo in particolare e altre cose del genere. Quasi tutte quelle azioni erano state finalizzate ad aiutare ad accrescere il potere di Hitler e del suo partito negli anni compresi tra il 1933 e il 1935, l’anno della morte di Nicholas. Alcuni di quei fatti Rick li aveva riconosciuti come realmente accaduti, altri dovevano essere rimasti come piani malfatti o mai attuati.
In alcuni punti però, come Beckett aveva suggerito la sera prima, Castle si era accorto che suo padre aveva scritto anche di lui e sua madre. Nicholas aveva usato il diario principalmente per annotazioni veloci, probabilmente per riuscire a tenere a mente date e luoghi da riferire ai propri superiori, ma, da un certo momento in poi, a tratti si era segnato anche delle brevi note personali. La prima volta che Rick aveva letto il suo nome era stato in un appunto databile a circa un anno dopo il loro trasferimento a Berlino…
 
…Scritti questi nomi, devo segnarmi un’ultima cosa successa in questa data: Richard è diventato Maresciallo Capo. Sono fiero di lui, anche se non riuscirò mai dirglielo. Nonostante la sua iniziale poca dimestichezza con la lingua, si sta adattando bene. Se solo non fosse andato via dagli Stati Uniti, a quest’ora avrebbe già fatto molta strada. Qui è dovuto ripartire quasi dalla gavetta. Mi odia anche per questo e lo so. Ma non posso rivelargli il mio segreto. Un giorno, forse, capirà…
 
Castle scosse la testa e si schiarì la gola, accorgendosi di essere rimasto incantato per qualche secondo a fissare un punto imprecisato del pavimento mentre stava finendo di dire agli altri cosa ci fosse nel diario. Concluse il resoconto e attese le reazioni.
“Wow…” commentò Esposito stupito.
“Lo hai detto a Martha?” chiese Jenny qualche momento dopo, sospettosa. Rick scosse la testa.
“Pensavo di farmi dare una conferma da questo Tom Jones, prima di chiamarla.” rispose.
“Che altra conferma vuoi avere??” sbottò Ryan stupito. Il colonnello alzò appena le spalle.
“Voglio solo essere sicuro.” replicò, celando il suo nervosismo con un gesto seccato della mano. Non aggiunse, come invece aveva detto a Kate la sera prima, che aveva paura di scoprire come fosse realmente suo padre. Non aveva idea di cosa avesse fatto per entrare così velocemente nei ranghi del partito nazionalsocialista. Doveva parlare prima con quel Jones per capire se suo padre era rimasto l’uomo che aveva conosciuto da bambino o se quel nuovo mondo di spie l’aveva cambiato completamente. Non voleva dover dire a sua madre qualcosa che avrebbe potuto poi farla stare ancora peggio.
Ci mise qualche attimo prima di sentire la mano di calda di Beckett sul ginocchio. Glielo stava stringendo leggermente in un gesto di conforto. Alzò gli occhi su di lei e vide il suo sguardo preoccupato. Le rivolse un piccolo sorriso per tranquillizzarla.
“Quindi sei deciso a parlare con questo Tom Jones?” chiese Esposito diffidente.
“Voglio solo chiarire e sapere che vuole da me.” rispose Rick con un piccolo sospiro stanco, passandosi una mano tra i capelli. Javier aprì la bocca per parlare, ma tentennò per un momento, insicuro.
“So che non ti piacerà quello che sto per dirti, amico.” iniziò poi cautamente. “Ma sai che potrebbe anche essere tutta una balla, vero?” Castle girò di scatto la testa verso di lui e lo guardò come fosse impazzito.
“Che vuoi dire?” chiese confuso Kevin al posto del colonnello. Esposito soppesò le parole prima di parlare.
“Voglio dire che potrebbero aver creato una gigantesca balla perché vogliono qualcosa da Castle.” rispose alla fine piano, cercando di far comprendere il suo pensiero. “Potrebbero aver fatto delle ricerche su di lui e aver costruito tutto per far sembrare che suo padre fosse una spia…”
“E il diario?” domandò Lanie, aggrottando le sopracciglia e scuotendo la testa. “Quello come lo spieghi?” Javier ci pensò un momento.
“Qualche tempo fa, durante uno dei bombardamenti, parte della parete del piano di sopra ti era crollata, giusto?” domandò, osservando Rick senza comunque aspettarsi risposta. Il colonnello era all’improvviso troppo sconvolto da quella eventualità per riuscire a replicare qualcosa. “Avevi chiamato dei muratori esterni se non ricordo male. Magari qualcuno potrebbe averne approfittato per lasciare il diario…”
“Ma come avrebbero fatto a sapere che avrebbe controllato?” chiese Jenny dubbiosa. “Ci hanno detto che Kate lo ha ritrovato in soffitta.” Javier alzò appena le spalle.
“Potrebbero aver lasciato qualcosa, un indizio o qualcosa di simile.” replicò. “Magari hanno visto la botola del sottotetto e l’hanno lasciata aperta, forse. Voglio dire, di solito se qualcuno ti entra in casa e poi trovi qualcosa fuori posto, è ovvio che controlli se c’è tutto e…”
“La botola era semi-aperta.” mormorò sottovoce Kate all’improvviso, facendo voltare tutti verso di lei. La donna si morse il labbro inferiore e aggrottò le sopracciglia mentre riportava alla mente quel ricordo. “Per questo sono salita.” continuò poi piano, voltandosi verso Rick con aria dispiaciuta, come se avesse colpa di qualcosa. Lui però non ce l’aveva assolutamente con lei. Era semplicemente sempre più scioccato dalla piega che stava prendendo quella scoperta. “Era da quando ero entrata in casa tua che ero curiosa di vedere cosa ci fosse.” ammise quindi Beckett, arrossendo leggermente. “Non mi ero mai permessa, ma un giorno ho notato la botola un po’ aperta. Non volevo curiosare, ma mi avevi detto che potevo andarci se volevo e… e così ho colto l’occasione di dare un’occhiata…” Si morse di nuovo il labbro inferiore e guardò Rick con ansia, come in attesa di un suo giudizio. “Mi dispiace.” mormorò alla fine. Lui rimase per un lungo tempo immobile e silenzioso, lo sguardo fisso e perso al pavimento. Gli unici rumori che si sentivano era il lieve strofinare dello straccio della Gates sull’argento e i bassi borbottii di Leandro steso a terra a giocare. Perfino i suoni del mondo esterno sembravano all’improvviso spariti sotto il peso di quella possibilità a cui, alla scoperta del diario, Castle non aveva minimamente pensato. Si sentiva male. Aveva la nausea e solo una minima parte del suo cervello aveva registrato che si stava conficcando le unghie nella carne tanto i suoi pugni erano stretti. E se avesse avuto ragione Javier? In effetti la scrittura avrebbe potuto essere stata ricopiata da alcuni rapporti di Nicholas, dei fatti narrati solo per quelli realmente accaduti poteva dire per certo che fossero veri e riguardo a lui… beh, anche le informazioni su di lui erano reperibili. Dato inoltre che il rapporto con suo padre era stato quasi assente da quando si erano trasferiti, sarebbe stato anche facile immaginare quello che Rick avrebbe voluto sentirsi dire dal padre. Il colonnello sentì un groppo in gola. Avrebbe potuto davvero essere un crudele scherzo per costringerlo a fargli fare qualcosa di sua volontà?
“Devo parlare con Tom Jones.” dichiarò alla fine Castle atono, voltandosi a guardare il piccolo Leandro. Il bambino dovette sentire il suo sguardo addosso, perché alzò la testa e gli sorrise, prima di riprendere a giocare. “E’ l’unico ormai che possa dirmi come stanno davvero le cose.”
“Potrebbe mentire…” azzardò Javier.
“Se mentirà, lo capirò.” tagliò corto Rick. “Ieri mi ha colto impreparato. Non succederà di nuovo.”
“Io credo che dica la verità.” disse all’improvviso la Gates in tono calmo, facendo voltare tutti verso di lei. “Il diario intendo.” continuò, senza fermare il suo lavoro di pulizia e senza alzare neppure gli occhi dalla posata d’argento che aveva in mano. “E anche il signor Jones, per quanto concordi che quel nome è piuttosto comune e probabilmente fals…”
“Perché credi sia la verità?” domandò Castle, interrompendola bruscamente. Sentiva di nuovo il cuore in tumulto e l’agitazione farsi strada nel suo corpo, anche se tentava di non darlo a vedere, nemmeno a sé stesso. Quasi senza accorgersene, ancorò una mano alla spalliera della sedia tanto forte che le nocche gli sbiancarono. “Come fai a dirlo?” La cameriera concluse con calma l’operazione di lucidatura, quindi ripose la forchetta scintillante sul tavolo insieme alle altre e finalmente alzò gli occhi.
“Quando ha letto la lettera, quale è stato il suo primo pensiero?” domandò la cameriera. Il tono pareva quasi materno, mentre osservava attenta le reazioni del colonnello. Rick aggrottò le sopracciglia e si mosse a disagio sulla sedia.
“Non lo so, io… io non potevo crederci.” rispose piano. “All’inizio pensavo fosse impossibile, ma poi… poi ho iniziato a credere che tutto finalmente acquistasse un senso…” continuò cautamente, ripercorrendo i suoi stessi pensieri. “Insomma, confrontando l’uomo che mi aveva cresciuto con quello che era diventato, non riuscivo a capacitarmi del cambiamento. Invece la descrizione della spia dedita al suo lavoro e alla salvaguardia di ciò in cui credeva, tanto da inimicarsi la famiglia… beh, quello era molto più da lui.” aggiunse con un sospiro, passandosi poi una mano tra i capelli, mentre il morale gli crollava di nuovo a terra, ripensando alle parole di Esposito. “Ma probabilmente ero solo io che vedevo qualcosa che non esisteva…”
“Non c’è cosa più vera di ciò che è reale, signor Castle.” dichiarò, fermandolo, la Gates. Rick rialzò gli occhi su di lei e vide che aveva un piccolo sorriso in volto. “Non lo dimentichi. A volte i fatti sono solo fatti. Ora però, scusatemi,” disse, alzandosi e distendendo le pieghe del suo vestito con un automatico gesto della mano. “Devo andare a preparare il pranzo. Mangiate con noi?” chiese quindi, con una tranquillità tale che sembrava che fino a quel momento avessero parlato del tempo. Il colonnello la guardò con la bocca semiaperta e le sopracciglia aggrottate, ancora stupito del suo intervento.
“Ha ragione, sai?” intervenne Jenny a quel punto. Rick si voltò verso di lei. Gli sorrideva dolcemente, una mano abbandonata sul pancione sempre più prominente. “Noi siamo qui a fare congetture…” continuò, lanciando un’occhiata a Javier, ma indicando con un cenno della mano tutti i presenti. “Però solo tu conoscevi tuo padre. Solo tu puoi sapere qual è la verità su di lui. E se senti che la verità è in quella lettera, allora secondo me dovresti seguirla.” Lanie annuì leggermente accanto a lei, concordando con le sue parole. Castle si sentì per un momento diviso a metà. Una parte di lui voleva credere, l’altra gli diceva di essere realista. Ma qual era davvero la realtà?
Passò in rassegna i volti dei presenti, come a cercare un qualche consiglio, ma loro aspettavano tutti una sua decisione. Quando si voltò verso Kate, la vide osservarlo con uno sguardo un po’ triste, probabilmente per come si era evoluta la faccenda del diario.
“Che ne pensi?” le chiese. Beckett non rispose subito. Si morse per un momento il labbro inferiore, pensierosa, mentre rifletteva su cosa dire.
“Secondo me il diario può essere vero.” replicò alla fine la donna cautamente. “Ma allo stesso modo può essere stato scritto in modo che sembrasse così. Credo però che Jenny abbia ragione, nessuno di noi conosceva tuo padre, mentre tu sì. E nessuno cambia dal giorno alla notte…” aggiunse poi, guardandolo negli occhi. “Comunque, sinceramente non lo so... dovremmo avere più materiale per poter dire con certezza qualcosa, ma non è possibile. Quindi l’unica cosa che si può fare è chiederlo a qualcuno.” Rick annuì piano. Era dello stesso parere.
“Non restiamo per pranzo.” disse alla fine, voltandosi di nuovo verso la Gates. “Devo tornare a casa a fare una chiamata.”
 
“Signor Jones?” chiese Castle nervoso al telefono. Dopo la conversazione dai Ryan, lui e Kate erano rimasti il tempo dei saluti ed erano tornati al suo appartamento. Il colonnello si era fiondato impaziente sul telefono a muro del salotto, senza quasi neanche togliersi il giaccone, cercando insieme in ogni tasca il piccolo biglietto che Tom Jones gli aveva lasciato il giorno prima. Beckett nel frattempo si era spogliata del cappotto con calma e si era seduta a una delle sedie del tavolo in salone, aspettando che lui finisse di parlare con la centralinista per farsi passare il numero che voleva. Mentre tornavano a casa, Kate gli aveva detto che l’avrebbe aspettato nella piccola libreria durante la telefonata, ma lui le aveva chiesto invece di fargli compagnia. Aveva bisogno di qualcuno che gli calmasse i nervi nel caso Jones avesse ricominciato a farlo incazzare con i suoi giochi di parole.
“Colonnello Castle!” esclamò la voce sorpresa, e leggermente incrinata dalla linea, di Jones. “Ha fatto presto a chiamarmi. Credevo le ci sarebbe voluto qualche giorno per pensare a…”
“Dormo poco la notte.” lo bloccò Rick. Quindi fece una breve pausa. “Ho bisogno di risposte.”
“Tutti ne abbiamo bisogno.” replicò ironico Jones. Il colonnello sbuffò irritato, ma, alzando gli occhi, vide Kate fargli un gesto con la mano per dirgli di calmarsi. Prese un respiro profondo e si morse l’interno della guancia prima di continuare.
“Mi sembrava di aver capito che poteva dirmi delle cose su mio padre.” dichiarò poi cauto.
“Giusto.” replicò l’altro. Rick poté sentire un leggero sorriso nel tono. “Ma non si fa niente per niente che io sappia. Lei mi capisce, vero?” continuò, mentre una intonazione più seria si faceva strada nei suoi modi cordiali.
“Cosa vuole da me?” chiese Castle esasperato, intendendo il sottinteso.
“Perché questa formalità del telefono?” rispose però Jones con un vago tono divertito. Il colonnello sbuffò seccato. Sapeva che non era solo questione di formalità, come diceva l’uomo. Anche lui evidentemente temeva orecchie troppo lunghe nel centralino. “Troviamoci da qualche parte e parliamo come due gentiluomini. Che ne dice di venire nel mio albergo e scambiare due chiacchiere? Lei avrà quello che vuole e io le dirò cosa voglio in cambio. Uno scambio semplice e pulito.”
“E se non dovesse piacermi quello che mi chiederà in cambio?” domandò Rick. Ci fu un attimo di silenzio.
“Di questo ne parleremo quando ci incontreremo.” rispose Jones quasi noncurante. “Conosce il Lang Irrweg?” chiese poi. Castle ci pensò per un momento e ricordò l’insegna a caratteri gotici dell’albergo. Se non sbagliava, il posto era a solo un paio di isolati dalla casa di sua madre.
“Sì, lo conosco.” replicò alla fine.
“Ottimo.” dichiarò Jones. “Allora mi raggiunga lì per le sei di stasera. Non c’è bisogno che chieda di me alla hall, mi troverà ad aspettarla nella sala interna. Non ritardi, mi raccomando: abbiamo un po’ di cose di cui parlare e purtroppo poco tempo per farlo.”
“Me lo ricorderò.” borbottò Rick in risposta. Quindi Jones chiuse la chiamata senza dire altro. Il colonnello sbuffò e riappoggiò la cornetta al suo posto.
“Allora?” chiese Kate con tono leggermente ansioso.
“Ci incontreremo stasera.” rispose Castle pensieroso, avvicinandosi a lei e appoggiandosi con le braccia alla spalliera di una delle sedie vicine. “In uno degli alberghi più affollati di Berlino. Furbo, il tipo.” commentò poi con una mezza smorfia.
“Beh, visti i tempi, non sarebbe stato troppo saggio darvi appuntamento in un vicolo di notte come nel tuo libro…” replicò lei con un lieve tono divertito che malamente nascondeva la preoccupazione. Rick si lasciò sfuggire un mezzo sorriso.
“In effetti no, non sarebbe stato il caso.” replicò. Ci fu un momento di silenzio pensante.
“Ci vai da solo?” buttò poi fuori Kate all’improvviso, ansiosa. Rick capì che aveva atteso impaziente fino a quel momento per chiederglielo.
“Devo.” rispose con un sospiro.
“Può essere pericoloso.” insistette la donna. Castle scosse la testa.
“Questo riguarda me e…”
“Castle, questo riguarda tuo padre, non te!” esclamò lei interrompendolo, quasi rabbiosa. Lui lo guardò sorpreso. “Non puoi metterti in pericolo solo per…”
“Non sarò in pericolo.” la fermò Rick con tono calmo per tranquillizzarla, scostando la sedia e sedendosi in modo da fronteggiarla. Le prese le mani tra le proprie sopra le ginocchia di lei. “Te l’ho detto, il posto è affollato. Saremo sotto gli occhi di tutti, nascosti in bella vista. Sembreremo semplicemente due uomini che si incontrano dopo una giornata stancante per bere una birra. Nessuno baderà a noi.” Beckett sbuffò irritata.
“Non mi piace lo stesso.” Castle ridacchiò.
“Non piace neppure a me.” rispose più dolcemente, allungando una mano per carezzarle piano una guancia. In qualche modo, dopo la proposta che le aveva fatto la sera precedente e di cui non avevano più parlato, sentiva di poterlo fare, di poterla sfiorare così, senza rischiare un polso rotto. Kate comunque non disse niente. Semplicemente accettò la carezza, chiudendo gli occhi per un momento, come per godersi quei pochi attimi. “Ma sarà questione di un’ora al massimo. E starò attento, te lo prometto.” aggiunse poi con un sorriso. Lei gli lanciò un’occhiataccia.
“Tu e le tue promesse…” borbottò. “Se non vuoi portare Ryan, almeno lasciami venire con te!” esclamò poi, tentando di convincerlo. Ne avevano già parlato lungo la strada verso casa e Rick era stato irremovibile: se Jones gli avesse chiesto un incontro, lei non sarebbe venuta. Il colonnello scosse la testa.
“Ne abbiamo già parlato.” replicò infastidito, scostandosi da lei e alzandosi in piedi. All’improvviso sentiva il bisogno di muoversi, così iniziò a camminare avanti e indietro nel salone. “Preferisco che tu abbia il meno possibile a che fare con lui. Inoltre non abbiamo organizzato una messinscena dopo l’altra perché poi ti lasciassi venire tranquillamente con me a un incontro con uno sconosciuto e probabile spia. Non so quanto possa essere pericoloso.”
“Questo sarebbe un modo per rassicurarmi?” chiese Kate irritata, alzandosi a sua volta. Rick le fece un mezzo sorriso.
“Intendevo pericoloso per te.” Per tutta risposta, Beckett fece un verso seccato e il gesto di mandarlo al diavolo. “Beckett, per favore…” cercò allora di calmarla Castle con un sospiro stanco, passandosi una mano tra i capelli.
“No!” ribatté lei decisa, facendo un passo nella sua direzione. “Non sappiamo niente di questo Jones! Potrebbe essere una spia come un bugiardo o un pazzo o…”
“Kate!” la fermò Castle, avvicinandosi a lei e posandole le mani sul viso. Vide che lo sguardo di Beckett era nervoso e agitato. Quasi spaventato. Automaticamente iniziò a muovere leggermente i pollici per carezzarle gli zigomi. “E’ una cosa che devo fare da solo.” le sussurrò poi più dolcemente. La donna si morse il labbro inferiore con forza, la preoccupazione ben visibile nei suoi occhi. “Come tu sei venuta dall’America per avere notizie di tua madre, io ora ho bisogno di incontrare questo tizio per avere informazioni su mio padre. Ti prometto che farò attenzione e che ritornerò a casa integro. Ma devo farlo, ok?” Kate si mosse sul posto e aprì la bocca come se volesse dire qualcosa. Poi però si bloccò e scosse la testa, abbassando lo sguardo.
“Ok.” mormorò solo. Dopo un momento di incertezza, Rick si azzardò ad avvicinarsi e a lasciarle un bacio sulla fronte.
“Andrà tutto bene.” la rassicurò poi con un sorriso, mentre Kate rialzava gli occhi su di lui. “Fidati di me.”
 
Castle finì di cambiarsi e si guardò allo specchio. Per quella sera aveva eliminato ogni traccia del soldato. Si era infilato un paio di pantaloni marrone scuro e un maglione nero con collo alto, lasciando la divisa nell’armadio. Recuperò un berretto pesante nero dal fondo di un cassetto e lo indossò. Con il giaccone indosso sarebbe potuto sembrare un uomo qualunque che se ne tornava a casa dopo una giornata di lavoro. Tolse il cappello e tornò in salone, dove trovò Kate intenta a leggere un libro sul divano mentre si mordeva nervosamente un pollice. Era talmente concentrata nella lettura che non lo sentì nemmeno arrivare. Dopo essere rimasto per qualche momento a osservarla indisturbato però, Rick si accorse che la donna non stava leggendo. Continuava a fissare la stessa riga a inizio pagina senza neanche provare a continuare.
“Lo sai che si usa leggere e non solo tenere il libro in mano, vero?” dichiarò divertito. Beckett fece un mezzo salto sul divano per lo spavento. Gli lanciò un’occhiata omicida mentre lui ridacchiava.
“E tu lo sai che si usa dichiarare la propria presenza?” ribatté seccata, un po’ rossa in volto, lasciando parte il libro per alzarsi. A quel punto lo squadrò da capo a piedi e un mezzo sorriso le spuntò sulle labbra. “Perché non ti vesti più spesso così?” domandò, mordendosi il labbro inferiore e continuando a passare lo sguardo su e giù per il suo corpo. In effetti quel maglione era piuttosto aderente e delineava piuttosto bene il suo fisico, senza comunque sottolinearlo troppo. Rick ghignò compiaciuto mentre attraversava il salone per arrivare al corridoio d’ingresso.
“Se vedi qualcosa che ti piace, fammelo sapere.” disse, passandole davanti. “Sarò lieto di farti analizzare quello che vorrai quando sarò tornato.” A quelle parole, il sorriso cadde dalle labbra di Kate e tornò prepotente la rughetta d’ansia tra le sue sopracciglia. Rick si diede dell’idiota per non aver tenuto ancora una volta la bocca chiusa. Sapeva che le sarebbe pesato parecchio aspettarlo fino al suo ritorno.
Beckett incrociò le braccia al petto e lo seguì lentamente fino all’entrata, osservandolo poi infilarsi stivali, giaccone, berretto e guanti.
“Mi hai promesso che andrà tutto bene.” dichiarò lei seria, aspettando che lui alzasse gli occhi per continuare. “Vedi di iniziare a mantenerle, le tue promesse.” Rick le fece un mezzo sorriso, finendo intanto di infilarsi i guanti. Quindi le si avvicinò e, cogliendola impreparata, le lasciò un bacio sulla guancia.
“Tranquilla.” disse poi, scostandosi e notando soddisfatto il rossore improvviso sul viso di Kate. “Sono intenzionato a tener fede a tutte quelle che ti ho fatto.” aggiunse, facendole l’occhiolino. La donna lo osservò per un momento con gli occhi socchiusi, come a voler capire che se potesse effettivamente fidarsi o meno. Quindi annuì piano. Rick le fece un ultimo sorriso, poi si voltò e, con un respiro profondo, uscì nella strada innevata.
 
Come gli era stato detto, Castle entrò nella sala interna del Lang Irrweg e si guardò intorno. Il posto aveva l’aria di un grande pub, ma con colori più chiari e più illuminato. Sulla destra si trovava un lungo bancone per gli alcolici, dove tre baristi si muovevano veloci per star dietro a ogni ordinazione. Il resto della sala era riempito da tavoli, tavolini e poltroncine quasi del tutto occupate. Dando un’occhiata in giro, Rick capì perché Jones aveva scelto quel luogo. Era pieno di avventori, come se fosse un vero pub. Evidentemente quello era rimasto uno dei pochi posti del quartiere che vendeva alcolici e, siccome al momento comunque la clientela in albergo scarseggiava, probabilmente i proprietari del Lang Irrweg avevano pensato bene di lasciarlo più o meno aperto a tutti per arrotondare i guadagni.
Rick faticò non poco per trovare il suo uomo. Lo individuò solo dopo qualche minuto, seduto in un tavolino da due mentre leggeva il giornale in uno degli angoli della sala. Non appena lo raggiunse, Tom Jones alzò gli occhi dal quotidiano. Gli fece un mezzo sorriso e un cenno della testa come saluto, quindi gli indicò di prendere posto davanti a lui. Castle si innervosì non poco per il fatto di essere spalle alla sala. Avrebbe preferito controllare il salone, ma evidentemente il suo ospite aveva pensato la stessa cosa. L’uomo lasciò il giornale per terra e gli chiese se voleva ordinare. Non aveva ancora finito la frase che un cameriere si presentò da loro. Entrambi chiesero una birra e Rick approfittò del momento per togliersi berretto e guanti per infilarli nella tasca del giaccone che aveva già lasciato sulla spalliera della sedia. Il cameriere quindi prese le ordinazioni e se ne andò.
“Allora.” iniziò poi Jones con un sorriso affabile. Era composto, ma rilassato sulla sedia. Nessun segno di nervosismo o ansia. “Da dove vogliamo iniziare?” Rick si passò una mano tra i capelli per sistemarli in automatico dopo essere stati schiacciati dal cappello.
“Cominciamo da mio padre, Nicholas Castle.” rispose. L’uomo annuì piano, pensieroso.
“Cosa sa di suo padre?” chiese. “Giusto per evitare di ripetere qualcosa che già conosce.”
“So che era un generale decorato dell’esercito americano.” replicò Rick senza esitare, a bassa voce per evitare che qualcuno li sentisse. Quella precauzione comunque sarebbe stata piuttosto inutile, visto il forte vociare che riempiva la sala. “E so che non si è trasferito qui a Berlino per puro piacere. Aveva ricevuto l’ordine di passare informazioni allo Zio Sam.” Jones alzò le sopracciglia, sorpreso.
“Mi sembrava di aver capito che non ne sapesse molto del Generale Castle.” disse con tono curioso, socchiudendo gli occhi come a volerlo studiare meglio. Quel gesto rimarcò le rughe di espressione precoci sul suo volto. “O almeno, l’ultima volta che ci siamo incontrati sicuramente era così. Come lo ha saputo? E in così poco tempo oltrettutto…” In quel momento tornò il cameriere. Il ragazzo posò le loro birre, attese di prendere i soldi e se ne andò di nuovo, lasciandoli soli.
“Mio padre ha lasciato una lettera.” rivelò alla fine Castle, dopo averci pensato per qualche momento, avvicinando intanto il suo boccale di birra.
“Una lettera?” chiese stupito Jones. Rick annuì.
“Mi ha scritto cosa aveva fatto e perché.” continuò, osservando intanto la schiuma biancastra sopra la sua birra dissolversi lentamente. “Era insieme a un diario in cui credo abbia preso degli appunti su informazioni e vecchie conversazioni che avrebbe poi dovuto passarvi…”
“Vecchie conversazioni?” domandò interessato l’uomo, sistemandosi meglio sulla sedia. “Di quando? Con chi?” Il colonnello alzò un sopracciglio, perplesso dal suo comportamento. Erano stralci di dialoghi, più che altro appunti, e per di più di quasi dieci anni prima. Perché fare tutta quella scena?
Scosse la testa e bevve un sorso di birra. Era chiara e fresca, solo leggermente amara. Ottima.
“Perché vi interessa tanto?” rispose alla fine. “Si tratta di cose vecchie di anni.”
“Mai sottovalutare il potere delle informazioni, Colonnello.” ribatté Jones ironico. “Non sai mai quando una certa cosa, come la chiama lei, potrà servirti.” Rick lo studiò per un momento, quindi alzò appena le spalle.
“Immagino abbia ragione.” commentò, prendendo un altro sorso di birra. Jones prese il suo primo sorso dal bicchiere, pensieroso.
“Posso chiederle una cosa?” iniziò poi cauto l’uomo, rimettendo la birra sul tavolo. “Se sa già tutto questo, perché mi ha chiesto delle risposte?” Rick si mosse a disagio sulla sedia e lanciò uno sguardo alla sala.
“Ho avuto dei dubbi che fosse la verità.” confessò dopo qualche momento, tornando a guardarlo. “Dovevo sapere se era vero.” Jones aggrottò le sopracciglia.
“Non mi ha mai chiesto se suo padre fosse una spia però.” affermò curioso.
“Beh, lei non ha fatto niente che mi impedisse di pensare il contrario.” replicò il colonnello. Studiando l’uomo infatti, non aveva notato alcuna reazione che gli suggerisse che stava mentendo. O forse aveva solo voluto crederlo. Non volle indagare ulteriormente su quel pensiero e si concentrò sull’uomo davanti a lui.
Tom Jones annuì lentamente.
“Capisco.” disse con un lieve sospiro. “Beh, non so se lei voglia fidarti di me, ma posso assicurarvi che è tutto vero.” A quelle parole, Rick sentì di nuovo l’eccitazione scorrergli nelle vene, la stessa di quando aveva letto il diario di suo padre. “E potrei doppiamente confermarvelo, visto che conoscevo personalmente Nicholas Castle.” Il colonnello lo guardò sorpreso, gli occhi sgranati, la bocca semiaperta. Jones fece un mezzo sorriso alla sua faccia stupita e prese un altro sorso di birra prima di continuare. “L’ho incontrato che ero ancora un ragazzino, in America. Ero in un momento… diciamo difficile della mia vita.” disse poi, rivolgendo gli occhi alla sala. Rick aggrottò le sopracciglia, curioso e attento. “I miei genitori erano morti e io ero allo sbando. Vivevo a New York quindi può ben immaginare in che razza di giri mi fossi infilato.” commentò con un mezzo sorriso, scuotendo la testa. Castle annuì quasi senza accorgersene. Ricordava le bande criminali che circolavano per New York nelle loro auto nuove fiammanti, pistola alla mano, come fossero i padroni della città. I peggiori assoldavano i ragazzini per fare i lavori più sporchi, da accattonaggio, borseggi e rapine per i più piccoli fino a pestaggi, rapimenti e assassinii per quelli più grandi. “Un giorno tentai di fregare la persona sbagliata: Nicholas.” Stavolta fu Rick a farsi scappare un mezzo sorriso. Sapeva per esperienza che non era mai stato il caso di mettersi contro suo padre. “Mi davo già per spacciato, ma lui… lui vide qualcosa in me. Qualcosa di buono o per lo meno di utile.” dichiarò poi l’uomo più serio, aggrottando le sopracciglia, gli occhi per un momento persi nel ricordo. “Invece di buttarmi in qualche cella, come avrebbe dovuto fare, mi diede la possibilità di entrare in accademia militare e cambiare la mia vita. Accettai.” aggiunse, tornando a guardare Castle negli occhi. “Non ero particolarmente buono come soldato, ma scoprii di avere altre doti che segnarono la mia strada. Imparavo in fretta, soprattutto le lingue. Avevo buona memoria e volevo viaggiare. Inoltre, cosa forse più importante, sapevo ascoltare e vedere senza essere notato, se non volevo. In pratica dopo un periodo di addestramento, diventai gli occhi e le orecchie dello Zio Sam nel mondo.” Fece un mezzo sorriso divertito al colonnello. “Quasi subito di spedirono in Germania. Le mie peculiarità erano che ero giovane e volenteroso, ma allo stesso tempo poco malleabile quindi ottimo per intrufolarsi tra i ranghi nazionalsocialisti senza essere tentato di passare dall’altra parte. Purtroppo ebbi ben poca fortuna, ero troppo sarcastico e testa calda, finché non arrivo tuo padre.” Rick strinse la mano sul bicchiere a quelle parole, all’improvviso nervoso. “Mi insegnò come far finta di stare al gioco, come far credere a tutti che la mia vera missione fossero Hitler e le sue idee radicali, senza però mai pensarlo davvero. E’ molto più difficile di quanto si pensi, mi creda.” aggiunse poi con un sospiro, lanciando un’altra occhiata alla sala. “Il nostro motto era Ricordati da dove vieni. Me lo fece ripetere fino alla nausea, in modo che non lo dimenticassi mai.” continuò con tono divertito. Castle si sentì fremere a quella frase, ma tentò di non darlo a vedere. Jones però dovette capire il suo stato d’animo perché fece un mezzo sorriso. “Lo ha scritto, vero?” Rick non poté far altro che annuire.
“Era nel post scrittum.” spiegò. Si accorse di avere la gola secca, quindi bevve un altro po’ di birra.
“Immaginavo che lo avrebbe messo da qualche parte, sin da quando mi ha parlato della lettera.” replicò Jones, annuendo piano a sua volta. Poi prese un respiro profondo e si accomodò meglio sulla sedia. “Beh, questa è la mia parte di storia su suo padre. Per me era un grande uomo con grande coraggio. Mi ha insegnato molto e gli devo tutto quello che sono oggi.” Si fermò per un attimo e studiò Rick. “Le basta come risposta su Nicholas?” Castle si prese qualche secondo per rispondere, gli occhi fissi sulla birra ambrata davanti a lui senza realmente vederla. Per quella volta, decise di fare atto un atto di fede, fidandosi del suo istinto.
“Per ora sì.” rispose alla fine. Jones annuì.
“Il mio numero lo sa.” replicò tranquillo. “Se vorrà altre risposte, farò del mio meglio per riuscire a dargliele.”
“Ho ancora una domanda in realtà.” ribatté Rick, alzando gli occhi sull’uomo. “Perché è venuto da me ora?” chiese perplesso. “Perché non otto anni fa? O perché semplicemente non rivelarlo mai?” Stavolta fu Jones a prendersi del tempo per rispondere. Sorseggiò piano la sua birra, gli occhi che vagavano per la sala affollata.
“Abbiamo fatto un patto, mi sembra.” dichiarò l’uomo, riappoggiando il boccale di birra, ormai vuoto per metà, sul tavolo. “Io le avrei dato le informazioni che cercava e in cambio lei avrebbe ascoltato me.” Castle sbuffò leggermente, ma annuì.
“Cosa vuole in cambio?” domandò quindi diffidente, ma con la consapevolezza di non potersi più tirare indietro. Tom Jones fece un mezzo sorriso.
“Semplicemente quello che le ho dato io.” rispose. “Informazioni.” Il colonnello socchiuse gli occhi sospettoso, studiandolo.
“Che genere di informazioni?” chiese cauto. L’uomo lanciò un’altra occhiata alla folla del locale.
“So che ha partecipato a un paio di feste ultimamente.” disse alla fine atono. “Di cui una l’ha data lei stesso. Ah, complimenti per il fidanzamento comunque.” Castle aggrottò le sopracciglia, confuso da cosa c’entrasse quello con le informazioni che richiedeva. Senza volerlo, contrasse la mascella, nervoso. Prima di parlare, attese però che Jones finisse di spiegarsi. “Ecco, visto che sembra che recentemente lei si sia inserito così bene tra i suoi superiori, l’ho contattata perché credo che lei possa aiutarmi.” L’uomo fece una pausa prima di continuare. “Quello che le chiedo non è difficile: solo continuare ad andare a questi bei ricevimenti, chiacchierare con i suoi amici Generali e, di tanto in tanto, quando la situazione lo richiede… passare qualche novità a me.”
“Lei vuole che io spii i miei superiori.” dichiarò Castle a denti stretti, capendo finalmente la sua richiesta. Jones scosse la testa e fece un gesto con la mano come a dire che stava dicendo una sciocchezza.
“Andiamo, colonnello, direi che spiare è una parola grossa!” replicò l’uomo con un mezzo sorriso divertito.
“Io direi che spiare è la parola migliore per descrivere ciò che mi sta chiedendo!” ribatté Rick irritato. Jones fece una smorfia.
“Se le chiedessi di farlo per il suo paese?” tentò ancora.
“Sa dirmelo lei qual è il mio paese?” sbottò Castle seccato. “Non sono più americano e non sono completamente tedesco. Avanti, mi dica lei a chi devo la mia lealtà!” continuò sarcastico. Jones rimase in silenzio per un momento, studiandolo attentamente. Quindi prese un respiro profondo e osservò le piccole bollicine di birra risalire sulla sommità della bevanda.
“Capisco la sua ritrosia…” disse alla fine, lentamente. “Spero che la signorina Beckett sappia di questa sua crisi di identità.” Rick perse un battito a quelle parole e gli si fermò il fiato in gola. Sentiva di essere sbiancato anche senza uno specchio a portata di mano. La signorina… Beckett?? Jones sorrise leggermente alla sua reazione. “Sì.” disse poi. “So tutto della nostra connazionale Katherine Beckett. Bellissima donna, devo ammetterlo, anche se quel brutto colpo della madre....” Castle schizzò in piedi, rabbioso, e quasi si lanciò sull’uomo per prenderlo a pugni. Si fermò solo all’ultimo, la mascella contratta e i pugni serrati, il respiro irregolare.
“La lasci fuori da questa storia.” sibilò furioso. Jones sorrise di nuovo, per nulla intimorito dalla sua reazione.
“Va bene.” rispose, fin troppo accondiscendente. Rick socchiuse gli occhi, sospettoso, ma si risedette piano. L’uomo lo osservò riprendere posto, quindi continuò. “Vogliamo allora parlare dei suoi particolari traffici umani con il Maggiore Ryan e la sua signora?” Il colonnello si sentì morire a quelle parole. Aveva fatto tanto per proteggere Kevin e Jenny, ma a quanto pare non era bastato. “E come stanno gli Esposito comunque?” Rick dovette appoggiarsi al tavolino davanti a sé per non crollare. Strinse la presa sul metallo tanto che le nocche gli sbiancarono. Il cuore gli batteva a mille e sentiva di non respirare bene. Il fiato gli si era bloccato in gola. Stava tremando.
“Basta…” sussurrò distrutto, abbassando lo sguardo. In quel momento capì cosa intendesse Jones quando diceva che le informazioni potevano sempre essere utili. Conoscere è potere.
Jones sorrise appena. Un sorriso che fece solo preoccupare di più il colonnello.
“Come vede so fare bene il mio lavoro.” disse con tono compiaciuto. Rick alzò lo sguardo e gli lanciò un’occhiata di puro odio. Jones allora si allungò appena sul tavolo verso di lui e abbassò la voce. “Non si fa niente per niente, Colonnello Castle.” dichiarò serio. “E io non faccio eccezioni. Sono una spia, non un santo. Conoscevo le sue azioni già da un po’, ma siccome le trovavo giuste non ho detto niente. Ora, per rispetto anche a suo padre, non mi costringa a renderle pubbliche. Io magari accrescerei la mia posizione, ma lei, la sua donna, i suoi amici e perfino sua madre ne uscirebbero male…”
“Come fa a sapere che i generali mi diranno quello che vuole sapere?” domandò Rick sconfitto, a bassa voce. Jones fece un gesto noncurante con la mano e si riappoggiò comodamente alla sedia, portando con sé il boccale di birra.
“Quei vegliardi non aspettavano altro che lei prendesse moglie per confidarle i loro segretucci come vecchie comari alla finestra.” rispose sarcastico e con chiaro tono di disprezzo, prendendo un sorso dal bicchiere. “E’ da tempo che la osservano. Sanno che è un buon soldato. Segue gli ordini e i suoi uomini le sono fedeli e la rispettano. Ha un solo nemico, il Colonnello Dreixk, ma chi non lo ha?” aggiunse poi con un mezzo sorriso. “Mi creda, aspettavano solo il momento migliore per cominciare a forgiarla e aiutarla a salire al grado di Generale.” Castle rimase in silenzio mentre quelle parole gli penetravano addosso. In quel momento però non gli importava più salire di grado. Non gli importava nemmeno sapere come diavolo facesse Jones a conoscere tutte quelle cose. Voleva solo proteggere ciò che aveva di più caro. I suoi amici, sua madre. Kate.
Prese un respiro profondo e si drizzò sulla sedia. Quindi rialzò lo sguardo su Jones, che lo osservava in attesa.
“Non ho idea se posso fidarmi di lei.” dichiarò serio e atono, nascondendo l’agitazione dentro di sé. “Ma al momento direi che importa poco. Mi garantisca solo che Beckett, mia madre e i miei amici resteranno al sicuro. Può farlo?”
“Ha la mia parola.” rispose subito Jones. A Castle sembrò sincero. In ogni caso dovette fidarsi del suo istinto.
“Allora lo farò.” 

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Xiao! :D
Chiedo venia per il ritardo di quasi una settimana!! Purtroppo ho avuto un po' di problemi (tra cui anche che non sapevo come scrivere -.-) e inoltre non sono stata bene... So che mi odierete, ma vi devo chiedere di perdonarmi anche per le prossime pubblicazioni... Sono a un mese dagli esami "finali" (per così dire, la laurea a 3 schioppi di pistola XD) e devo assolutamente studiare quindi, almeno per ora, non posso garantirvi un aggiornamento settimanale... sopportatemi e non odiatemi vi prego! <3
Detto questo, spero che nonostante le mie crisi di questo cap sia venuto fuori qualcosa di buono! XD
A presto! :)
Lanie
ps:anche a voi mancava Leandro come mancava a me? :3

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Capitolo 19
*** L'uomo sulla Luna ***


Lo so, sono in ritardo di nuovo, ma mi avevo avvertito... X) Comunque spero di farmi in parte perdonare con questo capitolo! In parte... più o meno... spero! XD
Non dico altro! Buona lettura! ;D
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Cap.19 L’uomo sulla Luna
 

Castle rientrò a casa dopo più di un’ora di conversazione con Tom Jones. Fuori era ormai buio pesto, nonostante non fossero neanche le otto. Con un respiro profondo e il morale a terra, il colonnello girò la chiave nella toppa e fece scattare la serratura con un sonoro schiocco. Non  fece neanche in tempo ad accendere la luce del corridoio e chiudere la porta che Kate si materializzò dal salotto.
“Allora??” chiese subito, ansiosa. Rick la vide osservare ogni suo movimento, come a cercare una qualche ferita fisica. Quando non ne riscontrò, alzò gli occhi sulla sua faccia. “Cosa ti ha detto?” Lui non rispose subito. Si prese il suo tempo per chiudere la porta d’ingresso e poi togliersi il pesante giaccone. Aveva pensato a lungo, durante la strada, se rivelare a Beckett ciò che avrebbe dovuto fare. Non aveva ancora trovato una risposta.
“La storia del diario era vera.” rispose alla fine atono, senza guardarla, guadagnando tempo dal vero problema. “Mio padre era una spia.” Kate lo osservò attenta, le sopracciglia aggrottate.
“E… questo è un bene?” chiese cauta, notando la reazione spenta dell’uomo. Fino a qualche ora prima avrebbe fatto quasi i salti di gioia alla notizia, alla possibilità di dare finalmente un senso alle azioni di Nicholas Castle. Fino a qualche ora prima.
“Sì.” rispose Rick con un piccolo sorriso stanco, sistemando con calma i guanti uno sopra l’altro sul tavolino laterale, in perfetto ordine. “In un certo senso si può definire un bene.”
“Lo dirai a tua madre?” domandò ancora la donna. Castle si fermò per un attimo nella sua operazione. Quindi riprese piano il suo lavoro di sistemazione.
“Più tardi.” replicò con un sospiro. “Domani forse, ma non più in là. Ho già sperimentato sulla mia pelle cosa vuol dire tenere un segreto del genere, soprattutto se questo segreto viene poi scoperto…” aggiunse quindi, alzando per la prima volta la testa per guardarla e facendole un mezzo sorriso. Kate però non ricambiò. Anzi socchiuse gli occhi alla sua espressione, studiandolo.
“Che altro ti ha detto?” chiese quindi dopo qualche momento, intuendo che ci fosse dell’altro. Rick si mosse a disagio sul posto, senza rispondere. Poi si voltò verso il giaccone appeso e si mise a distendere alcune invisibili pieghe del tessuto. “Castle?” lo richiamò lei in un misto di frustrazione e preoccupazione.
“Ogni informazione ha il suo costo.” dichiarò alla fine il colonnello, girandosi lentamente di nuovo verso di lei, lo sguardo però basso. “Che sia rivelatrice o chiarificatrice. Anche quelle nascoste hanno un prezzo, ci hai mai pensato? Quelle che vuoi che restino tali soprattutto…”
“Castle, che stai…” iniziò Kate confusa, ma lui la interruppe ancora prima che finisse la frase.
“Sapeva tutto.” confessò atono, lo sguardo perso sul pavimento, i pensieri rivolti alle parole di Jones. “Sapeva tutto di me, di te, di quello che facciamo io e Ryan, degli Esposito… Sapeva tutto.” sussurrò ancora, mentre con la coda dell’occhio osservava Beckett portarsi le mani davanti alla bocca in un’espressione inorridita. “Non so come. Ma sapeva.” continuò, finalmente alzando la testa e guardando la donna sconsolato. “Ho dovuto fare uno scambio. Le informazioni di mio padre e la promessa che i dati su di voi non venissero mai rivelati, in cambio di altre informazioni.” Kate si passò una mano tra i capelli, scioccata.
“Che… che genere di informazioni?” riuscì a chiedere dopo qualche secondo, prendendo grandi boccate d’aria per riprendersi.
“Politiche e di guerra.” rivelò stancamente Castle. Non aveva più voglia di mentire. “E tutto quello che riuscirò a trovare, immagino. La mia parte di patto prevede la mia presenza ai futuri ricevimenti a cui verrò invitato, in modo da far fidare i Generali di me per farli parlare il più possibile.” Kate sbiancò.
“Dimmi che non hai accettato.” disse la donna a mezza voce. Per tutta risposta, Rick abbassò lo sguardo e si morse il labbro inferiore.
“Non potevo…”
“Certo che potevi!!” lo bloccò lei, all’improvviso furibonda. “Potevi mandarlo a quel paese! Tu più di tutti dovresti avere un’idea di quello che i tuoi colleghi fanno ai traditori! Ti sta mandando al macello, Castle!!” dichiarò in un misto di rabbia e ansia. “Gli serviva qualcuno da sacrificare e ti ha servito su un piatto d’argento!”
“Non potevo fare altrimenti!” sbottò di rimando Rick. “Avrebbe sbandierato a tutti di te e degli Esposito! Hai tutta questa voglia di farti un giro in uno di quei bei campi di lavoro da cui nessuno è mai tornato??” esclamò con rabbia crescente. “O meglio ancora, probabilmente Javier sarebbe finito con una pallottola in testa subito! Invece tu, Lanie e Leandro in uno di quei cazzo di posti dimenticati da Dio! E vogliamo parlare di mia madre, Kevin e Jenny? Pensi che con lei sarebbero stati più clementi solo perché è incinta?? Dannazione Kate, non capisci? Non potevo fare altro per tenervi al sicuro!! A fanculo i gradi, non me ne importa niente, ma non ho alcuna intenzione di mettervi in pericolo e perdervi, mi hai capito?? Nessuna intenzione!!” affermò alla fine con il fiato corto, scandendo bene le parole. Quindi cercò di darsi una calmata, prendendo un respiro profondo. “Voglio solo che restiate vivi, almeno finché quel maledetto aeroporto non riprende a funzionare, così che possa portarvi via da questo inferno. Non chiedo altro. E se questo comporta il parlare con un paio di persone e passare qualche notizia, allora non mi tiro certo indietro. Beckett tu sei…” Si bloccò per un attimo, accorgendosi delle sue parole. “Siete troppo importanti per me. Siete la mia famiglia. Ho già perso parte della mia famiglia una volta. Non voglio che succeda di nuovo.” Si fermò ansante, il cuore che batteva furioso, come se si fosse appena fermato dopo aver corso una maratona. Un silenzio pesante calò tra di loro, rotto solo dal respiro rumoroso del colonnello e da quello leggero di Kate. Lei lo fissava immobile, la bocca socchiusa, le sopracciglia aggrottate. Aveva uno sguardo strano. Un misto di preoccupazione e rabbia, ansia e dolore. Abbassò gli occhi.
“Suppongo di non poter fare altro per farti cambiare idea quindi.” mormorò la donna con lo sguardo al pavimento. “Va bene.” aggiunse poi, sorprendendo Rick. “Capisco le tue motivazioni. Dico solo che non dovresti esporti così tanto al pericolo per noi…”
“Me la caverò.” la interruppe il colonnello. Non era più arrabbiato. Solo stanco e un po’ perplesso per il repentino cambiamento di Beckett. “Ho tenuto nascoste informazioni in passato, le ho plasmate più o meno come volevo da quando sono a Berlino e ho iniziato a lavorare con Ryan. Mi adatterò a fare il contrario: stanarle.” A quelle parole, la donna fece un mezzo sorriso che lo insospettì parecchio.
“Allora è come pensavo.” disse alla fine, alzando di nuovo gli occhi su di lui. C’era un lieve luccichio nei suoi occhi verde-nocciola. “Ti servirà il mio aiuto.” Castle sgranò gli occhi.
“Che??” esclamò scioccato. “No, è escluso.” continuò categorico, avanzando a grandi passi verso il salone, passandole davanti senza guardarla come per chiudere fisicamente la conversazione.
“Castle...” cercò di dire Kate, ma lui non la lasciò finire.
“No, Beckett.” disse serio, voltandosi di nuovo verso di lei e avvicinandosi di un passo, deciso, per chiarire il concetto. Lei scosse la testa seccata.
“Non mi hai lasciato neppure parlare!” replicò frustrata. “Almeno ascoltami! Giuro che non è qualcosa per cui mi metterò in pericolo, se ti fa stare più tranquillo.” Rick socchiuse gli occhi e la studiò per qualche attimo.
“No.” sbuffò contrariato, incrociando le braccia al petto. “Non mi tranquillizza. Ma suppongo di non poterti legare da qualche parte per impedirti di fare qualche cavolata, perciò avanti. Spara. Almeno saprò cosa aspettarmi.” Kate fece una smorfia offesa che gli fece spuntare un lieve sorrisetto.
“Ti ricordi cosa facevo in America?”chiese alla fine la donna. Castle ci pensò per un momento.
“La giornalista, mi sembra.” rispose incerto. Beckett annuì.
“Esatto.” ribatté mentre un piccolo sorriso di trionfo per chissà cosa le si allargava in volto. Rick si mosse agitato sul posto, come un animale messo all’angolo da qualcosa di ancora indefinito. Aveva un brutto presentimento. “E le informazioni sono il pane dei giornalisti. Viviamo per stanare informazioni ed è giusto quello che hai detto che devi imparare a fare, mi sembra. Quindi ho una proposta.” Appunto. Castle la guardò male per un attimo. Poi si passò una mano tra i capelli e sulla faccia, pronto all’inevitabile.
“Coraggio.” la invitò a parlare ormai rassegnato. Kate si morse il labbro inferiore, nervosa.
“Io non dirò più una parola sullo ‘scambio’ che hai fatto con Jones.” iniziò cauta, osservando attenta ogni mossa dell’uomo. “Ma tu dovrai portarmi con te a questi ricevimenti.” concluse. Il colonnello aveva già aperto la bocca per protestare, ma lei alzò una mano e lo bloccò prima ancora che cominciasse. “Non è una domanda. E non si può ritrattare. Castle, andiamo, sai benissimo che in coppia si lavora meglio. Due occhi e due orecchie in più certo non ti faranno male. Ho i mezzi e la possibilità di aiutarti. Permettimi solo di farlo.” Rick la scrutò a lungo, combattuto. Sapeva che lei aveva ragione, la sua esperienza come giornalista gli sarebbe stato senz’altro di aiuto. Inoltre era ben conscio di non poterla fermare. Testarda com’era, si sarebbe impuntata e avrebbero finito solo per litigare ancora e dannarsi l’anima senza arrivare a un accordo. Ma d’altronde era restio a esporla tanto dopo tutto quello che avevano progettato per farla restare nell’ombra. Alla fine prese una decisione, anche se non gli piacque per niente.
“Va bene.” sbottò seccato. “Ma azzardati a spostarti di un millimetro dal mio fianco e la volta dopo ti lascio a casa.” aggiunse poi subito dopo, vedendo che un mezzo sorriso stava già spuntando sulla faccia della donna. A quelle parole, Kate sorrise solo più apertamente.
“D’accordo.” disse più tranquilla, annuendo e allungandogli una mano a sigillare il patto. Rick sbuffò ancora, ma le strinse la mano. Poi, prima che avesse il tempo di accorgersi di qualcosa, si ritrovò il viso di Kate a meno di cinque centimetri dalla sua faccia. “Non te ne pentirai, Colonnello.” gli sussurrò con un sorrisetto malizioso. Il suo grado detto da lei, a quella distanza e in quel modo, gli fece subito salire la temperatura e per un attimo dimenticò di inalare aria ai polmoni. Un attimo dopo però la donna si allontanò con un sorrisetto soddisfatto stampato in volto e si voltò per tornarsene in salone. Fu solo a quel punto che Rick ricominciò a respirare. Girando la testa, si ritrovò la sua faccia attonita e rossa riflessa nello specchio dell’ingresso, con gli occhi blu scuro persi all’improvviso in chissà quale mondo lontano.
 
“Beckett, è pronto!” la chiamò Rick, tirando giù la pasta dalla pentola. Per rilassarsi qualche minuto, aveva detto alla donna che avrebbe cucinato lui quella sera. Così aveva messo l’acqua a bollire e si era dato da fare per creare un sugo con un po’ di carne fatta a pezzetti e verdure sminuzzate.
“Che profumino.” disse Kate con un sorriso, entrando in cucina e distogliendolo dai suoi pensieri. “Cos’è?”
“Ricetta di mia invenzione.” replicò il colonnello, riempiendo due piatti mentre Beckett si sedeva a tavola. Lei alzò un sopracciglio divertita.
“Devo preoccuparmi?” chiese ironica. Rick le fece una finta smorfia offesa e lei ridacchiò. Castle non era esattamente dell’umore per divertirsi quella sera. Suo padre, la conversazione con Jones, perfino la discussione con Kate, tutto gli vorticava in testa ad un ritmo incessante. Eppure con lei riusciva ancora a sorridere. Forse era anche per quello che se ne era innamorato.
Mangiarono più o meno serenamente. Chiacchierarono, ma ci furono anche diversi momenti di quiete in cui, in qualche modo, nessuno dei due si sentì a disagio. Inoltre, quando la donna lo sorprese a rimuginare sugli ultimi fatti, lo distrasse. Iniziò a parlare di qualunque cosa pur di non farlo preoccupare ulteriormente. Il colonnello si era quasi soffocato con un pezzo di pasta quando Beckett, per farlo uscire dai suoi pensieri cupi, gli aveva nominato Fabian Lange, il ragazzino neo-diciottenne che, all’ultima festa che avevano presenziato, aveva tentato di ballare con lei più volte senza successo.
“Castle, smettila di pensare!” lo riprese scherzosamente Kate alla fine della cena, vedendolo di nuovo perso nelle sue riflessioni. Lui alzò gli occhi e vide il sorriso dolce e un po’ preoccupato della donna. “Prima o poi ti si fonderà il cervello se continui così.” Le fece un mezzo sorriso in risposta e scosse la testa.
“Tranquilla, non andrebbe perso molto.” dichiarò divertito. “Solo un paio di neuroni.”
“Peccato.” mugugnò lei, cercando di nascondere un sorrisetto dietro un bicchiere, bevendo un sorso d’acqua. “Stavano giusto iniziando a piacermi quei due neuroni.”
“Beh, quelli ormai li abbiamo quasi persi, ma sei sempre libera di interagire con qualunque altra cosa ti piaccia.” replicò Rick con tono furbo, facendole l’occhiolino. A quelle parole, Kate posò il bicchiere e lanciò una lunga occhiata al corpo del colonnello, coperto non più dalla divisa ma da un paio di pantaloni comodi e una maglietta a maniche corte.
“Mi sa proprio che un giorno di questi ti prenderò in parola…” mormorò maliziosa e timida insieme, mordendosi il labbro inferiore. Castle sentì all’improvviso caldo.
“Non vedo l’ora.” rispose con voce bassa e roca. Rimasero a guardarsi negli occhi per qualche momento, perdendosi e insieme aspettando di capire la prossima mossa dell’altro. Alla fine, la prima a distogliere lo sguardo fu Kate, leggermente rossa in volto.
“Meglio sistemare.” disse, osservando la tavola e iniziando poi a prendere i piatti sporchi. Rick però non glielo permise.
“Faccio io.”  la bloccò, prendendole delicatamente il polso e sfilandole i piatti dalle dita.
“Non vuoi una mano?”
“No, tranquilla.” la rassicurò con un sorriso. “Vai pure in salone, ti raggiungo tra un momento.” Beckett restò per un momento immobile, quindi annuì e lo lasciò fare, uscendo dalla cucina. Castle recuperò anche le altre cose sporche, le lavò e asciugò. Mentre strofinava le posate, si perse ancora una volta tra i suoi pensieri. Scosse la testa e si impose di restare lucido. In fondo non aveva senso rimuginare ancora, le cose non sarebbero cambiate. Forse smettere semplicemente di pensare per un po’, come diceva Kate, staccare la spina, sarebbe stata davvero la cosa migliore da fare.
Finì di pulire e qualche minuto dopo raggiunse la donna in salone. Pensava di trovarla sul divano, ma dopo pochi passi si accorse che non era lì. Confuso, si guardò intorno. Stava per chiamarla quando intravide la figura di Kate seminascosta da una delle tende della portafinestra. La vide assorta a osservare qualcosa all’esterno, nel buio della notte. Si avvicinò silenziosamente per non disturbarla e, seguendo il suo sguardo, capì che stava fissando la Luna. Il satellite era alto nel cielo pulito, ben visibile e luminoso. Si potevano perfino scorgere le macchie più scure sulla sua superficie.
“Bella, non è vero?” chiese con un lieve sorriso. Kate voltò la testa di scatto, non essendosi accorta del suo arrivo. Quindi annuì. “Aspetta,” disse poi Rick con un pensiero improvviso. “So come migliorarla ancora.” La donna lo guardò confusa, ma lui non attese risposta. Tornò indietro verso al cucina, dove aveva lasciato la luce accesa, e spense sia quella sia la lampada in salone. A quel punto calò il buio totale nella casa. L’unica luce presente era proprio quella chiara della Luna che penetrava dalle finestre. Quando gli occhi si furono abituati alla scarsa illuminazione, Castle iniziò a muoversi lentamente per la sala per tornare da Beckett. Alzando gli occhi su di lei, la vide di nuovo con lo sguardo puntato al cielo, la bocca appena socchiusa. Era bellissima con quell’unica luce che la contornava.
Non appena fu a meno di un passo da lei, Rick ebbe un’idea. Sperando di non essere cacciato a pedate, prese un respiro profondo e fece passare lentamente le braccia intorno alla vita di lei. Kate sobbalzò spaventata, ma poi rimase immobile quando il colonnello premette il suo petto contro di lei, intrecciando le mani davanti alla sua pancia e appoggiando il mento alla sua spalla.
“Così è meglio, vero?” chiese piano, sussurrandole sul collo. Il profumo di lei gli invase subito forte le narici e una dolce sensazione di conforto e di casa si fece subito strada in lui. La donna rabbrividì appena tra le sue braccia. Poi, a poco a poco, si lasciò andare contro il suo petto e appoggiò le mani su quelle di lui sopra il suo ventre.
“Sì…” mormorò in risposta, quasi in un sospiro. Rimasero per qualche momento in silenzio, godendosi semplicemente il panorama e quel calore che da troppo tempo non sentivano.
“Sai che un giorno l’uomo arriverà anche lassù?” domandò poi piano Rick, rompendo la quiete creatasi.
“Sulla Luna?” replicò Kate. “Credi che sia possibile?” Lui alzò appena le spalle.
“Mi sono innamorato di una donna che pensavo mi avrebbe odiato per sempre e che ora invece sto abbracciando.” rispose con un mezzo sorriso. Beckett voltò la testa un poco verso di lui, come per osservarlo con la coda dell’occhio. “Credo che tutto sia possibile.” continuò in un sussurro, azzardandosi a lasciarle un bacio sul collo, esattamente sotto l’orecchio. La sentì trattenere il respiro. “E poi ora l’uomo vola e progetta bombe in grado di volare per centinaia di kilometri prima di schiantarsi al suolo.” aggiunse, riappoggiandosi con il mento alla spalla di Kate. “Sono certo che, quando questa guerra sarà finita, prima o poi qualcuno inventerà il modo di arrivare anche lassù.” Con la coda dell’occhio osservò il profilo della donna e vide che sorrideva.
“Pensi troppo, ma sei un ottimista.” commentò Kate divertita e dolce insieme. “Sei sempre una scoperta, Richard Castle.” Il colonnello ridacchiò e le morse giocosamente il collo, facendola scoppiare a ridere e insieme tremare leggermente contro di lui.
“Mai quanto te, Katherine Beckett.” replicò divertito. “E non hai idea di quanta voglia abbia io di scoprirti…” aggiunse poi con voce bassa e provocante, andando a nascondere il naso tra i suoi capelli e il collo. Kate scosse la testa come esasperata, ma, anche se non poteva vederla, Rick era certo che fosse arrossita. Rimasero per qualche minuto in silenzio, rialzando gli occhi sulla Luna e sul paesaggio davanti a loro. Solo poche luci erano ancora accese nelle palazzine vicine, a causa del coprifuoco, rendendo la notte ancora più buia e pulita. C’erano molte più stelle di quanto Castle ricordasse e, osservando bene, poteva persino intravedere la Via Lattea formare la sua strada nel cielo. Pensandoci, doveva ammettere che era molto tempo che non si soffermava a guardare il cielo notturno, nonostante avesse sempre suscitato su di lui un certo fascino.
“Rick...” lo chiamò piano Kate a un certo punto. Il colonnello alzò appena il mento dalla spalla di lei per osservarne il profilo, curioso del perché lo avesse chiamato per nome. Beckett stava ancora osservando la Luna. “Perché non venite con noi?” sussurrò con voce tesa. Castle aggrottò le sopracciglia, confuso. “In America.” aggiunse poi la donna, spiegandosi. L’uomo sospirò profondamente, comprendendo finalmente di cosa parlasse. Quindi si riappoggiò alla spalla di Beckett con il mento e la stinse leggermente di più contro di sé. Le dita di lei si contrassero appena sulle sue mani, ancora intrecciate davanti al suo ventre, come se avesse paura che lui si scostasse. “Intendo te, Ryan, Jenny e anche la Gates e tua madre.” continuò Kate un po’ nervosa. “Perché non venite con noi quando partiremo? Perché partire dopo?” Rick sospirò di nuovo e abbassò gli occhi pensieroso, appoggiando intanto le labbra sulla spalla nuda di lei, dove la maglia larga che indossava era scivolata un poco in giù. La sua pelle era liscia e calda.
“Non possiamo.” mormorò alla fine Castle, non riuscendo a mascherare il tono triste. Sentì Beckett emettere un lieve gemito rassegnato. “Io e Kevin non possiamo muoverci al momento. Se scappiamo ci considereranno traditori e manderanno qualcuno a rintracciarci. Non saremmo mai al sicuro e neanche le nostre famiglie, perché le cercherebbero allo stesso modo. Jenny non vuole spostarsi senza suo marito e ora che è anche incinta non so quanto potrebbe farle bene un viaggio del genere. La Gates ha giurato di restare con i Ryan finché questa guerra non sarà finita e saremo di nuovo al sicuro. Inoltre ha ancora la sua famiglia qui, quindi dubito che vorrà lasciarla per scappare con noi. In quanto a mia madre… se anche avesse voglia di cambiare vita un’altra volta, è un’attrice e forse quella che più facilmente potrebbe uscire dalla Germania. Lei è proprio l’ultima di cui dovresti preoccuparti.” aggiunse con un sorriso mesto. Beckett rimase per un momento in silenzio, gli occhi ancora fissi al cielo. Tremava leggermente, ma Rick sapeva che non era la vicinanza al vetro freddo a farla rabbrividire.
“Ma ci raggiungerete.” dichiarò la donna con voce un po’ incrinata, quasi più per convincere sé stessa che non Castle. “Hai detto che mi raggiungerai.” Il colonnello alzò di nuovo lo sguardo sul profilo di lei. Notò un piccolo luccichio a lato del suo occhio e capì che Kate aveva gli occhi umidi di un pianto che stava trattenendo a stento. Sentì qualcosa lacerarsi nel petto.
“Te l’ho promesso, Kate.” sussurrò Rick, districando a malincuore le loro mani per ruotare appena la donna così che lo fronteggiasse. Staccò le mani dalla sua vita e le prese delicatamente il viso per eliminare con i pollici due piccole gocce sfuggite dai suoi occhi. “E te lo prometto di nuovo. Farò tutto quello che è in mio potere per raggiungerti il prima possibile in America. Non ce la farai a liberarti di me.” aggiunse poi con un mezzo sorriso per alleviare la tensione. Beckett lo osservò per qualche attimo con gli occhi lucidi, preoccupati e tristi. Quindi, lentamente, si avvicinò di un passo e si alzò sulle punte. Quando Rick si ritrovò di nuovo le labbra di Kate sulle sue, chiuse automaticamente gli occhi e sentì una scarica di adrenalina passargli lungo il corpo. All’inizio fu solo un lieve sfioramento di labbra, come se volessero entrambi essere certi che non erano cambiate dall’ultima volta che si erano toccate. Poi Beckett schiuse le labbra e Castle non perse tempo ad approfondire il bacio. Lo fece comunque con dolcezza, senza fretta. Aveva bisogno di confortare Kate, non di attaccarla.
Il colonnello attirò più vicino a sé il viso della donna, quindi spostò le mani e le fece tornare sui suoi fianchi, dove iniziò a carezzarla piano. Le mani di lei invece si erano attaccate con forza alla maglia che indossava, quasi temesse che lui si tirasse indietro. Kate gli morse leggermente il labbro inferiore e un basso gemito gli uscì dalla gola prima che riuscisse a soffocarlo. Strinse la presa sui fianchi di lei e la attirò ancora più vicina a sé, sentendo Beckett trattenere il respiro quando i loro bacini cozzarono. Passò intanto la lingua sulle sue labbra. Il sapore di lei non era cambiato. Lo ricordava ancora perfettamente, impresso a fuoco nella sua memoria e nel suo cuore. Quello stesso cuore che ora batteva a un ritmo furioso nel suo petto, quasi volesse uscirne.
Rick lasciò a Kate la possibilità di approfondire ulteriormente il bacio. Lui non voleva forzarla e comunque non pensava che fosse ciò che lei aveva bisogno in quel momento. Le morse appena il labbro, giocò con la sua lingua, la strinse a sé come fino a quel momento non si era mai azzardato a sperare di fare. Il loro primo bacio era stato appassionato, ma agitato e quasi aggressivo, tanto si erano cercati e desiderati. In quel momento invece la situazione era diversa: il desiderio certo non era minore, ma non si cercavano più. Sapevano di essersi già trovati.
Dopo qualche minuto il bacio iniziò a diminuire d’intensità, fino a tornare al solo sfioramento di labbra. Solo a quel punto Beckett si staccò da lui e tornò con i piedi per terra. Avevano entrambi il respiro leggermente ansante. Perfino alla pallida luce della Luna, Rick poté notare che le labbra di Kate erano un po’ più gonfie e scure del solito. Gli venne voglia di tornare a baciarla. Deglutì però, ancora incredulo per quello che era appena accaduto, e appoggiò la fronte a quella di lei.
“Tornerò da te.” sussurrò quindi con tono sicuro, facendo alzare gli occhi a Kate. “Anche se te ne andrai, tornerò da te.” Lei lo guardò per un momento con la bocca semiaperta, gli occhi appena lucidi. Poi annuì piano, mordendosi il labbro inferiore.
“Mi fido.” mormorò in risposta Beckett, facendogli un mezzo sorriso. “Forse.” Lui ridacchiò piano e le strappò un altro bacio a fior di labbra. Kate fece una smorfia, come se fosse infastidita. Il sorriso che non riuscì a reprimere però, la tradì miseramente. Quindi sbadigliò, stanca.
“Direi che è ora di andare a dormire.” dichiarò Castle, scostandosi a malincuore da lei. Per un attimo il colonnello fu convinto di aver visto un’espressione infastidita, seriamente questa volta, apparirle in faccia. Poi però la donna annuì sconfitta. Si spostarono dalla fredda finestra e Rick la condusse per mano lungo il salone, in modo che al buio non sbattesse contro nulla, fino alle scale per il piano superiore. “Non è che hai voglia di cambiare stanza, vero?” domandò quindi, prima di lasciarla salire. Solo una piccola finestrella li illuminava ora. Beckett alzò un sopracciglio e, al sorriso innocente del colonnello, roteò gli occhi in segno di esasperazione. “Neanche per farmi compagnia?” provò ancora Castle, tirando fuori un broncio degno di un cucciolo abbandonato. La donna ridacchiò, quindi salì un gradino, in modo da essere circa alla sua stessa altezza, e si voltò di nuovo verso di lui per rubargli un veloce bacio proprio sul broncio.
“Buonanotte, Castle.” lo salutò alla fine, insieme divertita e dolce, prima di salire gli altri gradini.
“Notte, Kate.” rispose Rick, osservandola sparire nel buio del piano di sopra con un ghigno stampato in faccia che dubitava sarebbe riuscito a togliersi tanto presto. “A domani.”
 
“Giorno, Castle.” lo salutò Beckett la mattina successiva, ancora un po’ assonnata, entrando in cucina in pigiama. Rick alzò gli occhi e le fece un largo sorriso, vedendola venirgli incontro stropicciandosi gli occhi come una bambina. Spense il fornello sotto la caffettiera, che aveva iniziato a borbottare, e si allungò per prendere due tazze lì vicino.
“Buongiorno, Odiatrice di Nomi.” replicò divertito. Kate si sedette al tavolo e aggrottò le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata confusa. “Si può sapere cosa ti ha fatto il mio povero nome?” continuò il colonnello, ridacchiando e preparando i caffè con latte e zucchero. “Mi chiami sempre ‘Castle’!” Quando si voltò per portare le due tazze al tavolo, la vide alzare appena le spalle.
“Mi sono abituata così.” rispose Beckett, recuperando intanto una fetta di pane. Quindi fece un mezzo sorriso. “E poi Castle mi piace.”
“E Rick?” chiese perplesso e fintamente offeso l’uomo, poggiando i caffè sul tavolo con attenzione, per evitare di sporcare il banco o la divisa che già indossava, restando poi in piedi. “Cos’ha che non va?”
“Niente.” replicò lei tranquilla, alzandosi per prendere un coltello, che Castle aveva dimenticato, da un cassetto. “Rick mi piace pure, ma preferisco usarlo in momenti più… particolari.” aggiunse con tono a metà tra il malizioso e il divertito. Il colonnello sbuffò, mentre lei ridacchiava. Poi, prima che la donna riuscisse a tornare al suo posto, Rick le passò un braccio attorno alla vita e la attirò a sé, premendo il fianco di lei contro il suo petto.
“Mi piacerebbe sapere quali sono questi momenti particolari…” commentò lui, respirandole piano sul collo e facendola rabbrividire. A quel punto Beckett voltò la testa verso di lui e gli sorrise dolcemente. La luce del sole illuminava i suoi occhi verde-nocciola in modo spettacolare, o forse era solo lui a vederli così. In ogni caso era bellissima, nonostante l’aria ancora un poco sonnolenta. “Buongiorno Kate…” le sussurrò piano con un lieve sorriso, avvicinandosi poi per lasciarle un piccolo bacio all’angolo della bocca.
“Buongiorno Rick...” gli rispose lei in un mormorio altrettanto basso, il respiro appena accelerato, voltando poi quel minimo il viso così da poter far incontrare le loro labbra. La risposta del colonnello non si fece attendere. Strinse di più a sé la donna e approfondì il bacio, infilando la lingua tra le labbra schiuse di lei, sentendo di nuovo il suo sapore mentre le sue mani sfioravano lente la sua pelle calda e liscia. Non riusciva ancora a crederci. Tutta la notte era stato in ansia con la paura di aver solo sognato quel bacio, con il terrore che Kate il mattino dopo si sarebbe tirata indietro. Non avrebbe dovuto preoccuparsi però. Questa volta non c’erano segreti di mezzo. Nessuna cosa non detta o in sospeso. C’erano solo loro due, padroni, per la prima volta da quando si erano incontrati, del loro destino.
“Non devi andare in centrale?” sussurrò qualche momento dopo Kate, quando si staccarono. Rick sbuffò, la fronte contro la guancia di lei, facendole alzare i capelli lunghi e mossi dalla spalla. La donna ridacchiò. “Ti vedo molto in vena…” commentò divertita. Castle mugugnò contro la sua guancia, quindi le lasciò un ultimo bacio all’angolo della bocca e si separò da lei, così che entrambi potessero fare colazione.
“Preferirei restare a casa.” borbottò, prendendo un biscotto dalla scatola sul tavolo e iniziando a sgranocchiarlo. “Ma ho un sacco di cose da fare. Inoltre Ryan vorrà sapere come è andata ieri e in più devo vedere mia madre.” aggiunse poi con un sospiro.
“L’hai sentita?” chiese Kate un po’ ansiosa, spalmandosi intanto il miele sul pane.
“L’ho chiamata poco prima che scendessi.” replicò Rick pensieroso, prendendo un altro biscotto. “Ricordavo avesse qualcosa da fare stamattina, quindi sapevo che era già sveglia.” continuò divertito al sopracciglio alzato della donna. In effetti era una novità che Martha si svegliasse presto al mattino, ma a volte capitava anche a lei. “Le ho chiesto se potevamo vederci per pranzo e mi ha detto di raggiungerla a teatro. A te va bene, vero?” domandò poi a Kate, all’improvviso insicuro. Lei sorrise divertita.
“Sai che non devi chiedermi il permesso di vedere tua madre, vero?” replicò, addentando un pezzo di pane e miele. Rick alzò le spalle, internamente sollevato.
“Sì, ma forse pensavi che avremmo mangiato insieme o…”
“Castle, tranquillo.” lo fermò Beckett. “E’ tua madre, non hai bisogno di chiedermi niente. E poi dopo pensavo di sentire Jenny. Se non dico a lei e Lanie che vado a un’altra festa mi strangolano.” borbottò rassegnata, alzando gli occhi al cielo e facendo ridacchiare il colonnello. Poi il pensiero di quello che avrebbero dovuto fare al ricevimento lo colpì e il sorriso gli si spense un poco. “A proposito, quando sarebbe?”
“Tra due giorni, il 17.” rispose Castle atono, mordicchiando pensieroso un altro biscotto. “Ti servirà un altro vestito?” chiese poi curioso, accantonando quei pensieri scuri. Lei alzò le spalle. “Se ti serve prendilo pure.” la rassicurò Rick, prendendo intanto un sorso di caffè. “Non ho mai avuto troppe spese extra quindi ho diverse migliaia di franchi che puoi utilizzare quando vuoi.” Beckett si incupì appena.
“Non voglio i tuoi soldi.” mormorò piano. Rick in qualche modo se l’aspettava. Lei non voleva fare la carità, ma non era quello il punto né il caso.
“Kate, se devi prendere un vestito o due o quanti te ne servono, prendili.” le rispose paziente. Lei stava per replicare, ma la bloccò. “Poco dopo che sei arrivata qui, i tuoi vestiti sono saltati per aria, anche per causa mia. Hai dovuto utilizzare quelli che ti ha prestato Jenny, mentre sarei dovuto essere io quello che avrebbe dovuto provvedere per i tuoi abiti. Dammi ora la possibilità di farlo. E poi sarà solo finché non torni in America. A quel punto sarai di nuovo autosufficiente.” Beckett si prese qualche momento prima di rispondere, masticando lentamente il pane.
“Ok.” disse alla fine, lo sguardo basso, rassegnata. Rick annuì quindi lanciò un’occhiata all’orologio. Si accorse di essere quasi in ritardo.
“Devo andare ora.” dichiarò, finendo il suo caffè e alzandosi. “Ci vediamo stasera?” Kate annuì. Poi Castle le si avvicinò e le lasciò un lungo bacio sulla guancia. “Non ci pensare, ok?” le sussurrò con un sorriso dolce, mentre Beckett faceva una smorfia divertita.
“Vattene!” esclamò lei, trattenendo a stento un sorriso. Lui le fece un inchino fin troppo profondo sull’uscio della cucina e sparì, uscendo di casa.
 
“Posso, Colonnello?” chiese la voce di Ryan un attimo dopo aver bussato alla porta del suo ufficio.
“Entra.” replicò Castle senza alzare gli occhi, finendo di completare un rapporto. Aveva ancora una ventina di minuti prima di dover uscire per incontrare sua madre. Sentì Kevin entrare, chiudere la porta e avvicinarsi alla scrivania.
“Allora?” domandò impaziente il maggiore quando lo vide mettere via il foglio che aveva davanti. “Che ti ha detto Jones? Che voleva?” aggiunse, abbassando la voce e sedendosi dall’altra parte della scrivania, il cappello ben stretto in mano. Rick prese un respiro profondo prima di raccontare. Aveva già deciso che gli avrebbe detto tutto. Dopo tutti quegli anni di amicizia glielo doveva e poi avrebbe potuto mettere in allerta gli Esposito. Avrebbero dovuto essere molto più cauti ora.
“Mi ha confermato quello che sospettavo di mio padre.” rispose alla fine a bassa voce, lanciando un’occhiata alla porta per assicurarsi che fosse chiusa. “Era una spia.” Kevin emise un lieve fischio stupito. “Ma in cambio di questa sua generosa informazione mi ha chiesto una cosa in cambio.”
“Ti pareva…” borbottò Ryan seccato.
“Vuole che presenzi ai prossimi ricevimenti a cui sarò invitato.” continuò Rick, mentre il maggiore lo guardava confuso. “E vuole che gli fornisca qualsiasi informazione utile riesca a ricavare dagli Alti Ufficiali.” Kevin spalancò la bocca e sgranò gli occhi.
“Dimmi che l’hai mandato a quel paese!” esclamò a bassa voce Ryan, ancora scioccato.
“Non potevo!” rispose innervosito Castle. Era la seconda volta che dava quella stessa identica risposta alla stessa domanda. Ma lo credevano così idiota da voler rischiare la pelle per uno sconosciuto?? “Sapeva tutto, Kev.” lo bloccò in un sussurro prima che potesse protestare. “Conosceva tutto di me, te, Kate e tutti gli altri.”
“Vuoi dire anche…” iniziò il maggiore ancora più stupito. Il colonnello annuì.
“Sapeva anche degli Esposito.” mormorò con tono di sconfitta. “Ma non rivelerà nulla finché lo aiuterò.”
“E tu sei certo che non lo farà?” domandò ansioso Ryan. “Che non dirà niente?”
“Non finché gli servono le informazioni che io posso procurargli.” replicò Castle serio. Kevin rimase per un secondo in silenzio, quindi sospirò stancamente.
“Che faremo quando le informazioni finiranno?” Rick si appoggiò allo schienale della sua sedia e si passò una mano tra i capelli. Aveva pensato anche a quello.
“A quel punto saremo ben lontani.” rispose piano. “Voi almeno di sicuro.”
“Noi? Lontani??” esclamò stupito Ryan. “Rick, sai benissimo che non possiamo andarc…”
“Sì che possiamo, se ci organizziamo per tempo.” lo fermò in un sussurro il colonnello, allungandosi sul tavolo verso di lui. “Ascolta, ormai in ogni caso siamo compromessi. Una volta che gli Esposito e Kate saranno partiti, dovremo pensare a quando e come andarcene e prima lo faremo, meglio sarà. Dovremo organizzare qualcosa anche per la Gates e la sua famiglia e penserò anche a una scusa da inventarmi con mia madre. In ogni caso non possiamo più stare qui, sapendo che qualcuno conosce così bene i nostri lavoretti passati…”
“Ma Jenny…” mormorò preoccupato Kevin, sbiancando all’improvviso.
“Se necessario, aspetteremo che il bambino nasca.” lo rassicurò Castle subito. “Dovremo solo prendere un po’ di tempo e poi ce ne andremo anche noi.” Ryan lo guardò nervoso. Alla fine però prese un respiro profondo.
“Quando tutta questa storia sarà finita, se il mio primogenito sarà un maschio non aspettarti che lo chiami ‘Richard’.” borbottò Kevin per alleviare la tensione. Il colonnello fece un mezzo sorriso e scosse la testa.
“Prepara gli altri.” disse poi. “Dovrebbe filare tutto liscio fino alla loro partenza, ma meglio che siano pronti a ogni evenienza.” Ryan annuì e si alzò piano, lo sguardo basso e le spalle curve, come se all’improvviso gli fosse caduto un peso addosso. “Quando tutta questa storia sarà finita, magari ci ripenserai a come chiamare il tuo piccolo, se sarà maschio.” aggiunse poi Rick divertito, prima che il maggiore arrivasse alla porta. Kevin si lasciò scappare un piccolo ghigno e scosse la testa, nonostante le notizie che aveva appena ricevuto. Quindi uscì dall’ufficio del colonnello.
 
Castle entrò nel buio teatro dove recitava sua madre da una piccola porta secondaria, indicatagli da un giovane attore in calzamaglia e cappotto intento a fumare una sigaretta con mano tremante. Il colonnello capì che avrebbe dovuto portare all’interno i diversi scatoloni ammonticchiati nella neve poco lontano da lui, forse oggetti scenici, ma evidentemente aveva deciso di concedersi una pausa. Una volta dentro Rick ci mise qualche secondo ad abituarsi alla semi oscurità. L’unico punto luminoso era il palco, dove quattro attori stavano provando con una spada in una mano e il copione nell’altra. Altri dieci o quindici teatranti erano disposti tutti attorno, restando in disparte a seguire la scena. Riconobbe subito sua madre, in piedi accanto al sipario aperto.
Essendo in anticipo, per non interrompere, Castle si avvicinò cautamente all’ultima fila di poltroncine della platea, a pochi passi da lui, e si sedette in silenzio sulla prima sedia imbottita. Si tolse il cappello e lo buttò nel posto accanto al suo. Era troppo nervoso per voler seguire la rappresentazione, tra l’altro continuamente interrotta dal quello che doveva essere il regista, seduto in prima fila, quindi iniziò a guardarsi intorno per distrarsi. Era stato diverse volte negli anni in quel teatro, l’Unter den Linden, e aveva sempre trovato molto elegante, seppur fin troppo sfarzoso, lo stile “neobarocco viennese”, come gli aveva sottolineato una volta sua madre. Tutto era dorato, pieno di decorazioni e statuine di angeli in ogni punto, intervallato solo dal rosso scuro dei drappeggi del palco, delle tende dei palchetti nelle gallerie e del tessuto delle poltrone in platea. Perfino il grande lampadario al centro della sala era completamente intarsiato.
Rick osservò tutte quelle cose stupito che fossero ancora in piedi e perfettamente conservate. Perché della facciata del teatro non era rimasto quasi più nulla. Il bombardamento aveva distrutto irreversibilmente l’esterno in mattoni bianchi, il grande portone, le alte finestre. Perfino il suo caratteristico tetto bombato era in parte sparito. L’interno invece, per qualche strano miracolo, non aveva subito il benché minimo danno. Non era accaduto lo stesso negli altri teatri di Berlino. Il Deutsches Theater, ad esempio, era stato danneggiato sia all’esterno che all’interno, dove buona parte delle gallerie era crollata e il palco era diventato inutilizzabile. Il peggio però era toccato al Deutsche Oper Berlin, il teatro dell’opera: il 23 novembre, nello stesso momento in cui Rick, al suo appartamento, consolava Kate da una crisi di panico, una serie di granate si erano abbattute sul teatro, devastandolo. Erano rimaste solo le macerie.
“STOP!” gridò all’improvviso il regista, distogliendolo dai suoi pensieri. “Fermiamoci qui. Riprendiamo tra mezz’ora con la fuga di Romeo da Verona.” Con un basso mormorio, gli attori si sparpagliarono dietro le quinte e in platea mentre le luci si riaccendevano lentamente. Fu in quel momento che sua madre lo notò. Gli fece un sorriso e scese dal palco per andargli incontro. Castle recuperò il cappello, si alzò e attese, agitato, che Martha arrivasse. Quindi le fece un sorriso tirato e la baciò sulla guancia come saluto.
“Richard, tesoro, è molto che aspetti?” gli chiese. Rick scosse la testa.
“No, sono arrivato solo pochi minuti fa.” rispose. Quindi si guardò per un momento intorno. “Uhm, c’è un posto dove possiamo parlare senza essere disturbati?” Martha lo guardò per un momento con le sopracciglia aggrottate, perplessa da tanta segretezza, quindi gli fece segno di seguirla. Lo condusse lungo un’altra porta laterale che dava su delle scale che dovevano portare alle gallerie sopra di loro.
“Qui saremo tranquilli.” disse l’attrice, dopo che ebbero salito almeno tre rampe di scale e furono entrati in uno dei palchetti. Erano un po’ spostati rispetto al palcoscenico, ma la visuale era comunque buona. Sporgendosi un po’, il colonnello notò una pelata lucida in prima fila che doveva appartenere al regista. In ogni caso Rick rimase soddisfatto della scelta della madre. Se restavano un po’ indietro nel palchetto, erano pressoché invisibili da sotto e anche le loro voci sarebbero giunte ovattate e poco udibili. “Nessuno sale mai fino quassù. A meno che non voglia vedere lo spettacolo, ovviamente!” aggiunse poi divertita. “Allora, Richard, cosa volevi dirmi?” Castle si mosse a disagio sul posto, rigirandosi il cappello tra le mani.
“Siediti, mamma.” le disse poi, mantenendo comunque la voce bassa, portando due delle quattro sedie presenti più all’interno del palchetto semibuio. Quando entrambi ebbero preso posto, uno di fronte all’altra, Rick prese un respiro profondo. “Devo dirti un paio di cose su… su mio padre.” confessò alla fine.
 
Martha ascoltò in un silenzio scioccato tutto il suo racconto. Castle partì dall’improvvisa venuta di Tom Jones nel suo ufficio e finì con l’incontro che avevano avuto la sera precedente. Le disse tutto quello che aveva scoperto sul padre, compreso il diario che aveva ritrovato Kate. Non fece cenno però a ciò che aveva chiesto Jones in cambio di quelle informazioni. Quando concluse, l’attrice lo stava guardando con la bocca aperta e le sopracciglia aggrottate, incredula.
“Nicholas…” mormorò Martha dopo qualche secondo di silenzio. “Nicholas era una spia del governo americano?” Rick annuì esitante. Non sapeva esattamente quale sarebbe stata la reazione della madre. “Oddio…” aggiunse poi lei, scivolando un po’ sulla sedia. “Ma tu… Richard, tu sei sicuro che queste informazioni siano esatte? Voglio dire…”
“Lo sono, mamma.” la bloccò lui dolcemente, prendendole piano le mani abbandonate sulle ginocchia. “Non te l’avrei detto altrimenti.” Martha sospirò leggermente, lo sguardo fisso sul pavimento in legno. Castle notò comunque che la madre aveva gli occhi lucidi.
“Tutti questi anni…” sussurrò alla fine. Il suo tono era insieme doloroso e sollevato.
“Papà lo ha fatto solo per proteggerci.” replicò Rick, sicuro. Non sapeva neanche lui perché avesse sentito il bisogno di difendere suo padre. Forse perché lui stesso aveva nascosto delle cose per proteggere chi amava.
La donna alzò gli occhi sgranati su di lui, un lieve sorriso in bocca che lui non comprese.
“Era da prima di partire per la Germania che non lo chiamavi più ‘papà’.” commentò con dolcezza. Il colonnello la guardò sorpreso. Non se ne era nemmeno reso conto. Martha sfilò una mano dalla sue e gli carezzo lievemente una guancia.
“Come stai?” le chiese cauto Rick. L’attrice fece un mezzo sorriso e alzò appena le spalle, senza smettere di sfiorargli il viso.
“Ho trovato risposta a più di un quesito.” rispose lei tranquilla, anche se nel suo tono di voce era ancora udibile quel misto di dolore e sollievo. “Capisco perché Nicholas non ne abbia parlato, ma insieme mi dispiace che non l’abbia fatto. Avrebbe risparmiato un sacco di discussioni.” continuò piano.
“Sì, ma come stai?” insistette Castle, posando una mano su quella della madre per bloccarla sopra la propria guancia. Martha sorrise. Un sorriso divertito anche se tirato.
“Non lo so, davvero.” replicò. “Ma starò meglio, tesoro.” aggiunse poi in tono più dolce. “Non preoccuparti.” Rick annuì piano e abbassò lo sguardo sulle loro mani intrecciate. Si perse a osservarle per un momento. Sembravano così piccole e fragili le mani di sua madre tra le sue. Magre e segnate da un reticolo di sottili rughe. Non se ne era mai reso conto. “Richard?” lo chiamò poi l’attrice. Castle alzò lo sguardo e si scontrò con il profondo azzurro degli occhi di sua madre. Rimase per un momento sorpreso. Non era abituato a vederla con un’espressione così seria. “Mi hai detto che questo signor Jones è venuto a cercarti in ufficio e ti ha parlato di Nicholas. Ma non mi hai detto perché è venuto a cercarti.” Il colonnello si irrigidì e abbassò di nuovo lo sguardo, deglutendo appena.
“Lavoro.” borbottò, stringendo la presa sulle mani di sua madre. Martha sbuffò.
“Mi hai appena raccontato l’ultimo lavoro di tuo padre e guarda come è finita!” esclamò con tono di rimprovero, scotendo la testa. Rick le fece un mezzo sorriso.
“Sta tranquilla, mamma.” replicò divertito, cercando di tirare fuori tutti i geni di attore che possedeva per non farle sospettare nulla e non farla preoccupare. “Sono solo un colonnello e sto in una casermetta di periferia. Per di più mi occupo principalmente di persone morte. Nessuno cercherebbe mai informazioni da me!” La donna lo osservò per qualche secondo con occhio critico, facendo aumentare notevolmente il battito cardiaco di Castle che la osservava sorridente, ma sudando freddo. Alla fine Martha dovette credergli, o almeno fingere di farlo, perché annuì. Poi lanciò un’occhiata al di fuori del palchetto. Rick sospirò, internamente sollevato, quindi girò anche lui lo sguardo all’esterno, curioso. Le luci si erano appena abbassate qualche attimo per poi tornare a rischiarare il teatro.
“Stanno per riprendere le prove.” sussurrò Martha stancamente. Castle la guardò preoccupato. Non l’aveva mai vista così poco allegra verso il teatro. Non era un semplice lavoro per lei, era la sua passione di sempre, capace di capovolgerle l’umore in un secondo. Ma stavolta evidentemente non era abbastanza. “Devo andare.” disse poi, alzandosi. Rick annuì e si alzò a sua volta. Quindi ridiscesero in silenzio le scale e tornarono in platea.
“Mi spiace, non ti ho neanche lasciato il tempo di mangiare qualcosa.” disse Castle imbarazzato, ricordandosi all’improvviso di aver cercato la madre proprio in pausa pranzo. Lei gli sorrise e scosse la testa.
“Non preoccuparti, Richard, non morirò di fame.” replicò divertita. “Inoltre il mio personaggio non entra in scena ancora per un po’, quindi ho tutto il tempo di mangiare un boccone dietro le quinte.” aggiunse poi, facendogli l’occhiolino. Rick sorrise e scosse la testa. Sua madre era tornata. Lanciò un’occhiata all’orologio e si accorse di dover rientrare in centrale.
“Devo andare.” dichiarò con un sospiro. Martha annuì. Quindi si avvicinò e lo abbracciò.
“Riguardati, Richard.” gli sussurrò dolcemente. “E per favore non fare niente di stupido!” Castle sorrise tra i capelli di lei e la strinse a sé. Quindi le lasciò un bacio sulla testa e si staccò da lei.
“Ti chiamo nei prossimi giorni.” promise. Poi si salutarono e Rick si avviò verso la stessa porta secondaria che aveva attraversato nell’entrare nel teatro. Le casse che c’erano prima erano ancora per più di metà lì, ma l’attore non c’era più. Al suo posto era rimasto solo un mucchio di sigarette spente seminascosto dalla neve.
 
I due giorni successivi passarono in relativa tranquillità. Castle, a causa del lavoro arretrato e di una esercitazione a sorpresa che il suo superiore Zimmermann aveva preparato, era stato costretto a rimanere per buona parte del tempo in centrale. Beckett nel frattempo ne aveva approfittato per andare a comprare qualche abito nuovo insieme a Jenny e a trovare gli Esposito. Tra Rick e Kate, nei pochi momenti che riuscivano a ricavare per loro a casa, sembrava fosse tutto normale, tranne per una cosa: i sempre più frequenti avvicinamenti del colonnello per rubare baci o coccole alla donna. Ogni volta diventava più sicuro e disinvolto sul corpo di lei. Amava particolarmente sentirla rabbrividire contro di sé quando la baciava sul collo. Kate d’altro canto, anche se cercava di non darlo a vedere, sembrava non potesse fare a meno di sentire le braccia di lui intorno al corpo. Quando Rick la abbracciava infatti, lei si lasciava andare completamente contro di lui, senza remore. Ancora non avevano detto nulla di come erano evolute le cose tra di loro agli altri. Volevano prendersi più tempo per loro prima di iniziare a sorbirsi le battutine con cui, sicuramente, i Ryan e gli Esposito li avrebbero attaccati bonariamente e presi in giro.
La sera del 17, Castle e Beckett si prepararono e raggiunsero la casa del Generale Richter Dirk con l’auto del colonnello. Il soldato aveva preparato un ricevimento pre-natalizio per festeggiare i vent’anni di matrimonio con sua moglie Fieke. Rick aveva già avuto modo di conoscere il generale. Era un uomo gioviale e molto incline alle battute. Aveva sempre aneddoti sui suoi tempi di accademia, nei quali, a quanto pareva, non aveva mai trattenuto la sua vena inventiva nel creare scherzi. Rick si era spesso chiesto come avesse fatto un uomo allegro come Dirk a raggiungere un tale grado nell’esercito tedesco, famoso in tutto il mondo per la sua disciplina.
La larga palazzina in cui abitava il generale era composta di tre piani, collegati da una grande e maestosa rampa di scale che si snodava a chiocciola nel mezzo della casa. Il piano terreno era composto da un unico grande salone per le feste con un piccolo palco per i musicisti in fondo alla sala, che in quel momento suonavano una musica vivace, e una tavola imbandita a buffet su uno degli altri lati. Castle dedusse che i piani superiori fossero quelli abitati dal generale, da sua moglie e dai servi. Vent’anni di matrimonio e nessun figlio. Rick si chiese che ci facessero con una casa così grande per così poche persone.
Il colonnello prese un bicchiere di spumante da uno dei vassoi dei camerieri che percorrevano la sala e si sforzò di prestare attenzione ai tre General Maggiori con cui aveva attaccato discorso qualche minuto prima. Parlavano della guerra, ma niente che non sapesse già. Le notizie dai fronti scarseggiavano, ma ormai era palese che la Germania stesse capitolando. Nonostante le sporadiche vittorie, i tedeschi in Italia continuavano a perdere terreno. Era iniziata a circolare il giorno prima la notizia del ritiro delle truppe in Toscana fino alla Linea Gustav. Inoltre la forza degli americani si faceva sempre più presente. Da tempo non davano più solo supporto, ma organizzavano veri e propri attacchi. Un esempio era il bombardamento avvenuto qualche giorno prima, il 13, a Kiel, una città situata nell’estremo nord della Germania, poco sotto il confine con la Danimarca. Gli USA avevano mandato qualcosa come settecento bombardieri sul posto. Secondo gli ultimi aggiornamenti, più di metà della città era stata rasa al suolo. Non si contavano più inoltre gli scontri avviati dal Giappone che stavano avendo luogo nel Pacifico, in India e nel resto del mondo. Nonostante tutto quello, Hitler pareva non voler demordere. Castle non sapeva più se era un pazzo o un visionario accecato. Altri avrebbero abbandonato l’impresa molto prima, non solo considerando la distruzione che stava provocando nel mondo, ma anche contando il numero imprecisato di attacchi alla vita che aveva subito. C’era chi parlava di cinque, chi di dieci, chi di venti o trenta attentati. Nessuno sapeva con certezza il numero esatto, tenendo anche conto che il Fuhrer stesso ne gonfiava il numero per aumentare la sua aurea di onnipotenza. Per di più non si parlava solo di stranieri venuti apposta in Germania per ucciderlo o di semplici tedeschi che volevano toglierlo di mezzo. Castle aveva sentito dire ci fossero anche diversi soldati coinvolti negli attentati. Soldati di alto grado, vicini a Hitler stesso.
Rick aggrottò le sopracciglia pensieroso mentre sorseggiava lo spumante. Che l’apparizione di Jones avesse a che fare con quelle dicerie? Aveva sentito forse che si organizzava un altro attentato al Fuhrer?
“Colonnello, tutto bene?” chiese all’improvviso uno dei tre uomini con cui, teoricamente, stava parlando, vedendolo così assorto. Castle sbatté un paio di volte le palpebre per riprendere lucidità.
“Sì, certo, Generale.” replicò, imbarazzato per essere stato colto così palesemente disattento. “Scusate, è solo la stanchezza degli ultimi giorni.”
“Beh, con una donna come la sua, neanche io non dormirei molto, Colonnello!” esclamò una voce divertita alle sue spalle. Rick si voltò di scatto e si trovò davanti due uomini in divisa. Uno dei due lo osservava con un mezzo sorriso, l’altro invece sembrava indifferente. Dalle mostrine, Castle capì che quello divertito era un suo parigrado, un colonnello, mentre l’altro era un generale, entrambi dell’esercito. Il primo doveva avere all’incirca la sua stessa età, piuttosto alto, magro e con i capelli scuri, che iniziavano a diradarsi, tirati all’indietro sulla nuca. L’altro invece doveva aver superato i quarant’anni, era più basso di lui e con i capelli tagliati talmente corti da risultare quasi pelato. Aveva un’aria più seria e vissuta rispetto al suo compagno. “Credo che nessuno ci abbia ancora presentati.” disse la stessa voce di prima, che Castle poté assegnare al colonnello. “Sono il Colonnello Rudolf Christoph Freiherr von Gersdorff.” disse, allungandogli una mano. All’espressione un po’ sconcertata di Rick, il soldato ridacchiò. “Colonnello Rudolf Gersdorff basterà.” Castle sospirò sollevato e gli strinse la mano.
“Generale Henning von Tresckow.” si presentò l’altro soldato serio, allungandogli a sua volta la mano. A quanto pareva Tresckow era un tipo di poche parole. In quel momento venne in mente a Rick che quei due nomi li aveva già sentiti nominare. Li conosceva già di fama e perché erano tra i soldati avversi al nazismo, ma ricordava di aver sentito sussurrare i loro nomi insieme alle parole ‘attentatori’eHitler’ tra i suoi sottoposti e parigrado non iscritti al partito. Sapeva per certo comunque che nessuno si era mai azzardato a fare qualcosa di più che mormorarli e per di più lontano da orecchie pericolose.
“Colonnello Richard Castle.” si presentò a sua volta.
“Lo sappiamo.” replicò Gersdorff, ridacchiando e lanciando un’occhiata alla sala. I suoi occhi scuri si posarono sulla figura di una donna poco lontano. Dava loro le spalle e stava chiacchierando con un paio di dame tutte agghindate e truccate. La donna indossava un abito verde scuro a maniche lunghe, lungo fino ai piedi, che le fasciava perfettamente ogni curva. Il suo fondoschiena era uno spettacolo affascinante da osservare. I suoi capelli scuri e mossi erano raccolti elegantemente in una coda laterale, lasciando così buona parte del collo scoperta. Rick si perse a guardarla, mentre un lieve sorriso gli si apriva, senza volerlo, sulle labbra. Kate era stupenda quella sera. “La sua fidanzata è molto richiesta per i balli, lo sa? Ma ha già specificato che il suo cavaliere è unico.” Castle sentì montargli dentro insieme un sentimento misto di orgoglio e gelosia. La donna più bella era con lui e lei aveva praticamente cacciato ogni pretendente. Nel tempo che non l’aveva guardata però, esattamente quanti uomini avevano tentato di approcciarla? “Buffo accento, ma bellissima donna. Comunque io non l’avrei lasciata sola per così tanto tempo…” Neanche a farlo apposta, Rick notò un soldato puntarla con sguardo famelico poco lontano da loro.
“Kate, tesoro!” esclamò all’improvviso per chiamarla, senza riuscire a fermarsi, la voce leggermente più stridula del normale. Sentì gli uomini accanto a lui ridacchiare e cercò di non arrossire come un bambino. Beckett si voltò e gli sorrise radiosa. Castle fu certo di aver perso almeno un paio di battiti. La donna si scusò con le altre signore e si avvicinò a loro.
“Ehi, Rick!” lo salutò allegra, alzandosi appena sulle punte per lasciargli un bacio sulla guancia. “Mi cercavi?” Lui ne approfittò subito per metterle un braccio intorno alla vita e stringerla a sé in un gesto possessivo.
“Sì, scusa, ma volevo presentarti i signori.” disse con un sorriso, all’improvviso tranquillizzato dal calore di lei contro il suo fianco. Castle le presentò i generali e il colonnello, anche se, come Gersdorff stesso aveva detto, Beckett riconobbe quest’ultimo come uno di quelli che le aveva chiesto di ballare.
“Come vede, dicevo verità.” scherzò Kate con il suo tedesco con marcato accento russo, posando una mano sul petto di Rick. “Ho già cavaliere.” Il colonnello Gersdorff dovette annuire sconfitto, anche se divertito.
“Lei è un uomo fortunato, Castle.” commentò il soldato, prendendo al volo un bicchiere da un cameriere e alzandolo leggermente nella sua direzione. Rick fece lo stesso con il suo in segno di ringraziamento.
“Lo so.” rispose poi, voltandosi a guardare Kate con uno sorriso dolce. La donna arrossì appena e abbassò lo sguardo sulla divisa di lui, sistemandogli poi una piega invisibile della giacca con un gesto lento.
“Mi dicono che è sulla buona strada per diventare presto Generale.” disse poi all’improvviso Tresckow, parlando per la prima volta da quando si era presentato. Castle si voltò verso di lui e alzò appena le spalle.
“Sono appena diventato Colonnello.” replicò con un mezzo sorriso.
“Non bisognerebbe mai pensare solo per il presente.” ribatté il generale con tono serio. “E’ sempre buona cosa pensare anche al futuro, in modo che le azioni di oggi portino a un miglior domani.”
“Suvvia, Generale!” lo riprese bonariamente Gersdorff con un sorriso. “Per questa sera direi che possiamo permetterci di pensare anche al solo presente! Siamo a una festa, dopotutto.”
“E’ visione interessante del presente, comunque.” replicò però a sorpresa Kate, annuendo pensierosa. “Ma se per avere un domani migliore si dovessero fare cattive azioni, come uccidere, oggi?” La mano di Castle si strinse automaticamente sul fianco della donna in un gesto nervoso. Andava bene usare le doti di giornalista per reperire informazioni, ma quella era una domanda fin troppo diretta, a doppio taglio. Una risposta positiva poneva in una posizione pericolosa. Una negativa, soprattutto in un clima di guerra come quello, avrebbe potuto essere presa per codardia. E un Generale non poteva permettersi né una cosa né l’altra.
Gersdorff però ridacchiò a quella domanda e persino Tresckow si concesse un piccolo sorriso divertito.
“La sua donna è intelligente e ha anche le palle, Colonnello.” riconobbe il generale, abbassando appena la testa in segno di rispetto verso Kate. Rick sorrise in risposta, sollevato. Non si era accorto di aver smesso di respirare. “Buona domanda.” replicò poi il soldato a Beckett. “Io…”
Il generale però non riuscì a concludere la frase perché un basso botto gli fece alzare lo sguardo allarmato. La musica comunque continuò a suonare indisturbata. Parevano pochi quelli che avevano udito quello strano rumore, come se qualcosa fosse caduta a terra al piano di sopra. Castle aveva alzato lo sguardo al soffitto immediatamente, stringendo di più Kate contro di sé. Dopo qualche momento però aveva riabbassato lo sguardo come gli altri. Il generale stava per ricominciare a parlare quando un altro basso botto, più forte del precedente, si fece di nuovo sentire. Poi un altro. E un altro ancora. Finché all’ultimo, più forte e vicino, tanto da aver fatto tremare le pareti, buona parte degli invitati aveva capito cosa stava succedendo. Un nuovo bombardamento.
Mentre nuovi botti, più o meno ovattati, scuotevano la casa, la consapevolezza si fece strada in tutti. Iniziarono a sentirsi le esplosioni e il rombo degli aerei, sempre più vicini. All’improvviso nella sala cominciarono le grida, il vociare, i lamenti, il correre dappertutto. Le donne erano terrorizzate e anche molti soldati erano sbiancati.
“TUTTI IN CANTINA!!” gridò il generale Tresckow per farsi udire oltre tutti i rumori che avevano invaso la sala. Castle sperò ardentemente che i padroni di casa avessero anche un’ampia cantina oltre che una grande abitazione. Una granata fin troppo vicina scosse le fondamenta e li fece crollare a terra contro il freddo pavimento.
“Kate!” esclamò Rick, alzandosi subito e cercando di aiutarla, ma sentendola rimanere a terra.
“Sto bene!” replicò lei, cercando di tirarsi su aggrappandosi a lui. Il vestito le rendeva difficili i movimenti, ma non era solo quello. Beckett doveva essersi fatta male cadendo perché una smorfia di dolore le comparve in volto. Castle la aiutò a tirarsi su e la strinse a sé, cercando intanto di capire dove fosse quella maledetta cantina. Vide parte degli ospiti, quasi tutti soldati, correre verso l’uscita per tentare di portare aiuto all’esterno mentre gli altri, le donne e i camerieri, si dirigevano in fretta verso una porta in fondo alla sala. Rick pregò che quella fosse la direzione giusta per la cantina o qualche altro luogo protetto.
“Ce la fai a camminare?” chiese velocemente il colonnello a Beckett. Lei annuì. Castle poteva leggere la paura nei suoi occhi, anche se cercava di nasconderla. “Ok, vai in cantina con gli altri allora.”
“E tu?” domandò subito la donna, preoccupata, aggrappandosi al suo braccio. Uno scoppio e un urlo, che arrivava dal portone aperto della palazzina, rispose per lui.
“Devo andare.” le sussurrò dolce, ma deciso. Quindi le prese il viso fra le mani e la baciò brevemente. Poi si voltò e corse verso l’uscita, senza voltarsi. Sperò che Kate non facesse cazzate, tipo seguirlo in mezzo a quell’inferno, e semplicemente scendesse in cantina.
Appena mise un piede fuori, Castle fu investito da una colonna di fumo. Tossì con forza e cercò di spostarsi, la manica della giacca premuta davanti alla faccia come protezione. Non appena riuscì a vedere qualcosa, capì che una delle auto degli ospiti era saltata in aria e aveva preso fuoco proprio davanti all’ingresso. Alzò gli occhi. Il mondo sembrava nel caos. Davanti a lui c’erano case distrutte, crateri nel cemento, fuoco, fumo, corpi dilaniati di vivi e di morti, un misto di persone comuni e soldati che correvano da una parte all’altra della strada gridando. Poco lontano doveva esserci una postazione della contraerea perché, tra il rombo degli aerei sopra di lui, numerosi e neri come uno stormo di corvi contro il cielo schiarito dal fuoco, sentiva anche il boato cadenzato e basso dell’artiglieria di terra. Non sapeva cosa fare. Correre alla postazione per avere istruzioni oppure restare e cercare di portare in salvo quante più persone possibili? Un urlo poco lontano decise per lui. Corse in quella direzione, ma non vide subito da dove arrivava. Nel frattempo indicò la casa del generale a chiunque si trovasse vicino. Dovevano subito trovare un rifugio o difficilmente sarebbero scampati a quella pioggia di granate.
“ANDATE DA QUELLA PARTE!!” urlò Castle a una coppia di anziani terrorizzati. “LA’ DENTRO!!” Quelli fecero subito un cenno affermativo con la testa e si avviarono veloci nella direzione che gli aveva indicato. Dopo un attimo, Rick lanciò uno sguardo dietro di sé e vide che la coppia era arrivata alla casa giusta. Un altro urlo gli fece riprendere la marcia e, qualche passo più avanti, trovò una donna piegata a terra che chiamava disperatamente qualcuno sotto un cumulo di macerie. Era in vestaglia e il colonnello capì che, invece di rintanarsi in cantina come avrebbe dovuto, era uscita in strada. Alzando gli occhi però, notò la palazzina davanti alla quale la donna si disperava. Era crollata per metà. Probabilmente erano usciti appena in tempo.
Non riuscì a distinguere il nome che pronunciava, ma le si avvicinò velocemente e le ordinò di portarsi immediatamente in un luogo più sicuro.
“MIO FIGLIO!!” gridò la donna sopra il rombo del motore di un aereo che stava passando a bassa quota. “MIO FIGLIO E’ LA’ DENTRO!!” Rick, ansimando, lanciò uno sguardo tra i pezzi di trave e mattoni accumulati davanti a lui. Non vide niente finché una nuova esplosione non illuminò a giorno l’area. A quel punto notò una piccola mano che si muoveva freneticamente tra due assi.
“Si sposti!” urlò Castle alla donna, quindi iniziò a lanciare via alcuni dei pezzi più in alto in modo da alleggerire la struttura. In pochi secondi tolse il possibile per arrivare a vedere la faccia del bambino terrorizzato tra le macerie. Doveva avere l’età di Leandro. “Ti tiro fuori, tranquillo!” gli disse accovacciandosi vicino a lui. “Devi ascoltarmi e aiutarmi ora, ok? Sei bloccato da qualche parte?” Il bambino gli indicò il piede, troppo spaventato per riuscire a dire qualcosa. Castle si infilò con attenzione verso dove il piccolo gli indicava. Una goccia di sudore gli cadde sull’occhio e lui se la tolse seccato con il dorso della mano. Quindi allungò un braccio e tastò la parte bloccata: la caviglia era sotto un’asse pesante. “Ok, quando te lo dico, tu tira fuori la gamba ok?” Il bambino annuì subito. Un’altra luce improvvisa illuminò il viso del piccolo e fece notare al colonnello le scia di lacrime sul suo visetto sporco di cenere.
Castle si addentrò di più nell’ammasso e si puntellò con i gomiti e il corpo. Per fortuna la trave non era troppo pesante. Con notevole sforzo per la scomoda posizione, iniziò a spingere sull’asse dal basso in modo da alzarla. Dopo qualche secondo il legno cominciò a muoversi.
“VAI! ORA!” urlò, continuando a far salire la trave di centimetro in centimetro. Il piccolo tirò il piede con forza e dopo qualche secondo alla fine riuscì a uscirne. Castle lasciò ricadere l’asse e si tirò fuori dalle macerie. Appena uscito, vide la madre, ancora in ginocchio per terra, piangere e abbracciare il bambino, stringendolo tanto da togliergli il fiato. Rick li fece alzare in fretta e gli ordinò di andare a cercare riparo alla casa del generale o nel rifugio antiaereo più vicino. La donna lo ringraziò con le lacrime agli occhi e fuggì via con il piccolo in braccio.
Castle si voltò e cercò se c’erano altre persone ancora allo scoperto. Non vide nessuno, così tornò indietro di corsa verso la casa del generale Dirk, di cui era stato un tranquillo ospite fino a venti minuti prima, per cercare la postazione della contraerea. Dopo qualche passò però una luce accecante gli sbarrò all’improvviso la strada e un boato quasi gli ruppe i timpani. Senza sapere come, si ritrovò catapultato per aria. Per un momento gli parve di volare. Poi la sensazione finì, crollando bruscamente a terra e battendo la testa con forza. Non sapeva più dov’era il sopra o il sotto. Gli faceva male ogni singolo osso e sentiva i muscoli tirare. Gemette, cercando di alzarsi, ma la testa gli pulsava troppo e un dolore lancinante alla spalla lo colpì, bloccandolo. Rimase sdraiato a terra, incapace di muoversi, all’improvviso troppo stanco e dolorante per riuscire a fare qualunque cosa. Faticava a respirare e sentiva un liquido, sangue probabilmente, colargli lungo la faccia e bruciargli i tagli che doveva essersi procurato. Si accorse di udire solo suoni ovattati. E di vedere sfuocato. Voltò lentamente la testa e intravide del fuoco davanti a lui. Non doveva essere molto lontano perché poteva sentirne il calore sulla pelle, in contrasto con il freddo nevischio del cemento su cui era sdraiato. Lo colsero le vertigini e chiuse gli occhi. Aveva la nausea e il rombo ovattato degli aerei sembrava penetrargli dentro, facendogli vibrare le budella. Tentò di nuovo di alzarsi, ma il suo corpo non voleva collaborare. Era così stanco…
All’improvviso gli parve di sentir chiamare il suo nome. Castle. Riaprì gli occhi. Tutto quello che vide furono oggetti indistinti, sfuocati, ombre create dal fuoco. Si diede dell’idiota. Sicuramente lo aveva immaginato perché ancora non sentiva bene. Inoltre nessuno sarebbe venuto a cercarlo in quell’inferno. Il suo ultimo pensiero coerente fu per Kate. Sperò che avesse trovato rifugio e fosse al sicuro. Desiderò averla baciata più a lungo. Poi chiuse gli occhi, stremato. La luce del fuoco riusciva a penetrargli tra le palpebre, evitando di vedere solo il buio. Per un attimo sentì ancora il caldo e il freddo in contrasto sulla pelle. Sentì il dolore che gli pervadeva ogni parte del corpo. Sentì l’odore del fumo e del sangue nelle narici. Sentì i rumori ovattati delle esplosioni e dei motori di aereo. Gli parve di udire di nuovo il suo nome. Castle. Poi il suo corpo cedette. Rick. Tutto si fece buio e silenzioso. Non sentì più nulla.

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Xiao!! :D
Ehm... spero non vogliate linciarmi... in fondo prima stava andando bene vero? XD Ok, ok sto zitta! XD Spero vi sia piaciuto il cap! ;D Il prossimo purtroppo di nuovo non vi so dire quando uscirà sempre per problema studio... Prima o poi finirà pure quello! -.-
Ok, sparisco prima che qualcuno ci ripensi e decida di strozzarmi! XD 
A presto! ;D
Lanie
ps: piccola nota storica: le informazioni sulle battaglie e i bombardamenti, come vi ho detto, sono veri. E se cercate i due signori che Rick ha incontrato alla festa, ovvero il generale e il colonnello, beh se volete dare un'occhiata, vi lascio qui i loro "profili" wikipedia! ;)
http://it.wikipedia.org/wiki/Rudolf_Christoph_Freiherr_von_Gersdorff
http://it.wikipedia.org/wiki/Henning_von_Tresckow
(C'è da dirlo, Hitler aveva un fottutissimo culo (passatemi il francesismo) in fatto di attentati...)
Sparisco di nuovo! XD
Ciao! <3

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Capitolo 20
*** Una voce nel buio ***


Lo so sono in ritardissimo, mi dispiace, ma purtroppo ero (e sono) di esami in università con i loro soliti alti e bassi, quindi non sono riuscita a fare prima... Spero che questo capitolo mi possa far perdonare almeno un po'! :)
Buona lettura! :)
Ps: ricordate dove eravamo? PREVIOUSLY ON BERLIN: Rick e Kate stavano partecipando a un ricevimento quando è iniziato un bombardamento. Per aiutare, Castle è corso in strada, ma poco dopo gli scoppia una granata davanti e lui perde conoscenza...
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Cap.20 Una voce nel buio
A Fania, 
che ha sognato l'ultimo capitolo della mia storia.
Tranquilla,
ci vorrà ancora un po'!

 

Poi chiuse gli occhi, stremato. La luce del fuoco riusciva a penetrargli tra le palpebre, evitando di vedere solo il buio. Per un attimo sentì ancora il caldo e il freddo in contrasto sulla pelle. Sentì il dolore che gli pervadeva ogni parte del corpo. Sentì l’odore del fumo e del sangue nelle narici. Sentì i rumori ovattati delle esplosioni e dei motori di aereo. Gli parve di udire di nuovo il suo nome. Castle. Poi il suo corpo cedette. Rick. Tutto si fece buio e silenzioso. Non sentì più nulla.
 
Castle… Castle… Rick!... Rick, svegliati ti prego!... Non lasciarmi ora… Non lasciarmi ora, non puoi farlo!... Rick, ti prego… Apri gli occhi… Resta con me, non te ne andare… Ho bisogno di te, Rick… Ti prego, resta con me…
Kate. Fu quello il suo primo pensiero quando un barlume di coscienza si fece finalmente strada in lui. Castle non aveva idea di dove si trovasse, né cosa fosse successo. Gli sembrava di ricordare forti rumori, urla e caldo. Del fuoco forse. La voce di Kate che lo chiamava. In quel momento invece era tutto silenzioso e fresco. Gli pareva di aver vissuto in un sogno, o in un incubo, e di essersi appena risvegliato. Si sentiva stanco e debole.
Pian piano che riacquistava lucidità, Rick si accorse di avere dolore ovunque. La spalla era quella che gli bruciava di più insieme alla faccia e alla gamba. Rimase immobile, sperando che il male passasse almeno un po’. Invece non fece altro che aumentare. Gemette leggermente quando una fitta più forte delle altre lo colpì alla spalla. Per distrarsi, si concentrò sulla voce che gli sembrava di aver sentito prima di svegliarsi. Ricordava a malapena le parole. Però era certo che la voce fosse di Kate. Il tono tuttavia era diverso dal solito. Sembrava spaventata.
Preoccupato, Castle iniziò ad agitarsi. Notò che si sentiva piuttosto immobilizzato. Nonostante ogni spostamento gli facesse male, si mosse per capire dove fosse. Sentì morbido sotto di lui, quindi dedusse di essere in un letto. Aprì gli occhi a fatica e si guardò intorno. Si trovava in una camera da letto che non era la sua. Aveva le pareti bianche e un grosso armadio di legno chiaro, come la cassapanca a lato della stanza e i due comodini a lato del materasso. Una grande portafinestra, che dava su quello che sembrava un piccolo balcone pieno di neve, illuminava la camera. Doveva essere giorno inoltrato perché Rick notò che il sole era alto. Iniziò a muoversi sul letto, cercando di alzarsi, ma il dolore lo bloccò a nemmeno metà dello spostamento. All’improvviso gli sembrò di avere un tizzone ardente infilato nella spalla. Un gemito forte gli scappò dalle labbra e ricadde sul materasso, il respiro affannoso come se avesse corso. Si accorse di stare sudando. Un’altra cosa che notò solo in quel momento era di essere a petto nudo. O meglio, in parte lo era perché, abbassando lo sguardo, vide una grossa fasciatura che gli girava intorno al busto e alla spalla dolorante, immobilizzandola e nascondendo buona parte di pelle alla vista. Dei pantaloni che indossava, vide che una delle gambe aveva un lungo squarcio da cui poté scorgere un’altra fasciatura appena sopra il ginocchio. Il tessuto della divisa era stracciato e bruciacchiato in diversi punti, oltre che del tutto sporco di povere e macchiato da quello che doveva essere il suo sangue.
Castle fece una smorfia che però gli fece dolere e tirare la faccia. Si portò una mano al viso e trovò un cerotto che gli prendeva uno zigomo e buona parte della guancia e una fasciatura che gli girava intorno alla fronte. Nel comprendere il suo stato penoso, il colonnello si agitò ancora più di prima. Cos’era successo? Dov’era Kate? Stava bene?
Tentò di nuovo di alzarsi, stringendo i denti contro il dolore. Con grande sforzo, stavolta riuscì a raddrizzarsi e a voltarsi per buttare giù le gambe dal letto. Solo quel movimento però lo lasciò senza fiato e energie. Con un’ultima fatica provò a mettersi in piedi, appoggiandosi al comodino per sostenersi. Gli girava la testa e aveva la nausea. Per un attimo riuscì nel suo intento. Non appena però staccò la mano dal mobile, le gambe non lo ressero più e cadde miseramente a terra, aggiungendo altro dolore a quello già presente. Rimase immobile, ansante, sudato e sofferente, la faccia schiacciata contro il fresco pavimento in legno della camera.
“Kate…” mormorò piano. Dopo qualche attimo sentì il pavimento tremare leggermente e delle voci ovattate. Poi il rumore di una porta che si spalancava seguito dal suono più bello che potesse udire.
“Rick!!” La voce di Beckett fu come un balsamo. Gli liberò il petto da un macigno e sospirò sollevato, sentendo che lei era lì a pochi passi da lui.
“Kate…” cercò di dire lui un po’ più forte, tentando insieme di alzare la testa per guardarla, ma lei fu più veloce.
“Castle, che hai combinato??” domandò preoccupata, correndo da lui e inginocchiandosi accanto. “Perché hai cercato di alzarti?” continuò, in parte con un tono di rimprovero, iniziando a carezzagli i capelli molto delicatamente. “Hai perso tanto sangue, sei troppo debole per muoverti.” Rick non tentò neanche di dire qualcosa, troppo stanco per farlo, nonostante fosse curioso sul cosa gli fosse capitato. Semplicemente rimase immobile a fissarla e a farsi carezzare con un lieve sorriso in volto. La osservò per bene e fu estremamente sollevato nel constatare che, a parte un paio di graffi superficiali, Beckett sembrava non aver riportato nessuna ferita. Stava bene.
“Castle, che cavolo hai fatto??” La voce di Lanie lo stupì. Non era solo il fatto che non si fosse accorto del suo arrivo. Rick si chiese anche come diavolo avesse fatto a finire a casa di Ryan. Intuì solo in quell’istante che la camera in cui erano probabilmente era proprio quella appartenente al suo amico alla moglie. “Javier, Kevin!” chiamò poi Lanie, correndo da lui per affiancare Kate e controllare le sue condizioni. Un attimo dopo Castle sentì i passi pesanti e rapidi dei suoi due amici sulle scale, seguiti dalle loro voci. Non riuscì a vederli poiché la porta era dietro di lui e non aveva la forza di voltarsi. Lasciò che, seguendo gli ordini di Lanie, Kevin e Javier lo prendessero di peso e lo riappoggiassero al materasso, cercando di procurargli il minor dolore possibile.
“Uff, amico, ma quanto pesi??” sbuffò Esposito, appena prima di lasciarlo sul letto.
“E’ tutta altezza…” mormorò Rick di rimando. I due uomini rimasero sorpresi che riuscisse a rispondere. Con la coda dell’occhio, il colonnello notò Lanie scuotere la testa e Kate cercare di reprimere un sorriso con poco successo. Una volta che fu di nuovo steso, chiese, con un certo sforzo, cosa gli fosse successo. Lo guardarono stupiti.
“Non ti ricordi?” chiese Kevin. Castle in risposta mosse di poco la testa in segno di diniego. La testa gli pulsava dolorosamente e gli era venuto un nuovo attacco di nausea, quindi voleva evitare di parlare troppo. Gli sembrava che solo l’aprire la bocca lo avrebbe fatto vomitare. “C’è stato un altro bombardamento.” continuò allora il maggiore. “Mentre eravate alla festa per i vent’anni di matrimonio del Generale Dirk. Lo ricordi?” A quelle parole, Rick aggrottò le sopracciglia. Sprazzi di immagini iniziarono a passargli davanti agli occhi. Ricordava il ricevimento. Gente che ballava e chiacchierava. I discorsi con gli altri soldati. Poi Beckett, con il suo vestito verde. Poi il caos.
All’improvviso, Castle ricordò il frastuono degli aerei e delle bombe, il bacio che aveva lasciato a Kate, la corsa verso l’esterno della palazzina. Rivide davanti a sé la macchina in fiamme, il fumo, i corpi mutilati, la coppia di vecchi in cerca di rifugio, il bambino intrappolato dalle macerie. Poi un boato e una forte luce. L’impressione di volare seguita subito dal dolore. Quindi il nulla. Iniziò ad agitarsi nervoso sul letto, il respiro accelerato, il sudore tra gli occhi, mentre quelle immagini si facevano strada dentro di lui, diventando sempre più reali. Una granata. Gli era esplosa una granata a distanza ravvicinata!
“Ehi, amico, calmati, ok?” esclamò subito Javier, portandosi di lato al colonnello e posandogli una mano sulla spalla sana per tranquillizzarlo e insieme tenerlo fermo prima che facesse ulteriori danni a sé stesso. Kate, allarmata, gli prese la mano libera e gliela strinse. Rick si voltò verso di lei, gli occhi sgranati per la paura, incurante del dolore al corpo che la sua agitazione stava intensificando. Stava tremando.
“Una granata…” sussurrò con voce rauca. Beckett annuì piano, con gli occhi lucidi.
“E’ scoppiata poco lontano da te.” mormorò in risposta la donna, senza smettere di stringergli la mano e anzi rafforzando la presa. “Ma per fortuna abbastanza da non ucciderti.” Quindi prese un respiro profondo e abbassò lo sguardo sulle loro mani. “Non sono riuscita a scendere in cantina con gli altri senza di te. Sono venuta a cercarti.” disse piano, sapendo bene di aver fatto il contrario di ciò che lui le aveva chiesto. “Non ti eri allontanato molto e quando ti ho visto a terra…” si bloccò per un momento, le parole strozzate in gola. Rick la ascoltava con la bocca semiaperta, leggermente più calmo. Doveva essere stata la sua voce a tranquillizzarlo, perché le parole di lei certo non lo rassicuravano. Era uscita sotto il bombardamento solo per cercarlo. Il significato di quel gesto da un lato lo faceva infuriare, ma dall’altro non poteva far altro che pensare a quanto era innamorato di quella donna. Non riuscendo a stringerle la mano come avrebbe voluto, Castle iniziò a farle, con il pollice, dei piccoli giri sul dorso della mano. Beckett prese un altro respiro profondo e continuò. “Ho cercato di svegliarti, ma non ci sono riuscita. Eri svenuto ed eri… eri pieno di sangue… e non sapevo cosa fare! Poi però è arrivato il colonnello che avevamo conosciuto prima…”
“Gersdorff.” ricordò Castle in un mormorio roco. Kate annuì.
“Mi ha aiutato a portarti al sicuro.” continuò piano, osservandogli il viso con aria impotente, come rivivendo quei momenti mentre li narrava. “Ti abbiamo dato un primo soccorso, ma continuavi a non svegliarti. Alla fine però è arrivato Kevin.” aggiunse poi, alzando gli occhi sul maggiore. Castle si voltò verso di lui, confuso.
“L’attacco è durato poco.” spiegò Ryan. “Inoltre ho saputo che era diretto principalmente ai collegamenti ferroviari. Ricordavo che l’abitazione del generale era a pochi passi dalla ferrovia, quindi quando non vi ho visto tornare mi sono preoccupato. Così ho preso l’auto e sono venuto a cercarvi. A quanto pare avevo visto giusto.” continuò con un mezzo sorriso triste. “Il quartiere era in buona parte devastato. Quando ho trovato Kate, lei mi ha detto delle tue condizioni, poi ti abbiamo caricato in auto e portato qui, in modo che Lanie potesse rattopparti.” Del dopo granata, Rick non ricordava nulla. Solo spezzoni di frasi, che sembravano richiami lontani, da parte della voce di Kate. Rimase per un momento sovrappensiero, quindi tornò a osservare Beckett. Il suo viso era pulito e non indossava più il vestito verde della festa, ma una camicia chiara e una gonna.
“Quanto tempo…” domandò alla fine con fatica, schiarendosi la gola che sentiva secca. “Quanto tempo sono rimasto senza conoscenza?”
“Quasi due giorni.” lo informò Lanie. “E ti servivano tutti, credimi.” Castle annuì piano, in parte più tranquillo ora che avevano risposto alle sue domande, ma insieme ancora scombussolato per l’accaduto. Sospirò e reclinò appena all’indietro la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi. Si sentiva così stanco… “Ehi, aspetta!” lo risvegliò subito la signora Esposito. Dovette fare un grande sforzo di volontà per riaprire gli occhi. “Prima che ti riaddormenti, devo farti un controllo. Poi potrai, e dovrai, riposare, chiaro?” Rick annuì di nuovo, troppo stanco per controbattere. Aveva ancora male ovunque, ma in quel momento la sua fiacchezza sembrava prevalere sul resto. Non aveva neppure fame.
Lanie mandò Javier a prendere un bicchiere d’acqua per Castle, quindi, con l’aiuto di Kate, controllò tutte le fasciature sul colonnello. Esposito e Ryan rimasero in camera con loro in caso servisse una mano a spostare l’uomo. Per distrarlo Kevin gli raccontò nel frattempo di come avevano faticato lui e Jenny a trovare altri pezzi di garza per le fasciature. Rick però sentì meno della metà del discorso. Si lasciò esaminare docilmente e calcolò man mano le sue ferite. Contò una profonda lacerazione sulla spalla, un lungo taglio sopra il ginocchio e uno sfregio che gli prendeva tutto lo zigomo, quasi dal naso all’orecchio, tutti sul lato sinistro del corpo, poi una ferita dietro la testa, dove aveva battuto quando era caduto, e diverse altre escoriazione, più un paio di bruciature lievi, sul resto della pelle. In fin dei conti era stato fortunato. Aveva ancora tutti gli arti e niente di rotto.
“Ok, finito.” disse alla fine Lanie quando ebbe concluso il suo esame. “Sembra che niente si stia infettando per ora. Continua a riposare e in men che non si dica sarai di nuovo in piedi a sparare battute come tuo solito.” A Rick scappò un mezzo sorriso per quella uscita, anche se gli fece male alla faccia. “Noi ora andiamo.” aggiunse poi la signora Esposito. “Verremo a controllarti di tanto in tanto, ma se hai bisogno chiama. Non ti azzardare più a muovere, ok?” Lui annuì subito, preoccupato dallo sguardo di minaccia della donna. A quel punto Lanie, Kevin e Javier si voltarono per uscire. Tentò di farlo anche Kate, ma Castle la tenne tenacemente per la mano. Non voleva lasciarla andare.
“Uhm… ragazzi, vi raggiungo tra un momento.” disse Beckett agli altri, sedendosi di nuovo accanto a lui. Quelli annuirono comprensivi con un piccolo sorriso, quindi sparirono fuori dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Avrebbero avuto tempo di fare battute quando Castle si sarebbe ripreso. Per il momento potevano lasciare ai due un po’ di tregua.
Quando il rumore dei passi sulle scale sparì, Kate si girò verso Rick e gli sorrise dolcemente.
“Ehi…” mormorò piano, come a salutarlo. Per tutta risposta, lui racimolò le ultime energie, lasciò andare la mano della donna e allungò il braccio sano verso il suo viso. Poi, ignorando il suo corpo che urlava di stare fermo, la tirò delicatamente, ma con impazienza, verso di lui e, alzandosi appena con la testa, fece incontrare le labbra di lei con le sue. La baciò quasi famelico per qualche momento, finché le forze glielo permisero. Aveva un assoluto bisogno di sentirla viva accanto a lui e di ringraziarla per non averlo ascoltato. Le succhiò avidamente il labbro inferiore, mordendoglielo poi piano, giocando con la sua lingua. Poi, cercando di alzarsi ancora di più dal materasso, una fitta alla spalla fasciata lo fece staccare bruscamente. Con un lieve gemito di dolore, ripiombò sul letto ansante e affaticato, mentre Kate lo osservava preoccupata.
“Scusa.” borbottò in un sussurro irritato. “Non hai idea di quanto vorrei… partecipare di più, ma…” Beckett lo bloccò posandogli due dita sulla bocca.
“Quando ti sarai rimesso, mi mostrerai quanta voglia hai di partecipare.” replicò con un mezzo sorriso e uno sguardo insieme divertito e malizioso. Spostò la mano per lasciargli una lieve carezza sulla guancia sana, leggermente ispida per l’accenno di barba non fatta. “Per ora però, voglio solo che ti riposi.” aggiunse quindi dolcemente, allungandosi per lasciargli prima un piccolo bacio sopra la fasciatura sulla fronte e poi un altro a fior di labbra. Rick annuì piano, incapace di comunicare in altro modo anche volendo. Si sentiva davvero sfinito. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dalle carezze che Kate aveva iniziato a fargli tra i capelli, addormentandosi in pochi minuti.
 
Quando Castle si svegliò di nuovo, la prima cosa che notò fu il cambiamento di luce. Le ombre si erano allungate di molto nella stanza e la luce rossastra che lo illuminava dalla finestra gli indicò che era il tramonto. Fece appena in tempo a guardarsi intorno, cercando Kate, che una piccola matassa di riccioli neri spuntò davanti alla sua visuale.
“Zio Rick?” lo chiamò piano Leandro, seduto sulla sedia accanto al letto. “Sei sveglio?” Non sapendo il perché dei sussurri, sussurrò anche lui. Non che avesse ancora la forza di fare molto altro, visto che sentiva di nuovo la gola secca.
“Sì.” rispose quindi in un bisbiglio rauco. Neanche il tempo di dirlo, e il bambino si precipitò giù dalla sedia per correre alla porta, sotto lo sguardo sorpreso del colonnello.
“ZIO RICK SI È SVEGLIATO!!” urlò, in modo che lo sentissero anche dal piano di sotto. Castle si agitò nervoso e una fitta di dolore gli passò attraverso il corpo. Trattenne a stento un gemito mentre gli sembrava che la spalla andasse a fuoco. Voleva dire a Leo di non urlare perché i muri non erano del tutto insonorizzati, ma Lanie fu più veloce di lui. La donna era salita subito per le scale, riprendendo il figlio con tono severo, ma calmo, e raccomandandogli di abbassare la voce. Dietro di lei, Rick poté notare entrare in camera anche gli altri abitanti della casa, ovvero Kevin, Jenny, Javier, Gates e infine Kate. La cameriera aveva con sé un vassoio con dei panni puliti, una caraffa d'acqua e un bicchiere. Nel vederli, il colonnello si ricordò di essere assetato.
“Castle, hai perso un sacco di sangue quindi ti sentirai disidratato.” gli spiegò Lanie, mentre la Gates appoggiava il vassoio sul comodino. Ryan e Javier lo aiutarono a mettersi in una posizione più o meno seduta. Quel solo movimento, per di più assistito, gli aveva fatto di nuovo girare la testa, anche se per fortuna non pulsava più. Lentamente prese il bicchiere con il braccio sano e se lo portò alla bocca. Si accorse che la sua mano tremava leggermente. Si stupì inoltre di trovare il bicchiere molto più pesante di quanto ricordasse, ma poi ricordò di essere lui quello che si era indebolito. L'acqua fresca fu un toccasana per la sua gola asciutta. Bevve tre bicchieri uno dietro l'altro, quasi senza prendere fiato, aiutato da Kate che ogni volta gli versava di nuovo l’acqua dalla brocca.
“Allora, Rick, come ti senti?” chiese alla fine Jenny quando lui finalmente riappoggiò il bicchiere sul vassoio sul comodino e reclinò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi, sul cuscino che Kevin e Javier gli avevano alzato dietro la schiena e la testa.
“Come uno investito dallo scoppio di una bomba.” replicò Rick con voce leggermente più ferma e un mezzo sorriso. Tirare su l’angolo della bocca gli causò una fitta di dolore allo zigomo tagliato. Fece una smorfia e strizzò gli occhi, come se quello avesse potuto far passare prima il dolore. “Ho male ovunque.” mugugnò poi.
“Ti ci vorrà un po' di tempo, ma ti rimetterai in sesto.” lo rassicurò Lanie. La donna stringeva davanti a sé il piccolo Leandro. Il bambino guardava il colonnello con gli occhi sgranati, come se fosse insieme curioso e impaurito.
“Abbiamo fatto a turno per controllare che stessi bene, zio.” disse all'improvviso il piccolo in tono un po’ esitante. “Avevi un sacco di incubi e ti agitavi tanto! Per questo ti ho chiesto se eri sveglio. E poi ho chiamato tutti come mi avevano detto di fare se ti svegliavi.” Rick gli sorrise teneramente, ignorando le lievi fitte della sua faccia. Dal tono del bambino era palese che fosse ancora preoccupato che qualcuno lo sgridasse perché aveva gridato in casa.
“Sei stato bravissimo, Leo.” lo rassicurò Castle piano. Leandro gli fece un bel sorriso di rimando, alzando poi lo sguardo verso la madre, come a chiedere silenziosamente se era contenta di lui. Lanie sorrise dolcemente al figlio e gli lasciò un bacio tra i capelli.
“Hai fame?” domandò poi Kate al colonnello. Rick ci pensò un momento, quindi scosse la testa in segno negativo, sorpreso lui stesso da quella constatazione.
“Ti tornerà tra poco.” spiegò Lanie. “Il tuo corpo si sta riabituando a essere sveglio. Comunque ti consiglio di iniziare a provare a mandare giù qualcosa per iniziare a rimetterti in sesto. Brodo o minestra andranno benissimo.” A quelle parole Castle fece una smorfia.
“Brodo o minestra?” ripeté con tono schifato. La signora Esposito alzò un sopracciglio e gli lanciò un’occhiata che era un misto tra ‘Beh, che ti aspettavi?’ e ‘Non vorrai fare il bambino!’ mentre gli altri tentavano, senza riuscirci, di non ridacchiare. Rick sbuffò appena, quindi alzò lo sguardo al soffitto, all’improvviso pensieroso. “Quando potrò alzarmi?” chiese poi in tono serio.
“Per ora sarebbe il caso che non facessi alcun tipo di sforzo.” rispose Lanie. “Hai dormito due giorni, perso molto sangue e il tuo corpo è in diversi punti rammendato come meglio ho potuto. Hai bisogno di riposare e di lasciare che il tuo organismo di riprenda.” Castle rimasi silenzioso per un momento, gli occhi ancora a osservare un punto imprecisato del soffitto. Poi si morse il labbro inferiore e si voltò verso Kate. Lei lo guardò insieme curiosa e inquieta. Aveva imparato a riconoscere i suoi sguardi e sapeva che quello gli avrebbe fatto tirare fuori qualche strana idea.
“Pensi… pensi di riuscire ad occuparti di me?” domandò piano, quasi timido. “In un caso ipotetico in cui fossimo solo noi due, come me in queste condizioni.” Lei lo guardò perplessa.
“Io… sì, credo di sì.” replicò cauta.
“Non voglio essere un peso.” aggiunse subito il colonnello. “Solo… solo che voglio tornare a casa.” Un coro di “Cosa??” accolse la sua frase.
“Castle, ti ho appena detto che devi stare a ripos…” cercò di dire Lanie, ma lui la bloccò.
“Lanie, se qualcuno dovesse venire a cercarmi, vorrei evitare di dover fare le vostre presentazioni.” replicò secco.
“Oh, Zimmermann è passato.” dichiarò Ryan, schioccando le dita. “Mi ero dimenticato di dirtelo. E’ venuto ieri. Chiedeva di vederti, ma eri ancora incosciente.”
“E’ entrato in casa?” domandò Rick allarmato. Kevin annuì e lui si mosse agitato, sentendo fitte di dolore in diversi punti.
“Allora stasera torno al mio appartamento.” affermò deciso. Ci fu un altro coro di proteste.
“Andiamo, amico, non dire idiozie.” lo riprese Esposito, scuotendo la testa con forza. “Non hai abbastanza forze per alzarti, figurarsi per tornartene a casa!”
“Aiutatemi allora!” esclamò allora Rick, nervoso. “Ma non resterò ancora qui. Non solo sto occupando un letto, facendo dormire Kevin e Jenny chissà dove da due giorni. Il peggio è che non posso rischiare che vi scoprano, Javi. Kate ha detto che si può occupare di me e in più io mi riprenderò presto, quindi…”
“Rick, ti prego, aspetta.” lo bloccò Jenny, sedendosi sul letto accanto a lui, un po’ a fatica per la grossa pancia. “Prima di tutto devi sapere che io e Kev ce la possiamo benissimo cavare senza un letto ancora per un po’ poiché, per tua informazione, siamo riusciti a comprare una branda piuttosto larga per casi del genere, per ospiti straordinari, diciamo.” continuò con un sorriso dolce. Quindi posò una mano sulla sua e la strinse appena in un gesto rassicurante. “Per quanto riguarda Javier, Lanie e Leandro, siamo sempre molto attenti. Sai bene che non li metteremmo mai in pericolo. Quindi non hai bisogno di soffrire, più di quanto tu già non faccia ora, per noi.” Castle la osservò per qualche momento in silenzio, combattuto. Alla fine si voltò di nuovo verso Kate con una muta richiesta di aiuto nello sguardo. Lei si mosse a disagio sul posto e si morse il labbro inferiore, dubbiosa.
“Posso occuparmi di lui.” disse alla fine Beckett, ripetendo le parole precedenti del colonnello. Tutti gli occhi si puntarono su di lei. “So cucinare, quindi non morirà di fame. Inoltre so come cambiare delle bende e sono in grado di aiutarlo nei movimenti. Ditemi se devo saper fare altro e lo farò.”
“Modalità crocerossina?” domandò Javier, divertito e malizioso, senza riuscire a trattenersi. La donna arrossì all’istante, lanciandogli un’occhiataccia.
“Ah, ma allora è per questo che vuoi andartene!” continuò Kevin con lo stesso tono dell’amico, rivolto però a Castle. “Altro che le tue belle frasi su di noi! Tu vuoi solo stare da solo con Kate a farti coccolare!” aggiunse ridacchiando. Questa volta fu Rick a lanciargli un’occhiataccia, mentre Beckett arrossiva più di prima.
“Ecco, hai rovinato il mio piano!” esclamò però poi a sorpresa il colonnello, ghignando leggermente, per quanto il dolore allo zigomo glielo permettesse. Si girò quindi verso Kate, mettendo su la migliore faccia da cucciolo che gli riuscisse al momento. “Giuro che sarò un bravissimo paziente. E poi, con la giusta dose di coccole, quando mi sarò rimesso io potrei…”
“Fermo, aspetta!” lo bloccò Lanie. Quindi tappò le orecchie del figlio con le mani. Leandro alzò lo sguardo e lanciò un’occhiata perplessa alla madre. “Ok ora puoi continuare.” disse poi la signora Esposito con un sorrisetto.
“Devo tappare anche le orecchie alla mia pancia?” domandò poi Jenny, scuotendo la testa divertita. “Perché se è così potrei avere dei problemi…”
“Castle, ti avverto, se fermi la crescita a mio figlio, o figlia che sia, mentre è ancora nella pancia di mia moglie, te la vedrai con me!” dichiarò Ryan con un tono a metà tra il serio e lo scherzoso. Kevin e Rick si guardarono torvi per un momento. Quindi scoppiarono a ridere, coinvolgendo con loro anche gli altri, Gates e Leandro compresi. Castle per un momento riuscì a dimenticare la paura per la situazione in cui erano. Per un attimo dimenticò persino il dolore.
Quando alla fine gli ultimi residui di ilarità scivolarono via da lui, Rick reclinò la testa all’indietro e chiuse gli occhi.
“Comunque dico sul serio, ragazzi.” mormorò alla fine stancamente. Si sentiva di nuovo stremato, come se quella chiacchierata gli avesse prosciugato le forze. “Preferirei tornare a casa stasera stessa. Non voglio darvi più problemi di quanti già non ne abbiate.” Ci fu un momento di silenzio intorno a lui. Era sicuro che i suoi amici si stessero lanciando occhiate di soppiatto creando un silenzioso discorso.
“Va bene.” borbottò alla fine Ryan con un sospiro. Castle riaprì gli occhi e lo vide passarsi una mano tra i capelli. “Ti riportiamo a casa.”
“Però prima devi mangiare qualcosa o non arriverai neppure alla porta di sotto.” intervenne Lanie. “Inoltre devo far vedere a Kate come controllarti le ferite.” Il colonnello semplicemente annuì. A quel punto i suoi amici si dispersero. La Gates andò a preparare un brodo, Javier prese in braccio Leandro e ritornò al piano di sotto insieme a Jenny e Kevin. Nella stanza rimasero solo Kate e Lanie. La signora Esposito mostrò a Beckett come togliere e rimettere le fasciature nel modo migliore, come controllare che non si infettassero i tagli e come procedere in caso contrario. Non sarebbe dovuto succedere, ma lui al momento era debole e facilmente preda dei batteri. Le raccomandò comunque di chiamarla in caso di qualsiasi problema o dubbio.
La cameriera tornò poco più di dieci minuti dopo con un vassoio e un piatto di minestra poggiato sopra. Lanie aveva appena finito di elencare a Kate tutti i punti che avrebbe dovuto esaminare e le tipologie di ferite sul corpo del colonnello in modo che le ricordasse. Rick storse il naso come i bambini quando sentì l’odore delle verdure. Non gli dispiacevano, ma il minestrone non lo sopportava.
“Andiamo, Castle, non fare il bambino!” lo riprese Kate, scuotendo la testa esasperata quando lo vide fare una smorfia e girare il viso dall’altra parte rispetto al vassoio sul comodino.
“Posso restare senza mangiare un giorno.” bofonchiò semi nascosto dal cuscino.
“Sono due giorni che non mangi.” gli ricordò Lanie con un sopracciglio alzato. “Devi mangiare qualcosa e, per il tuo stato, la minestra è la cosa migliore. Hai bisogno di reintegrare liquidi al momento. Da domani potrai iniziare a mangiare qualcosa di solido, ma poco per volta.” Rick sbuffò, ma si voltò di nuovo verso le tre donne.
“Mi stupisco che il suo stomaco non abbia già iniziato a reclamare cibo, signor Castle...” commentò la Gates con un mezzo sorriso, facendo ridacchiare Kate e Lanie, mentre il colonnello metteva il broncio.
“Beh, lo lasciamo nelle tue mani, ragazza!” esclamò poi divertita la signora Esposito, facendo l’occhiolino a Beckett. “Il tuo paziente ti aspetta!” Quindi si incamminò con la Gates fuori dalla camera. Prima di chiudere la porta dietro di sé però si voltò un’ultima volta verso i due. “Mi raccomando: crocerossina ok, ma niente gioco del dottore finché il paziente qui presente non si sarà almeno un po’ ripreso, chiaro?” Kate fece appena in tempo a capire la sua allusione e ad arrossire, che la donna aveva già chiuso la porta con un sorriso malizioso. A quel punto Beckett si sedette sulla sedia accanto a Rick con un sospiro rassegnato.
“Perché sei lì?” domandò Castle. Lei lo guardò perplessa.
“Dove dovrei essere?” chiese di rimando.
“Sul letto con me.” rispose l’uomo, indicando un punto libero sul materasso accanto ai suoi fianchi. Beckett scosse la testa.
“Non voglio rischiare di farti male.” replicò.
“Più di così…” borbottò lui. “Almeno puoi avvicinarti?” continuò poi con un tono strano, a metà tra il serio e il divertito. “Hai una cosa sulla guancia.” Kate mosse in automatico una mano sul viso, cercando qualunque cosa le stesse indicando. “No, è più… Dai, avvicinati che te la levo.” aggiunse poi Rick, allungando una mano. Lei fece come gli aveva detto: si alzò per sedersi accanto a lui sul letto e poi si abbassò un poco su di lui. Non appena fu alla sua portata, Castle appoggiò la mano sul viso di Kate e la attirò piano a sé, studiando un punto imprecisato della sua guancia. Poi però, invece di levare qualsiasi cosa avesse in faccia come le aveva detto, la avvicinò ulteriormente finché non riuscì ad allungarsi per lasciarle un bacio sulla guancia. “Proprio qui hai qualcosa…” mormorò sulla sua pelle, sentendo Beckett tremare leggermente. “Aspetta che non si è tolta…” continuò poi, spostandosi appena e lasciandole così un altro bacio all’angolo della bocca. Si accorse che Kate stava trattenendo il respiro. Poi lei si voltò e gli lanciò uno sguardo che lui interpretò come bramoso, mordendosi insieme il labbro inferiore.
Rick la attirò nuovamente a sé e stavolta le loro labbra si unirono. Passò le dita tra i capelli di lei e la tenne contro di sé. Avrebbe voluto sentirla contro il suo corpo, ma al momento era qualcosa di semplicemente impossibile per lui. Giocò con la lingua di lei e le sue labbra finché ne ebbe fiato e forza. Non avrebbe mai voluto smettere di baciarla. La debolezza e il dolore però ebbero la meglio su di lui. Dovette separarsi da lei, lasciandosi cadere stancamente contro il cuscino con il respiro un po’ affannoso.
“Sai,” commentò a un certo punto Kate, anche lei con il respiro appena più corto del normale, le labbra rosse e leggermente gonfie che fecero solo venire voglia al colonnello di riprendere a baciarla. “Se volevi baciarmi non bastava che chiederlo.” Rick ghignò allegro.
“Davvero?” chiese, puntando i suoi occhi blu dritto dentro quelli verde-nocciola di lei. Lei annuì piano, con un piccolo sorriso, un po’ rossa in volto. Poi notò il piatto abbandonato sul comodino e si ricordò cosa dovesse fare.
“Coraggio, ora è il caso di mandare giù la minestra.” disse quindi, alzandosi dal letto. Castle fece una smorfia.
“Speravo lo avessi dimenticato.” borbottò come un bambino, osservandola sedersi sulla sedia e portarsi il vassoio sulle gambe.
“Ah, quindi il bacio era per farmi dimenticare la minestra?” domandò lei retorica, alzando un sopracciglio. “Me ne ricorderò la prossima volta…” commentò poi con un mezzo sorriso divertito mentre ritrovava il cucchiaio nascosto sotto il piatto.
“Ma io…” cercò di dire il colonnello con tono allarmato.
“Taci e mangia ora, Castle.” lo riprese lei scherzosa, riempiendo un cucchiaio di minestra e portandoglielo davanti alla bocca. Lui storse subito il naso alla vista di quelle verdurine molli e senza vita che galleggiavano sul brodo. “Ti conviene mandarla giù oppure ti avverto, da me non avrai più nemmeno un bacio a distanza.” Rick sgranò gli occhi preoccupato. Quindi prese un respiro profondo, tappò il naso e ingoiò la minestra.
 
Quando la cena fu completata, dopo diversi mugugni e silenziose proteste, Rick si sentì effettivamente un poco più in forze. Non sapeva se fossero effettivamente state le verdurine galleggianti, la potenza della suggestione o semplicemente la voglia di tornare a casa a farlo sentire meglio. In realtà non riusciva ancora a mettersi seduto da solo né, quindi, ad alzarsi in piedi, però si sentiva meno debole da quando si era svegliato. Dovette farsi aiutare a sollevarsi dal materasso e scendere le scale da Ryan ed Esposito. Dalla porta di casa invece, il carico del suo peso passò alle spalle di Kevin e Kate. Si sentì un po’ in colpa per quello sforzo che li stava costringendo a compiere, ma non c’erano altre soluzioni.
Appena uscirono di casa, Rick notò che fuori era completamente buio. Arrivati alla macchina, posteggiata giusto davanti all’ingresso per non dover fare strada con lui in quelle condizioni, Castle si sentì già senza più forze. Si accasciò sul sedile posteriore dell’auto ansante, sudato e con un mal di testa pulsante che gli stava dando anche la nausea. Per fortuna il vetro freddo del finestrino, dove aveva appoggiato la fronte, limitò un po’ il capogiro e attenuò la sensazione di voltastomaco. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dal basso borbottio della macchina e dalle lievi carezze tra i capelli di Kate, seduta accanto a lui.
Pochi minuti dopo erano a destinazione. Ryan aiutò Beckett a trasportare di peso il colonnello in casa. Si mossero lentamente per l’appartamento fino a raggiungere la camera di Castle, dove i due lo stesero piano sul materasso. Dopo di quello, Rick non avrebbe saputo dire cosa accadde poiché, appena appoggiata la testa sul cuscino, si addormentò sfinito di un sonno senza sogni.
 
Quando Castle si svegliò di nuovo, la prima cosa che notò fu la luce del giorno entrare dalla finestra. Sbatté le palpebre più volte e si guardò intorno, dimentico per un momento del fatto che fosse tornato al suo appartamento. Quando capì dove si trovasse, notò una sedia vuota poco lontana dal letto che prima non c’era mai stata. Aggrottò le sopracciglia confuso.
“Ehi, buongiorno bell’addormentato!” lo salutò Kate con un sorriso, entrando in quel momento in camera con un vassoio e trovandolo sveglio. “Come ti senti?” gli chiese poi, notandolo ancora un po’ frastornato.
“Uhm… hai una domanda di riserva?” replicò Castle, passandosi una mano sugli occhi per tentare di svegliarsi. Non sarebbe stato necessario in realtà. Il dolore che aveva in tutto il corpo, e che per la stanchezza nel sonno non aveva percepito, si stava risvegliando insieme a lui. Kate appoggiò il vassoio sul comodino accanto al letto e si sedette sulla sedia, guardandolo preoccupata.
“Non hai antidolorifici in casa, vero?” gli chiese speranzosa. Rick scosse piano la testa in segno di diniego e Beckett sospirò rassegnata. “Jenny non ne aveva neppure. Lei e Kevin hanno anche provato a recuperarne qualcuno, ma tutti i flaconi sono stati requisiti per gli ospedali.” Lo osservò sofferente, come se il dolore che provava lui riuscisse a sentirlo anche lei. “Mi dispiace.” mormorò.
“Non importa.” rispose piano Rick. “Non sto così male in fondo.” aggiunse poi con un mezzo sorriso tirato. In realtà stava malissimo. La stanchezza stava passando e man mano che riprendeva lucidità il male si faceva sempre più insistente e intenso. La spalla gli bruciava con forza e il taglio sullo zigomo sembrava che tentasse di spaccargli in due la faccia. Strinse la mascella e si mosse leggermente contro il cuscino, cercando una posizione che non lo infastidisse troppo. Per la faccia non poteva fare nulla, ma almeno per la spalla e il resto del corpo poteva tentare qualcosa. Kate lo studiò in ogni movimento, le labbra contratte e le sopracciglia aggrottate. “Allora, cosa… cosa mi hai preparato di buono?” chiese poi Castle, tentando di nascondere la sofferenza. “Sono affamato.”
“Latte, pane e miele.” replicò Beckett, non del tutto convinta della sua recita. Prese comunque il vassoio, posandoselo sulle gambe per mostrargli il contenuto che gli aveva appena elencato. Il colonnello notò una grossa ciotola di latte, qualche fetta di pane ben impilata su un piattino e il barattolo del miele. “Ordini della dottoressa.” aggiunse poi la donna con un mezzo sorriso, intendendo Lanie. “Ti aiuto a mangiarlo?” Rick cercò di tirarsi su piano facendo leva sul braccio sano, ma appena si mosse una fitta alla spalla e al fianco lo fece ripiombare sul letto.
“Sì, per favore.” le rispose alla fine, un po’ vergognoso. Non voleva farsi vedere così debole da lei, anche se lui stesso le aveva chiesto di prendersi cura di lui. Strinse i pugni e contrasse la mascella, lo sguardo cupo rivolto al soffitto.
“Sai che non hai bisogno di farti vedere forte da me, vero?” domandò lei retorica, come se gli avesse letto nel pensiero. Lui si voltò stupito e la vide fargli un sorriso dolce. Kate riappoggiò il vassoio sul comodino, quindi si alzò e si allungò per lasciargli un piccolo bacio a fior di labbra. “Sei stato quasi dissanguato da quella granata.” sussurrò piano, a pochi centimetri dalla sua bocca. Rick per un attimo poté sentire ancora una nota di paura nel tono. “Sei rimasto svenuto per due giorni. Non hai bisogno di fare l’uomo, so già che lo sei. Tu pensa solo a riprenderti ora e lascia a me i dettagli tecnici della tua guarigione, ok?” aggiunse poi insieme con tono dolce e divertito. Castle la osservò per un lungo momento, la bocca semi aperta e il cuore in qualche modo con il battito accelerato. Poi allungò il braccio sano e la attirò nuovamente a sé per baciarla.
“D’accordo.” rispose alla fine il colonnello in un mormorio basso, gli occhi chiusi, la fronte di Kate appoggiata alla sua. “Ma ti prometto che troverò il modo di dimostrarti la mia gratitudine.”
“Una volta che ti sarai rimesso, potresti anche ripagarmi in natura...” replicò Beckett piano. Castle la allontanò leggermente da sé e la guardò con gli occhi sgranati, sorpreso, ma insieme stuzzicato da quella prospettiva. La donna ridacchiò per la sua faccia, incurante del caldo che quella sola frase aveva provocato all’uomo.
“Appena sarò abbastanza in forma, sono certo che riuscirò a ripagarti come mi chiedi.” le rispose in un tono basso e quasi provocante, nonostante le sue condizioni. Rimasero per un momento a fissarsi negli occhi con uno sguardo quasi di sfida, come se lei volesse capire se diceva sul serio e lui volesse darle a intendere che era serissimo. Beckett fu la prima a spostare lo sguardo, un po’ rossa in volto.
“Allora vuoi fare colazione o no?” borbottò poi per cambiare argomento, facendo spuntare a Rick un sorrisetto soddisfatto. A quel punto Kate lo aiutò a raddrizzarsi un poco, così da riuscire a mangiare meglio, e si rimise il vassoio sulle gambe. Pian piano inzuppò il pane con il miele nel latte per ammorbidirlo e lo imboccò. Lui non sarebbe stato in grado di tenere il portavivande addosso e inoltre braccio sano gli tremava leggermente. Non sarebbe riuscito nemmeno a tenere in mano un pezzo di pane senza farlo cadere. Secondo Lanie quel fatto era dovuto sia all’indebolimento che allo shock dell’esplosione e ci sarebbe voluto ancora qualche giorno, se non di più, prima che sparisse.
Dopo colazione Castle cercò di dormire ancora un po’, ma il dolore lo tenne in una sorta di dormiveglia agitato. Si svegliò del tutto solo quando sentì qualcosa di caldo muoversi sul suo petto. Aprì gli occhi e notò le mani di Beckett sopra la fasciatura che gli teneva bloccata la spalla e che gli girava intorno al torace nudo.
“Kate?” domandò assonnato quando lei, accortasi di averlo svegliato, tirò velocemente via le mani, arrossendo vistosamente. “Che stavi facendo?”
“Scusami, non volevo disturbarti.” disse piano, come sperando che lui si riaddormentasse subito a quelle parole. Solo che Rick non lo fece, quindi dovette continuare a parlare. “Ti sei agitato parecchio durante il sonno e ti si era spostata la fasciatura. Stavo cercando di risistemarla, quando…”
“Risistemare la fasciatura?” ribatté Castle ironico con un sorrisetto stampato in faccia, ormai del tutto sveglio. “E’ così che si dice ora quando si vuole approfittare del corpo del proprio ragazzo mentre è semi paralizzato a letto?” Kate gli lanciò un’occhiataccia, ancora più rossa in viso.
Ragazzo??” ripeté lei con un sopracciglio alzato. “Cos’hai, quindici anni? Da dove esce fuori? No, aspetta!” continuò poi, alzando una mano come a bloccare ogni possibile commento e scuotendo la testa. “Lasciamo stare. Per quanto riguarda l’approfittarsi, invece, tu probabilmente stai ancora sognando! Io non volevo approfittare proprio di niente!”
“Oh, andiamo, ammettilo!” replicò lui, ridacchiando. 
“Nemmeno per idea!” esclamò di rimando Beckett, incrociando le braccia al petto e scuotendo di nuovo la testa con forza. Le si leggeva in faccia che era sempre più imbarazzata. “Ripeto, tu sogni! Ti stavo solo risistemando la fasciatura!”
“Sì, certo…” commentò Rick sempre più divertito. Quindi sospirò, ma si bloccò a metà e fece una smorfia.
“Che hai??” chiese subito la donna preoccupata, abbandonando la posa offesa e allungandosi verso di lui.
“Come diavolo fai a starmi vicino??” domandò il colonnello stupito e infastidito, annusandosi la fasciatura alla spalla. “Puzzo.” continuò con un’altra smorfia disgustata. A furia di stare sotto le bende, la sua pelle aveva iniziato a rilasciare un po’ di cattivo odore. Non era però propriamente quello a seccarlo, ancora non era diventato un odore insopportabile. Il problema era che Rick sentiva anche puzza di cenere e sangue. E gli stava facendo venire la nausea.
Per un attimo entrò nel panico. Voleva togliersi quell’odore, dimenticare l’esplosione e il dolore. Poi però si impose di restare calmo. Prese dei respiri profondi, cercando di ignorare il puzzo della sua pelle, e reclinò la testa all’indietro sul cuscino, chiudendo gli occhi.
“Ho bisogno di una doccia.” mormorò stancamente. “Un doccia, un bagno o qualunque altra cosa.”
“Castle, nelle tue condizioni non…” cercò di farlo ragionare Kate, ma lui la fermò.
“Ti prego.” la implorò piano, guardandola speranzoso e disperato insieme. “Ne ho bisogno davvero. Per la mia salute mentale.” aggiunse poi con un mezzo sorriso tirato. Non sapeva neppure lui se scherzasse o meno. Kate lo osservò per un momento, incerta, mordendosi il labbro inferiore. Alla fine però annuì sconfitta.
“Beh, in piedi o seduto non puoi stare.” affermò lei. “Potrei portare qui una bacinella, ma rischierei di bagnare tutto e non mi sembra il caso di farti dormire su un materasso umido. Però…” aggiunse poi pensierosa, aggrottando le sopracciglia. “Però forse ho una soluzione.”
“C’è qualche possibilità che ti veda nuda con me da qualche parte in questa soluzione?” domandò Rick con il tono più angelico che gli riuscì. “Insomma, non vorrei che ti bagnassi anche tu…” Kate gli lanciò un’occhiata omicida che bastò a farlo ritrattare. “Ok, ok, era solo per chiedere.”
 
Dopo che Beckett ebbe raccomandato a Castle di non muoversi (“Cavolo, e io che pensavo di uscire a farmi un giro fuori a prendere un caffè!”), uscì dalla camera senza dire nulla sulla sua idea. Tornò solo dieci minuti più tardi trasportando a fatica un materasso, preso probabilmente dal letto del piano di sopra.
“Kate, che diavolo stai facendo??” le chiese stupito quando la vide entrare con quell’ingombrante peso. Lei in risposta sbuffò e tirò un’ultima volta il materasso così da posizionarlo di lato al letto dove era steso Rick con un tonfo sordo. Quindi uscì di nuovo e rientrò pochi minuti dopo con un basso secchio pieno d’acqua, una spugna e un asciugamano appeso al braccio. Quando finalmente appoggiò tutto a terra, guardò la sua opera soddisfatta.
“Bene,” annunciò con un sorriso Kate, rialzando lo sguardo sul colonnello. “Ora manchi solo tu.” Rick alzò un sopracciglio, nonostante la fasciatura alla testa gli impedisse buona parte di quel semplice movimento.
“Scusa?” replicò ironico.
“Hai detto che volevi lavarti, no?” rispose lei, indicando il secchio d’acqua. “Questa è l’unica soluzione che mi è venuta in mente per non muoverti troppo e per non bagnare il letto dove ti trovi. Se hai altre proposte, sono disposta ad ascoltarle.”
“Che c’entra il materasso?” domandò Castle, lanciando un’occhiata all’oggetto per terra vicino a lui. “Hai intenzione di mettermi sopra e poi lanciarmi l’acqua addosso?” Kate roteò gli occhi esasperata.
“Certo,” replicò sarcastica. “Perché non ho altro da fare che tentare di provocarti una polmonite!” Rick le lanciò un’occhiata curiosa e attese spiegazioni. “Non riesci a reggerti seduto, né in piedi, quindi devi restare sdraiato.” si spiegò la donna. “Avrei potuto portarti in bagno, ma la vasca è al piano di sopra e comunque sarebbe stato alquanto difficile lavarti una volta dentro. Quindi mi sono inventata una soluzione: ho preso il materasso del mio letto e l’ho portato qui. In questo modo tu dovrai solo scendere e sdraiarti di nuovo. Ti aiuterò a lavarti e poi potrai tornartene nel tuo letto. In questo modo si bagnerà al più il pavimento e…”
“E tu dove dormirai?” le chiese Castle stupito e con una lieve nota di trepidazione nella voce. Avrebbe tanto voluto che lei gli dicesse che avrebbe dormito con lui. Non osava sperarlo però. Inoltre non era esattamente nelle condizioni più adatte per tenere Kate con lui. Forse l’avrebbe solo infastidita nel sonno. Eppure avrebbe voluto tanto averla lì…
“Beh, hai un letto grande…” cominciò Beckett con gli occhi bassi, arrossendo e passando il peso da un piede all’altro a disagio. “Se entro stasera non si asciuga il mio materasso pensavo di… di poter dormire… con te.” sussurrò, mordendosi il labbro inferiore e osando lanciargli un’occhiata di sfuggita. Rick era a bocca aperta, gli occhi sgranati. Poi un sorriso enorme, incurante del dolore allo zigomo, gli si piazzò in faccia senza che riuscisse a contenerlo.
“Qui sei la benvenuta quando vuoi.” replicò con tono allegro. Kate, ancora rossa in volto, alzò gli occhi al cielo rassegnata, ma non disse niente. Anzi un piccolo sorriso le si formò sulle labbra, lasciando il povero colonnello incantato a guardarla.
“Allora, vogliamo iniziare?” domandò poi qualche momento dopo Beckett, spezzando il momento imbarazzante. Castle osservò per un momento il materasso a terra e gli altri arnesi, pensieroso. Quindi tornò a guardarla. Alla fine sospirò e annuì. “Ok.” continuò Kate, passandosi una mano tra i capelli. “Per prima allora cosa devi toglierti i vestiti.” A quelle parole, Rick drizzò le orecchie e alzò le sopracciglia, guardandola divertito.
“Questa parte già mi piace…” commentò con un ghigno, slacciandosi intanto il bottone dei pantaloni con la mano sana. “I tuoi quando li raggiungono?” Kate alzò di nuovo gli occhi al cielo, senza comunque riuscire a nascondere il fatto che fosse arrossita un’altra volta.
“Dove ti trovo qualcosa di pulito?” domandò invece, cercando il più possibile di tenere gli occhi bassi e lontani da lui. Non importava il fatto che tra poco lo avrebbe visto comunque quasi del tutto nudo per lavarlo.
“Secondo e terzo cassetto.” rispose Rick, indicandole con un cenno della testa la cassettiera poco lontano, cercando intanto, con qualche difficoltà per la posizione scomoda e i bendaggi che lo immobilizzavano, di aprirsi la zip e iniziare a togliersi i pantaloni. Kate andò a tirargli fuori un paio di mutande e di calzoni puliti, quindi li appoggiò con cura sul letto, lontano da dove lo avrebbe lavato per evitare di bagnare tutto. A quel punto tornò dal colonnello e lo aiutò a spogliarsi. Era già a torso nudo, quindi dovette assisterlo solo per i pantaloni. Rossa in volto, ma ancora decisa a non alzare lo sguardo, prese i lembi dei pantaloni, che Castle era riuscito a portare fino a mezza coscia, e li tirò delicatamente fino ai piedi, togliendo di mezzo anche le calze. Lui si schiarì la gola un po’ imbarazzato. Non era certo quello il modo con cui aveva pensato di farsi vedere nudo per la prima volta da Kate. Inoltre doversi fare aiutare a togliere i vestiti era una cosa che lo metteva a disagio, facendolo sentire debole o incapace di muoversi. Cosa che però, effettivamente, in buona parte era.
Quando Beckett poi lo aiutò ad alzarsi, solo in boxer, finalmente Castle poté vedere tutti i danni che la bomba gli aveva causato. Non sapeva esattamente come fosse messo sotto i bendaggi, visto che ne aveva solo sentito parlare a Kate e Lanie, ma il resto della sua pelle era coperto in gran parte da graffi e sporco, per lo più cenere e sangue. Esattamente l’odore che aveva sentito e che lo aveva nauseato.
Distolse gli occhi dal suo corpo e si concentrò sullo scendere dal letto per sdraiarsi nuovamente sul materasso a terra. Dopo giorni di immobilità, sentì ogni muscolo rigido e dolorante, aggiungendo altro male a quello che già sentiva. Quando appoggiò la testa al letto improvvisato, chiuse gli occhi sollevato e ringraziò il cielo che Kate avesse avuto quell’idea. Non ce l’avrebbe fatta a stare in piedi nella doccia o a salire al piano di sopra per farsi un bagno.
“Castle, ci sei?” chiese piano la donna, inginocchiandosi per terra di lato a lui e spostandogli dolcemente un ciuffo di capelli che aveva superato la benda sulla sua fronte. Lui riaprì gli occhi e annuì, la mascella ancora leggermente contratta. “Ascolta, Lanie mi ha avvertito di muoverti il meno possibile e di non bagnare assolutamente dove ha posizionato i cerotti. Però mi ha detto che posso rimuoverti parte delle bende per lavare intorno alle ferite. Il problema il realtà è solo la spalla perché la fasciatura che hai lì sostiene il peso del braccio. Se lo tolgo ti farà un male, ma se non lo faccio non riuscirò a lavarti nessuna parte al di sotto di questa. Cosa vuoi che faccia?”
“Toglile.” rispose sicuro Rick. Voleva levarsi quell’odore nauseabondo di dosso da ogni punto.
“Va bene, allora.” replicò Kate. “Quindi… ehm…” balbettò poi, all’improvviso rossa in volto. Fino a quel momento era riuscita a contenere l’imbarazzo, ma ora che doveva avere un vero contatto fisico con l’uomo, il disagio per la cosa era tornato a sorprenderla. “Da… da cosa vuoi cominciare? Torso o gambe?”
“Torso.” rispose Castle.
“Ok…” mormorò lei con un mezzo sospiro. Quindi si arrotolò le maniche della camicia che indossava fino al gomito e si preparò per l’operazione. Per prima cosa rimosse molto lentamente le bende dalla spalla di Rick, arrivando a scoprire il grande cerotto che Lanie aveva posizionato appena sotto la clavicola. Quindi prese il secchio e lo avvicinò a sé insieme alla spugna, lasciando l’asciugamano a portata di mano. Intinse la spugna nell’acqua, la spremette bene perché non bagnasse troppo e poi, con mano leggera, iniziò l’operazione di pulizia. Doveva avere aggiunto una piccola quantità di sapone perché Castle poté sentirne l’odore dolciastro che iniziava a mescolarsi con quello di fumo e sangue.
Kate partì dal braccio sano del colonnello. Lo pulì delicatamente, muovendosi all’insù fino ad arrivare alla spalla. Poi mosse piano la spugna sul suo collo e passò all’altra spalla. Con molta attenzione e pazienza, pulì tutta la zona intorno al cerotto, cercando di dargli il meno fastidio possibile, quindi scese sull’altro braccio. Una volta completato anche quello, tornò sul collo e discese lentamente lungo il suo petto, fino ad arrivare a bagnare lo stomaco e i fianchi appena sopra la linea dei boxer che indossava.
Beckett fece tutta l’operazione in completo silenzio, mentre Castle non poteva fare a meno di osservarla rapito. Lei sembrava estremamente concentrata, con la sottile rughetta tra le sopracciglia che la rendeva adorabile. Un lieve rossore continuava ad aleggiare sulle guance di Kate, ma pareva che fosse riuscita a mettere da parte l’imbarazzo per aiutarlo. Quando la donna raggiunse la parte bassa del suo stomaco però, Rick non riuscì a non trattenere il respiro per un momento, contraendo la mascella e la pancia, facendo arrossire di più la donna e mordere con forza il labbro inferiore.
“Scusa.” mormorò imbarazzata.
“Non scusarti.” borbottò in risposta Castle con voce leggermente roca, gli occhi chiusi nel tentativo di non impazzire per i suoi leggeri tocchi. “Mi sembra di non essere mai stato meglio.” aggiunse senza pensare. In effetti per qualche momento il dolore era quasi come svanito. I passaggi di Beckett sulla sua pelle erano molto lievi e rilassanti, tanto da riuscire a distrarlo dalle sue ferite per concentrarlo su pensieri ben poco casti e puri che riguardavano loro due. Viste le sue condizioni forse avrebbe dovuto evitare, ma non riusciva a togliersi quelle fantasie dalla testa. Non con lei così vicina che gli lavava il corpo e con lui quasi nudo.
“Rick, è una fortuna che tu non ti sia rotto niente e soprattutto che tu non sia morto.” replicò Kate con tono basso e triste, finendo di passare la spugna sui suoi fianchi, cercando di pulire con delicatezza una macchia di sangue che nascondeva un taglio superficiale. Castle riaprì gli occhi e la guardò. Pareva assorta nel suo lavoro, ma allo stesso tempo con i pensieri anni luce da lui.
“Ehi…” la richiamò, posando la mano sana sulla sua, fermando il lento movimento della spugna e facendola voltare verso di lui. Kate aveva gli occhi lucidi.
“Saresti potuto morire…” sussurrò piano. Rick scosse la testa.
“Mai.” dichiarò serio, stringendo appena la presa sulla mano di lei. Sentì l’acqua fuoriuscire dalla spugna e scivolargli lenta lungo il fianco e tra le dita. “Te l’ho già detto, non ti libererai così facilmente di me.” continuò con un tono più dolce e un mezzo sorriso. Beckett gli fece un piccolo sorriso di rimando, un poco più tranquilla. Quindi si abbassò su di lui e gli lasciò un bacio sulle labbra. “Ti ho sentita, sai?” mormorò poi Castle quando lei si scostò. “Ti ho sentita mentre mi chiamavi.” Kate sgranò gli occhi. “Non hai idea di quanto avrei voluto risponderti. Tutto quello che riuscivo a percepire era la tua voce che mi chiedeva di restare con te.” Le sorrise dolcemente. “Non ho fatto altro che seguirla e sono tornato da te. Finché mi chiederai di rimanere al tuo fianco, non ci sarà niente in grado di tenermi lontano. Nemmeno questa guerra. Potrà cercare di dividerci in tutti i modi che vuole, ma io resterò al mio posto, accanto a te. Sempre.” La mano di Kate di strinse ancora di più sulla spugna, facendo scivolare un’altra quantità d’acqua fresca e sapone lungo il suo fianco. La donna aveva la bocca semiaperta e gli occhi di nuovo lucidi. Poi sbatté le palpebre e ricacciò indietro le lacrime, tirando su con il naso.
“Smettila di dire queste cose.” borbottò, fissando le loro mani intrecciate, rossa in volto. “Non so come risponderti e non posso neanche farlo fisicamente al momento.” Stavolta fu il colonnello a sgranare gli occhi.
“Cavolo!” mugugnò. “Avrei dovuto tenermi questo discorso per quando mi sarei rimesso!” Kate rise a quel lamento e scosse la testa insieme come rassegnata. Quindi diede un colpetto alla mano di Rick sopra la sua per farla spostare e concluse del tutto la parte superiore del suo corpo. Prima di passare alla zona inferiore, asciugò con cura la sua pelle in modo da non fargli prendere freddo e rifasciò la spalla. A quel punto spostò il secchio di lato alle sue gambe e iniziò a lavarlo dai piedi, risalendo lentamente. Nei punti in cui i pantaloni del colonnello si erano squarciati, il sangue e la polvere erano mischiati in maniera più consistente. La sua pelle chiara era quasi del tutto coperta da quel miscuglio rosso scuro, a tratti nerastro. Beckett però non si azzardò a raschiare con più forza con la spugna. Aveva notato infatti diversi segni di tagli e graffi e una lieve bruciatura poco sopra la caviglia. Di nuovo tolse le bende che gli medicavano la lacerazione sopra il ginocchio sinistro e gli lavò il sangue in eccesso prima di rifasciarlo, stando ancora una volta attenta a non bagnare il cerotto centrale. Con pazienza, ripulì ogni centimetro della sua pelle fino alle cosce. Quando arrivò al bordo dei suoi boxer però, la donna si bloccò per un momento.
Rick, che per tutto il tempo aveva tenuto gli occhi chiusi, godendosi quelle particolari carezze, li riaprì e la guardò perplesso. Poi capì perché si era fermata. Kate stava osservando i suoi boxer con una occhiata strana. Lo sguardo di Castle divenne curioso e, doveva ammetterlo, un po’ divertito. Lui non si imbarazzava a farsi vedere nudo (o meglio il fatto che fosse lei a dir la verità un po’ lo agitava), ma voleva capire quanto sarebbe andata avanti lei prima di dichiararsi sconfitta dall’imbarazzo. Beckett era di nuovo completamente rossa in volto e sembrava non volersi decidere a muovere. Poi prese un respiro profondo, chiudendo per un attimo gli occhi, e alzò leggermente il bordo del pantaloncino per lavarlo. Finché furono pochi centimetri andò tutto bene. Nel sentirla così vicina alle sue parti basse però, Rick si tese involontariamente. Kate percepì subito quel cambiamento e in un attimo ritrasse le mani.
“No, ok.” sbottò. “Più di così non riesco ad andare.” Castle cercò di reprimere un sorriso per l’imbarazzo di lei.
“Sai che tra un po’ mi vedrai comunque in nudo integrale, vero?” domandò divertito, non riuscendo a trattenersi. “Insomma, quando faremo sesso non saremo certo vestiti!” Kate gli lanciò un’occhiata omicida, più rossa che mai.
“Taci, o l’unico nudo integrale che vedrai sarà il tuo.” replicò seccata. Quindi borbottò qualcosa sul ‘fare sesso’.
“Uhm, no, hai ragione, più che sesso noi faremmo l’amore.” commentò Castle, come se lei effettivamente gli avesse detto qualcosa.
“Ancora parli??” ribatté Kate. “Ti avverto che se pensi davvero di sposarmi, al momento stai rischiando mesi in bianco!” Rick alzò una mano in segno di resa e poi fece il gesto di sigillarsi la bocca. Beckett gli osservò il corpo per un momento, pensierosa, evitando però accuratamente di guardare, anche per sbaglio, la zona dei suoi boxer. Alla fine sospirò. “Se ti aiutassi a metterti seduto,” iniziò. “Tu poi saresti in grado di lavarti il… insomma, lì sotto!” si spiegò sbuffando. “Ce la faresti?”
“Penso di sì.” replicò Castle. “Ma avrei comunque problemi a cambiarmi le mutande.” Beckett fece una smorfia. “Però se mi dai un paio di forbici e mi aiuti a mettere per un tratto le altre, forse riesco anche da solo.” Lei lo guardò perplessa.
“Che ci devi fare con le forbici??” esclamò con tono un po’ preoccupato.
“Tranquilla, non ho intenzione di amputarmi nessuna parte importante là sotto!” rispose Rick ghignando. Lei lo fulminò con lo sguardo. “Però tanto questi boxer sono da buttare.” spiegò poi il colonnello, indicandoli. In effetti erano rovinati e un po’ strappati a causa dell’esplosione (soprattutto sul posteriore, come Kate aveva ben notato mentre lo aiutava a scendere dal letto). “Quindi se mi aiuti a infilare per le gambe gli altri, io dopo taglio questi, mi lavo, asciugo e finisco di indossare i nuovi.” Beckett era ancora dubbiosa sulla cosa, ma, non avendo altre alternative, acconsentì al suo piano. Si alzò e andò a recuperare un paio di forbici dalla cucina. Gliele lasciò accanto, quindi prese i boxer puliti del colonnello e lo aiutò a infilarli fino a sopra il ginocchio. A quel punto lo aiutò a mettersi seduto sul materasso, approfittandone per fare una passata veloce di spugna sulla sua schiena. Poi Kate si girò, voltandogli le spalle e appoggiandosi a lui in modo che fossero schiena contro schiena. In quel modo sarebbe stata lì in caso Castle avesse avuto problemi, l’avrebbe sorretto e allo stesso tempo non avrebbe spiato niente di quello che lui avrebbe lavato.
Rick tagliò i boxer ormai rovinati e con il braccio sano prese la spugna che Kate gli aveva lasciato accanto. Prima di immergerla nella bacinella si bloccò per un momento. Lo aveva appena colpito il pensiero che era completamente nudo e appoggiato a lei. Si morse l’interno della guancia e prese un respiro profondo, infilando poi la spugna nell’acqua.
“Tutto bene?” gli chiese Beckett, sentendo la sua tensione sulla schiena.
“Sì, sì, a posto.” replicò, cercando di non far trasparire il disappunto per le bende che aveva indosso e per la sua momentanea debolezza. Appena mi sarò ripreso… pensò con un sospiro. Lavò velocemente l’inguine e si asciugò, quindi, con attenzione e inarcandosi un poco contro Kate, riuscì a far scivolare al loro posto i boxer puliti. “Fatto.” dichiarò alla fine con tono affaticato. Non aveva fatto molto, ma il sangue che aveva perso, il dolore e l’effetto rilassante di quel bagno improvvisato lo avevano davvero stancato.
Beckett si scostò da lui piano, in modo che non crollasse all’improvviso, e lo aiutò a riadagiarsi sul materasso. Quindi gli diede una mano a infilarsi il paio di pantaloni comodi che aveva tirato fuori in precedenza insieme ai boxer.
“Vuoi fare anche i capelli?” chiese poi lei, passandogli delicatamente una mano tra questi. Erano piuttosto polverosi.
“Mi faresti un gran favore.” mormorò il colonnello. La donna quindi lo aiutò a scivolare un po’ indietro in modo che la testa sporgesse dal materasso. Per fortuna il secchio dove aveva preso l’acqua era piuttosto basso, quindi le bastò spingerlo sotto il capo di Rick per essere certa di non bagnare ulteriormente in giro. A quel punto gli tolse la benda che gli fasciava la testa e iniziò a sciacquargli i capelli con le mani. Ancora una volta si mosse piano e con attenzione per evitare di bagnare il taglio dietro il capo di Castle. Lui per tutto il tempo tenne gli occhi chiusi e si lasciò coccolare da lei e dai suoi gesti lenti.
“Non fermarti…” mugugnò quando non sentì più le sue dita delicate massaggiargli la testa. Kate ridacchiò al suo tono lamentoso e insieme desideroso. Pareva proprio un bambino. Rick riaprì gli occhi e la vide, sottosopra, asciugarsi le mani sull’asciugamano, un piccolo sorriso divertito in volto. Lui mise il broncio, sperando forse di muoverla a compassione per ricevere ancora un po’ di attenzioni. Al contrario però, non fece altro che far ridere Beckett di più.
“E’ ora di concludere il bagno e tornare a letto, bambinone.” lo prese in giro lei dolcemente, avvicinandosi poi per lasciargli un bacio sottosopra sulle labbra imbronciate prima di alzarsi e recuperare l’asciugamano. Rick sospirò e si lasciò asciugare docilmente la testa.
“Sai, non mi spiacciono per nulla tutte queste coccole.” commentò Castle da sotto l’asciugamano.
“Non ti ci abituare.” replicò lei divertita.
“Perché no??” esclamò subito il colonnello. Kate alzò gli occhi al cielo, rassegnata.
Concluse di asciugarlo, quindi gli rimise la benda intorno alla testa. A quel punto lo aiutò a scendere un poco di nuovo sul materasso, così che la testa non gli penzolasse fuori, e iniziò a rimettere a posto le cose sparse a terra. Lasciò le forbici in cucina, buttò i boxer distrutti nel cestito, chiuse il secchio nello sgabuzzino e riportò la spugna e l’asciugamano in bagno. Quando tornò da Castle, lo trovò in dormiveglia con gli occhi socchiusi e il respiro pensante.
“Non addormentarti ora, Castle.” lo svegliò piano. “Devi tornare sul tuo letto, ricordi?”
“Non posso stare qui?” borbottò lui in risposta.
“No.” replicò Kate. Quindi, con un po’ di fatica, lo aiutò ad alzarsi dal materasso a terra per rimettersi a letto. Quando Castle riappoggiò la testa sul cuscino aveva una smorfia di dolore in volto. Però, senza più lo sporco addosso, si sentiva in qualche modo più leggero. Gli faceva sempre tutto male, ma pareva che le attenzioni di Beckett lo avessero rilassato abbastanza da sentire meno il dolore. Nel giro di qualche minuto le ferite però smisero di pulsare per lo sforzo e lui si addormentò di botto.
 
Kate lo svegliò di nuovo per pranzare qualche ora più tardi e a quel punto Rick capì di sentirsi meglio. Aveva ancora dolore ovviamente, ma pareva leggermente smorzato rispetto a prima. Inoltre un altro sintomo del suo miglioramento era il fatto che gli fosse tornato appetito. Talmente concentrato sul resto, notò solo in un secondo momento che il materasso a terra era sparito. Chiedendo spiegazioni alla donna e sentendo che lo aveva riportato al piano di sopra per lasciarlo ad asciugare nella vasca da bagno, la rimproverò per aver fatto quello sforzo senza aiuto.
Il resto della giornata passò piuttosto pigramente. Kate aveva preso un libro e si era messa a leggere sulla sedia accanto al letto mentre Rick dormicchiava. L’unica nota rilevante fu la comparsa del generale Zimmermann, venuto a trovare il colonnello per sincerarsi della sua salute e per fargli gli auguri di pronta guarigione. Si disse stupito ma insieme felice che Castle avesse avuto la forza di tornare al suo appartamento invece che restare dai Ryan, dove era andato a cercarlo, perché voleva dire che si stava già riprendendo. Rick non voleva certo spiegargli il perché della sua scelta, così gli lasciò credere che fosse meno acciaccato di quanto fosse in realtà.
Verso sera, Kevin chiamò per sapere se andava tutto bene o se avessero bisogno di una mano. Kate lo rassicurò e aggiornò poi Lanie sulle condizioni del suo paziente. Quindi Castle e Beckett cenarono presto, lui sempre aiutato, e alla fine venne il momento tanto temuto, ma allo stesso tempo desiderato, da entrambi: dormire insieme nello stesso letto. Non che non l’avessero già fatto, ma in quel momento era diverso. Per prima cosa non avevano più pesanti segreti e poi stavano praticamente insieme. Cavolo, avevano parlato di fare sesso, o l’amore, e Rick le aveva pure detto che l’avrebbe sposata!
“Sicuro che vuoi che resti?” domandò Kate preoccupata. Si era già cambiata con una vestaglia più comoda per dormire che le arrivava a mezza gamba. Gli occhi di Rick faticavano a spostarsi da lei. “Non vorrei farti male…”
“Kate, il tuo materasso è ancora bagnato.” replicò il colonnello con un sospiro esasperato. “Quindi allunga quelle tue belle gambe fino qui e sali sul letto!” Beckett alzò un sopracciglio alle sue parole, ma non disse nulla. Quindi si morse il labbro inferiore e coprì gli ultimi passi fino al materasso, salendoci poi sopra facendo attenzione a non muoverlo troppo. Rick aveva già scostato le coperte dalla sua parte di letto, quindi lei si infilò direttamente sotto di esse. “Perché stai così lontana?” chiese poi Castle confuso e un po’ dispiaciuto quando la vide raggomitolarsi distante da lui, quasi al limite del materasso. Kate sbuffò.
“Te l’ho già detto.” rispose. “Ho paura di farti male.” Fu il turno di Rick sbuffare.
“Non dire sciocchezze.” ribatté lui, allungando la mano del braccio sano verso di lei. “Nel caso puoi essere la mia medicina, ma di certo non il mio male!” aggiunse con un sorriso. Beckett lo osservò per un momento, incerta, ma alla fine cedette. Con un sospiro, gli prese la mano e si avvicinò a lui. Il colonnello non perse tempo ad ravvicinarla quanto più poté a sé, tanto che alla fine Kate si ritrovò quasi completamente attaccata al fianco di lui.
“Castle…” lo richiamò lei con tono di avvertimento. All’inizio rimase un po’ rigida contro di lui, imbarazzata, ma poi si rilassò quasi subito.
“Cosa?” replicò lui con la sua miglior faccia da cucciolo innocente. “Siamo a dicembre e fa freddo. Non vorrei che ti ammalassi a causa mia perché non stai abbastanza al caldo.”
“Lo sai che casa tua è perfettamente riscaldata e che tu sei a petto nudo?” replicò lei con un sopracciglio alzato, appoggiandosi però intanto con la testa alla sua spalla sana. Rick non poté trattenere un ghigno, anche se questo gli tirò il taglio sulla faccia.
“Tecnicamente io ho il bendaggio quindi non sono propriamente a petto nudo.” rispose divertito, passandole il braccio sano attorno alla vita e stringendola a sé. “Ma se è come dici, che sono a petto nudo, allora potrei essere io quello che prenderà freddo. E a quel punto se io mi ammalerò sarà solo colpa tua!”
“Non me la darai vinta, vero?” borbottò lei sulla sua spalla. Il tono voleva essere seccato, ma lui poté ben sentire il sorriso nascosto dalle sue parole.
“Non quando si tratta di poterti tenere abbracciata a me.” dichiarò Rick con tono più dolce, allungando appena il collo per lasciarle un bacio sul capo. In risposta, Kate alzò la testa e gli lasciò un bacio sul collo, facendolo rabbrividire leggermente.
“Buonanotte Castle.” disse infine lei in un sussurro assonnato, accoccolandosi il più vicino possibile a lui. Il respiro di Kate gli solleticava il petto. Rick strinse la presa sulla vita della donna e chiuse gli occhi, aspirando il suo profumo e beandosi del calore del corpo di lei così vicino al suo.
“Buonanotte Kate.” replicò piano con un sorriso stampato sulle labbra.

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Xiao! :D
Allora ehm... mi perdonate almeno un poco? *fa occhioni* (Se qualcuno notasse che il mio livello di richiesta di perdono cresce linermente insieme alla dolciosità del capitolo, faccia finta di niente... XD) Va beh, in ogni caso spero vi sia piaciuto! :) Il "bagno" ammetto che all'inizio non volevo metterlo perché comunque non ero la prima a scriverne, ma poi qualcuno *cough*Katia*cough* mi ha tipo puntato un fucile addosso, chiedendomi poi gentilmente di scriverla XD
Ok, basta sparisco! XD Spero di continuare a scrivere presto, ma purtroppo appunto al momento sono ancora un po' presa dall'uni...
A presto! :)
Lanie

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Capitolo 21
*** Tempo di regali ***


Cap.21 Tempo di regali
 

I tre giorni successivi passarono relativamente tranquilli. Castle pian piano stava riprendendo le forze. Riusciva a mettersi seduto da solo e anche a fare brevi tragitti in piedi, ad esempio per arrivare fino al bagno o in salone o in cucina. Ogni giorno migliorava. Non gli piaceva particolarmente stare a letto malato, fermo e fasciato come una mummia. Quello che gli piaceva però era restare a letto a dormire con Kate o a guardarla dormire o a farsi coccolare da lei. Nonostante il materasso del piano di sopra si fosse asciugato da un pezzo, Rick aveva pregato la donna di continuare a addormentarsi con lui. “In caso abbia bisogno di aiuto” aveva detto, ma la realtà era che voleva passare con lei quanto più tempo possibile. Erano già a fine dicembre e a breve i voli dall’aeroporto sarebbero ripresi, il che avrebbe significato spedire Beckett e gli Esposito al sicuro fuori dalla Germania. Era una cosa che attendava con trepidazione e ansia insieme. Saperli privi di pericoli gli avrebbe tolto un peso, ma sapere lei lontana… No, non poteva pensarci in quel momento. L’avrebbe fatto una volta che lei fosse partita. Non poteva sentire la sua mancanza prima ancora che si imbarcasse!
“Castle!” lo chiamò Kate in avvicinamento dal salone. Il colonnello scosse la testa e si riprese dai suoi pensieri cupi. Era mattina tardi ed era seduto a letto, la schiena poggiata contro la spalliera. Davanti a sé c’erano i resti della partita a carte che stava facendo con Beckett, finché il campanello d’ingresso non aveva suonato.
“Sono qui.” rispose lui atono. Era un fatto ovvio, ma aveva risposto senza pensarci, per forza dell’abitudine.
“Guarda chi c’è!” esclamò ancora Kate, entrando nella stanza con un sorriso. Ryan sbucò da dietro la donna altrettanto sorridente, con il giaccone sbottonato, sotto cui si intravedeva la divisa, e il cappello sottobraccio.
“Ehi, amico, come stai?” lo salutò Kevin allegro, avvicinandosi per stringergli la mano in una presa forte. “E’ un po’ che non ci si vede, eh?”
“Che vuoi, sono stato bloccato da forze superiori.” scherzò il colonnello, alzando appena il braccio che teneva appeso al collo. “Cosa ti porta qui? Ma perché sei ancora così bardato?” gli chiese poi, indicando il giaccone che aveva indosso. Ryan rimase in piedi accanto al letto, ma Kate gli lasciò comunque la sedia libera, andando a sedersi accanto alle gambe di Rick sul materasso, spostando intanto le carte abbandonate sul comodino.
“Sono passato solo per un saluto e per vedere come stavi.” replicò Kevin. “Senza il nostro colonnello, in centrale siamo piuttosto presi…”
“Casomai persi...” commentò Rick, ridacchiando.
“Ma Lanie voleva assolutamente avere notizie sul suo paziente,” continuò Ryan, come se l’amico non avesse parlato. “Per cui mi ha praticamente ordinato di venire. Sarei passato lo stesso più tardi, ma la signora Esposito sa essere piuttosto minacciosa quando chiede qualcosa…” aggiunse poi con un finto tremore che fece sorridere divertiti sia Rick che Kate.
“Beh, puoi avvertirla che mi sento molto meglio!” replicò Castle.
“Grazie alle cure dell’infermiera Beckett, scommetto.” commentò il maggiore ghignando. Kate arrossì e roteò gli occhi in segno di esasperazione.
“Anche.” replicò Rick, ridacchiando per l’occhiata insieme dolce e omicida che la donna gli stava rifilando. “Ma davvero, sto meglio. Le forze mi stanno tornando. Ora riesco a sedermi da solo e camminare per casa senza aiuto. La spalla è quella che mi da più problemi, ma il resto sta davvero migliorando. Inoltre puoi dire a Lanie che non si è infettato niente.” Ryan annuì.
“Riferirò.” disse. “Ma c’è anche un’altra cosa che volevo chiederti. Anzi, che volevo chiedere a entrambi.” aggiunse poi, indicando sia Rick che Kate. I due si guardarono perplessi, quindi attesero spiegazioni. “Tra due giorni è Natale, quindi ci chiedevamo se…”
“Tra due giorni è cosa??” esclamò Castle sorpreso, gli occhi sgranati e la bocca aperta, nonostante in quel modo il taglio sul viso gli tirasse particolarmente. Aveva perso completamente la cognizione del tempo. Sapeva che erano in dicembre, ma non aveva minimamente idea che fossero già sotto Natale!
Natale, Rick.” replicò Ryan divertito. “Sai quella festa invernale in cui si fa l’albero, si attaccano le lucine, si scambiano i regali…”
“Ma non ho preso nessun regalo!” ribatté il colonnello con tono triste e in colpa. Pensava soprattutto al piccolo Leandro. Dopo tutto quel tempo passato a nascondersi, il minimo che poteva fare era fargli una sorpresa per Natale. Per lo meno per un giorno, avrebbe voluto che Leo si sentisse di nuovo come a casa, come se la guerra non esistesse e nessuno stesse inseguendo lui e i suoi genitori. E poi senza regali, che razza di Natale sarebbe stato per un bambino?
“In realtà sì.” si intromise Kate, mordendosi il labbro inferiore e arrossendo leggermente. Rick la guardò confuso. “Quando due giorni fa sono uscita a fare la spesa, ho pensato di prendere qualche regalo visto che sapevo che non ti saresti potuto muovere per un po’. Mi sono dimenticata di dirtelo, perché è stato il giorno in cui sono tornata a casa e ti ho trovato per terra in bagno…” Castle annuì piano. Ricordava quel momento. Nel tentare di fare qualche passo da solo, era arrivato fino al bagno, ma poi si era ritrovato senza forze davanti al lavabo, crollando a terra e rimanendoci finché Beckett non era tornata. “Ho fatto male a prenderli?” chiese poi Kate con tono un po’ insicuro. “Insomma, pensavo che avremmo potuto dire che erano da parte nostra…” A quelle parole il colonnello sentì uno strano calore al petto. Non aveva mai fatto regali insieme a nessuno, non come coppia almeno, e quella semplice cosa gli stava dando una sensazione di benessere che non avrebbe mai pensato.
“Kev, puoi uscire per un secondo?” domandò Rick al maggiore, con lo sguardo però rivolto a Kate, la voce appena roca. Ryan fece una smorfia.
“No, amico, per favore!” replicò divertito. “Sarei solo nell’altra stanza e inoltre non posso restare qui un’eternità! Quindi aspetta almeno che me ne vada prima di saltarle addosso nei limiti delle tue capacità!” Castle non fece in tempo a replicare che il campanello della porta suonò di nuovo. “Salvato dalla campana.” commentò il maggiore ridacchiando. “Vado io ad aprire.” disse poi, bloccando Kate che, rossa in volto, si stava già alzando. “Probabilmente sarà Zimmermann. Rick, approfitta di questa donna finché puoi perché tra un minuto sarò di nuovo qui!” Detto questo, Ryan uscì ridendo per la faccia esasperata di Castle e per quella imbarazzata e insieme divertita di Beckett.
Non appena Kevin ebbe chiuso la porta, Rick allungò una mano verso la donna con fare frettoloso.
“Veloce, vieni qui finché quel rompiscatole del mio amico non torna!” Kate scoppiò a ridere, ma gli prese comunque la mano e si lasciò condurre verso di lui. Quando finalmente lo raggiunse, Castle non perse tempo. Le passò una mano tra i capelli dietro la nuca e la attirò a sé con forza, tanto che le loro bocche quasi sbatterono una contro l’altra. Kate non riuscì a reprimere un sorriso anche nel bacio per tutta quella irruenza. Continuarono finché non sentirono la porta di casa chiudersi con un tonfo sordo. Il colonnello si costrinse a staccarsi, ma tenne Beckett vicino a sé in modo che fossero fronte contro fronte. Entrambi avevano il respiro leggermente affannoso e a Castle doleva il taglio sullo zigomo, ma non se ne curò minimamente.
“Come mai tutto questo ardore per dei semplici regali?” sussurrò lei alla fine con tono divertito.
“Perché saranno i nostri regali.” mormorò Rick in risposta. Kate si morse il labbro inferiore e alzò gli occhi su di lui, scostandosi leggermente.
“C’è n’è uno anche per te, sai?” disse piano. Castle sgranò gli occhi e la bocca gli rimase semiaperta. Quindi sorrise e la attirò di nuovo a sé, stavolta con meno irruenza, per lasciarle un piccolo bacio di ringraziamento a fior di labbra.
“Al momento sono impossibilitato a fare qualsiasi cosa, ma ti prometto che, anche se in ritardo, arriverà anche il tuo di regalo…” rispose. Alle sue stesse orecchie sembrò in qualche modo molto più sporco di quanto volesse intendere. Anche se, in effetti, era proprio quella l’interpretazione corretta. Probabilmente erano la voce bassa e roca e il suo sguardo desideroso a dare quell’effetto. Però, ora che gli veniva in mente, c’era forse anche un regalo meno fisico e più alla sua portata in quel momento che avrebbe potuto farle…
“Castle.” La voce di Ryan da appena fuori la camera, accompagnata da un lieve bussare, li interruppe. Rick aggrottò le sopracciglia e guardò Kate con preoccupazione. Il tono di Kevin non gli era piaciuto per niente. Sembrava allarmato e astioso. La donna ricambiò il suo stesso sguardo inquieto e si alzò dal materasso, rimanendo comunque ferma accanto al letto. In quel momento il maggiore aprì la porta della stanza ed entrambi notarono le sue sopracciglia aggrottate e la mascella contratta. “C’è una visita per te.” disse rigido, quasi formale, spostandosi per lasciare entrare la persona dietro di sé. Rick strinse automaticamente i pugni e il suo sguardo si fece duro non appena la figura del Colonnello Dreixk varcò la soglia della sua camera. Anche lui come Ryan, indossava ancora il giaccone e teneva il cappello sottobraccio. Non era cambiato dall’ultima volta che si erano incontrati, tranne che per un vistoso taglio quasi cicatrizzato sulla fronte. Castle ringraziò che Kevin fosse ancora lì. Non avrebbe voluto neanche per un istante che quel bastardo rimanesse vicino a Kate senza che lui potesse proteggerla.
“Colonnello Castle.” lo salutò Dreixk con un sorriso freddo. “Sei ancora vivo.” Se avesse voluto fare l’ironico o meno, nessuno lo capì.
“Buongiorno a te, Dreixk.” replicò Rick con lo stesso tono. “Fa sempre piacere sapere di essere mancato ai propri colleghi.”
“Oh, sai com’è, negli ultimi tempi ho notato che non c’è festa senza la tua presenza.” dichiarò il soldato con una nota di disappunto nella voce che non riuscì a mascherare. “Quindi mi chiedevo semplicemente a quante ancora saresti stato in grado di partecipare...”
“Dammi un altro paio di giorni e mi troverai a danzare come un angelo su ogni pista.” ribatté Castle, stampandosi in faccia uno dei suoi sorrisi più falsi e tirati. Lo vide mordersi l’interno della guancia prima di rispondere.
“Non vedo l’ora di rivederti in azione.” commentò Dreixk con il suo solito tono strano e mellifluo. Rick si chiese cosa volesse dire. Intendeva che non vedeva l’ora di osservarlo fare qualche malefatta per incastrarlo o era un semplice commento sarcastico di chi intende l’opposto di ciò che dice? Con lui non si poteva mai sapere.
“Mi premunirò di avvertirti quando sarà.” replicò freddo Castle. “Ora, se vuoi scusarmi, sono stanco.” Di parlare con te. Fuori da casa mia, stronzo.
Dreixk rimase a osservarlo ancora per qualche attimo, quindi gli fece un sorriso, falso quanto quello che Rick stesso gli aveva fatto prima, e lo salutò. Non uscì dalla stanza comunque prima di essersi voltato un’ultima volta verso Kate, che si mosse a disagio sul posto. Le fece un mezzo inchino beffardo, un ghigno stampato in faccia, e se ne andò, scortato a vista da Ryan, che per tutto il tempo era rimasto immobile nella camera, pronto a intervenire a un qualsiasi cenno.
“E’ una così cattiva idea sperare che muoia sotto una bomba?” borbottò Rick una volta che sentì la porta d’ingresso chiudersi. Kate tentò di lanciargli un’occhiata di rimprovero per quel pensiero, ma il mezzo sorriso che le era uscito sulle labbra la fece fallire miseramente nel suo intento.
“Che pezzo di…!!” esclamò Kevin, rientrando in quel momento in camera. Si fermò all’ultimo e prese un respiro profondo per calmarsi. “Ma che cavolo voleva?”
“Credo che la sua speranza fosse quella di trovarmi in fin di vita.” rispose il colonnello con un sospiro, passandosi poi una mano sulla parte di faccia sana con gesto stanco. Ryan sbuffò.
“Non posso sperare che muoia sotto una bomba, vero?” borbottò Kevin. Castle scoppiò a ridere e Beckett alzò gli occhi al cielo a quella battuta, lasciando il povero maggiore confuso per quell’improvvisa ilarità. “Che avete?” domandò perplesso Ryan, osservando lo strano comportamento dei due.
“Niente, Kev.” rispose alla fine Rick, continuando a ridacchiare. “Siamo solo sulla stessa lunghezza d’onda.”
“Va beh, tralasciando questo spiacevole incontro…” disse alla fine il maggiore, ancora visibilmente contrariato da quell’inaspettata visita al suo amico. “E parlando di cose più allegre: che volete fare quindi a Natale? Rick, te la senti di venire fino da noi?” Castle annuì sicuro.
“In un paio di giorni mi sarò ripreso abbastanza da arrivare da te.” replicò.
“Ok, ma nel caso non riuscissi, chiama e ti passerò a prendere.” ribatté Ryan. “Evita di fare ancora l’eroe perché se non arrivi a casa mia poiché sei morto durante il tragitto, Jenny e Lanie uccidono me!” Rick ridacchiò divertito.
“Ricevuto.” rispose. Kevin rimase un’altra manciata di minuti, quindi salutò i due e uscì per tornare al suo lavoro in centrale.
La visita di Dreixk comunque non fu l’unica sorpresa della giornata. Nel primo pomeriggio infatti, mentre Castle e Beckett si rilassavano a letto dopo aver pranzato, il telefono iniziò a suonare. Al primo squillo, Rick sobbalzò spaventato, nonostante il rumore arrivasse dal salone.
“Chi è? Che succede?” biascicò assonnato. Stava dormicchiando sul fianco sano con la testa mezza infilata nel cuscino. La sera prima infatti aveva notato che dormire su un lato non lo infastidiva più di tanto e lui era stufo di stare steso come una mummia. Inoltre riposarsi in quella posizione gli aveva dato l’opportunità di stare più vicino a Kate. Lei in quel momento infatti era stesa accanto a lui a leggere e Castle ne aveva subito approfittato. Si era praticamente avvinghiato a lei, facendo passare il braccio della spalla fasciata sulla vita di Beckett, con la scusa che non voleva rischiare di girarsi nel sonno e farsi male, e intrecciando una gamba con quelle di lei.
“E’ solo il telefono.” rispose Kate, abbassando il libro che aveva in mano. “Aspetta, vado a rispondere.” continuò poi, cercando di alzarsi. La presa di Rick su di lei però si fece all’improvviso più salda, nonostante la leggera fitta alla spalla che, lui sapeva, gli avrebbe provocato quel movimento.
“Dove vai tu?” borbottò Castle, infilando la faccia nell’incavo del collo di lei e lasciandole un piccolo bacio. Sentì Kate rabbrividire appena contro di lui.
“Voglio solo andare a rispondere.” replicò in risposta la donna divertita, appoggiando il libro sul comodino e tentando di nuovo di alzarsi.
“Tu non vai da nessuna parte.” mugugnò ancora il colonnello contro la sua pelle, impedendole il movimento e avvicinando ancora, per quanto gli fosse possibile, il corpo di Beckett al suo. “Lascialo squillare. Se ci vogliono, richiameranno.”
“E se fosse importate?” domandò Kate, voltando la testa per riuscire a guardarlo negli occhi. Rick teneva le palpebre socchiuse, tipico di chi non vuole davvero svegliarsi, e aveva i capelli arruffati a causa del cuscino e della benda che ancora gli fasciava la testa.
“Richiameranno.” ripeté Castle in un basso borbottio. “Ora torna a leggere così io torno a dormire.”
“Dì un po’, da quando sei diventato così autoritario?” replicò Beckett, ridendo e calcando con ironia l’ultima parola. Rick aprì un occhio e la guardò.
“Sono ferito.” spiegò, come se fosse una cosa ovvia, mentre il telefono continuava a squillare insistente. “Quindi ho la precedenza.” La donna alzò un sopracciglio. “Metti che mi viene una crisi mentre non ci sei…” iniziò lui, ma Kate lo fermò subito.
“Castle, dovevo arrivare solo fino al salone!” esclamò esasperata. “Non stavo per partire per l’Alaska!”
“Sono ferito, acciaccato e non mi posso muovere.” replicò Rick con tono drammatico. “Per me è come se il salone fosse l’Alaska!”
“Ma se sei arrivato fino alla cucina neanche un’ora fa e senza fare tutte queste storie!” ribatté Beckett. “E poi se fossi così debole, questo braccio…” aggiunse, indicando il braccio del colonnello che le cingeva la vita e la teneva stretta. “Non sarebbe così ancorato al mio corpo!”
“Ma il tuo corpo è bello.” mugugnò Castle, come un bimbo a cui stanno portando via il suo giocattolo preferito, allungando poi appena il collo per lasciarle un piccolo bacio all’angolo della bocca. La guardò divertito arrossire ai suoi complimenti. Adorava come le guance di Kate si coloravano ogni volta che le faceva qualche apprezzamento. “Molto, molto bello…” sussurrò ancora con un mezzo sorriso, baciandola poi sulle labbra. In quel momento il telefono smise di suonare. “Visto?” mormorò Rick con un ghigno quando si staccarono. “Hanno capito che siamo impegnati e che dovranno richiamare!” Kate alzò gli occhi al cielo, un piccolo sorriso comunque ben presente sulle sue labbra.
“Neanche ti rispondo, guarda.” replicò Beckett, allungando un braccio per recuperare il libro.
“Che fai?” domandò Castle stupito, tirandola di nuovo verso di lui così che non arrivasse al comodino e quindi al volume abbandonato su di esso.
“Mi rimetto a leggere.” rispose la donna come se nulla fosse.
“Ma io ora sono sveglio!” replicò Rick con il broncio. “Speravo di continuare la nostra conversazione…” aggiunse poi con un mezzo sorriso malizioso, avvicinandosi a lei per baciarla di nuovo. A pochi millimetri dalle sue labbra però, il telefono riprese a squillare. Il colonnello mandò poco silenziosamente a quel paese chiunque fosse dall’altra parte della cornetta, facendo ridere Kate.
“Sento chi è e torno.” lo rassicurò Beckett, lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia prima di spostare delicatamente il braccio dalla sua vita e disincastrare le loro gambe per andare a rispondere. Rick sbuffò e si voltò per mettersi a pancia in su, osservando il soffitto e calmando i bollenti spiriti nell’attesa del ritorno della donna. Un minuto dopo però, Kate lo chiamò dal salone.
“Castle?” Il colonnello sbuffò di nuovo, dicendo mentalmente addio con rammarico al letto e alzandosi dal materasso. Recuperò il fazzoletto annodato che aveva lasciato sul comodino e se lo mise al collo, infilandoci poi dentro il braccio con la spalla malandata. Quindi, zoppicando leggermente, raggiunse Beckett in soggiorno. La prima cosa che notò fu lo sguardo perplesso di lei.
“Chi è?” chiese curioso.
“Tuo... cugino.” rispose incerta lei. Rick aggrottò le sopracciglia. Lui non aveva cugini. O meglio, aveva due cugini di secondo grado, ma da quanto ricordava uno abitava in Canada mentre l’altro non l’aveva più visto da quando era bambino. Sapeva solo che viveva da qualche parte negli Stati Uniti, forse dalle parti di Seattle. Castle si avvicinò a Beckett e allungò il braccio sano, così che lei gli passasse il ricevitore. Vedendo la sua faccia, Kate chiese, muovendo solo le labbra: Hai cugini? Il colonnello scosse la testa in segno di diniego e lei si morse il labbro inferiore, inquieta, senza comunque dire niente.
“Pronto?” rispose alla fine Rick.
“Bentornato alla vita, cugino.” Castle drizzò le orecchie a quella voce. Ci mise due secondi prima di capire a chi appartenesse: Tom Jones.
Cugino Tom…” replicò il colonnello, calcando con tono ironico sul grado di parentela.
“Oh, andiamo! Perché quel tono, Rick?” domandò divertito Jones. Evidentemente lui si stava divertendo con quella recita. Castle un po’ meno. Comunque gli resse il gioco.
“Non credevo di risentirti tanto presto, Tom.” rispose. Quindi fece un cenno a Kate a indicargli che andava tutto bene. Lei non sembrò molto convinta, ma annuì e attese. “Sono solo stupito.”
“Mi preoccupavo del mio caro cugino.” replicò l’altro. “Sai bene che senza di te io sarei perduto.” Il colonnello trattenne a stento uno sbuffo.
“Ma davvero?” domandò ironico Castle. “Mi fa piacere saperlo.”
“Così mi ferisci, Ricky.” rispose Jones. “Volevo solo sapere se ti fossi ripreso dal tuo spiacevole incidente…”
“Chiamalo incidente!” sbottò il colonnello senza riuscire a trattenersi. L’altro però lo ignorò e tirò dritto con il suo discorso.
“…E inoltre volevo chiederti se per caso tu o la tua bella fidanzata foste riusciti a reperire qualche notizia per me prima del bombardamento.” Il tono di Jones si fece all’improvviso più serio nell’ultima frase. Rick sospirò. Se non avesse avuto il braccio legato al collo si sarebbe passato la mano tra i capelli. Dovette accontentarsi di stringere meglio la cornetta del telefono per sfogare la sua frustrazione.
“Stavamo per reperire qualcosa.” confessò alla fine Castle. Ci aveva ripensato diverse volte negli ultimi giorni ed era certo che, se non fosse stato per l’incursione aerea, la conversazione avviata con il Generale Tresckow e il Colonnello Gersdorff sarebbe risultata molto proficua. O, se non lo fosse stata al ricevimento, magari un’altra discussione in futuro avrebbe potuto comunque rivelarsi fruttuosa in termini di informazioni. “Non c’è stato tempo di approfondire però.” continuò. “E’ probabile che possa andare meglio la prossima volta.”
“Sarebbe una buona cosa.” replicò Jones senza sbilanciarsi. “In ogni caso è un bene che abbiate iniziato per lo meno a racimolare qualcosa. Bisogna avere pazienza in questo genere di… diciamo, operazioni.” aggiunse poi con quello che a Castle sembrò un lieve tono divertito. L’unica risposta che diede Rick fu un incrocio tra uno sbuffo e un grugnito. “Va bene, cugino, ho capito.” disse alla fine Jones, riprendendo il tono scherzoso dell’inizio della conversazione. “Ti lascio nelle mani della tua incantevole fidanzata. Ci sentiremo più avanti. Riguardati.” E, detto quello, chiuse la chiamata. Castle rimase per un momento con la cornetta in mano, pensieroso, quindi riagganciò.
“Allora?” chiese Beckett, destandolo dai suoi pensieri. “Chi era?”
“Jones.” rispose il colonnello con un sospiro. “Voleva sapere se ero ancora abbastanza integro per i suoi scopi e se per caso avessimo già scoperto qualcosa prima che saltassi in aria.” Sbuffò contrariato. “Fa davvero piacere sapere di essere così importante per le persone.” borbottò ironico. “Uno spera che sia morto, l’altro spera il contrario ma perché possa sfruttarmi…”
“Tu per me sei importante.” lo bloccò lei seria. Lui alzò lo sguardo su Kate. “Sei importante per me, per tua madre, per Kevin e Jenny, per Javier, Lanie e Leandro. Magari pure per la Gates!” aggiunse poi con un tono più leggero. Rick scosse la testa.
“Ora non esagerare.” ribatté con un mezzo sorriso. Kate ridacchiò e gli si avvicinò di un passo, portandosi a pochi centimetri da lui. Quindi alzò una mano e gli lasciò una lieve carezza sulla guancia sana. C’era un non troppo sottile strato di peluria dato dal fatto che erano giorni che non si rasava.
“Sei importante per un sacco di persone.” mormorò la donna, guardandolo negli occhi. “E fregatene di quei due che non riescono a capire che fantastica e straordinaria persona tu sia perché non ti conoscono.” Rick sorrise e si abbassò appena per andare a incontrare le labbra di Kate con le sue. La baciò piano, dolcemente. Quando si staccò aveva ancora il sorriso sulla bocca.
“Sei tu quella straordinaria.” sussurrò Castle, carezzandole una guancia con il pollice. “Lo sai, vero?”
“Ogni tanto fa piacere sentirselo ricordare…” replicò lei divertita. Rick ridacchiò e la baciò di nuovo, questa volta indugiando di più contro di lei e con più passione, spostando la mano dal viso di Kate per passarla dovunque arrivasse lungo il suo corpo. Non vedeva l’ora di togliersi quei pezzi di garza di dosso. Voleva stringerla a sé e amarla in ogni modo possibile, se lei glielo avesse consentito.
Si separarono solo diversi minuti più tardi, un po’ ansanti. Castle notò, con un misto di orgoglio ed eccitazione, che le labbra di Kate erano diventate rosse e gonfie. Beckett gli sorrise un’ultima volta, quindi si allontanò di qualche passo.
“Dove vai?” mugugnò Rick come un bambino. Beckett ridacchiò per il suo tono.
“Ho bisogno di un bagno rilassante.” rispose. “Puoi stare da solo per un’oretta al massimo?”
“Uhm… non posso venire a massaggiarti la schiena?” domandò lui con una faccia che diceva molto chiaramente che tipo di pensieri avesse in mente in quel momento e di certo non avevano nulla di casto.
“La vasca è al secondo piano, Castle.” gli ricordò lei scuotendo la testa, con tono leggermente dispiaciuto. A quelle parole, tutte le fantasie del colonnello scoppiarono come una bolla di sapone. Anche volendo farle compagnia, non si sentiva ancora in grado di salire le scale. Sarebbe stato solo un peso per lei e voleva che Beckett si rilassasse a dovere. Aveva tutto il diritto di farlo e, dopo tutto quel tempo passato in sua compagnia ad aiutarlo e sopportarlo, se lo meritava.
“Ok, ok, ti aspetto qui.” replicò Rick con aria abbattuta. Kate, a vedere la sua faccia, gli si avvicinò e gli lasciò un piccolo bacio sulle labbra.
“Non fare danni.” sussurrò in un tono misto tra il divertito e il dolce. “Torno tra poco.” Lui annuì e la osservò avviarsi verso le scale per il piano superiore. Quando Beckett fu sparita dalla sua vista, gli venne in mente che nel frattempo poteva cercare di ottenere il regalo di Natale per lei. Non appena sentì lo scroscio dell’acqua nella vasca, attese un paio di minuti per controllare che Kate non scendesse, quindi tornò al telefono, alzò la cornetta e attese il centralino.
“Centralino, mi dica.” gli rispose qualche attimo dopo una voce distaccata e nasale di donna.
“Salve, sono il Colonnello Castle. Vorrei parlare con Alexis Werner, se possibile.” replicò Rick. “Lavora anche lei al centralino.”
“Un momento, prego.” disse quindi la donna, con lo stesso tono indifferente, prima di metterlo in attesa. Castle intanto ne approfittò per aggiustarsi leggermente la benda attorno al collo. Il nodo allacciato sul retro gli dava fastidio, per quel motivo lo aveva tolto prima a letto. Si appuntò mentalmente di chiedere a Kate se potesse spostarglielo da qualche altra parte o rifarglielo perché si sentiva come se gli stesse scavando un buco alla base del collo.
Un minuto dopo il colonnello sentì uno schiocco nella cornetta e capì che gli avevano passato la chiamata.
“Werner.” disse stavolta una voce più giovane e squillante. Castle sorrise nel sentirla.
“Ciao Alexis.” la salutò. Ci fu un attimo di silenzio, poi la ragazza rispose.
“Rick!!” esclamò sorpresa, ma dal tono felice. “Come stai?? E’ un sacco che non ti sentivo!!”
“Diciamo che ho avuto momenti migliori.” replicò Castle divertito, restando sul vago per non farla allarmare. “Andrà meglio. E tu come stai, piccola?” Alexis era la figlia di un soldato, il Caporale Aaron Werner, che aveva conosciuto durante il suo primo anno a Berlino. Era stato uno dei suoi superiori all’addestramento reclute, ma lo aveva sempre trattato bene. Era stato severo con lui come con gli altri, ma sempre giusto. Aaron lo aveva osservato molto e aveva riposto grandi speranze in Rick, a dispetto delle sue origini americane. Era stato uno dei primi a incoraggiare il suo avanzamento di grado, tanto che, in poco tempo, Castle aveva passato i test da soldato semplice ed erano diventati parigrado. I due erano diventati amici, grazie anche all’interesse per gli americani e l’America che aveva sempre avuto Werner. Era stato in quei tempi che aveva conosciuto la sua famiglia, composta da sua moglie e dalla piccola Alexis, una bimba dalla pelle chiarissima, gli occhi azzurri e i capelli rosso fuoco. Poi però, due anni dopo l’arrivo di Rick a Berlino, Aaron fu assegnato alla pattuglia di frontiera. Morì qualche mese dopo in combattimento. Alexis aveva solo 8 anni all’epoca. Quella piccola bambina aveva fatto una grandissima impressione su Castle. Era molto sveglia e intelligente per una della sua età e lui passava a trovarla volentieri. Sperava di farle sentire meno la mancanza del padre, nonostante sapesse che non avrebbe mai potuto sostituirlo. La madre era contenta che la piccola avesse una figura maschile di riferimento e la bambina stravedeva per lui. Ogni volta Rick si presentava in casa con una storia diversa in testa da raccontarle o con un nuovo gioco che aveva inventato. Con gli anni la piccola era cresciuta, ma il suo acume non era diminuito. Studiava tutto e con ottimi risultati a scuola e a 14 anni Castle la aiutò, su richiesta stessa di Alexis, a trovare un lavoro per aiutare la madre. Riuscì a trovarle un lavoro abbastanza stabile come centralinista, falsificando un poco l’età sui suoi documenti perché sembrasse più grande. Non era molto, ma era quanto di meglio avrebbe potuto scovare al momento per portare a casa qualche soldo senza correre troppi rischi. Inoltre, avendo dei turni, quel lavoro le permetteva anche di continuare a studiare come avrebbe voluto fare. Rick non aveva mai incontrato una ragazzina tanto devota allo studio come lei. Ormai era già più di un anno che lavorava lì.
“Tutto bene.” rispose Alexis. Il colonnello poteva sentire il sorriso sulle sue labbra. Nonostante la tragedia familiare e la guerra, la ragazza aveva sempre avuto un carattere solare e positivo.
“Tua madre?” chiese poi Castle. Con un orecchio teneva sempre sotto controllo i rumori del piano di sopra. L’acqua aveva smesso di scorrere quindi Kate doveva essere entrata nella vasca.
“Stanca.” replicò la ragazza, questa volta con una nota malinconica nella voce. “L’ospedale è sempre pieno e deve fare spesso doppi turni, se non di più.”
“Capisco…” ribatté il colonnello piano. La madre di Alexis lavorava come infermiera in uno dei maggiori ospedali di Berlino.
“Ma finirà anche questo periodo.” aggiunse poi la ragazza con un sospiro. “Allora, perché mi hai cercato? Non credo solo per scambiare due chiacchiere o saresti venuto a casa da noi…”
“No, infatti.” confessò Rick.  “Scusa se ti disturbo a lavoro, ma ho un favore da chiederti.”
“A me?” domandò stupita Alexis. “Uhm… ok. Che ti serve?” Castle fece un mezzo sorriso.
“Un regalo…” rispose misterioso.
 
Quella sera ci fu un nuovo bombardamento. Non appena Castle e Beckett cominciarono a sentire i botti in lontananza, si infilarono subito in cantina. Per Rick scendere quei pochi scalini fu un dramma. La ferita alla gamba iniziò a pulsargli con forza già al primo gradino e la spalla sembrava dovesse staccarsi ogni volta. Quello era stato il prezzo per aver passato metà del pomeriggio in piedi così da convincere Kate che stava meglio.
Una volta in cantina, entrambi si sedettero sul vecchio materasso a terra. Beckett si strinse subito a lui, poggiando la testa sulla sua spalla sana e nascondendo il viso nel suo collo. Rick la avvicinò a sé per quanto poté, carezzandole lentamente la schiena per tranquillizzarla. In realtà era da tempo che Kate non si faceva più spaventare dal cupo rombo degli aerei e dalle esplosioni ovattate delle granate, solo che l’ultimo bombardamento aveva scosso entrambi, fisicamente e psicologicamente. Al primo botto infatti, il colonnello aveva avuto un tremito involontario, ma era bastato guardare Beckett per costringersi a non cadere vittima del panico. Anche con la sola presenza, lei dava forza a lui e lui a lei.
Il bombardamento per fortuna non durò molto. Erano scesi in cantina a sera inoltrata e tornarono nel loro letto poco meno di due ore più tardi. Non appena Rick appoggiò la testa sul cuscino, un pensiero gli attraversò la mente, ricordandosi dell’orologio che aveva osservato di sfuggita passando per il salone.
“E’ l’una!” esclamò con gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. “Kate, è l’una passata!”
“Qual è il problema,Castle?” replicò Beckett stancamente, stendendosi sul letto accanto a lui. “Non è la prima volta che bombardano di notte.”
“Qual è il pro…” borbottò Rick come esasperato, scuotendo la testa, ignorando il dolore allo zigomo. “Kate, è il 24 dicembre! E’ la Vigilia di Natale!” esclamò con un sorriso enorme. Nonostante tutto, nonostante la guerra, nonostante i problemi con suo padre, il Natale gli era sempre piaciuto. Era una delle festività che preferiva.
Beckett lo osservò stupita per un momento. Quindi gli sorrise e si avvicinò per lasciargli un bacio sulle labbra.
“Hai ragione.” sussurrò poi, spostandosi verso il suo orecchio. “Buona Vigilia di Natale, Castle.” continuò piano, lasciandogli un altro bacio sotto di esso. “Anche se dovevo aspettarmelo tutto questo entusiasmo da parte di un bambinone come te…” aggiunse poi ridacchiando. Rick sorrise come un idiota, ignorando completamente qualsiasi dolore alla faccia. Quindi si voltò su un fianco quanto possibile per raggiungere ancora una volta le labbra della donna.
“Buona Vigilia di Natale anche a te, Kate.”

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Xiao!! :D
Sono riuscita a pubblicare con "solo" una settimana di ritardo... XD Comunque good news: ho finito gli esami (TUTTI!!!!) indi per cui non solo avrò l'esate libera, ma a settembre mi laureo!! :D *me felice quanto una pasquetta, balla la tarantella*
Ok, ora che vi ho detto la mia vita di cui probabilmente non ve ne importa una cippa veniamo alla storia XD Che mi dite del capitolo? :) Ve piasa? Non ve piasa? Beh, aspettate di vedere che ho in mente per il prossimo... XD Però... ehm... ther's only a problem: tra un po' parto quindi spero di riuscire a scrivere e pubblicare il capitolo prima di andare via altrimenti ci saranno altri ritardi purtroppo... :( (non mi uccidete!!! ç.ç)
Ok, detto questo, ho finito! XD Sparisco! XD 
A presto! :) <3
Lanie
ps: prima che mi dimentichi. grazie a tutti/e quelli che spendono qualche minuto, ma anche solo mezzo secondo a mandarmi un messaggio per dire le mia storia gli piace (da qui ma anche via fb e tw!!), grazie anche a chi non scrive, ma ha messo tra seguite/ricordate/preferite la storia anche senza che sia finita e grazie anche a chi la sta solo leggendo... Insomma, grazie! :) <3

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Capitolo 22
*** Tregua di Natale ***


Cap.22 Tregua di Natale
 

“Sicuro di farcela?” domandò Kate preoccupata.
“Sì, io…” rispose incerto Rick, osservando la strada ghiacciata davanti a lui, impallidendo leggermente. “Sì, sì, ce la faccio.” continuò poi più sicuro, prendendo un respiro profondo e facendo il primo passo fuori dalla porta d’ingresso. Erano circa le sette di sera della Vigilia di Natale. Alla fine avevano concordato con Ryan di vedersi il 24, invece che propriamente a Natale, in modo da festeggiare la mezzanotte insieme. Inoltre così avrebbero potuto aprire i regali tutti insieme, visto che Martha avrebbe avuto uno spettacolo il 25.
Beckett aiutò il colonnello a scendere i pochi gradini che li separavano dal marciapiede, quindi lo lasciò andare, continuando a osservarlo, pronta a intervenire in caso di necessità. Entrambi avevano indossato pesanti cappotti, cappello, guanti e stivali, ma il freddo era diventato così intenso da insinuarsi anche sotto gli spessi strati di tessuto. Il cielo si era oscurato in giornata e in quel momento, pure nel buio della sera, si intravedevano i nuvoloni grigi, carichi di una pioggia che si sarebbe trasformata in neve prima di toccare terra. Dall’ultima volta che aveva nevicato, qualche giorno prima, erano rimasti i cumuli biancastri ai lati delle strade, ma soprattutto era rimasto il ghiaccio. Il freddo costante degli ultimi giorni aveva impedito che si sciogliesse del tutto, rendendo parecchio scivoloso il breve percorso per arrivare dai Ryan.
Castle procedette lentamente, in silenzio, controllando ogni punto del marciapiede prima di posarvi il piede per essere certo di non trovarvi una infida lastra di ghiaccio. Zoppicava leggermente a causa della ferita alla gamba e aveva paura di scivolare, sbattendo così la spalla ancora dolorante. I tagli si stavano cicatrizzando in modo pulito, ma in quel punto la lacerazione era stata particolarmente profonda e quindi più lunga da rimarginare. Il colonnello poteva sentire sulla nuca lo sguardo di Kate che non lo abbandonava un attimo. Era appena un passo dietro di lui, con una grossa e pesante busta in mano in cui avevano infilato tutti i regali. La donna non gli aveva permesso di portare neanche il più piccolo dei pacchi per paura che lo impacciasse nei suoi movimenti già così limitati.
Arrivarono a casa di Ryan solo mezz’ora più tardi, in un tratto che normalmente avrebbe richiesto non più di dieci minuti. Castle sentì comunque di essere sudato e affaticato a causa della strada insidiosa. Non era caduto: aveva rischiato due volte di scivolare, ma all’ultimo era sempre riuscito a raddrizzarsi. Però era da quando era stato ferito, e trasportato poi a casa, che non usciva dal suo appartamento, né aveva ancora compiuto una simile camminata.
Kate lo affiancò e suonò il campanello d’ingresso, senza commentare il suo respiro affannoso. A casa aveva cercato di convincerlo a farsi venire a prendere da Kevin, ma lui non aveva voluto sentire ragioni. Rick la osservò di soppiatto: la donna aveva le guance e il naso arrossati dal freddo e gli occhi leggermente lucidi a causa del vento che soffiava lieve, ma gelido. Non vedeva altro del suo viso poiché una pesante sciarpa marrone chiaro che le aveva prestato le copriva quasi del tutto il resto del volto.
Qualche secondo dopo aver suonato, la porta si spalancò davanti a loro, rivelando un Ryan bardato con un pesante e colorato maglione rosso a ghirigori verdi e bianchi.
“Non dite una parola.” li accolse il maggiore, fulminando con lo sguardo il colonnello che aveva già aperto la bocca per parlare. La richiuse, scambiandosi un’occhiata con Beckett. Sogghignando entrambi, sorpassarono Kevin ed entrarono in casa. Rick accolse con un lieve gemito di piacere il calore dell’appartamento. Sentì il naso e la parte di faccia non coperta da cerotti e bende riscaldarsi lentamente dopo essere diventati insensibili nel freddo della sera.
“Allora, uhm…” commentò Castle, voltandosi verso Ryan e lanciando un’altra occhiata al suo maglione. “Posso chiamarti Vice di Babbo Natale?” domandò, ridacchiando. Il maggiore in risposta grugnì un ‘Non ti azzardare’ seccato. Il colonnello quindi trovò più saggio cambiare argomento, visto lo sguardo assassino dell’amico. “E’ già arrivata mia madre?”
“Martha?” replicò Kevin, prendendo intanto il cappotto di Beckett per agganciarlo all’attaccapanni. “Sì, è di là. E’ arrivata circa un quarto d’ora fa.” Rick annuì, poi ringraziò con un sorriso Kate che lo stava aiutando a sfilarsi il giaccone. All’improvviso la voce di sua madre si fece sentire forte e chiara dal salone mentre recitava un qualche verso della sua ultima opera teatrale.
“Sì, decisamente è già qui.” borbottò Castle con un sospiro, facendo ridacchiare Beckett e Ryan. “Speriamo solo non decida di mostrarci tutto lo spettacolo…” Si avviarono tutti e tre nel salone, Kevin tenendo il grosso pacco dei regali che avevano portato. Rick sentì un odore di carne arrosto spandersi fragrante nell’aria e subito il suo stomaco si fece sentire con un basso brontolio.
“Qualcosa mi dice che hai fame.” commentò Kate divertita. Lui sbuffò.
“Mi hai tenuto a digiuno per poter arrivare a stasera!” replicò con un finto tono offeso, mettendo il broncio.
“Ma se mi hai detto tu di voler restare leggero con l’idea della cena della Vigilia!” ribatté Beckett, scuotendo la testa esasperata.
“Era per dire…” mugugnò in risposta il colonnello, come per giustificarsi. Per fortuna fu esentato da ulteriori rimproveri di Kate grazie al loro arrivo in salone. Come Leandro li vide, gli fece un sorriso enorme e corse da loro allegro.
“Zio Rick! Zia Kate!” Stava per buttarsi come al solito contro Castle, ma, vedendolo con il braccio appeso al collo e con le bende in testa, all’ultimo deviò su Beckett. Si scontrò così a gran velocità contro la pancia di lei, che Kate lanciò una sbuffata involontaria per l’aria che le era uscita dai polmoni così di botto.
“Leo, non così forte!” lo richiamò subito Lanie, andando loro incontro. Voltando la testa, il colonnello vide Javier, Jenny e Martha seduti sul divano. La Gates invece era affaccendata intorno al tavolo da pranzo mentre finiva di allestirlo. Quello che più attirò la sua attenzione però, fu il grande albero decorato e illuminato, posizionato in un angolo della stanza. Era pieno di palline dorate, festoni blu, verdi e rossi e una lunga fila di lucine bianche intermittenti che circondava tutta la pianta. Al di sotto di esso, erano ammonticchiate diverse scatole ben impacchettate, a cui andarono ad aggiungersi, disposti da Kevin, i regali che avevano portato lui e Beckett.
“Tranquilla…” la fermò Kate con un gesto, anche se la voce le uscì piuttosto senza fiato.
“Buona Vigilia di Natale!!” esclamò felice il bambino, incurante di essere stato appena ripreso dalla madre. Rick notò che gli occhi del piccolo, ancora abbracciato alla vita di Beckett, luccicavano. Non lo aveva mai visto così felice. Sorrise senza poterne fare a meno.
“Buona Vigilia di Natale anche a te, Leo.” replicò il colonnello per sé e per Kate. Con Leandro ancora attaccato, entrambi fecero il giro di auguri con gli Esposito, i Ryan, Martha e la Gates. Quindi si posizionarono su divano, sedie e poltrona e chiacchierarono per un po’, finché la cena non fu pronta. Il bambino girava continuamente attorno a loro e ai regali, eccitato, non riuscendo a stare fermo neppure per un attimo. Castle si soffermò spesso a osservarlo, mentre Leo passava da un adulto all’altro, commentando senza sosta dell’albero illuminato, di un regalo particolarmente colorato o di Babbo Natale. Il piccolo aveva imparato già da tempo che non esisteva nessuno cicciotto signore in rosso che si calava giù dai camini per portare i regali, ma il colonnello aveva notato che aveva la tendenza a parlare dei “doni di Babbo Natale” piuttosto che dei “doni comprati dai suoi genitori e amici”. Quella cosa lo fece sorridere dolcemente mentre osservava divertito Leandro saltare all’improvviso nelle braccia di Javier, ridendo allegro. Era contento che, nonostante tutto l’orrore che stava vivendo, Leo avesse ancora voglia di credere nella magia e nelle favole.
“Ehi, sei con noi?” lo richiamò Kate con un sorriso, distogliendolo dai suoi pensieri. Castle non si era nemmeno accorto che tutti si stavano alzando per mettersi a tavola. Annuì alla donna e si alzò anche lui dal divano su cui l’avevano fatto sedere a forza. Prima di fare anche solo un passo però, prese Beckett per una mano e la tirò a sé. Lei si voltò e lo guardò curiosa. Prima che avesse il tempo di chiedergli niente però, Rick le lasciò un piccolo bacio all’angolo della bocca. Aveva già discusso con lei di eventuali baci in ‘pubblico’ e avevano concordato di mantenersi sul tranquillo. Beckett era piuttosto riservata per quel tipo di manifestazioni di affetto. “Tutto bene?” gli domandò quindi Kate con un sorriso dolce, ancora contro di lui, spostandogli un ciuffo di capelli dalla fronte. Castle annuì e la strinse leggermente a sé, carezzandole il fianco con il pollice.
“Vorrei solo che ogni giorno dell’anno fosse così.” mormorò con un mezzo sorriso.
“La guerra finirà presto.” lo rassicurò lei. “Anche tu lo dicevi.” Rick sospirò.
“Spero solo di non sbagliarmi…” sussurrò, osservando Leandro, già pronto sulla sua sedia, mentre aspettava impaziente che anche gli adulti si sedessero.
“Ehi, piccioncini, pensate di venire o volete farci morire di fame??” esclamò Esposito con un ghigno, accomodandosi accanto al figlio.
“Javier!!” lo richiamò la moglie che uno schiaffetto dietro la nuca. “Non puoi farti gli affari tuoi almeno per una volta?? Magari stavano parlando di cose importanti!”
“Prima di mettersi a tavola?” borbottò Esposito, massaggiandosi la porzione di testa colpita con una smorfia. “Non possono aspettare dopo?” Lanie alzò gli occhi al cielo disperata, mentre tutti gli altri scoppiavano a ridere.
“Andiamo prima che Javi muoia di fame!” disse Kate divertita. Rick ridacchiò e la seguì docile fino al tavolo, dove prese posto accanto a lei. Per quella sera anche la Gates rimase a mangiare con loro. Erano un po’ stretti tutti quanti insieme, ma nessuno si curò minimamente di quel particolare. La cena era stata preparata da tutte e tre le donne in casa e presentava anche alcuni piatti particolari fatti apposta solo per le feste. Jenny ad esempio, con l’aiuto di Leandro, aveva preparato una torta al cioccolato che le aveva insegnato sua madre mentre Lanie si era adoperata a creare uno speciale purè di patate e verdure di sua invenzione. Secondo Javier quella era la sua pietanza più riuscita di sempre. Anche la Gates aveva dato il suo contributo: aveva cotto infatti due enormi polli con un misto di spezie e sugo che, a quanto diceva, veniva tramandato da generazioni e preparato solo alla Vigilia di Natale. Alla cameriera avevano chiesto più volte se non volesse festeggiare con la sua famiglia, o se al contrario volesse portare la sua famiglia lì, ma lei li aveva rassicurati sul fatto che suo marito e i suoi figli sarebbero riusciti a cavarsela anche senza la sua presenza per quella volta.
Di tutto quello che misero a tavola, ben poco vi rimase.
“Dio, era tutto buonissimo, ma se ingoio un altro boccone esplodo!” dichiarò Esposito, allungandosi sulla sedia con aria piena e soddisfatta.
“Sante parole, amico.” commentò Ryan, altrettanto sazio.
“Sarebbe anche il caso di smettere, visto che hai già mangiato due fette di torta!” replicò invece Lanie, scuotendo la testa.
“Anche io ne ho mangiate due…” mormorò Leandro, alzando gli occhi preoccupati sulla madre.
“Sì, tesoro,” lo rassicurò la signora Esposito con un sorriso dolce e una carezza. “Ma tu non sei tuo padre. Non devi preoccuparti che ti spunti fuori una pancetta...”
“Ehi!” esclamò Javier offeso, facendo ridere gli altri occupanti del tavolo.
“Andiamo, Lanie, lascialo stare per stasera.” disse Jenny divertita. “E’ la Vigilia di Natale.”
“Vero.” le diede man forte Kate. “Per questa volta si può far finta di niente.”
Le Sagge hanno parlato.” affermò Castle con tono semiserio, facendo un inchino stile cinese a mani giunte verso le tre donne.
“Richard caro, se mangi ancora qualcosa, tu dovrai essere rotolato fuori!” lo riprese Martha con un sorrisetto, prendendo un sorso di vino. Rick la guardò offeso.
“Mamma, io sono ancora in convalescenza!” replicò il colonnello.
“E questo ti da il diritto di strafogarti?” domandò ironica la madre, alzando un sopracciglio. Castle stava per replicare quando Jenny si alzò in piedi, con una certa fatica per la pancia sempre più prominente.
“Ok, stop! Time out!” esclamò, alzando le mani per fermare madre e figlio. “Niente litigate stasera. E’ la Vigilia di Natale e qui c’è qualcuno di impaziente che non attende altro che scartare i suoi regali…” aggiunse poi con un sorriso, lanciando un’occhiata a Leandro. Il piccolo iniziò subito a fare un segno affermativo con la testa. “Quindi direi di spostarci tutti vicino al divano.” A quelle parole, tutti si alzarono per avviarsi all’albero illuminato. La Gates però volle subito mettere via i piatti sporchi (da sola, anche se sia Jenny che Lanie che Kate si offrirono di aiutarla) quindi si spostarono accanto al divano, attendendo però la cameriera prima di aprire i pacchi. In fondo era la Vigilia anche per lei e, visto che non poteva passarla con la sua famiglia, era meglio che la passasse con loro invece che da sola.
Mentre aspettavano Victoria, Rick si mise a chiacchierare con Javier e Kevin. A un certo punto però, notò Kate ferma in piedi davanti all’albero, con lo sguardo perso nel vuoto e le sopracciglia aggrottate che le formavano la sua caratteristica sottile rughetta in fronte. Castle si scusò con i due amici e andò dalla donna. Una volta dietro di lei, le circondò la vita con il braccio sano e le lasciò un bacio appena sotto l’orecchio. Kate si irrigidì un momento per la sorpresa quando si sentì afferrare, ma poi si rilassò subito contro il colonnello, poggiando piano la schiena contro il suo petto.
“A che pensi?” le mormorò Rick. Lei voltò la testa e nascose la faccia nel suo collo, senza parlare. Quindi alzò appena le spalle.
“Niente, è che…” disse piano, interrompendosi. Castle attese pazientemente che lei andasse avanti da sola, senza forzarla. “Mi sarebbe piaciuto averla accanto anche questo Natale.” concluse poi con un sospiro. Il colonnello non dovette farsi dire di chi parlava per capire il soggetto della frase: sua madre Johanna. Rick prese un respiro profondo e poggiò la guancia sulla testa di lei, all’improvviso abbattuto.
“Mi dispiace che tua madre non sia qui…” sussurrò con tono triste.
“Non è colpa tua.” replicò subito Beckett. Non c’era rabbia nelle sue parole. Solo nostalgia e dolore per la perdita.
“Invece sì, io…” tentò di dire Castle, ma lei lo bloccò di nuovo, posandogli le dita sulla bocca e frenando le sue parole. Poi si voltò verso di lui nell’abbraccio così da poterlo guardare negli occhi.
“Rick,” mormorò con tono dolce, anche se malinconico. I suoi occhi verde-nocciola erano incatenati ai quelli blu di lui. “Non è colpa tua.” continuò insieme seria e serena. Il colonnello la osservò per un momento, combattuto. Alla fine però cedette e annuì, poggiando la fronte contro quella di lei e rimanendo semplicemente in quella confortante posizione. All’improvviso squillò il telefono.
“Chi diavolo chiama il 24 dicembre a quest’ora??” esclamò Ryan sorpreso.
“Aspetta, vado io.” lo fermò Castle con un gesto, scostandosi da Beckett. Lei lo guardò un po’ sorpresa e un po’ contrariata da quell’allontanamento, ma non disse nulla. Rick, sotto lo sguardo stupito dei presenti, invece di andare a rispondere al telefono del salone, si incamminò un po’ zoppicante verso quello nel piccolo studio al piano terra. Non diede spiegazioni del suo comportamento, ma, se era chi pensava, non voleva rovinare la sorpresa a Kate.
“Pronto?” rispose quando finalmente raggiunse la cornetta.
“Rick? Sono Alexis.” replicò la giovane voce dall’altra parte del telefono.
“Ciao, piccola.” la salutò Castle con un sorriso. “Sei ancora a lavoro?”
“Sì, ho dovuto fare un po’ di straordinari, ma sono riuscita a trovare la persona che cercavi!” rispose con tono allegro.
“Sapevo che sei la migliore, Lex!” commentò Rick, altrettanto esaltato dalla notizia. “E’ in linea?”
“Sì.” rispose la ragazza. “Sono riuscita a trovarlo solo poco fa e sta aspettando.”
“Ok, grazie mille. Ti devo un favore enorme.” dichiarò il colonnello. “Passalo sulla linea e vai a casa a riposarti. Buon Natale, Alexis.”
“Buona Natale anche a te, Rick!” replicò la ragazza. Castle poté sentire dal suo tono che stava sorridendo. Non appena percepì il cambio di linea, abbassò la cornetta dall’orecchio.
“Kate!” chiamò per farsi sentire dal salone. Dopo qualche secondo, Beckett entrò nello studio. “C’è una chiamata per te.” le disse quindi con un mezzo sorriso misterioso, allungandole il telefono. Lei lo guardò confusa e stupita, quindi, lentamente, si avvicinò e prese la cornetta. Rick la osservò portarla all’orecchio perplessa. “Puoi parlare in inglese.” aggiunse il colonnello, prima di spostarsi all’indietro di un passo per lasciarle il suo spazio. Kate lo guardò ancora più confusa di prima, quindi rispose.
“Pronto?” domandò. Attese la risposta e dopo un paio di secondi sgranò gli occhi e si portò una mano alla bocca. “Papà?” continuò piano, quasi in un sussurro. “Io… io sì, sto bene, ma tu come stai? Come hai fatto a chiamarmi qui e…” Fu solo a quel punto che Beckett alzò lo sguardo sul colonnello. Rick notò che aveva gli occhi lucidi e le tremava appena il labbro inferiore. “Pensavo… pensavo non si potesse chiamare…”
“Per stasera non ti devi preoccupare di questo.” sussurrò Castle con un piccolo sorriso. Quindi si riavvicinò, le lasciò un bacio sulla fronte e si allontanò di nuovo da lei, uscendo dallo studio e chiudendosi la porta alle spalle. Alexis era stata grandiosa a trovare Jim Beckett in America in così poco tempo e con così poche informazioni. Era l’unico regalo che gli era venuto in mente di poter fare a Kate. Sua madre non poteva riportargliela indietro, ma almeno avrebbe potuto portare, anche se solo telefonicamente, suo padre da lei.
“Chi era?” chiese Javier curioso, vedendolo tornare. La Gates doveva aver finito di ripulire il tavolo perché la trovò accanto a Martha.
“Ho fatto in modo di chiamare il padre di Kate in America.” rispose Rick con un mezzo sorriso. Gli altri lo guardarono sbalorditi.
“Aspetta… stai chiamando in America dal mio telefono??” esclamò Ryan preoccupato.
“Tranquillo, chiamata e tutto sono a carico mio.” lo rassicurò il colonnello.
“Kev, ma che razza di tatto hai??” sbottò Jenny seccata. “Sono mesi che Kate non sente né vede più suo padre e tu ti preoccupi per il telefono??”
“Ma io…” cercò di redimersi il maggiore con scarso successo. La signora Ryan non volle sentire ragioni e, oltre a rimproverarlo, continuò a guardarlo male finché Beckett non tornò in salone, quasi mezz’ora più tardi. Fu una fortuna perché Leandro cominciava a diventare irrequieto. Voleva aprire i regali, ma non voleva farlo senza la zia Kate.
Quando la donna rientrò, aveva un’aria stravolta, gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta, ancora incredula di aver parlato con suo padre. Fece qualche passo lento nel salone, quindi alzò la testa. Rick era in piedi a pochi passi da lei. La guardò preoccupato, vedendola in quello stato.
“Tutto bene?” chiese cauto. Sperò di non aver fatto una cavolata a cercare Jim Beckett. Kate lo osservò immobile per qualche secondo. Quindi in un attimo superò i pochi metri che li dividevano e praticamente gli saltò addosso. Gli si aggrappò al collo con forza, incurante delle ferite di Rick, e lo baciò con altrettanta energia. Castle per un momento rimase bloccato, troppo stupito dal gesto di lei, quindi le passò il braccio libero intorno alla vita e la strinse a sé mentre la lingua di Beckett nella sua bocca tentava di farlo impazzire. Kate succhiò con vigore il suo labbro inferiore e glielo morse, predominando il bacio per la maggior parte del tempo. Rick non poté fare altro che perdersi completamente tra il sapore di lei, le sue labbra, il suo profumo, il suo calore, all’improvviso ardente contro di lui. Nessuno dei due sentì, o si curò minimante, delle facce stupefatte dei presenti, dei loro applausi e dei loro fischi. Non esisteva più niente al mondo tranne loro.
Ci volle un fischio particolarmente robusto per farli tornare con i piedi per terra. Si staccarono uno dall’altro ansanti, restando comunque abbracciati.
“Wow… e… e questo… per cos’era?” domandò Rick con il fiato corto. Osservò Kate mordersi il labbro inferiore con un piccolo sorriso. Aveva gli occhi lucidi e scuri e le labbra rosse e gonfie. Se non ci fossero state quelle stupide bende di mezzo e i loro amici nella sala, era certo che l’avrebbe presa di peso e si sarebbe chiuso in una camera con lei.
“Per il più bel regalo che tu potessi farmi.” sussurrò dolcemente. Castle sorrise come un ebete e le carezzò una guancia, prima di riavvicinarla a sé per lasciarle un piccolo bacio sulle labbra.
“Buon Natale, Kate.” mormorò a un millimetro dalla sua bocca. Beckett sorrise a sua volta e si morse di nuovo il labbro inferiore, facendo scendere lo sguardo desideroso verso la bocca di Rick.
“Vi prego!” esclamò Esposito all’improvviso con aria schifata, facendoli voltare sorpresi, come se si fossero completamente dimenticati di non essere soli nella sala. “Evitate di fare di nuovo quel… quel sesso verticale che stavate facendo! C’è un bambino presente, quindi contenetevi, per favore!”
“Ma tu devi proprio rovinare sempre tutto, vero??” lo rimproverò Lanie secca, incrociando le braccia al petto e lanciandogli un’occhiata omicida. Un attimo dopo però la signora Esposito si voltò verso Beckett con sguardo divertito. “Però, ragazza, sul serio: adoro quando ci date dentro, ma potevi anche chiamarlo nello studio per saltargli addosso!” Kate arrossì all’istante mentre Rick ridacchiava. Il colonnello notò con la coda dell’occhio sua madre sorridere a entrambi con un misto di divertimento, malizia e orgoglio. Gli sembrava avesse anche gli occhi lucidi e aveva l’aria di chi stava aspettando quel momento da molto tempo.
“Ma no, Lanie, non gli stava saltando addosso…” cercò di difenderla Jenny, guadagnandosi così un sorriso imbarazzato di Kate.
“No, tesoro, hai ragione.” sembrò darle man forte Kevin. “In realtà stava testando a che punto erano le capacità fisiche del nostro Colonnello per un eventuale regalo natalizio posticipato!” concluse con un ghigno malizioso.
“Amico, non costringermi a picchiarti con una mano sola!” lo minacciò bonariamente Rick, vedendo Kate sempre più rossa e imbarazzata. “Sai che posso farlo e non voglio lasciare il tuo futuro pargolo orfano.”
“Uff, sempre con queste minacce alla mia prole!” ribatté Ryan con uno sbuffo. “Dai, meglio aprire i regali, prima che la prole di qualcun altro decida di ucciderci per la troppo lunga attesa!” dichiarò poi divertito, indicando con un pollice Leandro. Tutti si voltarono a osservare il bimbo e in effetti lo videro accanto all’albero e ai regali in una posa molto caratteristica della madre, ovvero con le braccia conserte e il piedino che batteva ritmicamente a terra con fare impaziente. Ridacchiando, i presenti si posizionarono attorno all’albero. Jenny, Lanie e Martha presero posto sul divano, Ryan sulla poltrona, Esposito a terra accanto ai regali e a Leandro e Castle, Beckett e Gates su tre sedie. Lo scambio di regali fu piuttosto lungo: Leo volle che ognuno ricevesse i suoi pacchi e li aprisse insieme in modo da farli vedere agli altri. Il piccolo fu il primo che scartò i suoi doni. Poi fu il turno di Jenny (perché, secondo Leandro, aspettava un bimbo e i bimbi hanno la precedenza a Natale), quindi Kevin, Lanie, Javier seguiti da Rick e Kate e, alla fine, Martha e Victoria.
Finito lo scambio di doni, passarono a un’altra tradizione natalizia, ovvero quella delle canzoni di Natale. Ryan era riuscito a recuperare un vecchio pianoforte da un vicino che aveva deciso di andarsene da Berlino. Lo aveva pagato poco e portato in casa e Martha, che sapeva ben suonare quello strumento, accompagnò i presenti nelle canzoni. Solo lei e la Gates non vollero cantare. La signora Castle suonò sia vecchie canzoni come White Christmas, Silent Night e It Came Upon a Midnight Clear, sia alcune delle ultime canzone natalizie uscite in America, come I’ll Be Home for Christmas e Have Yourself a Merry Little Christmas. L’ultima che suonarono fu una delle più famose e dibattute canzoni del momento: Lili Marleen.
“Cos’ha di speciale questa canzone?” chiese Kate confusa.
“Non hai mai sentito Lili Marleen?” le domandò in risposta Lanie stupita. Beckett scosse la testa.
“E’ una canzone tedesca.” le spiegò Rick. “Parla di un soldato innamorato che, invece che pensare alla guerra, pensa sempre alla sua amata, volendo tornare da lei. E’ diventata molto popolare negli ultimi tempi anche tra le truppe straniere, quindi americani, inglesi, francesi, e così via. Credo che l’abbiano anche tradotta in italiano l’anno scorso e girano anche alcune in inglese tradotte invece alla meno peggio. Comunque, diciamo che ai piani alti non molti hanno preso bene la notizia che tutti cantassero la stessa canzone…”
“In ogni caso la versione migliore, finché non traducono il testo in un inglese decente, è quella tedesca.” commentò Martha, scuotendo la testa e posando le mani sulla tastiera del piano, preparandosi a suonare. “Quando te la faremo sentire mi darai ragione, cara, credimi.” Quindi iniziò a suonare e cantare:
 
Tutte le sere
sotto quel fanal
presso la caserma
ti stavo ad aspettar.
….
 
Insegnarono a Beckett la canzone e al cantarono tutti assieme. Questa volta si unirono al coro anche la signora Castle e la Gates.
 
….
Tutte le notti sogno allor
di ritornar, di riposar.
Con te Lili Marleen,
con te Lili Marleen.
 
Quando finirono la canzone, ci fu un momento di silenzio. Per quanto fosse un semplice brano cantato, quel motivetto era stato capace di unire truppe nemiche in una voce sola. Quanto potevano essere differenti due persone, due nemici, che cantavano la stessa canzone?
“E’ davvero molto bella.” dichiarò alla fine Kate con un sospiro. “Anche se un po’ triste.”
“Sai, cose come questa sono state sempre ostacolate in guerra.” commentò Castle. Lei lo guardò confusa. “Il Natale, le canzoni…” si spiegò il colonnello. “In questa guerra è stata questa musichetta a unire più persone di diverse nazionalità dalla prima volta che fu trasmessa in radio due anni fa, nel 1941. Era già accaduto in realtà qualcosa di simile anche durante la Grande Guerra. Hai mai sentito parlare della Tregua di Natale?” domandò poi. Kate negò con il capo. “Non mi stupisce.” continuò Rick con un sospiro. “Non è una cosa che i grandi capi hanno voluto pubblicizzare molto e tu all’epoca dovevi essere poco più che neonata...”
“Cos’è la t… tr… trigua di Natale, zio Rick?” chiese Leandro con qualche difficoltà, sentendo le sue parole. Castle gli sorrise.
Tregua.” ripeté. “E’ quando due gruppi di persone decidono di smettere di combattersi per un poco.” Il piccolo sorrise.
“Mi piace questa tregua!” dichiarò stringendo al petto il cavallino in legno bardato, con tanto di omino medievale in armatura sopra, che gli aveva regalato Kate. Beh, lui e Kate.
“Anche a me!” replicò Castle, ridendo e scompigliando i suoi capelli riccioluti.
“Quindi?” chiese Kate curiosa, mordendosi il labbro inferiore. “Come avvenne questa tregua?”
“Beh,” replicò Rick, passandole un braccio intorno alla vita e stringendola a sé. “Era il dicembre del 1914. La Grande Guerra era praticamente appena iniziata e si combatteva strenuamente su ogni fronte. A una settimana dal Natale però, successe una cosa strana sul fronte occidentale, ovvero quello dove si fronteggiavano tedeschi e britannici: iniziarono a spuntare alberi e candele a illuminare e decorare le trincee. Inoltre i soldati dei due schieramenti iniziarono a cantare canzoni natalizie…”
“Come abbiamo fatto noi?” domandò Leandro con tono stupito. Non riusciva a capacitarsi che dei soldati in guerra cantassero esattamente come loro. Rick gli sorrise dolcemente.
“Esattamente come noi.” rispose. “Le trincee erano talmente vicine che i tedeschi potevano sentire cantare gli inglesi e viceversa. E dopo le canzoni successe una cosa ancora più strana: alcuni soldati iniziarono ad attraversare la cosiddetta ‘terra di nessuno’, ovvero lo spazio vuoto che separava i due schieramenti nemici, per portare dei doni ai soldati dall’altra parte.”
“Doni?” chiese Kate perplessa. Tutti stavano seguendo Rick con attenzione, perfino sua madre, i Ryan, gli Esposito e la Gates, che conoscevano già la storia. Le due donne più anziane perché l’avevano letto nei giornali dell’epoca, gli altri perché l’avevano sentito raccontare.
“Cibo, sigarette, alcolici o souvenir come bottoni o piccoli oggetti.” elencò Castle. “Cose del genere erano tutto quello che si potevano permettere di scambiare. E’ il giorno di Natale però quello più ricordato: tedeschi e inglesi si trovarono insieme nella terra di nessuno per dare sepoltura ai loro morti in messe comuni, per fare foto ricordo insieme e anche qualche partita di calcio.”
“Calcio??” ripeté Leandro stupefatto, gli occhi sgranati e la bocca aperta. Rick annuì con un mezzo sorriso.
“Sembra incredibile, ma è esattamente quello che è successo in molti punti del fronte.” affermò. Poi però fece un sospiro e appoggio la testa a quella di Kate, il tono all’improvviso più triste. “Ovviamente non è stato così ovunque, in molti luoghi gli spari nemmeno si fermarono, ma in qualche modo è accaduto. E ovviamente non è stato un fatto ben visto dalle alte sfere. Da quel momento infatti cercarono in tutti i modi di evitare che accadesse di nuovo un simile atto di fraternizzazione tra eserciti nemici.” Ci fu un momento di silenzio, mentre tutti assorbivano quelle parole.
“Però è accaduto…” commentò Beckett piano, incerta, voltandosi per guardarlo negli occhi. Rick le sorrise mestamente.
“Però è accaduto.” confermò Castle. Come frase avrebbe potuto dire tutto e niente. Forse qualcuno l’indomani avrebbe deposto le armi e avrebbe cantato e giocato a calcio come quel giorno del 1914. Forse non avrebbero sparato colpi e si sarebbero scambiati piccoli oggetti come ricordo. Forse. O forse semplicemente non sarebbe accaduto mai più. Nessuno poteva dirlo. Potevano solo sperare che accadesse ancora. Perché, in fondo, era già accaduto.
 
Il resto della serata passò più allegramente. Misero sul grammofono diverse canzoni e ballarono fino a tarda sera, ridendo e dimenticando per un po’ che la guerra era solo fuori dalla porta, trascurando che Castle era ancora bendato e che gli Esposito erano praticamente rinchiusi proprio a causa di quello che avveniva là fuori. A mezzanotte, con Leandro già addormentato da un pezzo sul divano, brindarono al Natale, quindi Kevin riaccompagnò in auto Martha, Rick e Kate alle loro case.
I giorni successivi passarono abbastanza quieti, a parte un allarme di attacco aereo partito all’improvviso la notte del 29 e seguito da un breve, anche se consistente, bombardamento. L’unica nota positiva di quei giorni fu che Lanie permise a Rick di togliere diverse bende. L’ultimo dell’anno ormai aveva solo qualche cerotto sparso per il corpo, ovvero alla spalla e alla gamba. Il resto delle ferite, sia i tagli che le bruciature, si erano cicatrizzate bene e doveva solo stare attento a non toccarle troppo. Inoltre non doveva sollevare cose pesanti per un po’. Però almeno secondo Kate, lo sfregio che gli andava quasi dal naso all’orecchio, sullo zigomo sinistro, gli dava un’aria più virile.
“Dici sul serio??” esclamò Rick felice al telefono il pomeriggio del 31 dicembre. Stava parlando con Ryan e, anche se l’avrebbe visto da lì a meno di un paio d’ore per passare insieme la notte di capodanno, l’amico non era riuscito ad aspettare per comunicargli la bella notizia che gli era appena arrivata. “E’ fantastico Kev!”
“Lo so!” rispose il maggiore altrettanto eccitato. “Stasera avremo il doppio da festeggiare!” A quel punto i due si salutarono e Rick riagganciò la cornetta. Quindi corse, ignorando il lieve dolore alla gamba, verso la sua camera.
“KATE!!” la chiamò esaltato. “Kate?” esclamò poi non trovando in camera. “Kate??”
“Sono in bagno.” rispose la voce ovattata di Beckett dal bagno accanto alla camera. “Dammi un momento!”
“Ah, giusto.” borbottò Rick. Si era dimenticato che Kate si stava facendo la doccia per prepararsi a quella sera. Lui invece era già in camicia e pantaloni eleganti poiché stava decidendo cosa mettere quando Kevin lo aveva chiamato. Non riuscendo a stare fermo, Castle iniziò a camminare su e giù per la camera, un sorriso stampato in volto. Finalmente erano arrivate notizie. Almeno per loro quell’incubo sarebbe finito. Sarebbero stati presto al sicuro.
In quel momento Beckett uscì dal bagno ed entrò nella stanza con solo un asciugamano intorno al corpo e un altro sui capelli stile turbante.
“Castle, che succede?” domandò confusa e un po’ seccata. Doveva essere uscita di fretta dalla doccia perché era ancora in buona parte bagnata. Piccole goccioline d’acqua erano sparse sul suo viso, sul collo, sulle spalle e sulle gambe, nude dal ginocchio in giù, e inoltre aveva le guance un po’ rosse a causa del vapore caldo. L’asciugamano sul suo corpo si muoveva su e giù ritmicamente all’altezza del seno seguendo il suo respiro. Rick rimase per un attimo imbambolato a guardarla, ma l’esaltazione per la telefonata riuscì a farlo riprendere abbastanza velocemente. Con un po’ di fatica, alzò lo sguardo dal corpo di Kate e la guardò negli occhi.
“Mi ha appena chiamato Kevin.” rispose con un sorriso enorme. “Gli ultimi bombardamenti non hanno intaccato l’aeroporto che stavano risistemando e tra un paio di giorni i voli riprenderanno regolarmente!” La reazione di Beckett gli freddò tutto l’entusiasmo.
“Ah.” commentò solo, dopo qualche secondo di silenzio. Rick aggrottò le sopracciglia.
“Kate, cosa…?” chiese confuso.
“Scusa, io…” lo fermò lei con un mezzo sorriso tirato. “Io sono molto felice per gli Esposito. Davvero.” Poi però prese un respiro profondo. “Solo che…” Si morse il labbro inferiore senza continuare, abbassando lo sguardo. Fu in quel momento che Castle capì. Sospirò e si passò una mano tra i capelli.
“Solo che ci sarai anche tu su quell’aereo.” concluse per lei. Beckett rialzò gli occhi tristi su di lui.
“Non voglio partire senza di te…” mormorò.
“Kate, ti prego...” cercò di dire Rick, ma lei lo fermò di nuovo.
“Lo so, ne abbiamo già parlato tanto e non posso cambiare le cose.” continuò la donna, voltando la testa, come se fosse una sofferenza guardarlo. “Però vorrei poterlo fare.” aggiunse con voce leggermente rotta.
“Ti raggiungerò presto.” disse Castle dolcemente, avvicinandosi di un passo. “Te l’ho promesso.” Lei sorrise. Un sorriso mesto.
“Lo so.” rispose, tornando a guardarlo. “Ma non sarà la stessa cosa.” Rick annuì piano, non sapendo cosa dire. Averla lontana era esattamente l’opposto di quello che voleva, ma saperla al sicuro era la sua priorità al momento. Non poteva rischiare di perderla, soprattutto non dopo aver saputo che era corsa sotto le bombe per venire a cercare lui. “Castle?” sussurrò Kate qualche momento dopo. Il colonnello si costrinse ad alzare gli occhi su di lei. “Se questo fosse il nostro ultimo giorno insieme…” Lui scosse subito la testa.
“No, Kate, questo…”
“Rick, ti prego!” esclamò la donna, implorandolo con lo sguardo. Castle si morse la lingua e attese che lei continuasse, anche se non era sicuro di voler sapere il seguito. Non poteva pensare a un ‘ultimo giorno’ per loro. Beckett prese un respiro profondo prima di continuare. “Se questo fosse il nostro ultimo giorno insieme, tu cosa faresti?” Ci fu un secondo di silenzio.
“Ti direi che ti amo.” rispose Rick sicuro, guardandola negli occhi. “E farei l’amore con te.” Osservò la respirazione di Kate accelerare grazie all’asciugamano sul suo corpo che aveva iniziato a muoversi più velocemente. Beckett arrossì e si morse il labbro inferiore.
“Quando dovremmo partire?” chiese quindi. Lui la guardò perplesso per quell’improvviso cambio di argomento.
“Il primo volo utile per l’Inghilterra è il 5 gennaio.” replicò. “Voi sarete su quell’aereo.” Kate annuì piano, lo sguardo al pavimento. Poi rialzò gli occhi.
“Quindi questo effettivamente è uno degli ultimi giorni…” disse cauta. Castle scosse la testa con forza.
“No!” ribatté duro. Cercò di mantenere un atteggiamento forte e sicuro, ma Beckett gli si avvicinò e gli posò una mano sulla guancia sana, abbattendo ogni sua difesa. “Non voglio…” iniziò quindi Rick con voce all’improvviso incerta. “Non voglio ricordare questo giorno come il nostro ultimo giorno.” mormorò alla fine. Si accorse di avere la vista leggermente annebbiata. Gli si erano inumiditi gli occhi senza che se ne accorgesse. Kate si avvicinò ancora. I loro volti erano a pochi centimetri e Castle poteva sentire il calore irradiato dal corpo della donna contro il suo.
“Allora ricordalo come il primo di tanti…” sussurrò Beckett con un mezzo sorriso. Quindi si alzò sulle punte e fece incontrare le loro labbra. Rick per un momento rimase rigido, incapace di muoversi. Poi schiuse la bocca lasciò l’accesso libero a Kate, rispondendo al bacio. Pian piano il bacio si fece più approfondito e ansioso. Le mani di Castle iniziarono a spostarsi lentamente lungo il corpo di Beckett, stringendolo contro di sé, accarezzandolo da sopra l’asciugamano che la copriva, facendola gemere come fino a quel momento non era mai successo. Sentì a malapena il panno tra i suoi capelli cadere con un tonfo sordo mentre le infilava le dita tra i cappelli bagnati. Piccole gocce fredde iniziarono a scivolargli lungo il braccio facendolo rabbrividire per il contrasto con il caldo che sentiva dentro. A un certo punto trovò l’apertura nell’asciugamano di Kate. Infilò la mano all’interno quasi senza accorgersene, ma quando sentì la pelle calda e umida della donna sotto le dita si bloccò. Smise di baciarla, ansante, cercando di riprendere un minimo di lucidità. La voleva. Dio, se la voleva. Ogni parte del suo essere la desiderava e il suo fisico stava mostrando apertamente contro il bacino di lei quanto la cercasse. Ma sarebbe riuscito a ricordare quel giorno come il loro primo invece che come l’ultimo?
Kate decise per lui. Lentamente, gli prese la mano e lo aiutò a muoversi contro la pelle del suo fianco mentre lei gli lasciava piccoli baci sul collo. Rick stava sudando. Sentiva ribollire il sangue a ogni nuova porzione di pelle che scivolava sotto la sua mano e che veniva scoperta. Alla fine, il nodo mal fatto, che era rimasto su fino a quel momento solo per un piccolo miracolo, si sciolse e l’asciugamano cadde ai loro piedi. Castle quasi non credette ai suoi occhi. Beckett era davanti a lui, nuda, calda, desiderosa. Desiderosa di lui. E maledettamente stupenda.
Rick deglutì e le sfiorò il seno con un tocco lieve, per paura di farle male. Il respiro di Kate accelerò subito sotto le sue dita. Seguendo un percorso immaginario, Castle scese lento con le dita lungo il suo corpo. Un momento dopo gli occhi di lui trovarono la cicatrice sul fianco della donna, quella che si era fatta quando l’alberghetto in cui stava le era quasi crollato addosso. Era una striscia lunga un dito, piuttosto spessa, frastagliata e ancora lievemente rossastra. Per un attimo sentì Beckett irrigidirsi. Forse aveva paura che le sarebbe apparsa più brutta con quello sfregio. Ma non aveva importanza. Non per Rick. Lei rimaneva sempre la più bella.
Sfiorò con il pollice la cicatrice e sentì Kate rabbrividire. Niente a che vedere con il brivido di puro piacere che la trapassò quando Castle abbassò ulteriormente le dita fino al suo pube. Poi però scostò la mano e la strinse a sé, ricominciando a baciarla con passione, carezzandole i fianchi e la schiena.
“Ti amo, Kate.” mormorò Rick contro il suo orecchio, baciandole poi il collo. La donna emise un lieve gemito che fece eccitare ulteriormente il colonnello, ormai decisamente stretto all’altezza dei pantaloni. Castle non si aspettò risposta, quindi si impossessò di nuovo della bocca di lei, torturandola con la lingua e piccoli morsi, senza darle respiro. Kate nel frattempo, con mano appena tremante, iniziò a spogliarlo. La camicia e i pantaloni eleganti che si era preparato per andare dai Ryan finirono in poco tempo sul pavimento, abbandonati insieme agli asciugamani e raggiunti dai boxer pochi secondi dopo.
Forse più tardi Rick avrebbe chiamato Kevin per dire che avrebbero ritardato. O forse per avvisare che proprio non sarebbero riusciti a raggiungerli per la mezzanotte. Avrebbero festeggiato l’arrivo del nuovo anno a modo loro. Insieme.

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Xiao! :D
Allora... che mi dite del finale? XD Ah, a proposito, alla fine ho cambiato il rating della storia di arancione, ma secondo voi è da giallo o da arancione questa parte? Perché io non l'ho mica mai capita molto la differenza... XD 
Anyway, mi scuso in anticipo ma ve lo dico da subito: il prossimo capitolo non ho idea di quando lo pubblicherò per il semplice fatto che sarò in vacanza e non so quanto riuscirò a scrivere... se riesco a buttare giù qualcosa magari per fine agosto riesco a pubblicare, altrimenti ci rivediamo mi sa da metà settembre circa... Scusatemi. Non odiatemi vi prego! <3 (ricordate quello che hanno appena fatto Castle e Beckett qui sopra ù.ù)
Ok, ora scappo! Buone vacanze gente! :)
Lanie <3

ps: ah, nota storica: la canzone Lili Marleen e la Tregua di Natale non sono inventati. Se cercate la canzone (che ho trovato per caso cercando canzoni natalizie del '43 XD) scoprirete che fu quasi un inno contro la guerra durante la Seconda Guerra Mondiale. La versione che ho usato io è appunto quella tradotta in italiano, ma ci sono versioni in tutte le lingue. :) E la tregua è pure un fatto realmente accaduto durante il Natale del 1914. :)

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Capitolo 23
*** Semir ***


Pare strano, ma no, non sono morta. Sono tornata dalle vacanze, ma sono entrata in un periodo davvero incasinato (per non essere volgari... ma diciamo pure che mi sento come se fossi sommersa nella cacca fino un metro sopra i capelli). In ogni caso, perdonate il mio ritardo.
Buona lettura :)
Lanie
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Cap.23 Semir
 

La mattina dopo Capodanno, il primo giorno di gennaio del 1944, il primo a svegliarsi fu Castle. Infastidito dal sole che gli cadeva giusto sulle palpebre, socchiuse gli occhi insonnolito. Doveva aver dormito circa tre ore in tutta la notte. Però non gli importava assolutamente nulla se ripensava al motivo per cui era stato sveglio. E quel motivo giaceva in tutta la sua straordinaria e nuda bellezza accanto a lui. Voltò la testa e Rick sorrise a quella visione senza riuscire a trattenersi. Kate era stesa su un fianco di lato a lui, addormentata, le mani nascoste sotto il cuscino a rialzarle appena la testa. I capelli, completamente scarmigliati, le nascondevano in parte il volto rilassato. Il lenzuolo, che ricopriva entrambi, le arrivava giusto pochi centimetri sopra il seno. La luce non poteva infastidirla perché la raggiungeva solo sulla schiena.
Castle si perse a osservare il profilo di Beckett in controluce, ripensando a quante volte aveva avuto l’opportunità di accarezzarlo quella notte. Cercando di fare piano, si portò su un fianco in modo da essere di fronte alla donna. Quindi le spostò lievemente i capelli dal viso in modo da avere la possibilità di guardarla respirare piano. Adorava osservarla dormire, anche se lei lo trovava inquietante. Con attenzione Rick, fece scivolare lentamente il pollice sulla sua fronte, solo per il gusto di poterla sfiorare, scendendo poi lungo il naso, le labbra, il collo, la spalla, il braccio, fino a raggiungerle il polso lasciato scoperto dal cuscino.
Nel sonno, Beckett fece un sospiro sotto le sue attenzioni e il lenzuolo che la copriva le scivolò leggermente in giù sul petto, fino ad arrivare a mezzo seno. Fu solo con un grande sforzo di volontà che il colonnello non allungò una mano per far scendere di quell’ultimo centimetro la coperta dal corpo di lei. Si morse il labbro inferiore con forza. Non sapeva se poi sarebbe riuscito a fermarsi dallo svegliarla per un altro giro di sesso. Sarebbe stato il quarto dalla sera precedente. Ed erano stati uno meglio dell’altro.
Alla fine la notte prima, dopo aver fatto l’amore la prima volta, Castle aveva chiamato Ryan per avvertirlo che, per cause di ‘forza maggiore’, lui e Kate non sarebbero proprio riusciti ad arrivare a cenare e a festeggiare con loro il Capodanno. Kevin in fondo era stato comprensivo. Anche se aveva usato delle frasi strane per salutarlo. Le sue esatte parole erano state: “Ah, ok, tranquillo Rick! Ottima la scelta della notte di Capodanno per andare a letto! Mi hai fatto guadagnare cinque marchi! Ah, Lanie si raccomanda di non forzare troppo sulle ferite. Buon anno!”
Castle si sistemò con cautela più comodo sul fianco, quindi, sempre con attenzione così da non svegliare Kate, passò un braccio attorno alla vita della donna, avvicinandosi di più a lei. Il calore che emanava quel sottile corpo era quasi inspiegabile, si irradiava meglio di un fuoco acceso dentro di lui. E il suo profumo poi… quel misto di frutta (il cui merito andava al sapone) e sesso (il cui merito se lo prendeva da solo) gli sembrava una droga.
Dovevano essere già venti minuti buoni che osservava Beckett e le faceva lievi carezze sul fianco, quando iniziò a dare segno di svegliarsi. Kate fece una piccola adorabile smorfia, tipica di chi non ha voglia di alzarsi, e istintivamente si accoccolò meglio contro di lui, la testa nascosta contro il suo petto. Dopo qualche secondo, Castle sentì le ciglia della donna solleticargli la pelle e capì che stava aprendo gli occhi. Per non farsi beccare in flagrante a spiarla dormire, il colonnello chiuse immediatamente i suoi di occhi per fingere di essere ancora colpito da sonno profondo. La sentì muoversi accanto a lui, scostandosi leggermente all’indietro. Rick ci rimase un po’ male per quell’allontanamento, ma rimase immobile, mantenendo il respiro regolare. Poi, dopo qualche attimo, percepì le dita leggere di Kate sulla sua faccia mentre si muovevano lievi, sfiorandogli lo zigomo ferito. Un momento dopo le labbra calde della donna furono sulle sue, delicate, come se avesse paura di svegliarlo. Fu lì che Rick non riuscì più a fingere di dormire. Strinse la presa sul corpo di Beckett e approfondì immediatamente il bacio, senza neanche far finta di essersi appena svegliato. Beckett si irrigidì per un attimo dalla sorpresa, poi cercò di divincolarsi divertita da quell’attacco improvviso.
“Ma sei sveglio!” esclamò ridendo quando finalmente riuscì a staccarsi.
“Non è vero, sto dormendo.” borbottò Castle, scendendo a baciarle il collo. “Non vedi che ho gli occhi chiusi?”
“I tuoi occhi chiusi non sono una prova che stai dormendo!” le rispose la donna. Un piccolo morso alla base del collo la fece quasi saltare sul letto. Rick ridacchiò e risalì sull’orecchio di lei, baciando con studiata lentezza ogni più piccola parte di pelle che si trovava davanti.
“E chi lo dice?” sussurrò in tono provocatorio. Beckett rabbrividì leggermente tra le sue braccia e si morse il labbro inferiore per nascondere un sorrisetto. Quindi si lasciò cullare dai suoi baci e dalle sue carezze, senza rispondere, godendo solo di quelle piccole attenzioni che lui le donava.
“Non…” tentò di dire Kate a un certo punto, ma un tocco più audace delle mani del colonnello le fece bloccare il fiato il gola. “Non dovresti vestirti?” domandò alla fine, anche se il tono lasciava intendere che fosse l’esatto opposto di ciò che voleva. “Ricominci ad andare in centrale oggi, giusto?”
“Ho ancora tempo.” replicò Castle svogliatamente, ben più attento alla minima reazione di Beckett tra le sue mani. “Sai, avevi ragione.” mormorò qualche secondo dopo, baciandole una spalla. Lei lo guardò confusa.
“Riguardo a cosa?” chiese.
“Su di noi.” rispose Rick, alzando gli occhi su di lei, ma non smettendo un attimo di carezzarle il corpo. “Che non sarebbe stata la prima e ultima volta. Infatti c’è stata una prima, una seconda e una terz…” Kate non lo lasciò finire perché, ridendo, lo spinse sul materasso e gli si sdraiò sopra, baciandolo. “Dio, amo quando sei sopra…” borbottò Castle quando si staccarono, senza connettere il cervello alla bocca.
“Cosa?” esclamò imbarazzata, e un po’ compiaciuta, Kate.
“Voglio dire, sei sexy in ogni posa, dico sul serio!” ribatté l’uomo con un sorriso divertito per l’aumento improvviso del rossore sulle guance di Beckett. “Però quando ti sei messa sopra di me stanotte è stato… Wow!” Lei si morse il labbro inferiore, cercando di trattenere un sorriso, mentre il colonnello le carezzava piano i fianchi nudi sotto le lenzuola.
“Mi era sembrato di averlo notato…” mormorò piano Kate con un lieve tono divertito.
“Sul serio, quando sei in quella posizione puoi fare, e farmi fare, qualsiasi cosa…” continuò Rick con aria sognante. Kate alzò un sopracciglio.
“E io che pensavo che un Colonnello come te desse solo ordini…” dichiarò maliziosa, anche se con ancora delle tracce di rossore sulle guance. Castle ridacchiò e infilò una mano tra i capelli di Beckett, spostandoli dal suo viso.
“No, anche noi dobbiamo eseguire gli ordini.” rispose dolcemente. Poi però abbassò la voce, che divenne roca, e avvicinò appena il volto a quello di lei. “Soprattutto se vengono da qualcuno sopra…” Kate rise e lo spinse di nuovo sul materasso. Cercò poi di spostarsi da sopra il corpo di Rick, ma lui non glielo permise. La prese per i fianchi e la bloccò in modo che restasse a cavalcioni su di lui. Guardandola, il colonnello si accorse che quella visione era in grado di eccitarlo più di qualsiasi altra cosa. Lei gli sorrideva dolcemente, nuda, con i capelli arruffati e quel lieve colorito rosso sulle guance. Il lenzuolo ormai era completamente scivolato ai suoi piedi. Il battito cardiaco gli accelerò pesantemente e sentì il sangue iniziare a fluirgli dalla parte opposta rispetto al cervello, risvegliando parti anatomiche che fino a quel momento, da quando si era svegliato, era riuscito a tenere sotto controllo. Allentò la presa sui fianchi di Kate e iniziò a risalire lungo la sua schiena lentamente, carezzandola piano. La donna si inarcò leggermente grazie ai piccoli brividi che lui le provocava.
Rick giunse alle spalle di Beckett e risalì sul suo collo, tirando poi leggermente verso il basso per chiederle con quel gesto di abbassarsi. Lei capì subito e scese, stendendosi pelle contro pelle su di lui, fermando il viso a pochi centimetri da quello dell’uomo. Il seno di Kate gli premeva morbido contro il petto. Si sorrisero dolcemente. Rick non poteva credere che fosse capitata proprio a lui una tale fortuna. Le spostò di nuovo i lunghi capelli dal volto e si allungò appena per baciarla. Fu un bacio tranquillo, dolce, ma sentito. Poi, dopo aver ripreso fiato un momento, Kate cominciò a mordergli pinao il labbro inferiore, passando poi al suo collo, stuzzicandolo e giocando con lui. Rick sorrise beatamente, lasciandola fare per qualche attimo. Poi però, sentendo di voler partecipare di più, capovolse la situazione all’improvviso, portando Beckett sotto di sé. Kate lo guardò stupita per un momento, ma poi sorrise divertita. Stavolta fu lei a permettere a Castle di prendere il comando della situazione, lasciandogli ogni libertà di agire. Si fidava del tutto di lui.
 
Restarono a letto per altre due ore, facendo l’amore, coccolandosi, parlando e scherzando. Rick non avrebbe mai voluto lasciare quel materasso e quella donna, ma sapeva che era obbligato a farlo. Nel primo pomeriggio avrebbe dovuto riprendere servizio e lui doveva ancora farsi una doccia e mangiare. Cercò di convincere Kate a raggiungerlo in bagno con la scusa di risparmiare acqua, ma lei lo cacciò sotto la doccia da solo, sapendo bene che, se si fosse unita a lui, non sarebbero più usciti da lì dentro. Dovevano ammetterlo, in quelle ultime ore erano sembrati peggio di due adolescenti in crisi ormonale.
Castle si lasciò scorrere l’acqua calda sul viso, non trattenendo a un certo punto una smorfia di dolore. Alcune delle ferite si facevano ancora sentire, soprattutto dopo aver fatto l’amore con Beckett. Forse Lanie aveva ragione, non avrebbe dovuto sforzare troppo il braccio e la gamba, ma, Dio, chi ci avrebbe mai pensato al momento con una donna del genere davanti?? Non aveva sentito assolutamente alcun dolore finché non si era alzato dal letto. A quel punto la spalla gli aveva lanciato una fitta dolorosa e il taglio sulla gamba lo aveva infastidito, facendolo zoppicare leggermente. Aveva però cercato di nascondere tutto a Kate. Anche la ferita al viso lo aveva pizzicato insistentemente, tanto che aveva dovuto mordersi un pugno nella doccia per evitare di grattarsi lo zigomo, come Lanie gli aveva ordinato.
Rick finì di lavarsi con un certo sforzo, quindi uscì dalla doccia, si asciugò e tornò in camera a cambiarsi. Non trovò Kate, ma sentì un profumo di caffè aleggiare nell’aria e capì che la donna era in cucina. Si infilò una divisa pulita, si pettinò e raggiunse Beckett. La trovò già vestita, intenta a preparare qualcosa in padella che emanava un odorino altamente invitante. La sua pancia mandò subito un segnale affamato. In fondo era dal pranzo del giorno prima che non toccava cibo e ormai era mattina inoltrata.
Rick afferrò un pezzo di pane al volo passando accanto al tavolo già apparecchiato per due e se lo infilò in bocca prima di avvicinarsi a Kate. La strinse alla vita da dietro, lasciandole un bacio poi, anche se con la bocca piena, sul collo libero dai capelli, che la donna aveva alzato con un mollettone. Sentì Beckett ridacchiare piano mentre lui si appoggiava con il mento alla sua spalla per spiare cosa stesse preparando. Si illuminò quando vide il contenuto della padella: pancake! La sua pancia emise subito un brontolio di eccitazione e impazienza, tanto per far capire quanto fosse contento della colazione.
“Stai mangiando?” gli chiese Beckett perplessa, e con un leggero tono d’accusa, quando lo sentì muovere la mascella sulla sua spalla. Castle inghiottì velocemente.
“Uhm… no.” replicò innocentemente, anche se con voce un po’ soffocata a causa del boccone. “Cosa vai a pensare? Facevo solo fare ginnastica alla mandibola!” Lei roteò gli occhi.
“Certo…” commentò ironica. “Ma per me va bene.” aggiunse poi divertita, mordendosi il labbro inferiore. “Se già ti riempi lo stomaco, io avrò più pancakes…” Castle emise un brontolio di disappunto contro il collo della donna, facendola ridere.
“Stavo solo…” cercò di rispondere, quando all’improvviso il campanello della porta suonò, distraendolo. Il colonnello si staccò da Kate e si voltò, curioso e vigile.
“Chi può essere la mattina del primo gennaio?” domandò Beckett stupita e con una nota preoccupata, lasciando perdere per un momento la colazione.
“Non lo so.” rispose Rick. Qualche idea l’aveva, ma non era certo. Il primo pensiero era stato a sua madre, ma l’aveva subito scartata. Era certo che l’attrice, nonostante il clima di guerra, avesse festeggiato degnamente la notte di Capodanno, andando a dormire a chissà quale ora. Inoltre si sarebbe visto con Ryan nel giro di due ore quindi neanche lui aveva senso che venisse a casa sua, a meno che non fosse capitato qualcosa. Escluse anche l’amico però: se fosse accaduto qualcosa di così urgente, gli avrebbe telefonato. Gli ultimi due nomi che gli balzarono in testa, con una smorfia di disgusto per il primo ed esasperata per il secondo, furono quelli di Dreixk e Jones. Sperò che sia quel simil-colonnello, sia la spia americana avessero bevuto tanto la notte precedente e non fossero in condizioni di svegliarsi neanche con un colpo di cannone. Conoscendo i due però, non si fece illusioni.
Un secondo scampanellio, non più di qualche secondo dopo il primo, gli fece decidere di muoversi. Chiunque fosse, l’avrebbe affrontato. Da quando Dreixk era piombato in casa sua a minacciare Kate, Rick aveva preso l’abitudine di tenere una piccola pistola di riserva in uno dei due cassetti del tavolino d’ingresso. Non si sarebbe fatto cogliere impreparato una seconda volta.
Si avviò all’ingresso e aprì leggermente il cassetto con l’arma, in modo da poterla estrarre facilmente in caso di bisogno. Quindi aprì la porta di uno spiraglio, facendo scontrare la sua faccia con un soffio di gelido vento invernale.
“Salve, Colonnello!” esclamò allegro un ragazzo piuttosto basso e infreddolito da sotto una spessa sciarpa blu scuro. Indossava un vecchio e rovinato giaccone marrone, che si stringeva addosso con due tremanti mani coperte da un paio di guanti neri consumati e bucati. Il berretto seminuovo di lana, color rosso fuoco, che aveva ben calcato in testa, pareva essere l’unico indumento ancora buono a scaldare qualcosa. L’unica cosa che Rick riusciva a intravedere erano gli occhi, neri e intelligenti. Ci mise un paio di secondi prima di realizzare che il ragazzino congelato davanti a lui era Semir Gerkhan, il giovane assistente di Roy Montgomery.
“Semir!” esclamò sorpreso Castle. “Che diavolo ci fai qui? Dai, vieni entra.” aggiunse poi subito dopo, prima che l’adolescente rischiasse di diventare un pinguino.
“Rick…?” lo chiamò la voce incerta di Kate dalla cucina. Semir intanto entrò in casa e, appena il colonnello chiuse la porta, rimase per un attimo fermo nell’ingresso, godendosi il tepore della casa con evidente sollievo.
“Tutto a posto!” replicò Rick ad alta voce. “E’ un amico.” continuò poi, facendo l’occhiolino a Semir. Il ragazzo sorrise allegro, quindi iniziò ad alleggerirsi di giaccone, cappello e guanti, lasciando tutto nelle mani di Castle. Mentre l’uomo attaccava gli abiti all’attaccapanni, sentì provenire dalla cucina un rumore metallico, come di forchette buttate una sull’altra, e quello di un cassetto che si chiudeva. Ci mise un momento prima di capire cos’era stato. Conoscendola, Kate doveva aver tirato fuori un paio di coltelli dal cassetto mentre lui apriva la porta d’ingresso e li aveva rimessi a posto quando le sue parole l’avevano tranquillizzata. Evidentemente neanche lei si fidava più della gente che faceva le comparsate in casa a orari strani.
Quando Beckett uscì dalla cucina per venire loro incontro, Castle la guardò con un sopracciglio alzato, divertito. Lei, per tutta risposta, alzò appena le spalle come se non ne sapesse niente. Un leggero sorriso però aleggiava in un angolo della bocca della donna.
“Ah, ma allora è questa la donna di cui ci hai tanto parlato!” esclamò Semir con un sorrisetto malizioso non appena vide Kate, lanciandole anche una bella occhiata. “Sei davvero bellissima, Fraulein.” continuò poi più serio, facendole un mezzo inchino. “Ma ora state insieme sul serio o no?” chiese infine al colonnello. “No, perché se la cosa non è seria, io magari potrei…” Se il ragazzo fosse stato un poco più grande, Rick lo avrebbe preso a pugni. Lo risparmiò solo perché era un adolescente che credeva che i quattro peli che aveva sulla faccia si potessero chiamare ‘barba’. Si limitò a grugnire seccato, mentre Kate si mordeva le labbra per non scoppiare a ridere.
“Semir, ti presento Kate Beckett.” la presentò il colonnello, avvicinandosi alla donna e passandole un braccio intorno alla vita. “E ti avverto che è davvero la mia fidanzata ora!” aggiunse, calcando per bene su ogni parola.
“Oh, peccato…” borbottò il ragazzo mentre Rick faceva la presentazione inversa, facendo finta di non sentirlo.
“Kate, lui è Semir Gerkhan. Lavora per Montgomery, lo stampatore. Ricordi che ti avevo parlato di lui?” Beckett ci pensò per un attimo, quindi annuì. Ne avevano parlato tempo prima, quando lui aveva deciso di trasferirla il più velocemente possibile fuori da Berlino e dalla Germania.
“E’ un piacere conoscerti, Semir.” disse quindi la donna con un sorriso dolce, allungandogli una mano. L’adolescente si affrettò a stringergliela.
“Il piacere è tutto mio, credimi, mia bellissima dama!” esclamò subito, con un ghigno che probabilmente voleva tentare di essere un sorriso affascinante.
“Come sta Roy?” chiese Castle con un leggero tono seccato, intromettendosi immediatamente tra lo sbarbatello e la sua donna. Sentiva Beckett tentare con difficoltà di non scoppiare a ridere contro il suo fianco.
“Si lamenta del freddo come al solito, ma sta bene.” rispose Semir con un’alzata di spalle in tono tranquillo, come se il colonnello non lo stesse fulminando con lo sguardo. “Ma in fondo stiamo in una mezza cantina, è ovvio che si congeli in gennaio. Se non altro il freddo ci ha fatto lavorare più velocemente per riscaldarci e ora la stampatrice è pronta!” aggiunse poi divertito. L’ultima volta che Rick era stato da Montgomery, lo stampatore gli avevano chiesto più tempo per il documento di Kate perché la macchina che doveva crearlo si era rotta a causa di uno dei bombardamenti avvenuti nei giorni precedenti.
Rick si agitò sul posto, eccitato dalla notizia. Aveva avuto paura di dover mandare Beckett su un aereo senza nemmeno un passaporto, raddoppiandole il rischio di venire intercettata e bloccata, ma Roy aveva avuto un tempismo perfetto.
“Hai il documento?” chiese teso. Semir annuì e, con un gesto teatrale, lo tirò fuori da una tasca interna del gilè che indossava e lo porse a Kate con un inchino. Beckett ridacchiò e scosse la testa divertita. Prese il certificato e lo guardò curiosa. Castle lo studiò con lei. Era perfetto. Pareva nuovo, ma aveva anche quell’aria vissuta, perché doveva sembrare che Kate fosse una russa emigrata in Germania solo negli ultimi anni, che solo Montgomery sapeva rendere in modo così accurato. A uno sguardo poco attento, sembrava semplicemente un documento ben tenuto. Lo stemma del Reich, l’aquila nera, era ben visibile sul davanti. Quando l’aprirono, lo sguardo di Rick cadde subito sulla foto di Kate, a destra del documento. Gliela aveva scattata tempo prima per darla a Roy, cercando di far sembrare Beckett un’innocua ragazzina (secondo la loro storia inventata, la donna non doveva aver avuto più di una ventina d’anni all’epoca dell’immigrazione) che aveva appena attraversato alcune delle steppe più fredde della Russia con la sua famiglia per stabilirsi in Germania. Spostando lo sguardo sulla sinistra del documento invece, il colonnello notò il falso nome di Kate: Katherine Ioanna Belyaeva.
“Roy ha fatto un magnifico lavoro come al solito.” disse Castle alla fine con una evidente nota di sollievo nella voce.
“Sembra vero…” mormorò Beckett stupita, la bocca semiaperta.
“Dammi un momento.” continuò poi Rick, rivolgendosi a Semir. “Vado a recuperare la tua paga.”
“Aspetta!” esclamò però il ragazzo prima ancora che lui si voltasse, bloccandolo sul posto. Semir infilò di nuovo la mano in una delle tante tasche interne del gilè e tirò fuori altri tre documenti. Castle aggrottò le sopracciglia.
“Per chi sono?” chiese confuso.
“Per te, Ryan e la sua signora.” rispose tranquillo. Il colonnello lo guardò ancora più perplesso.
“Ma a noi non servivano documenti.” replicò. “Abbiamo i nostri. Sono ben validi, visto che io e Kevin siamo soldati…” L’adolescente alzò le spalle.
“Ordini di Montgomery.” dichiarò. “Mi ha detto di dirvi che se mai aveste intenzione di andare anche voi in America, probabilmente vi servirà avere un passaporto in più per sparire.” Castle era dubbioso, ma colpito. In effetti non aveva pensato che, in caso di problemi, un certificato di riserva con un nome falso sarebbe stato ben più utile di uno vero. Lanciò un’occhiata ai tre documenti e notò che erano ben fatti tanto quanto quello per Kate. Però parevano più vecchi e non solo grazie alle magie dello stampatore, ma anche come fattura. Si chiese quando Roy li avesse fatti.
Curioso, Rick aprì il primo dei tre documenti e vi trovò una foto di Jenny, ma il nome impresso a lato era Susanne Walsh. Il secondo era di Kevin, anche se recava il nome di Bryan Walsh. L’ultimo era il suo. Il nome che Roy gli aveva affibbiato era Alexander Rodgers. Fece un mezzo sorriso. Rodgers era il nome da nubile di sua madre, ma, da quando si era spostata, tutti l’avevano sempre conosciuta come Martha Castle.
“Ringrazia Roy da parte mia.” disse Rick a Semir con un sorriso sincero. “E digli che gli devo un favore.” Il ragazzo annuì allegro.
“Ok, allora se non c’è altro io prenderei la paga e andrei…” Aveva appena finito la frase che il suo stomaco lanciò un brontolio affamato. Semir si coprì la pancia con una mano, all’improvviso rosso dall’imbarazzo. “Scusate, è che qui ci sono un sacco di odori buoni e…”
“Vuoi fermarti a mangiare qualcosa?” domandò a quel punto Kate all’adolescente, dolce e divertita, interrompendolo. Semir si agitò sul posto e si morse il labbro inferiore, chiaramente combattuto.
“Veramente io dovrei tornare da Roy...” mormorò piano, gli occhi bassi, quasi fosse una colpa.
“Allora facciamo così.” lo bloccò di nuovo Kate. “Mentre Castle ti prende la paga, io ti do qualcosa da portare con te, così puoi mangiare per strada, più qualcosa da portare da Montgomery, ok?” Il viso del ragazzo si illuminò a quell’offerta.
“Accetto!” esclamò subito.
“Dai, vieni allora, così incartiamo un po’ di roba.” replicò Beckett divertita, facendogli l’occhiolino. Semir, tutto sorridente, seguì la donna in cucina senza perdere un secondo. Castle osservò il ragazzino andare dietro a Kate con un mezzo sorriso. Per un momento gli passò per la testa l’immagine di Beckett che parlava, accompagnava in cucina e dava da mangiare a un bambino loro, con gli occhi verde-nocciola di lei e i suoi capelli chiari sparati in ogni direzione. Si stupì di quel pensiero. Ovviamente aveva già pensato a Kate come moglie e madre dei loro figli, ma era la prima volta che l’immagine di lei con un bimbo si affacciava così vividamente nella sua testa. Poi però scosse il capo, scacciando quelle idee, e si avviò nello studio. Ci sarebbe voluto ancora molto tempo perché quel sogno si avverasse.
Rick mise i documenti al sicuro in un cassetto (avrebbe dato i certificati a Ryan quel pomeriggio) e recuperò i soldi per Roy. Prima di uscire, aggiunse diversi marchi al compenso dello stampatore, quindi tornò verso la cucina pensieroso. Non aveva idea del perché Montgomery avesse deciso di dargli quei documenti in quel momento. Forse aveva pensato che con Kate e gli Esposito sarebbero scappati anche loro. O forse sperava invece di lanciargli un incentivo ad andarsene dalla Germania il prima possibile. Non era un consiglio da sottovalutare. Roy era vecchio, ma saggio.
Arrivato in cucina, Rick si appoggiò allo stipite della porta e osservò con un mezzo sorriso divertito Kate muoversi da uno scaffale a un’altro per rifornire Semir di quelli che sembravano metà dei rifornimenti che avevano in casa. Stava prendendo tanta di quella roba che il colonnello si chiese come avrebbe fatto quel ragazzino basso e smilzo a portarsi tutto dietro. Però aveva un che di materno quella scena. Castle osservò Beckett fare la felicità di Semir, quando aggiunse diverse barrette di cioccolato al tutto, e per un attimo si ritrovò di nuovo a pensare a lei con un bambino loro. Questa volta uscì velocemente dalle sue fantasie grazie a Kate che, intelligentemente, gli chiese se avesse un vecchio zaino o una sacca da poter prestare a Semir per rendere trasportabile tutto quel ben di Dio appoggiato sul tavolo. Rick ci pensò su un momento, quindi annuì e andò in camera da letto. Se non ricordava male, in fondo all’armadio c’era qualcosa che poteva essere utilizzato per quello scopo. Dopo qualche minuto di ricerca, trovò quello che stava cercando: un vecchio zaino, piccolo ma piuttosto capiente, che aveva utilizzato spesso durante l’addestramento in America.
“Wow, bello!” esclamò Semir quando lo vide, gli occhi sgranati. Castle alzò un sopracciglio dubbioso e osservò lo zaino. Era vecchio e malandato, oltre che un po’ strappato in diversi punti, di un color verde militare che tanto si usava in America. Purtroppo era l’unico che aveva o gliene avrebbe dato uno migliore. Al ragazzo però pareva avessero messo davanti una coppa tempestata di diamanti tanto guardava lo zaino con ammirazione. “Te lo ridarò la prossima volta che ci vediamo.” aggiunse poi l’adolescente qualche secondo dopo. C’era una nota triste nella sua voce, anche se cercava di nasconderla.
“Tienilo tu, se ti piace tanto.” replicò Rick. Semir lo guardò come fosse impazzito. “Non sto scherzando.” continuò Castle ridacchiando. “Io non lo uso mai e prenderebbe solo polvere restando nel mio armadio. Per cui, se lo vuoi, è tuo.” Il ragazzo gli fece un sorriso enorme. In quel momento, a Castle parve di rivedere quel bambino che Semir doveva essere stato una volta e che poi era scomparso con la guerra e la morte dei suoi genitori. Si appuntò mentalmente di regalargli un vero zaino alla prima occasione, se la cosa lo rendeva così felice.
Beckett preparò la sacca in cinque minuti e, quando la chiuse con la cinghia sul davanti, quasi straripava. Semir intanto prese i soldi da Rick e recuperò giaccone, guanti e cappello. Una volta pronto, prese lo zaino e se lo infilò con attenzione sulle spalle, neanche fosse un pezzo di cristallo che poteva rompersi da un momento all’altro. Quindi, tutto felice, li ringraziò ancora, salutò e scappò per tornare da Montgomery nel freddo del mattino.
Appena se ne fu andato, Kate si avvicinò a Rick e, prendendolo di sorpresa, gli passò le braccia intorno al collo e gli lasciò un lungo bacio sulle labbra.
“Non che mi lamenti, ma questo per cos’era?” domandò Castle divertito e con voce un po’ roca, carezzandole la schiena. Lei alzò appena le spalle con un sorrisetto dolce e malizioso.
“Avevo solo voglia di baciarti.” rispose, staccandosi da lui. Il colonnello però non la lasciò andare. La prese piano per un braccio e la riportò contro di sé, avvolgendole poi le braccia intorno alla vita.
“E se ora avessi io voglia di baciarti?” domandò con voce bassa e un mezzo sorriso. Kate ridacchiò e si alzò sulle punte per far incontrare di nuovo le loro labbra. Castle si domandò come avrebbe fatto a vivere senza di lei a lungo. Avevano fatto l’amore una notte sola ( la miglior notte della sua vita), ma quella era stata solo una conferma in più. Aveva già capito che non sarebbe più riuscito a stare lontano da lei. Voleva dormire e svegliarsi accanto a lei. Voleva fare l’amore con lei quando ne avevano voglia. Voleva continuare a scherzare con lei, a vederla ridere e arrossire per le sue battute idiote e maliziose. Voleva una vita con lei. Voleva dei bambini… Però nel giro di qualche giorno Beckett sarebbe andata via, lontana, senza di lui. Come lui stesso si era imposto. Per un attimo gli sembrò una cosa stupida. Perché non poteva andare con lei e basta? Quell’idea però durò meno di un secondo. Tutte le responsabilità e i problemi di una sua eventuale fuga in quel momento gli crollarono addosso.
Strinse con più forza Kate a sé. Non l’avrebbe lasciata sola a lungo. Se ne sarebbe andato presto anche lui. Un giorno, non troppo lontano, l’avrebbe raggiunta in America e non l’avrebbe abbandonata più. Ma ora, per lei, per salvarla, doveva farlo. Doveva trovare lasciarla andare.
 
La giornata e quella successiva passarono tranquille. L’unico inconveniente furono i Ryan e gli Esposito che continuarono a tempestare di domande e battutine Rick e Kate. Il colonnello fu ancora fortunato, poiché passava a casa di Kevin solo per portare Beckett in auto la mattina e riprenderla la sera. La donna però dovette sorbirsi ogni interrogatorio tanto che, già la sera dell’1, arrivò a minacciare Castle di mandarlo in bianco a letto se non l’avesse aiutata a trovare un modo per far tacere le due coppie di coniugi. Comunque non dormirono molto né quella sera, né la seguente, e non solo per eventuali incontri tra le lenzuola, ma perché sia la notte del primo gennaio che quella del due si sentirono in lontananza il rombare degli aerei inglesi e i bassi botti della contraerea, mentre il fastidioso e penetrante suono della sirena d’allarme continuava a riempire l’aria. Per fortuna furono due attacchi abbastanza lievi e veloci, con pochi danni e vittime, organizzati giusto per non far dormire i berlinesi.
La mattina del 3 gennaio, Castle si svegliò a forza a causa di qualcosa che lo infastidiva, ancora abbastanza addormentato per le ore di sonno perse però (tra le bombe e Kate, si intende) da non capire di cosa si trattasse. Non appena si mosse però, la spalla gli lanciò una fitta dolorosa, tanto che, istintivamente, si portò una mano sopra la cicatrice come se ci fosse ancora una ferita aperta e stesse sgorgando sangue. Prese lunghi respiri per tentare di calmare il dolore, gli occhi chiusi e la mascella serrata. Rick imprecò silenziosamente. Non solo aveva dormito poco quella notte, ma pure storto e la spalla gli stava gentilmente presentando il conto.
“Castle…” mormorò Kate accanto a lui assonnata, sentendolo muoversi. “Tutto bene?” Rick si prese un momento prima di rispondere. Il dolore stava finalmente diminuendo d’intensità. Lasciò la spalla e si rilassò piano, riaprendo gli occhi.
“Abbastanza.” replicò con un tono leggermente affaticato. Beckett aggrottò le sopracciglia e aprì gli occhi per guardarlo. Lo trovò ben sveglio, ma ancora piuttosto rigido, le mani strette a pugno lungo i fianchi, lo sguardo fisso al soffitto.
“Che hai?” chiese con una nota preoccupata, alzandosi su un gomito per osservarlo meglio.
“Niente, solo…” mormorò il colonnello con un sospiro. “Solo che la spalla ha cominciato a fare i capricci presto stamattina.”
“Pensavo non ti facesse più male.” commentò Kate. Castle annuì.
“Infatti mi da poco fastidio ormai, ma devo averci dormito male stanotte.” replicò con uno sbadiglio. Con il dolore che svaniva, il sonno tornò a minacciarlo. “Non importa comunque, sta passando. Forse avevo solo il braccio storto.” Beckett lo osservò attentamente, poco convinta, quindi aprì la bocca per parlare, ma il campanello della porta la precedette. Si guardarono confusi. Erano a malapena le otto. Il colonnello aveva la mattinata libera e avrebbe voluto svegliarsi tardi, se non fosse stato per la spalla che aveva anticipato la sua decisione. Il campanello decretò definitivamente la fine di ogni dormita.
“Vado io.” borbottò Rick seccato, alzandosi piano per non infastidire ulteriormente la spalla e passandosi una mano sulla faccia per svegliarsi. Era a torso nudo, per cui recuperò una maglia e se la infilò velocemente. Con la coda dell’occhio vide Kate fare la stessa cosa con un vestito.
Mentre Castle si avviava alla porta, il campanello suonò con insistenza altre tre volte per lunghi periodi. Cauto come sempre, Rick socchiuse il cassetto con la pistola del tavolino all’ingresso prima di aprire. Girò la maniglia e spiò fuori. Il giorno prima aveva nevicato e il candore della strada fu la prima cosa che lo colpì, oltre al vento freddo che ormai tirava da qualche giorno e che lo investì con il suo tocco gelido. Socchiuse gli occhi contro il riflesso del sole sulla neve e cercò chiunque avesse suonato a quell’ora. Non ne vide traccia finché non abbassò gli occhi al suolo. Per terra, appallottolati proprio davanti alla porta c’era una scura massa di stracci luridi.
“Ma che diav…” stava per dire, stupito e innervosito da quello strano scherzo senza senso, quando la massa si mosse. Solo allora Castle capì che era una persona. Quella che sembrava la testa si alzò lentamente sopra il resto, fino a che non spuntò un viso, così sporco da risultare irriconoscibile. Era nero di quella che sembrava cenere con l’aggiunta di vistose macchie e grumi rosso scuro. Non riuscì a vedere nemmeno gli occhi di quella faccia perché le palpebre erano violacee, gonfie e semichiuse. Rick era scioccato da quell’apparizione, ma non era la prima volta che si trovava davanti una scena del genere. I corpi estratti da sotto le macerie dei bombardamenti, vivi o morti, avevano un aspetto molto simile a quello dell’uomo davanti a lui. Però nel suo quartiere non erano arrivati i combattimenti degli ultimi due giorni e neppure in quelli vicini in realtà. Allora come…? In quel momento qualcosa, che prima non aveva notato, attirò l’attenzione di Castle. Aggrottando le sopracciglia, guardò meglio. E raggelò sul posto. In spalla al mucchio di stracci, c’era il suo vecchio zaino.

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Xiao! :)
Come ho scritto sopra, al momento sto un po' così, per cui sarò breve.... Spero che il capitolo vi sia piaciuto. :) Anche se il finale non lascia mi sa molti dubbi sull'ideantità della persona davanti alla porta di Rick... Ma perché sarà combinato così? Eh, lo scoprirete... X)
Ah, una cosa: vedo l'orizzonte di questa storia... nel senso che secondo me nel giro di 2 o 3 capitoli sarà conclusa. Lascio a voi dirmi se è una buona o cattiva cosa... X)
Spero di scrivere presto, ma prima spero di risolvere i casini che ho al momento... Comunque cercherò di andare avanti. Tranquille che non lascio la storia proprio sul finale, manca al solito solo il tempo per buttarla su carta. :) Ah, scusatemi anche di non aver letto nessuna delle vostre storie delle ultime settimane. Giuro che mi rifarò! (anche perché mi mancano....)
Beh, ho finito. A presto :)
Lanie

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Capitolo 24
*** Come un cane davanti a un cancello ***


Cap.24 Come un cane davanti a un cancello
 

In quel momento qualcosa, che prima non aveva notato, attirò l’attenzione di Castle. Aggrottando le sopracciglia, guardò meglio. E raggelò sul posto. In spalla al mucchio di stracci, c’era il suo vecchio zaino.
“Semir…” mormorò Rick senza fiato. Per un attimo rimase paralizzato, traumatizzato, mentre la brutale verità davanti a lui si faceva strada nella sua coscienza. Il suo addestramento di soldato e la sua esperienza gli fecero registrare in pochi secondi, quasi senza rendersene conto, le molte ferite visibili riportate dal ragazzo. Era certo però, dalla posizione rannicchiata in cui stava, che quelle sul viso non fossero le uniche. Da sotto lo sporco si intravedevano, oltre gli occhi gonfi, dei lividi e dei tagli. Il suo primo pensiero fu che gli fosse crollato qualcosa addosso, ma non poteva essere quello. O almeno, non solo quello. Sulla guancia dell’adolescente infatti, intravide due tagli che andavano a formare una croce rossa. Era impossibile che fossero casuali. Anzi erano netti e razionali. Erano voluti.
Non appena quel pensiero gli si affacciò in testa, la rabbia prese il posto dello shock. Chi lo aveva conciato in quel modo?? E perché poi? Semir era solo un ragazzino! Aveva a malapena sedici anni! Qualunque cosa avesse fatto, non sarebbe stato mai abbastanza per meritarsi una simile punizione.
Cacciando via, per il momento, ogni istinto omicida, Castle si affrettò a spalancare la porta per trascinare dentro Semir. Il ragazzo gemette forte quando lui lo tirò su di peso dall’angolo di pavimento gelido in cui si era accasciato, così si limitò ad adagiarlo nel corridoio caldo. Non voleva muoverlo troppo per paura di procurargli ulteriori dolori.
“KATE!!” chiamò subito Rick. Si accorse lui stesso di avere una nota terrorizzata nella voce. Beckett lo raggiunse immediatamente dalla camera da letto, ma appena vide Semir a terra si bloccò in mezzo al corridoio. Le mani le volarono subito davanti alla bocca, in un gesto di orrore, gli occhi sgranati. “Chiama immediatamente Lanie!” le urlò Castle perché si riprendesse velocemente dal trauma. Kate voltò gli occhi verso di lui e lo osservò pallida e spaventata. Rick prese un respiro profondo prima di parlare di nuovo. Non voleva mettere in ulteriore agitazione la donna e lui aveva assolutamente bisogno di calmarsi per poter pensare a mente lucida. “Chiama dai Ryan e digli che abbiamo bisogno dell’aiuto di Lanie subito.” ripeté il colonnello con voce più ferma e bassa. Beckett annuì e corse al telefono del salone. “Resisti, Semir.” mormorò poi Castle al ragazzo, posandogli delicatamente una mano sui capelli.
L’adolescente giaceva a terra davanti a lui, nel suo mucchio di stracci sporchi e strappati. Rick non si azzardò a muoverlo ulteriormente, neppure per togliergli lo zaino che ancora aveva ben saldo sulle spalle. Lanciando un’occhiata alla sacca, notò che era più lacera di quando l’aveva lasciata e in più era vuota.
In quel momento il colonnello sentì la voce di Kate dal salone parlare velocemente al telefono. Si mosse nervoso e attese inginocchiato che lei finisse di chiamare prima di prendere in braccio il ragazzo. Non aveva altre alternative per portarlo dai Ryan, anche se aveva paura di aggravargli la situazione. Lanie gli aveva dato qualche lezione di primo soccorso e una delle prime regole era quella di non muovere il paziente finché non sai che è sicuro. Il problema era che non poteva perdere tempo a scoprirlo. Però se Semir era arrivato a piedi fino a casa sua da chissà dove, allora forse sarebbe potuto stare abbastanza tranquillo.
Il ragazzo respirava faticosamente rannicchiato a terra, quasi rantolando, lanciando di tanto in tanto lievi gemiti e lamenti dolorosi. Dagli occhi gonfi, uscirono delle goccioline d’acqua che andarono a tracciare dei lievi solchi chiari attraverso lo sporco della sua faccia. Stava piangendo. Castle cercò di tranquillizzarlo parlandogli piano, come gli aveva insegnato Lanie, ma più di quello, più che dirgli che ora era al sicuro e che presto sarebbe stato bene, non sapeva che fare.
L’unica cosa positiva, se si poteva definire così in quel momento, era il fatto che Semir fosse sveglio. Ogni due o tre respiri cercava di parlare, ma Rick non capiva cosa gli stesse dicendo. Continuava a ripete ossessivamente due parole (‘assle’ e ‘ongoei’) di cui non riusciva ad afferrare il senso. Ci mise qualche secondo prima di notare che il ragazzo aveva la mandibola in una strana posizione. Doveva essere slogata, se non rotta.
All’improvviso Semir si mosse come per allungare una mano verso di lui, ma una fitta di dolore lo fece raggomitolare immediatamente su sé stesso, lanciando un lamento forte e penoso. Castle cercò ancora una volta di calmarlo, ma pareva impossibile bloccare i singhiozzi dolorosi e spaventati del ragazzo.
“Kate!” chiamò Rick con tono urgente. Quanto ci stava mettendo a chiamare? Un minuto? Un’ora? In quel momento però fu distratto da un particolare. Il maglione di Semir si era un po’ alzato nel fare quel movimento brusco e il colonnello vide sul suo fianco dei grossi lividi violacei. Pareva non ci fosse spazio per la pelle chiara del ragazzo. Solo diverse gradazioni di viola, in forme tutte circolari e della dimensione di un pugno. Per un attimo Rick rimase paralizzato e insieme nauseato. Lì, crolli e bombe non c’entravano nulla. Lì, l’unica cosa certa ormai era che lo avevano quasi ammazzato di botte. Gli riabbassò la maglia con la mano tremante dalla rabbia. Per un secondo ebbe paura di scoprire gli altri segni che poteva nascondere quel piccolo corpo davanti a lui.
Quella scoperta fu un pugno nello stomaco. Desiderò avere davanti chiunque fosse il responsabile di quello scempio per farlo soffrire come un animale e poi ammazzarlo. Furono i passi veloci di Kate in corridoio a distoglierlo dai suoi pensieri. Beckett era ancora pallida, ma pareva aver ripreso il controllo della situazione.
“Ci stanno aspettando.” disse subito, non appena incontrò i suoi occhi. Castle annuì, quindi, con delicatezza, passò le braccia sotto la schiena e le gambe del ragazzo e lo sollevò. A quello sforzo, la spalla gli lanciò una fitta di avvertimento, ma lui quasi non la percepì. Sentiva solo il tiepido calore di Semir e i suoi respiri faticosi. Con l’aiuto di Kate, il colonnello trasportò l’adolescente fino alla sua auto, parcheggiata a pochi passi da casa, e lo coricò sui sedili posteriori. La donna si infilò nel retro dell’auto con lui, posandogli la testa sulle sue gambe per farlo stare un poco più comodo e per continuare a confortarlo. Rick intanto corse di nuovo in casa, afferrò il giaccone, le chiavi dell’auto e di casa al volo, si chiuse la porta d’ingresso alle spalle con un tonfo. Quindi si catapultò sul sedile del guidatore e ingranò la marcia per partire. Per fortuna erano solo pochi minuti per arrivare dai Ryan, solo che con la neve, non ben spalata dalle strade, Castle dovette tenere il doppio dell’attenzione e andare più piano di quanto avrebbe voluto. Evitò di schiacciare troppo l’acceleratore in modo da non dare scossoni a Semir, ma quel breve ritardo gli parve un’eternità.
“Non farlo addormentare!” ordinò nervoso a Kate senza distogliere gli occhi dalla strada. Lei si limitò ad annuire, come lui vide dallo specchietto retrovisore. Beckett stava già parlando al ragazzo con una voce bassa e rassicurante, carezzandogli insieme dolcemente i capelli.
“Andrà tutto bene.” la sentì mormorare, anche se con un lieve tremito nel tono. “Lanie ti sistemerà in un batter d’occhio, vedrai. Però tu devi stare sveglio, altrimenti come puoi vedere la magia che farà?” La risposta di Semir fu solo un lieve gemito.  
 
Poco meno di dieci minuti dopo, Castle parcheggiò in fretta e male l’auto davanti a casa di Ryan. Kevin doveva averli aspettati dietro la porta perché, non appena il colonnello spense il motore, uscì per venirgli incontro.
“Come sta Semir?” chiese immediatamente il maggiore, preoccupato.
“Non bene.” rispose Rick serio, affrettandosi a uscire dalla macchina. Aprì lo sportello posteriore dell’auto e, aiutato da Kate e Kevin, tirò fuori il ragazzo. I due uomini quindi trasportarono Semir dentro l’appartamento, seguiti a ruota da Beckett. Il calore della casa li investì bruscamente in contrasto con il freddo dell’esterno. Non appena la donna ebbe chiuso la porta d’ingresso dietro di loro, Ryan non perse tempo a chiamare aiuto.
“Lanie!!” esclamò. Immediatamente la signora Esposito apparve nel corridoio dal salone. Non conoscendo Semir, ebbe una reazione meno di forte di quella provata da loro tre. Per lei era solo un paziente che necessitava cure immediate ed era quello a renderla così distaccata e professionale. Comunque non riuscì a reprimere una smorfia d’orrore quando vide il ragazzo. In fondo era solo qualche anno più grande di suo figlio.
“Portatelo subito in salone.” ordinò loro. Quindi si voltò indietro nel corridoio, dove erano appena spuntate la Gates e la signora Ryan. “Victoria, Jenny, liberate il tavolo e metteteci due tovaglie spesse. Non sarà un letto, ma ho bisogno di un posto illuminato. Lo sposteremo dopo.” si spiegò velocemente mentre Rick e Kevin trasportavano il ferito. La Gates lanciò un’occhiata addolorata verso Semir e Jenny si portò una mano alla bocca, sgomenta, per un momento, ma poi entrambe fecero come Lanie aveva detto. In un attimo spostarono i pochi oggetti sul tavolo, quindi la cameriera tirò fuori da un cassetto due tovaglie bianche e spesse e le due donne insieme le posiziono sul tavolo. Aggiunsero anche una terza tovaglia arrotolata come cuscino.
“Si riprenderà, vero?” chiese Ryan ansioso non appena lui e Rick ebbero posato il ragazzo su quel giaciglio improvvisato. Semir aveva gli occhi chiusi e respirava più lentamente, probabilmente era svenuto.
“Potrebbe essere solo stordito o avere lesioni interne.” rispose Lanie sbrigativa. “Non lo saprò finché non lo avrò visitato, quindi ora fuori.” dichiarò seria, indicandogli di allontanarsi dal salone. “Javier,” chiamò poi, voltandosi verso il marito, poco lontano da loro. “Prendi Leandro e portalo via insieme a Rick e Kevin. Victoria, Jenny, Kate, avrò bisogno invece della vostra assistenza. Ci serviranno tanta acqua, spugne, ogni tipo di benda che riusciate a trovare, delle stecche in caso abbia qualche arto rotto, forbici, ago e filo. Prendete anche il Kit di Pronto Soccorso, dovrebbe avere altri strumenti che ci potrebbero servire.” Le tre donne annuirono e subito si misero alla ricerca del necessario.
“Jenny, forse tu non…” cercò di dire Ryan, ma la moglie gli prestò appena attenzione. Gli fece un gesto con la mano per chiedergli di lasciarla stare e lo superò per andare a cercare gli oggetti elencati da Lanie. Nonostante la gravidanza, la signora Ryan aveva energie da vendere. Neanche lei conosceva Semir, ma Rick era consapevole l’indole della donna: non poteva restare ferma quando qualcuno accanto a lei soffriva. Inoltre non sapeva restare con le mani in mano. Voleva aiutare.
Castle sospirò. Osservò Kate passargli davanti in fretta per andare a cercare chissà cosa, mentre la signora Esposito si dava già da fare per togliere gli strati di vestiti sul ragazzo. Non c’era altro da fare. Dovevano solo affidarsi a Lanie e aspettare.
“Se avete bisogno di qualcosa, chiamate.” disse solo, anche se non fu tanto sicuro che una qualsiasi delle donne l’avesse ascoltato. Scosse la testa, sentendosi all’improvviso stanco e infreddolito, nonostante la temperatura della casa. In quel momento sentì una mano poggiarsi sul braccio.
“Andiamo.” mormorò Javier, facendogli un cenno con la testa verso le scale per il piano di sopra. L’uomo teneva in braccio Leandro, che continuava a lanciare occhiate curiose e preoccupate verso il tavolo da pranzo. Castle annuì e si avviò alle scale, mentre Esposito faceva lo stesso gesto a Ryan per sbloccarlo. Salirono tutti e quattro in silenzio in una triste processione. Una volta in cima alle scale però, non entrarono in nessuna camera. Era come se entrare e chiudersi una porta dietro le spalle li avrebbe esclusi dal dramma del piano di sotto. Così si fermarono lì, dove le voci delle loro donne arrivavano ovattate insieme al rumore di strumenti metallici e tessuti strappati. Ryan si accasciò sull’ultimo gradino, la testa fra le mani. Esposito si sedette a terra con la schiena al muro, di fronte alle scale, con Leandro tra le gambe. Rick invece, dopo essersi tolto il giaccone che ancora indossava e averlo buttato in un angolo, si appoggiò alla parete di lato alle scale, gambe aperte e ginocchia alzate con le mani intrecciate su di esse.
Si accorse solo in quel momento di avere le mani sporche di polvere e sangue. Abbassando lo sguardo, vide che anche i suoi pantaloni e la maglia, nei punti non coperti dalla giacca e che avevano toccato Semir, erano macchiati. Automaticamente si rialzò in piedi. Javier e Leo gli lanciarono un’occhiata perplessa, mentre Kevin non si mosse. Forse non lo aveva neanche sentito. Castle arrivò al bagno e, senza pensare neanche a chiudere la porta, aprì l’acqua e iniziò a sciacquarsi meticolosamente le mani con la saponetta bianca lì accanto. Dopo qualche secondo si bloccò. Aveva già vissuto quel momento e più di una volta. Quando la madre di Kate, Johanna, era morta. Era stato giorni con in testa il sangue della donna sulle sue mani. Le lavava con forza, ma gli pareva che il rosso restasse sempre. Quei momenti di crisi erano passati, per quanto strano potesse sembrare, proprio con l’arrivo di Kate. E ora vedeva ancora rosso sulle sue mani.
In modo ossessivo, pulì ogni centimetro della sua pelle, finché ogni traccia di sporco non fu lavata. Quindi si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, si asciugò e tornò dagli altri, dove riprese il suo posto a terra. Ryan era ancora immobile mentre Esposito lo osservava in un misto di curiosità a preoccupazione mentre stringeva a sé Leandro.
 
Rimasero in quella posizione per un tempo indefinito. Sarebbe potuta passare un’ora come un giorno per quanto ne sapevano. Castle non ci avrebbe fatto nemmeno caso se non fosse stato per il lento movimento di una sottile lama di luce sul pavimento che penetrava da una finestra della camera accanto a loro. Man mano che il sole si spostava nel cielo, il piccolo raggio si muoveva inesorabile, allontanandosi da loro. Rick lo osservò a lungo mentre i rumori concitati del piano di sotto passavano fievoli alle sue orecchie. Si sentiva inutile. Totalmente.
Sospirò piano e inclinò la testa all’indietro, poggiando il capo contro la parete. Poi lanciò un’occhiata a Ryan. Il maggiore non si era ancora mosso dalla sua posizione: la testa era sempre appoggiata alle mani, le dita strette tra i capelli, lo sguardo perso chissà dove sullo scalino sotto di lui. Kevin si era affezionato molto a Semir, nonostante lo avessero incontrato solo in sporadiche occasioni. Il ragazzo però, come Rick aveva già notato per Kate, sapeva farsi voler bene. Era sveglio, simpatico, dalla lingua pronta e ci metteva poco a fare amicizia con chiunque. Quel pensiero rabbuiò di nuovo Castle, che aggrottò le sopracciglia: chi diavolo poteva avergli voluto così male da ridurlo in quel modo? Tralasciando Montgomery e loro, in realtà Semir non aveva molte conoscenze per la sua stessa sicurezza. Forse si era inimicato qualcuno di pericoloso nell’ultimo periodo, qualcuno che non avrebbe dovuto frequentare. Si appuntò mentalmente di chiedere chiarimenti a Roy. Avrebbe cercato lo stampatore non appena Lanie avesse finito con Semir.
Però… però c’era anche un’alternativa. Una peggiore di un regolamento di conti. E se avessero torchiato Semir per arrivare a Montgomery? Allora lui come stava? Sapevano dove trovarlo? Sapevano come arrivare a lui? Il ragazzo aveva parlato o aveva taciuto? Roy era vivo o morto? Più ci pensava e più gli pareva che quella, per quanto impossibile, visto quanta attenzione avevano sempre prestato, fosse la verità. Ma allora a quel punto, quanto erano anche vicini ad arrivare a loro? Era il caso di far spostare gli Esposito? E Semir?
Castle si passò una mano tra i capelli mentre un principio di mal di testa iniziava a pulsargli nelle tempie. Decise di mettere da parte per un secondo quei pensieri sempre più negativi e paranoici per concentrarsi sul presente. La prima cosa da fare, una volta stabilizzate le condizioni di Semir, era parlare con il ragazzo, se possibile, e chiamare Montgomery. A quel punto avrebbero deciso cosa fare.
Sospirò e si mosse leggermente per trovare una posizione un poco più comoda. Quindi lo sguardo gli cadde su Leandro abbracciato a Javier. Nessuno dei due aveva mai incontrato l’adolescente ferito al piano di sotto, però Kevin gliene aveva parlato ed entrambi erano rimasti piuttosto scossi da quella visione. Leo soprattutto cercava di fare l’ometto coraggioso, ma i suoi occhi dicevano chiaramente quanto in realtà fosse spaurito e lo stesso dicevano le sue mani strette sulla camicia del padre. Nonostante tutto, forse non aveva mai visto un ragazzino conciato in quel modo. Esposito gli sussurrava di tanto in tanto qualche parola dolce per tranquillizzarlo mentre gli carezzava i capelli riccioluti. L’uomo era calmo e la sua voce bassa infondeva sicurezza, ma la piega storta della sua bocca, nei momenti in cui non sorrideva al figlio, faceva in realtà intuire la sua preoccupazione.
“Perché lo hanno ridotto così?” mormorò all’improvviso Kevin, rompendo il silenzio e dando voce al pensiero di tutti. “Ho visto dei tagli sul suo volto che…” Non riuscì a continuare. “Insomma perché?”
“Se non si è cacciato nei guai, l’unica motivazione che mi viene in mente è Montgomery.” rispose cupo Rick.
“Potrebbero averlo seguito fino a dove erano nascosti.” disse Javier annuendo piano, pensieroso. Kevin scosse la testa e per la prima volta si voltò verso di loro.
“Non può essere!” esclamò, ma nella sua stessa voce c’era una nota di esitazione. “Semir era sempre molto cauto. Controllava sempre che nessuno gli fosse alle calcagna e faceva sempre strade diverse.”
“Magari allora il suo comportamento può aver insospettito qualcuno.” commentò Esposito. Ryan storse la bocca, come se non volesse crederci. Quindi si rivolse di nuovo a Rick.
“Può essere successo qualcosa anche a Roy, secondo te?” domandò nervoso. Il colonnello scosse la testa e abbassò lo sguardo.
“Non lo so.” Poteva essere successo di tutto e finché non parlavano con Semir o con Montgomery non potevano essere certi di nulla.
In quel momento sentirono dei passi muoversi nella loro direzione. Alzarono tutti la testa, attenti, e qualche secondo dopo spuntò Kate ai piedi delle scale. La donna salì qualche gradino, ma poi si bloccò quando, sollevando gli occhi, si ritrovò tutti gli uomini che la fissavano dalla cima delle scale.
“Che fate seduti per terra?” chiese stupita.
“Aspettavamo.” rispose per tutti Castle, alzandosi lentamente in piedi. I suoi muscoli protestarono per la forzata immobilità e il pavimento scomodo. “Come sta Semir?” domandò poi. Poteva vedere i segni della stanchezza sul volto di Kate, oltre che delle macchie di sangue sul vestito che dovevano appartenere a Semir. Però una cosa che lo confortò fu che pareva tranquilla.
“Si riprenderà.” replicò con un mezzo sorriso. Un sospiro sollevato generale accolse quelle parole. “Potete scendere ora se volete.” continuò poi Beckett. “Al momento sta dormendo, ma era parecchio stanco quindi c’è poco pericolo di svegliarlo.” Il colonnello fece una smorfia.
“Non posso parlargli, vero?” chiese titubante mentre gli altri si alzavano da terra. Kate negò con il capo.
“Lanie ha detto che non è il caso di risvegliarlo per ora. Sembrava molto provato e ha bisogno di riprendere le forze.” spiegò lei. “Domattina potrete parlargli.” Rick annuì rassegnato.
“Vorrà dire che prima tenteremo con Montgomery.” disse Ryan. “E speriamo che risponda.” A quel punto gli uomini scesero le scale per il piano di sotto. Prima che potesse allontanarsi in corridoio però, Rick prese Kate per un braccio e la tirò leggermente di lato, in modo da restare indietro e rimanere un momento da soli. Kevin si voltò a controllare perché non arrivassero, ma vedendo la faccia dell’amico non commentò.
“Inizio a fare quella telefonata.” disse solo e sparì in salone con Javier e Leandro. Castle e Beckett rimasero ai piedi della scala, accanto alla porta d’ingresso. Doveva esserci qualche infiltrazione dalla porta, perché c’era un filo d’aria gelida dell’esterno che gli fece venire la pelle d’oca.
“Come stai?” chiese alla fine il colonnello, carezzandole lievemente il viso. Beckett gli sorrise tristemente.
“Lo avevo incontrato solo qualche giorno fa, ma mi stava simpatico.” mormorò in risposta, lanciando un’occhiata al fondo del corridoio dove c’era il salone con Semir addormentato. “Quando l’ho visto stamattina in quello stato, io…” Non finì la frase perché le parole le morirono in gola, sostituite da un piccolo singhiozzo.
“Ssh, va tutto bene, Kate.” le sussurrò piano, abbracciandola e baciandole la testa. Lei si accoccolò contro il suo petto, il respiro irregolare. “Si riprenderà. E’ un ragazzino in gamba e forte, starà meglio.”
“Quei segni…” sentì mormorare Beckett con tono inorridito e furioso insieme. “Quei segni non gli andranno mai via…” Non sapendo che dire, Castle la strinse più forte a sé, poggiando il mento sulla sua testa mentre le parole di lei lo colpivano come un pugno allo stomaco. I segni non sarebbero mai andati via dal corpo di Semir. Sarebbe rimasto sfregiato per sempre. Però quel ‘quei segni’… Lui aveva visto i lividi sul suo fianco e in faccia e i tagli sulle guance, ma solo questi ultimi sarebbero rimasti a lungo. Possibile che ci fosse altro?
“Cosa… cosa gli hanno fatto?” si costrinse a chiedere Rick. Kate ci mise qualche secondo prima di rispondere, il respiro ancora instabile.
“Secondo Lanie non lo hanno solo picchiato. Lo hanno torturato.” rispose alla fine con un filo di voce e un evidente groppo in gola. Il colonnello si aspettava quella risposta, ma sentirlo da Beckett fu comunque una coltellata. Strinse a pugno le mani sopra il vestito di lei, tanto forte da far sbiancare le nocche. Sentendo il suo irrigidimento, la donna fece per spostarsi da lui, preoccupata. “Forse è meglio se non…” cercò di dire, ma lui la fermò.
“No.” disse serio, riavvicinando Kate al suo corpo e facendo lunghi respiri per calmarsi. Il profumo e il calore di lei lo aiutarono molto in quell’impresa. “Continua. Cosa gli avete trovato?”
“Aveva… aveva lividi ovunque.” proseguì allora Kate in un sussurro contro il suo petto. “Alcuni sono di ieri, ma sono casuali, come se gli fosse caduto qualcosa addosso. Altri però, secondo Lanie, hanno almeno due giorni e sono… sono sistematici.” aggiunse con evidente ribrezzo per quell’azione. “Gli hanno colpito lo stesso punto, più e più volte, ai fianchi, allo stomaco e in faccia. Ci siamo stupite del fatto che sembra non abbia riportato lesioni interne…” Si fermò per un momento per riprendere fiato, quindi continuò. “Poi gli hanno… gli hanno spento almeno quattro o cinque sigarette sulla schiena.” Se prima era riuscita a tenerla sotto controllo, in quel momento la rabbia di Rick tornò più potente di prima. “E infine i tagli. Ha… ha due croci sulle guance e…” Si bloccò, esitante.
“E?” la esortò Castle con una strana voce controllata che faceva in realtà intuire quanto fosse furioso. Beckett però non continuò. Rick allora la scostò piano da sé in modo da poterla guardare negli occhi. La donna si stava mordendo il labbro inferiore e aveva lo sguardo basso. “Kate?” la incitò ancora il colonnello, alzandole delicatamente il mento con due dita perché lo guardasse.
“Con un coltello gli hanno inciso una parola sul petto.” disse alla fine la donna tutto d’un fiato. Castle rimase paralizzato.
“Che parola?” riuscì solo a chiedere a mezza voce. Beckett ci mise qualche attimo prima di rispondere.
Lügner.” disse alla fine. Le mani di Rick sulle braccia della donna si strinsero senza che se ne accorgesse. Lügner in tedesco significava bugiardo.
Castle tremò dalla rabbia e dall’orrore. Però quell’orribile particolare gli accese una lampadina nel cervello. Conosceva l’artefice di quei segni. C’era solo un uomo in tutta Berlino, temuto per la sua brutalità e per la sua vena torturatrice, che era solito scrivere sul petto delle sue vittime la loro colpa, vera o inventata che fosse.
“Stasch Hahn.” sibilò il colonnello a denti stretti.
“Rick!” lo chiamò Kate, posandogli le mani sulle guance perché uscisse dai suoi pensieri omicidi e la guardasse. “Ti prego, sono scossa anch’io da quello che gli ha fatto, ma non andare a farti uccidere…” mormorò, quasi supplicandolo.
“Devo andare a cercarlo.” replicò secco, scostandosi da lei. Non riuscì a guardarla in faccia. “Potrebbe aver preso anche Montgomery. Non lo ucciderò comunque. Non subito almeno…” aggiunse poi lentamente. “Hahn è un mercenario. Uno stronzo che si fa pagare per qualunque lavoro gli venga chiesto di fare. Non è lui che ha deciso di torturare Semir, glielo ha ordinato qualcuno. Tutto sta nel capire chi.” Alzò gli occhi verso il salone. “Magari facendogli provare qualcuno dei suoi medoti…” disse con un mezzo sorriso che era tutto meno che divertito. Era pericoloso. Kate lo guardò a bocca aperta, stupita. Era la prima volta che lo vedeva così, in quello stato.
“Per diventare come lui??” lo interruppe sconcertata. “Tu non sei un mostro, Rick.” continuò poi in tono più calmo, ma terribilmente serio. Il colonnello sbuffò sarcastico.
“Forse semplicemente ancora non conosci tutto di me.” replicò senza pensare in tono velenoso. Si pentì il secondo dopo di averlo fatto, perché Beckett lo guardò sorpresa e delusa.
“Forse allora è stato meglio saperlo adesso piuttosto che da sposati.” disse a mezza voce, gli occhi bassi. Quelle parole furono un pugno nello stomaco che gli fecero sgonfiare la rabbia in un attimo.
“Kate…” cercò di rimediare il colonnello, ma lei lo bloccò con un cenno della mano.
“Fa quel che vuoi, Castle.” dichiarò solo con tono stanco, voltandosi per tornare nel salone. Rick non seppe cosa dire. Guardò Beckett allontanarsi da lui, impotente. Un attimo prima di uscire dal corridoio però, la donna si fermò e voltò la testa all’indietro. “So che vuoi giustizia per Semir. La voglio anche io, ma non è torturando che la otterrai. Una volta che avrai iniziato non riuscirai a fermarti e lo ammazzerai. Questa è vendetta, non giustizia. E so quello che dico perché era la stessa cosa che una volta volevo io per mia madre.” Castle si agitò sul posto, a disagio. Però ancora una volta non disse nulla e forse fu lì che sbagliò. “Sai, forse abbiamo affrettato troppo le cose.” aggiunse poi Kate con aria triste e pensierosa, come se stesse parlando a sé stessa più che a lui, gli occhi puntati da qualche parte sul pavimento. “Due mesi probabilmente sono pochi per conoscersi davvero. Credevo di aver almeno intuito che tipo eri, ma evidentemente mi sbagliavo.” Rick rimase impietrito, la bocca semiaperta e gli occhi sgranati. Non era quello che voleva! Lei stava… stava dicendo sul serio?
Prima che potesse anche solo chiedersi se aveva interpretato correttamente le sue parole, Kate gli chiarì la sua posizione: “Tornerò in America con gli Esposito come tu ti sei tanto premurato di organizzare. E ti ringrazio per questo. Ti dovrò sempre qualcosa per il disturbo e per i giorni che mi hai aiutato qui a Berlino. Potrai chiamarmi quando vuoi per ricambiare questo favore. Ma a parte quello, quando sarò andata via, ti prego di non cercarmi più.”
“Kate…” tentò di nuovo di parlare il colonnello con una nota supplicante nella voce. Beckett però non la sentì o non volle darvi peso, perché girò il viso e tornò in salone senza dire altro.
Castle rimase immobile, la bocca semiaperta, gli occhi fissi nel punto in cui era sparita la donna che amava e che lo aveva appena cacciato dalla sua vita. Come erano arrivati a quel punto? Lui voleva solo dare giustizia a Semir! Torturare il suo aguzzino (e magari poi toglierlo dalla circolazione) sarebbe stato un modo più che giusto per ripagarlo e per ottenere informazioni! Quello era un periodo di guerra. La città era per metà distrutta e se loro erano ancora vivi, tra le bombe e i segreti da mantenere, era solo grazie a un miracolo. Come poteva Kate non capire che andare semplicemente da Hahn a chiedere chi era il mandante non era possibile? Inoltre, conoscendo il tipo d’uomo, anche con la tortura probabilmente sarebbe stato difficile estorcergli informazioni. Però aveva bisogno di qualcosa da fare. Non poteva restare lì, bloccato e inutile, mentre Semir era mezzo morto in salone e Montgomery forse in chissà quale pericolo! Doveva agire! Doveva muoversi e ottenere informazioni e risultati oppure sarebbe impazzito e…
All’improvviso lo sguardo di Rick venne catturato da un lieve movimento accanto a muro, al limitare del corridoio. Alzò gli occhi e notò il suo vecchio zaino, quello che aveva regalato a Semir. Una delle quattro donne doveva averglielo tolto e gettato in un angolo perché non ingombrasse. Lo zaino era scivolato leggermente in giù per terra a causa del poco contenuto all’interno. Lo osservò per un momento. Era un poco più sgualcito e decisamente più impolverato di quando lo aveva dato al ragazzo qualche giorno prima. Ed era conciato decisamente peggio di quando lui lo aveva avuto in dono. Perché quella sacca non gli era stata data dall’esercito, ma da un amico, un soldato o, meglio, una matricola come lui nell’anno in cui era entrato in accademia militare in America. Il ragazzo si chiamava Matt Green.
Rick l’aveva conosciuto il primo giorno al campus. Era un giovane volontario come lui e condividevano la stessa baracca per dormire, oltre che i corsi. Quando l’aveva visto la prima volta, ricordava di aver pensato che non pareva tagliato per fare il soldato. Magrolino com’era e con la pelle scura di chi è stato molto tempo al sole, pareva essere un contadino appena uscito dal campo. Inoltre a un prima impressione gli era parso diffidente e chiuso. Invece con il tempo aveva scoperto che Matt un ragazzo forte e leale, un po’ taciturno forse, ma dal sorriso pronto, oltre che un ottimo soldato con una mira da far invidia ai migliori cecchini. L’unica cosa di cui Green non parlava volentieri era il suo passato. Come gli si chiedeva notizie dei suoi parenti o di dove era nato o vissuto, lui cambiava discorso o smetteva semplicemente di parlare.
Castle non seppe niente di lui, come tutti gli altri, finché un giorno non gli accadde un fatto. Erano sei mesi che ormai erano in accademia, ma Rick continuava ad avere un problema con alcuni commilitoni. Questi non vedevano bene i figli di importanti ufficiali come lui perché credevano si sentissero superiori o che avrebbero avuto sempre la strada spianata da papà. Avevano quindi pensato bene di molestarlo sin dai primi giorni da matricola, non appena avevano saputo chi era suo padre. Rick aveva tentato in tutti i modi di farli smettere o di fargli capire che lui non ci teneva minimamente ad avere raccomandazioni, ma quelli non lo avevano mai ascoltato. Così erano iniziati gli scherzi. Prima piuttosto blandi, come una mano di vernice sulla sedia che avrebbe occupato a lezione di tattiche di guerra. Poi, visti gli scarsi risultati nel farlo reagire, erano passati a burle sempre più pesanti. Quello che lo aveva fatto infuriare, era stato uno scherzo che prevedeva una serie di petardi nel suo zaino. Aveva rischiato di perdere una mano e un occhio, se non se ne fosse accorto in tempo e non fosse stato abbastanza veloce da scansarsi. Castle si ricordò che era stato così fuori di sé da voler andare a cercarli per vendicarsi. Non aveva mai avuto così voglia di prendere a pugni qualcuno fino a farlo sanguinare a terra sino a quel momento. Già all’epoca era alto e prestante, non aveva paura di quei bastardi che lo tormentavano ed era stufo di non reagire per evitare di essere buttato fuori dall’accademia. L’unica cosa che voleva era trovarli e fargli molto male e se ci avesse rimesso lui, almeno si sarebbe tolto la soddisfazione di fargliela pagare. Matt Green lo trovò in quel momento, scontrandosi per caso con lui e vedendolo in quello stato. Lo bloccò e lo costrinse, praticamente con la forza, a non fare cazzate.
Castle si stupì nell’accorgersi che ricordava le sue esatte parole...
 
“Vendicarsi non serve a nulla!” esclamò Matt con il tono frustrato di chi cerca di spiegare una cosa importante a uno che non vuol capire, puntandogli con forza un dito contro il petto. “Non ti porta la pace e non ti fa vivere. Sai cosa fa la vendetta? Ti trasforma in un cane affamato e ti mette davanti a un cancello chiuso con un coniglio grasso dall’altra parte. Ti costringe a guardare la tua preda al di là di esso, da lontano, facendoti agitare e sbavare, senza mai smettere, succhiandoti le forze, senza farti rendere conto che dietro di te c’è un giardino enorme e fertile, un mondo intero, che ti aspetta. E se anche riuscissi a saltare il cancello, sai cosa succederebbe? Prenderesti la tua preda, il coniglio bianco che si è stancato di scappare da te, ma poi non potresti più tornare indietro. E ti accorgeresti che dalla parte del coniglio c’era solo un spazio piccolo, buio e spoglio in cui è impossibile vivere. La tua preda non basterà mai a ripagarti degli anni di sfinimento, lotta e rabbia. Rimarresti solo al di là del cancello, come un vecchio cane ingabbiato perché non più utile a nulla, guardando il mondo a cui non potrai mai tornare ad appartenere perché tu stesso hai deciso di lasciarlo.”
 
Quelle parole lo avevano fermato. La sua ira non era diminuita, ma si era un po’ calmato e la sua curiosità era aumentata. Matt aveva parlato come uno che quell’esperienza l’aveva provata sulla sua pelle. Eppure era poco più che un ragazzo, proprio come lui.
“Che ne sai tu della vendetta?” gli aveva risposto allora Rick, scontroso a causa del suo umore, ma con davvero la voglia di sapere. Green gli aveva fatto un mezzo sorriso triste, mentre i suoi occhi neri mandavano una luce strana.
“Io sono cresciuto con la vendetta.” aveva risposto. Poi gli aveva raccontato una storia. Una storia terribile. La sua storia.
Matt era nato a Oxnard, una città a nord di Los Angeles con un porto talmente grande e importante, fino a pochi anni prima, da meritare un nome tutto suo: Port Hueneme. Quello stesso porto veniva utilizzato anche dalla marina e dall’esercito Americano per far stazionare le navi prima dei viaggi nel Pacifico. Proprio mentre diverse navi erano all’ancora e i soldati bazzicavano per ogni dove in città, accadde il fatto che cambiò la vita della sua famiglia.
Matt era l’ultimo nato di una buona famiglia di Oxnard dove suo padre e sua madre, Benjamin e Dionne Green, mandavano avanti uno dei più importanti negozi di spezie. Prima di lui erano nati suo fratello maggiore Camron, di quindici anni, sua sorella Ebony, di tredici anni, e Henry, di sei anni. Nell’inverno in cui Matt compì un anno, sua sorella Ebony, mentre tornava in ritardo da alcune commissioni per conto della madre, fu vista e bloccata da un uomo in divisa, uno dei molti soldati che giravano in città arrivati con le navi. L’uomo la costrinse in un angolo buio di un vicolo, la violentò e la lasciò lì al freddo, debole, svestita e piena di sangue a soli tredici anni. Lei riuscì a trovare la forza per rialzarsi e tornare a casa, dove disse tutto ai genitori e descrisse il suo stupratore. Quella notte stessa però, per la vergogna, Ebony si tolse la vita. Sua madre Dionne morì di crepacuore meno di una settimana più tardi. Rimase solo il padre Benjamin, pieno di rabbia e sete di vendetta, con i tre figli maschi.
Benjamin iniziò a girare tutto il porto, andando di molo in molo e cercando il mostro che aveva rovinato l’esistenza della sua famiglia, mentre Camron badava ai fratelli più piccoli e al negozio. Ogni giorno l’uomo tornava a casa più rabbioso a causa delle vane ricerche. Dopo un mese, sembrò che finalmente si fosse aperta una pista: il soldato era salpato con una delle navi per andare a nord, verso il Canada. A quella notizia, il padre non si diede per vinto. Vendette tutto ciò che possedeva, sia il negozio che la casa, prese dalla banca tutti i soldi risparmiati in anni di lavoro e con i tre figli si mise in viaggio per inseguire il mostro. Durante la traversata, Henry morì di polmonite a causa del freddo a cui non erano abituati ed erano stati sottoposti salendo sempre più verso nord. Rimanevano solo Benjamin e il suo figlio maggiore e minore.
Una volta arrivati nella base canadese che gli era stata indicata, gli dissero però che il soldato che cercavano doveva essere tra quelli spostati dall’altra parte del paese, a New York o forse a Miami. Così ripresero a viaggiare. Seguirono le tracce del mostro, ormai l’unico appellativo con cui veniva nominato tra loro, per giorni, settimane, mesi e infine anni. Il più grande dei fratelli di Matt, Camron, si ritrovò accoltellato a morte in una bettola a causa di una rissa dopo un anno e mezzo. Alla fine, rimasero solo lui e il padre.
Quando finalmente rintracciarono per certo il mostro, a Charleston nella Carolina del Sud, erano ormai passati cinque anni. Cinque anni di pellegrinaggi da una parte all’altra degli Stati Uniti senza mai fermarsi, seguendo ogni possibile pista e indicazione, giusta o sbagliata che fosse, con un solo scopo in testa, arrivando anche a corrompersi e umiliarsi per poter raggiungere l’obbiettivo perché da tempo non avevano più soldi.
Una volta trovato il campus e il dormitorio esatto, dove gli avevano indicato che era la sua preda, Benjamin agì con una innaturale calma. Lasciò il piccolo Matt insieme alle guardie all’ingresso del campo e, con una scusa, si fece portare al dormitorio del suo mostro. Una volta entrato e individuato il suo bersaglio, prese la pistola che teneva nascosta allacciata a una caviglia e iniziò a fare fuoco. C’erano quindici soldati dentro. Ne uccise quattro e ne ferì altrettanti prima che riuscissero a fermarlo. Tra i morti, anche il mostro di suo padre. Solo che fu allora che fecero la terribile scoperta: la verità. Il mostro e il soldato che aveva ucciso erano uguali, ma non erano la stessa persona. Erano gemelli. Il vero mostro che cercavano, lo stupratore di Ebony, era morto anni prima in una cella. Aveva rubato i vestiti del fratello per pagare meno le bevute al bar e, qualche giorno dopo la violenza, era stato trovato ubriaco che pisciava in una fontana. Accusato di rissa e di oltraggio al pudore, stava scontando qualche mese in prigione quando un’ulteriore zuffa con i suoi compagni di cella lo aveva ammazzato. La conclusione era solo una: Matt e suo padre avevano girato per anni alla ricerca di un fantasma e, inoltre, avevano ucciso persone innocenti.
Dopo quella storia, il giovane Rick si era calmato del tutto e, come Green gli aveva consigliato, aveva iniziato a cercare giustizia e non vendetta. Anche se spesso, durante gli anni, si era accorto che il limite tra le due cose era estremamente sottile. Comunque Matt gli era stato di grande aiuto. Quel racconto lo aveva talmente segnato da essersi ripromesso che non avrebbe mai cercato vendetta su qualcuno. Ma la guerra aveva cambiato tutto. Cambiava tutto, costantemente. La guerra poteva trasformare il codardo in eroe e il coraggioso in pavido. E poteva trasformare il più mite degli uomini in una belva. Lo aveva visto, era stato testimone di alcune di quelle alterazioni nel corso degli anni. Pensava di esserne stato immune fino a quel momento. Evidentemente si sbagliava. Semplicemente non era ancora accaduto un fatto che lo avesse portato al limite.
Rick sospirò e si passò una mano sulla faccia, nascondendo lo zaino dal suo sguardo. Quello stesso zaino pieno di cibo che i soldati avevano regalato a Matt Green quando lo avevano accolto in caserma a sei anni, solo e con il padre appena arrestato. I soldati si erano presi cura di lui, gli avevano dato da mangiare, un tetto sopra la testa e una sorta di famiglia adottiva. Lo avevano preso come mascotte. E, quello stesso zaino che lui aveva ricevuto dai suoi salvatori, Matt lo aveva regalato a Castle, perché, nonostante non avesse subito un torto grave come lo era stato per la sua famiglia, non dimenticasse mai la differenza tra vendetta e giustizia.
Castle rimase immobile per qualche secondo, quindi prese un respiro profondo e si incamminò verso il salone. La prima cosa che vide fu il corpo minuto di Semir, lavato e bendato al meglio possibile, pallido e stremato, sdraiato sul tavolo da pranzo. In quel momento poté vedere chiaramente i segni che Stasch Hahn gli aveva lasciato addosso. Lanie doveva aver messo della crema o un lenitivo sui lividi e richiuso diversi tagli con dei punti, ma il contrasto tra le lacerazioni rosso scuro, il lividi violacei e la sua pelle chiara era terribile. Non vide però né le bruciature, poiché erano sulla schiena, né la parola ‘lügner’ che Kate gli aveva detto essere sul suo petto. Al suo posto c’era un pezzo di tela bianco rettangolare che gli andava quasi da una spalla all’altra. Di nuovo un’ondata di rabbia lo invase, ma questa volta si controllò.
Guardandosi attorno Rick, intravide la Gates in cucina insieme a Jenny e Lanie mente lavavano qualcosa nel lavandino. Kevin, Javier e Leandro erano sul divano e parlavano a bassa voce tra di loro per non disturbare il malato. Kate invece era seduta su una sedia accanto al tavolo e a Semir. Fissava il ragazzo con uno sguardo vuoto, come se non lo vedesse davvero, gli occhi appena lucidi. Si avvicinò a lei piano.
“Kate…” mormorò. Sapeva che Semir non si sarebbe svegliato se anche avesse parlato più forte, tanto era stremato, ma c’era troppo silenzio per alzare la voce. Lei sembrò riscuotersi. Sbatté più volte le palpebre, guardando l’adolescente, ma poi alzò gli occhi su di lui. Dopo un attimo di smarrimento, il suo sguardo divenne ferito e duro, poco propenso a parlare. Però c’era anche un fondo di tristezza. “Posso parlarti un momento?” chiese il colonnello a bassa voce. Beckett lo squadrò per lungo attimo. Quindi sospirò e annuì.
“Gli diamo noi un’occhiata.” disse subito Ryan, alzandosi dal divano insieme a Esposito e Leandro. Doveva aver notato lo scambio tra i due e poi lo sguardo incerto di Kate verso il ragazzo. Beckett allora gli lasciò il posto e attraversò il salone per sedersi nell’angolo di divano più lontano dai presenti. O forse il più lontano da lui. “Ah, Rick…” lo richiamò un momento Kevin. “Ho provato a contattare Roy, ma non risponde nessuno.” Castle annuì con un sospiro.
“Va bene, fammi parlare con Kate e poi ne parliamo.” rispose. Il maggiore fece un cenno affermativo con la testa e lo lasciò andare.
Prima che Beckett potesse dire qualcosa, Rick si abbassò sui talloni davanti a lei, posandole una mano sul ginocchio con la scusa di tenersi in equilibrio, ma più che altro per tornare ad avere un contatto con lei. Sentì su di sé gli occhi degli uomini poco più in là, ma non se ne curò.
“Mi pareva avessimo già chiarito tutto.” commentò la donna in tono gelido. “Non ho più niente da dir…”
“Mi dispiace.” sussurrò lui, interrompendola. Kate rimase immobile, confusa. Probabilmente non si aspettava un cambiamento così repentino nel suo comportamento. “Avevi ragione tu.” continuò piano Castle. “Io non sono il tipo d’uomo che cerca vendetta. Ho promesso a me stesso tanti anni fa di non farlo mai, ma quello che hanno fatto a Semir… è stato più forte di me.” mormorò con tono di scuse, abbassando lo sguardo sulle ginocchia di lei. “Sono stato sopraffatto dalla rabbia. Volevo bene a quel ragazzino e speravo a un futuro più roseo per lui. Ma è bastata qualche ora perché tutto cambiasse, perché rischiasse la vita. Probabilmente anche a causa mia e dei miei segreti… Io volevo fare qualcosa, volevo… volevo uccidere chi gli aveva fatto questo!” aggiunse con rancore, stringendo per un momento il ginocchio di Beckett. Si calmò subito però. “E sai cosa sarebbe successo se tu prima non mi avessi fermato?” continuò poi, alzando lo sguardo di nuovo su Kate con un mezzo sorriso triste. Si accorse che la donna lo stava guardando con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, quasi rapita dalle sue parole. “Lo avrei fatto.” disse semplicemente. Sentì Beckett irrigidirsi sotto le sue mani. “Sarei corso da chi sono quasi certo sia il responsabile, lo avrei torturato per farmi dire il mandante e poi probabilmente lo avrei ucciso. Ripensando a Semir, io lo avrei ucciso.” rimarcò l’ultima parola con una punta di rimorso e disprezzo nella sua stessa voce. “Come lui non era riuscito a fare con il ragazzo. E lo avrei ammazzato a sangue freddo, pieno di rabbia e odio.” Si fermò per un momento, mentre la terribile immagine di lui che sparava in testa a un inginocchiato carnefice gli si incollava in testa. Scosse il capo come per liberarsene. “E sai alla fine cosa mi sarebbe rimasto?” continuò poi, rialzando gli occhi su Kate. Lei negò appena la testa, senza parlare. “Niente.” dichiarò amaramente. Poi sospirò. “Io non uccido a sangue freddo, Kate. Non l’ho mai fatto. Mi sarei sentito male ad aver ammazzato un uomo inerme, per quanto quello fosse stato un seviziatore. L’ucciderlo non avrebbe ripulito la pelle e i ricordi di Semir da quei segni.” aggiunse amaramente, giungendo in quel momento a quell’amara verità. In realtà niente avrebbe mai cancellato quello che era accaduto al ragazzo.
Rick si fermò un momento per riprendere fiato e per scacciare il groppo che aveva in gola.
“Quindi, Kate, io ti chiedo di perdonarmi e insieme ti ringrazio.” disse alla fine con un piccolo sorriso, sorprendendola. “C’è una cosa però che devi sapere di me, questo sì: farei di tutto per le persone a cui sono legato. Questo significa che comunque darò la caccia a chiunque abbia compiuto o commissionato questa tortura. Non posso promettere che nessuno si farà male, ma posso garantirti che non torturerò né ucciderò, se non sfidato…” Beckett alzò un sopracciglio a quell’ultima affermazione.
“Se non sfidato?” ripeté in tono a metà tra il divertito e il rimprovero. Rick alzò appena le spalle.
“Beh, se mi puntano una pistola addosso, io rispondo.” replicò ovvio. “Comunque, chiunque sia stato finirà in una cella di due metri per tre al di sotto della mia centrale e con la chiave misteriosamente persa chissà dove, questo posso garantirtelo.” aggiunse poi con un mezzo sorriso. Kate annuì. La sua tranquillità fece ben sperare Castle. Così prese un respiro profondo e si fece coraggio prima di continuare. “Perciò ti prego…” disse poi tornando serio, appoggiando un ginocchio a terra e prendendole una mano. Beckett lo guardò perplessa e stupita. Rick stava andando a istinto. Non l’aveva pensata così e non avrebbe mai pensato di chiederglielo in quel momento, ma sentiva di doverlo fare. Voleva farlo. Non voleva altro. “Una volta che entrambi saremo usciti da tutto questo, una volta che tu sarai al sicuro e io ti avrò raggiunto per non lasciarti andare mai più... Una volta che saremo di nuovo insieme, mi vorrai sposare?” Non glielo aveva ancora mai chiesto. Non ufficialmente almeno. Ne avevano parlato, ma quello… quello rendeva le parole reali.
Kate lo guardò a bocca aperta per qualche secondo mentre gli occhi le diventavano umidi. Poi si morse il labbro inferiore e un piccolo sorriso le scappò da un angolo della bocca.
“Cerchi solo di distrarmi, non è vero?” borbottò, come se fosse seccata, anche se Rick capì subito che era tutta una messinscena. “In realtà speri che così io non resti più arrabbiata con te.”
“Come hai fatto a indovinare?” le domandò fintamente sbalordito, sgranando gli occhi. Beckett sbuffò divertita senza riuscire a trattenersi, scuotendo la testa. Quindi rialzò gli occhi su di lui. Erano ancora lucidi, ma parevano non essere più in collera con lui. O almeno, quello che vedeva Rick in quel momento era solo uno sguardo dolce verde-nocciola con una strana luce. Nonostante quello però, il colonnello si accorse di sudare freddo tanto era nervoso.
“Va bene.” disse alla fine Kate con un piccolo sorriso timido, mordendosi il labbro inferiore. “Voglio credere alle tue parole, quindi… quindi sì, Richard Castle. Ti aspetterò. E quando finalmente mi avrai raggiunta, ti sposerò.”
All’improvviso ci fu un breve singhiozzo che li fece voltare confusi. Non si erano nemmeno accorti che tutti i presenti, comprese Lanie, Jenny e la Gates che erano tornate chissà quando dalla cucina, li stavano fissando con un sorriso. Capirono che il piccolo singulto era arrivato dalla signora Ryan quando la videro con la mano davanti alla bocca e gli occhi lucidi.
“Scusate.” sussurrò. “Gli ormoni.” Castle ridacchiò e Kate scosse la testa divertita e imbarazzata, un po’ rossa in volto.
“Cavolo!” borbottò però all’improvviso il colonnello, tornando serio.
“Che succede?” domandò Beckett preoccupata.
“Non ho un anello!” mormorò lui mortificato. In quel momento però gli venne un’idea. “Hai le chiavi di casa?” le chiese. Lei lo guardò come se all’improvviso gli fossero cresciute due orecchie da coniglio.
“Uhm… certo.” rispose. Quindi tirò fuori il suo mazzo e glielo porse. Rick lo prese e subito iniziò a staccare tutte le chiavi attaccate. “Ehm… Castle?” disse Kate esitante. Il colonnello non aprì bocca, ma finì il suo lavoro e guardò soddisfatto l’anello di metallo che fino a pochi secondi prima fungeva da portachiavi.
“Mi spiace non avere nulla di meglio al momento.” si scusò Rick un po’ imbarazzato. “Però volevo darti qualcosa per… beh, per suggellare questo patto.” continuò con un mezzo sorriso. Beckett lo osservò stupita per qualche secondo e poi divertita. E alla fine gli tese la mano.
Castle sentì il suo cuore saltare un battito. Con attenzione, infilò l’anello di fortuna all’anulare di Kate. Essendo solo un filo di metallo arrotolato, il colonnello lo strinse a mano così da farlo aderire perfettamente al dito di lei senza che scivolasse. Quando concluse la sua operazione, alzò gli occhi su Beckett. Si stava guardando il dito con un misto di divertimento, stupore e dolcezza, mordendosi intanto il labbro inferiore per cercare di nascondere il sorriso che si stava creando sulla sua bocca.
“Questa è la mia promessa.” disse poi Rick in un sussurro, alzandosi e portando in piedi con sé la donna. “Sei il mio faro nell’oscurità, Kate Beckett. Non potrei più vivere senza di te, ormai.” aggiunse, appoggiando la fronte contro quella di lei e abbracciandola alla vita. Kate automaticamente portò le braccia dietro il suo collo. Il colonnello rimase per un momento immobile ad assaporare il calore del suo corpo e il suo profumo. Per un attimo, meno di venti minuti prima, aveva temuto che non avrebbe più avuto la possibilità di godere di quel contatto. “Ti amo, Kate.” mormorò alla fine. Beckett si morse di nuovo il labro inferiore, quindi alzò la testa per poterlo guardare negli occhi.
“Ti amo anch’io, Rick.” disse piano. Lui non poté fare a meno di iniziare a sorridere. Abbassò appena il capo e la baciò, con in sottofondo un coro di bassi commenti eccitati di cui neanche si accorsero. L’unica cosa che li fece staccare e voltare fu una voce un po’ rauca e lenta che non avrebbero pensato di risentire così presto.
“Chi è che si sposa?”

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Xiao! :)
Lo so, lo so, sono in ritardo di nuovo, ma vi prego di perdonarmi! Non ero per niente dell'uomore in questi giorni oppure avevo altre cose da fare quando ero in vena, quindi ho tirato per le lunghe, scusate...
Tornando alla storia, visto che Semir non è morto? :D Oddio, non sta da Dio, questo è vero, però insomma... è ancora tra noi, no? XD
Boh ok, sto dormendo in piedi quindi non so che altro dire... XD Spero vi sia piaciuto il capitolo! :)
A presto! :)
Lanie
ps: sapete quando nell'ultimo capitolo vi ho detto che mancavano 2/3 capitoli? Ehm... io e il mio senso della lunghezza-pagine-scrittura non andiamo al solito d'accordo, quindi aggiungetene almeno uno in più... XD

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Capitolo 25
*** L'interrogatorio ***


Cap.25 L’interrogatorio
 

Abbassò appena il capo e la baciò, con in sottofondo un coro di bassi commenti eccitati di cui neanche si accorsero. L’unica cosa che li fece staccare e voltare fu una voce un po’ rauca e lenta che non avrebbero pensato di risentire così presto.
“Chi è che si sposa?”
“Semir!!” esclamò Castle sorpreso, sorridendo felice. Si avvicinò subito all’adolescente insieme a Kate, mentre gli altri gli si affollavano intorno anche loro visibilmente colpiti dalla rapida ripresa del ragazzo.
“Restate un po’ indietro!” ordinò subito Lanie. “Lasciatelo respirare.”
“Come stai, ragazzino?” gli chiese Ryan con un sorriso sollevato. Semir fece una smorfia e si guardò intorno, spaesato.
“Dove sono?” domandò piano. “Mi fa male la testa…” borbottò poi, portandosi una mano alla fronte. Il colonnello fu felice di constatare che poteva di nuovo parlare, invece che biascicare parole come quando lo avevano raccolto davanti a casa sua. Evidentemente la mascella gli si era solo lussata o qualcosa di simile e Lanie doveva avergliela messa a posto.
“A casa di Kevin.” rispose Rick. “Sei arrivato alla mia porta, ma qui avresti trovato migliori cure.” Semir lo osservò stranito.
“Alla tua porta?” domandò ancora. “Perché sono tornato da te? Ti avevo già portato i documenti, giusto?” Il colonnello annuì piano, aggrottando le sopracciglia mentre un dubbio iniziava a farsi strada nella sua mente. Il ragazzo lo guardò perplesso, quindi alzò appena la testa per lanciare un’occhiata al suo corpo. “Che mi è successo??” chiese poi con tono un po’ stridulo, gli occhi spalancati. “Perché ho queste bende?” Gli altri si lanciarono sguardi preoccupati.
“Non ti ricordi niente?” chiese cauto Castle. Semir sbatté un paio di volte le palpebre e aggrottò le sopracciglia confuso.
“Cosa dovrei ricordare?” replicò alla fine. Ci fu un momento di silenzio.
“Forse è meglio così…” mormorò Jenny.
“Meglio così, cosa?” domandò allora Semir nervoso, iniziando ad agitarsi. “Che mi è successo??”
“Sem, tranquillo.” cercò di calmarlo Kevin posandogli una mano sulla spalla, ma l’effetto fu opposto.
“No, non sto tranquillo!” esclamò seccato e con una nota impaurita nella voce. “Che cosa mi è successo?
“Ti hanno torturato.” dichiarò alla fine Rick in tono piatto, anticipando gli altri. Tutti si zittirono. Ryan ed Esposito lo guardarono male, le donne lo osservarono semplicemente stupite. Castle ignorò tutti e tenne lo sguardo fisso su quello incredulo di Semir. Prima o poi avrebbero dovuto dirglielo lo stesso, o forse lo avrebbe capito da solo, in ogni caso era inutile nasconderglielo. Avrebbe scoperto la fonte delle sue cicatrici, ma forse, se fosse stato abbastanza fortunato, il ricordo del dolore non sarebbe mai riapparso.
A quelle parole il ragazzo era sbiancato e si era immobilizzato, la bocca semiaperta e il respiro corto. I suoi occhi, confusi e terrorizzati insieme, lo fissavano come se sperasse che a un certo punto gli dicesse che era tutto uno scherzo e che quello che aveva addosso era solo una tintura per rendere più reale il gioco. In cuor suo però sapeva che Castle stava dicendo la verità.
“Tor…” cercò di dire, ma la voce gli mancò. Rick annuì gravemente e Semir lasciò andare all’indietro il capo sul tavolo, lo sguardo fisso al soffitto. Era incredulo e spaventato. “Ma… come… perché?…” Castle lasciò la mano di Kate, che aveva tenuto stretta nella sua fino a quel momento, e si avvicinò di più all’adolescente. Kevin cercò di fermarlo stringendogli un braccio, ma il colonnello gli lanciò un’occhiata che intendeva dire ‘Fammi provare’. Ryan sapeva cosa voleva fare e non voleva far rivivere a Semir quelle ore terribili. Però sapeva che non c’era altro modo. Riluttante, alla fine il maggiore lo lasciò andare.
“Sem.” lo chiamò Rick piano. Il ragazzo sembrò non dar segni di aver sentito. Teneva ancora gli occhi incollati al soffitto, lo sguardo leggermente appannato, perso in chissà quali cupi pensieri. “Sem, so che è difficile, ma devi farmi questo favore… Devi sforzarti di ricordare.” Ci fu un mormorio di protesta generale, ma bastò un cenno di Castle e un’occhiata di Ryan a farlo tacere. Semir si voltò a guardarlo ancora più terrorizzato. “Non ti sto chiedendo di ricordare cosa ti hanno fatto.” cercò di tranquillizzarlo Rick. “Solo quello che è accaduto prima. Non riusciamo a rintracciare Montgomery e tu…”
“Montgomery…” sussurrò all’improvviso il ragazzo, aggrottando le sopracciglia, mentre il suo sguardo si spostava come alla ricerca di un ricordo importante. 
“Esatto Semir!” esclamò Castle con un piccolo sorriso incoraggiante. “Ricordi quando è stata l’ultima volta che lo hai visto?” L’adolescente rimase per un attimo in silenzio quindi scosse la testa in segno negativo.
“Io non… non ne sono certo…” disse piano, con la voce appena incrinata. Sapeva che c’era in gioco la vita di quello che per mesi era stato il suo tutore e il non riuscire a ricordare una cosa così normale, lui che aveva sempre avuto ottima memoria, doveva essere sconvolgente. Rick però non si perse d’animo e cercò di fare altrettanto con il ragazzo.
“Ok, tranquillo, andiamo per gradi.” disse cercando di calmare sé stesso e Semir. “Vuoi aiutarmi a trovare Roy?” aggiunse poi. Era una domanda scontata, sapeva che il ragazzo gli voleva bene, ma era ovvio che aveva paura. Non voleva forzarlo, sapeva che sarebbe stato peggio. L’adolescente rimase incerto per un secondo, spaventato evidentemente da quello che poteva riservargli la sua memoria, ma poi annuì. “Ok, allora partiamo da qualcosa di semplice, un poco più indietro nel tempo.” continuò Rick. “Ricordi quando sei venuto a portarmi i documenti? Ti ho regalato….”
“Lo zaino!” lo interruppe Semir, rammentando il particolare. Il colonnello annuì.
“Bene, ora pensa a cosa hai fatto dopo.” Il ragazzo si prese qualche secondo prima di rispondere.
“Sono tornato alla cantina.” disse alla fine, le sopracciglia aggrottate mentre ripensava a quei momenti. “Da Roy. Mi ha chiesto cosa avevi detto dei documenti e da dove saltasse fuori lo zaino. Poi io ho… ho messo a posto le provviste che mi avevate dato. E i soldi. Ho sistemato anche quelli. Dopo abbiamo… uhm… ah, ecco, sì, abbiamo fatto una partita a scacchi! Quindi abbiamo pranzato e dopo Montgomery è andato a dormire, perché la notte prima non ci era riuscito molto. Poi….” A quel punto Semir si fermò, incerto. “Io non… non ricordo…”
“Sforzati.” replicò Castle dolcemente, cercando di nascondere il tono urgente della voce. Avrebbe potuto peggiorare la situazione. “Prenditi il tempo che ti serve. Ripensa alle azioni che hai fatto, anche stupide, e…”
“Carta!” esclamò il ragazzo a un certo punto, interrompendolo. “Avevamo finito la carta per stampare!” continuò con tono sovraeccitato, come se il ricordare fosse lo scopo primario della sua vita e lo stesse portando a termine. “La prendo sempre da un tizio che accetta di vendermela solo quando è chiuso, per non avere problemi con le SS. Era primo novembre ed ero sicuro fosse chiuso, così sono uscito per andare da lui e…” Si bloccò, sbiancando.
“E ti hanno preso.” concluse per lui Rick in tono tetro.
“Sì…” sussurrò Semir.
“Ti ricordi che aspetto avevano?” chiese Castle, ma il ragazzo non lo udì.
“Non li ho sentiti… di solito li sento sempre arrivare…” balbettò l’adolescente quasi senza accorgersene con tono demoralizzato. “Io noto tutto, noto sempre chi mi guarda! Ma non li ho visti…”
“Sem?” provò ancora il colonnello, posandogli una mano sulla spalla e stringendo appena la presa. Lui lo guardò con aria leggermente vacua. “Non è colpa tua. E’ evidente che sono professionisti perché so quanto sei attento.” Il ragazzo annuì piano, anche se non troppo rassicurato. “Sem, ho bisogno che ti concentri ora. Ti ricordi qualcosa di chi ti ha prelevato? Quanti erano o come erano fatti? Un accento particolare magari?”
“Erano due credo…” rispose alla fine dopo qualche secondo di silenzio. “No, aspetta! Tre. Erano tre. Due mi hanno infilato un sacco in testa e legato le mani dietro la schiena. Poi mi hanno ficcato in un’auto dove c’era sicuramente un terzo che guidava perché gli ha detto di muoversi…”
“Li hai visti in faccia?” domandò ancora Rick, pressante. Semir scosse la testa.
“Ho visto a malapena i loro piedi… Indossavano abiti civili però, non da soldati o altro.” replicò. “Loro mi hanno… mi hanno portato in una specie di prigione, credo. In realtà ho visto una sola cella, quella in cui ero rinchiuso. Ricordo… ricordo che era buia e puzzava. Nessuna finestra, solo una lampadina. Mi ci hanno sbattuto dentro e dopo… non so, forse un’ora, è entrato un uomo. E lui…” Si bloccò senza fiato. Castle poteva quasi vedere i ricordi di quei terribili momenti sfilare davanti agli occhi sgranati del ragazzo.
“Non c’è bisogno che ricordi cosa sia successo.” cercò di dire il colonnello per distrarlo dai suoi pensieri. “Riesci a descrivermi l’uomo? Altro, basso, magro, biondo? Semir?” Ma era già troppo tardi. Lo aveva perso.
In quel momento Semir abbassò lentamente lo sguardo sul suo petto, verso il grosso cerotto bianco che aveva attaccato addosso. Senza spiccare parola, alzò una mano e se lo staccò bruscamente dalla pelle. Fu in quell’attimo che Rick vide ciò di cui gli aveva parlato Kate: la parola LÜGNER, bugiardo, era scritta in grandi lettere maiuscole color sangue sul suo petto. Con la coda dell’occhio, notò Esposito consegnare velocemente Leandro alla Gates. Lui non ci aveva pensato, ma Javi aveva fatto bene. Semir stava ricordando e molto probabilmente avrebbe raccontato ciò che aveva subito. Non era il caso di spaventare ulteriormente il bambino. Avrebbe voluto che fosse così semplice anche con l’adolescente steso davanti a lui.
Semir osservò per un momento quello sfregio, come ipnotizzato. Pareva aver perso la capacità di respirare e muoversi. Quindi lasciò andare la testa all’indietro e si riappoggiò stancamente alla coperta che gli faceva da cuscino, come se all’improvviso gli fossero mancate tutte le forze. Ci fu qualche istante di silenzio in cui nessuno si azzardò a parlare. Poi fu Semir stesso che ruppe quella quiete pesante.
Klein, Fuchs” mormorò piano, atono. “Prendetelo e portatelo qui.” continuò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Tutti lo guardarono confusi. “Deve capire qual è la punizione per i bambini che dicono bugie…” Castle ci mise qualche secondo prima di capire che Semir stava ricordando, con una lucidità terribile che fino a quel momento era stato fortunato a non avere, le esatte parole del suo carnefice. Nonostante il moto di orrore, per il colonnello fu una conferma in più della colpevolezza di Stasch Hahn: Burk Klein e Gorg Fuchs erano infatti i due tirapiedi che l’uomo si portava sempre dietro e che si diceva lo aiutassero anche nel suo ‘lavoro’. “Bugiardo…” sussurrò ancora Semir in tono amaro, lo sguardo fisso al soffitto, stavolta però con una luce rabbiosa negli occhi e i pugni serrati.
“Sem,” lo chiamò cauto Castle. “Cosa ti hanno chiesto?” Poté quasi vedere la paura che fino a qualche minuto prima attanagliava il ragazzo, trasformarsi completamente in rabbia. Il petto gli si abbassava e alzava velocemente, seguendo il ritmo del suo respiro, mentre la mascella gli si contraeva. Il sangue delle lettere scintillò leggermente alla luce del sole che proveniva dalle finestre.
“Chi sono.” sibilò qualche secondo dopo, rispondendo alla domanda di Rick. “Da dove vengo. Dove andavo. Dove abito. Per chi lavoro. Chi mi mantiene. Perché ero andato a casa del Colonnello Castle. Sempre le stesse domande…” continuò poi con una smorfia di rabbia e dolore.
“Cosa gli hai risposto?” chiese allora il colonnello, serio, le braccia incrociate davanti al petto. Semir aprì la bocca per rispondere, ma poi si bloccò, incerto. “Nessuno ti giudicherà.” lo rassicurò Castle in tono più dolce. “Con tutto quello che hai passato, mi stupisco che tu sia resistito tanto.”
“Gli ho…” iniziò il ragazzo a disagio, prima di prendere un respiro profondo. Quel semplice gesto però gli fece stringere gli occhi per il dolore. “Gli ho parlato di Montgomery.” disse alla fine in tono colpevole, tornando a guardare malinconicamente il soffitto. “All’inizio sono riuscito a tacere. Mi inventavo le cose, parlavo a sproposito… Sai, il mio solito.” aggiunse poi con un mezzo sorriso triste. “Ma poi… ho dovuto…”
“Non è colpa tua.” lo interruppe Ryan.
“Invece sì!” replicò stavolta Semir con rabbia, gli occhi lucidi. “Avrei dovuto accorgermi che ero seguito! Avrei dovuto resistere! E invece… invece…” La voce gli si indebolì fino a spegnersi in un breve singhiozzo, mentre due piccole lacrime gli scivolarono lungo il viso, andando a perdersi sotto le orecchie e tra i capelli.
“Semir, ascoltami.” disse Rick piano, posando di nuovo la mano sulla sua spalla. Il ragazzo girò la testa dall’altra parte perché non vedesse la sua debolezza, perché non lo vedesse piangere. “Sem.” lo richiamò dolcemente. Alla fine Semir tornò a voltarsi verso di lui, gli occhi ancora umidi. “Hai resistito due giorni nelle loro mani. Hai avuto un coraggio e una volontà enormi per non cedere già all’inizio. Non molti uomini potrebbero dire lo stesso, sai?” L’adolescente lo osservò a disagio, come se stesse parlando di un eroe e lui non si sentisse all’altezza del titolo. “Se qualcuno deve avere la colpa di tutto questo, allora me la prendo io.” Una serie di proteste iniziarono a levarsi dagli altri, ma Rick non lasciò il tempo a nessuno di parlare. “E’ stata mia l’idea di ingaggiare Roy come falsario. Mia l’idea di tenere nascoste persone creando una serie di bugie per giustificare la loro presenza. Sono io quello che Dreixk cerca di affondare e sono io l’informatore di Jones. Tutto questo è nato per colpa mia.” ammise Castle, abbassando per un momento lo sguardo. “Non avrei mai voluto che qualcuno si facesse male. Abbiamo rischiato tutti, e molto, ma ho sempre cercato di tenere al minimo i pericoli. Ero il bersaglio perfetto e voi eravate ben nascosti, non avevo mai pensato che qualcuno potesse scoprirvi. Ed è stata una mia disattenzione, un mio errore, e ora voglio porvi rimedio. Prima però, mi spiace chiedertelo,” continuò rivolto a Semir. “Ma devo sapere tutto quello che ti ricordi del luogo in cui eri e tutto quello che hai detto. Di nuovo, non lo faccio per incolparti di qualcosa, assolutamente, ma, ora che tu sei al sicuro, se voglio almeno tentare di salvare Roy allora mi serve il tuo aiuto.” Il ragazzo rimase a fissarlo confuso per qualche secondo. Quindi annuì piano e tornò a guardare il soffitto, stavolta concentrandosi su quei dolorosi ricordi. A Castle faceva male fisicamente dover chiedere all’adolescente un simile sforzo, ma ne aveva bisogno.
“Non lo so dov’ero.” disse alla fine Semir, mentre riordinava i pensieri. “Come ti ho detto, ricordo solo che era una specie di cella buia e puzzolente. L’unica luce che c’era era quella di una lampadina del soffitto, che però accendevano solo quando entravano. Erano sempre in tre. Uno faceva le domande, gli altri due per lo più eseguivano i suoi ordini. Klein e Fuchs, li ha chiamati così una volta. L’unica cosa che mi ricordo di loro è che erano grossi, alti e biondi…”
“Non importa.” commentò Rick piano. “Ho un’idea di chi siano. Continua, cosa gli hai detto?” Semir si morse il labbro inferiore mentre si sforzava di ricordare.
“All’inizio un sacco di cavolate.” rispose il ragazzo. “Loro domandavano e io rispondevo con una storia che avevamo già inventato con Montgomery. Speravo che se fossi stato abbastanza convincente mi avrebbero lasciato andare, ma non fu così…” Si fermò un momento prima di continuare. “Dopo il primo giro di domande insoddisfacenti, mi lasciarono un po’ nella mia cella, al buio. Poi tornarono dopo qualche ora. Mi legarono a una sedie e mi fecero le stesse domande, ma stavolta… stavolta aggiunsero i pugni.” continuò, agitandosi leggermente sulle coperte. Fece una piccola smorfia di dolore e Castle non poté fare a meno di abbassare lo sguardo sulla serie di grossi lividi violacei presenti sul suo corpo. “All’inizio gli diedi le stesse risposte di prima, ma dopo un po’ iniziai a cambiare versione. Non gli dissi comunque la verità, solo… semplicemente cambiavo un po’ la storia. Ma non gli bastò neppure quello.” disse amaramente. “A un certo punto il tizio che mi faceva le domande si accese una sigaretta e poi… poi me la spense sulla schiena. Non avevo mai provato tanto dolore…” Irrigidì le spalle mentre ci pensava, il tono sempre più tetro e rassegnato. “Lo fece almeno un altro paio di volte e io… io non resistetti più. Cominciai a dirgli qualcosa di vero. Gli dissi il mio nome, che ero turco di origine e ammisi che lavoravo per uno stampatore, anche se non pronunciai il suo nome. Quella notte mi lasciarono così, bruciato e livido. Il mattino dopo, o almeno io credo fosse il mattino, mi legarono di nuovo alla sedia. Mi picchiarono ancora, sui lividi del giorno prima, e poi ricominciarono a spegnere le sigarette. Non ce la feci. Ero… ero distrutto. Rivelai il nome di Roy.” aggiunse in un sussurro colpevole e disperato. “Gli dissi chi era, dove stava e cosa faceva. Confessai tutto, anche… anche di conoscerti, Colonnello.” continuò, alzando timoroso lo sguardo su Rick. “E’ stato allora che hanno smesso di farmi domande e picchiarmi, ma… ma poi l’uomo che mi faceva le domande ha… ha preso un coltello e…” Non riuscì a continuare, ma non dovette farlo. Le croci sulle sue guance e la scritta sul suo petto dicevano chiaramente ciò che aveva fatto Hahn. Rick digrignò per un momento la mascella e strinse i pugni, desiderando di avere quell’individuo tra le mani per strangolarlo. Poi però fece un respiro profondo e si calmò.
“Grazie Semir.” disse solo, sinceramente.
“Castle, gli ho detto dove è Roy! Dov’è la cantina!” esclamò poi all’improvviso Semir in urgenza, aggrappandosi a un braccio del colonnello. Era preoccupato ed era sbiancato, con la faccia di chi si è reso conto solo in quel momento di ciò che ha fatto. “Dopo che se ne sono andati, sono passate ore! Io sono scappato quando una delle pareti è saltata in aria. Sinceramene non ho idea di quando ho ritrovato lo zaino o come sia arrivato a casa tua, non me lo ricordo, ma sono certo che sia passato troppo tempo! Dovete trovarlo!”
“Andrò subito da lui.” lo rassicurò Castle, posando una mano sopra quella del ragazzo ancorata al suo braccio. “Tu ora pensa solo a riposare d’accordo?” Semir annuì piano, non troppo convinto, ma comunque allentò la presa su di lui, lasciandolo andare. “Kev, tu vieni con me?” chiese poi rivolto al maggiore. Ryan, che fino a quel momento era rimasto muto a fissare l’adolescente, mosse appena la testa in segno di affermazione.
“Dobbiamo chiamare in centrale.” disse solo, atono. “Avvisare che probabilmente non andremo del tutto oggi.”
“Va bene.” acconsentì il colonnello. “Vuoi che lo faccia io?”
“No!” esclamò Kevin all’improvviso, muovendosi per la prima volta dalla sua posizione immobile, sbattendo le palpebre come se si fosse appena svegliato da un sogno. “No, vado… vado io.” continuò con più calma, quindi si scusò e si voltò per andare a raggiungere il telefono.
“Possiamo entrare, ora?” chiese qualche secondo dopo la vocetta di Leandro dalla porta della cucina, dove era rimasto fino a quel momento con la Gates. Lanie si affrettò a coprire di nuovo con attenzione la scritta sul petto di Semir, quindi fece un cenno del capo al marito.
“Sì, ora puoi venire.” rispose Javier. Il piccolo non se lo fece ripetere due volte. Corse e andò a fiondarsi direttamente nelle braccia paterne, facendosi così prendere in braccio.
“Papà, posso parlare con lui ora?” chiese allora Leo, indicando Semir. Esposito lo guardò perplesso.
“Uhm… non lo so, piccolo, devi chiedere alla mamma.” rispose, voltandosi poi verso sua moglie e spostando alternativamente lo sguardo tra lei e il ragazzo sdraiato.
“Mamma, posso parlare con Semir?” domandò allora a Lanie con un piccolo broncio. “Per favore!” La signora Esposito però non si fece abbindolare facilmente e scosse la testa.
“Tesoro, mi spiace, ma sarebbe meglio lasciarlo un po’ riposare…”
“Non importa.” disse Semir, attirando l’attenzione dei tre. “Io non… non voglio addormentarmi.” mormorò poi un po’ imbarazzato. Castle sospettò che avesse paura di avere gli incubi e non gli si poteva dar torto. “Quindi se vuole parlarmi, a me va bene.” Leo sorrise felice e lo indicò di nuovo, come a dire che il ragazzo aveva parlato e gli aveva dato ragione.
“Va bene.” concesse Lanie con un sospiro, spostando una sedia per portarla più vicino a Semir. Il bambino subito ci saltò sopra e si sedette in ginocchio su di essa. “Però non stancarlo, mi raccomando.” lo avvisò la donna. Il figlio annuì subito, quindi si voltò curioso verso l’adolescente.
“Ciao!” esclamò con un piccolo sorriso. “Tu sei Semir, vero?” Il ragazzo lo guardò con aria stupita e divertita insieme per un momento.
“Sì.” rispose piano. “E tu chi sei?”
“Leandro.” replicò il bambino. “Ma mi chiamano anche Leo.”
“E’ un bel nome.” commentò Semir.
“Anche il tuo, anche se è strano!” disse divertito Leo con una piccola smorfia.
“Leandro!” lo richiamò la madre severamente. Il ragazzo però la prese bene e addirittura ridacchiò, cosa che fece rimanere piacevolmente stupiti i presenti. Non pensavano che avrebbero rivisto il sorriso di Semir, per quanto stanco e provato, così presto.
“Non c’è problema.” disse con un mezzo sorriso. Poi tornò a rivolgersi a Leandro. “E’ perché i miei genitori erano turchi di origini.” Leo annuì piano, la bocca semiaperta e gli occhi sgranati, come se quello che il ragazzo gli aveva appena rivelato fosse un importante segreto. Fu in quel momento che Castle si rese conto di una cosa. Erano mesi che gli unici contatti di Leandro erano loro ed era quindi da chissà quanto che non parlava con qualcuno che non fosse un adulto. E una situazione simile era per Semir. Lui era più grande e aveva qualche contatto esterno oltre a Montgomery, ma erano sempre conoscenze di poco valore o momentanee per non correre rischi. Probabilmente era la prima volta da anni che Sem si ritrovava a poter parlare con tranquillità con qualcuno, per di più bambino come Leo.
“Quindi venivano dalla… dalla… Turca?” domandò Leandro incerto. Semir ridacchiò, ma una fitta gli fece nascere istantaneamente una smorfia di dolore in volto. Il bambino subito si agitò preoccupato, ma Sem alzò una mano per dire che andava tutto bene.
Turchia.” lo corresse, leggermente ansante. “Ma non farmi ridere, piccolo, altrimenti io qui vedo le stelle.” aggiunse con un mezzo sorriso. Leo subito annuì.
“Scusa.” mormorò, abbassando lo sguardo.
“E di che?” replicò Semir. “Mica sei stato tu a farmi questo.” Leandro scosse con forza la testa in segno negativo. Ci fu qualche attimo di silenzio in cui il piccolo guardò tristemente i segni sul volto del ragazzo, i lividi sul suo corpo e il grosso cerotto al centro. Quindi l’adolescente si passò leggermente la lingua sulle labbra, come indeciso se dire qualcosa. Alla fine parlò. “Non è che posso farti una domanda?” Leo lo guardò stupito, ma annuì. “Non… non hai paura di me?”
“Perché dovrei avere paura?” chiese Leandro stupito. “Vuoi farmi male?”
“No!” esclamò ancora più sorpreso Semir. “In questo momento non so neanche se riesco ad alzarmi, figurarsi a fare altro! E poi io non faccio male ai bambini. Però, insomma… insomma, non è che sono proprio un bel vedere al momento! Anche se non riesco a vedermi la faccia, sento dolore. So cosa mi hanno fatto e so che non ho un bell’aspetto. Sono certo di fare una certa impressione e per niente buona, però tu…” Non seppe come continuare, ma Leo alzò appena le spalle.
“La mia mamma è un’infermiera bravissima.” gli rispose semplicemente, indicando Lanie e sorridendo alla madre. La signora Esposito replicò con un sorriso dolcissimo al figlio. “Lavorava in ospedale e io lì non potevo andare, ma tutti i nostri vicini venivano sempre da noi quando qualcuno si faceva male. Il mio papà inoltre è forte, così lui li prendeva in braccio e li portava fino in casa nostra perché mamma li curasse. Io vedevo le ferite delle persone e all’inizio mi facevano paura, ma mamma e papà non ne avevano mai, così sono diventato coraggioso anch’io come loro!” aggiunse con un sorriso orgoglioso. Javier fece un mezzo sorriso e scompigliò affettuosamente i capelli del bambino senza interromperlo. “Quindi io non ho paura. So che ci sono tante cattive persone nel mondo, ma io non so curare come la mamma e non sono forte come papà. Ed è per questo che voglio diventare con lo zio Rick.” Nel sentire quelle parole, Castle drizzò le orecchie curioso, mentre sentiva uno strano calore diffondersi nel petto. “Anch’io salverò le persone come fa lui, diventerò furbo come lui e nasconderò le persone anch’io per poi farle scappare al sicuro. Sarò un soldato buono, così potrò sempre proteggere i miei genitori e tutte le persone che ne avranno bisogno, ma insieme potrò anche arrestare i cattivi!” Leo si voltò con un grande sorriso verso Rick, mentre il colonnello lo guardava a bocca aperta. Come lui… Leo voleva diventare come lui
“Beh, quando vedrai la paga, ci penserai due volte prima di arruolarti.” scherzò Castle alla fine con un mezzo sorriso, nascondendo così un misto di orgoglio, felicità e preoccupazione. Leandro voleva diventare come lui… Sentì gli occhi diventare umidi e il respiro iniziare a uscirgli a fatica dal petto.
In quel momento la mano di Kate andò a intrecciarsi con la sua, mentre gli altri ridevano della sua battuta. Rick gliela strinse, senza riuscire a voltarsi a guardarla perché sapeva che lei ci avrebbe visto le lacrime. E comunque i suoi occhi in quel momento erano solo per Leandro. Solo per quel piccolo angelo cresciuto troppo in fretta a causa della guerra.
 
Un’ora più tardi Castle e Ryan stavano arrancando in mezzo alla neve sporca con davanti lo spettacolo di un cumulo di macerie. Prima di uscire avevano fatto qualche telefonata per capire se qualcuno colleghi conoscesse la base di Hahn. Alla terza chiamata un maggiore amico di Kevin gli aveva indicato una vecchia caserma in disuso usata come prigione temporanea nella parte sud della Berlino. Prima di raggiungerla, con un piccolo moto di speranza di erano diretti alla cantina dove abitavano Montgomery e Semir. Il posto era in piedi, lì i bombardamenti non erano arrivati, ma gli era bastata un’occhiata alla porta spalancata e rotta sui cardini per capire che il ragazzo aveva ragione. Era passato troppo tempo. Erano arrivati tardi.
Colonnello e maggiore avevano dato una rapida occhiata all’interno, dove avevano trovato tutto a soqquadro. Quanto dedussero dagli oggetti rotti e dalle piccole macchie di sangue a terra, era che doveva essere avvenuta una colluttazione piuttosto accesa. Non trovando altro però, Castle e Ryan avevano lasciato la piccola cantina, abbattuti e scoraggiati da ciò che avevano visto. Niente però fu peggio della visione della zona di Berlino sud quando la raggiunsero in auto. Quella era stata una delle aree bombardate.
Una volta arrivati al quartiere, erano stati costretti ad abbandonare l’auto per fare l’ultimo tratto a piedi tanto le strade erano intasate di detriti. L’incursione aerea della sera prima aveva raso al suolo diversi edifici, alcuni dei quali ancora fumavano leggermente. C’era un silenzio irreale nella via. In giro non c’era quasi nessuno se non qualche proprietario che era venuto a recuperare i pochi averi sopravvissuti e un uomo che girava con gli abiti stracciati e insanguinati e con aria vacua. Doveva essere sotto shock perché continuava a mormorare dei nomi senza sosta, camminando nella neve a piedi nudi e senza una meta precisa. Rick lo osservò allontanarsi con passo incerto in una strada laterale. Scosse la testa rassegnato e continuò la marcia con Ryan, alzandosi davanti al viso il bavero del cappotto contro il freddo. Non poteva fare più niente per lui.
Un’altra cosa che videro furono i morti: un uomo con la testa fracassata in un angolo, un braccio o una gamba che penzolavano inerti e insanguinati tra resti di muri, una donna con un pezzo di ferro che le usciva da una spalla. E poi scarpe, vasi, arnesi da cucina, specchi rotti, giocattoli. Il tutto nascosto da un lieve strato di polvere e cenere grigia che rendeva tutto indefinito, quasi come in sogno.
Castle e Ryan ci misero almeno mezz’ora prima di trovare il luogo che gli era stato indicato. L’edificio aveva la serietà di un caserma militare, ma mezza facciata era stata distrutta, lasciando intravedere diverse delle celle interne che erano state create per l’utilizzo a prigione. Con attenzione, si mossero tra i calcinacci per cercare Hahn e i suoi due torturatori, vivi o morti. Videro due celle spalancate e vuote, una aperta ma con un uomo morto all’interno. Guardando il corpo, capirono subito di essere nel posto giusto: sul petto aveva incisa la parola ‘DIEB’, ovvero ladro in tedesco. Trovarono altri morti all’interno, ma stranamente solo di prigionieri e nessun carceriere.
“Dici che sono stati così fortunati da scappare tutti?” domandò Kevin alla fine, dubbioso.
“Non credo.” replicò Rick, osservando a terra dei segni di trascinamento nella polvere depositata. “Sono passati quasi una notte e una mattinata dal bombardamento. Credo che per i soldati i soccorsi siano già arrivati.” C’erano dei servizi di pronto intervento e ambulanza che recuperavano prima i feriti dell’esercito e poi quelli civili. Se Hahn e i suoi accoliti erano ancora vivi, probabilmente si trovavano già in qualche ospedale. “Qual è l’ospedale militare più vicino?” chiese il colonnello, uscendo da quello scempio e riavviandosi con il maggiore alla macchina.
Kriegslazarett 47.” rispose Ryan, evitando nel frattempo quella che dall’odore pareva una pozza di vomito nella neve. “E’ a solo tre isolati da qui, se è ancora in piedi.”
Ripresero l’auto e raggiunsero l’ospedale indicato dal maggiore. Fortunatamente l’edificio e quelli intorno parevano essere stati risparmiati, così, a differenza della calma surreale della caserma distrutta, lì trovarono un grande viavai di gente, con urla e gemiti provenienti da ogni angolo. I medici dovevano avere molto da fare, ma poco tempo e poche risorse per farlo. Osservando la massa umana davanti all’entrata, Castle notò che la maggior parte erano civili che speravano di poter essere accolti e aiutati. Probabilmente buona parte dei soldati erano già stati ricoverati e quelli in migliori condizioni dovevano già essere stati mandati altrove.
Rick e Kevin sorpassarono il grosso gruppo di persone meno in pericolo di vita che stazionava gemente e sanguinante davanti all’entrata dell’ospedale, presidiata da quattro soldati armati che trattenevano la folla, e arrivarono con qualche fatica al banco accettazione interno. Un’infermiera sui quarant’anni, magra, con i capelli scuri ben raccolti in una crocchia sulla testa e gli occhialetti rettangolari li squadrò diffidente per un secondo prima di riportare lo sguardo sui fogli che aveva in mano.
“Se non avete niente, andatevene.” disse subito arcigna, prima che potessero parlare. “Qui c’è già troppo da fare.”
“Sto cercando tre soldati, uno in particolare.” rispose Castle cortesemente. “Magari lei può aiutarmi.” La donna a quel punto alzò gli occhi, sbuffando, ma poi lanciò un’occhiata più approfondita dal basso all’alto al colonnello.
“Tesoro, per un tipo come te vedo meglio una donna.” replicò lei con un mezzo sorriso che voleva essere seducente, appoggiandosi in parte sull’alto bancone tra di loro e tendendosi leggermente verso Castle. Nonostante la situazione, Rick sentì chiaramente Kevin alle sue spalle tentare di non scoppiare a ridere.
“Sono fidanzato.” tagliò corto il colonnello, schiarendosi leggermente la gola.
“Peccato.” commentò l’infermiera, tirandosi di nuovo indietro e aggiustandosi gli occhialetti. “Ma comunque non so se posso aiutarti, dolcezza. Qui è entrata un sacco di gente da stanotte, per lo più soldati, e non siamo ancora riusciti a registrarli tutti.”
“Controlli almeno se c’è uno dei tre.” insistette Castle. “Erano nello stesso posto, quindi se c’è né uno è probabile che ci saranno anche gli altri.” La donna lo osservò per un momento, mentre lui rimaneva immobile, serio, a far capire l’urgenza della situazione.
“Coraggio,” disse alla fine la donna con un sospiro. “Dimmi chi cerchi, tesoro, e vediamo che si può fare.” Il colonnello gli diede nomi e gradi e l’infermiera iniziò a controllare tra i vari fogli che aveva sparsi davanti. Solo in quel momento Rick lesse il cognome appuntato sulla camicia della donna: si chiamava Simon. Simon cercò pazientemente per diversi minuti, confrontando i nomi che le aveva dato con quelli che aveva segnato e quelli che ancora stavano continuando ad arrivare. Finalmente la donna alzò la testa per guardarlo. “Allora, ho trovato un Sottotenente Klein e un Capitano Hahn, ma nessun Fuchs.” disse. Castle cercò di tenere a freno l’eccitazione.
“Non importa, basterà Hahn. Dove possiamo trovarlo?”
“Stanza 213.” rispose lei. “Secondo piano, andate a destra nel corridoio, la quinta porta è la vostra.”
“Grazie, Simon.” disse Rick con un mezzo sorriso.
“Dolcezza, qui dice che è messo male.” lo fermò la donna prima che fuggissero, osservando i fogli che aveva in mano. “Non so se lo troverete sveglio.”
“Tentar non nuoce.” replicò Castle. “Nel caso torneremo per chiederti di indicarci la stanza di Klein.”
“Allora spero che il vostro amico resti incosciente!” gli urlò dietro l’infermiera per sovrastare il casino della hall, mentre colonnello e maggiore si allontanavano verso le scale. Salirono velocemente, ma al piano dovettero rallentare l’andatura. Alle pareti erano accostati decine di lettini con altrettanti infermi sopra. Quello doveva essere il reparto dei casi gravi perché Castle vide parecchie ustioni, materiali e ossa sporgenti dai corpi che non erano stati ancora curati e diversi moncherini fasciati che facevano intendere amputazioni. Il solito odore di disinfettante, così tipico degli ospedali, sembrava sparire sotto il puzzo di carne bruciata e sangue. L’unico rumore che si sentiva erano i gemiti dei pazienti lasciati nel corridoio con in sottofondo i passi veloci dei medici che tentavano di portare quanto più aiuto possibile.
Rick e Kevin faticarono un poco a raggiungere la porta che Simon gli indicato, ma alla fine ci arrivarono. Quando girarono la maniglia però, si accorsero subito che qualcosa non andava. C’erano solo cinque pazienti in una alquanto spaziosa camera e tutti sembravano profondamente addormentati. Non appena i due si chiusero la porta alle spalle, all’improvviso tutti i suoni e gli odori esterni vennero attenuati. Per un momento rimasero fermi poco oltre la soglia, incerti a causa di quel repentino cambiamento. Quindi si avvicinarono ai letti. Fu nel terzo che trovarono Hahn. Castle e Ryan lo avevano visto un paio di volte quindi non ebbero troppi problemi a riconoscerlo. Più o meno. Perché quando Simon aveva detto loro che era messo male, non avrebbero mai creduto fino a quel punto. Hahn doveva essere stato operato alla nuca perché metà testa era stata rasata a zero per mettere ben in evidenza una lacerazione lunga quanto una mano. I punti con cui era stata ricucita la ferita erano piuttosto disordinati a indicare la fretta con cui erano stati messi. Il nero del filo creava un inquietante contrasto con la pelle chiara, quasi pallida, dell’uomo. Se non fosse stato per quello sfregio, si sarebbe detto che il Colonnello Hahn godesse di ottima salute.
La porta si aprì in quel momento all’improvviso, facendo sobbalzare Castle e Ryan. Un medico piuttosto giovane con dei capelli biondissimi e un lungo camice bianco chiazzato di macchie nerastre e rosse li guardò sbalordito per un attimo. Aveva l’aria stanca di chi è stato in piedi tutta la notte.
“E voi che fate qui??” li apostrofò subito. “Chi siete?? Non potete restare qua dentro!”
“Si calmi!” ordinò perentorio Castle. A quel tono, il medico subito si calmò, ma li guardò comunque diffidente. “Siete voi che curate questi uomini?”
“Sono il dottor Graf.” rispose seccato l’uomo, annuendo e chiudendosi la porta alle spalle. “E ripeto, non potete stare qui.”
“Cos’hanno?” chiese allora Ryan, ignorando le sue parole e facendo un cenno con la testa verso i pazienti.
“Sono in coma.” replicò lapidario Graf. “Per alcuni è irreversibile.”
“Lui come è messo?” domandò allora inquieto Rick, indicando con una mano Hahn. Glielo chiese anche se aveva già il sospetto di cosa gli avrebbe risposto quel giovane medico. Graf osservò il paziente per qualche secondo, quindi riportò lo sguardo su di loro.
“Non posso darvi queste informazioni.” dichiarò il medico invece di rispondere alla domanda, incrociando le braccia al petto in segno di sfida e arroganza. Castle e Ryan si guardarono per un secondo trattenendo uno sbuffo. Non era la prima volta che avevano a che fare con giovani che si credevano al di sopra di tutti perché le raccomandazioni o le circostanze li avevano aiutati a fare carriera in fretta e senza ostacoli.
“Prima ci da queste informazioni e prima ce ne andiamo, dottor Graf.” replicò Kevin, cercando di trattenere l’irritazione. “Oppure preferisce andare a dire al suo superiore che non ha risposta a una esplicita domanda di un Colonnello dell’Esercito Tedesco?” aggiunse poi con un vago tono di minaccia, indicando Castle. A quelle parole la boria di Graf si sgonfiò e li guardò leggermente pallido. Solo in quel momento i suoi occhi andarono alle mostrine sulle divise dei due soldati e vide che erano un Colonnello e un Maggiore. Decisamente più in alto di lui che, come Rick notò lasciando un’occhiata alle spalline sul suo camice, era un Assistenzarzt, ovvero un Tenente Medico di diversi gradi inferiore a loro. Ryan doveva averlo notato subito quando Graf era entrato, mentre Castle, non aspettandosi quella resistenza, non vi aveva fatto caso.
Il dottore si mosse a disagio sul posto, si morse l’interno della guancia e alla fine sbuffò piano.
“Il Capitano Hahn è in coma irreversibile.” dichiarò alla fine, avvicinandosi al paziente e osservando il foglio clinico appeso al letto. “Emorragia cerebrale. Ha preso un gran brutto colpo alla testa che gli ha quasi sfondato il cranio. Abbiamo fatto il possibile per curarlo, ma, anche così, è alquanto improbabile che si sveglierà più. L’ematoma era troppo esteso e ha perso molto sangue prima di arrivare qui.” La mano di Castle si strinse a pugno per un momento. Avrebbe voluto picchiare Hahn, sfogarsi su di lui, ma a quanto pareva il destino lo aveva preceduto. In fondo era meglio così. Non sapeva se sarebbe riuscito a mantenere la promessa fatta a Kate. Sperò che Hahn avesse sofferto prima di cadere in coma.
“Visto, non era così difficile.” commentò Ryan al dottore, scuotendo la testa. Poi guardò ansioso verso Castle. Con Hahn fuori gioco e Fuchs introvabile, la loro unica possibilità per trovare il mandante della tortura di Semir restava Klein.
“Andiamo.” sbottò Rick a Kevin. Quindi lo precedette verso l’uscita della camera, passando davanti al dottor Graf senza più degnarlo di uno sguardo.
Colonnello e maggiore tornarono al piano terra dall’infermiera Simon per farsi dire la camera di Klein. Lei li accolse con un sorriso malizioso, sperando evidentemente di riprovarci con Castle. Lui però di nuovo, cercando di essere gentile, declinò l’offerta di una conoscenza più intima con la donna e si fece dire il numero della camera.
“Stanza 104, tesoro.” disse Simon con un piccolo sospiro di sconfitta. “Primo piano a sinistra. Seconda porta."
Una volta al piano, scoprirono che lo spettacolo che si erano trovati davanti al piano superiore era molto simile a quello che c’era lì. File di lettini o semplici brande con uomini fasciati e doloranti addossati alle pareti, puzzo di sangue e di chiuso e lamenti da ogni direzione. Dovevano aver dato fondo a ogni spazio disponibile per ospitare tutta quella gente. L’unica differenza con i feriti del piano superiore era che le ferite parevano essere meno gravi e urgenti.
Di nuovo Castle e Ryan si fecero strada nel caos per raggiungere la porta designata. Quando vi entrarono, stavolta non trovarono il silenzio angosciante della camera di Hahn, anzi c’era piuttosto movimento. Le dimensioni della stanza parevano le stesse, ma il numero di letti presenti era il doppio e altrettanti i pazienti. Di questi, tre o quattro dormivano, uno altro guardava fuori dalla piccola finestra con lo sguardo vacuo e la bocca semiaperta, immobile, mentre gli altri giocavano rumorosamente a carte su uno dei lettini. Non appena sentirono l’uscio aprirsi, gli svegli, tranne quello che guardava fuori, si voltarono a lanciargli un’occhiata, ma poi tornarono alle loro occupazioni.
“Sottotenente Klein?” chiamò con voce chiara Castle. Uno degli uomini che giocavano alzò una mano con aria svogliata senza smettere di guardare le carte. Rick aveva visto solo una volta Klein e solo di sfuggita. Probabilmente non lo avrebbe nemmeno riconosciuto se lo avesse cercato in quel momento perché aveva una vistosa e spessa benda intorno alla testa che gli copriva un occhio e un orecchio e inoltre doveva essersi rotto il naso perché era violaceo e aveva due blocchi laterali e diversi cerotti su di esso. Oltre a questo, aveva una gamba ingessata dal ginocchio al piede e una fasciatura che gli girava intorno ai fianchi, ben visibile poiché era senza maglia.
Senza tanti preamboli, il colonnello si avvicinò a lui, lo prese per i capelli con forza e lo tirò verso il lettino vuoto più lontano dagli altri. Klein urlò, strepitò e si agitò, ma nessuno venne in suo soccorso. Fuori dalla camera c’era un sacco di gente che urlava di dolore e i compagni con i quali stava giocando non sembravano troppo in vena di volersi mettere, acciaccati com’erano, contro un colonnello alto quasi due metri e un maggiore in perfetta forma fisica. Non appena Klein fu sbattuto sopra il lettino, i giocatori tornarono semplicemente a concentrarsi sulle carte.
“Chi diavolo siete??” urlò Klein, indietreggiando sul materasso per quanto possibile, visto che dietro di lui c’era il muro, e trascinandosi dietro la gamba ingessata. “Che cazzo volete da me??”
“Semir Gerkhan.” replicò Castle, ignorando le sue domande e piazzandosi davanti a lui con le braccia incrociate davanti al petto. “Ti ricordi di lui, stronzo?” Klein lo guardò per un momento confuso.
“Chi cazzo è questo Setir??” Ryan gli diede un colpo alla gamba ingessata e l’uomo si contorse subito su sé stesso, diventando rosso dal dolore.
Semir.” lo corresse gelidamente Castle. “E ti consiglio di ricordarti di lui piuttosto in fretta.”
“Vaffanculo, stronzo.” replicò Klein, sputando a terra ai piedi del colonnello. “Non io ho idea di chi cazzo stai parlando.” Rick si mosse ancora prima che lui finisse di parlare. Gli mise una mano sulla fasciatura al fianco, in corrispondenza della lieve macchia rossa che si era formata al di sopra, e spinse. L’uomo urlò di dolore.
“Ti consiglio di rivedere la tua risposta.” sussurrò Castle minaccioso, senza spostare la mano dalla ferita, per quanto Klein cercasse di divincolarsi, procurandosi così solo altro dolore. “Semir.” ripeté il colonnello. “Un ragazzo basso e sveglio che avete picchiato senza pietà negli ultimi due giorni, su cui vi siete divertiti a spegnere sigarette e che avete marchiato con un coltello.” La rabbia di Rick sprizzava da ogni parola che pronunciava. Klein dovette finalmente comprenderlo perché strinse le labbra e deglutì, nervoso, guardando alternativamente tra Castle e Kevin. Visto che ancora non sembrava deciso a parlare, il colonnello spinse di nuovo sulla ferita.
“Va bene! Va bene!” urlò l’uomo in risposta con una smorfia di dolore in faccia. Stava sudando e ansimava. Castle spostò la mano dal bendaggio e notò che la macchia rossa su di esso si era estesa. Poi incrociò di nuovo le braccia al petto per evitare di mettergli ancora le mani addosso. “Cazzo, che male…” mugugnò Klein, portandosi le mani alla ferita. Il colonnello non poté fare a meno di alzare un sopracciglio. Per essere uno che torturava per hobby, non aveva molta resistenza. Non che Rick volesse davvero seviziarlo, ma aveva dovuto fargli capire che non era lì per giocare o altrimenti non avrebbe parlato. “Non… non ricordavo si chiamasse Semir.” fu la prima cosa che disse Klein quando finalmente parlò. Castle sbuffò rabbioso e poco ci mancò che Ryan gli tirasse un altro colpo alla gamba.
“Ora lo sai.” disse gelido il colonnello. “Vai avanti. Cosa gli avete chiesto?” L’uomo si passò il dorso della mano sotto il naso rotto per ripulirlo dal muco e dal sudore, prendendo tempo. “Ti conviene parlare perché nessuno ti parerà il culo.” continuò Rick spazientito per incitarlo a muoversi. “Il tuo capo è in coma irreversibile e il tuo amichetto è scomparso.” Klein lo guardò sorpreso per un momento mentre assorbiva quelle parole. Quindi si morse l’interno della guancia e spostò lo sguardo al materasso. Non pareva triste. Sembrava indifferente alla sorte dei due compagni. Pareva semplicemente rassegnato. Ed era evidente che stava pensando a come gli conveniva comportarsi con loro.
“Ci hanno ordinato di prendere delle informazioni da lui.” disse alla fine in tono più mite, rialzando lo sguardo.
“Ordinato o pagato?” commentò ugualmente disgustato Ryan. “Voi non siete soldati, siete peggio dei mercenari.”
“Fa differenza adesso?” replicò Klein alzando le spalle.
“Non diventarci filosofo e vai avanti.” lo bloccò Rick irrequieto. “Cosa dovevate chiedergli? Chi ve l’ha ordinato?” L’uomo prese un respiro profondo.
“Io eseguivo gli ordini di Hahn.” disse, come sperando che loro capissero che era solo una pedina manovrata. Lo sguardo di odio dei due gli cancellò quella speranza e lo fece andare avanti. “Ci hanno detto che dovevamo tenere d’occhio un ragazzo che bazzicava spesso in una certa zona. Dovevamo seguirlo e, quando ci pareva il momento, dovevamo prenderlo e interrogarlo.”
“‘Quando ci pareva il momento’?” ripeté Castle per avere spiegazioni. Klein annuì.
“Ci avevano detto che prima o poi avrebbe fatto qualcosa di sbagliato o ci avrebbe portato dove viveva. A quel punto avremmo dovuto prenderlo.” spiegò. “Altrimenti avremmo aspettato un momento buono e gli avremmo estorto il suo indirizzo.”
“Quindi cos’è successo?” domandò Ryan.
“E’ successo che abbiamo iniziato a seguirlo, sperando ci portasse dove volevamo, ma continuavamo a perderlo proprio mentre tornava a casa.” rispose Klein. “Qualche giorno fa però Fuchs lo ha visto andare a casa di un uomo, un colonnello mi pare.” A quelle parole Rick e Kevin si scambiarono una breve occhiata. “Ci è sembrato strano così Hahn ha deciso che era il momento di agire. Ci siamo riuniti e abbiamo atteso che il ragazzo uscisse come al solito. A quel punto lo abbiamo preso.” disse l’uomo, alzando di nuovo le spalle come se quello fosse stato un semplice lavoretto finito bene.
“Come sapevate dove trovarlo?” chiese Castle.
“Girava sempre gli stessi posti.” rispose l’uomo, grattandosi intanto la testa. “Ma alla fine passava sempre per la stessa strada, dove poi lo perdevamo, quindi sapevamo che anche in quel caso sarebbe passato di lì.” Rick prese un respiro profondo prima di continuare. Avrebbe dovuto dire a Semir di cambiare strada ogni giorno, anche per andare negli stessi posti.
“Va bene, vai avanti.” lo spronò il colonnello. “Le domande?”
“Gli abbiamo chiesto chi era e dove abitava, ma lui non voleva parlare. C’è da dirlo, era piuttosto tenace quel piccoletto.” commentò Klein con una punta di ammirazione. “Molti crollano molto prima di quanto abbia fatto lui.” Castle contrasse la mascella e strinse i pugni. Non aveva bisogno di sentirsi dire quanto fosse forte Semir. Lui sapeva già che lo era, ma avrebbe voluto che mai dovesse dimostrarlo.
“Cos’altro avete chiesto?” domandò Kevin con una punta di gelo misto a sarcasmo nella voce. “E cosa vi ha risposto?” Klein li osservò per un momento con l’unico occhio buono, passando lo sguardo da maggiore a colonnello, quindi sospirò rassegnato.
“Alla fine ci ha detto il nome, dove abitava e con chi, che era quello che cercavamo.” continuò l’uomo. “Quindi abbiamo finito con lui e siamo andati all’indirizzo, dove abbiamo trovato una stamperia in una cantina e un uomo, un certo… uhm… Roy Monnosery, credo.”
“Roy Montgomery.” lo corresse Ryan con rabbia senza riuscire a fermarsi.
“Quello che è.” commentò Klein con uno sbuffo. Per quelle parole, Kevin quasi gli saltò al collo, se non ci fosse stata un’occhiata di Castle a bloccarlo.
“Continua.” ordinò Rick. “Che avete fatto dopo?”
“Abbiamo seguito gli ordini.” disse Klein tranquillo. Evidentemente non si era accorto di aver rischiato l’omicidio, troppo impegnato a controllarsi la macchia rossa presente sul bendaggio sul fianco. “Abbiamo interrogato il tipo, gli abbiamo chiesto cosa faceva e per chi. Alla fine dopo qualche ora ha confessato, come tutti. Anche se non tutto...” Castle drizzò le orecchie.
“Non tutto?” ripeté interessato. Klein annuì.
“Ha ammesso di lavorare nella stamperia da anni, che il ragazzo era una specie di valletto che gli comprava le cose fuori dalla cantina e che produceva falsi documenti su commissione.” spiegò. “Però non ci ha detto per conto di chi.” Castle e Ryan si scambiarono un’occhiata sorpresa. Roy li aveva coperti. Aveva detto a Hahn tutto tranne la cosa più importante, ovvero per chi lavorava. A costo della sua vita. “Quello non siamo riusciti a farglielo sputare.” continuò Klein. “Così il capo ha riferito solo quello che avevamo scoperto, ma avevamo una mezza idea che quei documenti fossero per il colonnello da cui il ragazzo era andato a casa.”
“Perché non ha confessato tutto?” chiese Ryan sovrappensiero e con tono triste, rivolto al colonnello. “Per quanto forte, si sarebbe risparmiato un sacco di dolore…”
“E’ quello che dico anche io.” commentò Klein, non capendo che il maggiore non stava parlando con lui. “Ma chissà, forse prima o poi avrebbe parlato se ne avesse avuto il tempo.” Un brutto presentimento prese il sopravvento su Rick, che sgranò gli occhi a quelle parole.
“Che intendi dire?” domandò con tono urgente e agitato. Klein lo guardò come fosse stupido.
“Beh, che se fosse sopravvissuto forse avrebbe detto qualcosa di più, ma è morto durante l’interrogatorio.” replicò l’uomo in tono ovvio. Castle si sentì mancare la terra sotto i piedi e per un momento dovette trovare appoggio sul lettino in cui era steso Klein. Morto. Se l’era aspettato, ma non… non così. Non come un pugno allo stomaco.
“Roy è… è morto?” mormorò Ryan incredulo. Pure lui aveva immaginato un finale simile per Montgomery, ma anche per lui era stato comunque uno shock. Klein li guardò con aria interrogativa con il suo unico occhio.
“Che fine ha fatto il suo corpo?” domandò atono il colonnello, quasi senza pensarci, ancora appoggiato con entrambe le mani al lettino, la testa bassa.
“Non ne ho idea.” rispose l’uomo. “Ma mi sembra di averlo visto portare via insieme a me quando sono arrivati i soccorsi. Era appena morto quando è iniziato il bombardamento.” O forse non era ancora morto e vi siete sbagliati voi, pensò Rick. Non nutriva in realtà troppe speranze in quella direzione. Era solo una vaga illusione e lo sapeva bene. Un uomo come Hahn, che lavorava con la morte, di certo sapeva distinguere un uomo vivo da un cadavere. Con un sospiro lento, Castle si appuntò mentalmente di tornare da Simon per chiedergli informazioni. Dopo tutto quello che Roy aveva fatto per loro, voleva almeno rimandare il corpo alla famiglia, se possibile.
“Chi è il mandate?” domandò alla fine Rick, cercando di riprendersi prima che Klein iniziasse a farsi troppe domande sulla loro reazione. “Chi vi ha detto di torturare per queste informazioni? Parla, lurido bastardo!” sibilò il colonnello premendo all’improvviso di nuovo sulla ferita al fianco dell’uomo, più forte di prima.
“UN SOLDATO!!” gridò Klein nel dolore, cercando di spostare la mano di Castle. “Un colonnello!” disse velocemente, ansante, le mani a coprire il fianco mentre Rick spostava la sua. “Porca puttana che dolore…” borbottò poi, raggomitolandosi su sé stesso per il male, rosso in viso.
“Che colonnello?” chiese ancora Rick nervoso. Per la seconda volta ebbe il timore di avere già un’idea della risposta di Klein.
“Non lo so, non l’ho mai visto!” dichiarò con voce rauca l’uomo, il tono appena piagnucolante. Quando vide Castle avvicinarsi di nuovo, si affrettò a continuare. “Ne ha parlato una volta Hahn, però!” esclamò con una nota spaventata nella voce. “Si chiamava… si chiamava… aspettate, aspettate!” gridò, vedendoli impazienti. Chiuse l’unico occhio fino a strizzarlo, come se servisse a farlo ricordare meglio. “Dreil!” strillò alla fine. “O… o forse Dreib? Dreis?” Castle strinse i pugni fino a sentirsi le unghie conficcarsi nella carne. Il suo pensiero si era rivelato purtroppo di nuovo esatto. Guardò Ryan che gli lanciò un’occhiata di orrore e rabbia.
“Dreixk.” sibilò Castle. “Colonnello Michael Dreixk.”

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Xiao! :)
Eh che dire... lo ammetto, qualcuno tra voi aveva già avuto sentore del ritorno del nostro "amico" Dreixk... XD E così si scopre che la tortura di Semir e la successiva tortura di Roy erano state organizzate da lui... A un carissimo prezzo però: Montgomery è morto. Ed è morto portandosi nella tomba il segreto di Castle.
Beh, in ogni caso, qui abbiamo quasi finito eh XD Ormai seriamente manca poco! Prepare yourself! ;D
A presto! :D <3
Lanie

ps: la mia traduzione italiano-tedesco al solto viene dai dizionari on-line perché di tedesco non so un'acca... XD perciò se voi tedescofili (Deb, dico a te! XD) vedete errori, correggetemi pure! :)

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Capitolo 26
*** Un attimo di speranza ***


Cap.26 Un attimo di speranza
 

“Dreil!” strillò alla fine. “O… o forse Dreib? Dreis?” Castle strinse i pugni fino a sentirsi le unghie conficcarsi nella carne. Il suo pensiero si era rivelato purtroppo di nuovo esatto. Guardò Ryan che gli lanciò un’occhiata di orrore e rabbia.
“Dreixk.” sibilò Castle. “Colonnello Michael Dreixk.”
 
“Cosa facciamo ora?” chiese nervoso Ryan mentre lui e Castle tornavano al piano terra. Per le scale, l’unico rumore che si sentiva era l’eco dei loro passi e la loro voce.
“Troviamo Montgomery.” replicò Rick senza fermarsi con tono duro. “Dopo penseremo a Dreixk.” Non riusciva ancora a credere che quell’essere avesse davvero organizzato una tale barbarie solo per incastrarlo. La ferita al volto gli tirava dolorosamente tanto più lui contraeva la mascella. Quasi si aspettò di sentire il sangue colargli lungo la guancia ancora una volta. Kevin rimase per qualche attimo in silenzio mentre seguiva il colonnello.
“E se… Castle, e se fosse troppo tard…” Il maggiore però non riuscì a finire perché il colonnello si voltò a metà di un gradino per fronteggiarlo, furioso, puntandogli con forza un dito contro il petto.
“Non è troppo tardi!” dichiarò con rabbia, la voce che rimbombava cupa nelle scale. “Roy è un uomo forte.” aggiunse poi in tono più controllato, voltandosi lentamente di nuovo per continuare a scendere. “Non può essere morto. Hahn ha sbagliato. Se lo hanno portato qui come sostiene Klein, allora è probabile che fosse ancora…”
“Rick.” lo chiamò piano Ryan. Castle si fermò di nuovo e alla fine si voltò. Kevin non si era mosso dal gradino su cui lo aveva lasciato. “Quanto ci credi davvero che Roy sia ancora vivo?” Il colonnello aprì la bocca di slancio per rispondere. Voleva farlo, voleva affermare che lui confidava con tutto sé stesso in Roy Montgomery e nella sua forza, ma… ma semplicemente non ci riuscì. Le parole non gli uscirono dalla gola. Rimasero dolorosamente bloccate all’altezza del pomo d’Adamo. Tutto quello che arrivò a fare fu richiudere la bocca e abbassare lo sguardo. Quindi voltò la testa e continuò a scendere le scale. Ryan non chiese altro. Riprese semplicemente a seguirlo con un sospiro rassegnato, il capo chino in avanti.
Qualche minuto dopo erano di nuovo davanti al banco accettazione dell’ospedale militare per parlare con Simon. Questa volta l’infermiera dovette notare dalle loro facce cupe che la loro visita non doveva essere andata come speravano perché non fece commenti di sorta indirizzati a Castle. Si limitò ad attendere che uno dei due dicesse qualcosa.
“Simon, so che sei piena di lavoro, ma devo chiederti un ultimo favore.” disse Rick serio alla fine. La donna lo osservò attenta da sopra gli occhialetti rettangolari.
“Se posso aiutarti, tesoro, non hai che da chiedere.” replicò con un mezzo sorriso in tono dolce. Non c’era malizia nelle sue parole e il tono spensierato che aveva usato in precedenza per flirtare con il colonnello era scomparso. Era un’infermiera, sapeva riconoscere la sofferenza in chi le stava davanti. Castle cercò di ricambiare il sorriso, ma lo sentì troppo tirato e alla fine lasciò perdere. Poi prese un respiro profondo.
“Cerchiamo un uomo che dovrebbe essere stato portato qui più o meno nello stesso periodo di Klein.” spiegò. “Si chiama Roy, ma probabilmente non c’è scritto da nessuna parte perché non faceva parte dell’esercito e non credo avesse documenti con sé. Però è particolare: scuro di pelle, piuttosto anziano, con i capelli brizzolati. Potrebbe avere diversi… diversi segni sul corpo.” Non era riuscito a dire ‘segni di torture’. “Sapresti dirci dove lo hanno portato?” Simon alzò gli occhi pensierosa, aggiustandosi in un gesto automatico gli occhiali sul naso.
“Generalmente ti direi di no, ma sono stati molto pochi gli uomini di colore a essere ospedalizzati stanotte.” rispose alla fine l’infermiera, riabbassando lo sguardo. “Fammi controllare.” Castle e Ryan si lanciarono un’occhiata nervosa e attesero impazienti che Simon potesse dargli notizie. Dopo qualche minuto la donna annuì a dei fogli che aveva in mano, quindi tornò a rivolgersi a loro. “Allora abbiamo avuto solo tre uomini dalla pelle scura, ma uno è poco più che un ragazzo e l’altro è un vecchio morto schiacciato dalla casa che gli è crollata addosso. Suppongo però non siano quelli i segni che cercate.”
“Infatti.” commentò per entrambi Ryan. Simon sospirò.
“Come temevo.” continuò. “Allora il vostro uomo è questo.” disse, posando due fogli e tenendone in mano un terzo. Rimase incerta per un attimo, ma alla fine gli consegnò il pezzo di carta in modo che potessero leggerlo. “Aveva diversi segni sul corpo che non sembravano causati da crolli o bombe.” dichiarò l’infermiera condensando il succo del documento. “Era già morto quando è arrivato qui.” Quelle poche parole ebbero il potere di freddare quell’ultimo residuo di speranza che i due soldati ancora provavano in corpo.
Castle e Ryan rimasero per un momento in un silenzio pesante. Parevano non sentire nulla del casino ospedaliero intorno a loro. C’erano solo loro due e quel pezzo di carta che decretava la fine di Roy Montgomery.
“Possiamo vederlo?” mormorò alla fine Rick, cercando di riprendersi un poco. Lanciò un’ultima occhiata al foglio clinico che confermava il decesso del paziente, quindi lo restituì a Simon con gesti lenti, quasi avesse a che fare più con una bomba che con della carta. L’infermiera lì osservò dubbiosa e un po’ preoccupata, ma alla fine annuì, quasi rassegnata.
“L’obitorio è al piano seminterrato.” disse solo in tono neutro. Rick la ringraziò con un cenno della testa e si avviò con passo pesante verso il luogo indicato, seguito da un tetro Ryan. Questa volta fu un supplizio scendere le scale. Ogni gradino li portava sempre più vicini al loro amico, all’uomo che era morto pur di non confessare i loro nomi.
Quando giunsero al seminterrato, i due soldati notarono subito che lo scenario era completamente diverso dai piani superiori. Lì nessuno andava di fretta. Nessuno gemeva o urlava. Nessuno parlava neppure. Quello era il regno dei morti. Lì c’era solo silenzio.
Alle pareti non era addossati lettini con pazienti vivi, come negli altri piani, ma solo uomini senza vita con un lenzuolo bianco sopra in attesa di essere controllati e schedati. In diversi casi i corpi erano già avvolti in pezze di tele con attaccato un cartellino con il nome del defunto, pronti per essere portati via dai becchini o dai parenti. I pochi medici che si aggiravano tra le brande a completare le cartelle cliniche lo facevano con aria stanca e provata. Lavoravano in silenzio, scambiandosi qualche parola solo se necessario. Alcuni parevano pallidi quanto il camice che indossavano. C’erano comunque anche i casi particolari. Ad esempio, mentre passavano da una delle corsie, Castle e Ryan sentirono uno dei dottori parlare a voce bassa con un morto, raccontandogli qualcosa, come se quello fosse ancora in grado di poterlo sentire.
Colonnello e maggiore dovettero oltrepassare due lunghi corridoi e una sala d’attesa straripante di corpi senza vita prima di poter arrivare all’ufficio principale. La porta aperta recava la scritta Gerichtsarzt, ovvero medico legale, in grandi lettere nere sul vetro semitrasparente.
Castle si fece avanti e bussò piano, osservando intanto la stanza. Più che un ufficio pareva un magazzino in cui erano state sistemate file di schedari alle pareti e una scrivania al centro. In quel momento il caos regnava sovrano: c’erano ovunque cartelline mediche giallognole e fogli poggiati o impilati ovunque. In un angolo, Rick notò una piccola pianta mezza morta, semi-sommersa da tutta quella carta, con le foglie verdognole ormai rinsecchite.
“Desiderate?” domandò un ometto piuttosto anziano con un camice lindo, ma un po’ stropicciato, spuntato in quel momento da dietro una pila di incartamenti. Portava un paio di occhiali tondi in bilico sulla punta del naso e i pochi capelli che gli rimanevano erano ormai quasi del tutto bianchi. Dalle occhiaie abbastanza marcate che aveva, era probabile che non avesse dormito niente quella notte. Rick si sentì un po’ a disagio sentendosi trapassare dagli occhi azzurro-ghiaccio del dottore mentre li studiava in un misto di curiosità, diffidenza e stanchezza.
“Sono il Colonnello Castle.” si presentò Rick. Poi indicò Kevin. “Lui è il Maggiore Ryan. Vorremmo chiederle di poter vedere un… un uomo.” La parola cadavere gli si era bloccata in gola, senza che potesse uscirne. Il medico alzò un sopracciglio, quindi posò la cartellina che aveva in mano, si pulì le mani impolverate sul camice e si avvicinò loro con qualche difficoltà, costretto a fare lo slalom tra le torri di carta a terra per raggiungerli.
“Sono il dottor Pfeiffer.” disse, allungando un braccio. “Spero possiate essere più precisi nella descrizione del vostro uomo, oppure penso che sarà una ricerca piuttosto lunga.” continuò con un mezzo sorriso, stringendo intanto loro la mano.
“Scuro di pelle, alto, anziano, capelli brizzolati e segni di maltrattamenti sul corpo.” replicò Castle. Pfeiffer lo guardò con curiosità, la testa leggermente inclinata di lato mentre il colonnello gli dava una descrizione sommaria di Roy. “Ci hanno detto che è stato portato qui.” Il medico ci pensò per un momento, grattandosi il mento leggermente ispido per la barba non fatta dal giorno prima, quindi annuì.
“Sì, credo di sapere chi è il vostro uomo.” disse alla fine. Lanciò un’occhiata dietro di sé ai fogli sparsi, come se fosse tentato di cercare qualcosa, ma alla fine rinunciò con un’alzata di spalle. “Faccio prima a portarvi da lui che a trovare la cartella esatta tra tutte queste dannate scartoffie.” aggiunse con uno sbuffo. “Venite.” continuò poi, facendo segno di seguirlo. Pfeiffer li scortò lungo un altro corridoio, parlando intanto di come era stata la vita lì in ospedale dopo l’attacco. I due soldati non facevano altro che ascoltare, non avendo nessuna voglia di mettersi a fare conversazione, ma pareva che il medico legale ne avesse abbastanza per chiacchiere per tutti e tre. Rick pensò che forse il lavorare così a lungo con i morti ti portava quasi inconsapevolmente a iniziare conversazioni con chiunque, che ti rispondesse o meno.
Dopo qualche minuto finalmente il dottore si fermò davanti a uno dei tanti corpi avvolti in un telo. Controllò il cartellino attaccato sopra di esso, annuì e si voltò verso di loro.
“Credo sia questo l’uomo che cercate.” disse. “E’ senza nome, ma è difficile sbagliare con la descrizione che mi avete fornito.” Rick e Kevin si lanciarono un’occhiata nervosa, poi tornarono a guardare Pfeiffer annuendo, come a dargli il permesso di aprire il sacco. Il medico allora si mise, con molta cura e attenzione, a spostare le bende a partire dalla sommità della testa. Lentamente scostò ogni lembo mentre Castle restava con il fiato sospeso. Per un attimo tornò un accenno di speranza. Per un attimo riuscì quasi a convincersi che il volto che avrebbero visto sarebbe stato quello di un altro uomo. Per un attimo si immaginò a sospirare sollevato per la grande paura provata. Per un attimo. Poi il dottore scostò l’ultimo telo e il volto sfigurato, ma ben riconoscibile, di Roy Montgomery tornò all’aria, sotto la fredda luce bianca della lampada sopra di lui.
La cosa peggiore fu aver provato quell’attimo di speranza. Perché gli si ritorse contro con una forza inaudita, come se quell’attimo fosse una cosa viva che impugnava un coltello. Poteva quasi sentire la lama conficcarsi all’altezza della bocca dello stomaco e iniziare a girare dentro la ferita. Chiuse gli occhi involontariamente, voltando la testa di lato. Dietro di sé sentì Kevin gemere piano.
“Non ce la faccio…” mormorò Ryan, prima di allontanarsi in fretta lungo il corridoio, non riuscendo a sopportare oltre la vista del loro amico così martoriato. Castle sentì i suoi passi veloci rimbombare leggermente per il corridoio. Quando calò di nuovo il silenzio, si costrinse a tornare a guardare Roy. Lentamente riaprì gli occhi e si voltò di nuovo. Sentiva la gola secca, aveva la mascella contratta e i pugni stretti lungo i fianchi. Sentiva lo sfregio al volto tirare e la spalla gli bruciava per quanto era teso. Il male però gli schiarì la mente. Si accorse in quel momento che aveva il respiro bloccato da quando il medico aveva scoperto Montgomery. Ricominciò a buttare fuori aria dai polmoni piano, cercando di calmare la rabbia e il dolore. Quindi iniziò a osservare quello che era stato un suo amico. Tutto quello che riusciva a vedere di lui erano la testa e le spalle nude, ma erano già sufficienti. La faccia era completamente segnata da tagli aperti rosso scuri. Una serie di tagli paralleli gli sfregiavano la fronte, quasi a seguire la linea delle rughe, e sulle guance. Notò in quel momento che non aveva più l’orecchio sinistro, tagliato di netto. Il naso era tumefatto, come anche un occhio, e il labbro inferiore spaccato. Inoltre doveva avere una spalla rotta perché c’era un osso che sporgeva ben più del normale sotto la pelle.
“Cosa… cosa gli hanno fatto?” si costrinse a domandare alla fine Castle al medico, gli occhi fissi sul cadavere del suo amico. Non voleva vedere cos’altro aveva dovuto subire Roy, ma aveva bisogno di saperlo. Era stanco di ripetere sempre la stessa domanda. Stanco di veder soffrire o morire le persone a cui teneva di più. La sua unica consolazione fu che non sarebbe durata a lungo. Ormai era certo, passaporti o meno avrebbe spedito tutti lontano dalla Germania per sottrarli non solo dalle grinfie dei nazisti, ma anche e soprattutto da quelle di Dreixk.
Pfeiffer sospirò brevemente prima di rispondere, prendendo tempo, togliendosi gli occhiali e pulendoli su un angolo del camice.
“A giudicare dai segni, questo pover’uomo ha subito parecchio in poco tempo.” disse alla fine il dottore con tono grave, risistemandosi gli occhiali sulla punta del naso. “Di solito non effettuiamo autopsie subito dopo i bombardamenti, ma mi erano parse troppo strane le sue ferite, diverse da quelle che mi sarei aspettato da una granata o un crollo. Così ho fatto un rapido controllo: direi che prima è stato picchiato, anche piuttosto brutalmente oserei dire e sistematicamente, poi gli hanno inferto tagli in tutto il corpo. Sul suo petto ho trovato anche…”
“Una scritta?” lo anticipò Castle atono, gli occhi ancora puntati sul volto sfigurato di Montgomery. Stupito, il dottor Pfeiffer ci mise qualche attimo prima di continuare.
“Sì… sì, una scritta.”affermò piano. “O meglio una parola.”
“Quale?” chiese Rick con un certo sforzo. Prima di rispondere, il medico scostò di più il lenzuolo fino a mostrare il petto di Roy. Quasi il colonnello avrebbe voluto che non lo facesse.
Fälscher.” rispose il dottore, indicando la parola incisa in grandi lettere maiuscole sullo sterno di Montgomery. Falsario. Castle strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne e contrasse la mascella quasi a farsi male mentre quelle lettere si marcavano a fuoco nella sua mente, allo stesso modo di quelle di Semir.
“Lo copra.” disse al medico, voltando di nuovo la testa per non guardare. “Per favore.” Pfeiffer lo fece senza chiedere nulla. Risistemò con attenzione i teli sopra il petto di Roy e poi intorno alla testa, nascondendolo di nuovo del tutto alla vista. Addio, amico mio... pensò Rick, osservando per l’ultima volta il cadavere avvolto di Montgomery. Grazie. Quindi si voltò lungo il corridoio per tornare da dove erano venuti. D’un tratto si sentì stanco e abbattuto. Sospirò e si passò una mano sulla faccia, non curandosi del taglio sulla guancia che protestò con forza quando lo sfregò.
“Immagino non fosse in quel modo che voleva trovare il suo amico.” commentò Pfeiffer, affiancandolo. L’unica risposta che ottenne fu un cenno negativo con la testa. Poco più in là trovarono Ryan accasciato a terra nell’unico punto libero del corridoio, le ginocchia sollevate e la testa fra le mani. Non stava piangendo né singhiozzando. Era semplicemente immobile a fissare il pavimento. Doveva essere distrutto. Anni prima aveva salvato la vita a Roy e la sua famiglia dai nazisti, ma stavolta non aveva potuto fare nulla. Roy aveva cancellato il debito che aveva con Kevin, ma Ryan non avrebbe mai potuto ringraziarlo per aver tenuto al sicuro il loro segreto e aver così salvato la sua di famiglia.
“La ringrazio, dottor Pfeiffer.” disse allora Castle, allungando una mano verso il medico. Quello gli fece un mezzo sorriso triste e gliela strinse.
“Dovevate tenere molto a lui.” constatò il dottore con tono paterno.
“Era una brava persona.” replicò solo il colonnello, girando per un momento lo sguardo indietro verso dove stava Roy. “Un buon amico. Ci ha aiutati molto e gli dobbiamo tanto. E non potremo mai ringraziarlo sul serio…” mormorò poi, mentre i suoi occhi si spostavano sul pavimento.
“Se nel suo cuore vuole davvero ringraziarlo, allora lo ha già fatto e lui lo sa.” ribatté Pfeiffer, posandogli una mano sul braccio. Rick aggrottò le sopracciglia e rialzò lo sguardo su di lui. C’era un sorriso dolce in quel viso contornato da rughe e gli occhi ora non sembravano più azzurro-ghiaccio, ma caldi e comprensivi. “Non si affligga per ciò che è stato. Se c’è una cosa che ho imparato dai miei pazienti, è che il passato non si può cambiare. Si può solamente andare avanti.” Castle lo osservò pensieroso e alla fine sospirò, facendogli un mezzo sorriso tirato.
“Posso chiederle ancora un favore, dottore?” domandò. Pfeiffer annuì. “Si può rimandare la salma alla famiglia?”
“Abitano a Berlino?” chiese in risposta l’uomo.
“No, fuori dalla Germania.” replicò Rick, scuotendo la testa. Non ricordava esattamente il nome del paese in cui si era stabilita la famiglia di Roy, poiché sapeva che negli anni avevano cambiato più volte città. Se non sbagliava, dovevano essere da qualche parte vicino Edmonton. “Probabilmente in Canada.” Il dottore ci pensò su per un momento, grattandosi il mento.
“Uhm, potrebbero esserci delle complicazioni, ma vedrò che posso fare.” disse alla fine. “Lei cerchi di darmi l’indirizzo a cui mandare la salma e io vedrò di fare il resto. Più di questo purtroppo non posso promettere nulla.” continuò con tono un po’ sconsolato.
“E’ abbastanza.” replicò Castle sinceramente. “Grazie mille, dottore.” Quindi gli strinse ancora una volta la mano e lo lasciò per andare a recuperare Ryan dallo stato di immobilità in cui era caduto.
 
“Cosa vogliamo fare ora?” domandò Kevin dopo più di dieci minuti di silenzio in auto. Era la prima volta che parlava da quando se ne era andato dal corpo di Roy. Sembrava si fosse appena risvegliato dallo stato di torpore in cui era caduto. “Dove stiamo andando?" aggiunse poi guardandosi in giro, non riconoscendo il posto.
“In centro.” rispose solo Castle, gli occhi fissi sulla strada. La via che stavano percorrendo era piena di buche e piuttosto dissestata a causa dei bombardamenti, così Rick doveva metterci il doppio dell’attenzione per evitare di incappare in qualcosa.
“In centro?” ripeté Ryan perplesso. “Che dobbiamo fare in centro?”
“Tu niente.” replicò il colonnello, svoltando per una stradina che sembrava meno danneggiata. “Io devo fare una visita a un vecchio amico.” continuò con un tono strano, stringendo con più forza il volante tra le mani. Kevin aggrottò le sopracciglia confuso. Quindi scosse piano la testa.
“Castle, ti prego, torniamo a casa.” disse stancamente. “Ho bisogno di rivedere mia moglie.”
“Ci andremo subito dopo.” ribatté Rick, poco impietosito dalla voce dell’amico. Era troppo concentrato sul suo obiettivo per pensarci. In quel momento sbucarono con l’auto in una strada più larga e ancora fortunatamente indenne. Era una via centrale molto frequentata e conosciuta e per questo alla fine il maggiore la riconobbe. Sgranò gli occhi e spalancò la bocca, come se all’improvviso fossero stati catapultati su Marte.
“Fermati!” dichiarò serio, quasi in tono di ordine. Castle non gli diede nemmeno uno sguardo.
“No.” replicò solo, lo sguardo puntato in avanti.
“Castle, fermati!” ripeté Ryan con più forza e rabbia. Rick aggrottò per un attimo le sopracciglia e gli lanciò un’occhiata. Sapeva che non sarebbe stato d’accordo, ma non credeva se la sarebbe presa tanto. Tornò a fissare la strada.
“No.” ripeté deciso.
“Rick, cazzo, fermati!” esclamò di nuovo il maggiore, slanciandosi in parte in avanti come per afferrare il volante. A Castle quasi prese un infarto, tanto che sterzò bruscamente e inchiodò qualche metro più avanti a lato della strada con un grande stridore di ruote. Ansante per lo spavento e furente, Rick si voltò verso Kevin.
“Mettiamo in chiaro una cosa.” sibilò, arrabbiato e stupito insieme da quel comportamento. “Io sono ancora un tuo superiore, Maggiore Ryan.” Odiava dover arrivare a quel punto, non lo aveva mai fatto e mai si sarebbe sognato di doverlo fare. “Non azzardarti mai più.”
“Rick, ti sto parlando da amico, non da soldato!” replicò invece Ryan, quasi supplicante. “Lascia stare Dreixk. Torniamo a casa, ti dico. Andare da quello stronzo non cambierà quello che è successo!”
“Cambierà per me, Ryan.” ribatté il colonnello con tono duro. “Inoltre tu resterai in auto. Voglio solo vedere la sua faccia del cazzo che…”
“Rick, ho promesso a Kate che non ti avrei permesso di cacciarti nei guai.” sbottò Kevin seccato, interrompendolo. “Andando a infilarti nella tana del lupo, non fai altro che il gioco di quel figlio di puttana. Davvero vuoi questo?” gli chiese poi retorico. “Tra due giorni tutti saranno al sicuro fuori da Berlino e allora…”
“Kev, se non metto subito in chiaro le cose con quel bastardo, potremmo non averli proprio questi due giorni.” lo bloccò questa volta Castle, serio. “Se Hahn è riuscito a parlare con lui prima del bombardamento, allora è probabile che sappia dei documenti e tutto. Dannazione, ce li ha messi lui alle costole! Voglio solo capire quanto effettivamente conosce prima di muovermi. Non voglio tentare di andare in aeroporto senza sapere quali rischi corrono Kate e gli altri!” In quel momento un colpo secco al suo finestrino li fece sobbalzare. Voltandosi, Rick vide un soldato piuttosto giovane con una mano pronta alla fondina che passava lo sguardo da lui a Ryan con aria diffidente. Il colonnello fece un respiro profondo e seccato, poi abbassò il finestrino per metà, facendo entrare un fiotto di aria gelida in auto.
“Ci sono problemi, soldato?” chiese, tentando di tenere a bada la voglia di spaccare qualcosa che aveva. L’uomo non rispose subito. Lanciando un’altra occhiata ai due dovette notare le loro mostrine, perché subito gli fece il saluto.
“Mi spiace averla disturbata, Colonnello.” disse il ragazzo. Probabilmente aveva a malapena vent’anni, pensò Castle. “Ma vi siete fermati bruscamente, così sono venuto a vedere se andava tutto bene.” Rick spostò lo sguardo davanti a sé e vide che effettivamente erano a solo una decina di metri dalla caserma di Dreixk, dove il suo compagno di guardiola all’ingresso, non molto più vecchio di lui, li stava osservando curioso.
“Riposo, soldato.” replicò Castle, cercando di nascondere l’irritazione. “Hai fatto il tuo dovere. Ora torna alla tua postazione. Qui va tutto bene, ho solo creduto di aver visto una buca.”
“Sì, signore!” rispose subito quello, prima di voltarsi e tornare velocemente da dove era venuto. Solo a quel punto il colonnello richiuse il finestrino.
“Voglio solo sapere se possiamo rischiare di spostarci in sicurezza.” disse alla fine stancamente riprendendo il discorso di prima, passandosi una mano tra i capelli e rompendo il silenzio teso che si era creato con l’amico. “Non mi metterò nei guai, lo giuro.” aggiunse poi con un mezzo sorriso, voltandosi a guardare Kevin. Ryan lo osservò scettico, un sopracciglio alzato. “Dico sul serio.” continuò Rick. “Anche io ho fatto la mia promessa a Kate e voglio essere certo di poter tornare per mantenerla.” Quelle parole tranquillizzarono un poco Kevin, che si accasciò sul sedile, lo sguardo fisso e assente puntato sul cruscotto.
“Muoviti.” replicò solo con una smorfia amara, come se avesse dovuto forzarsi per dirlo.
“Resta in auto.” gli ordinò Castle, aprendo la portiera. “Non ci vorrà molto.” Ryan sbuffò, borbottando qualcosa d’incomprensibile mentre lui usciva. Una volta fuori, Rick non riuscì a reprimere un brivido di freddo e si strinse di più nel cappotto, calcando meglio il cappello in testa. Il respiro si gli condensava davanti al volto in piccole nuvolette bianche che subito svanivano mentre si avviava verso la caserma comandata da Dreixk. In quel tratto la neve rimasta dall’ultima nevicata era stata ben spostata e fatta a mucchio in un angolo della strada. Il vento gelido però aveva un po’ modellato l’ammasso di neve sporca e la superficie nerastra pareva quasi levigata.
Castle si avviò a passo spedito dentro il portone con a guardia i due giovani soldati. Questi, vedendolo avvicinarsi, gli fecero subito il saluto e rimasero immobili finché lui non li ebbe sorpassati. Rispetto alla sua piccola e caotica centrale, quel posto sembrava qualcosa di completamente diverso. La sala d’ingresso era ampia, spaziosa ed estremamente vuota. Tutto ciò che poteva vedere era un tavolo con un soldato addetto alle informazioni dietro di esso. Non c’era nessuno che girava con carte da firmare in mano o che si fumava una sigaretta o un civile che chiedeva di essere ricevuto. Nemmeno una pianta in un angolo o un quadro alla parete. Lì non c’era niente. Ogni cosa aveva la sua utilità e la sua sistemazione, quindi il superfluo era stato eliminato. Castle pensò che si notava straordinariamente il tocco maniacale di Dreixk per l’ordine. Completamente spoglio e con le pareti bianche, il luogo parve a Rick ancora più freddo dell’esterno. Rabbrividì leggermente e si avvicinò al tavolo dall’altra parte della sala. Non si stupì di sentir rimbombare i propri passi sul pavimento in marmo.
Il soldato dall’altra parte della scrivania non alzò la testa finché Castle non fu a meno di due metri da lui. Quindi scattò in piedi quando lanciò un’occhiata ai suoi gradi.
“Colonnello!” esclamò, facendogli il saluto.
“Riposo.” replicò Rick con tono nervoso, fermandosi davanti al tavolo. “Dove trovo il Colonnello Dreixk?” continuò, andando subito al sodo. Il soldato si mosse leggermente a disagio, passando il peso da un piede all’altro.
“Mi spiace, Colonnello, ma mi è stato ordinato di…” cercò di dire, ma lui lo bloccò subito.
“Sergente,” disse Castle, dopo aver buttato un occhio alle mostrine dell’uomo. “Devo parlare immediatamente con Dreixk, per cui si muova a dirmi dove posso trovarlo. Sono certo che per me troverà un po’ di tempo…” commentò poi contraendo la mascella, rivolto più a sé stesso che al soldato. Il sergente rimase incerto ancora per qualche secondo quindi si morse l’interno della guancia.
“Devo chiamare…” iniziò cauto, ma Castle lo interruppe di nuovo.
“E allora chiami!” esclamò scocciato. “Non mi faccia perdere altro tempo!” L’uomo annuì subito e si risedette per chiamare velocemente un numero interno. Rick sbuffò, quindi si tolse con gesti secchi i guanti e li buttò con irritazione nel cappello, che pure si era levato. Sentì a metà il soldato che chiedeva di parlare con Dreixk o con un suo sottoposto. Stava osservando il luogo. Non aveva notato che, ai lati della sala, c’erano due nicchie rientranti nel muro con due scalinate laterali che davano ai piani superiori. Per ognuna delle scale c’erano due guardie armate. Inoltre con la mente Castle era già davanti a quello stronzo che era il suo parigrado. Aveva una voglia matta di prendere un coltello e iniziare a inciderlo sulla faccia, ma sapeva che non poterlo fare. La sua sarebbe rimasta solo una dolce fantasia. Ci pensò il sergente a riportarlo con i piedi per terra.
“Ehm… Colonnello, mi scusi, potrebbe dirmi il suo nome?” chiese il sergente nervoso.
“Castle.” rispose Rick. Quello annuì e lo comunicò dall’altra parte del telefono. Rimase in silenzio qualche secondo ad aspettare una risposta, quindi annuì, ringraziò e posò la cornetta.
“Il Colonnello può riceverla.” gli comunicò alla fine l’uomo con tono sollevato. Evidentemente non aveva voglia di subire un colonnello incazzato davanti alla scrivania per troppo tempo. Quindi gli indicò la scalinata sulla sinistra. “Salga quelle scale. Troverà il Colonnello Dreixk al quinto piano nella porta in fondo al corridoio.” Castle gli fece un cenno secco con il capo di ringraziamento, si mise sottobraccio il cappello con i guanti e si diresse spedito nella direzione indicata. Superò senza degnare di un’occhiata i due soldati di guardia, che gli fecero il saluto appena passò, e iniziò a salire le scale. Raggiunto finalmente il piano giusto, Rick si andò dritto al suo obiettivo. Come il piano terra, anche il quinto era silenzioso quasi in modo anormale. Da una delle poche porte aperte, vide un paio di soldati scambiarsi a bassa voce delle informazioni e un altro che batteva a macchina in silenzio. Le pareti dovevano essere state rese isolanti al suono perché perfino il rumore cadenzato e metallico della macchina da scrivere si perse subito oltrepassata la porta.
Dopo diversi metri, finalmente Castle raggiunse il capo del corridoio. Non c’era nome sulla porta, ma il legno scuro e levigato di questa, molto più pregiata delle altre semplicemente metalliche, faceva subito intendere che dall’altra parte doveva esserci un uomo importante. Il colonnello prese un respiro profondo, quindi, senza pensarci un secondo di più, girò la maniglia dorata e aprì la porta senza bussare né annunciare la propria presenza. La prima cosa che notò fu la grande vetrata che occupava mezza parete e che mostrava una buona fetta di Berlino. Un paesaggio che, se qualche tempo prima doveva essere stato bello, in quel momento invece mostrava solo la distruzione che aveva subito. Lo sguardo di Rick poi si posò sulla grande scrivania intagliata al centro della stanza dietro la quale era seduto Dreixk. Accanto a lui c’era un altro soldato, probabilmente il segretario o qualche galoppino, che stava parlando con il colonnello mostrandogli insieme dei fogli. L’uomo lo guardò scandalizzato e stupito per quell’entrata a sorpresa. Dreixk invece si limitò a lanciargli un’occhiata curiosa e annoiata insieme. Castle però poté vedere il lampo maligno che passò nei suoi occhi neri, come un ghigno represso.
“Colonnello Castle.” lo salutò con la sua solita voce melliflua, tornando a prestare attenzione al soldato in piedi vicino a lui. “Piacere di vederti.”
“Il piacere è solo tuo, Dreixk.” replicò Rick in tono duro.
“Fammi finire di sbrigare queste pratiche e arrivo.” continuò il colonnello, ma Castle non cedette.
“Mandalo via.” disse con il tono di un ordine. “Devo parlarti.”
“Castle, Castle...” cantilenò Dreixk con un mezzo sorriso di rimprovero, quasi stesse parlando a un bambino, ignorandolo e continuando a guardare le carte che gli aveva passato il soldato. “Non lo sai che la pazienza è la virtù dei forti?”
“Pensavo fosse la calma.” replicò Castle, seccato da quel giochino, avvicinandosi alla scrivania, scostando la sedia libera in malo modo e sbattendo il cappello con i guanti sopra il tavolo del colonnello. Quel gesto fece cadere un portapenne metallico con una decina tra calamai e stilografiche all’interno. Lo schianto improvviso fece sobbalzare il soldato in piedi mentre Dreixk si limitò a guardare l’oggetto con un sopracciglio alzato, quasi annoiato dalla cosa.
“A quanto pare tu non hai né l’una né l’altra al momento…” commentò Dreixk con un mezzo sospiro, recuperando una delle stilografiche cadute e firmando il primo dei fogli che aveva in mano. Quindi riconsegnò tutto al suo galoppino e gli ordinò di andarsene e non disturbarlo finché non chiamato. “Allora, Castle.” disse alla fine con di nuovo quel suo mezzo sorriso mellifluo, quando il soldato si fu richiuso la porta alle spalle. Si stese meglio sulla poltrona e posò i gomiti sui braccioli, giungendo poi le mani davanti al mento. “Qual buon vento ti porta qui?”
“Sei un pezzo di merda, Dreixk.” replicò Rick in un sibilo furioso, posando le mani sul tavolo e allungandosi verso di lui. “Sai benissimo perché sono qui.” L’altro lo osservò senza scomporsi. Così vicino, i suoi occhi volarono per un momento alla sfregio che aveva in faccia, esaminandolo quasi con curiosità. Poi alzò lo sguardo al soffitto come se cercasse di ricordare qualcosa, quindi scosse la testa.
“No, non so proprio di cosa parli.” ribatté sorridendo leggermente. Un sorriso maligno e falso. Castle gli lanciò uno sguardo omicida, stringendo i pugni fino a farsi diventare le nocche bianche pur di trattenersi dal prenderlo a botte.
“Il nome Hahn ti dice niente? Stasch Hahn?” domandò con tono gelido. A quel nome Dreixk sbatté le palpebre e mosse leggermente la testa. Quasi un movimento impercettibile dietro le mani, ma Rick lo colse comunque e per un attimo esultò internamente. Dreixk non sapeva che lui sapeva. “Credo tu abbia parlato solo con lui, ma forse hai avuto a che fare anche con i suoi scagnozzi Klein e Fuchs. Mettermeli alle costole non è stata una buona idea, te lo posso assicurare…”
“Non so di che parli.” lo interruppe Dreixk con fare annoiato, abbassando le mani da davanti il volto. “Non ti ho mai messo alle costole nessuno.”
“Chiariamoci, Dreixk.” disse Rick, abbassando la voce, che diventò in qualche modo più minacciosa. “Non sono venuto qui per ascoltare le tue cazzate. So che avevo qualcuno che mi spiava tempo fa, quando hai scoperto di Kate, e so che mi hai messo Hahn dietro negli ultimi tempi. Ah, tanto per la cronaca, è in coma irreversibile.” Un'altra notizia che fece mandare un leggero lampo agli occhi di Dreixk. Evidentemente non sapeva neppure quello. “Quindi non ti sarà più di nessun aiuto. Ha finito di torturare per te e per chiunque.”
“Se è in coma come dici, allora come fai a dire che gli ho detto di spiarti?” replicò Dreixk, ignorando le sue parole e alzando le sopracciglia incuriosito, non nascondendo un mezzo sorriso. Quella calma fece infuriare di più Castle.
“Hahn non era disponibile, ma il suo amichetto Klein era un gran chiacchierone.” rispose in un sibilo rabbioso, ripensando a quanto Klein stesso gli aveva raccontato. “Posso assicurartelo.” Dreixk rimase silenzioso per qualche momento quindi fece una faccia fintamente confusa e allargò le mani.
“E quindi?” disse, come se fosse un agnellino innocente portato al macello. “Io che c’entro?” Rick lo guardò a bocca aperta, incredulo. Cosa credeva? Di prenderlo in giro?
“Cosa centr…” ripeté attonito. Quindi scoppiò, adirato. “Cosa c’entri?? Brutto figlio di puttana hai fatto torturare un uomo e un adolescente per le tue sporche macchinazioni! Un adolescente, Dreixk! Poco più che un bambino! Riesci a rendertene conto??” L’unica risposta che ricevette fu un ghigno compiaciuto che spiazzò Castle.
“Allora ammetti di aver avuto a che fare con lo stampatore falsario e il suo piccolo amico bugiardo.” dichiarò Dreixk quasi in tono gongolante. Quelle parole bloccarono Rick per un secondo, il respiro mozzato in gola. Le immagini del petto martoriato di Semir con la scritta Lügner, bugiardo, e quello di Roy con la parola Fälscher, falsario, si fecero strada nella sua mente all’improvviso, vivide come se avesse avuto davanti i loro corpi in quel momento. Poteva quasi vederle sgorgare sangue. “Mi dispiace, Castle.” continuò Dreixk, ignaro dei pensieri del suo parigrado, troppo soddisfatto della reazione che aveva ricevuto e che confermava le sue idee e le informazioni in suo possesso. “Dovrò chiamare qualcuno per far venire a prendere te e i tuoi amichetti rifugiati in casa prima che…” Castle non sentì oltre. Semplicemente non ci vide più. In un attimo si ritrovò slanciato in avanti sopra il tavolo, il suo pugno contro il naso di Dreixk a una velocità e una forza che nemmeno lui si sarebbe creduto in grado di raggiungere. Vide il suo nemico volare giù dalla sedia quasi a rallentatore. Il sangue gli schizzò fuori dal naso e, visto lo schiocco secco che c’era stato, era probabile che fosse rotto. Quel gesto fece provare in un secondo a Rick un senso di euforia e liberazione, mentre l’adrenalina gli scorreva rapida nelle vene. Gli parve che Dreixk ci mettesse una vita a cadere, ma sapeva che in realtà non doveva essere passato più di un secondo. Alla fine il suo nemico cadde a terra con un tonfo sordo. 

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Xiao! :D
Ehm... che dire, io non sono Reb quindi non faccio resuscitare la gente... XD (non mi uccidete!!) Però dai, ammettetelo, quanti/e di voi aspettavano la scena finale? XD Comuqnue se proprio proprio state tanto tanto male ho una mezza minuscola cavolata che non c'entra nulla con Berlin e che magari vi tirerà su il morale, non so... L'ho scritta per Katia quando mi ha minacciato di morte dopo aver letto la scena di Roy XD Quindi, boh, ditemi voi...
Anyway, orami manca poco gente! Vedo la luce alla fine del tunnel! XD E' altamente probabile che il prossimo sia il penultimo capitolo! Giusto per informarvi... XD
Spero di aggiornare presto, ma purtroppo il tempo un po' c'è e un po' va a farsi benedire...
A presto! :D
Lanie

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Capitolo 27
*** Addio ***


Ehm... sapete quando vi ho detto che questo sarebbe stato il penultimo capitolo? Mentivo. Cioè, non apposta, eh! XD Solo che scrivendo mi sono accorta che quello che avevo in mente sarebbe venuto troppo lungo, così ho tagliato qui. Per la gioia di chi l'ultima volta mi ha scritto di "allungare il brodo". XD Direi che si è allungato da solo... XD Detto questo, buona lettura! :)
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Cap.27 Addio
 

 
In un attimo si ritrovò slanciato in avanti sopra il tavolo, il suo pugno contro il naso di Dreixk a una velocità e una forza che nemmeno lui si sarebbe creduto in grado di raggiungere. Vide il suo nemico volare giù dalla sedia quasi a rallentatore. Il sangue gli schizzò fuori dal naso e, visto lo schiocco secco che c’era stato, era probabile che fosse rotto. Quel gesto fece provare in un secondo a Rick un senso di euforia e liberazione, mentre l’adrenalina gli scorreva rapida nelle vene. Gli parve che Dreixk ci mettesse una vita a cadere, ma sapeva che in realtà non doveva essere passato più di un secondo. Alla fine il suo nemico cadde a terra con un tonfo sordo.
 
Castle aveva il fiatone, come avesse corso per cento chilometri, i nervi ancora all’erta e la pelle d’oca quando riappoggiò lentamente i piedi per terra. Ci vollero un paio di secondi prima che comprendesse davvero ciò che aveva fatto. Eppure non riuscì a provare rimorso.
D’un tratto gli arrivò un dolore lancinante alla mano che aveva colpito Dreixk e la scosse con una smorfia, cercando di attenuare il male. Allo stesso tempo, la spalla ferita gli ricordò con una fitta dolorosa che non avrebbe dovuto fare sforzi come quello di issarsi sul tavolo nello slancio del momento. Castle sbuffò seccato quindi, massaggiandosi le nocche e facendo ruotare lentamente la spalla per calmare il dolore, fece il giro della scrivania. Dreixk era riverso a terra su un fianco, seminascosto tra la sedia e il tavolo. Rick spostò la sedia con un calcio e si accovacciò sui talloni accanto al suo nemico. Un rivolo di sangue gli fluiva dal naso, che aveva preso una brutta piega e sembrava stesse iniziando a gonfiarsi. Inoltre sotto la testa il colonnello notò che stava cominciando ad allargarsi una piccola pozza rossa. Dreixk doveva aver battuto il capo nella caduta.
Castle osservò il suo parigrado per un lungo momento, immobile, pensando alle prossime mosse che avrebbe dovuto compiere. Si accorse che era la prima volta, da quando si era trovato Semir davanti casa quella mattina, che si ritrovava la mente così lucida. La prima cosa che notò fu che nessuno era ancora venuto a vedere cosa fosse successo. Salendo sulla scrivania, Rick aveva buttato giù diversi oggetti e anche la caduta di Dreixk a terra era stata piuttosto rumorosa. Evidentemente l’ufficio era insonorizzato come tutti quelli del piano. Il colonnello ringraziò mentalmente l’ossessione del suo parigrado per il silenzio e l’ordine. Fece per alzarsi, ma qualcosa lo trattenne a terra. Lanciò un’occhiata d’odio al suo nemico, ma alla fine, con una smorfia seccata, controllò che ci fossero ancora battito e respiro. Il lieve pulsare del polso e il leggero soffiare davanti alla bocca gli diedero la risposta che voleva. Dreixk era vivo.
Rick non seppe se esserne felice o meno, ma non si pose troppo il problema perché un altro spuntò subito fuori nella sua mente: Kate, gli Esposito, Semir, anche i Ryan e la Gates dovevano andarsene. Tutti. E il più velocemente possibile. Non aveva idea se Dreixk avesse comunicato le sue speculazioni a qualcuno, ma non poteva rischiare.
Castle si alzò e iniziò ad aprire velocemente i cassetti in cerca di qualcosa. Alla fine lo trovò: il paio di manette che tutti i soldati in città avevano in dotazione. Sapeva che Dreixk non sopportava il ritmico tintinnio del metallo, così le teneva sempre nel cassetto. Inoltre, secondo lui, un arresto non si addiceva a un Colonnello, poiché troppo da soldati semplici, quindi non le portava mai con sé. Era una delle sue manie che molti conoscevano. Rick le prese e se le infilò in tasca. A quel punto portò le mani sotto le ascelle di Dreixk, fece forza (con grande protesta della sua spalla) e tirò il corpo vicino al calorifero. Lì lo ammanettò per un polso a uno dei tubi sporgenti, lontano dalla scrivania e dalla porta. In quel modo, quando si sarebbe svegliato, non sarebbe stato in grado di arrivare al telefono per chiamare qualcuno e, se anche avesse urlato, con un po’ di fortuna ci avrebbero messo un po’ prima di sentirlo.
Solo a quel punto Castle recuperò cappello e guanti e si avviò alla porta. Prima di aprirla, si voltò un’ultima volta verso l’uomo, ancora sanguinante e ammanettato, steso a terra.
“Spero che questo sia il nostro ultimo incontro.” sussurrò con odio. “Addio, Dreixk.” aggiunse senza il minimo dispiacere. Quindi prese un respiro profondo e aprì di scatto la porta, chiudendosela poi alle spalle con un gesto rabbioso e scocciato. Giusto un po’ di recita in caso qualcuno dei sottoposti di Dreixk avesse avuto voglia di ficcare il naso dove non doveva. Fu una buona scelta perché, dopo qualche passo verso l’uscita, da una delle porte aperte Rick intravide lo stesso soldato che prima aveva trovato insieme a Dreixk in ufficio. Il galoppino, rosso in faccia, stava tentando di rendersi occupato, palesemente intento però a cercare di non farsi beccare a curiosare il tizio che era venuto a trovare il suo capo e che era appena uscito dall’ufficio sbattendo la porta. Nella furia di darsi un’aria impegnata, il soldato fece cadere una pila di fogli dalla scrivania dietro di lui.
Una volta alle scale, Castle scese il più velocemente possibile, cercando però insieme di non sembrare uno che scappa da una scena del crimine. Arrivato quasi al piano terra, si rinfilò guanti e cappello con gesti veloci. Notò che, nonostante si sentisse calmo, stava un po’ sudando freddo. Rick ebbe un piccolo moto di panico quando si ricordò che doveva passare davanti alle due guardie all’entrata delle scale. Con la testa bassa, e piazzandosi in faccia un’aria seccata, gli sfilò davanti senza degnarli di un’occhiata. Sia loro che il soldato alla scrivania nel salone che le guardie all’ingresso gli fecero il saluto scattando sull’attenti. Nessuno però lo fermò. Il colonnello si accorse che aveva smesso di respirare solo quando, tornando nel freddo della strada, notò l’assenza del respiro condensato in nuvolette davanti alla bocca.
Castle tornò velocemente alla macchina, non riuscendo a evitare di guardarsi intorno allarmato. Si aspettava da un momento all’altro di essere richiamato da uno dei soldati, ma nessuno aprì bocca contro di lui. Finalmente arrivò all’auto e vi si infilò dentro senza dire una parola. Ryan lo guardò sorpreso per quella foga e quel silenzio mentre Rick metteva in moto e ingranava la marcia con mosse rapide.
“Rick, tutto bene?” domandò ansioso, osservando l’amico immettersi in carreggiata senza quasi controllare se arrivassero altre vetture.
“No.” replicò il colonnello, mordendosi l’interno della guancia. Stava ancora pensando al piano che gli si era formato in testa mentre era nell’ufficio di Dreixk. E più ci rifletteva, più immaginava tutti i possibili problemi che avrebbero potuto incontrare.
“No?” ripeté Ryan con un tono a metà tra lo stridulo e il rassegnato. “Che hai fatto?” Castle rimase in silenzio per qualche secondo, svoltando a velocità piuttosto sostenuta in una strada laterale che non pareva aver subito i danni delle bombe degli ultimi mesi.
“Ho dato un pugno a Dreixk.” sbottò alla fine, senza guardare il maggiore. Poté quasi sentirlo avere un infarto.
“Tu… tu hai…” balbettò Kevin, guardandolo con gli occhi sgranati e la bocca spalancata. “Hai… CASTLE!!” esclamò poi un attimo dopo, furioso. “Dannazione, avevi promesso che non avresti fatto danni! Jenny e gli altri ora sono in pericolo! Dobbiamo tornare subito da loro!”
“No.” disse ancora una volta Rick, girando bruscamente in un’altra strada. Stavolta dovette rallentare perché era piena di buche e detriti. Ryan comunque non si interessò minimamente alla curva, che lo aveva sbattuto contro la portiera, né all’asfalto, troppo impegnato a fissare incredulo il colonnello.
“No…??” mormorò boccheggiante. “Castle, che cazzo stai dicendo?” domandò poi in tono gelido. Rick non lo aveva mai sentito parlare così, nemmeno nei suoi momenti peggiori, e ne rimase sorpreso e ferito. Una parte di lui però sapeva benissimo che se lo meritava e che avrebbe dovuto aspettarselo.
“Dreixk al momento è svenuto e ammanettato a un calorifero, ma nessuno, a parte me e te, per il momento lo sa.” spiegò il colonnello, continuando a tenere d’occhio la strada per non incrociare gli occhi azzurro ghiaccio di Kevin. “Sembra che tutta quella maledetta caserma sia insonorizzata, ma per noi è un vantaggio. Quando si sveglierà è probabile che ci vorrà un po’ prima qualcuno lo senta. Inoltre ha detto al suo segretario di non voler essere disturbato a meno che non chiami lui, quindi nessuno entrerà nel suo ufficio per un po’. E per quando succederà noi saremo già lontani.” Ryan rimase in silenzio per un momento, osservando intanto un punto indefinito del cruscotto, le sopracciglia aggrottate. Rick gli lanciò un’occhiata di soppiatto: il suo amico aveva un’aria terribilmente seria, come mai l’aveva visto fino a quel momento. Alla fine il maggiore prese un respiro profondo.
“Quanto forte l’hai dato quel pugno?” chiese in tono rassegnato. Castle non riuscì a sopprimere un mezzo sorriso.
“Diciamo che abbiamo una buona mezz’ora di vantaggio, se non di più.” rispose. Kevin sbuffò sarcastico.
“Fantastico.” borbottò. “Mezz’ora! Il tempo di prepararci un panino per il viaggio e andiamo. Oh, no aspetta, per quel momento Dreixk lo avremo già incollato alle chiappe!”
“Per quel momento saremo già lontani.” ripeté Rick paziente. Quindi fece un’altra brusca svolta e fermò la macchina.
“E ora dove siamo??” esclamò esasperato Ryan guardandosi intorno.
“Da Andris.” replicò il colonnello, indicando l’insegna con la scritta Autoschlosser, meccanico, pochi metri avanti a loro. Andris era l’uomo che teneva d’occhio i loro furgoni ‘speciali’. Gestiva un’autofficina e, grazie a lui, con gli anni avevano fatto alcune modifiche ai mezzi per poter trasportare persone e cose in sicurezza e di nascosto. Inoltre Andris teneva i furgoni sempre in tiro in caso fossero serviti per emergenze come quella.
Fu solo in quel momento che Kevin sembrò finalmente interessarsi al suo piano. Si voltò verso di lui lentamente, con aria curiosa e guardinga.
“Prendi il furgone grande.” continuò allora Castle. “E digli di aggiungere un piano in legno per un doppio fondo all’interno del cassone. Non serve qualcosa di bello, né perfetto, basta che sia della giusta dimensione e che si intoni con il resto. Se deve tagliarlo che lo faccia, ma ha cinque minuti in tutto. Digli anche di fare il pieno. Tra dieci minuti ti voglio davanti a casa tua, mi hai capito?” Ryan annuì piano.
“E tu?” chiese poi.
“Passo un secondo da casa e vado a dire agli altri di prendere le loro cose.” replicò con un mezzo sospiro. “Per quando arriverai saranno pronti.” Kevin rimase pensieroso per un momento, osservando l’esterno senza realmente vederlo.
“Vuoi andare in aeroporto anche se non sappiamo che voli ci siano, vero?” domandò alla fine retorico. Rick non rispose, ma abbassò lo sguardo colpevole. “Non ho idea di cosa ti abbia detto Dreixk, ma per meritarsi un pugno e costringerci ad accorciare così tanto i tempi deve essere stato qualcosa di grave…”
“Ha parlato con Hahn.” replicò il colonnello in tono duro, lo sguardo puntato verso l’autofficina poco lontano. “Sa cosa facevano Roy e Semir. E sa che i documenti erano per qualcuno che tenevamo nascosto in casa. Ha detto che li avrebbe fatti venire a prendere.” Ryan ispirò rumorosamente, scioccato. Avevano sperato entrambi di non arrivare mai a quel punto.
“Sai che non abbiamo nessuna garanzia sul volo?” chiese ancora il maggiore con tono cauto e nervoso. “Potrebbero finire dovunque o potrebbero anche non esserci più aerei per oggi! Siamo già nel primo pomeriggio, fra qualche ora farà buio e non decollerà più nulla con la notte…”
“Kev, per favore.” lo bloccò stancamente Rick, passandosi una mano sulla faccia prima di tornare a guardarlo. “Sai anche tu che al momento qualunque dovunque è un posto migliore di questo. Ma hai ragione, potrebbero non effettuare più voli. Per cui mentre aspetti che Andris sistemi il furgone, chiama l’aeroporto e fatti dire cos’hanno in programma, d’accordo?” Ryan annuì di nuovo. Quindi aprì la portiera dell’auto, ma si fermò un momento prima di uscire.
“Castle, potresti farmi un favore?” chiese seriamente. Rick lo guardò curioso. “Dì a mia moglie di preparare una valigia. Va via anche lei.”
“Jenny non vorrà andarsene senza di te…” commentò il colonnello mentre Kevin usciva.
“Lo so.” rispose il maggiore dalla portiera aperta. “Ma questa volta non le permetterò di non andare.”
“…quindi andrai anche tu.” concluse Castle, buttando fuori la frase prima che Ryan chiudesse lo sportello. Kevin bloccò la portiera a metà e lo guardò come fosse impazzito, immobile, la bocca aperta e le sopracciglia aggrottate. “Ascoltami, so che vorresti restare ad aiutarmi,” continuò Rick. “Ma ormai qui siamo compromessi. Inoltre tua moglie è incinta, non scortartelo…”
“Ci penso tutti i giorni.” ribatté Kevin duramente, ferito, come se Castle lo avesse appena accusato di non pensare alla condizione di Jenny. “Ma se andiamo noi, andiamo tutti. Tu compreso.” Il colonnello scosse la testa.
“Non è nella mia casa che, in caso di ricerche, troveranno una camera nascosta, Kev.” replicò con un mezzo sorriso triste. “Non hanno niente contro di me a parte la parola di Dreixk. Lui però è mio parigrado e tutti sanno che mi odia. Appena sarò sicuro che nessuno vi darà più noie, vi raggiungerò.”
“Ma…” tentò di obiettare Ryan, ma Rick non gliene diede la possibilità.
“Maggiore, questo è un ordine.” disse serio. Lo sguardo del suo amico era incredulo e risentito. “Ora vai da Andris e portami quel maledetto furgone a casa tua appena puoi.” Quindi Castle ingranò la marcia e partì, senza dare la possibilità a Kevin di ribattere, mentre la portiera sbatteva violentemente nel suo alloggiamento e si chiudeva da sola a causa dell’accelerazione.
 
Rick arrivò davanti alla sua abitazione in pochi minuti, ma quasi senza accorgersene. La sua testa era altrove, ancora alla semi-discussione avuta con Kevin. Non avrebbe voluto essere così duro, ma era l’unica cosa che aveva potuto fare per far sì che l’amico non ribattesse alla sua richiesta. Avevano già perso Roy e Semir aveva rischiato la vita. Se non si sbrigavano, sarebbero stati catturati tutti. Inoltre se Ryan fosse rimasto sarebbe stato bollato come traditore e fucilato. Non voleva neppure pensare a ciò che avrebbero potuto fare a Jenny, che non avrebbe mai accettato di partire senza il marito e sarebbe stata quindi indicata come complice del tradimento. No, non lo avrebbe permesso se avesse potuto impedirlo.
Castle parcheggiò malamente l’auto davanti al portone e uscì dall’auto con passi calmi, ma veloci, per non dare impressioni strane ai vicini. Una volta in casa però, perse ogni attenzione. Appena chiusa la porta alle spalle, come un fulmine si fiondò in camera per recuperare qualche abito di Kate. Per paura che qualcuno spiasse le loro chiamate, non tentò neppure di telefonare a casa di Ryan. Cercò solo di fare il più in fretta possibile.
Prese un borsone dall’armadio e con rapide mosse lo riempì dei primi capi di biancheria e vestiario di Beckett che si trovò davanti. Quindi chiuse il borsone e tornò veloce in salone, ma qui si bloccò. La mensola con i suoi personali trofei spiccava sulla parete davanti a lui. Ebbe un attimo di esitazione osservandoli, all’improvviso con un nodo allo stomaco, quasi come un cattivo presentimento. Rimase immobile ancora per un attimo. Poi riaprì il borsone e, uno a uno, infilò all’interno la piccola Torre Eiffel di sua madre, la medaglia di suo padre, la targa della famiglia che aveva salvato e il ciocco di legno con la scritta Always di Kate. Voleva che fosse Beckett a custodirli per lui. Nonostante la sua spavalderia con Kevin, non aveva idea di quando sarebbe partito. E in realtà non sapeva neppure se lo avrebbe mai fatto. Gli unici oggetti a cui teneva veramente erano quelli e sperò che Kate li avrebbe conservati per lui.
Quando Rick uscì di nuovo dalla porta d’ingresso, non dovevano essere passati più di tre minuti. Con calma, anche se il suo cuore batteva forte e sudava leggermente sotto i vestiti pesanti, tornò alla macchina, mise il borsone sul sedile passeggero e partì per casa di Ryan. Pochi minuti dopo stava già parcheggiando davanti l’abitazione, slittando leggermente per il ghiaccio. Saltò praticamente giù dall’auto, portandosi dietro anche il borsone, e si affrettò verso l’ingresso. Non era ancora salito sull’ultimo gradino che il suo dito aveva già raggiunto il campanello, premendolo in modo incessante e nervoso.
“Jenny!” esclamò con il volto attaccato alla porta, senza smettere di suonare nemmeno per un secondo. “Sono Castle, apri!” Qualche attimo dopo la porta si spalancò, mostrando una Jenny sorpresa e seccata.
“Rick, ma sei impazzito??” esclamò, lanciandogli un’occhiataccia. “Guarda che sono incinta, non sorda!” Rick si accorse all’improvviso di quanto fosse avanti la gravidanza di Jenny e di quanto il suo pancione fosse diventato visibilmente prominente anche da sotto il vestito. Fece un rapido conto mentale. Essendo a inizio gennaio, il piccolo doveva avere ormai quasi otto mesi. Quella constatazione lo fece star male, pensando a quanto stress avrebbe causato alla donna da lì a poco.
Ancora con quel pensiero in testa, il colonnello si infilò in casa senza dire una parola, chiudendo poi velocemente la porta dietro di sé.
“Dov’è Kevin??” domandò un attimo dopo Jenny preoccupata, non vedendo il marito dietro di lui.
“Tranquilla, sta bene. Arriverà tra poco.” rispose Castle, lasciando il borsone di lato al corridoio. Quindi precedette la signora Ryan in soggiorno, dove trovò Semir ancora steso sul tavolo da pranzo con vicino Leandro, Lanie e la Gates. Kate e Javier invece erano seduti sul divano. Appena lo vide entrare, Beckett scattò in piedi con un piccolo sorriso.
“Rick!” esclamò sollevata, ma l’aria ansiosa del colonnello la fece bloccare dall’andargli incontro.
“C’è stato un imprevisto.” disse Castle rivolto a tutti senza dare ulteriori spiegazioni. “Preparate una valigia e mettete dentro tutto quello che non potete lasciare qui. Dovete essere pronti tra cinque minuti.” A quella notizia Esposito scambiò uno sguardo d’intesa con la moglie, quindi Lanie corse nella loro stanza segreta seguita a ruota da Javier. Rick sapeva che ci avrebbero messo un attimo a prepararsi perché tutto quello che avevano era una grande valigia sempre pronta in caso di fuga rapida e improvvisa. Gli altri invece rimasero per un momento interdetti. Leandro aveva osservato perplesso e curioso i suoi genitori scappare nella stanzetta, mentre l’unica cosa che avevano fatto la signora Ryan e la cameriera era stato guardare il colonnello con aria confusa. “Jenny, Gates, anche voi.” li esortò Castle pazientemente. “Per Kate ho già messo qualcosa in un borsone e…”
“Anche io?” domandò allarmata Jenny.
“Tu e Kevin partite con gli altri.” rispose Rick, intuendo la sua angoscia. A quelle parole la donna annuì piano. Pareva avere un’aria appena sollevata. Come il colonnello aveva sospettato, Jenny aveva avuto paura di dover partire senza suo marito.
“Ma cosa…?” cercò allora di chiedere la signora Ryan, ma fu subito bloccata.
“Jen, ti prego.” la interruppe Castle con tono urgente, avvicinandosi a lei per posarle le mani sulle braccia. “Prima prepara qualcosa di tuo e di Kevin. Poi vi spiegherò.” La donna rimase per un momento immobile, ma poi annuì, si sciolse dalla sua presa e si avviò verso il piano di sopra dove c’era la camera sua e di Kevin. La Gates la seguì subito per aiutarla.
“Io non… non ho più niente…” mormorò Semir dal suo letto improvvisato, più a sé stesso che agli altri, gli occhi sgranati e fissi al soffitto. Il suo tono era distrutto, come se si fosse reso conto davvero solo in quel momento che con Roy aveva perso tutto ciò che gli era rimasto.
“Ti presto io qualcosa!” gli disse subito Leandro con tutta la sua innocenza di bambino. “Non ti preoccupare. Possiamo far finta di essere fratelli, così posso darti la mia roba. La mamma non si arrabbierà se glielo chiedo.” Sem gli lanciò uno sguardo insieme perplesso e ancora triste, ma alla fine non riuscì a reprimere un piccolo sorriso.
“Mi piacerebbe essere tuo fratello.” rispose piano, alzando faticosamente una mano fasciata per carezzargli i capelli ricci. “Ma non credo che i tuoi vestiti mi starebbero, piccolo.” Leo ci pensò su un momento, mordendosi il labbro inferiore.
“Non possiamo ingrandirli?” chiese allora, dispiaciuto di non poter essere d’aiuto come sperava.
“Rick, posso parlarti un momento?” domandò all’improvviso Kate a Castle con voce bassa e nervosa, distraendolo dallo scambio tra Leandro e Semir. Lui annuì e Beckett lo tirò velocemente per un braccio verso il corridoio d’entrata, lontano dalle orecchie dei due in salone. “Che è successo?” chiese quindi con tono preoccupato, stringendogli la mano sul braccio. “Perché all’improvviso questa fretta? Dovevamo partire il 5, tra due giorni…”
“Ho sbagliato.” confessò il colonnello in un sussurro, senza riuscire a guardarla negli occhi. Kate aggrottò le sopracciglia senza capire. “Siamo andati a cercare Roy e l’abbiamo trovato in un ospedale, morto.” spiegò Rick atono, cercando forse di farle capire le ragioni del suo gesto di rabbia contro Dreixk che ancora non le aveva rivelato. La donna si portò automaticamente una mano davanti alla bocca a quella notizia, gli occhi sgranati.
“Mi dispiace…” mormorò, avvicinandosi di un passo a lui. Castle però continuò come se non avesse sentito.
“Sempre nell’ospedale abbiamo trovato Hahn in coma, Fuchs sparito e Klein invece vivo e sveglio. Gli abbiamo parlato e ci ha confessato che erano loro i torturatori e che il suo capo aveva già probabilmente parlato con Dreixk.” Rick osservò Kate rabbrividire leggermente a quel nome. Avrebbe voluto abbracciarla e confortarla, ma come poteva farlo e poi dirle che era a causa sua che dovevano accelerare di due giorni i tempi? “Stavamo tornando, quando sono voluto passare da Dreixk.” ammise alla fine il colonnello dopo un lungo sospiro. “So che non avrei dovuto farlo, ma…” Non riuscì a continuare la frase. Beckett comunque gli fece cenno di andare avanti, inquieta per ciò che sarebbe seguito. “Sono andato a parlargli.” continuò allora Castle. In quel momento, senza riuscire a trattenersi, l’atonalità nella sua voce sparì, sostituita da una smorfia rabbiosa. Il taglio in faccia gli tirò la pelle mentre contraeva la mascella. “Mi ha praticamente confessato di aver fatto torturare Semir e Roy e, oltre questo, mi ha detto che presto avrebbe mandato qualcuno per venire a prendervi. Gli serviva solo un’ultima prova che forse sperava di trovare nelle nostre case, ma il fatto che io mi sia presentato da lui accusandolo delle torture gli ha sicuramente dato le risposte che cercava.” sputò fuori nervoso, incolpando sé stesso per quella leggerezza. “Così gli ho…” Si bloccò per un momento, la rabbia che si sgonfiava per far posto al timore della reazione di Kate. La guardò incerto. La faccia di lei era sbalordita e inorridita. Alla fine il colonnello prese un respiro profondo e si decise a continuare. “Gli ho tirato un pugno.” concluse teso. Beckett spalancò ancora di più la bocca e aggrottò le sopracciglia. Quindi, inaspettatamente, un piccolo sorriso le spuntò sulle labbra.
“Gli hai tirato un pugno?” domandò, incredula e divertita insieme nonostante la situazione. “Beh, spero che tu lo abbia steso per bene.” Fu solo in quel momento che Rick si concesse di sorridere a sua volta, un po’ più sollevato.
“Ora capisco perché ti amo.” commentò a mezza voce, prima di saltare quell’ultimo passo tra di loro, abbracciarla per la vita e baciarla. Aveva bisogno di quel bacio. La sua testa era divisa tra l’immagine di Roy all’obitorio e il futuro incerto che li attendeva. Mille pensieri gli affollavano la mente e altrettante emozioni gli offuscavano la lucidità. Quell’attimo rubato, quel bacio, era tutto ciò che gli serviva. Gli serviva per rimettere tutto nella giusta prospettiva e nel giusto ordine. Gli serviva per poter condurre i suoi amici fuori da quella città. Gli serviva per poter dire addio a Kate.
Quando si staccarono, rimasero per un momento con le fronti unite ad assaporare quegli ultimi attimi insieme. Il profumo e il calore di lei lo confortavano e ritempravano come fossero una bevanda magica. Si accorse solo in quel momento che, fino a quell’istante, non aveva creduto davvero che ce l’avrebbe fatta a farli fuggire. Ora era certo che ci sarebbe riuscito. Li avrebbe salvati.
“Ti ho preso alcune cose da casa.” disse alla fine Rick, scostandosi da Beckett, quando sentì Lanie e Javier rientrare in salone. Quindi si girò per prendere il borsone che le aveva preparato, lo aprì e le mostrò il contenuto. “Spero ti vadano bene. Ah, guarda che ho aggiunto anche alcune… alcune cose.” continuò poi con tono serio anche se un po’ incerto. Kate guardò dentro il borsone curiosa, spostando i vestiti per vedere di cosa parlasse. A un certo punto si bloccò quando la punta metallica della Torre Eiffel spuntò tra due abiti. In un attimo portò alla luce anche il legno, la targa dorata e la medaglia.
“Rick…?” mormorò Kate con un tono stupito che era a metà una domanda. “Cosa…?”
“Vorrei che li tenessi tu.” la interruppe Castle ansioso. “Per me.”
“Ma questi sono…” cercò di dire Beckett, ma lui la fermò di nuovo.
“So cosa sono.” disse dolcemente, lasciando un manico del borsone per andare a carezzarle una guancia. “Per questo voglio che li tenga tu, al sicuro. Non so quando riuscirò ad andarmene da qui e non voglio correre il rischio di lasciarli indietro. Perciò mi piacerebbe che ne avessi cura tu, finché non ti raggiungerò.” Beckett lo guardò agitata. Quel discorso non le piaceva per niente, Rick poteva leggerglielo negli occhi. Non voleva che lui rimanesse in Germania a lungo. “Ti raggiungerò presto, Kate.” la rassicurò con un piccolo sorriso. “Questi…” disse, alzando appena il borsone ad indicarne gli oggetti contenuti. “Ma soprattutto questo…” aggiunse poi prendendole la mano sinistra e carezzandone con il pollice l’anulare occupato dal suo anello di fortuna. “Sono ciò che mi riporterà da te. Ad ogni costo.” La donna lo osservò per un lungo momento immobile, quindi gli si strinse al collo di slancio.
“Devi proprio restare?” mormorò Kate ancora una volta, dopo averglielo chiesto e richiesto per giorni. Castle sentiva il calore del corpo di lei irradiare contro il suo, il respiro solleticargli il collo. La strinse a sé con forza, ma senza farle male, tenendole il capo contro la sua spalla. A un certo punto sentì il colletto della camicia inumidirsi e capì che Beckett stava piangendo silenziosamente.
“Mi avrai di nuovo tra i piedi prima di quanto credi.” le sussurrò piano prima di lasciarle un bacio tra i capelli.
“Dovrai comprarmi un vero anello.” borbottò in risposta Kate contro il suo collo. Rick ridacchiò piano a quell’uscita.
“Sarà la prima cosa che farò quando sarò di nuovo con te.” replicò dolcemente, carezzandole la schiena. Fu solo a quel punto che Beckett si staccò, la testa bassa per non farsi vedere in volto mentre si puliva i residui di lacrime con la manica.
“Farai bene a mantenere questa promessa.” gli disse allora, rialzando lo sguardo e puntandogli un dito contro il petto con aria minacciosa, non nascondendo però un mezzo sorriso. “Perché altrimenti mi troverai all’inferno a darti una lezione che neppure Lucifero in persona penserebbe.” Castle ghignò e si sporse in avanti per lasciarle un ultimo bacio sulle labbra.
“Ci conto.” commentò con tono furbo, facendo roteare gli occhi, ancora un po’ arrossati e umidi, a Kate. In quel momento sentirono i passi di Jenny e della Gates scendere le scale e allo stesso tempo suonò il campanello d’ingresso.
Castle si staccò a malincuore da Beckett e andò a controllare chi era, una mano alla fondina in caso fosse stata una visita sgradita. Appena notò la figura di Ryan però, spalancò al porta.
“Sei stato veloce.” commentò Rick sorpreso, scostandosi per far entrare l’amico. Gli aveva detto di far presto, ma non credeva che avrebbe fatto davvero così presto. Non appena vide il marito, Jenny scese gli ultimi gradini di corsa, incurante del pancione, e si gettò al collo Kevin. Lui la strinse sé e le lasciò un bacio tra i capelli, sussurrandole che sarebbe andato tutto bene, prima di tornare a rivolgersi al colonnello.
“Andris aveva una tavola già pronta da montare nel furgone. Ne aveva preparate di ogni tipo in caso di bisogno.” spiegò il maggiore in tono un po’ freddo. Evidentemente ce l’aveva ancora con lui per la discussione che avevano avuto in auto. “E ho contattato il mio amico all’aeroporto. Il primo e unico volo che hanno è tra due ore per la Danimarca.” Castle annuì, quindi si voltò verso gli altri.
“Avete preso tutto quello che vi serviva?” chiese.
“Noi non abbiamo molto e siamo sempre pronti, lo sai.” rispose Javier serio, una mano intorno alla vita di Lanie in un gesto di protezione.
“Io sono riuscita a mettere un po’ di vestiario e qualche ricordo importante in una valigia.” disse Jenny, ancora abbracciata al marito. “Ma mentirei se dicessi che non ero preparata a un’eventualità del genere.” C’era una sottile ruga di preoccupazione che le segnava orizzontalmente la fronte, come quella di Kate solo che la sua era più corta e verticale.
“Gates?” domandò allora Castle, rivolgendosi alla cameriera. L’unico bagaglio che aveva in mano era quello dei Ryan.
“Ho una borsa nella mia camera.” rispose, il tono leggermente assente come se non fosse una sua preoccupazione o si trattasse di una cosa di poco conto.
“Vuoi chiamare tuo marito e i tuoi figli?” chiese allora Rick. “Possiamo portare via anche loro.” Ma, con sua grande sorpresa, la donna scosse la testa.
“Gliel’ho detto tempo fa, signor Castle.” rispose con un mezzo sorriso triste. “La mia famiglia è più al sicuro ora di quanto lo sia mai stata.” Il colonnello aggrottò le sopracciglia confuso.
“Victoria,” riprovò lentamente, cercando di capire. “Non credo che…” Non fece in tempo però a ragionare sulle sue parole che un gemito di dolore arrivò dal salone. Lanie si voltò subito e si avvicinò velocemente a Semir, steso sul tavolo. Leandro, che per tutto il tempo non si era mosso dal fianco dell’adolescente, guardò inquieto la madre.
“Castle, non so se riusciremo a portarlo via in queste condizioni...” disse la signora Esposito con tono ansioso e preoccupato, aiutando il ragazzo a trovare una posizione più comoda e meno dolorosa.
“NO!” urlò subito Semir terrorizzato, dimenticando all’improvviso il dolore e iniziando ad agitarsi. Leandro cadde dalla sedia su cui era appollaiato, spaventato da quell’improvviso scoppio, e corse dal padre intimorito. “NON LASCIATEMI QUI! VI PREGO, NON LASCIATEMI DI NUOVO CON LORO!” gridò il ragazzo, aggrappandosi a Lanie con tutta la forza che gli era rimasta, gli occhi sbarrati, le nocche sbiancate per lo sforzo. Quasi cadde dal tavolo nello slancio di afferrarsi a lei. “AMMAZZATEMI PIUTTOSTO! VI PREGO!”
“Semir!” cercò di tranquillizzarlo Lanie mentre gli altri accorrevano ad aiutarla. “Semir, calmati! Nessuno ti lascerà qui!” Javier lasciò il figlio in braccio a Kate e corse a bloccare l’adolescente insieme a Rick e Kevin.
“Sem!” tentò anche Castle, staccando intanto con la forza le mani del ragazzo da Lanie. “Sem, non ti lasciamo qui! Ascoltami, Semir! Ascoltami!” esclamò a voce più alta, costringendo l’adolescente a voltarsi verso di lui. Era pallidissimo e atterrito. “Non permetterò mai più che ti sfiorino.” disse quindi con voce bassa e calma, rassicurante, tenendogli la mano per confortarlo e per evitare che attaccasse ancora qualcuno. “Mai più. Ti porterò via di qui, fosse l’ultima cosa che faccio. Te lo prometto. Ci credi alla mia promessa?” Semir ci mise qualche secondo prima di annuire piano, gli occhi sgranati fissi su quelli seri di Rick, il respiro irregolare e veloce, le mani gelate e sudate contro quelle calde dei tre uomini che lo tenevano fermo. Fu solo in quel momento che iniziò a calmarsi, sbattendo più volte le palpebre, come se si fosse appena svegliato da un incubo, e iniziando a rilassare i muscoli. Castle fece un breve respiro sollevato e scambiò un’occhiata preoccupata con Ryan ed Esposito. Anche volendo, non avrebbero mai potuto lasciarlo a Berlino, neanche conoscendo il luogo più sicuro della città. Semir non sarebbe mai stato tranquillo rimanendo lì.
Rick contò mentalmente fino a dieci, quindi lasciò andare il ragazzo con delicatezza. Semir però sembrava troppo stremato per potersi agitare ancora. Rimase immobile, gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta, leggermente ansante. Ryan gli posò una mano sulla testa in un gesto quasi paterno. Il ragazzo non aveva mai avuto fino a quel momento una crisi così forte. La paura della possibilità di essere lasciato indietro lo aveva fatto scoppiare.
“Andate tutti.” dichiarò Castle alla fine, più a sé stesso che agli altri, osservando il corpo di Semir rilassarsi un poco di più ogni secondo che passava. “In qualunque modo.”
 
La prima cosa che sentì fu un dolore lancinante alla testa e al volto. Gli pareva che gli avessero schiacciato il naso all’interno del cranio con un martello e infilzato un coltello nel cervello. Inoltre il liquido appiccicoso che sentiva di avere in mezza faccia non contribuiva certo a rendere migliore il risveglio.
Dreixk mugugnò dolorante e aprì piano gli occhi. Gli ci volle qualche attimo prima di capire che era steso sul freddo pavimento del suo ufficio. Come diavolo c’era arrivato lì a terra? Non lo ricordava. Automaticamente, con gesti lenti, cercò di alzarsi facendo leva sulle braccia, ma il suo movimento venne subito bloccato. Una mano sembrava non volerne sapere di rispondere ai suoi comandi. E cos’era quel lieve e fastidioso suono metallico?
Con fatica, ancora stordito e con la testa pulsante, alzò la faccia e puntò lo sguardo verso la sua mano. Fu solo a quel punto che vide che era ammanettato al calorifero. Aggrottò le sopracciglia e la bocca si schiuse autonomamente per la sorpresa. Come era finito là a terra e per di più legato??
“Sottotenente…” cercò di dire per chiamare il suo segretario, ma la voce gli uscì roca e debole. Inghiottì un po’ di saliva, ma si accorse all’ultimo che era mista a sangue. Il suo sangue. La sputò con una smorfia disgustata, sentendo in bocca il caratteristico sapore dolciastro e metallico. Rimase per un momento immobile mentre pian piano la mente gli tornava lucida anche sotto il continuo pulsare. L’ultima cosa che ricordava era di aver firmato dei fogli… e poi la faccia sconvolta di Castle. Un ghigno involontario gli spuntò sulle labbra nel rammentare quell’immagine, ma dovette subito cancellarlo perché il naso gli lanciò una fitta dolorosa che andò ad aggiungersi male alla testa. Poi all’improvviso ricordò. Spalancò gli occhi e la bocca per la sorpresa: Castle lo aveva colpito. Quel fottuto americano lo aveva colpito!
La rabbia e l’adrenalina diedero a Dreixk la forza di cui aveva bisogno. Fece leva sul braccio libero e sul calorifero, nonostante scottasse, per alzarsi dal pavimento e mettersi seduto. C’era una piccola pozza di sangue rappreso accanto alla sua gamba, dove fino a poco prima c’era il suo capo, e sentiva anche di averne una buona quantità in faccia e tra i capelli. La testa gli pulsava in modo atroce e del naso non voleva neanche parlarne.
“Sottotenente!” chiamò di nuovo, la voce ancora roca, ma più alta e decisa. Un attimo dopo però si ricordò che aveva fatto insonorizzare tutte le pareti per avere il silenzio e la pace che voleva e per evitare che qualcuno origliasse le sue conversazioni private. Imprecò silenziosamente e iniziò a guardarsi intorno, finalmente lucido nonostante il capogiro e il dolore. Essendo in ferro, rompere il calorifero era fuori discussione e il tavolo dov’erano le chiavi delle manette era troppo lontano, sempre che quel figlio di puttana di Castle non gliele avesse portate via. Però… però al contrario notò che era vicino all’attaccapanni in legno, la cui estremità superiore era composta da una serie di uncini. Ottimi per appendere, ma anche per agganciare qualcosa, se ben usati. E la lunghezza era giusto quella che gli serviva per arrivare al tavolo.
Dreixk digrignò i denti e si allungò per prendere l’appendiabiti. Castle non l’avrebbe fatta franca stavolta. Gliel’avrebbe pagata cara.

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Xiao! :D 
Allora... quanti pensavano che ci saremmo liberati così presto di Dreixk? XD Mica è così facile togliersi dalle scatole un tipo come lui, eh! ù.ù Però dai, gli altri sono quasi pronti alla fuga... ce la faranno a non farsi beccare? Lo saprete nella prossima puntata! XD
A presto! :D
Lanie
ps:wow, sono stata stranamente e inquietantemente breve in questo angoletto autore stavolta... Mah. O.o

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Capitolo 28
*** Ordini da rispettare ***


Saaaalve! :D Ok non uccidetemi!! So che è più di un mese che non pubblico, ma tra Natale, Capodanno, studio e problemi con l'uni sono riuscita solo negli ultimi tempi a finire il capitolo! Anzi, se la cosa può farvi felici (o altrimenti mandatemi pure a quel paese XD) questo inizialmente doveva essere il penultimo capitolo (lo so, è troppo che lo dico), ma alla fine è venuto troppo lungo (che novità) così l'ho diviso in due (di punto in bianco, l'ho deciso ora mentre rileggevo quindi anche il titolo è deciso alla cavolo XD). Questo per dire che sì, un altro capitolo (il DAVVERO penultimo) è già pronto e aspetta solo di essere riletto e pubblicato settimana prossima! :D (cercherò di non ritardare di un giorno, una settimana esatta da oggi!)
Ultima cosa e poi vi lascio alla lettura: questa storia (con mio grande stupore) ha compiuto 1 annetto il primo gennaio (e io ho fatto i 3 anni di scrittura sempre il primo gennaio XD). Non avrei mai pensato che sarebbe durata così tanto questa cosa... Va beh, niente, volevo farvelo sapere! :)
Buona lettura! ;D
Lanie
ps: spero vi ricordiate dove eravamo. Castle ha deciso che porterà via tutti in qualunque modo e Dreixk si è appena risvegliato da quel bel cazzotto che gli ha mollato Rick....
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Cap.28 Ordini da rispettare
 

Dreixk digrignò i denti e si allungò per prendere l’appendiabiti. Castle non l’avrebbe fatta franca stavolta. Gliel’avrebbe pagata cara.

“Sei sicuro che ti aiuterà?” chiese Kate scettica a Castle mentre lui prendeva in mano la cornetta del telefono.
“No.” rispose il colonnello atono, componendo il numero che aveva segnato su un biglietto da visita. “Ma è l’unico che può farlo al momento.” aggiunse poi con un sospiro. Beckett annuì con aria rassegnata e si allontanò per farlo parlare tranquillo. Rick attese impaziente che l’uomo dall’altra parte del telefono prendesse la chiamata, osservando intanto l’agitazione che si era creata nella stanza. Dopo la crisi di Semir, il colonnello e gli altri erano riusciti a trovare un modo per trasportare il ragazzo sul furgone senza doverlo alzare. Avrebbero utilizzato un’asse dritta, una porta per la precisione, come barella e ce lo avrebbero caricato sopra. A quel punto però avevano dovuto avvertire Semir che, nonostante tutto, avrebbe sofferto, perché lo avrebbero posizionato in uno scomparto segreto sotto il furgone, alla mercé di ogni buca e dosso della strada. Quello purtroppo era l’unico luogo in cui avrebbe potuto restare disteso e contemporaneamente nascosto. Il ragazzo non aveva obiettato nulla a quella notizia. Semplicemente aveva annuito con un cenno del capo, pronto a tutto pur di andarsene.
Così, mentre Ryan ed Esposito smontavamo una delle porte della casa per trasportare Semir, Castle ne stava approfittando per fare un paio di chiamate urgenti.
“Jones.” rispose alla fine la spia americana Tom Jones dall’altra parte del telefono. Rick sospirò brevemente, sollevato. Per un momento, all’incirca al quarto squillo vuoto, aveva temuto che l’uomo avesse cambiato numero, si fosse reso irrintracciabile per qualche motivo o altro.
“Jones, sono Castle.” replicò.
“Colonnello!” esclamò l’uomo con un tono a metà tra il sorpreso e il divertito. “E’ un piacere risentirla. Pensavo quasi che avesse deciso di non volermi più chiamar…”
“Jones, la prego, non ho molto tempo.” lo interruppe Rick velocemente. “Ho bisogno del suo aiuto.” Ci fu un momento di silenzio in cui il colonnello trattenne il respiro.
“Pensavo che il nostro accordo fosse un altro.” commentò lentamente la spia.
“So qual era il nostro accordo.” ribatté Castle, non nascondendo il tono urgente. “Ma non so a chi altro rivolgermi.” Ci fu qualche altro secondo di silenzio durante il qualche Rick si agitò sul posto, contraendo insieme la mascella per il nervosismo. Quel movimento gli tirò fastidiosamente il taglio sulla guancia.
“Esattamente cosa le serve?” si arrischiò alla fine a chiedere Jones.
“Nascondere mia madre nell’immediato, proteggerla e appena possibile farla partire per l’America.” buttò fuori tutto d’un fiato il colonnello. Sarebbe stato inutile girarci intorno e lui aveva fretta. “Io non posso farlo ora e ho bisogno che lei si allontani da Berlino subito.”
“Mi chiede molto.” replicò la spia con aria sorpresa, anche se meno di quanto Rick si sarebbe aspettato. “Cosa ha fatto per arrivare a organizzare questa veloce fuga?”
“Se lei è bravo come mi ha fatto capire l’ultima volta che ci siamo incontrati, allora lo scoprirà molto presto.” ribatté Castle con un mezzo sorriso. Sapeva che una volta ripresosi dal suo pugno, Dreixk avrebbe smosso mari e monti per trovarlo, mobilitando chiunque avesse a disposizione. “Inoltre al momento non posso spiegarglielo. Sarebbe troppo lungo e io ho fretta.”
“Sì, l’avevo intuito.” commentò l’uomo dall’altra parte della cornetta. “Però, Colonnello, sa bene com’è il mio lavoro. Non si fa niente per niente, quindi…”
“Me lo ricordo.” lo interruppe Rick atono. “Per questo le offro il diario di mio padre e qualunque altra informazione lei voglia avere da me, ora e in futuro.” continuò, dandogli la possibilità di avere tutto quello che gli aveva chiesto nel loro primo incontro. Poi prese un breve respiro e si giocò il tutto per tutto. “Le dirò qualsiasi cosa. Ma se questo non bastasse, allora le chiedo di farlo per mio padre. Una volta mi ha detto che lui l’ha strappata da un destino di miseria, donandovi una nuova esistenza. Se questo è vero, allora la supplico di rendere questo favore, una vita per una vita. Non al figlio dell’uomo che l’ha salvata, ma alla moglie di quest’uomo, la persona più cara che aveva da vivo.” Castle si fermò un momento prima di continuare, ma Jones sembrava aver perso la voce o comunque non volle interromperlo. La spia rimase muta ad ascoltare le sue parole. “Questo è quello che posso offrirle, signor Jones: me stesso e un debito da saldare. Non ho altro. Sta a lei ora decidere se bastano per salvare la vita di mia madre oppure no.” concluse, tentando di mantenere un tono neutro. Non riuscì comunque a cancellare la nota di supplica e urgenza nella sua voce.
Passarono diversi secondi, che a Castle parvero un’eternità, prima che la spia parlasse di nuovo.
“Non posso prometterle niente.” disse Jones. Il tono leggermente divertito con cui portava avanti ogni conversazione pareva completamente sparito, sostituito da una serietà nuova.
“Allora non prometta e agisca.” replicò Rick. Ancora un momento di silenzio, poi la spia sospirò, facendo crepitare la linea.
“Dove trovo sua madre?” chiese alla fine, il tono un po’ seccato forse, ma pronto a muoversi. Castle si accorse solo in quel momento di aver trattenuto il respiro. Rincuorato, si passò una mano tra i capelli e si appoggiò stancamente al muro mentre forniva all’uomo l’indirizzo dell’abitazione di Martha e anche quello del teatro dove probabilmente stava provando.
“Appena riaggancio, la chiamo e le dico di andare a casa. Le dirò che qualcuno la verrà a prendere nel giro di poco. Se non dovesse trovarla lì, vada al teatro. Magari ha perso tempo o altro.”
“Colonnello, si tranquillizzi.” lo fermò Jones con il ritornato tono appena ironico della sua voce. “Non è la prima volta che faccio questa cosa.”
“Lo immaginavo.” rispose Rick. “Per questo ho chiamato lei. Ah, quando vedrà mia madre mi faccia un favore,” aggiunse poi. “Le dica la stessa frase che ha detto a me la prima volta che ci siamo visti.” Ricordati da dove vieni. Non voleva dirla al telefono, ma sapeva che Jones avrebbe capito e ricordato. “In questo modo saprà che lei è a posto e sarà più tranquilla.”
“Lo farò.” promise la spia. Quindi gli augurò buona fortuna e chiuse la chiamata.
Non appena Castle finì di parlare con Jones, chiamò il centralino per farsi passare il teatro in cui Martha era in quel momento. Fortuna volle che fosse Alexis a rispondergli. Aveva pensato di chiamarla dopo sua madre, ma tanto valeva approfittarne.
“Alexis, ciao, sono Rick.”
“Oh, Rick, ciao!” esclamò la ragazza contenta. “Come stai?”
“Di fretta come al solito.” rispose con un mezzo sorriso, anche se lei non poteva vederlo. “Ascoltami Al, non ho molto tempo e devo dirti una cosa importante.”
“Ti ascolto.” replicò subito seria Alexis, abbassando il tono di voce. Evidentemente aveva paura che qualcuno origliasse.
“Ho qualche problema al momento.” disse Castle cautamente, senza entrare nel dettaglio. “Non so che conseguenze porterà, ma è possibile che a qualcuno venga in mente di interrogarti su di me…”
“Non dirò niente, lo sai.” lo fermò decisa la ragazza.
“Lo so, piccola, ma se fossero solo domande non mi preoccuperei.” disse Rick con tono dolce e insieme triste al ricordo degli ‘interrogatori’ di Montgomery e Semir. A quella frase sentì Alexis trattenere di colpo il respiro. Evidentemente aveva capito cosa intendeva. “Non voglio spaventarti Al, ma ho visto con i miei occhi cosa può fare certa gente e non ho nessuna intenzione di farti avvicinare a loro. Per cui so che ti sto per chiedere tanto, ma vorrei che tu prendessi tua madre e ve ne andaste. Meglio se direttamente via da Berlino.”
“Rick, ma…” mormorò Alexis confusa e agitata. “Ma dove…?”
“Una volta mi hai detto di avere dei parenti fuori Norimberga.” la interruppe Castle, ricordando in quel momento quel dettaglio. “Andate da loro.”
“Per quanto?” domandò ancora lei.
“Per tutto il tempo che servirà.” dovette rispondere Rick, non sapendo neanche lui quanto a lungo sarebbe durata quella situazione. “Riuscirò a trovarvi e a farmi sentire non appena le acque si saranno calmate.” Ci fu un momento di silenzio che al colonnello parve durare un secolo. “Alexis?”
“Tu starai bene, vero?” sussurrò alla fine la ragazza preoccupata. “Insomma, hai già passato altri guai, ma questo… questo mi sembra peggiore del solito.”
“Probabilmente lo è.” rispose Castle sinceramente con un sospiro, passandosi una mano tra i capelli. “Ma non preoccuparti per me. Quello che mi preme ora, è che tu mi prometta di andartene subito e lontano insieme a tua madre.” Alexis rimase in silenzio ancora qualche attimo, ma alla fine sospirò rassegnata.
“Va bene.” rispose piano. “Te lo prometto. Ti passo la chiamata a chiunque ti serva e dopo vado.” Rick si fece scappare un piccolo sorriso, tranquillizzato da quella promessa che sapeva lei avrebbe mantenuto.
“Brava la mia ragazza.” disse dolcemente. “Riguardati, piccola.”
“Anche tu.” fu la laconica risposta di Alexis. “Allora, chi dovevi sentire?”
Mentre attendeva impaziente che qualcuno alzasse quel maledetto telefono nel teatro di sua madre, Rick osservò Kevin e Javier arrivare in salone portandosi dietro una porta in legno scuro appena smontata. Kate e la Gates spostarono subito le poche sedie in mezzo ai loro passi per farli giungere fino da Semir, ancora disteso sul tavolo da pranzo.
Castle stava per mandare a quel paese il teatro quando finalmente qualcuno si decise a prendere la chiamata.
“Pronto?” domandò una voce maschile, molto nasale.
“Sì, salve, sto cercando Martha Castle.” esclamò Rick al telefono.
“Chi la cerca?” chiese ancora il tipo con tono annoiato.
“Suo figlio.” replicò il colonnello svelto.
“Deve dirle qualcosa?” domandò ulteriormente l’uomo con la sua fastidiosa voce, facendo spazientire Castle.
“Ovvio che sì, altrimenti non avrei chiamato, le pare??” sbottò seccato.
“Figlio di Martha Castle, si calmi per favore!” ribatté l’uomo con aria indignata. Rick rimase a bocca aperta, incredulo e stupito che ci fosse un tale idiota dall’altra parte della cornetta. Guardò per un attimo l’apparecchio telefonico, quasi si aspettasse uno scherzo, quindi tornò a riappoggiarlo all’orecchio, dove il tipo per tutto quel tempo aveva continuato a blaterare qualcosa sul fatto che i giovani avevano perso la buona educazione con l’avanzare della tecnologia.
“Senta, sono piuttosto di fretta.” lo bloccò il colonnello alla fine, cercando di reprimere un verso scocciato. Non aveva voglia di perdere altro tempo con quell’idividuo. “Dica a mia madre che la cerco al telefono per favore, grazie!”  Il tipo borbottò un ‘Ma che modi!’ e sbuffò, ma alla fine si decise ad andare a cercare Martha. Rick sbuffò a sua volta e si agitò sul posto, nervoso, passandosi di nuovo una mano tra i capelli. Sentendo caldo, si accorse solo in quel momento che aveva ancora indosso il giaccone da quando era entrato dai Ryan. Solo il cappello era stato levato in automatico e lasciato sul tavolino dell’ingresso insieme ai guanti.
Nell’attesa di Martha, Castle osservò Kevin dare istruzioni agli altri su come uscire dall’abitazione senza farsi notare e su come disporsi nel furgone. Sperò che nessuno dei vicini decidesse di uscire a fare una passeggiata proprio mentre Ryan ed Esposito portavano fuori Semir sopra la porta e lo caricavano sotto il camioncino. Sarebbe stato come sbandierare ai quattro venti che qualcosa non andava.
La voce di Martha giunse all’orecchio di Rick mentre i suoi due amici stavano per tirare su Semir dal tavolo per adagiarlo sulla barella di fortuna.
“Richard?”
“Mamma, finalmente!” esclamò il colonnello sollevato. “Senti, non ho molto tempo per cui ascoltami attentamente: torna immediatamente a casa e prepara una valigia.”
“Richard, ma che stai dicendo?” replicò la donna confusa. “Perché devo…”
“Mamma, ti prego, fai come ti ho chiesto.” ribatté Castle con una nota urgente nella voce. “Non posso spiegarti ora, ma lo farò alla prima occasione, te lo prometto.”
“Ma non posso lasciare così le prove!” ribatté di nuovo Martha, scandalizzata.
“Sì che puoi!” rispose Rick con un tono più duro di quanto avrebbe voluto. Si fermò un momento e prese un respiro profondo per calmarsi prima di continuare. “Mi dispiace per il teatro e… e per tutto.” disse alla fine con aria mesta, passandosi una mano sulla faccia. “Però ti prego, mamma, fai come ti dico. E’ importante.” la supplicò ancora una volta. “Lo farai?”
“Io…” mormorò la donna incerta. Doveva aver capito che quella telefonata era importante. Sapeva che Rick non le avrebbe mai chiesto una cosa simile senza una buona spiegazione. Una pericolosa spiegazione. “Sì. Sì, lo farò.” rispose alla fine, con gran sollievo del figlio.
“Grazie, mamma.” disse Castle con un piccolo sorriso. “Ora ti prego: vai subito a casa e prepara una valigia. Non parlare con nessuno di quello che stai facendo, dove stai andando o perché. Inventa una scusa con il teatro, se necessario. Tra non molto dovrebbe passare un uomo a prenderti a casa. Ricordi la lettera di papà che avevo trovato? L’ultima frase?” Ricordati da dove vieni. Martha rimase silenziosa per un momento, pensierosa.
“Sì, la ricordo…” rispose lentamente. “Ma perché…”
“Tu tieni a mente quella frase.” la interruppe Rick. “Non aprire a nessuno finché non senti quelle parole, va bene?” In quel momento Ryan si affacciò dal corridoio d’ingresso e gli fece segno di muoversi. Evidentemente erano già saliti tutti sul furgone e stavano aspettando lui. Annuì per far segno che aveva capito. “Ti devo lasciare ora.” disse allora alla madre. All’improvviso sentì un peso nel cuore e un groppo in gola nel pronunciare quelle parole. Quella avrebbe potuto anche essere la sua ultima conversazione con lei. “Mi raccomando.” sussurrò alla fine. “Stai attenta. Ti prometto che ci rivedremo presto.”
“Richard…” cercò di dire la donna con tono preoccupato, ma lui la interruppe di nuovo.
“Ti voglio bene, mamma.” mormorò con un mezzo sorriso triste, quindi mise giù la cornetta. Sentì una stretta al petto e la vista gli si appannò per un momento. Poi però sbatté le palpebre per cacciar via le lacrime che volevano formarsi e prese un respiro profondo. Quindi si avviò al corridoio d’ingresso, senza più guardarsi indietro. Sapeva che sua madre avrebbe seguito le sue indicazioni. Avevano concordato anni prima che, se mai lui le avesse chiesto di andarsene velocemente, Martha lo avrebbe fatto anche senza spiegazioni. Quello che il figlio faceva, il suo ‘lavoro segreto’ oltre a quello di tutti i giorni, era rischioso e lo sapevano entrambi. Forse ciò che preoccupava di più Rick era che Jones non facesse la sua parte. Però non poteva mettersi in quel momento a rimuginare sui se e sui ma. Avrebbe dovuto fidarsi. Inoltre in quel momento altre vite dipendevano da lui. Non poteva permettersi di deluderle. Anche perché altrimenti sarebbe stata la fine per tutti.
 
“Colonnello, che le è successo??” Quella era stata la prima idiota domanda di quell’idiota del suo segretario.
“Mi è caduta la penna e per riprenderla ho sbattuto la testa contro il tavolo.” Era stata invece la sua sarcastica risposta. Ovviamente quel cretino del suo aiutante ci aveva creduto. Come diavolo era arrivato al ruolo di Sottotenente?? Ma soprattutto come gli era venuto in mente di prenderlo alle sue dipendenze?? Aveva dovuto urlargli dietro che era stato Castle a tirargli il pugno che lo aveva steso a terra per chissà quanto, mentre lui se ne stava beato a scribacchiare alla sua scrivania.
Guardandosi in quel momento nello specchio del bagno, Dreixk dovette ammettere con una smorfia che non era per niente un bel vedere. Aveva sangue rappreso in buona parte della faccia, quella che era rimasta a contatto con la pozza sul pavimento, e i capelli neri gli erano diventati in parte di un sudicio rossiccio scuro. A quanto aveva capito era rimasto steso a terra per una buona mezz’ora, se non di più.
Il colonnello aprì il rubinetto e si sciacquò con l’acqua gelida che ne uscì. La testa gli pulsava dolorosamente e il labbro che Castle gli aveva spaccato gli bruciava ogni qual volta ci passava sopra la lingua per sbaglio. L’acqua fredda fu un balsamo efficace. Quando rialzò lo sguardo sullo specchio, il suo viso e i capelli erano decisamente più puliti e il male era diminuito. L’espressione di odio e rabbia che aveva stampata in volto però… No, quella l’acqua gelata non sarebbe mai riuscita a cancellarla. Avrebbe voluto avere Castle fra le mani per piazzargli un panno in faccia e poi metterlo sotto il getto del rubinetto fino a farlo affogare. Si sarebbe divertito a vederlo contorcersi alla ricerca di aria che non avrebbe trovato, legato e immobilizzato dai suoi uomini. Oh, sì, gli sarebbe piaciuto. Magari lo avrebbe anche fatto. Gli serviva solo prenderlo vivo.
Dreixk si asciugò velocemente con un asciugamano, accantonando per il momento i suoi sogni di vendetta, e tornò in corridoio per capire se il suo segretario avesse finalmente fatto il suo dannato dovere o se stesse ancora poltrendo da incapace qual era alla sua scrivania. Fortunatamente, appena il sottotenente lo vide corse svelto verso di lui per riferirgli che l’auto e gli uomini erano pronti a muoversi al suo comando.
“E allora andiamo!” esclamò il colonnello seccato. “Che diavolo stavi aspettando ancora a dirmelo??”
Dreixk prese posto sul sedile passeggero dell’auto e lasciò il volante al sottotenente, ordinandogli di guidare rapido all’indirizzo di Castle. Una camionetta dei suoi soldati migliori li seguiva a ruota.
Appena davanti all’abitazione, neanche il tempo di fermarsi e i suoi uomini erano già scesi e stavano irrompendo all’interno della casa. Con un ghigno soddisfatto, Dreixk li osservò buttare giù la porta in pochi attimi. Aveva un segretario idiota, ma almeno i suoi soldati erano efficienti. Evidentemente però non abbastanza, perché nemmeno un minuto dopo gli comunicarono che l’abitazione era vuota. Frustrato, Dreixk entrò per un rapido giro e notò subito che la mensola del salone, dove ricordava che quel belloccio di Castle aveva piazzato quella orribile Torre Eiffeil in miniatura e quei due pezzi di metallo, era stata svuotata. Tutto il resto della casa però pareva non essere stato toccato. Forse la sua preda non era ancora fuggita. Non ne era così sicuro però.
Con gesti seccati, Dreixk si voltò per tornare in macchina, ma fu in quel momento che vide che sul pavimento dell’ingresso c’erano delle strane tracce nere e rossastre. Si chinò e passò un dito sulle macchie, annusandone poi l’odore. Puzzavano di sporco e sangue. Forse era quello di cui parlava Castle quando era arrivato nel suo ufficio. A quanto aveva capito, il ragazzino che Hahn aveva ‘interrogato’ era sopravvissuto. Forse era arrivato fino a casa del caro colonnello per raccontargli ciò che era successo. E questo voleva dire che avevano un ferito. Stupido e cuore d’oro com’era Castle, probabilmente lo aveva portato con sé, rallentandosi da solo la fuga. Ottimo.
Un attimo dopo Dreixk uscì dall’abitazione ordinò a due soldati di restare di guardia all’ingresso, in caso Castle avesse deciso di ripresentarsi a casa. Lui invece riprese l’auto e andò con il resto dei suoi uomini a casa di quell’altro traditore del Maggiore Ryan. Le probabilità che Castle fosse dal suo amichetto erano molto alte. Dreixk li avrebbe inchiodati lì, ne era certo. Non fece minimamente caso all’unico furgone che passò accanto all’auto in direzione opposta alla sua. Era troppo concentrato sul suo obiettivo.
Pochi minuti dopo il colonnello e i soldati fermarono bruscamente i mezzi davanti all’appartamento di Ryan e smontarono velocemente. Gli uomini fecero ancora una volta irruzione, ma di nuovo gli comunicarono che la casa era vuota. Dreixk imprecò a denti stretti ed entrò nell’abitazione. Lì se non altro trovò dei cassetti rivoltati o svuotati, chiaro segno che gli occupanti se l’erano filata alla svelta. A conferma della sua idea che Castle fosse stato lì, trovò altre tracce di sporco e sangue sul tavolo del salone.
“Colonnello, che facciamo ora?” gli domandò uno dei suoi uomini. Dreixk si fermò per un momento pensieroso a fissare una crepa nel soffitto del soggiorno, formatasi forse durante gli ultimi bombardamenti. Dove erano andati a nascondersi? si chiese.
“Perquisite questo appartamento e quello del Colonnello.” ordinò alla fine. “E mandate qualcuno anche da sua madre, Martha Castle. Sicuramente avrà pensato ad avvertirla. Inoltre voglio che qualcuno vada al centralino a dirmi con chi hanno parlato Ryan e Castle negli ultimi giorni. Rivoltate ogni cosa, ma fate in fretta. Al primo indizio voglio essere avvertito immediatamente, chiaro?”
“Sissignore!” rispose subito il suo sottoposto. “Dobbiamo cercare qualcosa in particolare, Colonnello?”
“Qualunque cosa ci dica in quale buco di coniglio sono andati a infilarsi.”
 
“Dio, credo di aver perso almeno dieci anni…” mormorò Ryan con una mano al petto e la testa reclinata all’indietro sul sedile.
“A chi lo dici.” borbottò Jenny accanto a lui, leggermente pallida, le mani strette in automatico ad abbracciare il pancione. Castle non poteva che essere d’accordo con loro. Sospirò sollevato e si passò una mano tra i capelli, nervoso, continuando comunque a controllare la strada. Avrebbe dovuto colpire più forte quel bastardo. Per un attimo aveva visto tutto il suo bel piano andare in fumo davanti all’immagine di Dreixk che avanzava verso di loro a tutta velocità sulla sua bella auto scoperta. Per fortuna però il furgone su cui si trovavano era così anonimo da passare completamente inosservato al Colonnello Dreixk. Purtroppo avevano perso un po’ di tempo con le ultime sistemazioni e avevano rischiato di farsi prendere prima ancora di riuscire a partire.
Rick prese un respiro profondo per tranquillizzarsi e svoltò con calma in una delle strade principali. A quella velocità ci sarebbe voluto un po’ prima di arrivare all’aeroporto a nord di Berlino, ma non voleva dare nell’occhio e inoltre non voleva far prendere troppi scossoni ai suoi passeggeri. Lui, Jenny e Ryan erano seduti davanti, con Rick al volante e la donna nel mezzo. Kevin si era rifiutato categoricamente di far salire sul retro sua moglie e d’altronde tutti erano stati d’accordo, Lanie in testa. Non era il caso che una donna incinta si prendesse tutti quegli scossoni nel retro del furgone. Gli Esposito, Kate e la Gates invece erano sistemati, in piedi e piuttosto stretti, in un doppio fondo creato sul fondo del cassone. L’interno del camioncino l’avevano riempito di scatoloni. Questi però erano pieni solo in parte. Per tre quarti infatti erano colmi di carta e al di sopra erano sistemate un paio di file di lattine di alimentari, nel caso fosse stato necessario aprirle. Semir, pur di farlo stare disteso, era al di sotto del furgone, incastrato in pertugio centrale tra le ruote. Se mai qualcuno avesse avuto la bella idea di misurare l’interno del cassone rispetto all’esterno, si sarebbe subito accorto che le misure erano completamente errate. Per fortuna non era un tipo di controllo che i soldati facevano spesso.
“Tutto bene là dietro?” domandò Ryan, alzando un poco la voce e girandosi a metà verso il retro, battendo un pugno sulla parete dietro i sedili. Due brevi colpi attutiti dall’altra parte del metallo furono la loro risposta affermativa.
“Chissà come saranno scomodi…” mormorò Jenny ansiosa, abbassando gli occhi sulle mani strette insieme sopra il pancione.
“Saranno scomodi, ma sono al sicuro.” dichiarò Castle serio, voltando a metà la testa per lanciarle un piccolo sorriso rassicurante. Kevin allo stesso modo le sorrise e posò una mano su quelle di lei, sussurrandole poi qualcosa all’orecchio per calmarla. Rick non riuscì a guardarli oltre e tornò a concentrarsi sulla strada. Se tutto fosse andato bene, non aveva idea di quando avrebbe rivisto i suoi amici. E soprattutto non sapeva quando avrebbe rivisto Kate, quando avrebbe di nuovo vissuto con lei un piccolo momento di tenerezza come in quel momento lo stavano avendo Kevin e Jenny.
Prese un respiro profondo e tentò di pensare ad altro. Sforzo piuttosto inutile. Era preoccupato per Kate, per sua madre, per i suoi amici, per Alexis. Inoltre, nello stesso tempo, gli venivano in mente mille possibili futuri su come poteva risolversi quella storia. Solo uno di questi aveva un buon finale, quello delle favole, quello in cui tutti si salvano, quello in cui il cattivo veniva punito e tutti vivevano felici e contenti. Quello con la minore possibilità di venire alla luce.
Castle si costrinse a scacciare anche quei pensiero e si concentrò invece sulla strada, tenendo a mente la via più breve per l’aeroporto, evitando quando possibile ogni buca o dosso. Nonostante fosse certo che Dreixk non li avesse notati, aveva il terrore di vederlo apparire insieme ai suoi uomini in qualsiasi momento negli specchietti retrovisori. Nonostante fosse uno bastardo, il Colonnello Michael Dreixk non era stupido: avrebbe capito subito che erano fuggiti. Tutto stava nel darsi alla fuga prima che lui comprendesse quale mezzo avevano intenzione di prendere e trovasse un modo per fermarli.
Dopo quasi venticinque minuti di agonia, finalmente uscirono dalla città. La campagna intorno a loro aveva un leggero manto bianco che ricopriva ogni cosa. Sulla terra fredda la neve non si era sciolta, ma era rimasta intatta come quando era caduta. Perfino gli alberi dei boschi più lontani avevano le punte imbiancate. Inoltre, senza più il rumore della città, tutto pareva in qualche modo ovattato. Se non fosse stato per le auto che gli passavano di tanto in tanto accanto, Rick avrebbe detto che erano finiti in un altro mondo che non aveva mai visto la guerra.
Il colonnello mosse piano una spalla, infastidito dalla camicia che da ore sfregava contro la ferita che aveva dimenticato di coprire quando si era vestito, facendosi scappare una smorfia.
“Tutto bene?” fu subito l’apprensiva domanda di Jenny. Castle annuì e le fece un mezzo sorriso per rassicurarla.
“Sì, a posto.” rispose, badando nel frattempo a evitare una buca. “La spalla fa solo un po’ di capricci.”
“Non sarebbe meglio se guidasse un po’ Kevin?” chiese ancora la donna, preoccupata per la sua salute. “In fondo non ti sei rimesso da tanto…”
“No, sto bene.” replicò ancora Rick paziente. “E poi è meglio che ci sia io alla guida quando arriveremo al posto di blocco. Sono più alto in grado, se tutto va bene faranno meno storie con me.” Jenny annuì piano, spostando lo sguardo sulla sua pancia prominente, sovrappensiero.
“Quanto ci vorrà ancora?” domandò alla fine con un piccolo sospiro rassegnato.
“Tra una decina di minuti saremo al posto di blocco, amore.” rispose per lui Kevin, stringendole di nuovo le mani tra le sue e lasciandole un bacio sulla tempia. La moglie gli sorrise leggermente, in ringraziamento a quel gesto, poi tornò a guardare fuori dal parabrezza il paesaggio circostante.
“Inizia a imbrunire.” commentò Ryan, esprimendo il pensiero che tutti e tre stavano avendo. Il sole stava calando rapidamente mentre i primi rossori del tramonto cominciavano a colorare il cielo. Rick schiacciò leggermente il piede sull’acceleratore. Dovevano sbrigarsi. Se i suoi amici non avessero preso quell’aereo, sarebbero rimasti bloccati lì. E non aveva nessuna voglia di dare quella soddisfazione a Dreixk.
 
“Come sarebbe a dire ‘Non è in casa’??” urlò Dreixk furibondo al telefono. Aveva sbagliato a confidare nei suoi uomini. Erano tutti degli incapaci.
“Colonnello, mi spiace, non so come sia possibile.” rispose un po’ timoroso il soldato dall’altra parte della cornetta. “Al teatro ci avevano detto che era tornata a casa meno di mezz’ora fa perché si era sentita poco bene, ma qui non c’è.”
“Te lo spiego io come è possibile, idiota!” replicò il colonnello con voce più bassa, ma insieme più minacciosa. “Castle ha avvertito la madre e ora anche lei è fuggita! Se non foste un branco di tartarughe, avreste già quella maledetta attrice per le mani!” Il suo sottoposto iniziò a tirar fuori una serie di piagnucolanti scuse che gli fecero solo venire il voltastomaco. Con un gesto irato, Dreixk sbatté la cornetta sopra il telefono, infischiandosene del soldato che ancora parlava e facendo un tale chiasso da far accorrere il suo segretario per chiedergli se andava tutto bene. “Niente sta andando bene, sottotenente.” replicò in un sibilo. “Niente!” Per buttare fuori un po’ di quella rabbia, tirò un calcio al piccolo vaso della pianta vicino a lui. La piantina volò per un paio di metri, prima di cadere con uno schianto secco al suolo, rompendo la ceramica in pezzi e spargendo la terra contenuta per metà del pavimento. Era ancora a casa del Maggiore Ryan quindi si preoccupò poco e niente dello sporco creatosi. Aveva fatto scandagliare ogni angolo dell’abitazione ai suoi uomini per trovare una traccia di dove potevano essere andati, ma tutto quello che avevano rinvenuto era stata una camera segreta dietro una parete nascosta. Ottima per accusare i Ryan di tradimento, ma inutile se gli incriminati erano uccel di bosco. L’unico neo di casa Castle invece era una stupida libreria piena di libri vietati dal regime.
Dreixk prese un respiro profondo e tentò di calmarsi. Non era solito avere tali gesti d’ira, ma quel colonnello da due soldi di Castle aveva il potere di fargli perdere la testa. Lo aveva preso in giro troppo a lungo e non vedeva l’ora di chiudere i conti con lui.
In quel momento suonò il telefono e il colonnello sperò silenziosamente che fossero buone notizie o avrebbe dato di matto di nuovo. Per fortuna però parve che finalmente i suoi uomini fossero tornati vagamente utili.
“Colonnello, abbiamo parlato con il centralino che smista le chiamate dal vostro quartiere!” esclamò esaltato il soldato. “Pare che una delle centraliniste conosca bene il Colonnello Castle, una certa Alexis Werner se non ho capito male.” Dreixk drizzò le orecchie a quel cognome. Ricordava un soldato che si chiamava allo stesso modo. Forse la donna era sua figlia. “Ho già mandato due uomini a cercarla, ma non è questa la notizia migliore: dal numero del maggiore Ryan ci sono state diverse chiamate per un piccolo aeroporto che si trova a nord della città!” Il colonnello sentì un brivido di eccitazione scorrergli lungo la spina dorsale. La caccia era aperta.
“Raduna tutti gli uomini disponibili.” rispose il colonnello velocemente, mentre già faceva segno al sottotenente di preparare la macchina per partire. “Vi voglio in quell’aeroporto prima di subito.”
 
Dopo l’ultima curva, finalmente il posto di blocco si materializzò davanti a loro. Si trattava di due piccole casupole ai lati della strada con una sbarra in mezzo a bloccare il passaggio. Pareva quasi una piccola dogana.
Poco più in là Castle notò due auto parcheggiate in un piccolo spiazzo. Una delle due non doveva essere lì da molto perché la neve sotto le ruote era stata schiacciata di recente. A occhio calcolò che in tutto avrebbero dovuto esserci al massimo tre o quattro soldati di guardia, anche perché quell’aeroporto non era particolarmente frequentato. In quel momento fuori c’erano solo due uomini, ben imbacuccati nei loro giacconi e posizionati ai due lati della sbarra con una mitraglietta appesa alla spalla.
“Ci siamo.” mormorò Castle, prendendo un respiro profondo e iniziando a rallentare. Jenny si mosse a disagio accanto a lui e automaticamente portò le mani sopra il pancione. Ryan invece si voltò immediatamente per dare due forti colpi al retro del furgone, in modo da avvertire gli altri dell’imminente fermata al blocco.
Rick fece avanzare il mezzo ancora di qualche metro finché uno dei due soldati di guardia alzò una mano per indicargli di fermarsi del tutto. L’uomo che gli aveva fatto segno si avvicinò allo sportello del guidatore non appena il colonnello ebbe abbassato il finestrino e spento il motore. L’improvviso silenzio della macchina fu quasi inquietante. La neve attutiva ogni suono e perfino i passi del soldato parevano lievi. Fu quasi un sollievo per il colonnello sentire all’improvviso il suono di un telefono all’interno di una delle due casupole.
Non appena il soldato fu davanti al finestrino, Castle notò che era giovane, sui ventiquattro o venticinque anni, carnagione chiara, ben sbarbato e in perfetto ordine. Le mostrine gli indicarono che era un Caporale. Dall’aria seria e tranquilla che aveva, pareva non patire minimamente il freddo portato dal gelido venticello che stava soffiando in quel momento e che gli aveva arrossito leggermente le guance e il naso. Rick al contrario, a malapena affacciato fuori dal mezzo, rabbrividì.
“Buonasera, signore.” disse il soldato, lanciando un’occhiata all’interno del mezzo e notando la divisa militare. “Documenti, prego.”
“Buonasera a lei, Caporale.” salutò Castle a sua volta con un sorriso un po’ tirato, porgendogli il suo documento e quelli di Jenny e Kevin. “Brutta giornata per stare di guardia.”
“Ha ragione, Colonnello.” replicò il ragazzo con appena un accenno di sorriso mentre leggeva le loro generalità. Castle attese, tambureggiando un poco le dita sul voltante per il nervosismo trattenuto, che il caporale finisse di controllare tutti i documenti. Nell’attesa, lanciò un’occhiata all’altro soldato di guardia. Da sotto il cappello e la grossa sciarpa rossa che gli fasciava mezzo volto, pareva avere la stessa età del suo compagno di guardiola. Al contrario dell’altro però lui tremava come una foglia. “Perché siete qui, Colonnello?” chiese a un certo punto il caporale, studiando il documento di Jenny e lanciandole un’occhiata dietro Rick per controllare che la foto corrispondesse.
“Ordini. Ci hanno affidato un incarico. Le casse che trasportiamo sono da spedire piuttosto urgentemente.” rispose Castle, indicando con il pollice il retro del furgone.
“Cosa contengono?” domandò ancora il soldato.
“Non credo sia affare suo, Caporale.” replicò Rick con un mezzo sorriso, ma internamente allarmato. La maggior parte delle volte gli uomini ai posti di blocco si limitavano alle domande di routine e anzi molti non appena vedevano il suo grado si affrettavano a ridargli i documenti e a lasciarlo passare. Capitava però che si trovasse qualche zelante soldato troppo scrupoloso nel compiere il proprio dovere. E ovviamente l’abbiamo trovato oggi, pensò Castle nervoso. Poteva anche essere che il caporale fosse solo curioso, ma, data la sua aria scettica, Rick non ci avrebbe scommesso neanche mezzo soldo.
“Mi spiace, Colonnello, ma ho l’obbligo di controllare tutto ciò che passa da questo posto di blocco.” dichiarò il ragazzo. Come volevasi dimostrare.
“E sono certo che fa un attimo lavoro, Caporale.” ribatté Castle con di nuovo un mezzo sorriso seccato, nascondendo ancora una volta il nervosismo. “Ma su queste casse c’è il marchio del Fuhrer. Può controllare se vuole, ma se intaccherà un solo pezzo di legno ne risponderà ai suoi superiori.” aggiunse con un vago tono di minaccia.
“Come mai la moglie del Maggiore Ryan è con voi?” domandò allora il ragazzo dopo qualche secondo, abbandonando il discorso, ma senza ancora rendergli indietro i documenti.
“Mia moglie deve partire.” rispose Kevin per il colonnello, sporgendosi oltre Jenny verso il finestrino aperto, con una plausibile bugia che avevano inventato. Ryan pareva calmo, ma Rick notò la sua mano stretta a pungo contro il cruscotto. Aveva le nocche bianche. “Sua madre abita in Irlanda ed è in fin di vita. Il modo più veloce, ne converrà anche lei Caporale, è passare oggi dalla Danimarca e prendere da lì il primo volo per la Gran Bretagna. In questo modo ci sono buone probabilità che domani sera sia già in viaggio per Dublino. Se dovesse aspettare il volo da qui invece, non partirebbe prima di dopodomani e per allora potrebbe essere troppo tardi. So che non dovremmo portare civili a bordo, ma come vede mia moglie è incinta e, visto che dovevamo comunque venire qui, mi era sembrata una buona idea darle un passaggio. Se la cosa dovesse creare problemi, mi prendo la responsabilità della cosa.” aggiunse poi in tono serio e professionale. Aveva un’aria molto convincente che diceva ‘L’ho fatto solo per stavolta, non capiterà più’. Il caporale spostò lo sguardo da lui a Jenny, pensieroso, ma non fece altri commenti. Quindi squadrò i tre per un lungo momento, soffermandosi molto più a lungo su Castle che sugli altri, sbattendosi intanto i loro documenti sulla mano quasi inconsciamente.
“La signora può andare, ma devo controllare il retro del furgone e le casse di cui parla, Colonnello.” disse alla fine il soldato, facendo mozzare il fiato a Castle. Sentì Jenny accanto a lui emettere un lieve gemito che per fortuna quello non udì. “Pohl!” urlò poi il ragazzo al suo infreddolito compagno di guardia perché lo sentisse. “Prendi il cane!”
“Quella povera bestia??” esclamò Pohl, visibilmente contrariato. “Andiamo, Körtig! Già è vecchio, congelerà qui fuori! Se non è davvero utile, lascia in pace il cane e…”
“Pohl, non ti ho chiesto commenti!” gridò in risposta il ragazzo, diventando all’improvviso molto rosso in volto. “Porta qui quel maledetto animale!” Pohl imprecò e sputò a terra, ma alla fine si mosse verso l’interno della casupola dietro di lui. Solo a quel punto Körtig si voltò di nuovo verso Rick. “Può scendere, Colonnello?”
“Caporale, mi sta facendo perdere tempo!” esclamò in risposta Castle nervoso, ma facendo comunque come gli veniva detto. Non voleva apparire colpevole di nascondere qualcosa, solo scocciato. Quel maldetto animale però, come l’aveva definito il caporale, avrebbe potuto essere la loro rovina. Le casse erano riempite di alimentari per sviare l’attenzione e il fiuto dei cani, ma solo in parte e se non fosse stato abbastanza…
“Faccio solo il mio lavoro.” rispose Körtig inflessibile, indicandogli di andare verso il retro del furgone. Non impugnava ancora né la mitraglietta né la pistola d’ordinanza visto che fino a quel momento Castle era stato abbastanza collaborativo. Rick però notò che la presa del ragazzo sulla cinghia della prima arma era tesa e pronta a muoversi a qualsiasi segnale.
Sbuffando, il colonnello fece il giro del mezzo e aprì, senza che quel ragazzetto glielo ordinasse, il portellone del furgone.
“Visto?” domandò irritato. “Casse. Come guarda caso le avevo annunciato!” aggiunse poi con tono sarcastico, indicandogli le casse in legno, marcate dal simbolo nazista, stipate davanti a loro. Il caporale guardò dentro sospettoso.
“Ne apra una.” ordinò Körtig.
“Lei non può…!” cercò di protestare Castle, facendo un passo in avanti senza pensarci. Un attimo dopo però dovette fermarsi e alzare le mani. Il ragazzo gli aveva puntato la mitraglietta addosso non appena si era mosso verso di lui. “Caporale, lei sta giocando col fuoco…” sibilò minaccioso.
“Può darsi.” replicò inflessibile il soldato. “Ma esattamente come lei anche io ho degli ordini.” Quindi gli indicò le casse con la canna dell’arma. “Ne apra una.” Rick rimase immobile per un momento, guardando scandalizzato, nervoso e infuriato insieme il ragazzo. Sentiva le unghie infilarsi nella carne tanto stava stringendo i pugni alzati e le ferite alla faccia e alla spalla gli prudevano come non mai a causa dei muscoli tesi. Quando però sentì l’altro soldato uscire dal casotto con il cane, imprecò silenziosamente e si issò dentro il retro del furgone. Là dentro l’aria era più calda e umida, poiché il vento non riusciva a entrare.
Castle prese un piede di porco che trovò buttato di lato e si accinse ad aprire la cassa più vicina. Come tutte le altre, su ogni lato portava disegnata l’aquila nera ad ali aperte con la svastica del regime tra le zampe. Rick aveva appena infilato la punta del metallo tra le assi di legno quando un’altra voce gli arrivò alle orecchie, facendolo bloccare.
“Caporale, perché questo mezzo è ancora qui?” esclamò scocciato un altro soldato, entrando in quel momento nel suo campo visivo. Rick capì immediatamente che era un superiore da come Körtig e il suo compagno con il cane, un grosso pastore tedesco a pelo lungo arrivato qualche attimo prima insieme al suo padrone, si misero subito sull’attenti.
“Mi spiace, signore, ma…” Il caporale non fece in tempo a finire la frase che il nuovo arrivato alzò il volto verso Castle e spalancò la bocca incredulo.
“Tenente Colonnello Richard Castle!” esclamò il soldato con un gran sorriso. “Mi era sembrato di vedere Ryan seduto là davanti, ma non potevo crederci!” Rick lo guardò per un momento confuso e fu solo quando l’uomo si tolse il cappello che lo riconobbe.
“Capitano Andreas Engel!” replicò allora altrettanto incredulo, fregandosene di Körtig che ancora gli puntava l’arma addosso e scendendo dal mezzo con un balzo per stringere la mano al soldato. Engel era stato un suo sottoposto per tre anni prima di essere trasferito per avanzamento di grado. Ottimo militare e ottima persona, in due settimane si era guadagnato la stima e la fiducia di tutti alla centrale. Castle ricordava che Andreas aveva sempre la battuta pronta e che quando parlava dei due figli gli si illuminavano gli occhi. “Come stai?” chiese con un sorriso. “E la tua famiglia?”
“Tutti bene, signore!” gli rispose allegro Engel. “Però ora sono Maggiore!” dichiarò poi, indicando con orgoglio le mostrine. “E vedo che anche lei è salito di grado!”
“Sì, sono Colonnello ora.” replicò Castle con un mezzo sorriso. “Beh, allora complimenti a te Maggiore! Ma che fai qui?” Andreas sbuffò.
“Sono addetto alla sicurezza dell’aeroporto.” disse con una smorfia. “Non è male come incarico, ma di tanto in tanto mi tocca venire ai posti di blocco a controllare che tutto vada bene. A proposito di questo…” aggiunse poi, voltandosi di nuovo verso i due caporali. Körtig continuava a squadrare Castle con l’arma in pugno, mentre Pohl teneva stretto il cane. Il pastore tedesco pareva piuttosto vecchio e, da come uggiolava guardando la casupola da cui era uscito, sembrava avere tutta l’aria di voler rientrare al caldo.
“Signori, perché il Colonnello è ancora qui?” li apostrofò Engel in tono autoritario.
“Lo chieda a Körtig, Maggiore…” borbottò Pohl, lanciando un’occhiata seccata al compagno.
“Mi sembrava sospetto.” rispose Körtig, indicando Rick con la canna della mitraglietta. “Così ho chiesto al Colonnello di aprire una delle casse, ma si è rifiutato.”
Rifiutato?” ripeté Engel con un sopracciglio alzato. “Sbaglio o quando sono arrivato mi è parso di vedere il Colonnello dentro il furgone con un piede di porco in mano? Devo dedurre che stesse per farle una sciarpa all’uncinetto, Caporale?”
“No, signore!” rispose subito il soldato, rosso in volto per quella battuta. “Solo che non voleva aprire le casse e…”
“E cosa, Caporale?” lo bloccò Andreas irritato. Quindi si girò a dare un’occhiata alle casse. “Su quel legno c’è il simbolo del Partito, soldato. Ha visto l’aquila nera, Körtig?”
“Io…” tentò di dire il Caporale, ma subito venne interrotto dal Maggiore Engel.
“Risponda!” Il ragazzo tentennò per un momento, lanciando un’occhiata d’odio a Castle come fosse colpa sua, ma alla fine abbassò lo sguardo e la mitraglietta, rispondendo poi come un cane bastonato con la coda fra le gambe.
“Sì, signore.”
“E ha visto anche i gradi del Colonnello Castle, Caporale?”
“Sì, signore.”
“E allora perché diavolo il Colonnello è ancora qui ad attendere che tu metta il naso negli affari del Fuhrer?” esclamò alla fine Engel indignato. Körtig si mosse a disagio sul posto, ancora completamente rosso in faccia per la vergogna e la rabbia. “E se non ti basta, garantisco io per lui. Sono stato al suo servizio per anni ed è un uomo molto migliore di quanto tu possa arrivare a comprendere!” Quelle parole crearono uno strano sentimento in Castle. Da una parte l’orgoglio e l’affetto gli riempirono il cuore, dall’altra le sue azioni nascoste, il fatto che sapeva che Engel stesso avrebbe potuto passare dei guai per quello che stava facendo senza saperlo, gli serrarono il petto in una morsa dolorosa. “Ora alza quella sbarra, soldato.” ordinò alla fine Andreas in tono duro. “E bada che un altro fatto del genere non si ripeta.”
“Sì, signore.” replicò il ragazzo in tono basso, facendo il saluto e scappando poi davanti al furgone per fare come comandato.
“Tu” disse poi a Pohl con un mezzo sorriso. “Riporta quel povero animale dentro. Se ci fosse stato qualcosa di anormale avrebbe già avvertito e sta congelando qui fermo al freddo.”
“Sì, Maggiore.” rispose il soldato, dando una pacca affettuosa al pastore tedesco e incamminandosi di nuovo verso il casotto con lui.
“Mi spiace per questo incidente, Colonnello.” dichiarò alla fine Engel rivolto a Rick con un sospiro. “Sa meglio di me che certi ragazzi sono fin troppo zelanti nel fare il loro dovere.”
“Come lo eravamo noi alla loro età.” rispose con un sorriso Castle. Sembrava tranquillo, ma dentro stava esultando sollevato. Quell’incontro era stato una manna dal cielo. Se non ci fosse stato Andreas, aveva dei dubbi che sarebbero passati incolumi.
Qualche minuto dopo Rick era di nuovo sul furgone ed Engel stava salutando un’ultima volta lui e Ryan.
“Colonnello magari la prossima volta che passate di qui, fatemi venire a chiamare. Vi offro una birra!” disse allegro Engel.
“Ci conti, Maggiore.” replicò con un sorriso tirato Castle. Sapeva che non lo avrebbe fatto, ma che altro avrebbe potuto dire ad Andreas?
Finalmente rimise in moto il furgone e fece un mezzo gesto di saluto con il capo a Körtig. Da quando gli era stato ordinato, il caporale era immobile a tenere sollevata la barra di blocco alla strada. Rick notò che aveva ancora un’espressione imbronciata per il modo in cui era stato ripreso. Körtig aveva buon fiuto, doveva ammetterlo, ma Castle non era certo intenzionato a dirglielo.
 
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Xiao! :D
Ok vi ho già detto uan marea di roba sopra, quindi mi limito qui sotto! XD
Rick ha salutato e messo al sicuro Martha e Alexis e ora è il loro turno di fuggire, ma per ora gli è andata bene per un pelo... Riusciranno ad arrivare in aeroporto sani e salvi? TO BE CONTINUED........ MUAHHAHAHAHAHA *risata malefica*
(e dopo questo, fuggo prima che a qualcuno venga in mente l'idea di linciarmi)
A presto! ;D
Lanie

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Capitolo 29
*** Fuori dall'Inferno ***


Cap.29 Fuori dall’Inferno
 

“Avete chiamato il posto di blocco?” domandò Dreixk al suo segretario al volante mentre attraversavano a tutta velocità la campagna di Berlino diretti all’aeroporto. Dietro di loro la camionetta piena di soldati arrancava un po’, ma riusciva comunque a stargli dietro.
“Sì, Signore!” gli rispose il sottotenente, sterzando all’improvviso per evitare una buca sul terreno e costringendo Dreixk ad aggrapparsi per un momento al cruscotto. “Sono stati avvertiti di non far passare il Colonnello Castle o chiunque di sospetto si presenti. Mi è stato detto che quando hanno chiamato non era ancora passato nessuno che somigliasse alla descrizione del Colonnello o del Maggiore Ryan.” Dreixk annuì piano, gli occhi fissi sulla strada come sperando che così facendo il percorso si sarebbe accorciato da solo. L’eccitazione della caccia gli diede un brivido lungo la schiena. Erano vicini. Poteva quasi sentirlo. Li stavano raggiungendo e al posto di blocco li avrebbero bloccati definitivamente. Ormai aveva Castle in pugno, anche se ancora il caro colonnello non lo sapeva. Quel pensiero gli incurvò all’insù gli angoli della bocca quasi senza accorgersene, facendo così nascere un piccolo ghigno diabolico. Sognava di catturare Castle da anni e tra poco ci sarebbe riuscito. L’agognata meta era così vicina!
Qualche minuto dopo il posto di blocco entrò finalmente nel loro campo visivo.
“Avverti via radio gli uomini di tenersi pronti!” ordinò Dreixk al segretario, trattenendo a stento l’esaltazione. Mentre il sottotenente chiamava il camion dietro di loro con la radio appesa al cruscotto, il colonnello iniziò a scrutare tutt’intorno alle due casupole che facevano da ali alla sbarra in mezzo alla strada. Quando non vide però altri mezzi che due auto parcheggiate in uno spiazzo lì accanto, un terribile sospetto si impossessò di lui. Conosceva bene la macchina di Castle e nessuna di quelle in sosta era la sua. Inoltre era certo che si stesse portando dietro diverse persone, quindi non avrebbe comunque mai preso l’auto. A meno che non fosse una qualche sorta di diversivo. Però non poteva aver sbagliato sul luogo. Le chiamate di Ryan all’aeroporto erano precedenti al suo ultimo incontro con Castle e la loro fuga era stata troppo precipitosa per poter anche solo pensare a un diversivo. Inoltre quella era l’unica strada per quell’aeroporto. Quindi dove erano finiti? Perché non erano bloccati lì? Insomma, quel maledetto colonnello non avrebbe potuto passare attraverso il posto di blocco dopo la chiamata dei suoi uomini, no??
“Soldato!” chiamò Dreixk uno dei due uomini di guardia, aprendo la portiera dell’auto prima ancora che fosse ferma. Il soldato più vicino, un Caporale con un’aria seccata stampata in volto, gli venne incontro strascicando i piedi. “Avete fatto passare qualcuno da qui?” Il ragazzo lo guardò come se fosse stupido, aggrottando le sopracciglia. Un atteggiamento che rischiò di far perdere la ragione a Dreixk.
“Certo, tutti quelli che dovevano passare per l’aeroporto.” replicò scocciato. Con un attimo di ritardo notò la divisa militare, quindi si affrettò a mettersi sull’attenti e ad aggiungere un veloce e nervoso “Signore!”
“Non avete ricevuto la chiamata dei miei uomini??” domandò sconcertato il colonnello mentre iniziava a montargli la rabbia. Il soldato si mosse a disagio sul posto e scosse la testa.
“No, signore, qui non ha chiamato nessuno.”
“Ma non è possibile!!” scoppiò Dreixk furioso, sbattendo violentemente la portiera rimasta aperta e facendo sobbalzare il ragazzo. “Chi diavolo è al comando di questo tugurio, soldato?” aggiunse poi in tono più controllato, cercando di calmarsi.
“Io, Colonnello.” rispose una voce poco lontano. Dreixk si voltò e vide un ufficiale venirgli incontro da una delle casupole mentre si infilava tranquillamente un paio di guanti. Alto, ben piazzato, ricordava vagamente di averlo già visto da qualche parte. Le mostrine dicevano che era un Maggiore. Gli fece il saluto come da etichetta, quindi chiese: “Ci sono problemi?”
“Problemi??” sibilò il colonnello, gli occhi ridotti a fessura. “I suoi uomini potrebbero aver appena compromesso un arresto!”
“Un arresto?” domandò con aria vagamente perplessa il maggiore. “E di chi?”
“Del Colonnello Castle, del Maggiore Ryan e di chiunque fosse con loro!” A quei nomi i due ragazzi di guardiola si lanciarono uno sguardo preoccupato. Il maggiore invece rimase impassibile a fissarlo. “E’ stata fatta una chiamata a questo posto di blocco.” continuò Dreixk lentamente, osservando le reazioni dei presenti e cominciando a intuire qualcosa. Qualcuno stava mentendo. “Siete stati preavvertiti del loro passaggio. Ma i suoi uomini sembrano non saperne nulla, Maggiore. Lei per caso ne sa di più?” L’uomo alzò appena le spalle.
“Non so di che parla.” rispose asciutto. “Non ci sono state chiamate e non è passato nessun Colonnello Castle o…”
“Maggiore Engel,” iniziò uno dei due ragazzi, quello che si era avvicinato per parlare con Dreixk, interrompendolo. “Veramente sono…”
“Caporale Körtig, qualcuno le ha chiesto qualcosa?” lo bloccò bruscamente Engel, lanciandogli un’occhiata che Dreixk avrebbe definito omicida. All’improvviso ricordò dove aveva già visto il maggiore: era stato un sottoposto di Castle qualche anno prima. Lo rammentava perché più di una volta aveva fatto il buffone in caserma, prendendolo anche in giro per i suoi tentativi di incastrare il colonnello. Aveva ancora bene impresso in mente come quel dannato del suo parigrado rideva mentre il suo sottoposto si prendeva gioco di lui. E a quanto pareva lo avevano fatto anche questa volta…
Dreixk strinse i pugni per la rabbia. Poi mentre Körtig, rosso in faccia, tentava di tirare fuori una scusa per non andare contro il suo superiore, il colonnello gli sfilò velocemente la mitraglietta dalla spalla e, prima che il ragazzo potesse fermarlo, con il calcio dell’arma diede un colpo fulmineo e forte allo stomaco di Engel. Veder crollare il maggiore a terra con un gemito, tenendosi la pancia, fece stare meglio Dreixk. Alla fine il colonnello buttò la mitraglietta di lato e tornò verso la macchina.
“Aprite subito questa maledetta sbarra o la farò alzare dai miei uomini.” disse poi duro, facendo bene intendere che lo avrebbe fatto con la forza. I due ragazzi di guardia si lanciarono un’occhiata allarmata e poi guardarono il loro maggiore in posizione fetale sul terreno gelato. Corsero ad aprire senza proferire parola. “Maggiore Engel.” continuò poi Dreixk rivolto all’uomo agonizzante. Engel alzò appena gli occhi e lo guardò con odio tra un respiro affannoso e l’altro. “Preghi che io trovi il Colonnello Castle e che sia troppo impegnato con lui per tornare da lei.” Quindi il colonnello rientrò in auto e ordinò al sottotenente di partire.
 
“Ci siamo finalmente!” esclamò Jenny con un sorriso sollevato, vedendo l’entrata del piccolo aeroporto. Strinse la mano di Kevin e anche lui sospirò di sollievo, lasciandole poi un bacio sulla fronte. Rick invece stentò appena un sorriso. L’aver visto Dreixk così vicino a casa gli aveva lasciato l’amaro in bocca e il ritardo al posto di blocco non lo aveva certo tranquillizzato. Non avrebbe gioito finché non avrebbe visto la coda dell’aereo con sopra Kate e gli altri sparire in lontananza nel cielo ormai a tinte rossastre.
Castle parcheggiò in un punto un po’ nascosto in modo da poter far scendere gli altri in sicurezza. In realtà non c’erano molte persone in giro, solo un uomo e una donna che scaricavano delle valigie da un’auto diversi metri più in là e due ragazzini che giocavano a palle di neve, ma preferiva essere prudente. Dato il freddo, quasi tutti gli altri passeggeri dovevano essere all’interno della struttura in attesa di essere imbarcati.
I tre davanti scesero dal furgone e, mentre Jenny andava ad aiutare gli Esposito, Gates e Beckett ad aprire lo scomparto segreto interno, Rick e Kevin si adoperarono per far uscire Semir dal pertugio sotto il camioncino in cui lo avevano infilato. Il ragazzo pareva un po’ scosso dal viaggio e si reggeva in piedi a stento. Gli altri invece, nonostante la paura per la sosta prolungata al posto di blocco, sembravano stare bene. Prima di incamminarsi, Ryan si tolse rapidamente la divisa nel retro del furgone e si cambiò con abiti civili. Quando ebbe finito, lui e Javier presero Semir sottobraccio e lo sostennero per tutta la breve strada fino all’interno dell’aeroporto mentre gli altri li seguirono trasportando borsoni e valigie.
La sala d’aspetto in cui capitarono era piccola, sovraffollata e puzzava di fumo e chiuso, ma almeno era calda. Mentre gli altri cercavano un qualche punto libero in cui poter far sedere Semir, Castle si affrettò ad andare a comprare i biglietti aerei per tutti. C’era una sola biglietteria, ma per fortuna c’era una sola persona in coda quando la trovò poiché era già quasi l’ora dell’imbarco. Quando arrivò il suo turno, la donna dietro il bancone chiese destinazione, numero di persone e documenti di ognuno dei passeggeri. Rick le passò quindi i passaporti (falsi) degli altri. Si accorse di sudare quando uno dei documenti cartacei gli rimase un po’ appiccicato alla mano, ma non avrebbe saputo dire se era per il caldo umido della sala o per la tensione. La bigliettaia comunque non fece commenti. Trascrisse semplicemente i nomi, controllò che non fossero tra quelli segnalati e diede i biglietti con sopra segnata la destinazione danese al colonnello. Proprio in quel momento chiamarono per l’imbarco. Velocemente Castle pagò, riprese i passaporti e tornò dagli altri, cercando di schivare la massa di persone che si era alzata e lentamente si stava spostando verso l’esterno.
Una volta fuori il gelo si fece subito sentire, facendo rabbrividire Rick. Alzò lo sguardo per cercare il velivolo e vide subito il grande aereo grigio circa duecento metri davanti a loro. Il tratto non era lungo, ma avendo Semir sofferente da trasportare, il gruppo rimase presto in fondo alla fila di persone di attesa di salire sull’apparecchio. Guardandosi intorno, il colonnello notò più lontano un piccolo aeroplano per il trasporto della posta, dove un uomo stava aggiungendo la benzina per il volo vicino a una piccola montagna di pacchi ben impilati. I due mezzi erano gli unici fuori, mentre gli altri, se ce ne erano, probabilmente erano rinchiusi nella serie di quattro grandi hangar posti dietro l’aeroplanino, fuori dalla pista.
“Quindi… è il momento…” sussurrò Kate con tono sofferente quando fu quasi il loro turno di salire, prendendo la mano di Rick. Lui la strinse e si voltò a osservarla. Beckett aveva gli occhi umidi, rivolti al grande aereo davanti a loro.
“Ehi…” sussurrò Castle con un mezzo sorriso, costringendola delicatamente a guardarlo spostandole il mento con la mano libera. “Ci rivedremo prima di quanto pensi.” Lei lo fissò poco convinta, preoccupata e triste insieme. Quell’espressione fece male a Rick come un pugnale nel petto. D’istinto la attirò a sé e la abbracciò stretta, infilando il naso tra i suoi capelli per sentire ancora una volta il suo profumo. Kate si aggrappò allo stesso modo a lui, il volto nascosto nel suo collo. “Devo comprarti un anello nuovo, ricordi?” sussurrò ancora il colonnello con tono divertito quando sentì il semplice cerchietto di metallo che lei aveva al dito graffiarlo leggermente alla base del collo. Stava cercando di strapparle un sorriso anche se lui stesso faticava a farne uno. “E devo portarti all’altare e…”
“Non mi importa.” lo zittì però in un mormorio Beckett, sorprendendolo. Kate aveva la voce appena rotta, come se si stesse trattenendo dal piangere. “Esci di qui vivo, ok?” continuò poi, staccandosi appena da lui per guardarlo negli occhi. “E torna da me. E’ tutto ciò che ti chiedo. Il resto può aspettare.”
Rick le fece un sorriso dolce, quindi la attirò di nuovo a sé, stavolta per un lungo bacio. Aveva il terrore che non avrebbe più potuto farlo. E il calore delle sue labbra non rendeva nulla più facile. Con forza, si costrinse a staccarsi per salutare gli altri. “Ti amo…” le sussurrò comunque prima di allontanarsi.
“Fai attenzione.” gli disse Jenny con le lacrime agli occhi, abbracciandolo forte nonostante il pancione rendesse l’operazione più complicata. Kevin e Javier gli strinsero la mano, poiché stavano ancora reggendo Semir, così come la Gates. L’adolescente dovette limitarsi a un lieve e sincero “grazie” sussurrato e a un sorriso, non avendo la forza di fare altro. Anche Lanie lo abbracciò e il piccolo Leandro gli si aggrappò al collo, nascondendo il visetto dentro il suo collo per l’ultima volta.
“Ci vediamo presto, vero, zio Rick?” domandò speranzoso. Castle non riuscì a dirgli che non aveva idea di quando e se si sarebbero rivisti. Così gli sorrise dolcemente, nascondendogli la sua paura, e gli lasciò un bacio tra i capelli riccioluti.
“Prestissimo.” rispose piano, mentendo pur di non farlo preoccupare. Cercò di non far trasparire dalle sue parole il groppo che gli si era formato in gola e quindi quanto quell’affetto lo stesse sconvolgendo emotivamente. “Devo andare ora.” disse poi a voce bassa, posando Leo a terra. Prima di farlo però, si voltò ancora una volta verso Beckett e le carezzò piano una guancia, spostandole una ciocca di capelli cadutale davanti al viso. “Aspettami.” mormorò con un piccolo sorriso.
“Sempre.” replicò in risposta Kate, alzandosi sulle punte per lasciagli un ultimo bacio a fior di labbra. Rick si trattenne dallo stringerla tra le braccia perché sapeva che poi sarebbe stato troppo difficile abbandonarla. Così rispose al bacio tenendo le braccia lungo i fianchi, quindi indietreggiò di un paio di passi.
“Ora andatevene.” disse rivolto a tutti con un mezzo sorriso, come fosse un ordine scherzoso che però gli stava appesantendo il cuore come un macigno. “Andatevene fuori da questo Inferno.”
“Ci vediamo dall’altra parte.” replicò Ryan, rispondendo a tono con gli angoli della bocca appena sollevati, ma con gli occhi chiari che esprimevano la preoccupazione per l’amico.
Castle li salutò un’ultima volta con un cenno della mano (e un’occhiata dolorosa verso Kate) quindi si voltò per andarsene, cercando di convincere sé stesso a non guardarsi indietro. Aveva fatto a malapena un passo quando, alzando gli occhi, vide qualcosa di strano attraverso le vetrate della sala d’aspetto. Vista la lontananza e il riflesso del sole sul vetro, Rick dovette socchiudere gli occhi e aguzzare la vista per capire cosa avesse attirato il suo sguardo. Quando vide la causa però, sgranò gli occhi e sbiancò. Un gruppo di soldati ben armati era appena entrato nella sala e, nonostante la distanza, riconobbe immediatamente la figura di Dreixk davanti a loro che indicava con gesti veloci ai suoi uomini dove muoversi.
Non ora! pensò terrorizzato Castle. Si voltò di nuovo indietro. C’erano ormai pochi passeggeri in coda, ma i suoi amici, che ora lo osservavano confusi, erano ancora fuori dall’aereo. Non sarebbero mai riusciti a salirvi incolumi. Dreixk avrebbe sicuramente bloccato il mezzo ancora prima che piloti chiudessero il portellone.
Per un attimo Rick entrò nel panico. Sentì il battito cardiaco accelerare insieme alla respirazione, il cervello farsi vuoto. La consapevolezza che non avrebbe salvato Kate acuì il suo terrore. D’istinto portò la mano alla fondina. Il gelido metallo della pistola d’ordinanza contro le dita gli schiarì la mente e lo tranquillizzò. Non era del tutto disarmato, anche se Dreixk e i suoi uomini erano molti più di loro. Probabilmente avrebbe perso, forse sarebbe morto, ma almeno avrebbe combattuto. E con un po’ di fortuna si sarebbe portato Dreixk con sé nella tomba.
Con questo nuovo proposito in testa, Castle iniziò a guardarsi attorno freneticamente alla ricerca di un punto da cui sparare senza essere un bersaglio facile. Poi il piccolo aereo per la posta entrò nel suo campo visivo e si bloccò. Forse non era tutto perduto. Forse c’era un’alternativa. Non era un grosso aereo quello, ma era comunque abbastanza grande da trasportare una decina di persone. Era perfetto.
Prima ancora che potesse pensare ai pro e contro di quella scelta, Rick agì. Prima che qualcuno potesse fermarlo, si fiondò di nuovo verso Kate e gli altri.
“Dobbiamo andarcene!” esclamò velocemente mentre i suoi amici lo guardavano ancora confusi e sorpresi per quell’improvviso cambio d’umore. Castle fece un cenno a Esposito e gli indicò il piccolo aereo postale poco lontano. “Espo, sai guidarlo?” chiese svelto. Javier osservò l’aeroplanino per un secondo, quindi annuì. “Ottimo. Andiamo.” concluse allora Rick, spingendo Kate dalla schiena e prendendo Leandro in braccio perché tutti si muovessero a seguirli.
“Ehi, voi!! Dove andate??” gli urlò dietro uno dei piloti dell’aereo, vedendoli correre in mezzo all’aeroporto.
“Rick, che succede??” domandò Kevin preoccupato, continuando comunque a procedere velocemente e a tenere Semir insieme a Esposito. Il colonnello comunque non ebbe bisogno di rispondergli. In quel momento infatti, il primo colpo di arma da fuoco fu sparato contro di loro. Abbassarono tutti la testa d’istinto. Nessuno urlò di dolore quindi non smisero di correre e anzi accelerarono il passo (per quanto possibile tra bambino, ferito, donna in gravidanza, borsoni e valigie).
“FERMATELI!!” Il comando di Dreixk arrivò fino a loro, a quasi trecento metri di distanza. Erano già a un terzo del percorso dall’aereoplanino, ma la loro velocità era ridotta rispetto a quella dei soldati. Di quel passo li avrebbero comunque raggiunti.
Realizzando quel pensiero, Rick tirò fuori la pistola dalla fondina.
“Copriti le orecchie!” ordinò a Leo. Il bimbo fece subito come richiesto, portandosi le mani alle orecchie e accucciandosi di più contro il colonnello. Quindi Castle si voltò a metà all’indietro per qualche attimo e sparò tre colpi alla cieca, senza mai fermarsi, per rallentare gli inseguitori. Non appena si voltò di nuovo in avanti, notò con la coda dell’occhio Ryan fare lo stesso con la pistola che aveva nascosta sotto il maglione.
“Più veloci!” urlò Rick, ma non seppe se qualcuno lo sentì a causa dei ripetuti colpi di mitraglietta intorno a loro. Per fortuna l’arma dei soldati era poco precisa e, essendo in movimento, la mira era ancora peggiore. “Leo, ora ti metto giù.” disse velocemente e con un po’ di fiatone al piccolo, che lo guardava con gli occhi sgranati, spaventato, le mani ancora sulle orecchie. “Tu devi correre velocissimo ed entrare nell’aereo, capito?” Leandro annuì solo quindi, quando Castle esclamò “Ora!”, saltò praticamente giù dal colonnello e iniziò a correre più veloce che poté. Lanie si affrettò a prendere per mano il figlio per essere sicura che non rimanesse indietro. Mancavano solo centocinquanta metri.
“CASTLE!!” urlò Dreixk dietro di loro. La risposta di Rick furono altri colpi di pistola indirizzati direttamente a lui e un paio dei suoi uomini più vicini. Gli parve di vedere un soldato cadere al suolo, ma non aveva tempo di sincerarsene.
All’improvviso Javier lanciò un gemito di dolore e quasi inciampò a terra, ma un attimo dopo si riprese e continuò a correre, sempre tenendo Semir insieme a Kevin. Castle però, appena dietro di loro, vide chiaramente Espo zoppicare e lasciare una sottile scia di chiazze di sangue a terra, derivanti dalla macchia rossa che gli si stava allargando sui pantaloni chiari all’altezza del polpaccio sinistro.
Rick si voltò di nuovo e sparò verso i suoi inseguitori, ma questa volta cercò di mirare. Aveva un altro caricatore e la pistola di riserva attaccata appena sopra la caviglia, lo stesso per Ryan, ma era tutto ciò che avevano e non era certo un arsenale. Fortunatamente un altro soldato di Dreixk gli fece il favore di cadere gemente a terra. Tornò a guardare avanti: solo cento metri.
“Maggiore Ryan, mi dia la sua pistola!” La voce imperiosa della Gates fece voltare Rick sorpreso verso di lei. Non le aveva mai sentito quel tono.
“Gates, non posso…” cercò di replicare Kevin con il fiatone, correndo, sparando e insieme tenendo anche Semir.
“Me la dia!” L’ordine della donna, che gli correva parallela, per un attimo lasciò di stucco Ryan. Poi però, prendendo atto delle troppe cose che stava cercando di fare insieme, si decise a lasciarle l’arma. Non appena la Gates prese la pistola, si fermò e si voltò verso i loro inseguitori.
“VICTORIA!” urlò Jenny terrorizzata, vedendola bloccarsi all’improvviso.
“Continuate a correre!” ordinò Rick, fermandosi pochi passi dopo la Gates e iniziando anche lui a sparare ai soldati. Con suo sommo dispiacere mancò per due volte Dreixk, ma almeno un altro soldato cadde a terra. Vedendo che le prede avevano iniziato ad affilare le zanne, Dreixk fece riparare i suoi uomini dietro un mucchio di valigie ancora da imbarcare, lasciando a Rick e gli altri un momento per respirare.
“Che diavolo pensavi di fare??” esclamò Castle nervoso alla Gates, tirandola per un braccio dietro il mucchio di pacchi postali poco lontano. Nello stesso momento in cui loro si nascosero lì, Kate e gli altri raggiunsero l’aeroplanino e iniziarono a buttarci dentro i borsoni. Non vide traccia dell’omino che poco prima stava mettendo il carburante all’apparecchio. Probabilmente era scappato. “Andiamocene!” aggiunse Rick agitato, controllando intanto che gli altri salissero incolumi sull’aeroplanino.
“Andate voi.” replicò in risposta Victoria. Era estremamente seria. Non si era neanche voltata verso di lui. Tutta la sua concentrazione era verso le valigie dietro cui erano accovacciati i soldati. Appena ne vide un paio uscire, subito si mise in piedi, pronta, le braccia tese in avanti. Castle non fece in tempo nemmeno a parlare che con due colpi la donna li aveva stesi entrambi a terra. La guardò a bocca aperta. “Mio marito mi aveva insegnato a usare pistola e fucile quando eravamo giovani.” si spiegò la donna riaccovacciandosi a terra, vedendo la sua espressione. “Quando andavamo a caccia tornavamo sempre con una preda.” aggiunse poi con un piccolo sorriso triste e nostalgico sulle labbra nonostante il momento. Un altro soldato doveva aver tentato di uscire allo scoperto, perché in un attimo la Gates si era sporta dai pacchi e aveva già sparato un altro colpo. Stavolta mancò l’uomo per un soffio.
“Gates, forza…” ritentò Rick, sfruttando quel momento di pausa. Aveva il fiatone per la corsa e l’adrenalina. Non uscì più nessuno dalle valigie, quindi Dreixk doveva essersi accorto che mandare i suoi uomini avanti allo sbaraglio non era esattamente la mossa migliore. In ogni caso si sarebbe ripreso preso, riorganizzando meglio i soldati. Era il momento di andarsene. Nello stesso attimo il motore del piccolo aereo emise un forte brontolio e il motore iniziò a far girare le pale, quasi li stesse chiamando a sé dicendogli di sbrigarsi.
“Va con loro, Castle!” gli disse la donna senza tener conto delle sue parole, indicandogli l’aeroplanino. “Hanno più bisogno di te che di me.”
“Ma... la tua famiglia…” tentò ancora Rick. Non poteva credere che avrebbe abbandonato così suo marito e i suoi figli. Che non avrebbe neanche tentato di tornare viva da loro. Ma lei gli sorrise, come se andasse tutto bene. Un altro sorriso dolce e triste che Castle non aveva mai visto e che gli fece comprendere ciò che in realtà già sapeva, ma che non aveva voluto credere.
“La mia famiglia è morta.” rispose la Gates. “Mesi fa.” Rick rimase a fissarla immobile, incredulo che lei avesse tenuto un segreto del genere per tutto quel tempo. ‘Sono in un posto più sicuro.’ gli aveva detto una volta. ‘La mia famiglia è più al sicuro ora di quanto lo sia mai stata.’ aveva ripetuto poco prima che lasciassero l’appartamento di Ryan. Ora capiva perché. E capiva anche perché lei non era più andata a trovarli.
“Victoria…” mormorò piano, cercando di trovare delle parole adatte che non gli vennero. La donna scosse la testa.
“Lei vuole sempre salvare tutti, Colonnello.” disse più dolcemente di quanto l’avesse mai sentita, ripetendo quasi alcune parole che gli aveva già detto mesi prima: ‘Lei vorrebbe salvare tutti, signor Castle. Anche se è impossibile.’ Rick sentì una stretta al petto e non fu capace di rispondere. “Ora vada.” ripeté alla fine Victoria, indicando l’aereo. “Qui purtroppo non c’è più posto per noi. Vada con loro.” Poiché Castle rimaneva ancora immobile, la donna dovette scuoterlo per una spalla, tornando al suo abituale modo di fare sbrigativo. “Vi copro io le spalle, ma ora vada, signor Castle! Vada!” A quelle parole urgenti, Rick si costrinse ad alzarsi. Prima di andarsene però le lasciò il suo caricatore pieno per la pistola, quindi iniziò a correre verso l’aeroplanino. Non appena si mosse all’aperto sentì nuove scariche di proiettili volare attorno a lui, ma allo stesso tempo gli fu facile individuare i colpi singoli dell’arma della Gates, che gli stava comprendo la fuga. Si costrinse a non voltarsi e accelerò il passo.
Castle corse quegli ultimi metri più velocemente che poté. Non appena lo videro arrivare, Kate e Ryan gli spalancarono il portellone laterale per farlo salire.
“Sbrigati!” gli urlò Kevin allarmato, facendogli segno con la mano mi muoversi. Un attimo dopo però Rick lo vide cadere all’indietro e per un momento gli si fermò il cuore. Beckett si voltò a controllare se stesse bene, quindi fece un cenno veloce al colonnello a indicargli che stava bene per tranquillizzarlo. Era così vicino che poté vedere lui stesso Ryan steso all’interno del velivolo che tentava di rialzarsi tenendosi un braccio mentre Jenny e Lanie cercavano al contrario di tenerlo giù e allontanarlo dal portellone aperto.
“CASTLE!!” L’urlo di Dreixk arrivò contemporaneo a un proiettile che gli passò a un soffio dalla testa e andò a conficcarsi nella lamiera dell’aeroplanino. D’istinto, Castle si bloccò. Era a meno di un metro dal portellone e da Kate. Aveva il fiatone e i polmoni gli bruciavano, ma i suoi occhi erano concentrati su quelli terrorizzati della donna, esattamente di fronte a lui, ma fortunatamente riparata dalle pallottole di Dreixk dal metallo dell’aereo. Lui invece era completamente esposto, poiché anche le ali del velivolo erano dietro di lui invece che tra lui e l’altro colonnello. “Getta l’arma e voltati!” comandò ad alta voce Dreixk. C’era una chiara nota di compiacimento ed esaltazione nella voce che sovrastava senza problemi il frastuono dell’aereo.
Rick rimase per un momento immobile. Poi mimò uno ‘scusa’ con le labbra a Beckett e, mentre lei scuoteva energicamente la testa in segno di diniego, buttò di lato la pistola. Quella cadde malamente a terra, anche se, dato il frastuono, il colonnello non sentì il rumore. Poi Castle si girò verso il suo parigrado con le mani alzate. Appena lo fece, il suo sguardo venne catturato da una massa scura a terra poco lontano, vicino ai pacchi postali. Ci mise un paio di secondi prima di capire che era la Gates, riversa al suolo in una pozza di sangue. Gli si contorse lo stomaco. Avevi ragione, Victoria… pensò. Non avrei mai potuto sperare di salvarvi tutti.
Rick strinse i pugni con rabbia e contrasse la mascella. Aveva sbagliato di nuovo. Tornò a fissare Dreixk con odio. Se solo fosse stato un po’ più vicino, gli si sarebbe scagliato contro. E un solo pugno questa volta non sarebbe bastato a placarlo. Il naso violaceo che gli aveva procurato qualche ora prima non sarebbe mai stato sufficiente. A quella distanza però, sarebbe stato fortunato a fare metà del percorso prima che lui premesse il grilletto e gli sparasse. Non aveva alcuna intenzione di dare quella soddisfazione a Dreixk.
“Complimenti, Dreixk!” esclamò allora con tono ironico, cercano di calmarsi e di pensare lucidamente al da farsi. Ogni sua possibilità di restare a Berlino era stata bruciata dall’arrivo del colonnello e dei suoi uomini. Dovevano averlo capito anche i suoi amici e per questo non erano ancora partiti. Il problema è che se restavano lì ancora a lungo, rischiavano di partire con il buio o non partire affatto. “Mi hai preso!”
“Oh, ho fatto molto più di questo!” gli urlò di rimando l’altro con in faccia stampato un ghigno soddisfatto. “Ora tutti sapranno chi sei davvero!” continuò facendo un passo in avanti, senza smettere di puntargli la pistola addosso. I suoi rimanenti uomini si spostarono lentamente a ventaglio intorno a lui in modo da tenere sott’occhio Castle, bloccando anche ogni tentativo di fuga. Un paio si spostarono anche verso il davanti dell’aeroplanino e puntarono le armi contro il pilota, quasi sicuramente Javier, perché non si muovesse. “Non il simpatico e divertente Colonnello Castle,” Dreixk pronunciò il suo nome con una smorfia schifata. “Ma il traditore e bugiardo che sei sempre stato e che nessuno ha mai visto tranne me!”
“Che occhio d’aquila…” borbottò Rick nervoso. “Va bene, ti ripeto, mi hai preso!” disse poi a voce più alta, sovrastando il rumore dell’aeroplano. “Hai vinto. Ora lascia perdere loro e verrò con te senza alcuna storia!”
“CASTLE!!” urlò Kate angosciata dietro di lui. Il colonello le fece immediatamente segno con la mano di stare tranquilla.
“Verrò con te!” continuò senza badare a Beckett, gli occhi fissi su Dreixk. “Ma lasciali andare!”
“E perché dovrei farlo?” domandò divertito l’altro colonnello. “Vi ho tutti in pugno.”
“Andiamo Dreixk!” replicò Castle con un tono quasi seccato che nascondeva la disperazione che stava provando. Doveva assolutamente convincere quel bastardo a lasciar perdere gli altri. Una goccia di sudore gli accecò per un attimo un occhio. Scosse la testa per toglierla e solo in quel momento si accorse che non solo stava sudando, ma anche che il suo cuore stava battendo a un ritmo furioso. Aveva paura. Era letteralmente terrorizzato, ma non doveva assolutamente mostrarlo a Dreixk. “Che fastidio vuoi che ti diano?” continuò poi. “Lasciali stare. Hai già me ed è tutto quello che volevi, o sbaglio?” Per un momento Dreixk non fiatò, pensieroso. Per un momento Rick si concesse di sperare.
“Sai cosa?” domandò alla fine retorico Dreixk con un mezzo ghigno maligno che distrusse completamente la piccola speranza di Castle. Era troppo credere che avesse un cuore. “Visto che c’è ancora vivo almeno uno degli uomini che ha interrogato il tuo piccolo amico bugiardo e lo stampatore falsario, credo che mi farò dare qualche suggerimento su come trattare i tuoi altri amici…” A quelle parole, Rick fece d’istinto un passo indietro verso il portellone aperto dell’aereo, come a voler proteggere l’ingresso. Un brivido di orrore e rabbia gli passò attraverso la schiena sapendo di essere impotente, di non poter aiutare Kate e gli altri. Si accorse solo in quel momento che Semir stava urlando da dentro l’abitacolo. Che avesse sentito ciò che quel bastardo aveva appena detto?
“Non ti permetterò di avvicinarti a loro!” urlò Rick senza pensarci. “Dovrai passare sul mio cadavere!” Dreixk rise a quelle parole. Una risata fredda, senza gioia.
“Castle, Castle…” lo canzonò sarcastico e maligno. “Non ho bisogno di passare sul tuo cadavere per arrivare a loro. Mi basta passare sul tuo corpo.” Prima che Rick potesse comprendere il significato di quelle parole, Dreixk gli sparò. Castle si sentì spingere una spalla con una forza tale da farlo girare in parte su sé stesso e mandarlo a terra. Il dolore venne l’attimo dopo. Un dolore lancinante alla spalla colpita che lo fece gemere penosamente e raggomitolare quasi in posizione fetale. Fu allora che capì cosa intendesse Dreixk: non gli serviva che fosse morto, ma solo in condizioni di non mettergli i bastoni fra le ruote.
“RICK!!” La voce terrorizzata di Kate lo fece voltare verso il portellone dell’aereo. La donna era già saltata giù ed era ormai su di lui per sincerarsi delle sue condizioni, incurante di Dreixk con ancora la pistola carica e pronta a sparare.
“Kate…!” mormorò preoccupato, cercando di ignorare il dolore. Gli sembrava di avere un tizzone ardente conficcato nella spalla, appena sotto la cicatrice appena formata. Sospettava quasi che gli si fosse riaperta quella non troppo vecchia ferita. “Torna… torna sull’aereo… Vattene!”
“Non senza di te!” dichiarò in risposta Beckett irremovibile, prendendo velocemente un fazzoletto da una tasca.
“Non l’ho ucciso, tesoro.” esclamò Dreixk divertito, senza smettere di puntare loro contro l’arma. “Non lo avrei mai fatto. Lo voglio vivo quanto te per il momento, anche se non per le stesse ragioni…” aggiunse poi con un ghigno.
“Kate… ti prego…” provò di nuovo Rick, stringendo i denti e tenendosi faticosamente la spalla colpita con la mano libera. Beckett stava tentando di tamponare la ferita con il fazzoletto, ma questo era già quasi completamente impregnato di sangue.
“No.” replicò la donna dura senza dargli la possibilità di continuare. Castle deglutì faticosamente e chiuse gli occhi, appoggiando per un attimo il capo sull’asfalto, nel vano tentativo di far sparire il male con la sola forza del pensiero. Cercò di concentrarsi su altro, come i minuscoli granellini di polvere che sentiva finirgli in faccia spinte dalle pale dell’aereoplanino. Però in quel momento sentì anche un’altra cosa: un movimento così lieve all’altezza della caviglia da pensare di averlo solo immaginato. E visto che era in parte schiacciata dal suo corpo, ancora in una mezza posizione fetale, probabilmente era solo intorpidita.
“Ora dì ai tuoi amici di spegnere il motore e scendere, Colonnello Castle.” disse alla fine Dreixk con un mezzo sorriso, indicandogli il piccolo aereo con la pistola quando Rick alzò con fatica la testa per guardarlo. “E poi digli addio.”
A quelle parole Castle sollevò gli occhi su Kate, angosciato. Avrebbe voluto dirle che gli dispiaceva, che doveva andarsene, che avrebbe dovuto proteggerla, che era colpa sua, che voleva sposarla, che voleva un’altra notte e un altro giorno con lei, che voleva una vita con lei… Avrebbe voluto dirle di nuovo che la amava. Ma non gli uscì nulla. La sua bocca pareva essere diventata all’improvviso asciutta e incapace di spiccare parola. Però non fu solo quello a impedirgli di parlare, anche se lo capì con un secondo di ritardo. Fu l’espressione di Beckett. Non era rassegnata, impaurita o altro. Al contrario, era decisa. Rick poteva quasi sentire i muscoli tesi di lei dal braccio poggiato sopra il suo petto. E il suo sguardo… il suo sguardo pareva determinato, concentrato su qualcosa che a lui sfuggiva. Poi però il viso di Kate cambiò di nuovo. Fece un piccolo sorriso a Castle, come per tranquillizzarlo, quindi spostò leggermente lo sguardo verso il portellone aperto dell’aeroplanino senza farsi vedere. A quel punto mosse quasi impercettibilmente la testa in segno di assenso a qualcuno che, dalla sua posizione a terra, Rick non riuscì a vedere.
“Kate…?” cercò di domandare Castle, ma la donna lo fermò ancora una volta.
“Andrà tutto bene, Rick.” disse con un piccolo sorriso. “Fidati di me.”
“Tesoro, togliti da lì!” esclamò poi Dreixk a Beckett ironico. “Non vorrei dover sfigurare quel tuo bel faccino o quel corpo da favola!” I suoi uomini ridacchiarono per la battuta. “Anzi, visto che sicuramente hai dato un assaggio di te a Castle, magari mi toglierò lo sfizio anche io e ti scoperò prima di ucciderti. Chissà, magari lo troverai anche più piacevole di…” Kate non lo lasciò finire. In quell’istante infatti si alzò in piedi fulminea e si voltò di scatto verso Dreixk, le braccia tese in avanti e una pistola tra le mani. Rick la guardò incredulo, gli occhi sgranati e la bocca semiaperta. Ci mise un paio di secondi prima di capire che quella era l’arma di riserva che aveva attaccata alla caviglia. Il lieve movimento che aveva sentito prima doveva essere stato quello della donna che gli sfilava la pistola dalla fondina sotto l’orlo del pantalone.
“Scopami all’Inferno, stronzo!” replicò Beckett, sempre puntandogli l’arma contro. Gli uomini di Dreixk si mossero subito intorno a lui, ma nessuno fu abbastanza veloce.
“Ma che diav…?” furono le uniche parole che riuscì a pronunciare Dreixk prima che Kate sparasse. La pistola esplose un colpo, poi due, tre, quattro. Per un momento Rick temette che nessuno dei proiettili fosse andato a segno, poiché l’uomo era ancora in piedi. Poi però lo sguardo stupito di Dreixk si abbassò lentamente verso il suo petto. Una macchia rossa si stava allargando a vista d’occhio all’altezza del cuore sopra la divisa grigio chiaro. Il colonnello rialzò lo sguardo verso di loro, ancora incredulo mentre iniziava a sbiancare, rendendo più evidente il viola del suo naso. Quindi iniziò a ondeggiare leggermente. A Castle parve quasi di vederlo cadere a rallentatore. Dreixk prima precipitò sulle ginocchia, lasciando andare la pistola a terra. Quindi il suo corpo cadde in avanti.
Per un attimo tutti rimasero immobili, come se fosse stato uno shock troppo grande da comprendere o aspettando quasi che il colonnello si tirasse su di nuovo. Ma non lo fece. Il corpo di Dreixk rimase immobile sul freddo terreno. Morto.
Fu Kate a rompere quella strana e bloccata atmosfera. Dopo aver atteso per capire se Dreixk si sarebbe rialzato, Beckett si riabbassò subito su Rick e lo strattonò per il braccio sano per costringerlo a rimettersi in piedi.
“Muoviti Castle!” ordinò ansimante, quasi avesse corso una maratona. Sfortunatamente nello stesso attimo in cui il colonnello si rialzò, gli uomini di Dreixk ricominciarono a sparargli addosso. Dovettero però subito cercare di nuovo un riparo perché non solo Beckett aveva iniziato a sparargli contro mentre reggeva Castle, ma lo stesso aveva cominciato a fare anche Ryan dal portellone aperto dell’aereo per coprirgli le spalle.
Senza capire bene come, ancora un po’ stordito dagli ultimi fatti, dal dolore e dal sangue perso, Rick si trovò tirato dentro il piccolo velivolo con forza, seguito a ruota da Kate. Un attimo dopo il portellone fu chiuso e la voce di Javier risuonò nella penombra dell’abitacolo.
“Reggetevi!!” urlò Esposito. “Ora si balla!” Castle sentì il rumore del motore salire di giri, la lamiera sotto di lui vibrare e un attimo dopo capì che stavano iniziando a muoversi. “State giù!” gridò ancora Javier e tutti sentirono chiaramente la scarica di proiettili contro l’aereo. Per fortuna il metallo parve reggere. Quella situazione comunque durò pochi secondi, che a Rick parvero un’eternità. Poi a un certo punto il metallo smise di scuotersi sotto di lui ed Esposito finì di lanciare un’imprecazione dietro l’altra contro il culo pesante del velivolo.
Per un attimo tutti rimasero in silenzio, tutti seduti a terra, ancora con il fiato sospeso mentre l’unico suono rimasto era il ronzio del motore. Poi iniziarono a scambiarsi occhiate incredule, la bocca aperta e gli occhi sgranati. Quindi un sorriso, un vero sorriso, si aprì sui loro volti.
“Signori e signore,” esclamò alla fine Javi con tono decisamente allegro. “Qui è il vostro pilota che vi parla. Mettetevi comodi e godetevi il viaggio: siamo ufficialmente in volo verso l’Inghilterra!” Urla di gioia e sospiri sollevati seguirono immediatamente quell’annuncio. Lanie abbracciò stretto il piccolo Leandro e lo riempì di baci su tutto il visetto mentre lui si stringeva alla madre. Poi Leo però si staccò un poco e si voltò verso Semir, appoggiato con le spalle a una delle pareti, e gli prese una mano con un sorriso felice. Lanie fece altrettanto, seguendo l’esempio del figlio. L’adolescente ricambiò entrambi con un sorriso stanco, ma emozionato.
Jenny si aggrappò al collo del marito, incurante della sua ferita al braccio, che avevano coperto con un fazzoletto di fortuna, sopra cui si era appoggiata. Rimasero abbracciati in quella posizione finché Kevin non gemette per il dolore. Solo allora la moglie si staccò, ma solo per scusarsi e cambiare lato in cui abbracciarlo.
Lanie a quel punto si alzò per tornare in modalità infermiera e medicare i feriti, ma prima di farlo andò a baciare Javier alla guida dell’aeroplanino, seguita a ruota da Leandro che voleva abbracciare il padre.
Castle osservò tutto quel tripudio di gioia ancora attonito, come se non fosse lui a guardare davvero quello spettacolo, ma un’altra persona. La spalla gli pulsava forte, ma in confronto a quello che stava provando era solo un dolore sordo e a malapena degno di nota. Ce l’avevano fatta. Si stavano allontanando sempre più da Berlino e dalla Germania. Quell’incubo era finito e presto sarebbero arrivati in Inghilterra. L’essere su un aereo postale avrebbe sicuramente giovato se fossero riusciti a raggiungere le coste inglesi con ancora un po’ di Sole perché difficilmente qualcuno gli avrebbe sparato. Non erano ancora fuori pericolo ovviamente, ma non erano più nemmeno nel minino delle armi e delle macchinazioni di Dreixk e dei suoi uomini.
Dreixk… quello stronzo li aveva quasi fregati. Erano stati fortunati a trovare quell’aeroplanino. Non era nei piani di Rick l’andare via con gli altri, ma non era nemmeno nei piani che la Gates morisse. Il colonnello contrasse la mascella, il respiro ancora leggermente affannoso, lo sguardo perso nel vuoto al ricordo del cadavere della donna. Aveva ragione Victoria: lui avrebbe voluto salvare tutti, anche sapendo che era impossibile. Eppure… eppure, nonostante tutto, anche sentendo le morti della Gates e di Montgomery sulla coscienza, Castle sapeva che non avrebbe cambiato nulla degli ultimi mesi. E l’unica spiegazione a quella riflessione si trovava accanto a lui.
Solo quando quel pensiero gli si affacciò alla mente si accorse che la sua mano aveva stretto per tutto il tempo quella di Kate. Fu come ritornare lentamente a prendere possesso del proprio corpo. Sentì il calore della donna contro la spalla sana a cui era appoggiata, ma anche il freddo metallo dell’aereo sotto di lui. Il ronzio del motore tornò a infilarsi prepotente nelle sue orecchie. La vista si abituò alla penombra dell’abitacolo. Si accorse che l’odore di carta e chiuso doveva aver impregnato ogni cosa tanto era forte. E poi ebbe la chiara percezione di qualcosa di morbido e caldo appoggiato alla sua guancia. Chiuse gli occhi per un attimo per assaporare quella sensazione, ma se ne andò troppo velocemente per i gusti di Rick. Però per lo meno lo costrinse a voltarsi verso Kate, le cui labbra lo avevano appena sfiorato.
Beckett pareva in attesa di una sua reazione. Lo stava osservando con un misto di emozioni dipinte sul viso: impazienza, preoccupazione, eccitazione, tristezza, sollievo. Sopra tutto però c’era altro. Una scintilla solo per lui.
“Ehi…” mormorò Rick con un piccolo sorriso.
“Ehi…” replicò in risposta Kate piano, gli occhi lucidi e le labbra curvate in un sorriso dolce.
“Per fortuna che ti ho insegnato a sparare.” dichiarò il colonnello con tono divertito. Kate alzò un sopracciglio.
“Dopo tutto quello che abbiamo passato sai dirmi solo questo?” replicò con aria fintamente scandalizzata. Castle fece una smorfia che la fece ridacchiare.
“Hai ragione, ma credo di aver esaurito le altre battute per il momento.” commentò con un sospiro, stringendosi poi la mano sulla spalla ferita con un lieve gemito. “Ma perché sempre la stessa spalla??” borbottò poi in un tono a metà tra l’ironico e il serio, esasperato.
“Forse hai un magnete incastrato lì che attira i proiettili.” ipotizzò Beckett. A quella frase, fu il turno di Rick guardarla con un sopracciglio alzato. Si osservarono immobili per qualche secondo, lei con aria grave e lui scettico. Poi scoppiarono a ridere. Una risata liberatoria dopo tutta la paura e la tensione accumulate nelle ultime ore.
“Dio, finalmente questa storia è finita…” sussurrò Kate sollevata, appoggiando la fronte a quella di Rick e abbracciandolo in modo da non fargli male.
“Ti sbagli.” mormorò in risposta lui, facendo rialzare la donna con aria sorpresa. “E’ appena cominciata.” continuò Rick con un sorriso dolce, innamorato. Lei lo guardò confusa per un momento, poi capì e sorrise a sua volta. Quindi si riavvicinò per baciarlo. Castle non si lasciò sfuggire l’occasione e la tenne stretta a sé, approfondendo il bacio, entrambi incuranti del casino intorno a loro, del sangue che li stava imbrattando, di Lanie che aspettava che finissero di parlare per medicarlo, di Kevin e Jenny che li guardavano sorridenti e di Leandro che, al contrario, aveva distolto lo sguardo da loro con una smorfia schifata.
La loro storia ora poteva davvero cominciare.                                                                                                

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Xiao! :D
Come avevo promesso (oggi è giovedì giusto O.o?) ecco il penultimo capitolo di questa storia!
Purtroppo la Gates è morta (ehi, siamo in guerra qui!), ma anche Dreixk non ne è uscito meglio (gioia e gaudio) e finalmente Castle e compagnia stanno partendo per un nuovo inizio. Voi che dite, ce la faranno? ;)
Il prossimo e ultimo capitolo è nella mia testa da una vita e mezza (più o meno da quando ho cominciato la storia XD) ma è stato rimodellato talmente tante volte che ormai non so più.... D: (no, scherzo, ho perfettamente in mente il cap, solo che devo trovare il tempo di metterlo giù! XD La parte del rimodellamento però è vera!)
Ah, prima di finire piccola nota storica (vi mancavano vero? XD): i voli di linea sono cominciati nel 1910-1913 in Germania e Inghilterra (anche se i primi voli erano effettuati da dirigibili e idrovolanti) e poi nel mondo (ma per i transcontinentali solo dal 1959). Per il resto, non ho idea di come fossero fatti gli aerei dell'epoca, nel senso grandezza, colore e cose del genere. Voi nel caso fate finta di niente, eh? XD (per dire, sapevo che volavano aerei passeggeri perché Indiana Jones si spostava volando XD)
Va beh, taccio ora XD Spero solo che il capitolo vi sia piaciuto! :)
A presto! :D
Lanie

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Capitolo 30
*** Dopo ***


Cap.30 Dopo
 

20 luglio 1969 – ore 21:15

… e così, questa è la mia storia. Beh, solo una piccola parte in realtà e solo una delle tante da raccontare ambientate nella Berlino del 1943. Forse neppure la più avvincente o particolare o d’esempio o coraggiosa. D’altronde c’era poca possibilità di scelta all’epoca. Un uomo diventa ciò che è solo a causa di ciò che gli accade intorno e della sua esperienza, non importa quello che avrebbe voluto essere.
Dovete sapere che gli eroi non durano molto in guerra. Puoi correre lancia in resta contro il nemico e combattere molto coraggiosamente, ma, se non sai schivare le pallottole, allora morirai anche molto rapidamente. Per questo sono sempre i più vili a sopravvivere. Ma non sono gli unici fortunatamente. E’ qui che nasce il sottile confine tra gli eroi plateali, quelli più facili da individuare, ed gli eroi silenziosi, quelli che i primi chiamerebbero codardi perché agiscono in segreto. Eppure sono proprio i secondi quelli che salvano più vite. Gli eroi plateali sono i simboli che servono a scuotere il castello del Male, ma poi sono i silenziosi quelli che sgretolano piano piano le fondamenta.
Io non ho la pretesa di essere l’uno, né l’altro. Ma per quanto Berlino a quei tempi fosse così piena di odio, c’erano ovunque delle piccole scintille di bontà che uomini come Hitler e il nazismo non sono riusciti a estinguere. Perché se il rogo che hai creato è grande, potrai cercare quanto vuoi di contenere o anche spegnere le fiamme, ma all’interno, nascosti nella base, ci saranno sempre le braci arroventate che continueranno a dare sostentamento al fuoco.
Scusate la premessa, cari lettori, ma dovevo spiegarvi qual è stato il motivo che mi ha spinto a dare vita al libretto che ora tenete in mano. Ovvero per dare voce a quelle persone che, di quel rogo, sono state le braci, ma che non saranno mai celebrate dalla Storia.
Queste però sono per lo più le farneticazioni di un vecchio soldato che ha voglia di parlare e voi non è questo che volete sentirmi dire. Sarà il caso allora che vi racconti cosa è successo dopo i fatti narrati, quello che di solito i libri non dicono mai perché basta immaginarlo. Essendo però questa una storia vera, e avendo io bloccato il racconto a metà, mi sembra giusto informarvi di ciò che accadde in seguito.
Allora dove eravamo? Ah, giusto: i miei compagni e io eravamo riusciti a partire da Berlino su quel piccolo aereo postale. Eravamo feriti, decimati e stanchi, ma sollevati di poter ricominciare di nuovo. O meglio, di poter vivere di nuovo.
Quel semplice mezzo fu la nostra salvezza. Nonostante non sembrasse robusto, l’aeroplanino ci portò fino in Inghilterra senza sforzo. Ancora adesso ricordo come la visione delle bianche scogliere di Dover furono per noi il segno che eravamo davvero salvi.
Atterrammo nel primo aeroporto che trovammo e ovviamente fummo subito fermati da un gruppo di soldati inglesi. Fu quasi strano risentire il suono di una voce inglese che non fosse quella dei miei compagni. I miei amici si presentarono con i loro nomi falsi, non fidandosi di chi avremmo potuto incontrare. Io fui costretto a usare il mio nome vero. Anche se avessi avuto con me il documento creato da Montgomery, lasciato incautamente nella mia casa berlinese, indossavo ancora la divisa e non avrei potuto spacciarmi per altro che un soldato. Se non altro il mio nome non tedesco mi risparmiò molti problemi. Ero un disertore? Una spia tedesca? Una spia americana di ritorno in patria? Stanco e provato com’ero, l’unica cosa che riuscii a inventarmi fu la verità, ovvero che eravamo scappati dal nazismo e cercavamo di tornare in America.
Ci interrogarono per ore, me in particolare. Capii solo in un secondo momento che in realtà poco importava a quei soldati dove fossi diretto. Non mi considerarono pericoloso, forse per il fatto di essere un fuggiasco, per essere americano o forse solo perché ero ferito e indebolito. Al contrario, mi valutarono un’ottima fonte di informazioni. In fondo potevo capirli. Ero un Colonnello dell’Esercito Tedesco in piena Berlino: conoscevo perfettamente dov’erano i sistemi antiaerei, quanti erano, qual era il punto più scoperto e quello più difeso della città. Parte delle mie informazioni le conoscevano già da ricognizioni aeree, ma altre gli erano sconosciute.
Mi sentii male al pensiero delle vite che sarebbero state stroncate dalle mie parole, ma volevo che quella guerra finisse e, più di tutto, io volevo solo andarmene con Kate e i miei amici. Qualcuno potrebbe chiamarmi traditore. Forse avrebbe anche ragione. Cercate però di capire il mio punto di vista: non potevo più tornare in Germania, che nonostante tutto era stata la mia patria per anni, ed era altrettanto tempo che mi ero staccato dall’America, convinto che non ci fosse più posto lì per me. Non ero mai stato fedele al Nazismo e anzi era l’unica cosa che volevo che crollasse. Conoscevo molti berlinesi, molte brave persone coraggiose che non meritavano di essere sterminate a causa della guerra. Quindi a chi ero fedele? Alla Germania? All’America? Probabilmente a nessuna delle due. Come ho già detto, in quel momento l’unica mia preoccupazione erano i miei compagni e Kate.
Tornando a noi comunque, alla fine i soldati inglesi ci lasciarono andare. Con un po’ di fortuna riuscimmo a raggiungere un paese vicino e poi a trovare un passaggio su un furgone per Londra, dove cambiai immediatamente la divisa da soldato e il nome.
Rimanemmo lì per quasi due mesi a curarci le ferite e recuperare le forze. Fortunatamente riuscimmo quasi subito a trovarci un tetto sopra la testa in un alberghetto della città, che ci diede una grossa stanza e diversi materassi bitorzoluti per poterci accampare tutti insieme. Non avendo soldi per pagare, ognuno di noi, tranne Semir e Leandro, cercò di trovare qualche lavoretto da fare con pagamento a fine giornata. Fu meno difficile di quanto avevamo pensato. I bombardamenti infatti avevano colpito duramente Londra e, mentre a Berlino le bombe erano arrivate quasi solo nell’ultimo anno, lì le macerie erano vecchie di almeno un paio d’anni. Con tutti gli uomini al fronte, i lavori per lo sgombero e la ricostruzione erano andati avanti a rilento. Alcune zone erano state pulite e da qualche parte erano anche già comparsi dei nuovi edifici, ma molte aree erano ancora impraticabili.
Fu così che io, Kevin e Javier ci trovammo da fare. Aiutammo infatti quanto più potemmo in quel frangente, cercando di rendere di nuovo agibili le zone che man mano il nostro capo ci indicava. Per giorni rovistammo tra le rovine, scovando scheletri, resti umani e animali, scarpe, gioielli, giocattoli, fotografie. Pezzi di una vita vissuta e spezzata nel giro di un attimo. Ricordo perfettamente come certe sere avessi solo voglia di stringere Kate a me e dimenticare il resto del mondo.
Lei, Lanie e Jenny invece, nonostante la gravidanza di quest’ultima, trovarono occupazione come infermiere negli ospedali. La moglie di Javier era ancora piuttosto pratica nel lavoro e le altre due impararono in fretta quanto non sapevano. Per lo più dovettero rifasciare ferite, bloccare ossa rotte, misurare temperature o pulire gli strumenti. Capitarono però anche delle volte in cui dovettero aiutare i medici in sala operatoria. Curarono quanti più vivi poterono, donarono un’ultima speranza e conforto ai moribondi, dichiararono morti quelli senza più polso né pulsazione. Le tre donne erano forti, molto più di quanto avrei mai creduto.
Lanie era molto provata, ma era abituata alla sofferenza. Jenny ebbe degli alti e bassi d’umore, accentuati anche dallo stato della gravidanza. Kate crollò emotivamente solo una volta, quando portarono un bambino sui sei anni con buona parte del corpo ustionato in ospedale. Il medico di turno e lei tentarono qualunque cosa, ma il piccolo, George, come le disse lui stesso, morì due ore dopo il ricovero, tra atroci dolori nonostante l’iniezione di morfina mentre lei ancora gli parlava per tranquillizzarlo, promettendogli che sarebbe sopravvissuto, ben sapendo di mentire. Ma la capisco. Come si può dire a un bambino che sta per morire?
Restammo a Londra finché la piccola di Kevin e Jenny non venne alla luce. Sì, era una femminuccia, una cosina con gli occhi azzurri e una matassa di capelli biondi che all’epoca mi stava all’interno delle mani. La chiamarono Sarah Grace.
Ricordo che mi fece una strana sensazione la sua nascita. Vedevamo la morte tutti i giorni, ci stava intorno, la toccavamo con mano, eppure il solo guardare quella neonata mugolare fu come osservarla lottare contro tutta quella distruzione. Fu la prima volta che parlai a Kate di avere dei figli. Mi ero accorto che fino a quel momento avevo avuto paura di avere bambini da una qualsiasi donna perché non volevo che crescessero in quel mondo rovinato. Ma ora avevo una nuova speranza. Sarah Grace era nata senza complicazioni in un ospedale pieno di feriti che non udivano il vagito di un bambino da chissà quanto. E il sentire che pareva che la guerra stesse volgendo al termine non faceva che aumentare il mio desiderio.
Due settimane dopo la nascita della piccola, ripartimmo. In qualche modo, lavorando tutti duramente, eravamo riusciti a guadagnare abbastanza sterline da ottenere un passaggio in terza classe su un transatlantico con partenza dal porto di Southampton, a sud dell’Inghilterra, e rotta per New York. Salpammo con altre centinaia di persone (non solo inglesi, ma anche rifugiati come noi) verso la speranza di terre senza guerra, bombardamenti e città distrutte.
Fu durante la traversata che scoprii che il mio recente desiderio si era già compiuto, che sarei diventato padre. Erano diversi giorni infatti che Kate non si sentiva bene: era sempre stanca, con mal di schiena, mal di testa e, negli ultimi tempi, anche con frequenti nausee. Lei aveva cercato di non dirmi niente, ma la sera notavo quanto fosse provata. Avevamo dato la colpa al lavoro pesante, come pure il ritardo delle sue perdite di sangue, ma non avevamo collegato il tutto fino a quel momento quando, nonostante il riposo sulla nave, lei continuasse a non stare bene. Bastò un controllo di Lanie e Jenny e poi un consulto con un’altra infermiera presente sull’imbarcazione, che aveva lavorato per anni come ostetrica e che ci aveva subito preso in simpatia per via di Sarah Grace e di Leandro, per capire quale fosse il suo problema: all’epoca della traversata, Kate era incinta di circa due mesi. Quella possibilità non ci aveva sfiorato neppure per un momento, poiché le nostre ultime notti insieme risalivano ai giorni appena successivi a Capodanno (che a noi parevano ormai come appartenenti a una vita precedente). Eppure ci erano bastate quelle poche ore da amanti per creare una nuova esistenza senza che lo sapessimo.
Ricordo perfettamente come quel giorno vagai per tutta la nave con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia, dicendo a tutti quelli che incontravo che sarei diventato padre. Quando mi sentirono, tutti si congratularono, ma poi, quando seppero che Kate non era mia moglie, molti mi guardarono male. Qualcuno mi disse di affrettarmi a sposarmi a bordo, che sicuramente il capitano si sarebbe preso volentieri quell’obbligo. Ma, dopo averne parlato, io e Kate rifiutammo. Gli altri non capivano. Non era un matrimonio riparatore quello che volevamo. Avevamo pensato di aspettare fino all’arrivo in America per sposarci, insieme ai nostri amici e a mia madre e suo padre, e così decidemmo comunque di fare. A noi non importava che la notizia del nascituro, quel cosino nascosto nel grembo della mia fidanzata a cui in un attimo mi ero già affezionato, fosse arrivata prima del matrimonio. Io non avrei comunque mai lasciato nessuno dei due e lei lo sapeva. Amavo Kate con tutto me stesso. E la amo tutt’ora.
Trovai New York cambiata da come la ricordavo. Era diventata più grande, più rumorosa, più caotica. Per noi però non fu un problema quella novità. In fondo una città trafficata è una città viva ed era giusto quello è cercavamo. Inoltre nascondersi sarebbe stato molto più semplice, anche senza dover cambiare radicalmente le nostre abitudini e i nostri nomi. Tra migliaia di persone infatti tutti sono visibili, ma nessuno in realtà viene riconosciuto. Ripensandoci ora non fu una scelta sbagliata. Alla fine abitiamo ancora tutti qui nella Grande Mela.
Una volta in America la nostra nuova vita cominciò. Cambiammo i nostri cognomi, decidendo di mantenere solo i nostri veri nomi. Visto che non avevamo accenti o cadenze particolari nella voce, nessuno sarebbe stato in grado di capire che eravamo arrivati dalla Germania. Non avevamo idea se fosse stato emesso o meno un mandato di cattura nei nostri confronti dopo la morte di Dreixk o se semplicemente si fossero dimenticati di noi a causa della sconfitta imminente. Forse c’erano state delle ricerche, ma tutt’oggi nessuno è mai venuto a bussare alle nostre porte chiedendo del Colonnello Castle, del Maggiore Ryan o di qualcuno a noi collegato.
Kate ritrovò suo padre pochi giorni dopo il nostro arrivo. Ricordo che si abbracciarono a lungo, mentre io mi sentivo quasi un estraneo che ficcava il naso nell’intimità di una famiglia. Per diverso tempo provai disagio in presenza di Jim Beckett. Non era cattivo, tutt’altro. Mi accolse bene in casa sua e diede la sua benedizione al matrimonio di Kate con un sorriso emozionato. Ma il fatto era che mi sentivo ancora in colpa per aver sconvolto la vita di sua moglie e di sua figlia oltre che, di riflesso, la sua. Solo dopo una lunga chiacchierata a quattr’occhi con lui tornai in pace con me stesso.
A proposito di ricongiungimenti, quasi dimenticavo di informarvi che rintracciai mia madre un mese e mezzo dopo il nostro arrivo a New York. Successe quasi per caso. Passando davanti a uno dei teatri della città, alzai per caso gli occhi sul cartellone del nuovo spettacolo in scena e fui attirato da uno dei nomi dei commedianti: Martha Rodgers. Ricordo che rimasi senza respirare per diversi secondi, troppo stupito di poter leggere di nuovo quel nome. Aveva ripreso il suo nome da nubile, ma ero certo che fosse lei. Riabbracciai mia madre il giorno stesso.
Scoprii più tardi che era stata un’idea di Tom Jones quella di farla tornare a teatro. Dopo averla sottratta alle grinfie degli uomini di Dreixk infatti, la spia aveva accompagnato mia madre in un viaggio in treno verso una delle città costiere affacciate sul Canale della Manica. Da lì avevano preso insieme un traghetto per l’Inghilterra, quindi Jones l’aveva imbarcata sulla prima nave per gli Stati Uniti. A conti fatti, scoprii che mia madre era arrivata a New York mesi prima di noi. Lì poi, su consiglio della spia, aveva ripreso a fare teatro.
“La mia parte l’ho fatta, Colonnello.” fu la prima cosa che mi disse la spia, sempre con il suo tono di voce vagamente divertito, quando mia madre me lo passò al telefono. Martha mi aveva confidato infatti che lei e Jones si sentivano settimanalmente da quando era in America. “Ora vuoi essere così gentile da onorare il nostro patto?” Lo accontentai. Lui aveva portato mia madre in salvo e aveva fatto anche in modo che la ritrovassi prima ancora che io capissi come fare. Glielo dovevo. Così gli dissi tutto quello che voleva sapere su mio padre, sul suo diario e anche alcune informazioni su dei soldati che avevo conosciuto in Germania. Alla fine mi ringraziò e mi rivelò in più una cosa che mi tranquillizzò: non ci stavano cercando. Negli ultimi tempi le cose a Berlino stavano peggiorando e, con tutti i problemi, nessuno si era davvero preso la briga di tentare di trovare un colonnello e un maggiore spariti con le loro famiglie, per quanto si dicesse che fossero implicati nell’uccisione di un altro colonnello. Potevamo essere incolpati per diserzione e omicidio, ma con la Germania che vacillava pericolosamente, le persone che sparivano nel nulla erano all’ordine del giorno. Quando salutai Tom Jones, mi chiesi se lo avrei più risentito. A oggi non è mai accaduto.
Oltre alla spia, c’era ancora una persona che abitava in Europa e che volevo risentire, il mio ultimo contatto con la Germania: Alexis. Riuscii a rintracciare la ragazza a Norimberga da alcuni parenti, dove le avevo consigliato di rifugiarsi. Fortunatamente, con la morte di Dreixk nessuno l’aveva più cercata e lei dopo qualche tempo si era trovata un nuovo lavoro in quella città. Ricordo che le suggerii di lasciare il paese, magari di trasferirsi anche lei e sua madre negli Stati Uniti, ma Alexis rifiutò la mia proposta. Stavano bene a Norimberga mi disse, e inoltre volevano restare a vedere il nazismo cadere.
“Accadrà presto.” dichiarò convinta quando la sentii al telefono. “E quel giorno voglio essere lì, Rick. È questa la mia scelta. Non voglio andarmene proprio ora che siamo così vicini! Hai sentito, no? La Russia è ormai un ricordo, l’Africa è andata, l’Italia è stata conquistata dagli Alleati e gli americani la stanno risalendo per liberarla completamente dal fascismo e arrivare fino a noi. La Germania è circondata da ogni lato e Hitler non reggerà ancora a lungo. Quando lui sarà sconfitto, il nazismo e tutto questo incubo finirà. A quel punto dovremo pure ricominciare, giusto? Beh, io voglio essere qui quel giorno. Mio padre credeva in un futuro migliore per i tedeschi e così voglio fare anche io. Quando tutto questo sarà finito, voglio dare una mano nella ricostruzione, Rick.” Nonostante la mia paura per Alexis, sapevo che non avrebbe cambiato idea. Era sempre stata una ragazza volenterosa e testarda, esattamente come suo padre. Non cercai di dissuaderla dalla sua idea. Conoscendola, sarebbe stato un inutile spreco di forze. Se penso alla donna che è diventata oggi, a quanto abbia effettivamente aiutato nel dopo-guerra, sono quasi felice di non averla convinta a tornare ed estremamente fiero di considerarla come una figlia e io di essere come un secondo padre per lei.
Tornando a noi, quello che successe dopo fu…
 
“Rick, sei con noi?” domandò dolcemente Kate, carezzandogli piano un braccio. Richard sbatté le palpebre e si guardò intorno confuso. I suoi pensieri lo aveva portato via da sua moglie e dai suoi amici per andare a ripercorre le pagine finali del libro che aveva concluso il mese precedente e che sarebbe stato pubblicato a breve. Lo aveva intitolato Berlin, 1943. Una piccola parte della sua vita a Berlino (opportunamente modificata nelle parti più crude e in quelle più intime con Kate in modo tale che potessero leggerla anche i suoi figli) trascritta su un paio di centinaia di pagine e bloccata a metà, durante la loro fuga dalla Germania. Per non lasciare i lettori in sospeso però, su consiglio di Kate aveva scritto un capitoletto finale, posto appena prima dei Ringraziamenti e che aveva chiamato ‘Dopo’, in modo da poter raccontare in breve cosa accadde negli anni successivi. Quel libro lo aveva riportato indietro di anni, al Richard Castle che credeva scomparso per sempre, ma che era tornato solo per la stesura di quella storia, per poter ricordare sensazioni ormai perdute e persone a cui doveva molto, ma che nel tempo erano scomparse dalla sua vita, anche se mai dal suo cuore e dalla sua mente.
Rick stava ripercorrendo quelle parole nella testa per essere sicuro di non aver dimenticato nulla. Nel caso, sarebbe stato ancora in tempo forse a effettuare qualche modifica dell’ultimo minuto.
“Scusa, amore.” mormorò a Kate con un piccolo sorriso colpevole. “Mi ero perso nei miei pensieri.”
“Lo avevo notato.” replicò lei divertita. “Ma ti avverto che così ti stai perdendo lo spettacolo.” aggiunse poi ridacchiando e facendo un cenno ai suoi amici seduti davanti a loro. Javier e Lanie occupavano uno dei divani del salone mentre Kevin e Jenny l’altro. Lui e Kate, essendo i padroni di casa, si erano accontentati di un paio di sedie prese dalla cucina.
“Secondo me non ci arrivano sulla Luna.” commentò in quel momento Javier.
“Javi, sei invecchiato troppo.” replicò sbuffando Kevin. “Quelli sono già sulla Luna.”
“Mah…” borbottò l’altro, indicando la televisione accesa con un cenno della mano. “Kev non so che dirti, ma a me quello sembra uno studio televisivo…”
“Amico, fattelo dire: sei vecchio, sordo e cieco ormai.” ribatté Kevin scuotendo la testa esasperato. “Certo che quello è uno studio televisivo! Hanno appena detto che stanno aspettando che gli astronauti si preparino per scendere!”
“Ne sei certo? E se fosse solo uno scherzo e…”
“Amore, piantala.” lo bloccò alla fine Lanie con un sospiro, carezzando piano la mano di Javier. “Abbiamo visto il lancio del razzo, ti ricordi? E ora sono nello spazio. Anzi sono ormai sulla Luna. Devono solo cambiarsi e…”
“Sì, ma chi ci dice che non sia tutta una finta?” borbottò Javi imbronciato, tirandosi gli occhiali su per il naso con fare scocciato.
“Appena vedremo le immagini capirai che sono davvero sulla Luna, papà.” lo rassicurò Leandro con aria divertita ed esasperata insieme, entrando in quel momento dalla porta d’ingresso aperta con un bimbo in braccio di circa cinque anni dalla pelle scura e i fitti capelli ricci neri come gli occhi, zoppicando leggermente. Rick lo guardò con un mezzo sorriso nostalgico. Quello che nel 1943 era solo un bambino, era diventato ormai un uomo adulto di trentaquattro anni, sposato, con un figlio (il piccolino che teneva tra le braccia, chiamato Louis) e con un ottimo lavoro da avvocato. La sua idea di diventare un soldato come Rick una volta cresciuto era fortunatamente sfumata già durante l’adolescenza. Leo però aveva dovuto comunque rispondere alla chiamata alle armi del governo di qualche anno prima. Aveva scampato la Guerra in Corea perché ancora troppo giovane, ma aveva dovuto passare un anno e mezzo in Vietnam tra il ’65 e il ‘67 prima che gli sparassero a una gamba durante un’azione e potesse tornare a casa con una Purple Heart, ovvero una medaglia che lo contrassegnava come un ferito di guerra. Non era più riuscito a camminare bene da quel giorno e in realtà si era salvato per miracolo perché la pallottola che lo aveva preso aveva mancato di un soffio l’arteria femorale. 
“Sentito?” esclamò Kevin, indicando Leo. “Ascolta la voce del tuo saggio ragazzo e taci, vecchio!”
“Vecchio a me??” replicò Javier scandalizzato. “Ti ricordo che abbiamo sì e no un paio d’anni di differenza! E poi vuoi dirmi che tu, all’alba dei tuoi freschi sessant’anni, saresti più arzillo di me??”
“Nonno?” lo chiamò Louis, smettendo per un momento di giocare con il piccolo carro dei pompieri che teneva in mano. “Che vuol dire al… albillo?”
“Louis, amore del nonno, solo tu sei la mia consolazione!” replicò Javi, facendo un grosso sorriso al nipote e poi un gesto a Leandro perché gli passasse il bambino. Il piccolo quindi si trasferì dalle braccia del padre alle ginocchia del nonno. Javier a quel punto iniziò a chiacchierare con Louis, ignorando completamente e volutamente gli altri, tanto che Kevin sbuffò contrariato e tornò a guardare la TV borbottando.
Rick ridacchiò mentre le donne presenti scuotevano la testa divertite. Erano abituati a quelle scenette. Javier e Kevin ne mettevano sempre in piedi una ogni volta che le tre famiglie si riunivano insieme per qualche festività o evento importante. Con l’avanzare dell’età poi, pareva che quei due non sapessero far altro che battibeccare come due donnicciole. Era una cosa che Richard era certo non sarebbe mai cambiata ed era in qualche modo rassicurante.
“Leo, ma il resto della truppa?” chiese allora a Leandro per cambiare discorso, intendendo i suoi figli e quelli dei suoi amici. L’uomo gli indicò la porta di casa da cui era appena entrato.
“Sono ancora tutti fuori in giardino a giocare a lanciarsi la palla da rugby. E’ quasi buio, ma con questo bel tempo e la temperatura fresca sarebbe un delitto farli rientrare ora, tralasciando il fatto che soffocheremmo qui dentro tutti insieme.” aggiunse poi ridacchiando. “Comunque Lara sta controllando che non facciano danni.” Rick annuì. Lara era la moglie di Leandro, una graziosa e molto dolce ragazza di colore poco più giovane di lui.
“Semir invece?” chiese poi, ricordandosi che non era ancora arrivato. Leo alzò le spalle.
“Arriverà a momenti.” rispose. “Lo sai come è fatto, se non spunta all’ultimo non è contento.” Proprio in quel momento sentirono diverse voci provenienti dal giardino chiamare qualcuno. Leo ridacchiò e allargò le braccia. “Predico il futuro ormai! Vado ad accogliere quel ritardatario del mio fratellone.” aggiunse poi allegro, uscendo di nuovo zoppicando per andare incontro a Semir. Rick si voltò a osservare Javier e sua moglie. L’uomo era ancora troppo preso dal nipote per accorgersi del resto (gli stava soffiando sulla pancia per farlo ridere), mentre Lanie invece aveva voltato lo sguardo verso la porta con un piccolo sorriso sulle labbra.
Dopo essere scappati dalla Germania, Semir non si era più separato da Javier, Lanie e Leandro. Prima a causa delle ferite che avevano avuto costante bisogno di attenzioni, poi perché non aveva avuto altro posto dove andare. Era stato praticamente inglobato da loro senza accorgersene e, quando era stato il momento di staccarsi dalla loro famiglia, era stato troppo tardi. Non era riuscito a farlo. Si era affezionato troppo a Leo e ai suoi genitori. In fondo quella era stata l’unica famiglia che aveva avuto da quando i suoi unici parenti erano morti a Berlino. E d’altronde ormai Leandro lo considerava come un fratello e Lanie e Javier come un figlio. Così, una volta a giunti in America, avevano chiesto a Semir se sarebbe voluto restare con loro, praticamente adottato. Rick non aveva mai visto il ragazzo così felice ed emozionato come quel giorno.
All’età di quarantadue anni, Semir era ormai un uomo fatto, anche se la sua bassa statura non era cambiata dall’adolescenza. Era invecchiato forse un po’ precocemente, come dimostravano i capelli e la corta barba ormai più color sale che pepe, ma data le sue passate esperienze Rick se l’era aspettato. La sua vita però era stata imprevedibile. Contro ogni previsione infatti, il ragazzo si era arruolato nell’esercito americano appena maggiorenne e ci era rimasto per i successivi vent’anni. Aveva deciso di ritirarsi solo quando, quattro anni prima, si era innamorato di una donna vietnamita mentre era nel paese per combattere. A quel punto si era congedato dal servizio e aveva portata in America la ragazza per sposarla. Da civile, Semir si era dato al giornalista e da due anni era genitore di una splendida bimba di nome Feyza.
Richard scostò lo sguardo da Lanie, ancora intenta a fissare la porta aspettando di veder entrare Semir, e prese il suo bicchiere di whiskey dal tavolinetto posto tra di loro. Sorseggiò l’ultimo dito di liquore lentamente, mentre la sua mente riprendeva a vagare tra quei molteplici ricordi. Involontariamente mosse una spalla, sentendola pizzicare leggermente. In realtà era ormai più un gesto abituale che faceva quando era sovrappensiero, come se le due cicatrici che aveva ricevuto a Berlino, una piccola e circolare da proiettile e l’altra più lunga e frastagliata, fossero ancora in via di guarigione invece che completamente rimarginate. Dopo vent’anni erano ancora ben visibili e biancastre sulla sua spalla, così come il sottile sfregio sulla sua guancia.
Rick finì l’ultimo residuo di whiskey in un sorso, quindi sospirò dispiaciuto vedendo il fondo del bicchiere. Negli ultimi tempi aveva cominciato a bere di tanto in tanto un goccio di liquore, giusto per i giorni in cui era in compagnia o quando era particolarmente stressato. Il medico però gli aveva ordinato di limitarsi a due dita di qualsivoglia bevanda alcolica e solo per casi eccezionali. Insomma, l’uomo sulla Luna era un caso eccezionale, no?
Alla fine posò il bicchiere e si alzò dalla sedia su cui stava, maledicendo il dolore alle ginocchia che aveva iniziato a farsi sentire ultimamente ogni volta che si sforzava sulle gambe.
“Dove vai?” gli domandò Kate curiosa e sorpresa. “Pensavo non volessi perderti lo sbarco…”
“Torno subito.” la rassicurò con un sorriso, lasciandole anche un piccolo bacio sulla fronte. “Vado solo a prendermi un po’ d’acqua visto che il mio carburante è finito.” aggiunse poi, mostrandole il bicchiere vuoto. La donna lanciò un’occhiata al vetro con un sopracciglio alzato.
“Non ti avvicinare agli alcolici.” gli disse con aria severa. “Ricordi cos’ha detto il Dottor Green, vero?” Rick annuì rassegnato.
“Non lo farò, tranquilla.” replicò. “Te l’ho detto, prendo solo un po’ d’acqua e torno. E poi ti avevo avvertita prima che gli altri arrivassero…” aggiunse, abbassandosi come per sussurrarle all’orecchio. “Voglio essere in forma per quando tutti se ne saranno andati da casa nostra…” continuò il tono di voce roco e alzando le sopracciglia in un gesto allusivo. Aveva sessantaquattro anni, ma fino a quel momento non aveva mai avuto, grazie a Dio, un solo problema nelle basse regioni del bacino.
“Amico, magari sono sordo, ma non così tanto!” esclamò in quel momento Javier dal divano con una smorfia schifata, facendo sobbalzare Rick e Kate come fossero due adolescenti colti sul fatto.
“Quando si parla di certe cose hai sempre un orecchio fino, vero?” borbottò Kevin sarcastico, non esplicitando la parola ‘sesso’ per evitare domande scomode di Louis, ancora in braccio a Javier.
“Non so di che parli.” ribatté Javi sbuffando. Mentre i due ancora discutevano, Rick sospirò rassegnato, quindi fece l’occhiolino a Kate, che gli rispose con un sorriso divertito, e se ne andò in cucina.
L’improvvisa quiete di quella stanza lo colpì. Rimase immobile nella penombra del tramonto ad ascoltare i suoni esterni: sentiva il mormorio della televisione in sottofondo, le chiacchiere ovattate dei suoi amici e le urla smorzate dei ragazzi provenienti dalla finestra aperta sul giardino. Non era più abituato a una simile calma, non con i suoi figli in giro almeno, tanto che si chiese quasi se non fosse stato catapultato all’improvviso in un altro mondo.
Lentamente, senza accendere la luce per non rompere quella strana atmosfera, Richard si avvicinò al lavello e vi lasciò dentro il bicchiere vuoto. Quindi ne recuperò un altro pulito dalla credenza e lo appoggiò sul tavolo al centro della stanza prima di recuperare la bottiglia di acqua fredda in frigo. Mentre si versava da bere, gli tornò di nuovo alla mente la parte conclusiva del suo libro. In pochi attimi, i suoi pensieri tornarono a perdersi tra quelle parole che aveva usato per descrivere in breve le loro vite…
 
… Tornando a noi, quello che successe dopo fu quasi naturale. Io e Kate ci sposammo un paio di settimane dopo aver riabbracciato mia madre. Ricordo perfettamente la piccola chiesetta bianca incassata tra due alti palazzi dove venne sancita la nostra unione alla presenza di un simpatico vecchio prete, dei nostri genitori e dei nostri amici. Mi sembrò quasi assurdo che quella piccola costruzione di mattoni colorati fosse sopravvissuta ai grandi cambiamenti della città.
L’idea di sposarci lì era stata di Jim, il padre di Kate. Quella infatti era stata la stessa chiesetta in cui lui aveva preso in moglie Johanna e continuava a dire che quel posto era speciale. Capii il perché della sua convinzione solo quando Kate spuntò dal fondo della chiesa e venne avanti verso di me lungo la corta navata, sorridendo timidamente nel suo splendido vestito bianco da cui si intravedeva il piccolo rigonfiamento sulla pancia che era nostro figlio. Non dimenticherò mai quel momento. I raggi del Sole che passavano attraverso le finestre colorate creavano una luce soffusa e calda in tutta la chiesa, tranne che nel corridoio centrale. Lì infatti la luce sembrava risplendere, concentrandosi in modo da far risaltare la sposa e rendendola una visione luminosa. Per un momento mi parve quasi che Kate rifulgesse di luce propria. Rimasi a guardarla a bocca aperta per tutto il tempo, tanto che Kevin, il mio testimone di nozze, dovette darmi una gomitata al fianco perché mi riprendessi.
Se ci potemmo sposare, fu solo grazie a Jim e Martha che ci regalarono il matrimonio e la luna di miele. All’epoca infatti io e Kate non avevamo ancora scovato un lavoro stabile che ci permettesse di guadagnare abbastanza per sposarci. Fu solo quando tornammo dal nostro breve, ma intenso, viaggio di nozze che riuscimmo a trovare un’occupazione e, più o meno nello stesso periodo, anche i nostri amici.
Leggendo queste righe ora voi lettori potreste pensare che, come per le favole, ‘vissero per sempre felici e contenti’. Niente di più sbagliato. Avremmo potuto avere forse un’esistenza del genere, felice e libera di preoccupazioni, solo se non fossimo vissuti nel mondo reale. Ma il mondo (e soprattutto la Storia) andava avanti con i suoi problemi e così fummo costretti a fare anche noi.
Da spettatori osservammo sollevati la sconfitta del Nazismo, ma allo stesso tempo dovemmo anche assistere alla terribile decisione che pose fine alla guerra: l’uso della bomba atomica. Festeggiammo con l’amaro in bocca quell’agosto del 1945. Gli Alleati avevano vinto, la guerra era finita, era il tempo della pace. Ma il suo prezzo erano state migliaia di persone, per la maggior parte civili, sterminati in un battito di ciglia. Molti di voi diranno “Hitler ha fatto di peggio!”. Sicuramente, ma il mio rammarico è che non si sia riusciti a trovare una soluzione che non comprendesse il diventare dei mostri come l’uomo che stavamo cercando di combattere.
Questo all’esterno. Volgendo di nuovo lo sguardo verso l’interno, ci accorgemmo che, nonostante tutti i lati positivi del trasferirci in America, New York non fu la fine delle nostre pene come speravamo. La lontananza ci aveva fatto dimenticare una cosa importante degli Stati Uniti, ovvero quanto fossero intolleranti. Li avevamo idealizzati a tal punto che nessuno di noi aveva preso in considerazione quell’aspetto. Non per tutto ovviamente, gli Stati Uniti erano ed sono tutt’ora la patria delle Possibilità, ma questo vale solo se la tua pelle è bianca.
Javier e la sua famiglia furono purtroppo quelli che tra noi ci misero più tempo per capire come riuscire a vivere degnamente. Sopportarono molto, ma stavolta non rimasero a guardare passivamente. Avevano aspettato troppo, richiusi a Berlino, perché fossero privati di nuovo della loro libertà anche a New York. Javier rischiò due volte di finire invischiato in una guerriglia urbana, una volta quando un gruppo di ragazzini bianchi prese di mira Leandro e lui quasi li mandò via a calci, l’altra quando un uomo bianco ubriaco si permise prima di insultare e poi di toccare sua moglie poco lontano da casa e lui non si risparmiò dal prenderlo a pugni. Ricordo bene come il giorno dopo quell’episodio, infuriato, Javi si mise a inveire contro me e Kevin per un’inezia finché Lanie non lo calmò. Noi non avevamo neppure provato a fermarlo. Lo giustificavamo anzi. Javier sopportava tutto contro di lui, dagli insulti agli sputi, ma bastava che qualcuno rivolgesse una mezza parola cattiva contro la sua famiglia che subito diventava una furia. Aveva bisogno di sfogare la sua rabbia e finché lo faceva su me e Kevin, che eravamo suoi amici e capivamo benissimo la sua ira, non ci sarebbero stati problemi.
In qualche modo quell’esperienza, volenti o nolenti, ci riportò un po’ a Berlino. Certo, nel periodo in Germania il nostro amico non aveva mai avuto tali scatti di rabbia, ma la sua insofferenza per quella vita rinchiuso in casa come un animale in gabbia la ricordavamo bene. A New York era peggiorato semplicemente perché pensava che finalmente lui e la sua famiglia avrebbero potuto vivere in pace, senza timore di uscire all’aria aperta.
“Ho paura di tornare un giorno a casa la sera e non trovare più mia moglie e i miei figli.” mi aveva confidato una volta Javier con aria distrutta, dopo una delle tante, troppe, notizie al telegiornale di scontri tra bianchi e neri in mezzo alla strada.
Ovviamente quello non fu il nostro unico pensiero. Se anche voi lettori, come me, avete vissuto gli ultimi vent’anni e non siete troppo giovani per ricordare, allora conoscerete meglio di me le vicende del mondo, sia quelle che ci hanno dato speranza, sia quelle che la speranza ce l’hanno tolta brutalmente. Come un vecchio, potrei stare qui a chiacchierare di questi recenti fatti dal mio punto di vista per ore. Ad esempio potrei parlarvi dello sgomento che provai quanto eressero un muro in quella città, Berlino, che un tempo era anche la mia. Potrei narrarvi la mia rassegnazione quando iniziò la guerra in Corea e poi, qualche anno più tardi, in Vietnam. Potrei raccontarvi della mia faccia stralunata (secondo Kate) la prima volta che vidi pantaloni a zampa di elefante, capelli lunghi per gli uomini e camicie, calzoni e auto dai colori sgargianti che giravano per strada. Potrei dirvi di come il mio cuore partì a mille quando il mio Presidente annunciò al mondo di ‘essere berlinese’ e un uomo di colore dichiarò di ‘avere un sogno’. E lo stesso potrei ripertervi, ma con emozione contraria, di quando li uccisero entrambi come cani con un colpo alla testa. Potrei descrivervi le rivolte per i diritti civili dei neri e degli indiani oppure i movimenti studenteschi dell’ultimo anno. Potrei anche tentare goffamente di accennarvi delle nuove tecnologie apparse nel mondo e dei traguardi raggiunti dall’uomo che mai si sarebbero potuti neanche immaginare fino a qualche anno fa. Come l’uomo nello spazio e, fra poco, sulla Luna.
Oppure potrei parlarvi della mia gioia quando Kate mi comunicò, altre due volte, di essere incinta. Potrei narrarvi la mia angoscia quando Leandro e Semir partirono per la guerra. Potrei raccontarvi di come smisi di respirare quando mio figlio mi chiamò “papà” per la prima volta. Potrei dirvi del mio dolore quando mia madre morì. Potrei tentare di descrivervi la sensazione di tenere i miei bambini neonati in braccio. Potrei anche accennarvi alla mia perpetua amicizia con Kevin, Jenny, Javier, Lanie e le loro famiglie o al mio immutato amore per Kate, nonostante sarebbe per me quasi impossibile da illustrare. Sarebbe troppo grande, troppo profondo per poterlo spiegare a parole.
Potrei parlarvi di questo e di molto altro ancora, ma credo di avervi già annoiati abbastanza. Ora capisco perché di tanto in tanto Kate mi chiama “vecchio barbagianni”.
Vi lascio alla vostra vita, mentre io torno dalla mia splendida moglie, dai miei figli e dai miei amici. Non so cosa sarei senza di loro.
 
Pace e prosperità!
 
Richard Castle
5 giugno 1969
 
Rick ripensò divertito a quel saluto finale, riscuotendosi finalmente dai suoi pensieri. Adorava la serie Star Trek da quando era uscita la prima puntata in televisione e non aveva potuto trattenersi dal citare il saluto vulcaniano di Spock. Un attimo dopo però la sua mente fu catturata dalla firma che aveva lasciato, ‘Richard Castle’. Castle era tornato a vivere solo per la scrittura di quel libro e per quel lungo commento finale. Poi era scomparso di nuovo, stavolta definitivamente. Non sarebbe più resuscitato. Quello era stato l’ultimo addio all’uomo che era stato e che sarebbe rimasto in vita solo nella memoria dei suoi amici e del nuovo Richard, nato dalle ceneri di quel Castle che aveva vissuto a Berlino durante Hitler e il Nazismo.
Rick fece un sospiro e stava per tornare dagli altri, quando notò che c’era qualcosa di diverso in cucina. Si accorse che non sentiva più suoni dal giardino, ma che il volume e il numero delle voci in salone era aumentato. Capì che i ragazzi dovevano essere rientrati in casa.
In quel momento qualcuno accese la luce della cucina, facendolo sobbalzare.
“Oh, ciao papà!” lo salutò allegro Nicholas, sorpreso di trovarlo lì. “Che ci facevi al buio?”
“Non mi ero accorto che fosse scurito così tanto.” replicò Richard. In effetti era diventato troppo buio per vedere, ma l’uomo non se ne era neppure reso conto. Sbatté le palpebre più volte e socchiuse gli occhi, infastidito dall’improvvisa luminosità. Si accorse solo in quel momento che per tutto il tempo era rimasto con il bicchiere ancora quasi del tutto pieno d’acqua in mano, fermo a mezz’aria tra il tavolo e la sua bocca.
“C’è un po’ d’acqua anche per me?” domandò allora Nick, notando la bottiglia sul tavolo.
“Prendi un bicchiere che te la verso.” rispose il padre. Quindi osservò con la coda dell’occhio e un mezzo sorriso il suo primogenito, un ragazzone di ventiquattro anni alto quanto lui con le spalle larghe, i capelli corti castani e gli occhi blu, che si aggirava per la cucina alla ricerca di un bicchiere pulito. Dalla maglia chiazzata di sudore sulla schiena, Rick intuì che doveva essersi mosso parecchio in giardino.
“Avete finalmente deciso di rientrare?” chiese, riaprendo la bottiglia per versargli l’acqua quando Nicholas si avvicinò con il bicchiere.
“Iniziava a diventare troppo scuro per vedere il pallone volare.” replicò il figlio con una mezza alzata di spalle, ringraziando il padre con un cenno del capo. “Jamie stava quasi per colpirmi un occhio all’ultimo tiro. Inoltre zio Kevin dice che tra poco gli astronauti sbarcheranno sulla Luna.”
“Sì, l’ho sentito anche io…” dichiarò Rick ridacchiando, ripensando alla discussione precedente tra Kevin e Javier.
“NIIICK!” si sentì qualcuno urlare dal soggiorno con voce lamentosa. “Porti dell’acqua anche a noi?”
“Alzate le chiappe e venite a prendervela!” replicò il ragazzo senza battere ciglio, bevendo poi la sua acqua tutta d’un fiato.
“Dai!!” incalzò un’altra voce maschile che Rick riconobbe subito come quella del suo secondogenito, James, o Jamie, come lo chiamavano tutti. “Ha sete anche Sarah!” Nick drizzò le orecchie per un attimo, ma poi sbuffò seccato. Richard ridacchiò sotto i baffi. Sarah Grace, la bionda e bella figlia di Kevin e Jenny, era sempre stata il batticuore del suo primogenito, fin da quando lui era stato abbastanza grande per capire cosa fosse l’amore. In fondo lei era solo di un anno più grande di Nicholas ed erano cresciuti praticamente insieme. A volte Rick ripensava divertito a quanto tempo il suo ragazzo ci aveva messo a farsi avanti con Sarah per paura di una reazione negativa di Kevin. Ormai però i due stavano insieme da più di tre anni e il progetto era di sposarsi non appena entrambi avessero finito l’università. 
“Porto da bere a Sarah allora.” replicò alla fine Nick, versandosi di nuovo l’acqua tranquillo. “Voi altri invece vi arrangiate.” Ci fu un coro di proteste, interrotto solo da una risata femminile, probabilmente della stessa Sarah.
“Grazie amore!” replicò infatti la ragazza con aria divertita. Tra tutte quelle voci, ce ne fu una rassegnata che catturò subito l’orecchio di Rick.
“Tesoro…” lo chiamò Kate. Richard sapeva che si stava riferendo a lui anche senza vederla.
“…porto un bicchiere per tutti, sì.” concluse per lei con un sorriso. Adorava come quelle piccole connessioni telepatiche tra loro esistessero anche in momenti così semplici e abituali.
“Grazie.” fu infatti la risposta sollevata di sua moglie. Rick sospettò che i ragazzi non si fossero stancati del tutto in giardino. A volte si chiedeva se anche lui a vent’anni avesse avuto tutta quell’energia inesauribile in corpo.
“Prendo un vassoio?” chiese a quel punto suo figlio.
“Sì, grazie Nick.” rispose, dirigendosi intanto verso la credenza. Rick recuperò un po’ di bicchieri e li poggiò, impilati con attenzione, sul grosso vassoio che aveva preso Nicholas, aggiungendo poi due bottiglie d’acqua piene. “Vai, pure.” disse quindi al ragazzo con un sorriso, alzando piano il vassoio per trasportarlo. “Con calma ti raggiunge anche il tuo vecchio.” Nick annuì e lo precedette nel corridoio. Rick si mosse con passi lenti dietro di lui, cercando di fare attenzione a non rovesciare tutto.
Mentre procedeva, notò un movimento con la coda dell’occhio. Voltando la testa però, vide solo la sua immagine riflessa sullo specchio attaccato al muro del corridoio. Rimase per un momento immobile a fissarsi, quasi con aria stupita. Si accorse solo in quel momento di essere davvero invecchiato rispetto a tutti quei ricordi che gli erano passati per la testa nell’ultima mezz’ora. Gli anni e il lavoro sedentario lo avevano un po’ appesantito e i capelli, che per fortuna aveva ancora tutti senza cenni di cadute, gli si erano ingrigiti. Da qualche anno inoltre gli erano comparse le borse sotto gli occhi e sempre più spesso era costretto a mettersi gli occhiali per leggere. Manteneva comunque una posa eretta, come gli anni da militare gli avevano insegnato. Nel complesso il suo fisico stava bene, anche se ovviamente gli acciacchi c’erano ed erano ogni giorno più rognosi.
Richard avvicinò un poco il viso allo specchio, socchiudendo gli occhi e inclinando appena il capo. La cicatrice che aveva ricevuto a Berlino e che gli attraversava la guancia era ormai solo una sottile striscia di pelle sbiadita che iniziava a confondersi con le rughe dell’età. I suoi figli gli avevano chiesto più volte come lui e Kate si fossero procurati tutti quegli sfregi sui loro corpi, ma loro avevano sempre deviato la domanda o raccontato solo parte della storia. Con il libro che aveva scritto, e che solo Kate aveva letto in anteprima, finalmente anche i suoi ragazzi avrebbero saputo quello che era accaduto ai loro genitori negli anni in cui avevano vissuto Germania e di cui non avevano mai parlato.
Dopo qualche altro momento di contemplazione, Rick fece una smorfia al sé stesso nello specchio, quindi si avviò nuovamente verso il salone. Leandro aveva avuto ragione a dire che sarebbero soffocati nella stanza tutti insieme. Oltre a Kevin, Jenny, Javier, Lanie e Louis sui divani, Kate sulla sedia e Leandro in piedi, c’erano anche Lara, abbracciata a Leo, Semir con sua moglie Tien e la loro piccola Feyza, Sarah Grace e suo fratello Sean e i due fratelli minori di Nicholas, James e Johanna. Rick si guardò attorno spaesato, sentendo all’improvviso tutto troppo stretto. Pensò che forse la proposta che Kate gli aveva fatto la settimana prima, di cercare una casa più grande, forse non era stata del tutto azzardata.
“Ciao Rick!” lo salutò con un grosso sorriso Semir, avvicinandosi a lui. “Aspetta che ti aiuto.” si bloccò poi, vedendolo con il grande e pesante vassoio. Fece velocemente spazio sul tavolinetto centrale, liberandolo di ciotole di caramelle e noccioline e da qualche residuo di dolce della cena, e lo aiutò ad appoggiare il portavivande.
“Grazie.” replicò Richard con un sorriso sollevato. Quindi prese la mano di Semir e lo strinse poi in un abbraccio per salutarlo. Erano quasi due mesi che non avevano occasione di vedersi. Quando lo lasciò andare, notò che si stava facendo crescere baffi e basette. “E quelli che sono?” domandò divertito, indicandoglieli. Lui alzò appena le spalle, ridacchiando.
“Volevo provare.” replicò. “Che vuoi farci, sono la moda. Come gli occhiali grossi e i pantaloni a zampa di elefante.” Rick fece una smorfia a quelle parole.
“Lascia stare la moda e fammi salutare tua moglie e tua figlia.” aggiunse, facendogli cenno di scostarsi e facendo un grosso sorriso a Tien e Feyza. Quando vide la bimba, spalancò gli occhi. “Ma quanto è cresciuta??” domandò sorpreso, prendendola in braccio. Quella lanciò un gorgheggio allegro e gli lasciò un bacetto bavoso sulla guancia, aggrappandosi al suo collo. Semir alzò gli occhi al cielo.
“Che ti aspettavi?” chiese retorico. “Ha due anni, sai meglio di me che crescono come funghi a questa età.”
“Dio, già due anni…” mormorò Rick, osservando la bimba che intanto lo contraccambiava con un’occhiata curiosa, la testa appena inclinata di lato. La piccola aveva la pelle leggermente olivastra, capelli scuri e occhi nocciola con particolari pagliuzze dorate che secondo Semir erano uguali a quelli della sua madre naturale.
“Sai che l’altro giorno mi ha chiesto di te?” dichiarò Tien con un sorriso, salutando Rick con un mezzo abbraccio, per non schiacciare la piccola, e due leggeri baci sulle guance. Dopo anni negli Stati Uniti, la donna parlava un ottimo inglese, anche se aveva ancora con un vago accento vietnamita. Era qualche anno più giovane di Semir, magra, minuta, carnagione tendente al bruno, capelli neri come il carbone, e occhi a mandorla altrettanto neri. Però, come Rick aveva appreso nel tempo, tutto quello nascondeva una donna forte che non si era lasciata intimidire dalla guerra, che le aveva distrutto la famiglia e l’aveva segnata nel corpo e nella mente, e che era riuscita a ricostruirsi una vita dall’altra parte del mondo.
“Davvero?” domandò Richard felice, facendo un enorme sorriso alla bimba.
“Già.” replicò la donna ridacchiando. “Per l’esattezza mi ha chiesto di ‘Tio Lick plano’.” aggiunse, copiando i termini storpiati della piccola. Non appena sentì quelle parole, Feyza batté le manine e subito allargò le braccia urlando: “Tio Lick plano! Plano! Plano!” Rick accolse la richiesta ridendo. ‘Plano’ doveva essere un modo per indicare l’aeroplanino volante che le faceva fare ogni volta che la teneva in braccio.
“Va bene, va bene, plano!” ribatté, prendendo meglio la bambina dai fianchi. “Sei pronta Fey?” Lei urlacchiò di nuovo di gioia e allargò subito le braccia in attesa di essere trasformata in un aeroplanino volante. A quel punto Richard iniziò a muoversi in tondo, tenendo la bimba appena sopra la testa e rumoreggiando con la bocca il motore di un aereo. Feyza lo imitò nei suoni per quanto poté, ma poi si lasciò semplicemente trasportare, ridendo allegra.
“Non sei un po’ vecchio per fare ancora l’aeroplanino, papà?” domandò James, osservando il padre con un sopracciglio alzato mentre riportava la bimba in braccio a Tien con un ultimo borbottio di motore.
“Bada a come parli, ragazzino. Come ti ho creato, ti distruggo!” replicò Rick voltandosi verso il figlio con quella che voleva essere un’aria malefica.
“Rick!” lo riprese subito Kate esasperata, scuotendo la testa.
“Cosa?” ribatté il marito con fare innocente. “Ha cominciato lui! E poi tecnicamente è vero, l’abbiamo creato io e te, no?” aggiunse, lanciandole un’occhiata allusiva che fece arrossire Kate e che guadagnò diversi versi schifati. “Comunque…” continuò poi, tornando a rivolgersi a James, ma guardando la piccola Feyza per farle un ultimo sorriso e l’occhiolino. “…se tu e i tuoi fratelli non foste cresciuti tanto lo farei ancora anche con voi. Purtroppo però non mi è più possibile. Ora solo Feyza e Louis mi danno questa soddisfazione!” Jamie in risposta gli lanciò con un’occhiata seccata e rassegnata. Nonostante il ragazzo avesse ormai raggiunto i vent’anni, come dimostravano la peluria biondo scuro sotto il naso e il mento e i movimenti goffi di chi è cresciuto tanto in poco tempo, James era ancora in quella fase adolescenziale in cui non si sopporta qualsivoglia contatto fisico e psicologico con i genitori. Secondo nonno Jim non c’era da preoccuparsi. Kate aveva avuto una simile fase ‘ribelle’ alla stessa età.
Jamie non replicò, invece andò direttamente ad accasciarsi sul divano accanto a Sean, Kevin e Jenny.
“Ehi, non occuparti tutto il posto.” borbottò Sean, spingendo l’amico in un angolo. Il figlio di Kevin era più basso e di un anno più piccolo di James, ma altrettanto forte e sveglio. Con i capelli biondi, gli occhi azzurro chiaro, come anche Sarah e i suoi genitori, e i lineamenti dolci di Jenny, Sean non faceva fatica a fare strage di cuori. Nonostante fossero molto diversi, Sean e Jamie si comportavano come fratelli, dal proteggersi a vicenda, fino al combinare guai insieme (cosa in cui avevano molto talento).
“Senti chi parla.” replicò in risposta il figlio di Rick, cercando a sua volta di spingere l’amico.
“Ragazzi.” Li richiamarono contemporaneamente Jenny e Kate prima che si creasse una battaglia all’ultimo cuscino. Conoscevano bene i loro figli e volevano evitare che da un semplice attacco si generasse una guerra.
“Ancora a farsi riprendere dalla mamma, eh?” esclamò divertita Johanna, canzonando suo fratello e Sean.
“Fatti gli affari tuoi.” replicò James storcendo il naso e incrociando le braccia al petto come un bimbo imbronciato. Richard lo osservò con un sorrisetto. Erano quelli i momenti in cui capiva il senso delle parole di Kate quando diceva che lui e il suo secondogenito si somigliavano più di quanto credesse.
Johanna rise, ignorando completamente il commento del fratello, e stuzzicò di nuovo i due amici. Rick invece si perse a guardare lei, la sua bambina che ormai bambina non lo era più. A quindici anni, Johanna aveva già molte (troppe, secondo lui) delle curve femminili tipiche di una donna al posto giusto. Ogni volta che la osservava, Rick vedeva un pezzetto di sua madre: stessi capelli rossi, stessi occhi azzurri, stesso portamento elegante, anche se i lineamenti del viso erano quelli di Kate e le mancava quell’aura di attrice che tanto aveva caratterizzato Martha.
Per un attimo Richard fu preso da un momento di nostalgia. Erano quasi cinque anni che sua madre era morta, ma a volte si ritrovava ancora a chiedersi se avrebbe recitato nel prossimo spettacolo in uscita a teatro. Gli mancavano la sua allegria e la sua stravaganza, il suo modo di fare teatrale, ma anche quello serio e diretto. Soprattutto quando litigava con i suoi figli o con Kate, spesso si domandava cosa gli avrebbe detto lei, cosa avrebbe fatto o come si sarebbe comportata se fosse stata ancora viva.
Scosse la testa e si passò una mano tra i capelli, cercando di scacciare i pensieri tristi che minacciavano di sopraffarlo ogni volta che pensava a lei. Si era imposto di ricordare solo i bei momenti con sua madre, come avrebbe voluto lei, e non la lunga malattia che l’aveva stroncata. Solo la donna con il sorriso sulle labbra e la battuta sagace pronta e non quella pelle e ossa che a tratti non ricordava nemmeno di avere un figlio. A Rick era sempre sembrato un crudele scherzo del destino quella malattia: sua madre era passata dal ricordare a memoria pagine e pagine di copione, al non riconoscere più nemmeno sé stessa. Era stato devastante. Sia per lei che per loro, la sua famiglia, che erano stati costretti a osservare i suoi peggioramenti giorno dopo giorno senza poter fare nulla per impedirlo.
“Papà, sei con noi?” gli domandò all’improvviso Johanna, facendolo quasi sobbalzare e strappandolo dai suoi pensieri cupi. La ragazza era accanto a lui e lo osservava con aria dubbiosa. Non l’aveva nemmeno sentita avvicinarsi.
“Sì, scusami tesoro.” rispose alla fine con un mezzo sorriso, portando un braccio sulle sue spalle e lasciandole un bacio tra i capelli. “Mi spiace, ero sovrappensiero.”
“Me ne ero accorta.” replicò la ragazza divertita. “Ma hanno appena detto alla televisione che tra poco gli astronauti usciranno sul suolo lunare. Non volevo che ti perdessi il momento, visto che ci tenevi così tanto...” Rick la guardò un po’ sorpreso, quindi le fece un piccolo sorriso dolce. La sua bambina si preoccupava sempre per lo stato emotivo degli altri. Aveva come un radar interno che le faceva capire subito l’umore delle persone accanto a lei e faceva di tutto per migliorarlo.
“Grazie, Joha.” disse infine Rick, lasciandole un altro bacio tra i capelli. Quindi la lasciò andare in modo che potesse prendere posizione a gambe incrociate davanti alla TV. Louis la raggiunse subito e si piazzò tra le sue braccia, sdraiandosi comodamente addosso a lei.
Rick osservò con un mezzo sorriso sua figlia mugugnare contro il bambino senza davvero essere arrabbiata con lui, solo per farlo ridere. Poi pensò che in fondo, per qualche strano scherzo del destino, Johanna somigliava anche un poco non solo alla donna da cui aveva preso il nome, e di cui Kate gli aveva mostrato le foto, ma pure alla simil-figlioccia che aveva lasciato in Germania, ovvero Alexis. Si appuntò mentalmente di chiamarla in settimana. La ragazza che aveva lasciato in Europa era ormai una donna adulta attiva nella ricostruzione delle città bombardate e sposata a un soldato che era stato incarcerato per essersi opposto, appena maggiorenne, al nazismo. Era un bravo ragazzo che Richard aveva conosciuto il giorno del loro matrimonio e che fino a quel momento si era dimostrato uno con la testa sulle spalle e molto attaccato alla famiglia. Lui e Alexis erano genitori da un anno e mezzo di una splendida bimba e nel giro di sei mesi lo sarebbero diventati di nuovo. Erano quasi tre settimane che non sentiva Alexis e Rick voleva sapere come stava procedendo la gravidanza.
In quel momento le voci provenienti dalla televisione si fecero eccitate e i presenti nel salone iniziarono a zittirsi l’un l’altro per sentire. Rick approfittò dell’attimo di quiete e distrazione generale per avvicinarsi a Kate da dietro le spalle. Quindi si abbassò per abbracciarla oltre lo schienale della sedia, lasciandole un bacio sulla guancia. Lei, che aveva in qualche modo intuito la sua presenza, gli carezzò un braccio e voltò a metà il viso per ringraziarlo con un sorriso dolce.
“Avevi ragione.” mormorò lei qualche secondo dopo, tornando a guardare la televisione. Sullo schermo continuavano ad alternarsi immagini della Luna prese da un oblò e la diretta dagli studi della CBS tenuta dall’ex-astronauta Wally Schirra e dal presentatore Walter Cronkite, notoriamente molto serio, ma che durante l’allunaggio si era lasciato prendere dall’emozione tremando visibilmente. Rick osservò rapito la superficie chiara della Luna, mentre un brivido di eccitazione gli passava lungo la schiena. Il satellite pareva così vicino che sembrava poter bastare allungare un braccio per sfiorarlo.
“Ho ragione su molte cose.” replicò alla fine a bassa voce con un tono divertito, riportando l’attenzione su sua moglie. Kate roteò gli occhi con un mezzo sorriso a quella risposta. “Di cosa stiamo parlando stavolta?”
“Della Luna.” rispose lei, indicandogli con un cenno del capo la TV. “Una volta mi hai detto che l’uomo sarebbe arrivato anche là e avevi ragione.” Rick la guardò sorpreso. Lui ricordava bene quel momento davanti alla finestra del salone della sua casa di Berlino, con loro due abbracciati e la luce della Luna come sola illuminazione. Non credeva però che anche lei se ne ricordasse…
 
“Sai che un giorno l’uomo arriverà anche lassù?” domandò poi piano Rick, rompendo la quiete creatasi.
“Sulla Luna?” replicò Kate. “Credi che sia possibile?” Lui alzò appena le spalle.
“Mi sono innamorato di una donna che pensavo mi avrebbe odiato per sempre e che ora invece sto abbracciando.” rispose con un mezzo sorriso. Beckett voltò la testa un poco verso di lui, come per osservarlo con la coda dell’occhio. “Credo che tutto sia possibile.”
 
“Perché mi guardi così?” domandò la donna, squadrandolo curiosa. Lui alzò appena le spalle con un ghigno felice che non riuscì a reprimere.
“Niente.” rispose, lasciandole poi un altro piccolo bacio sulla guancia, approfittando del fatto che tutti i presenti erano ancora concentrati sulla televisione e che nessuno quindi avrebbe interrotto quel momento. “Non pensavo lo avessi ancora in testa dopo tanti anni.”
“Amore, io ricordo ogni scempiaggine da te pronunciata.” replicò lei divertita, ridacchiando davanti allo sguardo imbronciato di Rick. “Ma i tuoi momenti migliori sono impressi a fuoco nella mia mente.” aggiunse poi più dolcemente, carezzandogli piano una guancia. Richard le sorrise teneramente e strinse appena la presa sulle sue spalle prima di lasciarle un bacio a fior di labbra. Dopo anni di matrimonio, la cosa più bella era che Kate riusciva ancora stupirlo.
“Andiamo, amico!” esclamò Javier a voce alta in quel momento, rompendo il silenzio creatosi e facendo trasalire tutti. “Farete i piccioncini dopo, ora tacete che non sento i due tizi in TV.”
“Javier!” lo riprese seccata Lanie, lanciando insieme uno sguardo di scuse ai due. Richard si sciolse dall’abbraccio sbuffando, mentre gli altri ridacchiavano, ma tenne comunque un braccio sulle spalle di sua moglie, rimanendole accanto. Kate invece scosse la testa divertita e poi poggiò la nuca contro il fianco di suo marito, intrecciando le dita della mano con quella di Rick sopra di lei.
In quel momento il presentatore comunicò che i due astronauti stavano per aprire il portellone in modo da scendere dal modulo lunare. Fu così che Rick e Kate seguirono lo sbarco sulla Luna, affiancati e tenendosi per mano. E mentre Neil Armstrong percorreva lentamente i pochi pioli della scaletta che lo separavano da quella superficie chiara e irregolare, Richard pensava che forse, in un’altra vita, lui e Kate sarebbero potuti diventare altro, dall’astronauta allo scrittore, dal giornalista al detective di polizia. Sarebbero potuti diventare qualunque cosa in effetti. E forse sarebbe stata anche una vita senza guerra, senza morte, senza dolore. Ma, forse, loro non si sarebbero mai incontrati.
Rick strinse più forte la mano di Kate a quel pensiero, quasi temesse di perderla. Forse avrebbero avuto meno problemi, ma lui ne era certo: nonostante tutto, non avrebbe mai cambiato una virgola della sua vita. Perché mille vite senza Kate, non avrebbero mai potuto sostituire un’esistenza con lei.
 
“That’s one small step for man, but giant leap for mankind.”
(Questo è un piccolo passo per l’uomo, ma un grande balzo per l’umanità.) 

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Xiao! :D
E così, siamo arrivati alla fine. Se potessi rubare qualche parola di George R.R. Martin (quello de Il Trono di Spade) direi: l'ultimo capitolo è stato una cagna. Questo è stato tre cagne e un bastardo.
No, davvero non avete idea di quante volte abbia cambiato forma questo capitolo! XD Se pensate che io l'avevo già più o meno in mente dal principio (e si parla di circa un anno e mezzo fa!) allora mi crederete se vi dico che ha avuto una marea di varianti. E se non ci credete, chiedete a Katia R e Sofy_m! Sono state le prime a dirmi di scrivere questa storia e le prime a bocciarmi in buona parte il primo finale che avevo in mente! XD E le ho anche tipo fatte impazzire con le mie spiegazioni della storia che facevano letteralmente schifo perché non sapevo spiegarmi... XD (sorry <3)
Comunque, mi scuso anche con voi perché ci ho messo una vita a scrivere questo capitolo. E in generale devo ringraziarvi: io sono una delle prime che tende a non dare molta fiducia alle storie "storiche" o che comunque penso siano troppo lontane dai nostri personaggi abituali di Castle e compagnia. Invece molte di voi mi hanno dato una possibilità e spero vivamente che Berlin non abbia disatteso le vostre aspettative. In ogni caso, io mi sono divertita molto a scriverla e mi mancherà non farlo, ma ammetto di essere stavolta. XD Mi ha prosciugato in termini di fantasia, anche perché ho dovuto accantonare un sacco di altre idee. 
Anyway, mi sono accorta che ho scritto troppo! XD Me ne vado ora, giuro! E vi prometto, sul serio, che la prossima long prima la scrivo tutta (o al 98%) e poi la pubblico, così non vi faccio aspettare le ere geologiche! XD
Grazie mille ancora a chiunque abbia recensito/seguito/ricordato/favorito Berlin o anche solo a chi è arrivato fin qui! Soprattutto a quelle che hanno iniziato a leggere la storia solo recentemente e mi hanno comunicato di essersela sorbita tutta d'un fiato! Avete la mia stima. 
Alla prossima storia! :)
Lanie

ps: ah, nel caso non vi fossero chiari i rapporti di parentela (troppa gente in questo capitolo, lo so XD), chiedete e vi risponderò! ;)

pps: visto che voglio rompervi le scatole ancora un attimo, ma non ho voglia di scrivere, vi lascio il prospettino storico che mi ero fatta per questo capitolo, sia mai che qualcuno è interessato! XD Comuqnue se avete problemi con la Storia (intesa come materia), non c'è modo migliore che scrivere una storia o una ff sull'argomento! Giuro che non ho mai conosciuto tanto di Berlino durante la Seconda Guerra Mondiale! O.O
  • Uomo sulla Luna : Allunaggio 20 luglio 1969 , ore 20.18 UTC  (NY è UTC-5 [EST] quindi erano le 15.38) // Discesa di Armstrong 21 luglio , ore 02.56 UTC (a NY erano le 21.56 del giorno prima)
  • Kennedy a Berlino Ovest : 26 giugno 1963 (“Ich bin ein Berliner”)
  • Muro di Berlino : 13 agosto 1961 – 9 novembre 1989 (28 anni)
  • J.F. Kennedy (irlandese di origine) : presidente dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963 (assassinato a Dallas)
  • Guerra del Vietnam : 1960 – 30 aprile 1975 (caduta di Saigon) (americani presenti dal 1965 al 1972, con un massimo di quasi 550.000 nel 1969)
  • Martin Luther King : attivo negli anni ’50-’60 , “I have a dream” 28 agosto 1963 , assassinato il 4 aprile 1968 a Memphis (cecchino)
  • Guerra di Corea : 1950 – 1953 (Korean Conflict)
  • Movimenti per gli Indiani d’America in tutto il periodo

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